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mensile - anno 4 numero 5 - maggio 2010

3 euro

Esclusiva Il racconto dei collaboratori di Emergency arrestati in Afghanistan

poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano

Japan made in Usa Turchia/Iran Gran Bretagna Bosnia-Erzegovina Balcani Malta Migranti

TransAsia Express Prove di futuro Lettera ai potenti Il peso del tempo La trappola Perdere un figlio

Portfolio: Via dall’Iraq



Avete notato che le guerre sono sempre proclamate da chi è troppo anziano per poi andare a combatterle? Sir Maurice Joseph Micklewhite, in arte Michael Caine

maggio 2010 mensile - anno 4, numero 5

Direttore Maso Notarianni

Caporedattore Angelo Miotto

Redattori Christian Elia Luca Galassi Alessandro Grandi Benedetta Guerriero Enrico Piovesana Nicola Sessa Stella Spinelli

Hanno collaborato per i testi Claudio Agostoni Blue & Joy Matteo Dell’Aira Gabriele Del Grande Silvia Del Pozzo Arturo Di Corinto Nicola Falcinella Marco Garatti Fabio Ghelli Anes Makul Licia Lanza Paolo Lezziero Sergio Lotti Antonio Marafioti Neda A.S. Matteo Pagani Haris Subasic Alberto Tundo

Progetto grafico Guido Scarabottolo Oliviero Fiori Segreteria di redazione Silvina Grippaldi

Amministrazione Annalisa Braga Redazione e amministrazione Via Bagutta 12 20121 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net Stampa Graphicscalve Loc. Ponte Formello - 24020 Vilminore di Scalve (Bg) Finito di stampare 5 maggio 2010

Hanno collaborato per le foto Neda A.S. Delizia Flaccavento Graziano Panfili/OnOff Picture Gaia Squarci/WitnessJournal.net

Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Via Bagutta 12 - 20121 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07

Foto di copertina: Pubblicità Okinawa 2009. Foto Archivio Via Bagutta 12 PeaceReporter 20121 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net

L’editoriale di Maso Notarianni

La neutralità è il nemico è un aspetto, nella vicenda dei collaboratori di Emergency arrestati in aprile in Afghanistan con accuse, apparse da subito inesistenti e poi rivelatesi del tutto campate in aria, su cui non ci si è soffermati a sufficienza. Si sono fatte polemiche assurde, si sono insinuati sospetti incredibili, anche da parte di persone i cui ruoli istituzionali avrebbero dovuto indurle a maggiore prudenza, e si è detto molto sul ruolo scomodo di testimone di Emergency e di quell’ospedale nel sud dell’Afghanistan, unico presidio sanitario gratuito in una zona dove divampa la guerra tra occidente e talebani. Io credo, invece, che quello che non è sopportabile, oggi, sia la neutralità. Ancor più che la paura delle voci che testimoniano la realtà della guerra, e che tolgono ogni maschera a quella cosa che dai nostri potenti viene appellata in mille modi, ma che non è altro che una guerra, con tutto quello che di orrendo questo comporta. Chi è neutrale, in guerra, come minimo è visto con sospetto. Se non stai con me, stai contro di me. Si è detto, senza passare alcun guaio, che il problema di quell’ospedale è che cura le vittime della guerra da qualsiasi parte stiano: civili, combattenti talebani, soldati dell’esercito afgano. È per questo, si è detto, che quell’ospedale è scomodo. Perché non prende parte e anzi sbatte in faccia un altro modo di essere. Fateci caso. Anche qui da noi sul concetto “o sei con me o sei contro di me” c’è chi ha costruito la propria fortuna politica. E ha vinto. Anche da noi la neutralità è diventata una posizione inaccettabile. Se non stai con me, sei il mio nemico. Non è tollerabile e non è tollerata alcuna opinione che non sia “contro”. L’uno schieramento politico campa contro l’altro armato. Contro “i comunisti” o contro “Berlusconi”. Chi ha buon senso sa benissimo che queste categorie sono entrambe frutto della fantasia malata dell’uno e dell’altro. “Berlusconi” non è una categoria della politica e nemmeno della logica. E “i comunisti” brutti e cattivi non esistono più da un pezzo. Ma chi ha buon senso si fa fatica a trovarlo, a riconoscerlo in pubblico. E comunque non ottiene visibilità. Perché solo chi usa violenza verso l’avversario convince e vince. Perché siamo in guerra. E questo è terribile.

C’

Gran Bretagna a pagina 14

Afghanistan a pagina 4 Giappone a pagina 8

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Bosnia-Erzegovina a pagina 22

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Migranti a pagina 24

Turchia/Iran a pagina 18 3


Testimoni scomod

In esclusiva per PeaceReporter il racconto di Matteo Pagani, Marco Garatti e Matteo Dell’Aira, arrestati in Afghanistan con l’acc ti e prosciolti da ogni accusa. Ecco cosa passava per le loro teste in una cella afgana mentre in Italia da un lato cresceva una im zione alimentando accuse e sospetti contro chi si batte contro la guerra portando soccorso alle vittime e rifiutando un complice

Matteo Dell’Aira Otto notti e nove giorni. Non riesco ancora a dare una misura vera a questo tempo. So che è stato un tempo duro, buio, doloroso, pieno di paura e preoccupazione. Ma ancora non lo ‘sento’: sono costantemente abbracciato, accarezzato, coccolato. Mi sono trovato all’improvviso ‘nudo’: io e la mia anima dentro una divisa da carcerato. E ho tentato, con le mie forze, di reagire al grande shock, alla penosa sorpresa di trovarsi ammanettato, sbattuto in una cella di isolamento, senza più decidere nulla della mia vita. La grande vergogna di aver visto violare il suolo davvero sacro del nostro ospedale di Lashkargah, infestato da gente armata. Continuavo a ripetermi una frase, forse l’unica che ricordavo dai tempi della scuola, scritta non da ‘Che’ Guevara ma da Alessandro Manzoni: “Chi non ha coraggio non può darsene”. E ho cercato in tutti i modi di darmene, quello che potevo. Ma non ero solo, e questo l’ho sempre sentito. C’era la mia famiglia, che comprende le persone a me più vicine. E c’erano anche tutte le persone che in questi anni hanno condiviso con Emergency la sua etica, la sua concretezza, la sua bellezza. E c’era qualche nuovo amico, trovato lungo il cammino nel posto dove meno ti aspetteresti: Hamid, un detenuto rinchiuso già da quattro mesi, che ci ha regalato un’umanità incredibile, senza voler nulla in cambio. Poi finalmente, inaspettata, la liberazione: potersi di nuovo guardare negli occhi, abbracciarci, consolarci, parlare la nostra lingua. E un viaggio di ritorno degno di una storia assurda. Poi finalmente l’abbraccio, quello fisico, di tutti. L’abbraccio che dura ininterrotto dal giorno dell’arresto. L’abbraccio che cura le ferite molto meglio di una medicina. L’abbraccio che ti fa riconciliare con il genere umano. E ora? Ora è il tempo di guarire, perché se non stai bene non puoi curare nessuno. Ma un secondo dopo la guarigione, si tornerà a fare questo meraviglioso mestiere, più forti di prima. 4

Credo che solo allora potrò, dentro di me, misurare davvero quanti sono stati otto notti e nove giorni. L’importante era uscirne a testa alta. Noi tre, lo staff di Lashkargah, Emergency tutta.

Marco Garatti Le accuse erano infamanti: noi saremmo stati al corrente che armi dovevano entrare in ospedale, noi avremmo partecipato ad attentati suicidi nel passato, io come chirurgo avrei volontariamente deciso di amputare pazienti feriti appartenenti all’esercito o alla polizia; e poi l’assurdo: io avrei preso soldi dai Talebani per il rapimento di Daniele Mastrogiacomo, quando già da sei mesi stavo in Sierra Leone. Le accuse erano risibili, eppure in quei momenti ho riso poco: era in gioco il mio onore, la mia reputazione, l’onore di Emergency. Erano in gioco dieci anni di lavoro nel Paese, sempre attenti a mai schierarsi per l’una o per l’altra delle forze in guerra eppur sempre pronti e presenti a denunciare le conseguenze di questa guerra e i morti fatti da entrambi i contendenti: forse proprio per questo davamo fastidio. L’arresto è stato inaspettato e brutale: trascinati fuori dalla macchina di Emergency mentre io e i “due Mattei” cercavamo di capire cosa diavolo ci facessero polizia e forze speciali nel nostro ospedale. E da quel momento, isolati gli uni dagli altri senza sapere perché fossimo detenuti ma solo capendo a spizzichi e bocconi che l’accusa era seria (per l’articolo 14 della costituzione afgana è prevista la pena di morte). Sempre in solitudine, cercando di capire di cosa ci accusavano, di cosa mi accusavano, cosa era successo nei giorni precedenti al nostro arresto, cosa avevo fatto l’anno prima, quante volte ero venuto a Lashkargah, che autorità avevo visto: la testa sempre in movimento. D’altronde è normale quando rimani solo in cella 24 ore su 24 sapendo che su di te pesano accuse gravissime e che tu sei completamente innocente: inizi a pensare e la testa non si ferma più. Ci hanno sempre trattato “bene” in prigione, compatibilmente con il fatto di essere in isolamento, in una cella di quattro metri per due, accusati di


di. Perché neutrali

cusa di aver ordito un complotto per attentare alla vita del governatore della provincia di Helmand, e dopo nove giorni scarcerampressionante mobilitazione in favore loro e di Emergency ma dall’altro giornali e politici costruivano un tentativo di delegittimasilenzio sulle atrocità che vengono commesse nel nome di Dio e della Civiltà Democratica

cose ripugnanti. Non dimenticherò mai alcuni atti di gentilezza “non dovuti” di alcune guardie di Lashkargah, che a una mia richiesta di lasciare aperto lo spioncino della porta di ferro mi hanno sorriso e lo hanno fatto; o la gentilezza di Hamid, “prigioniero/guardia” nel carcere di Kabul che diceva continuamente di non preoccuparmi, che sarei uscito presto ( anche se magari lui per primo ci credeva poco). Tutto questo ha reso meno dura l’esperienza di essere, per nove giorni, completamente solo. Come non dimenticherò la visita a Lashkargah, il giorno dopo il nostro arresto, dell’Ambasciatore italiano Claudio Glentzer: mi ha risollevato vedere il suo volto amico e ascoltare le sue rassicurazioni in un momento in cui ancora non riuscivo a capacitarmi di cosa stesse succedendo. Ho scoperto solo dopo la mia liberazione che in Italia tante altre persone ci sostenevano: gente di Emergency, gente comune che aveva avuto l’opportunità di conoscerci personalmente e non poteva credere a quelle accuse infamanti, ex colleghi di lavoro; fuori dal gruppo di chi ci sosteneva, solo qualche voce isolata, qualche voce preconcetta e squallida nel suo agire. Così come ho scoperto soltanto dopo quanto avessero fatto anche i nostri amici afgani: solo in Panjsher dodicimila firme, o meglio impronte digitali, a confermare la solidarietà nei nostri confronti, solidarietà nata e cementata da anni di mutua conoscenza e lavoro. Il momento della liberazione lo ricorderò come il momento probabilmente più bello della mia vita (ma forse quando Susanna partorirà diventerà il secondo momento più bello). Ce lo hanno detto verso mezzogiorno di domenica 18. Ci siamo finalmente rivisti, io e i due Mattei e riabbracciati; c’è scappata anche qualche lacrima ma eravamo in mezzo alle guardie e non potevamo lasciarci andare del tutto. Fino alle sei di pomeriggio non abbiamo potuto comunicare alle nostre famiglie che eravamo stati liberati perché prima dovevamo incontrare il capo della National Security, Mr. Amrullah Saleh. Lo abbiamo incontrato, in effetti, alle cinque e mezza: ci ha informato che eravamo liberi sulla base delle indagini svolte a Kabul e che le accuse nei nostri confronti erano tutte decadute. Voleva informarci che la nostra libe-

razione non dipendeva da pressioni politiche o dal fatto che eravamo “non afgani”; eravamo semplicemente innocenti e quindi potevamo uscire dal carcere: io gli sarò sempre grato di questa precisazione. A me l’unica cosa che interessava era essere rilasciato con il riconoscimento di essere innocente, senza alcun dubbio sul mio agire o sull’agire dello staff internazionale di Emergency: piuttosto che uscire con il dubbio di essere anche solo lontanamente coinvolto in quanto mi accusavano, avrei preferito restare in carcere. Dopo l’incontro con gli Ambasciatori Glentzer e Iannucci, il viaggio in macchina in ambasciata dove finalmente abbiamo potuto prendere contatto con le famiglie: e poi i giornalisti, le televisioni, le fotografie e solo qualche ora dopo l’abbraccio del resto dello staff di Emergency nella nostra casa vicino all’ospedale di Kabul. Da quel momento in poi solo grande gioia, rovinata unicamente dal fatto che l’ospedale di Emergency a Lashkargah è stato chiuso e chi viene ferito adesso, in questo conflitto terribile che ancora va avanti, non ha una struttura degna per accoglierlo: cercheremo di riaprirlo quanto prima, ce lo siamo detti da subito perché sappiamo quanto è importante. Alla fine chi ci ha voluto via da lì non l’avrà vinta.

