E il mensile febbraio 2012

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FEBBRAIO 2012 • EURO 4,00

FEBBRAIO 2012

Distretti industriali.Spese militari.Bosnia.Dietro le sbarre

E - IL MENSILE. GIÀ PEACEREPORTER • ANNO VI - N°2- FEBBRAIO 2012 • EURO 4,00 • PUBBLICAZIONE MENSILE POSTE ITALIANE S.P.A.- SPEDIZIONE IN ABB. POSTALE - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N°46) ART. 1, COMMA 1, LO/MI

E-IL MENSILE

Mondo prigioniero Italia i distretti e la crisi F–35 soldi(nostri) al vento

hanno scritto: Roberta Biagiarelli.Christian Elia.Luciano Del Sette Claudia Priano.Alessandro Scotti.Francesco Vignarca hanno fotografato e illustrato: Elfo.Dino Fracchia.Germana Lavagna Oscar Sabini.Emiliano Scatarzi.Livio Senigalliesi.Ivano Vitali



l’editoriale

la rete, il filo Intanto, una notizia: abbiamo un nuovo sito: www.eilmensile.it. Molti se ne saranno già accorti, altri no. Veniteci a trovare anche sulla Rete, dove peraltro ci sono canali di comunicazione che vogliamo tenere aperti con voi. Un nuovo sito che unisce l’esperienza di PeaceReporter.net con quella di questo “quasi nuovo” giornale. Noi, come ho scritto nell’editoriale di benvenuto al nuovo sito, abbiamo sentito l’esigenza di raddoppiare gli sforzi e di trovare il modo per parlare di più cose e a più persone. Con un linguaggio meno elitario, e soprattutto con più linguaggi. Perché oggi questo vuole la Rete. Perché di questo oggi c’è un gran bisogno. Crediamo che ci sia un gran bisogno di E-ilmensile online, così come i numeri ci hanno detto che un gran bisogno di E-il mensile c’era. E così come questo numero di febbraio dimostra. Un filo lega infatti il lavoro, che raccontiamo con un bellissimo viaggio nei distretti industriali e con un incontro con un cuoco particolare, nato a Shanghai e finito in Italia e in Piemonte a prendere tre stelle Michelin con i suoi tajarin, alle folli spese per armamenti ed esercito, che nonostante quel che dica la propaganda non servono ad aumentare o a difendere alcuna occupazione, ma distraggono enormi risorse che potrebbero essere investite in tutt’altro modo. Persino nel dare un’esistenza dignitosa a chi finisce per mille motivi in galera. E sempre più in quei mille motivi troviamo disperazione e miseria e mancanza di alternative. C’è un senso in quello che sta succedendo nel mondo. Ed è di quel senso che con questo giornale vogliamo continuare a parlare. Il senso è la scelta fatta dai potenti: privilegiare chi è ricco a discapito di chi ricchezze non ha e pure di chi è proprio miserabile. Qui come nel Sud del mondo, da noi come dappertutto. E con ogni mezzo, che sia etereo e spesso incomprensibile ai più come la finanza o che sia tremendamente comprensibile e per nulla etereo come una bomba sganciata da un aereo, che pur nell’etere si sposta. Buona lettura, ancora una volta. E continuate – o cominciate, se non lo avete mai fatto – a farci sapere che cosa pensate di questo giornale, a raccontarci le vostre storie, a proporci argomenti, a discutere. Su www.eilmensile.it Maso Notarianni

Ivano Vitali, Gomitolo La Repubblica, carta stampata, 2005


in questo numero 5 le storie

Edizioni speciali

50 il fumetto

104 domani

A casa dei Felicioni

scritto e disegnato da Sergio Algozzino

Documentario di Matteo Scanni Cinema di Barbara Sorrentini Teatro di Simona Spaventa Rete di Arturo Di Corinto Arte di Vito Calabretta Musica di Carlo Boccadoro Design di Claudia Barana Libri di Alessandra Bonetti

di Stella Spinelli foto di Miriam Caltabiano

56 l’intervista

110 sul campo

di Angelo Miotto foto di Germana Lavagna

di Cecilia Strada foto di Mattia Velati

di Camilla Mastellari

Ciak d’Africa di Francesca Viscone

Il fine giustifica il mezzo di Christian Elia foto di Alfredo D’Amato

Il caffè per bambini di Alessandra Fava

12 il reportage

La terza Italia Pelli ad Arzignano, piastrelle a Sassuolo, scarpe a Fermo, tessuti a Prato, ma anche Information Technology sotto l’Etna: è la mappa dei distretti italiani, territori a vocazione unica che attorno a quella sviluppano cultura, linguaggio, modelli di relazioni industriali. Il nostro viaggio al tempo della crisi Sos distretti Lo scrittore Edoardo Nesi è l’interprete più empatico di questo pezzo d’Italia: l’intervista di Christian Elia foto di Emiliano Scatarzi

32 la campagna

C’eravamo tanto armati Il comparto delle spese militari passato al microscopio: a cominciare dallo spreco più grande, ovvero l’acquisto degli F-35 di Francesco Vignarca foto di Dino Fracchia

40 le cronache

Storie dall’altopiano Prendete alcune decine di manze, portatele da Asiago alla Bosnia, sopra Srebrenica, e consegnatele a chi cerca di ricostruirsi la vita, sconvolta dalla guerra. È la scommessa di Gianni Rigoni Stern e di Roberta Biagiarelli che qui la racconta. Funziona di Roberta Biagiarelli foto di Livio Senigalliesi

Ci vediamo in edicola dal 25 febbraio con il numero di marzo

Fabrizio De André La parola a loro: a Bocca di rosa, a Carlo Martello, al Pescatore e a don Raffaè: raccontino loro chi li ha creati, regalandoci ogni volta un pensiero nuovo

L’ignota scatola nera A spasso per il cervello con un Virgilio d’eccezione, Enzo Soresi. Che spiega la storia e la geografia di un organo molto dinamico

62 il portfolio

Le mie prigioni “Behind Bars” è il nome del progetto che ha portato l’autore a fotografare celle e reclusi in giro per il mondo, tornando ogni volta, come dice lui stesso, con una esperienza (talvolta surreale come quella raccontata) e una domanda in più. Sul carcere, sulla pena, su chi fa la guardia e su chi sta dietro le sbarre foto e testo di Alessandro Scotti

86 l’incontro

Indovina chi cucina Nascere a Shanghai e ritrovarsi a saltare tagliolini al tartufo pluristellati in quel delle Langhe. Perché la passione del lavoro nasce quando e dove meno te l’aspetti. Come è successo a Chen Shiqin di Luciano Del Sette foto di Paolo Ranzani

96 il racconto

Due solitudini Una madre, una figlia ormai adulta. Una davanti all’altra, la seconda ad ascoltare, la prima a spiegare. Come può diventare, a un certo punto, intollerabile la solitudine vissuta in due, dentro un matrimonio che pare una gabbia

Il giardino di Kabul Tra le rose del Centro chirurgico per vittime di guerra di Emergency. Che ha un Pronto soccorso spesso troppo affollato e cinque giardinieri con quattro braccia

le rubriche 30 Grill di Till Neuburg 31 Lessi di Neri Marcorè 38 Spiriti liberi di Giulio Giorello 39 .eu di Stefano Squarcina 46 Televasioni di Flavio Soriga 47 Decoder di Violetta Bellocchio 47 Il capitale di Niccolò Mancini 60 Mad in Italy di Gianni Mura 82 Un fisico bestiale di Bruno Giorgini

82

Parola mia

di Patrizia Valduga

83 Polis di Enrico Bertolino 94 Pìpol di Gino&Michele 95 Buen vivir di Alfredo Somoza 108 La posta di E 112 Per inciso di Gino Strada

il nostro osservatorio 28 Buone nuove 48 Casa dolce casa 84 L’Italia è una Repubblica

fondata sul lavoro

92 Cessate il fuoco

di Claudia Priano illustrazioni di Oscar Sabini

in copertina foto di Emiliano Scatarzi



E - IL MENSILE FEBBRAIO 2012

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Emiliano Scatarzi

Christian Elia

Classe 1976, di Bari-Bari. Autore di reportage, di servizi radiofonici, del libro Oltre il muro, storie di comunità divise e del documentario The Empty House. Per PeaceReporter ed E ha raccontato, e racconta, il Medio e il Vicino Oriente, il Nord Africa e i Balcani. Nel 2011 ha vinto il Premio Baldoni. La terza Italia è il suo lungo viaggio nei distretti industriali.

Nato a Zurigo. Figlio di un pioniere del graphic design, nipote del mecenate del movimento Dada e di un compagno di gioco degli scacchi (e non solo) di Lenin, ha fatto tutti i possibili mestieri nella comunicazione: grafico, designer di font, art director (anche di una casa editrice neosituazionista), giornalista di gare di moto, produttore e regista di spot, impaginatore di riviste di design, copywriter, critico cinematografico, direttore creativo in agenzie di pubblicità, docente di crossover culturali e pubblicità audiovisiva. È stato consigliere dell’Art Directors club italiano. Autore del pamphlet Astri e disastri (Fazi Editore). Ama Altan, Miles Davis, il cinema noir e le puntarelle con le alici. In questo numero esordisce con la sua rubrica, Grill.

Violetta Bellocchio

www.emergency.it

Alessandro Scotti

Da oltre 25 Paesi del mondo ha scritto e fotografato per Time Magazine, Le Monde, Der Spiegel, Geo, Rolling Stone, SportWeek, Wall Street Journal, Expresso, Magazin Literario, Wired, Stern, Afrique Magazine. Si è occupato di narcotraffico, di traffico di esseri umani, di sistemi carcerari e di dinamiche di urbanizzazione. Per il suo lavoro di giornalismo investigativo, nel 2005, è stato nominato Goodwill Ambassador delle Nazioni unite. I suoi libri sono pubblicati in Italia da il Saggiatore e Isbn Edizioni. Dal suo progetto “Behind Bars” è tratto il portfolio.

Angelo Miotto Francesca Viscone Vive e lavora in Calabria. Si occupa di Sud e resistenza alle mafie, manipolazione dei media, integrazione dei minori immigrati. Questa volta ci racconta una storia d’amore per l’Africa.

Classe 1969. Quindici anni di Radio Popolare, prima di approdare come caporedattore a PeaceReporter. Premio Baldoni, Bizzarri e Anello debole con documentari sulla questione basca e sull’uranio impoverito. Fondatore dell’ensemble di musica contemporanea Sentieri selvaggi. Autore del libretto d’opera Non guardare al domani su Aldo Moro. Ha intervistato Enzo Soresi.

Flavio Soriga

Alle biblioteche carcerarie che ne facciano richiesta verrà attivato un abbonamento omaggio

www.eilmensile.it

Nato nel 1973, lavora dal 1990 in ambito pubblicitario, editoriale e sociale. Cofondatore di Fotografi senza Frontiere-onlus, con cui ha realizzato laboratori di fotografia in Algeria, Uganda, Palestina e Kuna Yala (Panama). È autore di reportage in Italia, Papua Nuova Guinea, Mongolia, Cina, India, Giappone, Vietnam. La sua ricerca artistica, riassunta nel work in progress MediaEvo, è un’interpretazione critica e ironica del mondo contemporaneo mostrato in tv. Ha esposto alla 49a Biennale di Venezia (2001) e in varie sedi italiane ed estere. Collabora con Max, Corriere della Sera, A. Per E ha fotografato le fabbriche di Sassuolo, Fermo e Arzignano.

Till Neuburg

Resp. trattamento dati (D. Lgs. 30.06.2003, n.196) Gianni Mura

La nostra carta Questo giornale è stampato su carta certificata PEFC

Samuele Pellecchia

con noi

È l’autrice di Sono io che me ne vado (Mondadori Strade Blu, 2009). Ha scritto diversi racconti, gli ultimi usciti su Rolling Stone e Alice Baum. Collabora a Link e Studio. Per noi cura la rubrica Decoder.

È nato a Uta, vicino a Cagliari, nel 1975. Ha pubblicato: Diavoli di Nuraiò (Il Maestrale, Premio Calvino 2000), Neropioggia (Bompiani, Premio Deledda giovani 2003), Sardinia Blues (Bompiani, Premio Mondello 2008), L’amore a Londra e in altri luoghi (Bompiani, Premio Chiara 2009), Il cuore dei briganti (Bompiani, finalista Premio Rieti 2011). Organizza, con alcuni amici, “Il settembre dei poeti” di Seneghe (Or) e “Sulla terra leggeri – piccolo festival di mezza estate” all’Argentiera. È autore della rubrica Televasioni.

Giancarlo Ascari

È nato nel 1951. Come autore di fumetti (con lo pseudonimo di Elfo) e pubblicista, ha scritto e disegnato per Alter Alter, Linus, Corriere dei Piccoli, Alfabeta, l’Unità, il manifesto, Il Giorno, Corriere della Sera, la Repubblica, Domus, Abitare. Ha sempre collaborato con Diario. Ha pubblicato le graphic novel Love stores con Coconino Press e Tutta colpa del ‘68 con Garzanti. Con Matteo Guarnaccia ha scritto Quelli che Milano (Rizzoli). È uno dei nostri illustratori seriali.


storia 53 - Daniele Arreghini

Edizioni speciali storia raccolta da

Camilla Mastellari

Daniele Arreghini ha 43 anni e vive a Monza. Ha studiato Scienze dell’informazione e in passato ha fatto il falegname e il programmatore di computer. La sua avventura alla Biblioteca italiana per i ciechi è iniziata nel 2001, prima come addetto alla stamperia e alle relazioni con il pubblico, poi come responsabile delle trascrizioni Braille e, infine, come capo della produzione. Ama citare Voltaire e le persone educate.

All’inizio facevo il falegname. Poi, per amore, sono tornato a Monza, la mia città, e qui ho conosciuto la Biblioteca italiana per i ciechi. Ci lavoro da undici anni ormai. Un periodo così lungo che, alla fine, me ne hanno affidato la guida. Come moderni amanuensi trascriviamo i libri in braille per renderli fruibili al pubblico dei non vedenti. Un’operazione complicata che, malgrado i progressi della tecnica, ancora oggi non è meccanica, ma richiede uno sforzo creativo e consapevole. Nel nostro archivio ci sono più di settantamila volumi tra romanzi e libri scolastici, tutti disponibili anche in formato elettronico. Un piccolo tesoro, frutto di un lavoro che dura da quasi un secolo. Per realizzare un libro in braille ci vuole moltissimo tempo. Me ne sono accorto lavorando in stamperia, dove stavo prima di assumere il ruolo di responsabile della produzione. Per fare un romanzo come Harry Potter, per esempio, ci vogliono almeno due settimane di lavoro. I testi vanno scansionati, corretti, riletti e resi accessibili. Per non parlare dei manuali scolastici, pieni di illustrazioni e grafici, come usa adesso: il passaggio da una rappresentazione nell’ambiente visivo a una nell’ambiente tattile è delicato e richiede l’intervento di un tiflologo (dal greco typhlòs, cieco) che ci aiuta a sciogliere i rebus nelle parole. Per questo i nostri prodotti sono dei piccoli gioielli d’artigianato: il costo reale di un libro scolastico arriva facilmente a toccare i tremila euro. A lavorare alla biblioteca siamo in trenta, di cui due persone non vedenti, più alcuni collaboratori esterni. Troppo pochi per un fabbisogno di cultura che continua a crescere. I libri di testo cambiano ogni anno per il capriccio di editori voraci e insegnanti accomodanti, e vanno rifatti da capo, velocemente. Tanto lavoro che dobbiamo sbrigare con le scarse risorse a disposizione. Siamo una Onlus e funzioniamo grazie ai (pochi) finanziamenti che ci arrivano dallo Stato. Ogni volta i soldi sono un po’ meno: quest’anno, per esempio, ci hanno tagliato quasi il 40 per cento delle sovvenzio-

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ni rispetto all’anno prima. E tra finanziarie e governo tecnico, ho la sensazione che il 2012 non sarà affatto facile. Per un paio d’anni, comunque, dovremmo sopravvivere. Poi chissà. Certi giorni mi sento come Don Chisciotte. Eppure sono convinto che, anche se il mio lavoro è in perdita per definizione, i soldi non ci sono e non sempre (quasi mai) riusciamo a rispettare le scadenze, qualcosa di buono lo si può fare ugualmente. Lo dico sempre: per fare questo mestiere devi avere il gusto per le battaglie perse. Una delle mie preferite riguarda le scuole. Di recente abbiamo dato il via a un nuovo progetto che coinvolge i ragazzi della provincia di Monza, Curiosando nel Braille, cui dedico quattro ore extra della mia giornata lavorativa. Due volte la settimana accompagno i ragazzini a scorrazzare per la biblioteca perché imparino a relazionarsi con i non vedenti in modo spontaneo e disinvolto. Imperativo: abbattere i tabù. La biblioteca ospita anche un polo musicale, dove incanaliamo la forza della musica nell’incanto di un tocco. Per fare una pagina di spartito in braille serve più di un giorno. Ad aiutarci c’è Gianluca, un musicista non vedente: quando lo vedi suonare il piano, capisci immediatamente che il braille è una magia vera. Una magia che con la nuova manovra lacrime e sangue può finire da un momento all’altro: scommetto che il polo sarà il primo a scomparire per via dei tagli inferti alla cultura. È una cosa che mi riempie di sconforto, perché non la capisco: ci telefonano persino dalla Cina per avere i nostri spartiti e i manuali di musica. Com’è possibile che dall’altra parte del mondo ci invidino una ricchezza che qui in Italia nessuno sa riconoscere? Se penso al mio futuro non ho molte certezze, però non smetterò mai di ripetere una cosa: lascerò la biblioteca solo il giorno in cui ogni ragazzino riceverà il suo libro in tempo per l’inizio dell’anno scolastico. Non sarà facile, ma ve l’ho detto, sono fatto così. Più sono impossibili, più le sfide mi piacciono.