Matteo Pagani “C’è gente armata in ospedale”. Questa frase mi rimarrà sempre impressa. Non credevo potesse mai accadere. “No Weapons” e il kalashnikov con una barra rossa di divieto sopra a tutte le entrate dell’ospedale mi aveva sempre reso orgoglioso e dato un senso di sicurezza, eppure ci ritrovavamo a dover andare a controllare cosa fosse successo. Mi ricordo di essere uscito senza zainetto perché tanto ero sicuro di tornare a casa subito dopo per prenderlo, come d’altronde avevo lasciato il computer in ufficio acceso, ancora una volta sicuro di tornare per finire la giornata di lavoro. Saliamo in macchina e andiamo abbastanza tranquilli in ospedale. Poco prima di riuscire a raggiungere l’entrata, alla vista di un numero 5


In queste pagine: dopo la liberazione, il momento dell’arrivo a casa, a Kabul, di Marco Garatti, Matteo Dell’Aira e Matteo Pagani, festeggiati dai colleghi italiani e afgani. Nelle pagine precedenti: la mobilitazione in Italia, con la manifestazione di piazza San Giovanni a Roma

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impressionante di forze armate e all’ordine di uscire dalla macchina immediatamente e consegnare cellulari e radio, la mia tranquillità si trasforma in un misto di stupore e preoccupazione. Realizzo in quel momento che la situazione non è poi così tranquilla come pensassi. In un secondo mi ritrovo con le mani legate dentro una jeep delle forze armate, viaggiando in una direzione a me sconosciuta. Arriviamo in un carcere, nessuno ci dice nulla, le nostre domande non incontrano risposte e nessuno parla inglese. Inizia l’attesa. Dopo circa una mezz’ora ci prendono e ci fanno salire su una macchina che di nuovo ci riporta in ospedale e lì c’è l’immagine che non mi scorderò mai. L’ospedale che fino a quella mattina descrivevo come “l’oasi di Lashkargah” si era riempito di stivali, giacche militari e armi, tante armi, troppe armi. I nostri colleghi afgani seduti per terra, alcuni venivano interrogati e altri attendevano il proprio turno. Tante facce impaurite guardavano fuori dalla finestra del pronto soccorso, altre dalle finestre della mensa, e mi ricordo il mio giardiniere preferito, di più o meno vent’anni e con un sorriso tra i più dolci, anche lui tenuto in fermo. Non ci stavo capendo più nulla ed era impossibile capirci qualcosa visto che non potevamo chiedere nulla a nessuno e neanche parlare fra di noi perché da quel momento, dopo averci disposto su tre panchine diverse, sarebbe iniziato il nostro isolamento. Quando ho visto che Marco e Matteo venivano portati fuori, stavo solo aspettando il mio turno, che arriva solo 45 minuti dopo. Ancora domande senza risposta. Perché mi hanno lasciato solo? Perché?, se comunque mi hanno messo a guardare un muro bianco in silenzio? Dopo una lunga attesa mi fanno fare dieci metri per entrare in pronto soccorso. Lì solo facce sconvolte dei miei colleghi nazionali e poche parole. Nessuno sapeva ne capiva cosa stesse succedendo. Alla vista di quattro soldati inglesi mi tranquillizzo, peccato duri solo cinque minuti perché ecco che mi riprendono mi fanno passare vicino ai soldati che non mi degnano di uno sguardo o parola, mi fanno uscire dall’ospedale, mi ammanettano, jeep e carcere nuovamente. Almeno lì ritrovo i miei due amici. Qualche parola piena di stupore, confusione e paura e poi in cella.

Da adesso in poi sto da solo con il mio cervello che lavora costantemente e le mie orecchie che cercano di creare immagini dai suoni che raccolgono. L’inizio è stato veramente duro. L’unica certezza è quella di non aver fatto nulla che potesse portare a quella situazione, ma indubbiamente mi ci ritrovavo. Questo alimenta la paura. Porte di metallo rumorose, puzza, sporco, passi e voci estranee. I pensieri non si placano e più si pensa, più fa male. Ogni momento e ogni rumore ti fa arrestare il respiro per creare silenzio, sperando di capire meglio dai suoni se quello che sta arrivando è un avvenimento positivo, “scusate, ci siamo sbagliati, andate a casa” o uno negativo “adesso vi riempiamo di botte”. La verità giaceva nel mezzo e non era sicuramente confortante: silenzio, ignoto. Dopo più o meno ventiquattr’ore c’è il primo interrogatorio. Un po’ di domande per schedarmi, un po’ di foto, un po’ di inchiostro per le mie dita e qualche insinuazione alla quale non potevo che rispondere negativamente. Poi chiedo io il motivo del mio soggiorno lì da loro e finalmente mi dicono cosa avevano ritrovato nell’ospedale. Mi rimandano in cella e passando davanti alle celle dei miei amici dico “qualcuno sta cercando di incastrarci”. Silenzio, pensieri, paure, riso, pane, lampadina accesa ventiquattr’ore al giorno e tasnob, il bagno. Per fortuna ci avevano finalmente permesso di fumare e ci avevano portato acqua in bottiglia. Bene o male è così che ho passato tutte le giornate in cella, questi erano i diversivi. Da quel momento in poi ci sono stati sempre più segni di attenzione da parte degli afgani e degli italiani e quindi un po’ più di sollievo. Il transito poco agevole da Lashkargah a Kabul, ultimo aneddoto traumatico. E la conoscenza con Hamid, la guardia/carcerato di Kabul, l’incontro più importante fino al giorno più bello, quando si apre quella maledetta porta metallica ed entra il comandante che mi dice con il sorriso “Buru (va’ via), you are free”, mentre mi dà due pacchette sulla guancia. In quel momento sono rimasto immobile e gli ho detto in italiano: “Ma davvero?”. E poi abbracci e miliardi di parole con i miei due amici. Ci sarebbe tanto altro da raccontare. Ma adesso mi riposo, mi godo la famiglia, gli amici, le coccole e le feste. 7


Il reportage Giappone

Japan made in Usa Di Fabio Ghelli

I reticolati iniziano a pochi chilometri dall'abitato di Henoko, sulla costa orientale dell'isola di Okinawa. Oltre il filo spinato, la base Usa di Camp Schwab si estende semideserta e silenziosa fino al mare. ul lato esterno del reticolato, Henoko mostra un analogo scenario di quieta desolazione: case abbandonate, vecchi bar "all'americana" con insegne scrostate e cartone alle finestre, poche auto che risalgono pigramente la strada verso gli alloggi dei soldati. Per trovare qualche segnale di vita, il visitatore deve scendere fino al porto. Qui si radunano quotidianamente da oltre sei anni i membri del presidio permanente contro l'ampliamento della base militare statunitense. Per sei anni, attivisti e abitanti del luogo si sono dati appuntamento sotto una tenda posta a poche decine di metri dai rotoli di filo spinato, per discutere ed elaborare attivamente strategie di lotta. Fino a pochi mesi fa, la loro azione in difesa del territorio di Henoko e dell'area costiera aveva attirato solo sporadicamente l'attenzione dei media. Il cambio della guardia nel governo giapponese e la conseguente creazione del primo esecutivo composto da membri del Partito Democratico e del Partito Socialdemocratico ha tuttavia posto al centro dello scacchiere internazionale le sorti del piccolo centro okinawese. La revisione dei rapporti diplomatici con Washington, nonché il forte consenso di cui i socialdemocratici godono sull'isola di Okinawa, ha indotto Tokyo a riaprire la questione relativa agli interventi sull'area di Camp Schwab. Il primo progetto per l'espansione della base risale al 1996, quando delegati del governo giapponese e rappresentanti di Washington raggiunsero un accordo per il progressivo trasferimento verso la baia di uomini e mezzi stanziati nell'area di Futenma (la seconda base militare dell'isola). Le ripetute proteste della popolazione locale contro l'elevato grado di inquinamento acustico, unite alla rabbia e all'indignazione per lo stupro di una dodicenne da parte di un militare, avevano all'epoca indotto le due delegazioni a valutare un piano per l'alleggerimento della pressione sul vicino abitato di Ginowan. Il progetto originario prevedeva la creazione di una serie di piattaforme offshore che avrebbero dovuto sorgere al largo della baia di Henoko. Il piano ha tuttavia incontrato da subito una forte resistenza a causa del devastante impatto che un simile progetto avrebbe avuto sul delicato ecosistema della barriera corallina. La baia è infatti l'habitat naturale di tartarughe marine e dugonghi, cetacei protetti da leggi internazionali per la tutela delle specie in via d'estinzione. Le autorità militari hanno dunque ripiegato su un piano di ampliamento delle strutture già presenti nell'area di Camp Schwab. Nel 2003, gli oppositori del progetto hanno presentato una istanza presso il tribunale federale di San Francisco, chiedendo l'applicazione della legge statunitense per la protezione dei beni naturali e culturali. Al termine di una causa durata quasi cinque anni, il 23 gennaio 2008, il tribunale si è pronunciato contro l'esecuzione del piano di ampliamento delle strutture militari "…in assenza di una adeguata documentazione relativa all'ecosistema della baia e agli effetti del progetto su flora e fauna". La sentenza emersa dal cosiddetto "Processo dei dugonghi" (salutata con entusiasmo da ambientalisti e pacifisti) è stata tuttavia aggirata mediante la presentazione di un

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dossier di centocinquanta pagine che ridimensionava in maniera arbitraria il reale impatto ambientale prodotto dalle nuove strutture. "Di fatto”, dice Sakae Toyama, uno dei coordinatori della protesta, “l'attuale progetto prevede la creazione di due nuove piste di atterraggio disposte a 'V', cui verrebbe associata una piattaforma di 240 mila metri quadrati necessaria a ospitare hangar e strutture accessorie. È inoltre opportuno sottolineare come parte del nuovo impianto strutturale della base esuli dal quadro delle dotazioni attualmente presenti a Futenma. Un'impresa tanto vasta", conclude, "non può essere realizzata senza infliggere un irreparabile danno all'ecosistema marino". Toyama appartiene alla schiera dei "veterani" che hanno occupato l'area portuale nell'aprile 2004, quando la Marina statunitense aveva appena iniziato le operazioni di perforazione del fondale. "Siamo stati raggirati fin troppe volte" prosegue l'attivista, "già nel 2006 ci era stato promesso che dalle nuove piste non sarebbero decollati aerei per il trasporto truppe, promessa smentita nel giro di poche ore dai portavoce del Ministero della Difesa. Non ci vengano poi a raccontare”, incalza, "che con il nuovo progetto la barriera corallina resterà intatta. È dal 2004 che navi americane conducono operazioni di perforazione lungo tutta l'area costiera: per consentire il transito di mezzi navali sono pronti a livellare immense porzioni di fondale. Oltre all'incalcolabile danno ambientale, l'erosione della barriera esporrebbe la costa alla furia dei tifoni estivi, con buona pace della sicurezza che sta tanto a cuore ai militari". dunque necessario che gli abitanti di Ginowan imparino a convivere con i militari Usa? "Assolutamente no!" risponde Toyama, "noi non vogliamo che né gli abitanti di Henoko, né tanto meno quelli dell'area di Naha e Ginowan debbano pagare le conseguenze di un'occupazione militare che prosegue da oltre sessant’anni; le basi statunitensi devono essere interamente smantellate". La popolazione di Okinawa appoggia a larga maggioranza (il 70 percento, secondo il quotidiano Mainichi Shimbun, oltre l'85 per cento secondo l'Okinawa Times) l'ipotesi di trasferire le strutture statunitensi fuori dalla prefettura, o addirittura fuori dal Paese. Una visita a una locale taverna permette tuttavia di ascoltare un punto di vista differente sull'attuale dibattito: "Okinawa ha bisogno dei militari americani", dice un anziano avventore, "qui non c'è nulla; non c'è lavoro, non c'è ricchezza. Quando la gente delle isole maggiori viene in vacanza a Okinawa pensa che questo sia il paradiso. Chi abita qui sa che le cose non stanno così. Durante gli anni della guerra in Vietnam", ricorda l'uomo, "Henoko pullulava di militari,

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Esercitazione dei marines nei cieli di Okinawa. Foto a cura del movimento contro la base di Henoko


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nei locali, nei negozi, il lavoro non mancava mai. Dopo la guerra, non è rimasto nulla. Se costruiranno la nuova base, i ragazzi del paese avranno finalmente un lavoro garantito per almeno sette-otto anni". Gli abitanti dell'area hanno tuttavia espresso un parere pressoché unanime eleggendo a sindaco del Comune di Nago - sotto la cui giurisdizione ricade l'abitato di Henoko - Susumu Inamine, capo di una coalizione che ha fatto del no alla base il proprio inno di battaglia. Avversario diretto di Inamine era il precedente sindaco, Yoshikazu Shimabukuro, interprete della posizione più filo-statunitense e fermo sostenitore dell'equazione "più militari uguale più posti di lavoro". ll'indomani dell'elezione, il premier Hatoyama rilasciò una dichiarazione in cui prendeva atto della manifestazione di dissenso dimostrata con il voto degli abitanti dell'area di Nago. "Dovere principale del governo", aveva poi aggiunto, "è tuttavia quello di trovare soluzioni che soddisfino l'intera popolazione nazionale, e non solo i residenti di una singola area". Il fatto che le parole di Hatoyama echeggiassero vagamente il tono usato dal generale statunitense Keith J. Stalder - il quale aveva dichiarato che "la politica di sicurezza nazionale non può essere decisa in qualche sperduto villaggio" - era stato sufficiente creare una nuova frattura tra Tokyo e il governo della prefettura. Oltre ai fattori ambientali e alla difficile convivenza con il personale militare, la presenza statunitense sull'isola ravviva da oltre sessant’anni il dolore per una delle più atroci esperienze legate alla fine della Seconda Guerra Mondiale. La Battaglia di Okinawa, culmine della "Operazione Iceberg", causò infatti tra l'aprile e il giugno del 1945 una delle più efferate carneficine dell'intero conflitto: oltre all'immenso numero di vittime militari (più di centomila giapponesi e circa ventiseimila statunitensi), i feroci scontri casa per casa, lasciarono sul campo tra le cento e le centocinquantamila vittime civili. Particolarmente tragica fu la sorte delle migliaia di okinawesi che - in parte costretti da soldati di Yamato, in parte terrorizzati dalla propaganda bellica - scelsero la morte piuttosto che affrontare l'occupazione. Il territorio dell'isola è rimasto sotto completo controllo dell'autorità militare Usa fino al 1972, fungendo per oltre un decennio da "base di appoggio" per le operazioni militari in Vietnam. Le strutture militari sono state largamente co-finanziate dal governo giapponese. Alcune settimane fa sono inoltre emersi documenti che chiariscono come i "fondi per la riparazione" stanziati a fine occupazione da Washington non fossero in realtà che capitali giapponesi stoccati nella Federal Reserve. Tuttora, le basi statunitensi si estendono su un'area di 233 chilometri quadrati, il diciotto percento del territorio dell'isola maggiore. Due terzi delle forze statunitensi presenti in territorio giapponese sono concentrati su questo "ponte naturale" posto a poche centinaia di chilometri dalle coste cinesi. A ledere lo stato delle relazioni tra Washington e Tokyo si è aggiunta la recente pubblicazione dei documenti relativi agli accordi segreti con l'esercito statunitense per lo stazionamento nei porti militari dell'isola di carichi di armi nucleari. Tale scoperta - incoraggiata dalla nuova campagna per la trasparenza dell'esecutivo - ha provocato una vasta ondata di indignazione, aggravata dal fatto che gli accordi strategici Usa-Giappone si fondano sul triplice divieto di produrre, possedere o stazionare armamenti atomici in un Paese profondamente segnato dalla tragedia di Hiroshima e Nagasaki. Yosano Kaoru, ministro delle Finanze del governo Hatoyama, ha recentemente dichiarato con una punta di stizza che i giapponesi sono ben disposti a fare sacrifici pur di mantenere il Giappone sotto l'ombrello difensivo dello Zio Sam, "purché - ha specificato - a farne le spese non siano loro, ma gli abitanti di Okinawa". Uno dei punti cruciali del dibattito intorno alla presenza militare Usa nel Pacifico riguarda una possibile indipendenza strategica del Giappone, attualmente inibita dall'articolo 9 della Costituzione del 1946, che impedisce al Giappone di disporre di proprie forze militari. Durante gli anni dell'amministrazione Bush, vari sforzi sono stati compiuti per promuovere una maggiore autonomia delle forze armate giapponesi, allo scopo di consentire agli Usa di concentrare la propria presenza militare in aree "strategicamente sensibili". L'abbattimento dell'egemonia mantenuta fino ad oggi dal Partito Liberal democratico sulla Dieta di Tokyo ha di fatto annullato il percorso che