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storia 54 - Alessandro Jedlowski

Ciak d'Africa

storia raccolta da

Francesca Viscone

Per me l’Africa è sempre stata un interrogativo: rispetto a questa parvenza di mondo che funziona, mi sono chiesto perché ce ne fosse un altro dove sembrava non funzionare nulla. Ci sono andato per la prima volta a diciannove anni, con una Ong italiana. Sono stato un mese in Kenya. Ho capito che tutte le mie idee sull’Africa erano sbagliate. C’era una realtà diversa da quella diffusa dai media europei, fatta di guerre civili, carestie e natura esotica. Oggi, quando descrivo Lagos, la capitale economica della Nigeria con milioni di abitanti, piena di grattacieli, molti restano sorpresi. Ma per me è bellissima, estesissima, complessa, con profonde sacche di povertà e al tempo stesso una vita culturale e artistica intensa. Quel primo viaggio in Kenya è stato molto importante per me. Avevo appena iniziato l’università e mi sono reso conto che sarebbe stato interessante comprendere il modo in cui attraverso l’arte gli africani interpretavano e rappresentavano la propria esperienza del mondo. Così ho cominciato a studiare il teatro e le letterature africane contemporanee. A Parigi ho fatto una ricerca sull’opera di un giovane scrittore togolese, Kossi Efoui, e ho tradotto le sue opere in italiano. Poi, a Roma, durante un festival di arti contemporanee afri-

cane, ho conosciuto un autore congolese, Dieudonné Niangouna, che mi ha invitato al suo festival di teatro a Brazzaville. Ho fatto la tesi sul suo lavoro, dopo aver passato tre mesi con lui e la sua compagnia, vivendo nel loro teatro. Nel frattempo ero stato anche nel Burkina Faso, dove c’è il festival del cinema più importante e più antico del continente, il Fespaco, fondato nel 1969, subito dopo l’indipendenza, perché prima i poteri coloniali non volevano che i colonizzati si appropriassero del potere rivoluzionario dell’immagine. Al Fespaco viene rivendicata l’esistenza di un cinema africano, anche della diaspora, ma al tempo stesso esiste un’importante volontà di confronto con il cinema europeo. Numerosi registi hanno vinto premi a Cannes o a Berlino. Di solito vengono presentati film d’autore, girati in pellicola, in gran parte finanziati dalla cooperazione francese o dalla Comunità europea, e per questa ragione si tratta spesso di un cinema più diretto al pubblico europeo che a quello africano. In parte è un cinema che rassicura il pubblico occidentale, confermando alcuni degli immaginari più diffusi sull’Africa, fatti di storie legate alla tradizione, alla magia, alla saggezza della comunità. Per questa ragione ho deciso di occuparmi di un fe-


nomeno diverso, più popolare, nato negli ultimi anni in Nigeria, il Paese più ricco e popoloso dell’Africa subsahariana. Si tratta di Nollywood, un cinema che ha un mercato interno enorme: 150 milioni di nigeriani! Questo cinema è emerso negli ultimi vent’anni grazie alle nuove tecnologie digitali che hanno ridotto le spese di produzione. Il problema della qualità è secondario, ciò che conta è poter raccontare la propria storia. Vengono realizzati film a bassissimo costo, che circolano nei mercati di strada. Ne vengono fatti fino a millecinquecento all’anno, cinque al giorno. Il fenomeno è esploso e ha invaso gli schermi di tutto il continente. Adesso questi film li trovi dappertutto, in Sudafrica, in Congo, in Kenya. Vanno direttamente sul piccolo schermo e non funzionano per un pubblico occidentale. Per questa ragione non sono quasi mai riusciti a entrare nel circuito dei festival africani, nemmeno al Fespaco. Il termine Nollywood è stato creato dieci anni dopo la nascita dell’industria da un giornalista americano in senso spregiativo. Ma la sua definizione è stata smentita. Due anni fa l’Unesco ha dichiarato che l’industria cinematografica nigeriana è la seconda del pianeta per la quantità di film prodotti. Nollywood è il risultato di un’economia informale, non ci sono contratti né budget ufficiali, ma solo relazioni di fiducia e di scambio. A volte non vieni pagato, ma ti viene promesso che lavorerai nel prossimo film. La pirateria fa circolare questi film ovunque, anche a Napoli, a Torino. Sono girati nelle lingue locali e in inglese. In Costa d’Avorio c’è un’industria televisiva molto sviluppata, acquisiscono i video e li doppiano per il pubblico francofono. Le storie sono interessanti. Il primo film di successo è uscito nel 1992, Living in bondage, durava sei ore e raccontava la storia di un ragazzo che per arricchirsi

permetteva a una setta di uccidere la moglie. Viene salvato dalla pazzia da una donna convertita a una chiesa pentecostale. Il tema della redenzione è frequente. A partire dagli anni Settanta in Nigeria c’è stato un boom economico legato all’industria del petrolio, è facile vedere gente che da un giorno all’altro diventa ricca sfondata e questo ha creato molte leggende urbane che legano l’arricchimento al mondo della magia. Ma queste leggende vengono anche alimentate da chi ha il potere: creando la paura si impedisce alle persone di ribellarsi. Alcuni parlano di modernizzazione della stregoneria, diventata un prisma attraverso cui leggere fenomeni inspiegabili della modernità. Alle mie domande iniziali sull’Africa ho risposto in parte pensando a Frantz Fanon, alla sua idea dell’alienazione culturale provocata dal colonialismo. Se non puoi apprezzare quello che viene dalla tua storia, ti lasci bombardare da modelli culturali estranei alla tua quotidianità, da immagini che rappresentano la tua terra e la tua cultura come un fallimento, e ciò perpetua un’alienazione profonda. Prima di Nollywood in Africa si guardavano solo film americani ed europei, non vedevi mai te stesso sullo schermo. La produzione culturale invece è uno strumento di riconoscimento di se stessi. A volte ciò mi fa pensare che bisognerebbe rivedere le politiche di cooperazione. L’assistenza toglie dignità agli uomini e, alla fine, un vero e proprio vantaggio ce l’ha sempre l’Occidente. Credo che le immagini negative dell’Africa servano soprattutto a rafforzare questo meccanismo.

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Alessandro Jedlowski è nato a Rossano (Cs) il 21 maggio 1982. Ha studiato Antropologia a Roma, a Parigi e a Londra. Ama i viaggi e le culture africane contemporanee, passione ereditata dai genitori, i sociologi Renate Siebert e Paolo Jedlowski.


storia 55 - Mahmod Mojahed

Il fine giustifica il mezzo storia raccolta da

Christian Elia foto Alfredo D’Amato

Mahmod Mojahed, 65 anni, vive in un sobborgo di Hebron, in Cisgiordania. Alle difficoltà della vita sotto occupazione, sette anni fa si è aggiunta una malattia alle gambe che gli ha reso impossibile una vita normale. Ha deciso di reagire, costruendosi da solo un’auto alimentata da batterie elettriche.

Hebron non la puoi spiegare, la devi vivere. Vedere. Provate a pensare, anche solo per un momento, che qualcuno vi dica, per tutta la vita, dove potete andare e quando potete farlo. È come stare in carcere, anche se le sbarre non si vedono. Ho sessantacinque anni, sono nato con la guerra. Mio padre, con grandi sacrifici, mi ha fatto studiare. Sono potuto andare in Giordania grazie a una borsa di studio, e poi a lavorare in Arabia Saudita. Ho lavorato anche qui, sempre nell’ambiente farmaceutico e un giorno ho detto basta. Sette anni fa ho iniziato ad avere i primi dolori alle gambe. Nel 2006 era chiaro: non potevo più lavorare e non avevo una pensione. «È un problema della colonna vertebrale», dicono i medici. Ogni giorno che passava, le gambe erano meno forti. Io vivo ad al-Jalada, un piccolo sobborgo di Hebron, nella Cisgiordania occupata. Non ho i soldi per pagarmi le cure mediche. Sono andato fino a Ramallah, ma tutti mi hanno detto che le uniche possibilità che avevo di recuperare l’uso delle gambe erano legate all’impianto di due protesi costose e difficilmente reperibili qui in Palestina. Ero terrorizzato dall’idea di non poter sfamare i miei cinque figli, io che mi dividevo tra mille lavoretti per loro. Una mattina mi sono alzato e dovevo andare dal dottore, ma nessuno dei miei vicini poteva accompagnarmi. Mi è sembrato che la mia vita finisse, ma ho tentato di reagire. E mi è venuta un’idea. Guardavo le macchine e riflettevo su quanto i loro proprietari si potevano muovere come volevano. Ma io non avevo i soldi per acquistarne una. Mi sono detto: «Sarebbe bello se potessi costruirmela da solo». Ho pensato che se le gambe mi hanno tradito, il cervello no. E so fare di tutto con l’elettricità, da sempre. L’ho fatto. Si chiama Mariam Cedes Electric Car. L’ho chiamata così in onore della Mercedes. Mariam, per Maria, in onore a tutte le donne, e poi perché suonava un po’ francese. È

un’automobile elettrica, alimentata da ottantotto batterie che si ricaricano con una normale presa. Ho usato di tutto. Sono partito dai copertoni, poi ho cominciato a procurarmi i pezzi d’acciaio che avessero le caratteristiche che mi servivano per assemblare la macchina. Come modello mi sono ispirato alle camionette militari che hanno usato proprio gli italiani in Libia, durante il colonialismo. Pian piano ho costruito tutte le parti, saldandole insieme. Mia moglie e i miei figli pensavano fossi diventato matto, adesso li sorprendo che sorridono e la accarezzano. Qualche volta si commuovono, quando parto al mattino, libero di muovermi. Una macchina con un posto guida, per massimo due persone. I comandi sono semplici: acceleratore e freno che governo con le mani. Le batterie sono davanti, tutto il blocco è costruito con pezzi riutilizzati. Pensate che per i cerchioni ho utilizzato vecchi vassoi di mia moglie, per i fanali due vasi presi in casa. Ho fatto tutto da solo, prima di ricevere l’aiuto del governo dell’Autorità nazionale palestinese e delle televisioni al Arabiya e al Jazeera che mi hanno sostenuto con una donazione. Le batterie costano, mi hanno aiutato un po’ di amici meccanici. Mi hanno offerto 25mila dollari per il mio prototipo, ma per ora non vendo. Mi godo la libertà e metto su il mio negozietto ambulante di caffè e dolciumi. Poi si vedrà. Essere disabile, nella Cisgiordania occupata, è come un pena aggiuntiva. Voglio che la mia macchina renda liberi di muoversi tutti quelli che hanno problemi simili ai miei. Mi piace pensare all’auto come un simbolo: anche quando ti impongono di star fermo, il cervello non smette di essere libero.

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storia 56 - Antonio Amato De Serpis

A casa dei Felicioni Sono il fondatore di una comunità che sorge su un terreno strappato alla camorra. Oggi ci giocano i nostri bambini. Nel 1987, diciottenne obiettore di coscienza, sono entrato nel movimento di Capodarco, nella comunità La Roccia di Aversa. Già allora, in un’Italia distratta, si occupavano di minori immigrati e di affido. Mi hanno conquistato, com’è successo con Fortuna, volontaria instancabile che anni dopo è diventata mia moglie. Con noi, un bambino arrivato a La Roccia a due settimane dalla nascita. Da lui è cominciato tutto: la nostra famiglia e la nostra comunità. Restando all’interno del movimento Capodarco, abbiamo preso un appartamento a Teverone, Campobasso, per la nostra prima casa-famiglia: la Compagnia dei Felicioni. Quel bambino è diventato il nostro primo figlio, cresciuto con tanti altri piccoli, italiani e non, accompagnati alla nostra porta. L’inizio è stato duro: non avevamo una lira, ma siamo andati avanti lo stesso. A volte non sapevamo come pagare le bollette e ci arrivavano i soldi di una raccolta solidale. A volte non sapevamo cosa mangiare e ci portavano a casa vassoi di biscotti avanzati in pasticceria. O sacchetti di pane fresco. Tutto inaspettato. Così abbiamo capito che la solidarietà non deve mai subire interruzioni: per questo condividiamo sempre tutto, anche il poco. È la prima lezione che si impara qui. E i nostri bambini ne sono coscienti, così come sanno che da noi trovano affetto e sicurezza, ma che il loro futuro è altrove. Qui sono di passaggio: cerchiamo di rimetterli in piedi, di aiutarli di camminare da soli e poi li lasciamo andare. Il nostro scopo è diventare superflui. Per legge ospitiamo un massimo di sei bambini, più i nostri figli. Ne abbiamo quattro. Viviamo tutti insieme, lavorando sulla fiducia, l’autostima e il senso di responsabilità. Cosa ci distingue da altri istituti? Tutto. Piccolo esempio: lì dosano il sapone, distribuendone ai ragazzi la giusta quantità. Noi, no. Li lasciamo liberi di prenderlo da soli, certi che persino arrivare a dosare il detersivo sia una meta. Dal 2002 viviamo a Trentola Ducenta, vicino a Caserta, in un’enorme casa confiscata alla criminalità organizzata. Il proprietario era un killer del clan camorrista di Dario De Simone, autoaccusatosi di decine di omicidi. A parlarci di questa opportunità è stato un consigliere comunale nonché pediatra dei nostri bambini. Era il 1998. Si avvicinavano le elezioni e il sindaco, Michele Griffo, aveva bisogno di un gesto eclatante. Ci siamo fatti avanti. Abbiamo firmato il comodato d’uso gratuito e ci siamo trasferiti, iniziando i lavori di ristrutturazione. Abbiamo fatto tutto da soli, nell’intento di ridare vita a queste mura. Ma due mesi dopo, il primo cittadino, rieletto, ha cambiato idea, e ci ha mandato lo sfratto. Non abbiamo ceduto e abbiamo usato tutti i mezzi legali per rispondere a quel sopruso, continuando nel frattempo a lavorare con i nostri ragazzi, che sono amati e rispettati da tutto il paese. Solo il sindaco continua tuttora a volerci fuori dai piedi. Ma che faccia pure: ormai è diventata una questione di

principio. Resteremo in questa casa che, con i suoi sfarzi e i suoi eccessi che offendono la nostra scelta di vita, ci offre per contro l’occasione di dare rifugio a tanti ragazzini. Da sette anni poi abbiamo investito anche sui volontari, sulla responsabilità delle persone, e con scuola e parrocchia abbiamo promosso un progetto per i bambini a rischio, che vivono in situazioni di disagio familiare. Creiamo spazi per loro con professoresse in pensione che gestiscono corsi di recupero scolastico gratuiti, e operatrici per pomeriggi di svago. Siamo convinti che si possa lavorare meglio mantenendo alto il senso della gratuità. E da tre anni li portiamo anche in vacanza, racimolando i soldi con cene sociali e sagre. Tanto per cambiare, anche su questo, il sindaco ha avuto da ridire. Parliamo linguaggi troppo differenti. Noi promuoviamo diritti e pari opportunità. Il nostro è un lavoro culturale, dove la pietà è bandita. Davanti ai soprusi lottiamo. Certo, avremmo preferito sederci intorno a un tavolo e parlare con lui, ma non ce l’ha mai permesso. E ci ha inviato l’ennesima revoca del comodato. Ma non molliamo. Siamo degli ottimisti per predisposizione e per scelta.