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avrebbe dovuto portare all'abolizione dell'articolo 9. Il nuovo governo di centrosinistra non sembra orientato ad allontanarsi dalla benevola egida di Washington: troppo ingombrante resta la minaccia se pur vaga - dell'imprevedibile regime nordcoreano per permettere una completa smilitarizzazione dell'arcipelago. Fattore determinante nell'attuale scenario geo-politico è inoltre la volontà dimostrata dal premier Yukio Hatoyama di mantenere strette relazioni con Pechino, un chiaro segnale dichiarano alcuni - del mutato quadro diplomatico nelle relazioni trans-pacifiche. La decisione definitiva in merito al futuro delle strutture militari sull'isola di Okinawa verrà assunta entro maggio, ha dichiarato il Primo ministro Hatoyama. Nel frattempo, parte del personale militare impiegato nell'area Futenma ha già iniziato le operazioni di trasferimento verso l'arcipelago di Guam. In base ai progetti elaborati dal Pentagono, ottomila effettivi attualmente in servizio a Futenma dovrebbero essere progressivamente ricollocati nel territorio indipendente posto sotto controllo statunitense. Anche qui, i piani di Washington hanno tuttavia incontrato forti resistenze da parte della popolazione locale. Replicando in parte la controversia in corso con Tokyo, l'amministrazione di Felix P. Camacho ha deciso di schierarsi con decisione a difesa del fragile ecosistema dell'arcipelago. La consulente della Casa Bianca per le politiche ambientali Nancy Sutley ha incontrato negli scorsi giorni alcuni rappresentanti del governo di Hagatna allo scopo di sbloccare l'attuale impasse. Le forti perplessità relative all'adeguamento della rete di approvvigionamento idrico hanno indotto i portavoce governativi a prevedere un completamento del progetto entro il 2014. Ai ventisei miliardi di dollari già stanziati per il piano di riconversione delle strutture militari di Okinawa si aggiunge in questo modo una somma uguale o superiore per l'adeguamento infrastrutturale del piccolo arcipelago. ashington si trova dunque a combattere una guerra diplomatica su un ampio numero di fronti. L'elevata tensione nei rapporti UsaGiappone trapela con crescente frequenza dalle dichiarazioni degli ufficiali del Pentagono. Circa due mesi fa, un portavoce militare del governo Usa ha dato voce ai propri sentimenti di frustrazione dichiarando che "Tokyo sta diventando meno affidabile di Pechino". Lo spettro delle possibili soluzioni si è ampliato significativamente nel corso del dibattito. Ogni revisione dei programmi comporta tuttavia lo scoppio di nuove controversie. Recentemente, il ministro giapponese della Difesa, Toshimi Kitazawa, ha avanzato per la prima volta la proposta di dirottare il progetto delle nuove strutture dell'area di Henoko verso il sito di White Beach sulla penisola di Uruma, alcuni chilometri a sud di Camp Schwab. Un'ulteriore proposta si focalizza invece sulla "delocalizzazione" di alcune strutture verso la prefettura di Kagoshima, sull'isola di Kyushu. "Ogni volta che proponiamo uno spostamento del progetto verso una nuova area, sia essa Henoko, Uruma o Tokunoshima (Kyushu)", ha dichiarato il premier Hatoyama dando voce alla propria crescente irritazione, "siamo costretti a fronteggiare un muro di critiche. La nostra priorità resta comunque quella di trovare un accordo fondato su una vasta piattaforma di consenso". Il tempo stringe. A un solo mese dalla decisione finale, l'esecutivo appare ancora fortemente diviso tra tutori della volontà popolare e sostenitori di una soluzione diplomatica che scongiuri una frattura con Washington. Il ministro degli Esteri Tetsuya Okada ha sfidato l'autorità del premier dichiarando di non vedere alcuna possibilità per l'elaborazione di un piano unitario e ha pertanto incoraggiato il governo a presentare al Pentagono un ampio ventaglio di possibili soluzioni. Da parte loro, i vertici del Pentagono hanno ribadito più volte di considerare il trasferimento delle strutture verso l'area di Camp Schwab come "l'unico esito possibile per le trattative in corso". Che cosa accadrà una volta che - pur tra mille malcontenti - Tokyo e Washington raggiungeranno l'agognato accordo? "Nulla", risponde il signor Toyama stringendosi nel parka grigio, "noi restiamo qui. E resteremo qui finché non ci sarà più nessun militare di nessun Paese a minacciare questo paradiso".

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In alto: Il mare di Okinawa. In basso: Mezzi da sbarco sulla spiaggia. Foto a cura del movimento contro la base di Henoko.


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EMERGENCY ringrazia l’editore per lo spazio concesso gratuitamente - Illustrazione di Guido Pigni

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,! 0!#% #/. ), 45/ 8-),,% 0%2 ',) /30%$!,) $) %-%2'%.#9 Con il 5xmille puoi trasformare la tua dichiarazione dei redditi in una vera e propria “dichiarazione di pace”. Devolvendo il 5xmille a favore di Emergency puoi sostenere i nostri ospedali, i medici e gli infermieri che da 16 anni offrono cure alle vittime delle mine antiuomo, della

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I cinque sensi del Giappone

Udito La musica è l'anima di Okinawa. I moltissimi emigranti che hanno abbandonato l'isola per cercare fortuna nelle megalopoli di Honshu mantengono un profondo legame con la loro terra, legame che spesso - come nei casi di altri popoli migranti - si esprime attraverso le note di una canzone. "Canto dell'isola, cavalca il vento; con la mia isola nel cuore varcherò il mare", canta il gruppo pop okinawese The Boom, interprete contemporaneo di una tradizione antichissima di melodie dai toni languidi e struggenti. La formazione dei Begin dà invece voce alle ansie della nuova generazione: "Quando guardo il cielo di quest'isola, non so dire il nome delle stelle o delle nuvole che passano veloci; ma più d'ogni altro conosco la sua immensità. In tempi difficili e in tempi lieti, so che questo è il grande tesoro degli uomini delle isole". Lo strumento che accompagna tali melodie è spesso il Sanshi, parente dello Shamisen giapponese, sorta di chitarra a tre corde tese su una cassa armonica rivestita in pelle di serpente.

Vista Si dice che sostando sul ponte che congiunge l'isola maggiore a Henza Shima sia possibile osservare il braccio di mare con il più ampio spettro di colori al mondo; la vivida trasparenza dell'acqua rivela un fondale cangiante, percorso da vene di corallo rosato, ravvivato a tratti dal rosso degli anemoni. Immergendosi lungo la barriera corallina, ci si addentra in un pulsante universo cromatico, un panorama di forme e colori impre-

gnati di una luce interiore. Come la storia locale, anche il panorama naturale consta di un fitto reticolo di contraddizioni; la barriera pullula di creature tanto affascinanti quanto mortali: pesci-scorpione, cubo-meduse e oloturie velenose contribuiscono all'ideale di "bellezza fatale" delle isole. Addentrandosi nell'entroterra, il verde brillante della selva crea un intenso contrasto con l'impeccabile azzurro del cielo. In febbraio e alla fine del periodo estivo, l'isola è sferzata da tifoni che fanno ribollire le acque intorno alla barriera; allora mare e cielo si fondono in un tumultuoso abbraccio grigio-verde, mentre il verde intenso dell'entroterra svapora in lunghe filacce di perlacea foschia.

Gusto Okinawa è una terra dai sapori forti. Chi, abituato alla compassata polifonia della cucina giapponese, assaggia per la prima volta la "carne in salsa" o il taco-rice non può che restare interdetto. "Ponte naturale" tra le culture, Okinawa si è arricchita di contributi assai variegati nel corso della sua lunga e complessa storia. Tali influenze sono ben riconoscibili nella cucina locale: alle verdure scottate "alla cinese" si affiancano spesso zuppe di alghe simili a quelle che si consumano comunemente sulle tavole giapponesi; l'ottimo sashimi dell'isola può essere abbinato a terrine di riso e carne in scatola, che costituivano la razione-base dei soldati Usa negli anni dell'occupazione. Gli amanti dei sapori forti possono pasteggiare con una scodella di riso piccante, sorbendo il noto Habu Shu, distillato che deriva il suo caratteristico sapore dall'infusione d'un habu, il serpente più velenoso dell'arcipelago giapponese.

Olfatto Il salmastro aleggia fin nelle aree più remote della selva; sia che baleni nel fitto dei palmizi, sia che rumoreggi al fondo d'una ripida valle, il mare è una presenza costante. L'effervescenza dello iodio accentua i profumi della terra: il sottobosco di felci e bambù nani, il denso aroma delle alghe stese ad asciugare, la ruvida fragranza della terra vulcanica. Una nota salina si può avvertire persino nel liquore più noto dell'isola: l’Awamori. L'aroma pungente dei fertilizzanti naturali si spande dalle numerose coltivazioni biologiche che costellano l'arcipelago; da sempre "terra di confine", Okinawa è stata eletta patria d'adozione da molti giapponesi che perseguono un ideale di vita più vicino ai ritmi della natura.

Tatto La roccia vulcanica che costituisce “l’ossatura” dell'arcipelago respinge e al contempo ispira il contatto; una ruvidezza dolorosa, plasmata in forme estrose dagli elementi. Funghi di pietra percorsi da profonde fenditure si elevano a tratti dalla superficie del mare, con una chioma di arbusti appigliati all'aspra scorza rocciosa. Le spiagge coralline sono invece contraddistinte da una suadente morbidezza: il piede affonda tra frammenti di conchiglie e le molli appendici dei coralli vivi. Troppa disinvoltura nel calcare i fondali delle spiagge può tuttavia essere fatale: sotto un tenue velo di sabbia si celano spesso ricci di mare dalla puntura mortale. 13


L’intervista Gran Bretagna

Prove di futuro Di Enrico Piovesana Rob Hopkins, ecologista britannico, è il fondatore del movimento della Transizione: un esperimento sociale di gran successo (in tre anni hanno aderito trecento Comuni nel mondo, sette in Italia) per costruire comunità locali capaci di sopravvivere alla fine – prossima – dell'era del petrolio e della crescita economica infinita. Comunità in rete tra loro, ma indipendenti dal punto di vista energetico e alimentare, basate su produzione, commercio e monete locali, sulla condivisione di terreni, capitali e lavoro e sulla partecipazione attiva dei cittadini. Mister Hopkins, ricerche scientifiche, costi energetici crescenti, guerre per il petrolio ed esplorazioni spasmodiche alla ricerca di nuovi giacimenti: tutto sembra confermare che il 'picco del petrolio' è ormai dietro l'angolo, forse questione di pochi anni. Ci stiamo velocemente avvicinando a una svolta epocale: la fine dell'era dell'energia a basso costo, quindi la fine del paradigma capitalista della crescita economica infinita. Il movimento della Transizione e una nuova Arca di Noè per sopravvivere a questi drastici cambiamenti? Costruire scialuppe di salvataggio presuppone comunità che operano in isolamento, sollevando il ponte levatoio, chiudendo fuori dalla porta il resto del mondo e concentrandosi solo sulle proprie necessità. La mia idea è invece quella di comunità che si attrezzano per affrontare il cambiamento, diventando più autosufficienti ma senza isolarsi, anzi proiettandosi oltre il contesto delle nazioni. Io preferisco parlare di 'decrescita sicura', che non significa rinunciare alla civiltà, ma semplicemente imbrigliare lo stesso ingegno che ci ha portati all’apice della rivoluzione industriale per progettare una civiltà alternativa e compatibile con la scarsità energetica. Transizione significa che noi dobbiamo muoverci dal punto in cui siamo ora, ancora pericolosamente dipendenti dall’energia a basso costo, verso un mondo a 'bassa energia', che alla fine potrà essere migliore, più sano, più umano, più felice. Il movimento della Transizione catalizza questo processo di decrescita, affinché venga intrapreso subito a livello di comunità locali, con esempi-guida concreti. Coltivazione di orti comuni, consumo di prodotti agroalimentari locali, uso di monete locali, condivisione di capitali e manodopera, recupero di mestieri dimenticati, coinvolgimento dei cittadini: le iniziative di Transizione non sono meri esperimenti ecologici. Il loro scopo principale è quello di creare comunità indipendenti dai combustibili fossili, ma rappresentano anche un'alternativa economica, sociale e culturale, insomma, politica. Più che una transizione, sembra una rivoluzione: una rivoluzione non violenta, non traumatica, ma virale e progressiva. È d’accordo? Non la chiamerei rivoluzione, se non altro perché si tratta di un termine storicamente troppo carico. Le rivoluzioni tendenzialmente implicano l'individuazione di una settore della società come buono e di un altro come cattivissimo da cui ci si deve liberare. Il movimento della Transizione cerca di adottare un approccio costruttivo e inclusivo. Non partiamo stilando una lista di colpevoli. Abbiamo consapevolmente deciso di non fare 'campagne contro'. Cerchiamo di dare una visione della realtà e di come affrontarla in modo da coinvolgere il numero più ampio possibile di persone e gruppi. Come dice Lester Brown, noto scrittore ambientalista, oggi c'è bisogno di una mobilitazione come quelle in tempo di guerra: siamo esposti a una minaccia 14