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storia raccolta da

Stella Spinelli foto Miriam Caltabiano

Antonio Amato De Serpis e Fortuna D’Agostino, marito e moglie, hanno fondato nel 1997 la Compagnia dei Felicioni, una casa-famiglia che appartiene alla Comunità di Capodarco. Per cinque anni, i De Serpis, il loro figlio adottivo e i vari bambini a loro via via affidati hanno vissuto a Teverone, provincia di Campobasso. Poi, hanno colto l’opportunità di trasferirsi nella villa sequestrata a Dario De Simone, killer dei Casalesi, e dal 2002 vivono a Trentola Ducenta, nel Casertano. Nel frattempo, sono arrivati anche tre figli naturali.


storia 57 - Anne-Marie Rodenas

Il caffè per bambini storia raccolta da

Alessandra Fava

Anne-Marie Rodenas, 56 anni, è presidente e volontaria di Cafézoïde, il primo caffè per bambini e famiglie al mondo, aperto nel 2002 a Parigi, in quai de la Loire 92 bis (cafezoide@aol.com). È uno spazio che accoglie, di giorno, poppanti e adolescenti, da zero a 16 anni, e relativi genitori. Oggi vi lavorano nove persone fisse e retribuite e una quarantina di volontari. Cafézoïde ha un budget annuale di 230mila euro, di cui 90mila a carico dello Stato.

A dodici anni volevo fare una fuitina (une fuguette). Con quattro amiche. Niente sesso, per carità. Il nostro sogno era sederci al bar e poter parlare con chi ci pareva, senza che le nostre madri (soprattutto la mia, molto borghese) ci dicessero chi era opportuno o meno frequentare. Non ci riuscimmo. Ce l’ho fatta trentacinque anni dopo, aprendo un locale per bambini e famiglie a Parigi, Cafézoïde, il Caffè della vita, nel diciannovesimo arrondissement, un quartiere multietnico dove africani, asiatici e francesi, arabi ed ebrei, si mescolano da tempo. Il posto giusto per un’iniziativa simile. Infanzia a parte, il mio progetto è nato per gradi. Ho fatto l’animatrice nella banlieue di Vitry in piena fase post industriale. Mi sono occupata di formazione per adulti, disoccupazione e inserimento sociale e man mano che passavano gli anni i fondi statali diminuivano e le richieste aumentavano. Dopo dieci anni è arrivato un tecnocrate, ha stoppato tutti i progetti e io ho preso il coraggio a quattro mani e ho abbandonato le istituzioni. Nel 2001 in quattordici abbiamo creato un’associazione, abbiamo trovato un locale disastrato e senza elettricità, di proprietà del municipio del Diciannovesimo, amministrato dalla sinistra e dopo un anno di lavori siamo riusciti ad aprirlo al pubblico: 170 metri quadrati su due piani in Quai de la Loire. Sotto c’è il bancone del bar, tavolini bassi e la cucina. Niente scrivanie: quando mai c’è un ufficio in un bar? Al piano di sopra ci sono sedie, tavoli, un calciobalilla, uno spazio per fare radio, libri, dischi e tanti divani. Tra i nostri aficionados, c’è un sessantenne che sostiene che non c’è un bar dove possa appisolarsi come fa da noi. Cafézoïde è prima di tutto uno spazio di libertà dove si accoglie chiunque senza preconcetti. È aperto a tutti, a prezzi popolari e chi non può non paga niente. Altrimenti con due euro si può stare tutto il giorno, dalle 10 alle 18, dal mercoledì alla domenica. È previsto anche un pasto vegetariano a pranzo o un dolce a merenda. Acqua, bibite e tè alla menta accompagnano il tutto. Abbiamo voluto pensare anche a un momento

di ristorazione per genitori e bambini, sempre dentro il caffè, perché in Francia si tende a mettere l’infanzia da parte, come fosse una malattia, o si portano i bambini a mangiare al fast food che è un po’ lo zapping del cibo. Qui invece le famiglie trovano un momento conviviale e scoprono che è bello stare insieme. Durante la settimana ci sono anche laboratori per adulti e per bambini (yoga, danza orientale, pittura, disegno o terracotta, tutte attività gestite da volontari e gratuite), ma non vogliamo che diventino troppo strutturate perché altrimenti il caffè perde il suo spirito. L’importante è giocare liberamente e con fantasia perché, come dice Daniel Pennac, l’immaginazione non mente mai. Per il resto ci ispiriamo alla Convenzione dell’Onu sui diritti dell’infanzia, ratificata da moltissimi Stati. La Carta sancisce per esempio il diritto all’educazione scolastica anche per i sans papier e, quando abbiamo dei diverbi con qualche genitore che critica il nostro approccio, ci permette di replicare: «Guardi che anche il suo Paese ha firmato la dichiarazione di Ginevra!». Stanno nascendo altri caffè per bambini in Francia e all’estero, di recente abbiamo anche creato una Federazione internazionale dei caffè per l’infanzia, in modo che tutti si uniformino ad alcuni principi base: che l’attività non abbia scopo di lucro e i prezzi d’accesso siano calmierati. Altrimenti diventano degli asili privati. Inutile nasconderlo, siamo una sfida, facciamo politica con i fatti e proponiamo una pedagogia rivoluzionaria. Una volta una coppia è rimasta sconvolta di fronte al primo «no» della figlia, che aveva passato qualche giornata con noi. «Dovreste essere contenti», ho risposto loro. «Dimostra di avere una sua personalità». Non a tutti piace il nostro approccio. In Francia gli adulti sognano per i propri figli studi al Politecnico e un buon matrimonio. Invece dovremmo fermarci a guardarli. Guardarli vivere. E imparare da loro a lasciarci andare.

Q



di

Christian Elia

foto Emiliano [emblema]

Scatarzi

La terza Italia


È quella dei distretti, della piccola impresa in cui operaio e padrone si davano del tu e si vedevano in piazza. Quella che produce pelli, piastrelle o scarpe. Che ha fatto il benessere degli industriali e ha costruito futuro per chi lì era nato, ma anche per chi c’era arrivato. Come sta oggi, ai tempi della crisi globale, quel pezzo di Paese che il sociologo Arnaldo Bagnasco chiamò, alla fine degli anni Settanta, terza Italia? Non si sente tanto bene, vede evaporare posti di lavoro, ma ha più risorse per uscirne. Se saprà usare la creatività, radice della sua fortuna, e sconfiggere il conservatorismo. Di imprenditori che non investono più, ma anche di un sindacato troppo chiuso in difesa


“Quando si parla di distretto industriale si fa riferimento a un’entità socio-economica costituita da un insieme di imprese, facenti generalmente parte di uno stesso settore produttivo, localizzato in un’area circoscritta, tra le quali vi è collaborazione ma anche concorrenza”. Così scriveva, nella seconda metà del XIX secolo, l’economista inglese Alfred Marshall. In questa definizione, che pure ha segnato la storia dell’economia, manca tutto il resto. Quelle relazioni umane, quel legame con il territorio che, in particolare in Italia, ha segnato un’epoca. Quella del secondo dopoguerra, quando una generazione ha ricostruito un Paese distrutto, creando distretti industriali che, con i loro prodotti, hanno conquistato i mercati di tutto il mondo. Aziende nate in una cantina che sono oggi tra i leader mondiali del proprio settore, nutrite dal lavoro di tre generazioni della stessa famiglia e dal lavoro di operai che arrivavano prima dalla campagna, poi dall’Italia meridionale e infine da Paesi più poveri. Al tempo della grande crisi economica, come se la passano i distretti industriali? Secondo il Monitor dei distretti, curato dal Servizio studi e ricerche di Intesa Sanpaolo, continuano a crescere, in alcuni settori anche più della Germania. Un viaggio in Italia tra le concerie delle pelli di Arzignano (Vicenza), le mattonelle di Sassuolo (Modena) e il calzaturiero di Fermo. Attraverso un tempo in bilico tra un passato segnato da uno sviluppo economico violento, a volte a scapito di legalità e ambiente, e un futuro incerto. Un tempo obliquo, tra una storia che finisce, magari per ricominciare ancora. Grazie a un altro colpo di genio.

Arzignano, futuro a Nordest Arzignano, prima di vederla, la senti. Fin dallo svincolo della provinciale da Vicenza, l’odore acre della lavorazione delle pelli diventa parte del contesto, come i cartelloni pubblicitari delle concerie. La ricchezza, ad Arzignano, sembra nascondersi. La vedi di sfuggita, in un Suv che ti sorpassa a tutta velocità, ma non si è concessa nell’architettura di una cittadina spartana. La leggi sui giornali, che scrivono pagine intere sull’evasione fiscale, con il caso dell’azienda di queste parti che non pagava le tasse. E non una qualunque, ma quel gruppo Mastrotto che ha scritto la storia del miracolo economico di queste terre. Una coppia di indiani cammina piano, fuori sincrono rispetto a tutto il resto, con i vestiti sgargianti che rimbalzano sui muri grigi della zona industriale, mentre tutto attorno a loro va di fretta. Anche troppo, secondo Gigi Copiello. Sessant’anni, fisico invidiabile. Una vita nel sindacato, la Cisl, accendendo una sigaretta dopo l’altra. È andato in pensione da poco, dando alle stampe il suo Manifesto per la metropoli Nord-Est, una sorta di memento per il futuro. «Mentre si lottava per gli orari di lavoro in tutta Italia, qui i sindacalisti e gli industriali erano abituati a fare da loro. Ci si vedeva ogni domenica in piazza, c’era poco da scherzare», racconta Copiello in un dialetto veneto contagioso. «Volavano anche i calci nel sedere, ma era come una forma di contrattazione collettiva arricchita da una serie di rapporti personali, nel bene e nel male. Bestemmie e urla che si sentivano in tutta la città, ma ci si dava del tu. In una logica pragmatica. E qui non ci siamo mai traditi. Qui abbiamo fatto la flessibilità personale. E funzionava», sottolinea con un linguaggio colorito che non perde mai di incisività. «Cosa è cambiato? I padroni sono ancora innovatori, i sindacalisti no. Per questo ho preferito andare in pensione. Abbiamo perso la fantasia. La mia generazione a quarant’anni ne aveva già viste di tutti i colori. Senza merito, è capitato. La vita ci ha costretti all’esperienza. Quegli anni ti formavano per forza. Oggi non è più così e abbiamo sempre più segnali negativi, nonostante una piccola ripresa nell’ultimo anno, ma sono sempre più le aziende che, in prospettiva, decidono di andarsene via. È difficile lavorare in Italia, anche se non sono esenti da responsabilità pure gli imprenditori. Ci sono quattro o cinquemila imprese che tengono, il resto non è all’altezza e verrà spazzato

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via, perché il modello impresa-famiglia è molto costoso, anche se rende tanto, ma ormai la struttura manageriale deve essere autonoma dalla proprietà. Anche perché non tutti gli eredi sono uguali e quando arriva quello sbagliato è una tragedia. Un tempo ci voleva una generazione per distruggere un’azienda familiare, oggi bastano cinque


anni. Il modello antropologico italico è questo: un forte coinvolgimento personale, anche dei lavoratori dell’impresa. Un’empatia forte. Non siamo tedeschi, anche se ci piacerebbe. La nostra cultura è differente. Competenza e genio, alla pari. Non siamo mai stati capaci di darci un’organizzazione scientifica del lavoro. Le regole sono fondamentali. Ma anche l’elasticità. E misurare i gruppi dirigenti sui risultati, non sulle fedeltà, discorso che vale per i sindacati come per gli imprenditori. Il modello è quello che abbiamo, non siamo capaci di produrne altri», sostiene Copiello. «Va recuperata l’anima di quel modello: l’efficienza e l’elasticità. Quel modello, senza le sue caratteristiche storiche, si pianta e non rende più. Ed è tempo che la politica si prenda le sue responsabilità, sostenendo i distretti a livello nazionale».

Il segreto dell’acqua

Un esempio di famiglia-impresa che sa stare sul mercato è quello della conceria Laba, dai nomi di Laura e Barbara, le due figlie – ed eredi – di Gabriele Boschetti che ha dato vita alla fabbrica nel 1989. Una delle ultime del distretto conciario di Arzignano a coprire tutte le fasi della lavorazione, dallo scuoiamento alla finitura delle pelli. Boschetti, occhi azzurri e faccia da ragazzino, è nel suo ufficio con Giuseppe Tolio, consulente del lavoro attivo nell’associazione di categoria degli imprenditori della concia. In particolare, sia Boschetti sia Tolio, sostenitori della prima indagine epidemiologica sul territorio. «Il segreto, qui, è stata l’acqua. La ricchezza d’acqua ha segnato il destino di questa valle. Prima le filande, con i bachi da seta. Poi l’elettromeccanica, poi la concia. Prima della guerra ce n’erano tre di concerie. Poi, di botto, lo sviluppo. E abbiamo pagato il conto, da ragazzi ci face-

vamo il bagno nel fiume. Gli industriali non avrebbero mai voluto far del male al territorio. Perché lo vivono, come tutti gli altri. Ci crescono anche i loro figli. Solo che un’indagine vera, scientifica, non era mai stata fatta. Un’indagine sui fattori di rischio per la valle della concia, un lavoro che ha coinvolto enti pubblici e imprenditori, un lavoro durato quattro o cinque anni e pubblicato nel settembre 2010. Non è emerso nulla», spiega Tolio. «Non solo su Arzignano, ma su tutto il territorio. È assodato che non c’è nulla. Ed era la cosa che stava a cuore agli industriali. Anche sull’odore stiamo lavorando e la copertura delle vasche dovrebbe garantire che sparirà». «Per l’odore c’è un accordo quadro con tutti gli attori locali», ribadisce Boschetti. «Dal 2005, con i depuratori, le aziende s’impegnano a diminuire cloruri e solfati, che possono danneggiare i campi agricoli, e gli odori con la copertura delle vasche. Resta il problema dei fanghi, nessuno lo nega. Dagli anni Ottanta molto è cambiato, con l’abbattimento della quantità del sale utilizzato in lavorazione e di altri elementi della produzione. Il depuratore ha fatto il suo lavoro: 500 tonnellate al giorno di fango, prima. Adesso, con i nuovi metodi, dalle 70 alle 90 tonnellate. Stiamo lavorando al termovalorizzatore per questo. Come abbiamo lavorato in passato: esiste una rete locale di tubature che connette tutte le concerie con il depuratore, con un contatore che certifica gli scarichi. Con i fondi degli industriali è stato fatto un gran lavoro. Solo la mia azienda spende 578mila euro l’anno per la bonifica dei residui di lavorazione. E non è responsabilità civile questa? I comitati devono capirlo, a fare sempre politica non si ottiene nulla, salvo perdere posti di lavoro. Ci stiamo mettendo il massimo, sappiamo che le discariche non sono il futuro. Ma dobbiamo essere pratici,

La conceria Laba, operai al lavoro nella colorazione delle pelli

www.eilmensile.it Sul nostro sito La terza Italia, il multimedia del viaggio nei distretti industriali


con la voglia di cambiare insieme le cose. In quest’ottica va sfruttato il meccanismo del distretto, dove dovrebbe essere più facile parlarsi e trovare una soluzione. Noi imprenditori, per esempio, con le aziende chimiche lo abbiamo fatto, trovando soluzioni ottimali rispetto ai materiali che ci vendono per la nostra produzione». Una responsabilità sociale che qualcuno mette in dubbio. Almeno dal punto di vista del pagamento delle tasse. «L’ultimo periodo non è stato facile», replica Boschetti. «Era un passaggio necessario, rispetto a chi lavora in un certo modo, ma spero che non travolga tutto, anche chi ha sempre lavorato per bene. La legge farà il suo corso, ma va ricordato che le prime vittime sono state altre aziende locali, danneggiate da prezzi stracciati che adesso si spiegano». Tolio è d’accordo: «Va detto che molti giornalisti hanno esagerato. I fatti ci sono ed è giusto che coloro che hanno sbagliato paghino. Ma è stato attaccato il settore intero e invece gli scorretti non sono tanti. Bisognerebbe riportare nella giusta dimensione il fenomeno, senza coinvolgere tutta la valle. Vicenza non è la provincia che evade di più in Italia. Anzi, siamo la provincia che da sola produce l’1,5 per cento del Pil. Gli imprenditori, da queste parti, hanno sempre fatto la loro parte, anche nel sociale. Resiste un pregiudizio, che disegna gli imprenditori veneti come persone interessate solo ai soldi», continua il consulente del lavoro. «Della nostra terra è rimasta l’origine contadina, ma la verità è che qui la gente ha sempre fatto da sola. Di aiuti ‘di Stato’ qui non si è visto nulla. Bisogna cambiare, evitare gli errori, ma non esageriamo. Anche perché spesso sono stati i dipendenti che preferivano il fuori-busta, per non pagare troppe tasse. Adesso le cose sono cambiate, anche

La Laba è una delle poche realtà industriali a realizzare l’intero processo di lavorazione: in queste foto altre fasi della concia

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per la sicurezza sul lavoro. Tutti dovrebbero capire che questo settore merita aiuto. Arzignano, e tutta la valle, senza la concia è finita». Lo pensa anche Boschetti: «I numeri possono ingannare. Dopo il biennio 2008-2009, davvero preoccupante, quello 2010-2011 – per chi fa gli articoli medio-alti – non è andato male. Ma noi siamo soggetti alla materia prima. Magari aumento il fatturato, anche del 20 per cento, ma solo perché ho pagato di più la materia prima aumentando i prezzi». Secondo Boschetti «è in atto una selezione sulla qualità: sopravviverà chi produce bene e innova investendo, il resto sarà travolto. Senza professionalità di alto profilo si svanisce. Il numero non lo so, ma hanno chiuso tante aziende. Adesso è giunta l’ora dell’unità, superando i partiti, puntando sulle persone. Superando le divisioni, tutti assieme: sindacati, comitati, imprenditori e amministratori locali. C’è costato molto quello che abbiamo costruito. Difendiamolo, tutti assieme. Qui, per anni, i problemi si sono risolti in piazza. Il mondo cambia, ma quel valore non dobbiamo perderlo». L’ex sindaco di Arzignano, Stefano Fracasso, ora in Consiglio regionale, è l’esatto opposto del cliché della casta. Giovane, appassionato, in piazza come chiunque. «I tempi sono cambiati. Da ragazzini sapevamo che pelli lavoravano dal colore delle acque del fiume Chiampo. Il territorio ha pagato un prezzo, per quanto la comunità abbia vissuto questo processo di sfruttamento in modo ambiguo. Nacque anche un movimento, tra il 1974 e il 1980, il Gruppo ecologico della valle del Chiampo, per responsabilizzare la società su ecologia e salute ambientale, guidato dal professore Antonio Boscardin, che documentava e denunciava quello che


capitava al territorio. La voglia di riscatto, il benessere conquistato attraverso il lavoro, era di sicuro più forte, all’epoca, della coscienza ecologica», racconta Fracasso. «Per capire come mai un’intera comunità fosse disponibile a pagare un prezzo tanto alto in termini di salute del territorio, però, bisogna capire che cos’era Arzignano negli anni Sessanta, quanto differente fosse la qualità della vita. Oggi tutte le acque inquinate finiscono – grazie a una rete fognaria – nel depuratore centralizzato, che filtra, ma quello che toglie dall’acqua diventa un fango che viene essiccato, messo in grandi sacchi, e portato in una discarica. In questi decenni ne hanno costruite nove. Solo l’ultima rimane aperta e ha un’autonomia di quattro anni. Dopo di che dovrà essere individuata una soluzione differente. Dopo l’impresa di aver ripulito l’acqua, la prossima sfida è proprio trovare un modo di gestire i fanghi. E resta l’aria. La fase finale della lavorazione della pelle prevede vernici e solventi, che si disperdevano nell’aria in quantità significative. La Provincia e gli industriali fissarono le quote di emissione, scambiabili tra loro, ma bloccate: è un progetto europeo, chiamato Giada, di monitoraggio della qualità dell’aria. E anche qui si è fatto molto, tenendo conto che non esiste al mondo un modello. Non esiste un altro distretto conciario di queste dimensioni, che possa fornire un’esperienza», racconta il giovane amministratore locale.

Far da sé, senza lacciuoli

«Qui gli imprenditori non hanno mai prodotto una classe dirigente. Sono i classici imprenditori veneti: si sono fatti da soli e in campo ci sono ancora i pionieri che hanno guidato la transizione dalle campagne alle fabbriche. E tenderebbero a fare ancora da sé, in ogni ambito, anche dove ormai ci sono regole importanti. Ambiente, fisco, relazioni sindacali... Una classe imprenditoriale che è sempre stata un po’ insofferente ai limiti. Il settore, però, è totalmente internazionale, serve i più grandi marchi della moda mondiale, è necessario che la cultura delle regole diventi parte fondante della cultura d’impresa. Dalla politica qui, terra di Democrazia cristiana che aveva nella separazione tra imprenditoria e politica un suo elemento fondante, si tenevano alla larga. Che poi la Dc riuscisse a intercettare le esigenze dell’impresa è un altro discorso, che magari sopravvive ancora oggi. Capendo le ragioni dell’altro, a ciascuno il suo mestiere. Il settore della concia, fino a metà degli anni Duemila, ha avuto una crescita impetuosa. Dopo, come tutta l’industria manifatturiera, ha risentito pesantemente della crisi, in particolare nel 2008-2009. C’è adesso una certa ripresa, dovuta in particolare al settore degli interni auto e dell’arredamento, ma è una situazione di stasi. Io ci vedo ancora un futuro, tante aziende si posizionano sul lusso, con intelligenza. Qui c’è competenza, non solo conciaria, ma di tutto l’indotto. C’è tutto, c’è intelligenza produttiva, e garantirà un futuro. Perché perdere questa storia?», si chiede Fracasso. Il settore tiene, ma vanno attualizzate le caratteristiche del passato. Le regole, in primo luogo. Emanuele Vezzaro è il presidente dell’associazione No alla centrale, nata per opporsi a un progetto di alcuni anni fa e divenuta in generale un’associazione per uno sviluppo sostenibile e la promozione della qualità del-

la vita nell’Ovest Vicentino. «Sul nostro territorio è sempre mancata una regia globale. Ognuno si è mosso per i fatti suoi, senza mai pensare a cosa poteva accadere, senza metterlo in relazione con il territorio. Dal dopoguerra a oggi – racconta Vezzaro, che nella vita si occupa di comunicazione – questa area è stata gestita in maniera cieca. Un esempio: a Montecchio, davvero un borgo, ci sono cinque zone industriali. La classe dirigente, imprenditoriale e politica, ha sbagliato le scelte. Noi cittadini ci troviamo a gestire problemi generati in cinquant’anni. Adesso basta; un percorso partecipativo, che coinvolge la comunità, è necessario. Va affrontato in modo chiaro il tema spinoso dei fanghi conciari, ma anche l’effetto cumulativo sull’ambiente e sulla salute dei cittadini, delle varie opere che si vanno accatastando nel nostro territorio, come i tre inceneritori, il raddoppio dell’autostrada, la Pedemontana, la Tav e altro. Un discorso lungimirante, condiviso, dello sviluppo del territorio. Riteniamo che problemi così complessi vadano affrontati in un’ottica di area vasta e integrata, com’è oggi e come sarà ancora di più in futuro l’Ovest Vicentino. Oltre a essere ricchi, teniamo a vivere in un mondo sano. Tutti assieme. E qualcosa, finalmente, cambia. Perché prima la gente si preoccupava solo di avere il lavoro, adesso comincia a chiedersi che territorio vuole abitare».

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La polvere di Sassuolo

Sassuolo sembra assediata dalla sua zona industriale. Nel gorgo di strade e fabbriche spicca, come un monumento al futuro, la sede della Kerakoll. Alta tecnologia, design di lusso. Con qualcosa di posticcio, come se il futuro stesse scappando via, lasciando dietro di sé strutture destinate al declino. I numeri del lavoro nel mitico distretto della piastrella fanno paura. Ma la piazza della cittadina emiliana che si è fatta conoscere nel mondo, con la sua forma rettangolare, chiusa, sembra un caveau dove custodire l’alito di quel colpo di genio che ha cambiato tutto. Secondo dopoguerra, l’Italia è un cumulo di macerie. Bisogna ricostruire. Dopo il boom economico degli anni Sessanta, ci si può permettere il lusso di costruire bene. L’argilla delle colline ha nutrito la ricostruzione prima, il boom dopo e i nuovi ricchi in giro per il mondo adesso. Una storia raccontata mille volte, in libri come Si fa presto a dire distretto, di Fabio Panciroli, che narra di fabbriche nate in una notte e diventate leader mondiali del settore. Le cose sono cambiate. Ma in piazza ci si va lo stesso. Al bar, come sempre. Attorno a un tavolo, a discutere. Ferruccio Giovanelli, ex vicesindaco, ricorda tutto: «Il 2008 è stato uno spartiacque. Nel 2010 c’è stato un piccolo segno positivo, che ha tenuto nella prima metà del 2011, tornando in picchiata adesso. Grazie a un massiccio ricorso agli ammortizzatori sociali e riportando in azienda una serie di lavori che da tempo si facevano fuori, molti si sono tenuti a galla, mettendo però in crisi l’indotto, di cui spesso si tacciono i numeri. Che sono dolorosi: negli anni d’oro il distretto ha dato lavoro fino a trentamila addetti, nel 2008 erano ventitremila, alla fine del 2010 non più di sedicimila», racconta Giovanelli, toccandosi la barba bianca, mentre fuori dal bar la gente chiacchiera. «Nel periodo d’oro c’erano aziende che arrivavano anche al 15 o al 20 per cento di utile all’anno. Un settore indu-

striale maturo come il metalmeccanico non ha mai superato il 3 o il 4 per cento. Chiaro, eravamo in un mondo che offriva condizioni irripetibili. Umane e industriali, perché non è detto che il figlio dell’imprenditore sia all’altezza di chi l’ha preceduto. Adesso siamo di fronte a una massa critica di produzione: 400 milioni di metri di mattonelle, anche se in certi periodi è arrivata a 650 milioni. C’era da aspettarsi un blocco, perché il mercato interno è svanito, a fronte di esportazioni che impegnano il 70 per cento della produzione. Oggi si vive della domanda di Russia e Stati Uniti, che però con la crisi dei mutui ci ha messo in ginocchio. L’esportazione tiene, anche bene. Ma bisogna capire che non si possono fare battaglie di retroguardia, che i diritti si possono contrattare fino a quando le aziende ci sono, e che se spariscono resta ben poco da contrattare. Bisogna tornare a fare innovazione e ricerca. La concorrenza di Paesi come Cina e India vive di regole troppo differenti dalle nostre, dobbiamo tutti fare qualche rinuncia. Che il mercato ha sempre ragione è una patacca, e bisogna cominciare a dirlo, ma è tempo di riorganizzarsi, ammettendo magari che un po’ tutti abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità. Avevamo quadri dirigenti, nell’ordine del 40 per cento, superiori alla media. In certe aziende ci sono due persone per turno, per la meccanizzazione, e troppi impiegati. Ed è là che la crisi colpirà con violenza. Era un lavoro pagato decisamente bene. Il 2008 ci ha spiazzato tutti, perché le vecchie crisi erano di dimensione locale, magari nazionale, mentre questa colpisce tutti i settori, in tutto il mondo. Possiamo ripartire, da una nuova stagione di rapporti tra tutti gli attori della produzione, provando a salvare il benessere che i nostri genitori hanno saputo costruire». Con lui c’è Luca Storchi, di una generazione più giovane. È uno che si è chiamato fuori dal mondo della



piastrella, come pochissimi suoi coetanei, andando a lavorare nel terzo settore. «I miei amici, gente di quarant’anni, da un giorno all’altro si sono trovati a casa, inaspettatamente, perché la piena occupazione qui c’è da quando sono nato. A casa gli operai come i direttori, senza tutele sociali. Dall’altra parte, molte aziende hanno visto la crisi come un’opportunità e hanno deciso a tavolino di diminuire i costi. In tanti luoghi di lavoro si è respirato un clima invivibile. Poi molti, alla fine, si sono sentiti liberati. Come se per la prima volta ci fosse la possibilità di un futuro diverso. E si sono saputi inventare cose nuove, diverse, magari a livello imprenditoriale». Accanto a Luca, suo padre, nella piastrella dai vent’anni alla pensione. «Gli imprenditori storici ormai hanno ben che coperto il capitale investito, ma nessuno è disposto a reinvestire. Questo è il problema oggi. L’unico investimento magari ti arriva da una cooperativa, non dall’impresa. Vanno riconsiderati tutti i meccanismi, tarandoli sulle sfide globali, che magari annunciano una nuova società. Non so come sarà, vedremo. Partendo da alcune certezze: siamo emiliani. Tolleranti, schietti, aperti mentalmente. Questo ci ha sempre premiato e presumo che ci premierà ancora. E ci sono ancora, in Europa, spazi enormi. C’è ancora tanto da fare, da costruire».

Più ore e salario variabile

Alla GresLab, qui e nelle pagine precedenti, il ciclo della piastrella, dalla polvere di argilla al confezionamento

variabile in base ai profitti dell’azienda. Qui si lavorava mediamente 32 ore, noi ne facciamo 40. Ci sta, si fa. Su questo il sindacato non ci sente, ma bisogna muoversi. I sindacati sono conservatori per natura. Ma li capisco. Il ragionamento è semplice: mettiamoci sotto le coperte, teniamo la gente dentro le fabbriche e aspettiamo che passi la bufera. Invece andava fatto un discorso su salari e orari, capendo le innovazioni che sono arrivate in ceramica: la meccanizzazione ha cambiato tutto, nessuno può negarlo. E per certi versi una fabbrica che non produce lavoro non ha utilità sociale. Enormi strutture, vuote, non servono a nessuno. Pensiamo prodotti per i quali servono gli esseri umani». Lontano dal centro di Sassuolo sembra che la vita rallenti, ritrovando i ritmi di un tempo. Un mondo nel quale si muove, leggero come una rima, Emilio Rentocchini, poeta dialettale che molti considerano tra i grandi contemporanei. «C’erano due parole per descrivere Sassuolo: pulvras (polverone) e paciug (poltiglia). Entravi in ceramica e macinavano la terra. Oggi invece racconterei un mondo in crisi, perché ho l’impressione che questo luogo, così piccolo e chiuso, che si è saputo aprire al mondo, si stia richiudendo su se stesso. Mi resta, però, una visione positiva della gente. Persone che, in fondo, hanno sempre mantenuto una natura nascosta, sommessa, che le avvicina al montanaro. Ho speranza in quelli che sono ancora in grado di cambiare le cose, che hanno ancora voglia di scancherare, come diciamo noi. Ecco, vedo questo passaggio epocale come una battaglia con molti morti, ma che potrebbe segnare un nuovo inizio. E in questo senso il carattere sassolese può essere determinante», racconta Rentocchini, mentre le famiglie escono dalla messa. «Gli industriali hanno deciso, tempo fa, di restaurare la

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Una prospettiva vissuta sulla pelle da Antonio Caselli e dai suoi colleghi, che oggi gestiscono in cooperativa la GresLab, dopo che l’azienda madre era morta nel 2008. Loro l’hanno presa in mano, con l’aiuto di Lega Coop. «Non ci ha regalato nulla e ci ha posto tre condizioni: forte discontinuità con il passato, revisione di tutti i salari abbassando i più alti, e tutti con il 20 per cento


Palazzina della Casiglia, già sede dell’Assopiastrelle, che oggi ospita il Centro di documentazione dell’industria italiana delle piastrelle di ceramica. Ho pensato: hanno spolpato il prosciutto e messo in cornice l’osso. Perché una delle prime vittime di questo sviluppo è stata l’estetica di questa terra. Certo, ha dato da vivere, in zone che erano considerate depresse. Partendo dalla fame tutto veniva accettato, oggi non deve essere più così. All’epoca non c’era molta scelta, non mi sento di criticare le amministrazioni di allora. Oggi vanno pensate strategie differenti, più armoniche. E dinamiche. Perché il momento offre un bivio, tra un atteggiamento chiuso a difesa del benessere costruito dai nonni e un’apertura alle sfide della modernità. Bisognerebbe tornare a quando si partiva dal paese il martedì e si girava il mondo, senza conoscere le lingue. Mario, mio compagno di classe, andava in Germania e l’unica parola di tedesco che conosceva era ‘Telefunken’. Gente così, che la villa la costruiva qui, non in Sardegna. Il loro immaginario finiva in questo paese. I miliardari hanno frequentato per tutta la vita gli stessi posti e le stesse persone. Un borgo, che nel giro di pochi anni passa da quattordicimila a quarantamila abitanti, si è attaccato al dialetto per non perdersi. Era la lingua degli affari, delle innovazioni, delle trattative. Ma se fai qualcosa, loro te lo riconoscono, anche se vieni da fuori».