enorme e dobbiamo rispondere con rapidità. Insomma, invece che di rivoluzione, parlerei di evoluzione accelerata. C'è chi pensa che, dopo due secoli di politica basata sulla contrapposizione 'destra/sinistra', la nuova dialettica ideologica sarà quella 'global/local'. Come si colloca in questa prospettiva il movimento della Transizione? Noglobal? Local? O forse 'glocal'? Le iniziative della Transizione da sole non risolveranno tutti i problemi: fanno parte di un grande spettro di risposte che vanno dal livello globale, come le conferenze di Kyoto e Copenaghen, giù fino alle politiche dei governi nazionali e delle comunità locali. Il compito del nostro movimento è quello di intraprendere a livello locale politiche che i governi temono come 'impopolari', salvo poi rimanerne affascinati. La comunità crea la spinta per rendere quelle cose possibili. La prima Città in Transizione è stata Totnes, nel Devon: la sua città. Oggi, a poco più di tre anni di distanza, in Gran Bretagna se ne contano circa centocinquanta, da piccoli villaggi fino a grandi sobborghi urbani come Brixton, a Londra. E altrettante ne sono sorte in altri paesi: dagli Stati Uniti al Giappone, dall'Italia all'America Latina, all'Australia. E' sorpreso dalla velocità di diffusione della Transizione? Sì, molto. Non avrei mai potuto immaginare una cosa simile. Il fenomeno della Transizione si sta espandendo come un virus in tutto il mondo, evolvendosi in maniera diversa a seconda delle realtà locali e nazionali. Noi incoraggiamo le persone a prendere la Transizione e adattarla alla cultura, al clima e alle condizioni dove vivono. È un’idea molto molto flessibile che prende la forma dalle persone che ne sono coinvolte. È bellissimo vedere come le persone si organizzano autonomamente, come se non aspettassero altro che il permesso di attivarsi, di poter fare cose fantastiche. La ragione di fondo dell'incredibile successo di questo movimento è che si tratta di un esperimento sociale affascinante. Per approfondire: - Rob Hopkins, «Manuale Pratico della Transizione», Arianna Editrice - http://www.transitionnetwork.org - http://transitionculture.org - http://transitionitalia.wordpress.com In alto: Rob Hopkins. Foto di Stephen Prior per PeaceReporter In basso: Transizione. Elaborazione grafica a cura di Transition Network


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Mondo

Notizie che di solito non fanno notizia

Haiti

Le buone nuove

Dopo il terremoto, Iraq, manovre verso la normalità militari ed elettorali

Yemen: un passo verso il cessate il fuoco

l 1° giugno prossimo si concluderà la missione in Haiti dell'esercito statunitense. I marines, oltre ventiduemila, furono inviati dal presidente Barack Obama poche ore dopo il terribile terremoto che sconvolse il Paese causando centinaia di migliaia di vittime. E subito sono iniziate le polemiche. Sia per la spettacolarità dell'intervento, a uso e consumo delle telecamere internazionali, sia per la diatriba su chi e come dovesse coordinare gli aiuti. Oggi possiamo tranquillamente dire che se le missioni inviate ad Haiti da Cuba, Venezuela, Italia e tanti altri Paesi, sono state meno pubblicizzate, di sicuro hanno adempiuto al loro dovere meglio dei nipotini dello Zio Sam. Ken Keen, ex capo della forza congiunta per Haiti, ha parlato chiaro davanti ai giornalisti riuniti al Pentagono e ha spiegato che entro il 1° giugno tutti i soldati Usa torneranno a casa. "Chiuderemo con la forza congiunta, ma questo non significa che non continueremo ad avere una presenza massiccia di nostri militari nell'area", affermazione che non si capisce bene se sia una minaccia (considerati i precedenti storici degli Usa in Haiti) o una promessa d'aiuto. Keen ha assicurato che l'attuale situazione sociale nel Paese caraibico è stabile e sono stati pochissimi i casi di violenza registrati. "Ora la situazione sembra essersi stabilizzata ed è tranquilla. Ma era così già dai primi giorni del nostro intervento. Sono stati pochi, infatti, i casi di violenza che abbiamo dovuto registrare e non sono stati d'ostacolo al nostro intervento umanitario” ha concluso il generale americano. In tutto questo s'inquadra anche la dichiarazione dell'inviato speciale delle Nazioni Unite per Haiti, Bill Clinton, che ha sottolineato che entro la fine dell'anno in corso nel Paese si svolgeranno le elezioni. E Hilary Clinton, segretario di Stato Usa, ha sottolineato l'importanza di convocare le elezioni per conferire al Paese una classe dirigente che il terremoto ha sostanzialmente decimato.

Secondo quanto riferiscono fonti governative, le autorità dello Yemen hanno liberato 236 prigionieri sciiti in cambio del raggiungimento di una tregua con i ribelli del nord del Paese. Il presidente yemenita Ali Abdullah Saleh aveva dichiarato lo scorso mese di voler concludere la guerra contro di essi, che va avanti dal 2004, e il rilascio dei miliziani, avvenuto in due tempi, è considerato un importante passo verso il cessate il fuoco. La decisione di rilasciare i prigionieri sembra rappresentare la risposta alla liberazione di centosettanta militari governativi ostaggio delle milizie del nord, ed è parte di una strategia volta alla pacificazione delle regioni settentrionali. Lo scorso novembre vi erano stati momenti di tensione anche con la vicina Arabia Saudita, coinvolta nel conflitto in seguito allo sconfinamento sul suo territorio dei ribelli presenti nelle aree nord dello Yemen.

Colombia: udienza collettiva contro i para Una nuova fase del processo contro i paramilitari che in molti non esitano a definire storica: si tratta infatti della prima udienza collettiva, in teleconferenza, finalizzata a ripagare le vittime dei danni subiti. Un esperimento che, a quanto afferma il prestigioso settimanale colombiano Semana, "ha pochi precedenti nel mondo". La audiencia de reparación andrà in scena contemporaneamente a Bogotà, Mampujancito, manciata di case dei Monti di María, Bolivar, e Cartagena de Indias, capitale del dipartimento. Dopo cinque anni dalla nascita delle controversa legge di Giustizia e Pace, che ha permesso la smobilitazione - molto spesso apparente - di oltre 33mila paramilitari, finalmente si pensa a qualcuna delle migliaia di vittime. Che dovranno guardare negli occhi i carnefici e con loro discutere su come potranno iniziare a riparare a tutto quel dolore, quella sofferenza, quel terrore. Si tratta di 1.456 persone che fra un mese e mezzo (due settimane durerà l'udienza e circa un mese ci vorrà ai giudici per arrivare a sentenza) potranno finalmente provare a voltare pagina.

Iraq

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Alessandro Grandi 16

entre l'Iraq attende la formazione del nuovo governo, le truppe Usa (per le quali il generale statunitense attuale ha confermato il ridimensionamento a 50mila uomini entro agosto 2010) e l'esercito iracheno hanno dato tre duri colpi all'organizzazione della guerriglia nel Paese. Abu Ayyub al-Masri, Abu Omar al-Baghdadi e Ahmad al-Obeidi Abu Suheyb, tra il 19 e il 20 aprile scorsi, sono stati eliminati. Il premier uscente Nouri al-Maliki ha potuto presentarsi davanti alla stampa internazionale con le foto dei tre super ricercati, guadagnando un credito di notorietà che potrebbe risultare decisivo. Abu Suheyb era ritenuto il capo indiscusso di alQaeda in Iraq nella zona di Kirkuk, il centro con risorse petrolifere infinite e conteso tra curdi e arabi; mentre al-Masri era ritenuto il capo dell'organizzazione in Iraq dopo la morte di alZarqawi, avvenuta nel 2006. Al-Baghdadi, invece, era ritenuto il vice di al-Masri. La notizia arriva a poche ore dal pronunciamento della Commissione elettorale di Baghdad che è intenzionata a ordinare il riconteggio totale dei voti nella municipalità della capitale. Questa decisione è una vittoria per al-Maliki, che fin dalla chiusura delle urne il 7 marzo scorso ha denunciato brogli. Le elezioni, vinte dal partito di Iyad Allawi, non sono riuscite a produrre una coalizione stabile in grado di esprimere un esecutivo e, nella paralisi del Paese, sembra che al-Maliki sia l'unico ad avere i numeri per dar vita a un governo. Magari con un piccolo, inatteso, aiuto della Commissione elettorale e delle forze Usa. Primo problema, migliorare la condizione dei civili. Questa richiesta è stata rivolta anche da Amnesty International alle autorità irachene. Molte vittime, si legge in un rapporto della associazione, vengono prese di mira solo per via della loro identità religiosa o sessuale ma anche per denunce di abusi o per la mancanza di rispetto dei diritti umani. "I cittadini iracheni stanno ancora vivendo in un clima di paura dopo sette anni dall'invasione Usa”.

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Christian Elia


Portfolio

Via dall’Iraq Testo e foto di Delizia Flaccavento

L’

esodo di massa degli iracheni, cominciato nel 2003 e ancora in corso, è stato ignorato dai media nonostante le proporzioni tragiche.

Secondo alcune stime, due milioni di persone hanno lasciato il Paese e due milioni sono emigrate internamente dalle zone più pericolose, come Baghdad, al relativamente più tranquillo Nord. Centinaia di migliaia di iracheni si trovano in Siria, Giordania e Turchia in attesa di ricevere asilo in Paesi occidentali con programmi per i rifugiati. Stati Uniti, Australia e Canada sono i Paesi che accettano il più alto numero di rifugiati, ma si tratta comunque di poche decine di migliaia l’anno, contro le centinaia di migliaia ancora in attesa che la propria vita esca dal limbo dell’incertezza. Il numero di esuli iracheni in Turchia è basso rispetto a Siria e Giordania, e tuttavia si contano almeno ventimila persone, concentrate principalmente a Istanbul. Il sessanta percento degli iracheni che vive a Istanbul è cristiano. Durante il regime di Saddam Hussein, le minoranze cristiane avevano piena libertà di culto, ma dopo l’invasione americana sono cominciate

minacce e persecuzioni. I cristiani iracheni sono principalmente caldei e assiri. La loro lingua liturgica è l’aramaico, la lingua parlata fin dai tempi di Gesù. Prima dell’occupazione americana, i cristiani in Iraq erano un milione su una popolazione di diciassette milioni (circa il sei percento). L’operazione Iraqi Freedom ha determinato la fine della libertà di culto. Se l’esodo continua, i cristiani scompariranno del tutto da una terra che è stata anche loro sin dall’inizio del Cristianesimo. Tra i rifugiati si alternano speranza e disperazione, come si evince dalle parole di Ana: “Non credo che tornerò mai in Iraq. Per noi cristiani l’Iraq è finito”. O da quelle di Selwan: “Quando la situazione migliorerà, tornerò a casa. La mia vita e la mia azienda sono in Iraq, in America spero solo che i miei figli ricevano una buona istruzione”. O infine e da quelle del quattordicenne Ninab, che in Turchia vive sin da bambino: “Parlo turco e amo Istanbul, ma qui sono di passaggio e non vedo l’ora di cominciare una nuova vita in qualsiasi Paese decida finalmente di accettarci”.





Notizie che di solito non fanno notizia

Le buone nuove Tanzania: cittadinanza ai profughi Europa

Burundi

L’Ue verso la sicu- Ritorno dalla rezza comune guerra ventisette Stati dell’Unione europea si avvicinano alla condivisione di uno spazio unico di sicurezza così come previsto dal Trattato di Lisbona entrato in vigore il primo dicembre 2009. La pratica è stata velocizzata dalla Commissione europea, che ha presentato la prima misura per concretizzare gli obiettivi politici previsti nel Programma di Stoccolma che i paesi membri hanno sottoscritto lo scorso dicembre. Il piano preannuncia una serie di centosettanta disposizioni che, se approvate dal Consiglio e dal Parlamento, uniformeranno per il prossimo quinquennio le materie di giustizia e affari interni. Il disegno è stato esposto a Bruxelles da Viviane Reding, commissaria alla Giustizia e alla cittadinanza, e dalla responsabile degli Affari interni Cecilia Malmstrom, per le quali i cittadini europei devono avere “gli stessi diritti, il medesimo senso di sicurezza e le stesse libertà”. Precisando la portata del pacchetto le due commissarie hanno dichiarato: “Sono misure che influiscono sulla cooperazione giudiziaria, sulle politiche d’immigrazione e asilo, su tante azioni quotidiane che oggi trovano ostacoli nella burocrazia e in normative differenti. Non vogliamo, né possiamo cambiare le leggi dei singoli paesi, ma piuttosto intendiamo creare dei collegamenti tra i diversi sistemi giuridici nazionali”. Nel settore diretto dalla Reding le proposte al vaglio riguardano, fra le altre, il rafforzamento dei diritti dell'imputato nei procedimenti penali per garantire un giusto processo e l’aumento della tutela dei cittadini - che viaggiano nell’Unione Europea al di fuori del loro paese - quando acquistano un pacchetto vacanze o presentano una domanda di risarcimento in seguito a un incidente stradale. Per ciò che concerne la sezione Affari interni, invece, la bozza disciplina la definizione di un'ampia strategia di sicurezza per negoziare un accordo a lungo termine con gli Stati Uniti sul trattamento e il trasferimento di dati finanziari ai fini della lotta al terrorismo, la modifica delle condizioni di ingresso e di soggiorno dei cittadini di paesi terzi a fini di lavoro stagionale e l’introduzione di un sistema europeo comune d'asilo per incoraggiare la solidarietà fra gli Stati membri.

a storia che Phenias Gisahara ha raccontato all'agenzia Irin lascia ben sperare. Lui è uno dei duecentoventimila profughi fuggiti in Tanzania dal Burundi, quando scoppiò la guerra civile. Era il 1972. Con altre 197 famiglie, ha da poco realizzato il sogno di tornare nel suo Paese, a Nyakazi, nella provincia di Makamba, in un "villaggio integrato", una comunità rurale in cui gli verrà data una casa, un terreno da coltivare e l'accesso alle strutture sanitarie. Altrimenti non sarebbe potuto tornare in Burundi. Perché, come le migliaia di persone che hanno già fatto il viaggio di ritorno, ha scoperto che la sua vecchia casa non esisteva più (altri hanno trovato le loro proprietà occupate). I "villaggi integrati", nati da una collaborazione fra l’Unhcr, l’agenzia dell'Onu che si occupa dei rifugiati, e il governo locale, rappresentano una evoluzione dei cosiddetti peace village, piccoli centri creati per permettere alle etnie Hutu, Tutsi e Twa di tornare a vivere insieme, ricreando una quotidianità condivisa, dove le strutture scolastiche, ma anche quelle ricreative, sono in comune. L'esperimento fu lanciato nel 2003 e da allora nel Paese sono stati costruiti sedici centri. In quello di Kukamara, ad esempio, a Rugombo, hanno trovato rifugio più di trecento nuclei familiari di ritorno da Tanzania, Rwanda e Repubblica Democratica del Congo, insieme a famiglie appartenenti alla minoranza etnica Batwa. Certo non mancano i problemi: sono poche le strutture sanitarie che offrono cure gratuite e per di più quasi tutte concentrate nella capitale Bujumbura, molti villaggi non hanno l'allacciamento alla rete idrica, non tutte le famiglie hanno avuto un terreno da coltivare e i fondi dell'Unhcr devono ancora essere assegnati ai beneficiari. Resta ancora molto da fare, ma l'obiettivo di ridare una speranza ai profughi nel loro Paese d'origine è stato raggiunto. Nuovi villaggi sono in costruzione. A maggio verrà completato quello di Nyabigina, sempre nel Makamba, dove duecento famiglie potranno ricominciare una nuova esistenza.