Marocchini di ieri e di oggi

L’emigrazione negli ultimi anni parla arabo e mille altri idiomi, ma per anni ha parlato un italiano altro, quello dei campi del Meridione. Biagio Antonio Santomauro, da quarant’anni a Sassuolo, è partito da Irsina, in Basilicata. Come migliaia di altri paesani. La coppola, la sigaretta all’angolo della bocca, la faccia da duro. Consigliere comunale di destra, per la prima volta in sessant’anni al potere in città. Scruta il quartiere Braida, regno delle migrazioni, sorto attorno al bisogno di manodopera delle piastrelle. «Quando sono arrivato io la convivenza era critica. Ma forse lo è ancora. Dopo quarantun anni pensavo di essermi integrato al cento per cento. E invece ci sono quelli che ancora non vedono bene noi meridionali. Io sono ancora un marocchino per tanti, ci chiamavano così. Ero convinto fosse finita, ma mi sbagliavo. Nonostante otto anni di consiglio comunale. Essere di destra non significa essere razzista. Ho sempre aiutato gli extracomunitari. Anche a mangiare a casa mia, vestendoli. Sono stato migrante, non te lo dimentichi. Solo che tutti devono rispettare le regole. Anche perché ’sti poveri cristi vengono anche sfruttati, con il lavoro nero. Se ne sono andati via in tanti per la crisi. Molti lavoravano per piccole cooperative appaltatrici, per tre euro all’ora, anche meno. Era impossibile vivere, alcuni dormivano nei parchi. Sono più sfortunati di noi, perché io ho lavorato duro, ma ho potuto costruirmi un futuro. Ventun anni nella stessa azienda. Le fabbriche mandavano i torpedoni al Sud a reclutare manodopera. Fino agli anni Sessanta al mio paese, in provincia di Matera, eravamo quattordicimila. Oggi ci sono più irsinesi a Sassuolo (seimila) che a Irsina (3.500). Ci sono ancora cicorie e finocchi, qui, nei parchi della città: li piantavano i meridionali per farsi l’orto». Ma negli ultimi anni anche per quelli come Santomauro le cose si sono messe male: «Nel 2008, dopo tanti anni, sono stato messo in mobilità. Ci siamo organizzati, tassandoci per l’acquisto di un generatore, per mantenere il presidio della fabbrica. Sentivamo la solidarietà della gente e degli

altri operai, addirittura qualche ristorante che ci portava da mangiare. Forse anche perché è stato il primo caso. Eravamo a casa, per Natale, e sul giornale abbiamo letto che dal 7 gennaio si chiudeva. Grazie alla mobilitazione dei lavoratori, e solo dopo dei sindacati – che qui non hanno fatto nulla vedendo tutto prima e non muovendo un dito – ci siamo ripresi, ma dimezzando il personale. E io sono rimasto a casa. Dopo ventun anni. Adesso non la vedo bene. In Consiglio comunale si discute animatamente di cambiare questo territorio, ma è dura. In uno o due anni non si riesce a convertire, è impossibile. Tutto ruota attorno alla piastrella, a ciclo chiuso. Tante piccole attività, artigianali, vanno in crisi. Vorrei sbagliarmi, ma i segnali che mi arrivano sono nefasti. Mobilità, chiusure. Ricorreranno al cottimo, senza tutele. La tecnologia è andata avanti, un tempo nelle smalterie c’erano tante donne, oggi è tutto meccanizzato. Per mio figlio, lo ammetto, avevo pensato a un futuro differente. Oggi, dopo undici anni, lavora nel settore pure lui. È come un destino per questa terra. E la gente è legata a questo destino, come alla sua crisi: il Comune ha investito oltre due milioni di euro per i servizi sociali e so per certo che qui c’è tanta gente che, per dignità, non chiede. La verità è che gli industriali, ormai, i soldi li hanno fatti e non hanno più voglia di investire. Anche perché molti figli di industriali non ne vogliono sapere, fregandosene delle amministrazioni che li hanno aiutati e degli operai che sono parte determinante del loro benessere. Il 2012 mi fa paura».

V


Il bivio di Fermo L’autostrada si srotola senza fantasia verso un’uscita nuova di zecca, Porto Sant’Elpidio. Dicono che sia stata la prima uscita ad aziendam in Italia. L’azienda beneficiaria sarebbe quella sullo sfondo. Una palazzina moderna, in vetrocemento, annuncia il mondo Loriblu, compatto e verniciato di efficienza. Come il suo fondatore: Graziano Cuccù. Insieme a sua moglie Annarita Pilotti ha sollevato la sua fabbrica, come

un’astronave, lontana dalla crisi. Nel distretto calzaturiero di Fermo e Macerata (tra i dieci migliori distretti industriali italiani per crescita) i grandi marchi tengono, ma l’universo di piccoli artigiani, casa e bottega, che ha creato un polo della scarpa unico al mondo è scomparso. Cuccù sta nel mezzo, tra l’industria multinazionale e il cammino iniziato negli anni Settanta. «Sono andato a lavorare presto, ero già innamorato di questo mondo: ogni casa era una scarpa. Mia madre, a casa, copriva i tacchi», racconta Cuccù, senza star mai fermo. Sembra un concentrato di energia, trattenuta a fatica nel suo camice bianco. «Andai in fabbrica a tredici anni, decisi di provarci da solo. Mi attrezzai in casa, in cantina, con il motore della vecchia lavatrice. Vibrava tutta la casa,


perché lo avevo attaccato al muro. La stanza era piena di polvere, nulla che aspirasse. Non sapevo bene cosa volessi fare, ma un giorno arriva uno che mi passa le sue vecchie macchine. Una piccola fabbrica, prima con mio fratello, poi da solo. E non mi sono più fermato». Ed è arrivato a creare una fabbrica nuova di zecca, outlet annesso, all’insegna del bianco. Cuccù si muove come il professor dottor Guido Tersilli, personaggio indimenticabile di Alberto Sordi, con il codazzo di collaboratori. Annarita non è da meno. Prima poliziotta in Italia, ex maestra elementare, oggi responsabile delle strategie commerciali dell’azienda. Negozi in mezzo mondo: da Roma a Dubai, da San Pietroburgo a Los Angeles, passando per Riad. Il fatturato vola: nel 2010 è stato

di circa 25 milioni di euro. In crescita costante rispetto agli anni precedenti: 7 milioni nel 2003, 8,7 nel 2005, 16 nel 2007, 20 nel 2009. Qual è il segreto? «È come per una famiglia: c’è chi sperpera e chi fa economia. Nessuno deve giudicare gli altri, ma abbiamo creduto nell’investire nel momento più difficile», racconta Annarita. «Quando apri una fabbrica devi fare una piccola cassetta di sicurezza – racconta Graziano – con il 10, 15 per cento del tuo fatturato. Lo chiamano Basilea 2. Io, con la quinta elementare, non sapevo che cosa fosse. Poi mi sono reso conto di farlo da sempre». Non sono state sempre rose e fiori. «È venuta la Finanza, ci ha massacrato. Ma ci siamo ripresi. Giurai di resistere, anche se ero stato solo ingenuo, ignorante. La legge non


Loriblu, Fermo. Suole, tacchi e cuciture: le scarpe dalla A alla Z

l’ammette. Ho faticato tredici anni, ma ce l’ho fatta», racconta Graziano. «E quando sento di qualcuno che si ammazza, lo capisco. Fanno controlli ogni tre, massimo sei mesi. E sono fiero del fatto che non trovino nulla. Come sono fiero dei miei operai. Chiedo tanto, ma li tratto come meritano, perché io ho fatto l’operaio», racconta Graziano, mentre mostra la zona relax, nuova di zecca, con palestra e caminetto per i dipendenti.

Mi sono fatto da solo

I rapporti di lavoro, però, non sono sempre stati virtuosi. La sede della Camera del Lavoro di Fermo, come per un destino, ha da poco traslocato in una vecchia fabbrica di scarpe. Dentro c’è Sandro Cipollari. Quando pubblicarono gli elenchi della organizzazione paramilitare segreta Gladio, il suo nome compariva tra i primi cento comunisti da deportare in caso di golpe fascista. Cipollari è la memoria storica di questo territorio, dove il sindacato è nato con lui. «C’è stato tanto da fare, nulla è stato regalato. Il momento di sicuro più duro è stato quello che ancora oggi viene ricordato come ‘i blocchi stradali’, nel febbraio 1971. Bloccammo comuni interi, decidevamo chi entrava e chi no. Lo Statuto dei Lavoratori era una conquista recente, quel vento arrivò anche qui. Dove l’arretratezza era anche imprenditoriale», racconta Cipollari, dritto come l’asta di una delle bandiere rosse dell’ufficio. «Una generazione di uomini che si erano fatti da soli, con una trafila classica: contadini prima, piccoli artigiani poi, piccoli imprenditori e infine industriali. Una storia simile per tanti. E all’improvviso si vedevano porre paletti, proprio nel momento in cui per la prima volta si arrestava la crescita impetuosa che aveva

arricchito questo territorio nel secondo dopoguerra. E la tensione saliva, perché centinaia di migliaia di contadini avevano scelto la fabbrica e non potevano certo tornare indietro. Basta ricordare che nei primi anni Cinquanta una frazione di Sant’Elpidio a Mare aveva seimila abitanti, oggi ne conta venticinquemila. Un esodo dalle campagne cui si sommava l’esodo di manodopera dal Meridione. In questi comuni, come Montegranaro (scarpe da uomo), Monte Urano (scarpe da bambino) e Porto Sant’Elpidio (scarpe da donna), i lavoratori coinvolti nel calzaturiero erano quasi il 90 per cento. Dalle aziende artigiane alle grandi imprese, in pochi chilometri. Dove convivevano il capannone classico e il piccolo laboratorio. Le donne in casa, magari in un sottoscala. «Contavamo circa tremila lavoranti a domicilio, condizioni di lavoro pessime, prodotti pericolosi come il benzolo che ha fatto ammalare decine di loro e i loro figli», ricorda Cipollari, facendosi serio, come a voler tenere a mente tutte le storie di lavoro incontrate in quegli anni. Perché lo sviluppo non è privo di dolore. «Tutto veniva sacrificato al boom economico, una grande ubriacatura collettiva. Le zone industriali sono arrivate dopo, prima le fabbriche erano in centro. E l’odore impregnava tutto. Si respiravano scarpe», racconta il sindacalista. «Piano piano iniziarono le lotte e ottenemmo il contratto nel 1970. Ma gli imprenditori non lo rispettarono. Eravamo riusciti, con lentezza, a entrare in fabbrica e a sindacalizzare gli operai, che cominciarono a rendersi conto dei loro diritti. E bloccammo le strade. Poi cedettero e le cose andarono bene, anche perché arrivava una generazione nuova di imprenditori. I più giovani sono arrivati a ringraziarci, perché fino agli anni


Settanta qui si facevano le scarpe a un costo minore rispetto al Nord, ma hanno capito che bisognava migliorare le produzioni, rendendole più moderne, non contare solo sullo sfruttamento della manodopera a basso costo. Li abbiamo aiutati a crescere, insomma. Anche se, tutto sommato, siamo cresciuti assieme. A Montegranaro c’era un circolo degli imprenditori e uno di operai. Nella stessa piazza, solo che uno aveva la moquette e l’altro no», sorride Cipollari, passando il testimone alla generazione attuale di sindacalisti. Quelli come Giuseppe Santarelli, per esempio. Segretario della Filctem Cgil di Fermo, che si occupa del calzaturiero. «Gli addetti, intendendo sia gli operai sia gli artigiani, al momento sono circa quattordicimila. Qui, nei momenti più floridi, si è arrivati anche a ventiduemila addetti. Numeri che parlano da soli. Che raccontano una crisi che ha vissuto una prima fase attorno al 2000, mentre la seconda ondata è iniziata nel 2008. Una crisi grave, internazionale, che ha colpito tanti settori. Anzi, in questo senso, il calzaturiero in termini di produzione, ha sofferto meno di altri», racconta. «Stiamo passando da un sistema diffuso sul territorio, che andava dal sottoscala della casa privata al capannone, con fasi di lavorazione dislocate in un sistema di microimprese, a un modello in cui tutte le fasi convivono in piccole imprese. Questo vale per tutti e due i grandi gruppi: NeroGiardini e Della Valle, che in termini di impiego assorbono più di un terzo del distretto. Questo, per certi versi, è stato un bene, ma preoccupa la politica del distretto: tutto dipende da pochi imprenditori, che fanno il bello e il cattivo tempo, tenendo in mano il destino di tutta la zona. Questi imprenditori, che spesso si presentano come gli eredi di una grande tradizione, sono i primi a sfruttare quel piccolo artigiano che richiamano spesso come modello. Per tanti anni, tante persone hanno pensato di poter diventare ricche. Pochi ce l’hanno fatta, ma non sono tutti Della Valle. La maggioranza è una schiera di piccoli e piccolissimi artigiani che hanno visto forme di sfruttamento soffocare i loro sogni di grandezza. Ma da questa concentrazione nasce un grande potere, che ha cambiato i rapporti all’interno della comunità che abita il distretto: un mondo che si basava su rapporti di conoscenza personale, quando non di parentela, è cambiato, comportando una cesura». Come quella di Guerriero Rossi. «Tutto è nato da un ‘agguato’ a Montezemolo, allora presidente di Confindustria, che in visita a Fermo venne avvicinato da una nostra delegazione. Esponemmo la situazione dei lavoratori nella fabbrica di Della Valle e questo comportò un inasprimento dei rapporti tra la proprietà e i dipendenti». Ha pagato Guerriero Rossi. «Da marzo 2009 stipendio pagato, ma sta a casa. Licenziato in tronco. Era il nostro più motivato rappresentante nell’azienda. Il giorno dopo una nostra conferenza stampa, Della Valle fa il giro degli stabilimenti per incontrare i lavoratori, per esporre le sue ragioni. Ne offende uno, non lo fa parlare. Guerriero scrive una lettera aperta e l’affigge in bacheca. Dove gli ricorda che anche lui è un comune mortale. Siamo al secondo grado di giudizio, dopo il reintegro rifiutato», racconta Santarelli. «C’è un dato che è interessante: nel 2005 un giornalista fece un’inchiesta dalla quale emerse che questo è il territorio con il rapporto più alto tra abitanti e numero di macchine di grossa cilindrata. Montegranaro, tredicimi-

Qui Etna Valley La mappa dei distretti industriali, sotto Roma, s’impoverisce. Eppure poli di eccellenza si segnalano anche al Sud. Catania, per esempio, con la sua Etna Valley, punto di riferimento dell’Information Technology in Italia e nel mondo. Pippo Pignataro ha visto nascere e crescere questa storia, fino alla crisi, dal punto di vista del suo impegno politico e sindacale nella Cgil. Come è nata Etna Valley? «Tutto è nato da una partecipata dell’Iri arrivata a Catania negli anni Settanta, che si chiamava Società generale di semiconduttori (Sgs). Questa società, all’epoca all’avanguardia, ha conosciuto una grande crisi e, a metà degli anni Ottanta, uscita dall’Iri, si è fusa con la Thomson. Alla fine degli anni Ottanta cominciava qui una nuova stagione politica che porta il segno di Enzo Bianco. Un periodo bello: il risveglio di una coscienza civica forte, di un orgoglio industriale, in linea con la storia di Catania. E un gran risveglio culturale, che attraeva aziende internazionali. La Thomson comprese e investì: nacque un polo di ricerca, si costruirono rapporti con le Università di Catania e Torino, si creò un indotto. Un processo lungo, ma sostenuto da questa azienda che ha saputo investire con rispetto e impegno, godendo di finanziamenti pubblici, ma garantendo occupazione ed elevata professionalità». Com’è la situazione adesso? «Oggi almeno duemila addetti del settore sono in cassa integrazione, che secondo me si protrarrà perché questa è una crisi mondiale. In recenti interviste la dirigenza sostiene però che il 2012 è l’anno del rilancio. Facendo addirittura capire che assumeranno. A sentire loro e i sindacati si può fare. Speriamo». In questi anni, che idea si è fatto di questa realtà? Perché funziona? «Penso che ogni territorio abbia una propria vocazione e bisogna individuarla e sostenerla, ma non è pensabile che Catania o altre località del Meridione possano risolvere i loro problemi puntando solo su un settore. Il limite di Etna Valley è stato questo: mentre cresceva questo settore non si è pensato che attorno al polo industriale bisognava sostenere l’agricoltura, il turismo o il terziario. Un errore che abbiamo fatto anche noi del sindacato. E così, nella disattenzione generale, un’azienda della ceramica che impiegava oltre seicento operai, esportando in Medio Oriente e Africa, è svanita». Quanto ha dato a Catania l’Etna Valley? «Ai lavoratori, non solo di Catania, perché molti vengono anche da fuori, tanto. Catania ha vissuto un’emancipazione dell’idea stessa di lavoro. Si è cominciato a guardarlo come un valore, non solo come un bisogno. Resta, però, la delusione dei salari bassi, al di là delle capacità personali. Ma bisogna riconoscere che questa è una bella storia».


L’anima di provincia

Con Santarelli lavora Mohammed Oued, dal Marocco. «Sono arrivato nel 2002, con un visto turistico. A quel tempo gli imprenditori arrivavano nei bar per reclutare manodopera», racconta divertito. «Le prime vittime della crisi sono oggi gli immigrati. I primi a essere cacciati dalla fabbrica quando entra in crisi sono gli stranieri, gli ultimi arrivati. Tanti immigrati, alcuni dei quali vivevano qui da vent’anni, sono andati via». Tra le stradine medievali della città vecchia di Fermo si aggira un cacciatore di storie. Angelo Ferracuti ha raccontato la sua terra e il lavoro, in libri e articoli. «Fermo ha il cuore antico della provincia dell’anima, quella un po’ austera, chiusa, ancora oggi claustrofobica, cattolicissima, aristocratica e moderatissima, dove l’autocensura sociale è ancora molto radicata», racconta Ferracuti, davanti a un bicchiere di ottimo vino. Quanto è cambiata Fermo, in questi anni veloci, dalla campagna alla fabbrica multinazionale? «Un luogo chiuso, così come raccontano la sua forma arroccata, le architetture dei suoi palazzi, certi scorci di vicoli quasi sinistri e inaccessibili, la quasi nulla vocazione al commercio, la quale, che piaccia o no, è parte della vita e della socialità di un luogo», spiega lo scrittore. «In questo è cambiata poco, i poteri fermi sono ancora fortissimi, resistono alle invasioni barbariche della modernità e resistono anche negli aspetti di controllo sociale, positivo ma molto impolitico, teso a frenare i conflitti, che sono sempre sotterranei, viscidamente vissuti in un parlatorio diffuso e molto ipocrita. Come nella provincia vera, non solo italiana». Un tessuto che si è allargato, però, come una maglia tirata, nelle periferie dell’industria globale. «La periferia, dove ci sono multisale, centri commerciali e outlet, non è troppo diversa da altri luoghi d’Italia. Le zone industriali sono identiche, anche se il paesaggio intorno è conservato benissimo. Una volta Fermo temperava da un punto di vista culturale la vita caotica, pulviscolare delle molte fabbrichette un po’ mastronardiane, con un controcanto virtuoso rispetto alle desertificazioni dei luoghi della produzione dei paesini, che comunque, tutti, conservano qualche bellezza. Era un luogo di cultura e di produzione diffusa. Oggi questa sua centralità si è un po’ persa, anche se permangono forme di resistenza, come il Premio Volponi, che ha coagulato energie intellettuali che vanno oltre il territorio e con uno sguardo attento anche al mondo del lavoro. Però trovo che siano sempre stati luoghi molto separati, inconciliabili. Neanche il sindacato è riuscito a trovare una sintesi tra il lavoro politico e quello culturale. È cambiato tutto qui, ma meno che altrove. C’era tanto lavoro e moltissimi abbandonarono la campagna per andare in fabbrica, senza però lasciare del tutto i campi. Tanto che molti operai delle fabbriche continuarono a fare il doppio lavoro, e qualcuno oggi – vista la crisi del settore – alla terra è tornato».

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Sos distretti C’è un mondo intero che si perde, a Prato come a Sassuolo, se non si salva la terza Italia. Un mondo in cui l’innovazione è stata un processo condiviso tra operai e imprenditori, avverte Edoardo Nesi, lo scrittore che meglio ha dipinto questo universo

Carlo Cerchioli [buenavista]

la persone, dieci volte le auto di lusso di Milano. Allo stesso tempo, però, le pensioni più basse delle Marche. Uno sviluppo forte, tanto lavoro, ma spesso sommerso. E sottopagato; e a livello contributivo si vede. Le pensioni dei padroncini sono le più alte. Anni Sessanta, Settanta, non si versavano i contributi ai lavoratori, ma se le versavano per sé».

Edoardo Nesi è uno scrittore. In passato, però, è stato un imprenditore, ultimo erede del Lanificio T.O. Nesi & Figli Spa, chiuso nel 2004. Nesi ha raccontato una storia di famiglia, che diventa insieme la storia del distretto del tessile di Prato e il lamento di un piccolo imprenditore, lasciato solo di fronte alle sfide della modernità. Storia della mia gente, edito da Bompiani, ha vinto il Premio Strega nel 2011 per la sua capacità di raccontare un universo di provincia. Nel libro non si scorge nessun rancore verso gli ultimi arrivati. Una solidarietà, invece, nella denuncia delle condizioni di lavoro disumane della comunità cinese. E la denuncia verso coloro che non hanno capito che a Prato non si perdevano solo posti di lavoro, ma un mondo intero. «È quello che ho cercato, disperatamente, di dire. Purtroppo noi viviamo in un Paese che per tanto tempo ha creduto allo stereotipo in base al quale l’imprenditore, anche piccolo, era un nemico della classe operaia. Il portatore di un rapporto di ineguaglianza, che doveva a tutti i costi essere modificato. Nelle grandi aziende magari succedeva, non lo nego, e la letteratura in passato se ne è molto occupata. Ma nelle piccole aziende, che in Italia sono di gran lunga la maggioranza, sia per numero sia per fatturato, questo non accadeva. Troppo spesso si è lasciato perdere il problema delle piccole aziende, identificandolo come un problema solo dei titolari, quando invece si trattava di una questione nazionale. Prato è un esempio: nel 2000 c’erano quarantamila lavoratori nel settore tessile, adesso se ne contano quindicimila. Sono numeri spaventosi, che danno l’idea di una sorta di esodo. Ogni volta che a Prato sentiamo parlare di grandi crisi aziendali, compresa la Fiat, guardando i numeri ci rendiamo conto di quanto il destino di tante piccole imprese conti infinitamente meno del destino di una grande azienda, che riesce


però a mobilitare l’opinione pubblica. Io ho provato a scrivere un libro che stesse dalla parte di tutte quelle persone che, nella provincia manifatturiera italiana, sempre poco raccontata, avevano perso il lavoro in questi ultimi dieci anni. E sono centinaia di migliaia. L’idea era quella di provare davvero a capire chi fossero i perdenti di questa situazione e tentare di stare dalla loro parte. Uno dei problemi che abbiamo, non solo in Italia, è proprio quello dell’informazione. Che troppo spesso racconta solo una parte delle storie, rendendosi colpevole di uno strabismo che può davvero fare del male. I distretti industriali, per me, sono un tema del quale, prima o poi, qualcuno dovrebbe farsi carico. Con chi ci vive – a Sassuolo, per esempio, o a Bergamo – sono sempre in contatto. Sindacati o piccole aziende mi invitano continuamente, raccogliendo testimonianze da molte realtà, perché il libro ha saputo forse raccontare davvero un problema nazionale. L’economia reale, quella che dà il sostentamento alle persone, alle famiglie, ai lavoratori. Mettere da parte questo mondo è grave». La grande industria, quando chiude, lascia un cratere rispetto ai posti di lavoro. Nei distretti, quando chiude un’azienda, scompare una tessera del mosaico, mutano lentamente gli equilibri di una comunità, dove spesso tutti hanno un legame con la produzione locale. Che conseguenze ha tutto questo? «Si perde la cultura di un luogo. Per Sassuolo, Prato e tutti gli altri, questa monoproduzione, spesso raccontata come una debolezza, è diventata la natura, la vita stessa della città. Influenza addirittura il nostro modo di parlare. A Prato, per esempio, sono tantissimi i vocaboli mutuati dalla lavorazione tessile. Si toccano meccanismi sacri e perderli significa perdere molto di più di un’azienda. Bisogna considerare che quando si parla dei danni che la globalizzazione ha portato, non abbiamo ancora visto niente. Al di là delle aziende che hanno chiuso i battenti, i lavoratori sono al momento minimamente assistiti grazie a una sacrosanta gestione della cassa integrazione. Se però viene messa in discussione, ci troveremmo davanti a un’esplosione sociale. A mio parere, per ora, abbiamo visto solo la punta dell’iceberg». Memoria imprenditoriale. Ha, dal punto di vista letterario, una sua tradizione, ma in momenti storici differenti. Ogni tanto si suicida uno di voi. Una disperazione che sembra nascere dal lavoro, come per tanti, ma che si carica di altri significati, fino a lambire la parte più intima di persone che si sono identificate del tutto con l’azienda, in quanto misura del successo o del fallimento personale. Fallisce solo un’azienda o tutto un progetto di vita? «Il piccolo imprenditore si identifica totalmente nella sua azienda. Un progetto di vita, sul quale si finisce per misurare quel che sei, quello che sei riuscito a fare. Per questo motivo, quando qualcosa va male, tutto gli crolla addosso. Ne ho conosciuti di imprenditori così: due anni fa uno di loro si è tolto la vita. Lo capisco perfettamente, perché non si coglie spesso questo aspetto della piccola industria, che ha tenuto in piedi l’economia italiana fino a ora. Forse non ci si rende conto che quando l’imprenditore comincia ad andar

male con la sua azienda si dà subito tutte le colpe. Non riesce a dar la colpa ad altri, per una sorta di meccanismo mentale si sente subito inadeguato, incapace di realizzare qualcosa. Anche di vivere. E se ne vergogna, di fronte a tutti: moglie, figli, operai, amici. Si innesca un meccanismo terribile, che non ha a che fare con la disperazione dell’operaio che perde il lavoro. Né più né meno dolorosa. Solo differente». I suoi figli stanno vivendo, forse, il tramonto dei distretti industriali. Ma ai suoi nipoti, che rischiano di arrivare quando è tutto finito, come racconterebbe il miracolo nato in piccoli borghi di provincia, dove è iniziata per certe produzioni la scalata ai mercati mondiali? «Proverei con la verità. Raccontando, per esempio, che c’è stato un tempo nel quale l’inventiva, la creatività, la fantasia contavano tanto nel mondo industriale. La classe politica continua a lamentarne l’assenza, ma non è vero. Da anni è la risorsa più grande di questo Paese. L’innovazione, da queste parti, non è stata frutto del genio, isolato e visionario, alla Steve Jobs. Nei distretti industriali, l’innovazione è stata un processo condiviso, che ha coinvolto migliaia di persone, chiamate a cambiare – giorno dopo giorno – il loro prodotto, migliorandolo sempre, rendendolo più unico, competitivo, vincente. Nel tessile, a Prato, una quantità enorme di tessuti eccellenti, dei quali si è preso il merito lo stilista di turno, sono nati dall’esperienza di un operaio o di un tecnico che ogni giorno apportava una miglioria, un contributo. Parlandone magari al bar o in piazza. Dove forse è nata la moda italiana, che però adesso racconta un’altra storia. Io, a Prato, ho visto manifestarsi un genio collettivo, che ancora mi lascia a bocca aperta». L’incubo. Un capitolo del libro si chiama così. Un giovane cinese e un italiano di mezza età. Dall’incomprensione si passa all’odio che si scatena per le vie della città. Quanto manca? «Prato ha vissuto un’immigrazione cinese di grandi dimensioni, che si è innescata in un meccanismo di profonda crisi del settore tessile. La causa di questa crisi non sono loro, fanno un altro lavoro, che non c’entra nulla con la produzione storica di questo territorio. Una parte della città, ogni giorno, vede la sua crisi diventare più aggressiva, dolorosa. L’altra parte, invece, operante in gran parte in condizioni di illegalità, prospera. Il fatto che non accada nulla di brutto a me sembra un miracolo. Mi è costato tanto scrivere quel capitolo. È un fantasma con il quale convivo. Tutti i giorni. Tutti noi siamo chiamati a incoraggiare il dialogo tra queste due città che convivono nello stesso territorio. Questa è la mia idea di integrazione: parlare dello spazio e dei problemi che si condividono».

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Buone nuove a cura di Gabriele illustrazioni Elfo

Battaglia

7 dicembre, Stati Uniti

L’Ufficio del procuratore di Philadelphia comunica che rinuncerà a chiedere l’esecuzione della pena di morte per Mumia Abu-Jamal, il giornalista ex attivista delle Pantere Nere arrestato il 9 dicembre 1981 e condannato alla pena capitale per l’omicidio dell’agente di polizia Daniel Faulkner. La pena del “più famoso condannato a morte del mondo” – così è stato più volte definito – è commutata in ergastolo senza possibilità di libertà condizionale.

9 dicembre, Francia

Si chiama “Plan Biodiversité” e prevede che sette nuovi ettari di verde siano realizzati a Parigi entro il 2020. Tra le altre cose, verranno aperti quindici nuovi giardini pensili e si aumenterà la superficie dei “tetti verdi” sulle case. I vantaggi di questa operazione, secondo la responsabile del progetto, Fabienne Giboudeaux, vanno «dal miglioramento dell’isolamento termico degli edifici alla riduzione delle emissioni nocive, fino all’abbassamento della temperatura globale e all’incremento della biodiversità negli spazi urbani».

9 dicembre, Paraguay

Il governo restituisce agli indios enxet mille ettari della loro terra ancestrale. La decisione arriva dopo una lunga battaglia della comunità davanti alla Corte interamericana dei diritti umani. Gli enxet Kelyenmagategma – Paraguay settentrionale – erano stati in passato vittime di violenze e intimidazioni. Con il nuovo accordo, il governo si impegna a fornire alla comunità anche alloggi, centri di assistenza medica, scuole e cinquecentomila dollari per sviluppare progetti nella comunità.

13 dicembre, Europa

La Ue mette il bando all’export di sostanze utilizzate per le esecuzioni capitali nei Paesi dove ancora si applicano, come gli Stati Uniti. La Commissione europea dichiara di volersi assicurare che nessuna sostanza esportata dall’Unione sia utilizzata “per la pena capitale, per la tortura o per altri trattamenti e punizioni crudeli, disumani e degradanti”. Tra le sostanze messe al bando c’è anche il Tiopental sodico, un sedativo impiegato per le iniezioni letali nei 34 Stati Usa dove la pena di morte è ancora in vigore.

15 dicembre, Ecuador

Per la prima volta, una donna omosessuale avrà la pensione di reversibilità della compagna defunta. L’Istituto ecuadoriano di sicurezza sociale (Iess) riconosce a Janneth Peña, una donna di 50 anni, i diritti pensionistici in seguito alla morte della compagna Thalìa Alvarez. È la prima volta, nella storia del piccolo Paese andino, che una coppia omosessuale si vede riconosciuti gli stessi diritti di una coppia etero.

15 dicembre, Sud Sudan

In soli quattro giorni, nel Paese più “nuovo” del mondo, circa 370mila bambini sotto i cinque anni di età vengono vaccinati contro la poliomielite, nell’ambito di una campagna promossa dall’Unicef e dall’Organizzazione mondiale della sanità. La poliomielite era ricomparsa nell’area ad aprile 2008, ma nessun nuovo caso era stato registrato da giugno 2009, anche grazie a un diffuso programma di vaccinazioni. A oggi, la malattia resta endemica solo in quattro Paesi: Afghanistan, India, Nigeria e Pakistan.

18 dicembre, Gran Bretagna

La Dow Chemical Company annuncia che non esporrà il suo logo sul telone decorativo che cingerà lo stadio olimpico prima e durante i Giochi olimpici di Londra 2012. La decisione fa seguito alle critiche rivolte al comitato organizzatore da parte di Amnesty International, che sottolinea le responsabilità della compagnia del Michigan nel disastro di Bhopal del 1984, in India: 3.787 morti per una fuoriuscita di isocianato di metile dalla Union Carbide. La Dow fu anche uno dei fornitori di napalm e agent orange per l’esercito statunitense durante la guerra del Vietnam.


16-21 dicembre, Italia

Nel giro di cinque giorni vengono liberati l’operatore di Emergency Francesco Azzarà, in Sudan, e l’equipaggio della petroliera Savina Caylyn (cinque marittimi italiani e diciassette indiani), nell’oceano Indiano. Due storie molto diverse tra loro, ma con un denominatore comune: italiani nel mondo, per lavoro.

21 dicembre, Cina

Nella provincia cinese del Sichuan, alcuni panda giganti nati in cattività saranno liberati per incrementarne la popolazione allo stato naturale. I primi sei esemplari, su una popolazione complessiva di 108, troveranno nuova dimora in un’area protetta di 780 ettari. Gli animali, nati da inseminazione artificiale, seguiranno un programma graduale: saranno inizialmente liberati in gruppo e monitorati in un territorio circoscritto; in seguito, se tutto andrà bene, saranno introdotti nelle zone più selvagge. Il censimento del 2004 aveva identificato 1.600 panda allo stato naturale. Nei programmi di ripopolamento, la difficoltà maggiore consiste nella riproduzione: le femmine ovulano una volta l’anno e sono fertili solo per un paio di giorni.

21 dicembre, Francia

Un nuovo servizio di taxi completamente gratuiti prende il via a Parigi. Si basa su una flotta di risciò elettrici che seguono gli stessi itinerari degli autobus: «Circoliamo continuamente seguendo i tragitti di dodici linee di bus, con un veicolo elettrico per ogni linea. Ci finanziamo con la pubblicità e con i piccoli dolciumi che vendiamo a bordo», spiega Kheir Mazri, ideatore del nuovo servizio, che sogna di esportare l’iniziativa anche in altre città europee, tra cui Milano e Roma.

23 dicembre, Germania

Basta con le email fuori orario di lavoro ai dipendenti della Volkswagen. I rappresentanti sindacali del produttore tedesco di automobili ottengono uno stop ai messaggi di posta elettronica “aziendali” fra le 18 e le 7. «Dopo una dura giornata di lavoro, gli impiegati hanno diritto a riposare», ha commentato il sindacato. L’intesa si applica a tutti i 1.154 dipendenti muniti di Blackberry aziendale, con eccezione dei vertici.