Antonio Marafioti

Alberto Tundo

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Le Nazioni Unite si sono complimentate con la Tanzania per aver concesso la cittadinanza a circa 162mila profughi che lasciarono il Burundi trentotto anni fa. Secondo Melissa Fleming, la portavoce dell'agenzia per i rifugiati dell'Onu, questa sarebbe la "più generosa naturalizzazione di profughi" mai vista. La portavoce ha inoltre aggiunto che si tratta prevalentemente di Hutu, in particolare persone già integrate all'interno della società tanzanese e che avevano lasciato i campi profughi da tempo. Fino al 2000, la Tanzania aveva una delle più grandi popolazioni di rifugiati di tutta l'Africa, 680mila persone provenienti dal Burundi e dalla Repubblica Democratica del Congo. Negli ultimi anni 350mila persone hanno fatto ritorno in Burundi.

Portogallo: via libera ai matrimoni gay Via libera alla legge che autorizza i matrimoni gay in Portogallo. E' quanto ha stabilito la Corte costituzionale del Paese, in seguito alla legge approvata lo scorso febbraio dal parlamento su proposta del governo guidato dal primo ministro socialista Jose Socrates. Il provvedimento è stato votato favorevolmente da 13 membri della Corte, mentre soltanto due hanno espresso un parere contrario. Il Portogallo sarà così il sesto paese europeo ad approvare i matrimoni gay, sebbene nella legge non venga contemplata l'eventuale adozione dei figli. La legge era stata inviata alla Corte dal presidente Anibal Cavaco Silva, cattolico praticante e membro dell'opposizione, che aveva sollevato dubbi sulla sua conformità alla Costituzione. In seguito all'approvazione Silva ha 20 giorni per ratificare la legge o porre il suo veto; in quest'ultimo caso, il parlamento dovrebbe rivotare il provvedimento e l'iter procedurale diventerebbe necessariamente più lungo.

Spagna: i Nobel per la Pace basca Quattro premi Nobel per la pace e diversi mediatori internazionali si schierano a fianco della proposta di pace avanzata dalla sinistra basca, che prevede negoziati in assenza di violenza e con metodi democratici. Il documento internazionale irrompe in un momento molto particolare del conflitto: la sinistra basca non viene ritenuta da Madrid un interlocutore politico, anzi lo stesso esecutivo guidato da Zapatero ha chiesto e votato un rafforzamento della legge dei partiti che prevede, ora, anche il fatto che chi riuscisse mai a candidarsi e ad essere eletto nelle prossime elezioni potrà essere revocato dall'incarico conferitogli dagli elettori se non pronuncia pubblicamente una dichiarazione di condanna contro Eta. 17


Il reportage Turchia / Iran

TransAsia Express Di Neda A.S. I racconti, solitamente, si fanno alla fine di un viaggio. Può accadere però che da un viaggio non si faccia ritorno e si continui a vivere come in un sogno. Questo è il rischio che si corre salendo a bordo del mitico treno: diventare prigionieri della sua epica lentezza, mai sazi di quella umanità che solamente un viaggio via terra ti permette di conoscere. ccanto alle modernissime “schegge” tedesche e ai duecento chilometri orari dell’alta velocità, esistono ancora treni dove spazio e tempo avanzano a braccetto, solidali, in equilibrio, seguendo i ritmi di uno scorrere naturale, senza ansie e appuntamenti da non mancare. Il treno come una lenta via di fuga, che non conosce velocità, ma soltanto il lusso, quello vero e sola garanzia di ricchezza, del tempo. Tuttavia, per fare questo è necessario imparare a dimenticare ogni obbligo con l’avanzare del tragitto, e lasciarsi cullare dagli itinerari che possono richiedere giorni, addirittura settimane, per attraversare steppe, delta fluviali, confini continentali. Nato nel 1971 per volontà dello scià di Persia, l’allora Vangolu Express che collegava Istanbul a Teheran prolungando il tragitto dell’Orient Express, ha preso oggi il nome di TransAsia Express: un mezzo di spostamento che attraversa Kayseri, i pascoli dell’Anatolia, si avvicina al mare inseguendo un percorso sterminato, zeppo di voci, inflessioni dialettali, stelle, musiche e balli. Le partenze da Istanbul, dalla suggestiva stazione di Haydarpasa, sono settimanali: tutti i mercoledì verso le undici di sera. L’arrivo a Teheran è previsto per le sette, ma in realtà è già notte avanzata quando giunge nel cuore della capitale. Una settantina d’ore poco lussuose ma speziate, durante le quali un crocevia di cultura turca, curda, azera e persiana, si mescola e si rimpasta. Così, senza tempo, anche la più piccola sfumatura di colore scopre di possedere un nome e poter essere raccontata. Di questi tempi, i turisti diretti in Iran sono delle mosche bianche. Non sorprendono dunque i sorrisi straniti dei passeggeri quando racconto della mia provenienza. E quei pochi che parlano inglese subito chiedono: “Perché in Iran? Che ci vai a fare?”. Stazione di Ankara, sono le dieci del mattino. La notte è trascorsa rapida, cullata dal suono ovattato delle rotaie cui l’orecchio presto si abitua. Due cuscini, due coperte, un panino e qualche risata. Ieri notte abbiamo lasciato Istanbul. Con me c’era Felix, un intrepido e un po' bamboccione blogger tedesco, con il quale divido la cuccetta. La lunga fermata nella capitale è un via vai di umanità che si risveglia, scende a sgranchirsi le gambe e farsi la toeletta nella fontana. Samovar e tazze di tè a profusione. Zuccherini, frutta e datteri per accom-

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pagnare. Bayram Ali e la sua signora sono un’anziana coppia di contadini di Hamedan, cittadina del Kurdistan iraniano. Thermos a terra e una borsa sopra la quale è appoggiata una gamba malconcia, Alla dolce metà è cascato un attrezzo da lavoro sul piede un paio di settimane prima, ma per nulla al mondo rimanderebbero la partenza: a Istanbul vive uno dei loro figli, sono andati a trovarlo, e adesso tornano a casa a riprendere il lavoro nei campi, c’è la raccolta da fare. Quattro mani pesanti e screpolate che raccontano una vita passata a rimestare la terra. “Sfortunatamente – dice lui ironico - a Istanbul non ho ancora trovato un’altra donna, e ancora una volta me ne torno a casa con la stessa”. Lei lo guarda in silenzio, parla poco, ormai avrà fatto l’abitudine all’ironia del marito. Una vita insieme, non serve chiederlo, si capisce. Intanto una mamma rincorre il figlioletto che strepita sul binario, e Felix chiacchiera con Luis e Matthias, le altre due mosche bianche del treno. ipartiamo. Si avanza, lentissimi, a una velocità che sfiora appena i venti chilometri orari e che lascia il tempo di osservare l’Anatolia scorrere dal finestrino. Sdraiata in cuccetta, le gambe incrociate, il libro aperto a metà e la testa svuotata. Passano le ore e il sole ha terminato il suo tragitto in cielo. Il paesaggio incontaminato, rasserena l’animo, lo alleggerisce. Solo qualche tenda al bordo della radura, colline vergini, i pali della corrente che fiancheggiano l’avanzare delle carrozze e accompagnano il lavoro di contadini e pastori intenti a recuperare capre su pendii scoscesi. Anche sulla carrozza ristorante il tempo scorre soporifero: gli sbadigli dello chef si interrompono solo per Edna, un nababbo di Najaf, unica presenza araba a bordo, che ordina un frugale piatto di carne e se ne torna in cuccetta a finire il pacchetto di sigarette. A differenza sua, tutti gli altri si arrangiano: fornelli e odore di cipolle, padelline, bollitore per il riso, scatolette di piselli, pomodori e peperoni verdi, piatti di plastica, thermos e borse colme di pane turco. Tutto è incastrato al milli-

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In alto: Saba. In basso: Dal nord dell’Iran Turchia/Iran 2009. Foto di Neda A.S. per PeaceReporter


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metro dentro la cuccetta trasformata per l’occasione in cucina, salotto e camera da letto. Hamid non parla inglese ma si fa capire alla perfezione: “Su, avanti, mangiate, ce n’è per tutti – continua a ripetere spostandosi lungo il corridoio per accertarsi che tutti abbiano di che mangiare – è lei la cuoca, mia sorella. Si chiama Hefeh”. Insieme a lei Sara, Shohreh, Hakimy, Masoud… saranno una decina tra amici, figli, nipoti, parenti, e Hamid si occupa di tutti loro come un padre. Non si capisce bene che mestiere faccia, soltanto i timbri sul passaporto lasciano intendere che si tratta di commercio. Fuori si è fatta notte. In mezzo alla masnada che si è creata nel vagone c’è anche Vahid. “Siamo fatti così – commenta – noi iraniani siamo matti!”. Ride e guarda la mezza luna turca disegnata sul finestrino. “Non vorremmo mai diventare come loro, come i turchi intendo: da loro, il laicismo ha soppiantato la cultura originaria; tuttavia non vogliamo neppure andare avanti come stiamo facendo, a lottare una vita contro la dittatura”. Vahid studia all’accademia di Milano, sta tornando in Iran per manifestare insieme agli amici che sono rimasti nel Paese. “È la prima volta che prendo questo treno. Arrivare in aeroporto a Teheran sarebbe stato troppo pericoloso, le guardie mi avrebbero sicuramente bloccato e mandato in carcere perché il mio nome è sulla lista nera del governo”. Vahid non ha paura di niente. Non lo spaventano le botte, la violenza, la reclusione. Tutto ciò che vuole è rendersi utile: “Il movimento verde deve andare avanti, e sta andando avanti anche grazie agli studenti che vivono all’estero. Dobbiamo stare attenti, non possiamo permetterci passi falsi. Sai – confessa – non ce la facevo a rimanere a Milano e lasciare gli amici da soli, mi sentivo un codardo. Tanti di loro, pur avendo la possibilità di espatriare, hanno preferito rimanere in Iran e continuare a combattere per la democrazia”. Parla sottovoce e lento Vahid, quasi raccontasse una favola a un bambino. Poi m’invita nella sua cuccetta, prende il tambur, un tipico strumento a corde che ricorda il mandolino, e si mette a suonare. Una litania amara e delicata accompagna la cascata di stelle e gli strascichi della seconda notte verso Oriente. l giorno successivo si presenta con un paesaggio di vallate verdi, corsi d’acqua, gole impervie e sprofondi color sabbia. Il treno si ferma per qualche minuto, cede il binario, riparte, e gli operai della ferrovia salutano. In questi luoghi fuori dal mondo, il nostro passaggio sembra modificare irrimediabilmente il corso degli eventi, turbare gli istanti di un tempo rimasto nascosto all’impazienza. Settanta ore di viaggio sembrano un’eternità, in realtà tanto si avanza con lentezza tanto i pensieri di ieri si fanno evanescenti, rallentano e infine scompaiono. Qualche posto più avanti siedono tre donne, le figlie - immagino - insieme alla mamma. La più grande avrà venticinque anni, occhioni grandi, tondi e lunghe ciglia cariche di rimmel che sbattono annoiate. È carina, ha le unghie smaltate di rosso, la coda alta di cavallo e due ciocche di capelli le scendono ai lati del viso. Si chiama Saba, ha da poco concluso l’università a Tabriz, ed è di ritorno da Istanbul dov’è andata a informarsi sui corsi di laurea specialistica. “La vita in Iran è difficile – racconta – a Istanbul ho uno zio, perché non provarci ad andar via?”. Non c’è bisogno di fare domande, Saba è un fiume in piena, e quando non porta le ginocchia al petto o si arriccia nervosamente i capelli, parla a ruota libera come non avesse aspettato di fare altro per tutto il tragitto. “Con la mia famiglia abitiamo nella regione dell’Azerbaijan iraniano, ma l’azero non lo possiamo parlare, è proibito. Certo, in casa facciamo quello che vogliamo, come tante cose vietate fuori ma necessarie nell’intimo delle mura domestiche per convincerci di avere ancora una vita normale. Urmia, la mia città, è piccola, lì non sarei potuta scendere in strada a manifestare perché mi avrebbero fatta fuori all’istante. A Teheran invece è stato diverso, erano in tantissimi, milioni! Non capisco come siano potute accadere quelle violenze, quando ci penso, ti giuro, mi viene un nervoso… Quella ragazza, Neda, aveva l’età di mia sorella. È diventata un'eroina, un simbolo, ma per noi qui tutto continua come prima. Il velo per esempio. In Turchia me ne stavo così, maniche corte, pantaloncini e infradito… persino le infradito! Poi c’è internet, lentissimo, e i filtri da usare per chattare su Facebook; le feste segrete dove la polizia viene pagata per chiudere un occhio…”. Arriviamo alla stazione fantasma di Tatvan, il traghetto aspetta di attraversare il lago e condurci a Van per salire sul prossimo treno, per-