2 gennaio, Italia

A livello europeo, frutta e verdura italiane sono le più “libere” da pesticidi. Secondo i controlli del ministero della Salute, solo lo 0,6 per cento della frutta fresca e lo 0,3 per cento dei cereali risulterebbero al di sopra del livello massimo consentito. La media europea è di tre volte superiore. La buona notizia sta anche nel fatto che già dal 2006 al 2007 la percentuale di prodotti italiani con troppi fitofarmaci era scesa dal 4,4 del 2006 al 3,5 per cento del 2007; nei due anni successivi – dopo il varo

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di una legislazione europea più restrittiva – la percentuale era ulteriormente calata, passando dal 2,2 del 2008 all’1,4 per cento del 2009. I risultati attuali non sono quindi casuali, ma confermano una tendenza.

2 gennaio, Germania

Nel 2011, l’energia prodotta da fonti rinnovabili è stata maggiore sia di quella nucleare sia di quella prodotta dal carbone. Lo attesta un rapporto del Bundersverband der Energie und Wasserwirtschaft, l’associazione dell’industria elettrica tedesca. La quota delle rinnovabili ha raggiunto il 19,90 per cento del totale di energia prodotta, crescendo di ben 3,5 punti percentuali rispetto al 2010. La chiusura di otto reattori nucleari avvenuta lo scorso marzo ha abbattuto la percentuale di energia atomica (dal 22,2 al 17,7 per cento), mentre il carbone convenzionale resta fermo al 18,7 per cento. L’energia pulita è a questo punto la seconda fonte di elettricità in Germania dopo la lignite, un particolare tipo di carbone di cui il Paese è primo produttore mondiale, che sale dal 23,3 al 24,6 per cento. In dettaglio, tra le rinnovabili è l’eolico a fare la parte del leone (7,6 per cento), seguito dalle biomasse (5,2) e dal solare (3,2). La Germania intende coprire con fonti rinnovabili l’80 per cento del fabbisogno nazionale entro il 2050.


grill di

Till Neuburg

senza ammortizzatori A volte, anche i neologismi sgangherati aiutano a capire le cose complesse. Se, per esempio, in un immaginario (ma mica tanto) paese dei balocchi/tarocchi del trasporto privato, comperaste un’auto sprovvista di sospensioni, probabilmente vi costerebbe un bel po’ di meno. E, fintanto che con questo trabiccolo percorrereste solo strade diritte e senza buche, bumper, semafori e deviazioni, probabilmente non avreste grandi problemi. Ma, siccome anche le strade più scorrevoli possono sempre riservare qualche brutta sorpresa, è meglio disporre di un mezzo dotato di sospensioni che assorbono in modo sicuro le oscillazioni, le brusche frenate, i rimbalzi. Il fatto è che quando gli ammortizzatori non sono meccanici, idraulici o a gas, ma come si dice in gergo “sociali”, quei congegni tanto utili e rassicuranti semplicemente non sono compresi nel listino. Ve li dovete pagare voi. Dicendo così, non siamo per nulla fuori strada. Succede proprio così. Quegli extra, optional e protezioni che gli odierni, passati e sorpassati Minestroni del Lavoro, del part time e della disoccupazione si ostinano a chiamare amabilmente “mobilità”, “prepensionamento”, “indennità disoccupazione”, “cassa integrazione”, non sono finanziati dalle varie Marcegaglie monomarcia che hanno sempre sistemato la precarietà dei loro dipendenti nei sotterranei parcheggi sindacali, ma da chi sta in mezzo al viavai. Cioè noi. Noi, qui dentro nel Paese, nelle famiglie, nei posti di lavoro che continuano a scomparire come le rondini che non fanno più nemmeno mezza primavera. Tutti quei soldi che servono per ammortizzare, attenuare, ridurre al minimo i problemi di chi perde il lavoro, derivano da un consunto gioco delle tre tavolette, di cui una è da sempre taroccata. Ecco come si compone questo gustoso tris: 1) dalle trattenute dirette al dipendente, 2) dall’erario (cioè ancora da noi) che in parte sostiene anche l’Inps e infine 3) da ciò che, nominalmente, ci mette il datore di lavoro. Ma questo benemaledetto punto 3 è già stato calcolato come costo nei conteggi produttivi. In realtà, la quota che “ci mette il padrone” è fittizia perché, dal momento che è nascosta nel prezzo finale del servizio o del prodotto che poi si trastulla nel “mercato”, alla fin fine la paghiamo sempre noi. Ciò che, faticosamente, i sindacati trattano, ritrattano e poi trattano nuovamente, in modo, ahimé, sempre meno concertato, per chi perde il lavoro è ormai un ritornello poco orecchiabile. Soffiare all’unisono nei flauti magici dello spread, del default, della crisi delle banche e del Pil, suona bene solo a chi fischiano le orecchie. Di certo non amplifica i fischietti degli operai. Quando gli ammortizzatori – sociali e non – erano ancora strumenti risolutivi, il pilota Michele Alboreto se la prese con chi metteva a repentaglio la sicurezza degli altri: «Sulla Williams di Mansell, l’unica cosa intelligente sono le sospensioni». Il fattaccio è che oggi i Nigel Mansell buttafuori non guidano solo le Formula uno, ma anche le banche, i grandi media, il calcio, gli ospedali e gli acronimi paradossali, ipocriti e scemi, che vegetano nel nostro Parlamento.

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U


scacco matto nel lager lessi di

Neri Marcorè

foto Dave Greenwood [getty images]

Un libro letto anni fa che mi torna spesso alla mente per diversi motivi è La variante di Lüneburg, di Paolo Maurensig. Ho una discreta passione per gli scacchi, il che sicuramente non ha guastato per farmi intrigare dal romanzo, ma ovviamente non l’ho amato solo per questo. La storia si apre col ritrovamento del cadavere di un ricco uomo d’affari tedesco, Dieter Frisch. Accanto al corpo, una misera scacchiera costituita da un lembo di stoffa con sopra i pezzi disposti in modo ben preciso. Omicidio o suicidio? Il secondo capitolo (o centro-partita) rivela un cambio del punto di vista narrativo, che passa dalla cronaca giornalistica al racconto in prima persona di Hans Mayer, un ragazzo che entra nello scompartimento del treno Monaco-Vienna in cui Frisch, come ogni venerdì, consuma una partita insieme a un suo collaboratore. Non si tratta di una casualità come inizialmente potrebbe sembrare: Mayer si mette a parlare della sua dipendenza totale dagli scacchi e dell’incontro con Tabori, giocatore geniale poi emarginato dal nazismo, costringendo Frisch a rievocare il proprio passato e, al contempo, il lettore a venirne a conoscenza attraverso il terzo capitolo. Qui, il finale di partita passa nelle mani dello stesso Tabori, il vero narratore fin dall’inizio del romanzo: Frisch è lo pseudonimo dietro il quale si cela l’ufficiale delle SS che nel campo di concentramento di Bergen-Belsen costringeva Tabori a drammatiche partite la cui posta in palio era la sopravvivenza o l’esecuzione di altri prigionieri ebrei in numero esponenziale, ricalcando il modulo dei chicchi di grano della nota leggenda indiana sull’invenzione del gioco. Si erano già fronteggiati da ragazzi, i due, entrambi grandi promesse dello scacchismo mondiale e ora proiettati dalla storia su ben altro palcoscenico, occupanti ruoli diametralmente opposti. L’arrivo degli Alleati divide i loro destini ma non interrompe la terribile sfida che, a distanza di decenni, presenta il conto al nazista: egli finisce per tradire la propria vera identità in un articolo pubblicato su una rivista tecnica nel quale critica sprezzantemente quella variante, distintiva del gioco di Tabori, battezzandola appunto Lüneburg, dal nome della regione in cui sorgeva il lager. E così si torna al punto di partenza, a quella morte provocata da una vendetta demandata o dall’espiazione delle proprie colpe o, più probabilmente, entrambe. Non è mai ridondante né pretestuoso ricordare gli orrori dell’Olocausto. Se non altro per avere ben presente a cosa porta l’inferno delle dittature e sapere come riconoscerlo a distanza. Ultimamente mi pare inevitabile guardare con una certa preoccupazione a quel che sta accadendo in Europa: si sa che le crisi possono convertirsi in opportunità ma si sa anche che sono l’humus per il dilagare dei movimenti nazionalistici, pronti a gettare benzina sul fuoco delle fobie e dell’incertezza in cambio del controllo. Limitandoci alla struttura del romanzo trovo molto utile anche il promemoria di cambiare prospettiva rispetto a ciò che si guarda: si guadagna la gioia della sorpresa e si impara un altro punto di vista, il che dovrebbe aiutare a essere più concilianti. Per associazione d’idee, l’ultima riflessione riguarda la frustrante mancanza di dignità di certi onorevoli, refrattari a ogni speranza evolutiva: cambiare prospettiva, passare – faccio per dire – da uno scenario di governo a quello d’opposizione, anziché produrre contrizione per il proprio fallimento e responsabilità disattese, in taluni riazzera di colpo memoria e neuroni. Un minuto dopo aver cambiato condizione infatti li senti berciare idiozie senza sentirsi minimamente ridicoli, come se fossero appena arrivati da un altro pianeta, come se cambiare ruolo li avesse resi miracolosamente vergini di una nuova credibilità.

C


di

Francesco Vignarca

foto Dino [buenavista]

Fracchia

C’eravamo tanto armati 32


Costa molto ed è anche difficile calcolare quanto, visto che i finanziamenti sono disseminati di qua e di là. Dovrebbe, come tutte le uscite pubbliche, subire forti tagli, ma c’è il sospetto che siano solo dilazioni. Si consente il lusso di acquistare aerei – gli F-35 – di cui non si riesce neanche a calcolare il prezzo finale perché sta lievitando: per ora siamo sui 15 miliardi di euro. È il capitolo delle spese militari che ci vede ai primi posti di un mondo che investe sempre di più sulla guerra


▲Marina militare italiana, sommergibile Sciré, che fa parte, insieme agli aerei F-35, di uno dei programmi di armamento più costosi di sempre ▲▶Marina militare italiana, personale del ponte di volo a bordo della nave da assalto anfibio San Giusto In apertura, velivoli da attacco Tornado nel centro di manutenzione dell’Aeronautica militare italiana della base aerea di Cameri (Novara). In questo impianto verranno assemblati i caccia Lockheed F-35 previsti dal programma di sviluppo Joint Strike Fighter

Cinque milioni e mezzo di euro. È il costo, stimato a oggi, di un singolo motore del cacciabombardiere F-35 Joint Strike Fighter, il programma militare più costoso della storia cui partecipa anche l’Italia in collaborazione con altri Paesi. Praticamente quanto manca a Emergency – in questi tempi di crisi – per poter continuare con tranquillità la propria opera di cura delle vittime di guerre e conflitti. Per tutto un anno, e in cambio di un solo motore di un velivolo militare. Pensare poi che di caccia se ne costruiranno ben più di tremila e che il nostro Paese ne potrebbe acquistare circa 130, se verranno confermate le ipotesi iniziali, pone a tutti la domanda (retorica): «Ma come usiamo i nostri soldi?». Un passo indietro però è necessario: di che cosa parliamo quando diciamo “spese militari”? E come vengono calcolate? Con questa espressione si indicano tutti quei costi che uno Stato sostiene per finanziare il settore bellico, per mantenere Esercito, Marina e Aviazione in efficienza, pagare gli stipendi e le pensioni ai militari e stanziare fondi per la ricerca in ambito bellico. Il calcolo è invece una stima complessa perché la trasparenza in questo comparto, di solito, è un optional. Lo stesso Sipri (l’autorevole centro di ricerca svedese ormai da tempo punto di riferimento nel campo), quando conferma il decimo posto al mondo che l’Italia detiene nel 2010 in questo ambito, lo fa sulla base di un dato “stimato”, stante l’impossibilità di ottenerne di precisi. Una conferma di quanto denunciano da tempo le principali organizzazioni e centri studi del mondo del disarmo intorno alla scarsa leggibilità del bilancio della Difesa. Le spese vengono infatti spesso collocate in altri capitoli del bilancio dello Stato, rendendo più complessa la lettura: sono fuori dai conti della Difesa, per esempio, gli stanziamenti per i sistemi d’arma fi-

nanziati dal ministero dello Sviluppo economico o le missioni internazionali a carico del ministero dell’Economia. Va detto (i dati nel box a fianco, ndr) che a crescere è la spesa mondiale: nel 2010 il totale delle spese militari di tutti gli Stati ha superato per la prima volta i 1.600 miliardi di dollari complessivi (a valori odierni); una crescita in termini reali dell’1,3 per cento rispetto al 2008 e di ben il 50 per cento nel decennio iniziato con il 2001. Un decennio di “ricerca della sicurezza” che si è immediatamente tradotto in termini di investimento bellico e che ci vede ai primi posti nel mondo.

Quanto mi costi?

Tornando al nostro Paese, è importante analizzare le dinamiche che ci portano a essere tra i più grandi spenditori del globo. Il punto di partenza è la discussione (con successiva approvazione) in Parlamento della Legge di stabilità 2012 e il relativo bilancio, recentemente analizzati dalla Rete Disarmo, in particolare grazie al lavoro di Massimo Paolicelli della campagna Sbilanciamoci! (www.sbilanciamoci.org). Tra la documentazione spicca la tabella numero 11, che ha per oggetto lo stato di previsione del ministero della Difesa e che ignora bellamente gli effetti delle manovre dell’estate scorsa varate dall’allora ministro Tremonti e destinate a ripianare il debito dello Stato. Secondo quei due decreti legge, il comparto militare avrebbe dovuto subire una riduzione del saldo netto da finanziare per il 2012 pari a 1.446,9 milioni di euro. Ma non essendo stata la Difesa in grado di presentare dei tagli detta-

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Mondo bellico

gliati, questi minori costi si sarebbero dovuti rilevare, ad avviso del ministero stesso, al termine dell’approvazione in prima lettura in Parlamento del disegno di legge di stabilità. Di fatto è stato quindi presentato alle Camere un bilancio non corrispondente alla realtà. Le riduzioni per il triennio prevedono poi un taglio di 606 milioni di euro nel 2013 e di 786 milioni nel 2014. È probabile che, essendo le spese per il personale obbligatorie e quelle per l’esercizio ormai ridotte all’osso, la Difesa si sia trovata costretta a tagliare gli investimenti e che, con queste manovre, stia cercando di far slittare questa decisione per confondere le acque e non allarmare troppo l’industria bellica. Il taglio sull’investimento dovrebbe essere di 814 milioni di euro, ma sembra che non si sia ancora trovato l’accordo su cosa intervenire. L’idea che si possa trattare di un puro e semplice “dilazionamento” viene suggerita dalla stessa Tabella E della Legge di stabilità 2012: viene disposto un finanziamento del programma di sviluppo delle fregate Fremm, per il quadriennio 2012-2015, di 300 milioni di euro per anno, mentre il settore aeronautico, in particolare il programma Eurofighter, viene ridotto per il 2012 di 100 milioni di euro su 1.100 totali, ma contestualmente viene rifinanziato con 1.100 milioni di euro per il 2013, con 1.200 milioni di euro nel 2014 e con 4.800 per il 2015 e anni successivi (fino al 2018). Complessivamente il bilancio della Difesa presentato al Parlamento per il 2012 prevede uno stanziamento di 21.342 milioni di euro, con un incremento rispetto all’anno precedente di 785 milioni di euro (+3,8 per cento), registrando un rapporto rispetto al Prodotto interno lordo dell’1,3 per cento. In realtà la cifra reale, per le ricordate sforbiciate di Tremonti, dovrebbe essere di 19.895 milioni di euro, con una riduzione di

circa 661 milioni. Per la funzione difesa, riferita alle tre armi (Esercito, Marina e Aeronautica) sono stanziati 14.993,2 milioni di euro, con una crescita del 4,4 per cento, pari a 632,9 milioni di euro in più rispetto al 2011. Sono inoltre previsti 5.892,9 milioni di euro per la funzione sicurezza del territorio (i carabinieri), 99,9 milioni di euro per le funzioni esterne e 355,9 milioni di euro per il trattamento di ausiliaria. Analizzando la funzione difesa vediamo che il costo del personale cresce nel 2012 di 93,4 milioni di euro, portando lo stanziamento complessivo a 9.555,7 milioni di euro. È perciò completamente mancato l’obiettivo fissato dalla riforma della leva del 2001, dal momento che abbiamo un numero di comandanti (graduati) superiore a quello dei comandati (truppa). Un “cubo del comando”, e non una piramide, che vede il numero spropositato di 511 generali e ammiragli e una quota complessiva di marescialli più che doppia rispetto a quanto sarebbe effettivamente necessario. Ne risulta un organico con una età anagrafica molto avanzata e quindi poco incline all’operatività. Il paradosso emerge dalle missioni all’estero, attività ormai principale delle nostre Forze armate, che impegnano circa 7.435 uomini e donne, con evidente difficoltà a rispondere positivamente all’ipotesi di altre missioni. Al settore esercizio sono stati destinati, per il 2012, 1.512,4 milioni di euro, con un incremento rispetto all’anno precedente di 68,1 milioni di euro. Con questi fondi si provvede alla formazione e all’addestramento del personale, alla manutenzione e all’efficienza dei mezzi e alla sicurezza del personale; i tagli lineari fatti negli anni passati hanno colpito quasi sempre questa parte della spesa. L’investimento riguarda il delicato settore della ricerca, dello sviluppo e del rinnovamento

L’impegno dei governi per eserciti e armamenti ammonta al 2,6 per cento del Prodotto interno lordo del pianeta, con una spesa media di circa 240 dollari Usa a persona. Tutto questo mentre continuano a scendere gli investimenti per la ricerca e a ristagnare quelli effettivamente spesi per la lotta alla povertà, con fondi sempre più risicati e impiegati principalmente per rispondere a emergenze e non per supportare strategie di sviluppo e superamento dell’emarginazione. Un dato su tutti: nel 2010 le nazioni più sviluppate non hanno raggiunto (dati Ocse) i 130 miliardi di dollari di aiuti, che diventano complessivamente circa 150: meno del 10 per cento delle spese militari. Una tendenza generale molto chiara che si è verificata nonostante un rallentamento del trend in alcune aree, come per esempio in Europa, con una flessione del 2,8 per cento per il 2010. A far salire il dato complessivo hanno infatti contribuito soprattutto i maggiori investimenti di molte potenze regionali emergenti come Cina, Brasile, India, Russia, Sud Africa e Turchia. La spesa militare mondiale è molto polarizzata: il 75 per cento dell’investimento pubblico in armamenti del 2010 deriva da appena dieci Paesi, con gli Stati Uniti che si confermano leader della classifica con il bilancio della Difesa che da solo costituisce il 43 per cento della spesa mondiale. Tra gli altri protagonisti di questo comparto troviamo Cina, Gran Bretagna, Francia, Russia, Giappone, Arabia Saudita, Germania e India. Appena prima dell’Italia. Le spese militari persistono anche a causa dei conflitti armati in corso, i maggiori dei quali, secondo le valutazioni Sipri, nel 2010 sono stati almeno quindici; undici hanno riguardato il governo (il controllo del governo di un Paese) e quattro il territorio (la conquista di territorio). Negli ultimi vent’anni, non a caso, il rapporto tra risorse naturali e la propensione al conflitto è tornato a essere un punto chiave della sicurezza internazionale.