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siano stavolta, anche nell’arredamento. “Prima della rivoluzione queste navi erano nostre – commenta un vecchio sul ponte – poi sono state date in affitto ai turchi perché in Iran i turisti non ci venivano più”. La gente si guarda, qualcuno sorride. “Così è la vita – aggiunge Saba – ma io non rimarrò qui. Sono stata innamorata una sola volta e non accadrà mai più – esordisce davanti una platea di soli uomini - Come si può pensare di sposare qualcuno senza averci mai vissuto insieme un solo giorno? Ho imparato a reprimere le mie sensazioni. Cambierebbe forse qualcosa se ne parlassi? E con chi? Mia madre? Non potrei mai. E neppure con mia sorella, è troppo giovane. Ecco come si vive oggi in Iran, facendosi un sacco di paranoie, pensieri contorti e ragionamenti malati”. Quando partiamo la luce del tramonto illumina i volti di quanti stanno a poppa sorseggiando tè e riscaldando le palpebre accecate d’arancione. Le donne si preparano a indossare il velo, alcune non lo hanno mai tolto. A Van saliamo sul nuovo treno, che dopo Kapikoy e la fila sonnolenta al confine, si spinge ancora verso est, togliendoci un’altra ora e mezza di sonno. Alle prime luci dell’alba il “serpentone” iraniano si mostra in tutta la sua sontuosità: la moquette è dappertutto, poco ci manca di vedere tappeti appiccicati al soffitto. Dalle tendine color speranza si infiltrano timide fasce luminose che rivelano un arredamento retrò, vibrazioni paglierine e un marrone antiestetico. I finestrini sono appannati e l’ambientazione è resa ancor più caratteristica dal persistere di antichi odori umani. Un colore ambrato permea ogni cosa, i prati luccicano e le scintille appaiono e scompaiono a intermittenza quando una voce urla “Passports!”. I controlli della polizia si ripetono regolari ma non interrompono il breve letargo in cui è sprofondato l’intero vagone. “A Tabriz è sepolto mio padre – mi racconta un giovane – era un artista, un grande poeta, come Hafez. Conosci Hafez? Io lo porto sempre con me”. “Vedrai – mi anticipa – nelle case iraniane potrai non trovare il Corano, ma tutte hanno un libro di poesie di Hafez”. Prende il libro dalla borsa, lo tiene tra le mani e chiude gli occhi, poi, con un gesto deciso, lo apre e inizia a leggere a voce alta. “Quando ho delle domande apro Hafez e lui risponde. Hafez parla di amore e la nostra cultura è costruita sull’amore, in Iran tutto prende vita grazie all’amore. Noi lo chiamiamo così, ma si potrebbe chiamare energia, cosmo, vibrazione…”. i interrompe una dolce signora, vuole fare una fotografia con i suoi figli. “Guardali – dice indicando i suoi ragazzi – sono dei campioni di boxe! Sono il mio orgoglio! Se verrai a Shiraz ti ospitiamo così vedi dove si allenano, abbiamo una palestra solo per loro”. Ridiamo. Mancano un paio d’ore all’arrivo e già cominciano i saluti. Prima però c’è la sosta per la preghiera del Ramadan: intere famiglie si fanno posto sulla lunga fila di tappetini che adorna lo spiazzo d’ingresso alla stazione. Il sole scotta e il canto del muezzin risuona per venti minuti durante i quali tutto si ferma, uomini, mezzi e servizi. Quando ripartiamo, riprende anche la cerimonia del “tarof”, quella sorta di cortesia iraniana fatta di inviti, scuse e gentilezze, tanto divertente quanto imbarazzante. “Questo è il mio numero – dice Hamid con fare pomposo – ovunque tu decida di andare, basta che mi chiami e ti farò trovare tutto il necessario. Questo invece è il numero della mia fidanzata a Mashhad, lei parla inglese, vi capirete. E questa sim è per te, ne avrai bisogno per telefonare in Iran, dentro dovrebbe esserci ancora qualche spicciolo”. Dovrebbero metterli in guardia i turisti del TransAsia: questo treno ti si appiccica come un chewingum sotto le scarpe, ti incolla al sedile, ti lega all’Asia per una ragione che sarà difficile da capire fintanto che ci ostineremo a pensare alle strette di mano come a fugaci presentazioni di circostanza. È l’approccio quello che fa la differenza, il modo di intendere i rapporti umani, il significato che attribuiamo loro e, in fondo, quanto di noi stessi siamo disposti a concedere senza aspettare nulla in cambio. A Teheran piove. Gocce leggerissime e sporche di fuliggine hanno preso il posto dell’aspettativa racchiusa dentro un arrivo. Non siamo ancora scesi dal treno e forse mai scenderemo, rimanendo innamorati della sua umanità, delle sue storie, dei suoi sapori raffinati e schizofrenici.

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In alto: Sul TransAsia Express. In basso: Alla stazione. Turchia/Iran 2009. Foto di NEDA A.S. per PeaceReporter


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Qualcosa di personale Bosnia-Erzegovina

Lettera ai potenti Di Haris Subasic e Anes Makul All'inizio di aprile di quest'anno, a Sarajevo, si è tenuto il secondo vertice tra Usa, Ue e partiti politici bosniaci. Al centro della conferenza, come era già accaduto nell'autunno scorso a Butimir, le riforme necessarie alla Bosnia – Erzegovina per rilanciarsi in chiave d'integrazione europea Sarajevo, come era già successo a Butimir, tutto si è risolto in un nulla di fatto. L'architettura degli Accordi di Dayton, che nel 1995 posero fine alla guerra in Bosnia, hanno di fatto paralizzato il Paese. L'equilibrio tra le tre anime del Paese (croata, serba e musulmana) e tra le due parti della Bosnia (la Federazione Croato-Musulmana e la Repubblica Srpska) si è trasformato in paralisi. Mentre la situazione istituzionale è congelata, sui media ricompaiono termini drammatiche: guerra, secessione. Come se la storia non avesse insegnato nulla a queste classi dirigenti rispetto al peso che bisogna dare alle parole. Spesso, quelle più giuste sono le parole che vengono dalla società civile. PeaceReporter ha chiesto (con l'aiuto di Federico Sicurella) a due ragazzi bosniaci, Haris e Anes, di scrivere un messaggio che verrà consegnato virtualmente ai politici chiusi nella fortezza del vertice internazionale, in previsione del nuovo meeting previsto a Sarajevo per giugno 2010. Sono due studenti del Master Europeo in Diritti Umani e Democratizzazione nell'Europa sudorientale (Erma). Ma sono soprattutto il futuro del Paese.

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li uomini politici bosniaci sono come i cattivi di un film del dopoguerra. Non solo non sono d'accordo su una stessa visione del futuro di questo Paese, ma danno la sensazione di non avere neanche una comune idea della Bosnia – Erzegovina. Quattordici anni dopo la guerra, si comportano come non fossero loro i responsabili della corruzione, della paralisi economica, di questo futuro incerto. Forse non credono che ricada su di loro la responsabilità di costruire il futuro. Aspettano che a farlo sia Dio, Tito, il destino, l'Ue e chissà chi altro. Si comportano come bimbi, che non devono rispondere di quello che fanno. I responsabili sono 'i genitori', cioè il passato.

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Quando farete qualcosa per un'economia che ci soffoca? Quando potremo girare in Europa liberi come gli altri cittadini della ex-Jugoslavia? Nessuna risposta. Questo è quello che l'Occidente, quando viene qui a parlare, a chiedere, a programmare non capisce. Loro chiedono assunzione di responsabilità, la nostra classe politica vuole solo qualcuno sul quale scaricare il futuro. Le domande che la nostra generazione pone, quella delle persone che hanno meno di trenta anni, sono tante. Chi ci risponderà? Per quale motivo questo è un Paese che solo oggi, nel 2010, tenta di provvedere a esaudire i parametri per la richiesta di adesione all'Unione Europea? Oggi che la Serbia e gli altri stati della ex-Jugoslavia hanno già ottenuto un regime di visti agevolati? Di chi è la colpa? Per quale motivo gli stati esteri investono in Croazia o in Slovenia, ma non in Bosnia? Forse la risposta la conosciamo noi: gli altri si fideranno di voi quando smetterete di sputarvi addosso, cominciando a lavorare assieme, per dare finalmente un'immagine credibile di questo Paese. Non possiamo aspettarci che imprenditori o politici stranieri ci capiscano, quando noi per primi siamo incapaci di comunicare la nostra Bosnia – Erzegovina. Questi dirigenti non vengono aiutati neanche dalla classe intellettuale. Dove sono coloro che dovrebbero ispirare le azioni dei politici? Dove sono coloro che dovrebbero essere la voce critica (e costruttiva) dell'opinione pubblica di questo Paese? L'Ue e gli Usa, oltre che dei politici, dovrebbero preoccuparsi anche di loro. Quello che abbiamo capito, però, è che del nostro futuro facciamo meglio a occuparci noi. In alto: Ex soldato colpito da sindrome da stress post traumatico. In basso: Una donna la cui casa è stata distrutta dalla guerra. Bosnia 2009. Foto di Graziano Panfili/OnOff Picture.


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Migranti

Perdere un figlio Di Gabriele Del Grande “La peggiore cosa è questo senso di impotenza. Sono passati due anni. Sappiamo che sono vivi da qualche parte, ma non possiamo fare niente per loro. E lo Stato non ci aiuta a cercarli. I nostri figli non valgono abbastanza.” érouane, Hadif, Faysal, Rédouane. Finiti gli sbarchi, restano loro. I giovani dispersi nel Mediterraneo. Una lista di migliaia di nomi, sulle cui sorti da anni si interrogano altrettante famiglie del mare di mezzo. Soltanto ad Annaba, l'antica Ippona che dette i natali a sant'Agostino, in Algeria, i dispersi censiti sono 92. Scomparsi sulla rotta per la Sardegna tra il 2007 e il 2009.

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Mérouane è partito il 17 aprile 2007. E da allora è scomparso. Quella sera aveva addosso una strana euforia. Aveva chiesto al padre, Kamel, se poteva andare tre giorni a Tunisi con degli amici. Si salutarono velocemente, senza tante parole. Il pomeriggio del giorno dopo, Kamel ricevette la telefonata della moglie in lacrime. Piangeva a singhiozzi. Mérouane aveva preso il mare, glielo aveva detto un suo amico. Suo padre lasciò lo studio grafico e si precipitò a casa per capire quanto di vero ci fosse in quella storia. In effetti c’era un testimone. Su quella stessa imbarcazione viaggiava anche Rédouane, il figlio di Hamdi, della baraccopoli di Sidi Salem. A differenza di Kamel, Hamdi era a conoscenza dei piani del figlio e lo aveva addirittura incoraggiato. Senza nessun titolo di studio, con un padre disoccupato, cosa poteva sperare dalla vita qui ad Annaba? Rimanere a Sidi Salem in quelle condizioni significava rischiare di finire nei brutti giri malavitosi di cui pullulava il quartiere e magari finire in galera a vent'anni. Rédouane era un ragazzo ambizioso. A Sidi Salem aveva una fidanzata. Volevano sposarsi. Ma un matrimonio in Algeria, con i tempi che correvano, non sarebbe costato meno di quattromila euro. E lui non voleva certo fare la fine del fratello maggiore, che a trent’anni era ancora scapolo e senza prospettive. Lui pensava in grande, avrebbe aiutato anche il padre a uscire da quella baracca, senza dover aspettare per anni le case popolari promesse dal Comune. E poi molti suoi amici erano già partiti. In quel periodo era facile arrivare in Sardegna.

compagni di viaggio più grandi, venivano ad assicurarsi che il padre fosse al corrente di tutto e che il figlio non stesse partendo a sua insaputa, magari dopo avergli rubato in casa. Il padre li rassicurò, dette la sua benedizione a Rédouane e lo baciò per un'ultima volta, come si faceva prima di un lungo viaggio. Partirono da una spiaggia isolata di Echatt, al riparo da sguardi indiscreti. Al timone c’era un marittimo, Kasmi Abdelouaheb, classe 1968. Uno con il libretto di navigazione, uno che in mare c’era cresciuto, lavorando per anni sui mercantili in Francia e in Belgio. a barca salpò alle dieci di sera. Due ore dopo, a mezzanotte, Hamdi riuscì a parlare con il figlio, telefonando a uno dei ragazzi che si era portato a bordo il cellulare. La sorella gli parlò di nuovo alle quattro del mattino, e per un’ultima volta alle nove. Più tardi, quando lo stesso Hamdi provò a comporre di nuovo il numero, a metà mattinata, il telefono era irraggiungibile. Rédouane sarebbe scomparso nel niente, assieme al figlio di Kamel e agli altri otto ragazzi dell'equipaggio.

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Da quel giorno, i padri dei ragazzi dispersi non si danno per vinti. Sono pronti a scommettere che i figli non siano morti annegati. È impossibile, dicono, che i naufraghi siano scomparsi nel niente. Ma nei faldoni della Prefettura di Cagliari, degli algerini scomparsi in mare non c'è traccia. E allora l'unica ipotesi che resta in piedi è che si trovino detenuti in qualche carcere in Tunisia. Ma non ci sono prove. Il comitato dei padri, guidato dal signor Kamel, ha prodotto un dossier sui 92 dispersi e l'ha consegnato ai deputati del parlamento algerino, alle ambasciate e alla stampa, ma senza nessun risultato. La cosa sembra non interessare a nessuno. I padri si ritrovano sempre più soli, abbandonati al loro sconforto. A un lutto impossibile da elaborare senza una salma su cui piangere.

Il padre non poté che sostenerlo. E probabilmente non se lo sarebbe mai perdonato. Non si sarebbe mai perdonato di aver pagato il biglietto della sua scomparsa. A stento tratteneva le lacrime sul volto asciutto mentre ne parlava. Ma dopotutto, non avrebbe potuto fare altrimenti. Capiva perfettamente le ambizioni del figlio. Lui aveva fatto lo stesso da giovane. Dal 1987 al 1993 aveva vissuto e lavorato in Italia, tra Brescia, Bergamo, Milano e Ravenna.

«Ma lo sanno - si chiede Kamel - i Sarkozy, i Berlusconi, i Bouteflika, i Ben Ali cosa vuol dire lavare il sedere di un neonato? Conoscono l'odore dei pannolini? Hanno mai accompagnato per mano il proprio bambino il primo giorno di scuola? Ma lo sanno i Sarkozy, i Berlusconi, i Bouteflika, i Ben Ali cosa vuol dire perdere un figlio?».

La sera della partenza, Rédouane passò da casa con il figlio di Kamel, Mérouane, e con altri tre ragazzi che si apprestavano a partire. Erano i

In alto: Chiaia e Hambuha giocano in casa. In basso: Festa di fidanzamento nel campo di El Ayou. Algeria 2009. Foto di Gaia Squarci/WitnessJournal.net

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Rubriche

A teatro di Silvia Del Pozzo

Kamikaze di famiglia In tivù di Sergio Lotti

Alla scoperta dei veri colpevoli

Ustica, un mistero lungo trent’anni Il 27 giugno 1980, alle 20 e 59, il DC-9 I-TIGI della compagnia aerea Itavia, decollato a Bologna e diretto a Palermo, scompare dagli schermi radar nei cieli del mar Tirreno, a nord dell'isola di Ustica e precipita in mare. Muoiono tutte le 81 persone a bordo dell'aereo, tra cui 13 bambini. Decenni di indagini, centinaia di udienze, migliaia di pagine processuali, perizie, ipotesi, depistaggi e decine di decessi giudicati “sospetti”, per uno dei fatti più inquietanti della recente storia italiana.

Ustica, scenari di guerra di Leonora Sartori e Andrea Vivaldo con un intervento di Daria Bonfietti, presidente dei Parenti delle Vittime della Strage di Ustica Edizioni BeccoGiallo beccogiallo.it

Da questa brutta storia, il Paese ne esce con le ossa rotte, ferito nella sua sovranità. La scienza e la magistratura non possono fare più nulla. Soltanto la politica, e con essa la diplomazia, può ancora decidere di andare fino in fondo, chiedendo conto di ciò che è accaduto ai nostri alleati e ai suoi apparati d’intelligence con la più elementare e scontata di ogni domanda: perché? dalla prefazione di Fabrizio Colarieti

L’inesauribile vena polemica del Cavaliere qualche giorno fa ha partorito un formidabile scoop: a far apparire la mafia così potente e pericolosa non sarebbero tanto l’efferatezza dei suoi membri e le complicità di nutriti settori della politica e della società, quanto l’ingenuità degli autori che confezionano per la televisione fiction di successo come “La Piovra” e scrivono libri di grande impatto come “Gomorra”. In parole povere, quelli come Roberto Saviano che rischiano la vita nella convinzione che la cultura dell’omertà sia il fertilizzante indispensabile a tutte le mafie, e quindi pensano che il modo migliore per indebolirle sia far emergere con i chiarezza fatti, ambienti e persone che le riguardano, sarebbero in realtà i veri fiancheggiatori, che forniscono alla mafia un aiuto promozionale, rendendola famosa in tutto il mondo e accrescendone quindi la pericolosità percepita. Senza contare il danno d’immagine che ne deriva al nostro Paese. Questa tesi è stata esposta durante la conferenza stampa convocata dopo un Consiglio dei ministri, trasmessa integralmente su Sky TG24. Gli altri ministri presenti ovviamente si sono ben guardati dal correggere il tiro. D’altra parte il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, e quello della Difesa, Ignazio La Russa, erano troppo occupati a esporre i successi ottenuti, rivolgendosi spesso con la dovuta deferenza al capo invece che alla attonita platea di giornalisti, come se la conferenza avesse soprattutto lo scopo di rassicurare amorevolmente il presidente sulla validità della sua azione di governo. Domande dei giornalisti: una sola, rimasta senza risposta. Un altro inatteso scoop ce lo regala ad Annozero il saggista statunitense Edward Luttwak, uno che l’America l’ha scoperta in Italia, dove lo intervistano anche quando non ha niente da dire. Ora ci rivela che non sono i terroristi e gli eserciti a prolungare le guerre e a provocare stragi, ma le organizzazioni non governative che curano i feriti e nutrono gli affamati, consentendo loro di riprendersi e tornare a combattere. Queste organizzazioni “in odore di santità”, come lui le definisce, che non rispondono a nessuno e non distinguono fra buoni e cattivi, con le proprie strutture e la propria logistica finirebbero spesso per favorire i cattivi, piegandosi alle loro direttive. C’è solo da sperare che nel frattempo qualcuno abbia spiegato a Luttwak che cos’è una organizzazione non governativa.

È diventata purtroppo un’immagine familiare quella dei volti drammaticamente inespressivi dei kamikaze islamici - uomini, ma sempre più spesso donne - che lanciano il loro ultimo messaggio in un video pochi giorni, od ore, prima di farsi esplodere. Dalle loro parole è difficile leggere, al di là del fanatismo grondante delle frasi di rito, quali siano i veri sentimenti intimi - paura, rabbia, delusioni, rimpianti - che agitano i loro cuori e attraversano le loro menti esaltate. Che cosa li spinge, che cosa fa accettare alle loro famiglie quei gesti estremi? Sono gli interrogativi che deve essersi posto anche Antonio Tarantino, commediografo bolzanino-torinese quando ha pensato a “La casa di Ramallah”, pièce a tre voci che andrà in scena dal 6 al 16 maggio al teatro India di Roma. Racconta del viaggio in treno, attraverso una Palestina martoriata, di due genitori e della figlia che accompagnano al luogo dove la ragazza dovrà compiere il suo folle sacrificio. È un lungo, dolente congedo di un padre e una madre che condividono quella scelta di morte, un dialogo che suona surreale e insieme intimo, intessuto di piccoli accenni familiari, ma anche di autosuggestioni e di inquietanti fantasmi. La regia dello spettacolo è di Antonio Calenda, Giorgio Albertazzi veste i panni del padre, Marina Gonfalone interpreta la madre, Daniela Giovannetti la figlia kamikaze. Inquietante il messaggio che la ragazza-bomba lancia “dopo”, ai genitori e al mondo: “Quando esplode, il tuo corpo si divide in un miliardo di frammenti…un miliardo di testimoni con la facoltà di riflettere, riferire…che dio non esiste, che pace e guerra sono destinate a inseguirsi nel cerchio rovente del tempo, come si inseguono amore e odio, giorno e notte…padri e figli, la ‘loro’ storia e la nostra. E nessuno ha ragione, completamente ragione, né completamente torto”. Un pentimento doloroso, una riflessione amara che riflette il sentire della giovane musulmana o quello dell’autore? Per chi a teatro invece vuole sorridere, Paolo Rossi porta in scena allo Strehler di Milano (4-30 maggio), “l’umile versione pop”, come precisa il sottotitolo, del celeberrimo “Mistero buffo” di Dario Fo. Un omaggio al grande giullare milanese e insieme un racconto su doppio binario, le parole di Fo a confronto con le riflessioni di Rossi su un tema comune: gli umili di ieri e di oggi e i loro sberleffi contro chi detiene il potere. “La casa di Ramallah” di Antonio Tarantino: Roma, Teatro India (tel. 06 684000345), dal 6 al 16 maggio. “Mistero buffo” di Dario Fo e Paolo Rossi: Milano, Teatro Strehler (tel.848 800304), dal 4 al 30 maggio.

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Al cinema di Nicola Falcinella

I gatti persiani Immagini proibite di Teheran nel film I gatti persiani di Bahman Ghobadi, un ritratto della scena musicale “underground” iraniana realizzato nei mesi precedenti le elezioni presidenziali del giugno scorso. Il film, del talentuoso regista iraniano che si era segnalato nel 2000 con “Il tempo dei cavalli ubriachi”, è stato presentato lo scorso anno al Festival di Cannes, ricevendo una menzione speciale nella sezione Un certain regard. Se il titolo inglese è Nobody knows about Persian Cats, a indicare che i gatti persiani sono sfuggenti e si sa poco di loro, così la società persiana di oggi è tanto complessa e frastagliata che è quasi impossibile coglierla in tutte le pieghe. Il coraggioso regista ha girato quasi tutto di nascosto partendo da elementi veri e da una sceneggiatura scritta con Roxana Saberi. Un lavoro dal quale prorompe l’urgenza di raccontare e nel quale si sente il respiro della vita, l’anelito dei giovani a crearsi i loro spazi. Due giovani musicisti, un ragazzo e una ragazza (Negar Shaghaghi e Ashkan Koshanejad) appena rilasciati dal carcere, decidono di formare una band. Sognano di emigrare e portare le loro canzoni all’estero. Insieme iniziano una peregrinazione nella caotica Teheran alla ricerca di altri musicisti per la band, di un luogo dove provare (fornito di energia elettrica, insonorizzato e con vicini tolleranti che non facciano i delatori), di uno spazio per il concerto, ma anche per avere i documenti per

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l’espatrio verso l’Europa. Si ride e ci si appassiona, tra prove e feste di giovani. E ci si preoccupa quando un poliziotto blocca l’auto con i due perché trasportano un cagnolino. Emblematica la lunga ed esilarante sequenza (filmata da uno spiraglio di porta aperta) del dialogo tra un giovane che pirata dvd e un funzionario che lo interroga fino a che il primo riesce, ribaltando in continuazione la logica della controparte ed esasperandolo, a ottenere il via libera. La musica è una miscela di pop rock e suoni tradizionali, costretta alla clandestinità perché il regime vieta ogni contaminazione con l’Occidente.


In libreria

Musica

di Licia Lanza

di Claudio Agostoni

In fuga dalla mia terra di Emiliano Bos

Tamikrest “Adagh” Glitterhouse Records

Partire o fuggire? Per Emiliano Bos è una mancanza di alternativa, un’urgenza quella che spinge a una fuga verso nord per gli africani, verso ovest per le popolazioni dell’est, a un’attesa infinita per gli iracheni rifugiatisi in Giordania. A una fuga dall’Italia stessa per la perdita del lavoro, la mancanza di documenti, il clima razzista che vede nell’immigrato un delinquente quasi certo. L’autore si è messo in viaggio e ha raccolto le storie di migranti, profughi, sfollati, perseguitati politici, irregolari. Mai di clandestini, perché salvarsi la vita non può essere una colpa. Attraversa l’Italia da sud verso nord, salpa sulle piroghe del Senegal, percorre le piste del Sahara, scopre la Moldavia delle nostre badanti in trasferta, esplora Calais con le sue baraccopoli così vicine al sogno d’oltremanica, percorre le rotte dei pirati. Incontra persone che scappano da guerra, fame, miseria. Persone che non si fermano davanti a nulla, perché non hanno nulla da perdere, se non la vita. Uomini e donne che si mettono in viaggio a piedi o su mezzi di fortuna, consapevoli dei pericoli che corrono, che quando pensano di essere arrivati incontrano solo barriere, muri, ostacoli. “Leggendo questo libro – scrive Don Virginio Colmegna nella prefazione – entra dentro di noi lo sguardo dilatato di un viaggio che nasce da un’inquietudine di dolore e sofferenza, come ci raccontano le tante storie di naufraghi, di coloro che cercano disperatamente di lasciare la propria terra e spesso incontrano ecatombe e morte”.

Tinariwen ed Essakane, rispettivamente il nome di una band di blues tuareg e di una località persa nel deserto del Sahara. Se non fossero esistiti i primi e se i Tamikrest nel 2008 non avessero partecipato al Festival in the Desert, che si è tenuto a Essakane, difficilmente questo cd avrebbe visto la luce. Ousmane Agg Mossa, maliano di Tinza, oggi ventisettenne, è cresciuto suonando la chitarra secondo la tradizione tishoumaren, avendo come modello Ibrahim Ag Alhabib, il Jimi Hendrix del blues Tuareg, nonché il leader indiscusso dei Tinariwen. Al Festival in the Desert i Tamikrest hanno avuto la fortuna di avere come vicino di tenda Chris Eckman dei Dirtmusic che, innamoratosi della loro musica, ha affittato i Bogolan Studios (gli studios fondati da Ali Farka Touré a Bamako) e ha prodotto questo disco permettendoci di arricchire, nella nostra discoteca, la sezione dedicata alla musica tuareg. Seguendo l’esempio del suo guru, anche Ousmane Agg Mossa ha sfruttato la possibilità di avere una ribalta internazionale per raccontare le difficoltà che sta vivendo il suo popolo. Un popolo nomade, che non conosceva la proprietà della terra, perché la considerava un bene comune, che oggi deve fare i conti con l’ingordigia di chi vuole sfruttare le immense ricchezze che sono state scoperte nel Sahara (giacimenti petroliferi e di gas in Algeria, di uranio in Mali e Niger). Un problema che si aggiunge alla siccità degli anni ‘70 e ‘80 che, uccidendo una buona parte del bestiame, base dell’economia tuareg, ha distrutto lo stile di vita ancestrale di questo popolo nomade, obbligandolo a diventare stanziale. Le canzoni dei Tamikrest parlano quindi della perdita di una identità culturale, della perdita del controllo delle terre di cui compagnie, nazionali e straniere, bramano sfruttare il sottosuolo, delle rivalità politiche tra i diversi Paesi che ospitano queste popolazioni nomadi. Musicalmente sono più acerbi dei Tinariwen, ma promettono bene. Ascoltare per credere Outamachek, splendido esempio di psichedelia desertica… www.myspace.com/tamikrest

Altreconomia, 2010, 144 pagine, € 13,00

In rete di Arturo Di Corinto

Movimenti sociali su Internet Secondo il professore di Harvard Yochai Benkler, autore del libro La ricchezza della rete, coloro che si collegano a Internet nei Paesi sviluppati, più di un miliardo di persone, hanno a disposizione da quattro a sei miliardi di ore di tempo libero al giorno che possono essere sfruttate per produrre beni comuni digitali. E ha ragione: basta guardare gli

ottimi risultati dell'enciclopedia on-line Wikipedia che offre milioni di voci redatte dagli utenti consultabili gratuitamente da chiunque. Ma questo tempo libero può essere occupato anche per fare politica. Sicuramente a vantaggio dei partiti, come nel caso dell'organizzazione americana MoveOn.org che ha tirato la volata dei Democratici statunitensi prima di Al Gore e poi di Obama. In Italia un esempio di questa attitudine sono state le Fabbriche di Nichi (Vendola, il governatore della Puglia), o il Network giovani del Partito Democratico. Ma ci sono anche quelli che pensano la politica come un servizio non a vantaggio di partiti e candidati ma dei cittadini. OpenPolis.it, ad esempio, è una community di circa diecimila utenti attivi che osservano, registrano e pubblicano sul web le storie, le biografie e le dichiarazioni dei 130 mila politici del nostro Paese a beneficio di chi vuole capire la politica conoscendo meglio i propri rappresentanti. In verità Internet è da sempre una piattaforma per chi vuole informare, confrontarsi, discutere, decidere insieme, cioè fare politica, nella sua prima e più nobile accezione. All'inizio era Indymedia, una creatura dell’informazione indipendente del secolo scorso, creata da una generazione di attivisti dei media intenzionata a fare informazione senza doverla delegare ad altri, attingendo alla propria rete di relazioni e a patto di avere un computer su cui mettere le mani. Nel 1999 era il “popolo di Seattle” a contestare i vertici del Wto via computer, dieci anni dopo è il “popolo viola” a contestare un governo su Internet. I “viola” sono stati il primo movimento politico a organizzare una grande manifestazione di piazza con l'aiuto di Facebook: il No Berlusconi-Day, per chiederne le dimissioni da Presidente del Consiglio. Ma il ventaglio dei movimenti politici in rete, fatti da persone che decidono di dedicare il proprio tempo e le proprie competenze a una causa collettiva senza chiedere il permesso a nessuno, tanto meno del denaro, è molto variegato. Alcuni di questi usano la satira per diffondere un messaggio politico. Il “popolo del pomodoro”, nato dall'idea di alcuni giovani monzesi dell'Unione degli Studenti, è un gruppo Facebook che ha scommesso sulla possibilità di trovare su Internet più fan di quanti ne potesse avere il “Presdelcon” col fine di ridicolizzare i suoi sondaggi di gradimento. Il gruppo è stato protagonista di una singolare iniziativa organizzando un flash mob (una mobilitazione lampo), con annesso lancio di pomodori alla sede romana della Rai per protestare contro l'informazione faziosa dei suoi telegiornali. Altri movimenti radicati nella società svolgono silenziosamente la propria missione, sia essa la difesa dell'ambiente o la cura dei malati e poi si rivolgono alla rete quando diventa necessario. La dimostrazione di questa tendenza si è avuta il 17 aprile alla manifestazione in cui Emergency ha riunito i suoi sostenitori in piazza per chiedere a gran voce la liberazione dei propri operatori, ostaggi del governo afgano, vincendo la melina del ministro Frattini. In questo caso l'uso della rete è stato determinante per far conoscere l'organizzazione, i motivi della manifestazione e innescare una catena di solidarietà con quattrocentomila firme di sostegno raccolte su Internet. 29


Per saperne di più GIAPPONE LIBRI KENZABURO OE, «Okinawa Noto», Iwanami Bunsho, 1970 Il Premio Nobel giapponese Kenzaburo Oe - noto per i suoi romanzi dal forte contenuto introspettivo - ha pubblicato nel 1970 una controversa opera di non-fiction basata sulle testimonianze dei sopravvissuti all'invasione di Okinawa. Il libro è divenuto in breve un caso politico nazionale, a causa dell'esplicito atto d'accusa formulato da Oe contro gli ufficiali delle truppe di difesa, i quali costrinsero parte della popolazione civile a suicidarsi per dimostrare all'invasore l'inflessibilità del popolo giapponese. Le violente requisitorie lanciate contro lo scrittore da una parte del mondo politico hanno trovato sfogo in una causa per diffamazione iniziata nel 2005 e terminata nel 2007 con un verdetto di piena assoluzione. Stando alle testimonianze, anche quando non furono direttamente influenzati dal personale militare, i suicidi di massa avvenuti sull'isola nei giorni dell'offensiva risentirono largamente della feroce propaganda anti-americana, che dipingeva gli invasori come un'orda di selvaggi assetati di sangue. SIMON FOSTER, «Okinawa - 1945, l'ultima battaglia», Mondadori, 2002 Un agile testo storiografico che ricostruisce le fasi cruciali dell'invasione di Okinawa; scritto da uno storico militare, il testo difetta di un adeguato commento alle fasi più cruente della battaglia di terra, ma compensa tali mancanze attraverso una copertura assai dettagliata dei piani statunitensi per la conquista dell'arcipelago. Un testo più recente, che aggiunge alcuni significativi elementi al lavoro di documentazione condotto finora dagli storici statunitensi è invece "The Ultimate Battle: Okinawa 1945-The Last Epic Struggle of World War II" di Bill Sloan, uscito per Simon & Schuster nel 2007. Una serie di documenti di prima mano sui combattimenti intorno all'isola è reperibile nelle raccolte di articoli scritti dal corrispondente di guerra Ernie Pyle, deceduto durante la presa di Ie Shima, "Ernie's War: The Best of Ernie Pyle's World War II Dispatches", Indiana University Press. SUMIGAWA BUNSHO, «Ayako Sono Ikenie no shima (l'isola del sacrificio)», 1970 La vasta produzione storiografica e letteraria in lingua giapponese sulla tragedia di Okinawa non ha purtroppo avuto vasta circolazione fuori dal Giappone. Oltre alle opere della scrittrice Ayako Sono sulla terribile ordalia delle donne okinawesi, si segnalano le ricerche storiografiche di Masaaki Anya ("Okinawa Sen Saitaiken" (rivivere l'esperienza della battaglia di Okinawa - 1983) e Hayashi Hirofumi ("Okinawa Sen to Minshuu" - La battaglia di Okinawa e la popolazione civile 2001).

FILM OSAWA YUTAKA, «Gama-Gettou no Hana», 1996 Un'anziana superstite della battaglia di Okinawa parla con il nipote - nato dell'unione tra la figlia della donna e un militare statunitense - dei drammatici giorni dell'invasione; il racconto si articola 30

lungo il corso delle operazioni militari, dalla preparazione in vista degli imminenti attacchi, all'inizio dell'offensiva, alla fuga dall'avanzata delle armate statunitensi, fino a giungere in una piccola grotta lungo il litorale in cui profughi e militari instaurano una difficile convivenza. Le fasi finali del film documentano in maniera vivida e spietata le tensioni che anticipano l'ultimo dilemma: suicidio o resa. Il film si configura in parte come un'allegoria delle molte questioni irrisolte lasciate in eredità dall'occupazione. TAKESHI KITANO, «Sonatine», 1993 Distante dai temi della guerra e dell'occupazione, lo sguardo del poliedrico regista Takeshi Kitano sull'isola di Okinawa si focalizza su colori e sensazioni in un delicato contrappunto tra lirismo e tragedia. Il film segue la storia di un piccolo manipolo di yakuza che tentano di allacciare relazioni con la criminalità attiva sull'isola; a mano a mano che i loro contatti con la popolazione si intensificano, i gangster abbandonano l'atteggiamento da "duri" e si arrendono all'abbraccio di una natura selvaggia e feconda, riscoprendo una fascinazione infantile per la vita e i suoi misteri. Nonostante il tragico epilogo - tipico del Kitano noir - il film è pervaso da una vitalità intensa e struggente, in perfetto equilibrio tra commedia e dramma.

a modo suo, a spiegare a ragazzi e ragazze la letteratura. Per aggirare divieti e sorveglianti, inventa un sistema di accostamenti e immagini che suonasse efficace per gli studenti e, al tempo stesso, innocuo. NICOLAS BOUVIER, «La polvere del mondo», Diabasis, 2004 Questo è il racconto del primo viaggio verso Oriente, nel 1953, di Bouvier scrittore e fotografo. Partito da Ginevra su una Fiat "Topolino", raggiunge a Belgrado il suo amico pittore Thierry Vernet, in compagnia del quale continuerà il viaggio verso Est, fino a Samarcanda. Ritenuto la bibbia di una generazione di viaggiatori e di scrittori di viaggio, non tanto per il suo fascino esotico, quanto per il modo inimitabile in cui si fondono humour e angoscia.

FILM SITI INTERNET http://www.pref.okinawa.jp/english/index.html Sito istituzionale della Prefettura di Okinawa. Qui è possibile trovare un vasto campionario di informazioni relative a storia, patrimonio culturale, attrazioni turistiche e scenari naturali. Una pagina è dedicata interamente al "Problema delle basi statunitensi" con notizie dettagliate relative all'impatto delle strutture militari su ambiente e popolazione. Fedele alla linea del governo regionale, il sito documenta in maniera puntuale incidenti legati alla presenza militare Usa e crimini commessi dal personale delle basi. http://www.peacemuseum.pref.okinawa.jp/english/index.html Secondo lo stesso principio che ha ispirato la realizzazione del celebre "Museo della Bomba" a Hiroshima, la memoria delle sofferenze del popolo okinawese è preservata in una struttura museale nell'area di Itoman. Questo canto celebrativo dello "Spirito di Okinawa" (misto di auto-isolamento e aspirazione alla pace) si configura come "una reazione umanissima all'orrore della guerra, in nome del rispetto della dignità umana". http://www.militaryhistoryonline.com/wwii/okina wa/default.aspx Una ricostruzione fase per fase dell'offensiva militare statunitense sull'arcipelago delle Ryukyu, dall'elaborazione del piano di attacco e la disputa MacArthur-Nimitz fino alle cruente giornate delle operazioni a terra, attraverso la lunga e complessa fase delle ricognizioni navali. Pur essendo inserito in un sito di storia militare, il resoconto dedica un'intensa parentesi alla sorte delle popolazione civile, ridotta - nelle parole del governatore dell'isola Masahide Ota - a "pedine su una scacchiera di Go".

TURCHIA / IRAN

HARUTYUN KHACHATRYAN, «Sahman (Linea di confine)», 2009 Armenia e Azerbaijan, un confine differente, abitato da reduci e rifugiati dei conflitti che hanno insanguinato la regione. Il tempo, per loro, è congelato in una clessidra di pietra. Un giorno alcuni di loro trovano un bufalo e lo portano nella fattoria in cui vivono. Qualcosa, all'improvviso, cambia. Khachatryan ricostruisce una storia da lui stesso vissuta alcuni anni fa, raccontando al tempo stesso l’impronta della guerra nelle coscienze e nei corpi delle persone. SHIRIN NESHAT, «Donne senza uomini», 2010 Quattro donne iraniane nell'estate del 1953: un colpo di stato guidato dagli Usa depone Mohammad Mossadegh, Primo Ministro democraticamente eletto, riconsegnando nelle mani dello Shah il potere. Nell'arco di alcuni giorni, le storie di quattro donne (appartenenti a classi sociali differenti) si intrecciano sullo sfondo dei tumulti politici e sociali. THEO ANGELOPOULOS, «Lo sguardo di Ulisse», 1995 A., un regista greco, torna in patria per presentare il suo ultimo lavoro. L'occasione è l'incipit per un lungo viaggio, nella coscienza e nel passato, attraverso l'ex-Jugoslavia devastata dalla guerra. Il pretesto è quello di ritrovare tre rulli di pellicola non sviluppata dei fratelli Maniakas, due cineasti che nel 1905 portarono nei Balcani la prodigiosa macchina che riprendeva i movimenti degli esseri umani. Un racconto ciclico che narra e, allo stesso tempo, discute la possibilità del narrare per immagini. Angelopoulos parla tramite il protagonista, in un film in cui la realtà si mescola alla leggenda.

SITI INTERNET http://www.tcdd.gov.tr Sito ufficiale delle ferrovie turche, anche in inglese, per consultare gli orari dei treni da e per il Medio Oriente.

LIBRI NAFISI AZAR, «Leggere Lolita a Teheran», Adelphi, 2004 Dopo la rivoluzione guidata da Khomeini, per venti anni, le strade e i campus di Teheran erano teatro di violenze. Azar Nafisi ha voluto provare,

http://www.couchsurfing.org Network globale per facilitare scambio di ospitalità, informazioni e suggerimenti. Un buon modo di trovare appoggi, a cavallo tra l'Europa orientale e l'Asia.


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Regione Toscana Diritti Valori Innovazione Sostenibilità ONLUS

mostra-convegno internazionale

terrafutura buone pratiche di vita, di governo e d’impresa verso un futuro equo e sostenibile

firenze - fortezza da basso

abitare

28-30 maggio 2010

VII edizione ingresso libero

produrre

• appuntamenti culturali • aree espositive • laboratori • animazioni e spettacoli

coltivare agire

governare

Terra Futura 2010 è promossa e organizzata da Fondazione Culturale Responsabilità Etica Onlus per il sistema Banca Etica, Regione Toscana e Adescoop-Agenzia dell’Economia Sociale. È realizzata in partnership con Acli, Arci, Caritas Italiana, Cisl, Fiera delle Utopie Concrete, Legambiente. In collaborazione e con il patrocinio di Provincia di Firenze, Comune di Firenze, Firenze Fiera SpA e numerose altre realtà nazionali e internazionali. Relazioni istituzionali e Programmazione culturale Fondazione Culturale Responsabilità Etica Onlus via Tommaseo, 7 - 35131 Padova tel. +39 049 7399726 fax +39 049 7394050 email fondazione@bancaetica.org

Organizzazione evento Adescoop-Agenzia dell’Economia Sociale s.c. via Boscovich, 12 - 35136 Padova tel. +39 049 8726599 fax +39 049 8726568 email info@terrafutura.it

www.terrafutura.it


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