Economia armata Francesco Vignarca, che scrive per Altreconomia, per il proprio blog “I signori delle guerre” (www.altreconomia.it/ signoridelleguerre) ed è coordinatore della Rete italiana per il disarmo (www.disarmo.org), ha recentemente curato, insieme a Chiara Bonaiuti e Giorgio Beretta, il volume L’economia armata. La produzione e il commercio di armi: conoscerne i meccanismi per promuovere un’economia di pace (Altreconomia). Il libro è un’analisi minuziosa delle “banche armate” e dei fondi di investimento o fondi pensione – strumenti finanziari di cui tutti i cittadini si servono – che alimentano la produzione di armamenti.

dei nuovi sistemi d’arma: nel 2012 è prevista una spesa di 3.925,1 milioni di euro, con un incremento rispetto al 2011 pari a 471,4 milioni. Come abbiamo visto in precedenza, però, è qui che dovrebbe intervenire un taglio di 814 milioni di euro. Il tutto comunque per andare a finanziare sistemi d’arma di dubbia utilità per i nostri obiettivi di politica estera, che si esprimono principalmente con le missioni all’estero caratterizzate da operazioni di peacekeeping nelle quali dovrebbe prevalere la figura umana rispetto alla potenza dei mezzi militari. La spesa militare italiana non si ferma qui: ai quasi 20 miliardi, al netto di tutti i tagli lineari, va infatti aggiunto il fondo per le missioni internazionali di pace, incrementato con 700 milioni di euro dalla Legge di stabilità per consentire la partecipazione a tutte le missioni in corso fino al 30 giugno 2012. Negli ultimi anni la spesa media complessiva annuale è risultata essere di circa 1.500 milioni. Sono inoltre ingenti i fondi che lo stato di previsione del ministero dello Sviluppo economico mette a disposizione del comparto militare: 1.538,6 milioni di euro saranno destinati a interventi per il settore aeronautico e 135 milioni di euro per lo sviluppo e l’acquisizione delle unità navali della classe Fremm. Totale? 23,1 miliardi di spesa militare italiana per il 2012.

F-35, lo spreco più grande

Per comprendere al meglio le dinamiche della spesa militare è però opportuno partire dall’esempio più significativo, il programma Joint Strike Fighter per la costruzione del cacciabombardiere F-35 che è il più costoso programma aeronautico della storia, capitanato dagli Stati Uniti che l’hanno affidato alla Lockheed Martin e che vede la partecipazione di altri Paesi, tra i quali l’Italia. A mettere sotto analisi il programma, chiedendo l’uscita del nostro Paese, è stata dal 2009 la campagna Taglia le ali alle armi (www.disarmo.org/nof35). Il caccia F-35 è un velivolo di quinta generazione: un aereo da combattimento ottimizzato per il ruolo aria-terra (quindi per l’attacco), progettato con due stive interne per le bombe che possono essere anche di tipo nucleare, è a bassa rilevabilità da parte dei sistemi radar e avrà la capacità di operare come parte integrante di un Sistema di sistemi ovvero di una combinazione data da combattimento, raccolta di intelligence, sorveglianza dei teatri operativi e capacità di interagire con i sensori terrestri e aeroportuali. L’F-35 dovrebbe essere sviluppato in tre versioni (di cui una a decollo corto e atterraggio verticale per portaerei) all’interno di un progetto realizzato da Stati Uniti e altri otto partner: Regno Unito e


gere il costo dei propulsori, stimabile in 7,3 milioni di dollari per esemplare e il cui totale arriva dunque a 735 milioni di euro. Una spesa assai ingente a fronte di ritorni industriali e occupazionali che realisticamente si aggirano sulle seicento assunzioni nella fase di picco, con molti riassorbimenti da progetti ridimensionati come l’Eurofighter. Come ha dimostrato la recente inchiesta di Altreconomia, “Caccia a tutti i costi”, le fantomatiche penali da tempo utilizzate come spauracchio per qualsiasi ripensamento da parte dell’Italia in realtà non esistono. Ci si potrebbe quindi fermare: al momento sono stati spesi “solo” 2,7 miliardi per le prime fasi di sviluppo, mentre la fattura, per il solo acquisto, varrebbe 15 miliardi e comporterebbe poi dei costi di mantenimento ulteriori almeno doppi.

Le alternative possibili

▲L’F-35 in volo

Italia (primo livello), Olanda (secondo livello) e infine e Canada, Turchia, Australia, Norvegia e Danimarca (terzo livello). Il programma condiviso dai partner ha previsto di base la costruzione di 3.173 aerei, dei quali 2.433 sono per Washington: l’Italia avrebbe una quota di acquisto di 131 esemplari. I problemi però sono molti e continui e hanno fatto crescere a dismisura costi e tempi, costringendo il Pentagono (per la prima volta nella storia) a fermare i pagamenti alle industrie militari. Tra le questioni maggiormente problematiche c’è il nuovo casco avveniristico che non funziona come dovrebbe, mentre devono ancora essere risolti altri aspetti delle prestazioni tecniche e operative dell’aereo: l’aggancio della coda della versione C non funziona correttamente e non si possono eseguire atterraggi su navi, mentre le capacità di combattimento aereo scontano la probabilità di gravi impatti operativi, pericolosi per la sopravvivenza e le prestazioni del veicolo in aria. Eppure le ultime stime del Pentagono sul costo medio relativo a tutte le versioni sviluppate parlano di 133 milioni di dollari per esemplare, ben al di sopra di qualsiasi previsione. Ai costi attuali, l’acquisto dei 131 aerei F-35/JSF comporterebbe per l’Italia una spesa di circa 15 miliardi di euro, a cui bisognerebbe aggiun-

Secondo i dati della campagna Taglia le ali alle armi, con gli stessi soldi si potrebbero, per esempio, costruire duemila asili nido pubblici, mettere in sicurezza le oltre diecimila scuole che non rispettano la legge 626 e le normative antincendio, oltre a garantire un’indennità di disoccupazione di 700 euro per sei mesi ai lavoratori parasubordinati che perdono il posto di lavoro a causa della crisi. La ricerca di alternative dovrebbe essere il compito principale di chi è disgustato dai numeri che abbiamo messo in fila; e non solo nell’ottica di un banale spostamento (comunque opportuno e positivo) della spesa, ma sulla base di una diversa prospettiva mondiale per gli investimenti di lungo periodo. Basti pensare che la povertà e la fame estreme si potrebbero combattere in modo efficace semplicemente decidendo di spendere in quella direzione appena il 7 per cento degli investimenti pubblici militari. La riduzione della mortalità infantile e la cura maternale richiederebbero invece solo l’1 per cento di queste spese. Scelte di segno opposto porterebbero altri e maggiori vantaggi: secondo i dati del Global Peace Index, un mondo senza conflitti per tutto il 2010 avrebbe fruttato un recupero di fondi di oltre ottomila miliardi di dollari e un terzo di questa cifra astronomica sarebbe derivata dalla riconversione delle industrie belliche. Basterebbe una riduzione del 25 per cento del business armato per risparmiare duemila miliardi di dollari, utilizzabili in mille altre maniere. Un miliardo di dollari spostato da investimenti militari verso energie pulite o servizi di cura medica creerebbe molti nuovi posti di lavoro: il 50 per cento in più per quanto riguarda il comparto delle energie rinnovabili e addirittura il 70 per cento di aumento in ambito sanitario. Siamo proprio sicuri di voler continuare a buttare soldi per armi e guerre?

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spiriti liberi di

Giulio Giorello

la moglie allegra “Il dono più grande di Dio sulla Terra è una moglie allegra, con cui vivere serenamente e così capace da poterle affidare i beni, il corpo e la vita”. Così il più che quarantenne Martin Lutero giustificava le sue nozze (1525) con Katharina von Bora, giovane di ventisei anni che era stata spedita in convento ma aveva trovato il coraggio di evadere. Le parole del riformatore tedesco mi sono tornate alla mente leggendo del “grido di dolore” che viene da coloro che sono rimasti nella Chiesa cattolica romana: dall’insofferenza per il celibato di preti e suore fino alle denunce della pedofilia. L’aspetto paradossale è che in certi ambienti cattolici si accusa come responsabile dell’intero “disagio” quel Concilio Vaticano II (1962-1965) che sotto la guida di Giovanni XXIII e di Paolo VI si era battuto per una Chiesa più aperta, stimolando approcci antitradizionalisti a temi come il ruolo della donna nel sacerdozio, la libertà di matrimonio per i sacerdoti, le pratiche anticoncezionali, l’omosessualità ecc. Eppure, alcune delle “piaghe” della Chiesa sono ben più vecchie dell’inizio del Concilio! Inoltre, non basta l’indignazione moralistica contro questa o quella “deviazione”, quando, per di più, si rivolge contro coloro che avevano coraggiosamente indicato le profonde riforme di cui l’istituzione aveva bisogno. Attenzione, dico riforme al plurale e con la minuscola, e non la Riforma: occasione, quest’ultima, che Roma perse mezzo millennio fa! Reprimere senza capire vuol dire ingigantire i mali che si annidano nella stessa comunità ecclesiale fino a tramutarli in veri e propri “vizi capitali”. Questo tipo di distorsione non opera solo nella Chiesa. Sul Corriere della Sera (16 dicembre 2011) Piero Ostellino ha osservato come la lotta all’evasione fiscale resti vana, se non addirittura aggiunga danno al danno, quando non venga accompagnata dall’indicazione di una buona politica che salvaguardi le garanzie liberal-democratiche e al tempo stesso favorisca la crescita economica. Resta il fatto – aggiungeva l’autore – che “si è dirottata l’attenzione sull’evasione, distogliendola sia dalla spesa pubblica sia dalla pressione fiscale i cui eccessi sono all’origine della crisi e ne precludono le possibilità di soluzione”: i cittadini si indignano di fronte all’evasione “invece di mobilitarsi contro l’eccesso di spesa e di tassazione”! Ma se questo non verrà drasticamente ridotto, prospettando riforme di struttura, le nuove entrate finiranno “nel calderone della spesa e si tradurranno in una ulteriore dispersione di risorse”. Non sembri irriverente: la dispersione di risorse (umane ancor più che economiche) potrebbe essere l’esito anche di una politica delle gerarchie ecclesiastiche che sfrutti la crisi del cattolicesimo per liquidare il Concilio, attribuendo i mali della Chiesa a chi aveva tentato, coraggiosamente, di farvi fronte. Dio sa quanto avremmo bisogno, invece, di quella “parola scatenata”, cioè schietta e libera dai vincoli dell’ipocrisia e del conservatorismo, di cui han dato prova alla loro epoca figure come Lutero e signora.

Hieronymus Bosch, Nave dei folli, olio su tavola, 1494 circa

C


.eu di

Stefano Squarcina

foto Lynne [ap/lapresse]

Sladky

il tempo di Fatou Sentiremo parlare spesso di Fatou Bensouda, la nuova procuratrice generale della Corte penale internazionale (Cpi). Dal 16 giugno 2012 sostituirà Luis Moreno-Ocampo, che lascerà l’incarico che ha ricoperto per nove anni. Originaria del Gambia, Bensouda è stata procuratrice aggiunta del Tribunale internazionale per il Ruanda, con sede ad Arusha, in Tanzania, dove si stanno ancora giudicando gli autori e ispiratori del mostruoso genocidio del 1994. La nuova responsabile della Cpi ha davanti a sé un compito difficile: ristabilire la piena credibilità dell’organo chiamato a giudicare i responsabili di crimini contro l’umanità, crimini di guerra e genocidio, le tre categorie giuridiche sulle quali la Corte lavora. Fondata a Roma il 17 luglio 1998, la Cpi ha sin qui dato l’impressione di essere forte con i deboli ma debole con i forti, incapace di agire in situazioni drammatiche – come in Siria, Egitto, Yemen – o contro i potenti della Terra responsabili, per esempio, delle guerre in Iraq e Afghanistan. Dal 2003 sono stati aperti procedimenti che riguardano solo Paesi africani: tre su richiesta delle autorità nazionali di Uganda, Repubblica Centrafricana e Repubblica Democratica del Congo; due su impulso del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite contro il Sudan e la Libia; altre due, motu proprio, in Kenya e Costa d’Avorio. I soliti maligni dicono che proprio per questo è stata eletta un’africana alla magistratura suprema della giustizia internazionale, per dimostrare insomma che la Cpi non dipende dalla “giustizia dei bianchi”; Bensouda, però, ha fatto bene a specificare che “la giustizia non deve avere riguardi per nessuno” e che vuole lavorare “per le vittime dell’Africa e di tutti gli altri continenti”. L’Unione europea, che ha fortemente voluto la Cpi, ha il compito di sostenerne le attività, moltiplicando innanzitutto le risorse e i fondi a disposizione della Corte, che vive dei singoli contributi dei 120 Stati firmatari del Trattato di Roma; deve poi insistere, nell’ambito delle sue relazioni bilaterali, perché Cina, Russia e Stati Uniti vi aderiscano. E farsi carico della risposta anche a sollecitazioni più controverse, come quella di Amnesty International che da mesi chiede di aprire un fascicolo per crimini contro l’umanità nei confronti di George W. Bush. A quale titolo, infatti, vanno ignorati i capi di accusa contro ex presidenti che hanno autorizzato la tortura e numerosi trattamenti degradanti, in Iraq o Afghanistan, fino a promuovere la sospensione dello stato di diritto come a Guantanamo o nei casi di extraordinary rendition? Buon lavoro, procuratrice Bensouda. E non dimentichi che la legge (forse) è uguale per tutti.

K


di Roberta

Biagiarelli

foto Livio Senigalliesi [buenavista]

Storie dall’ 40


Le manze sono trentine, l’ostinazione pure. Gianni Rigoni Stern, insieme a Roberta Biagiarelli che qui lo racconta, ha deciso di sostenere concretamente il difficile dopoguerra di Srebrenica, Bosnia orientale. E ha cominciato a portare le Rendene e a consegnarle alla gente: perchĂŠ si può ricominciare da una mucca e in un posto a centinaia di chilometri si possono trovare le atmosfere di casa e dei compaesani

altopiano 41


Tutto è cominciato così, una notte tarda, nella casa di Gianni Rigoni Stern ad Asiago davanti a un piatto di spaghetti conditi con il burro fuso, squisiti. Era la fine di ottobre del 2008. Da oltre dieci anni vado a Srebrenica, Bosnia orientale, la città dove è stato compiuto il più grande genocidio nel cuore dell’Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. È il mio modo di fare teatro che mi ha portata fin là: le tematiche sociopolitiche che affronto, come gli incontri con i compagni di strada che talvolta con il teatro non c’entrano nulla, diventano la mia vita. Così, per scommessa, per sfida e anche un po’ per gioco, è maturata tra me e Gianni l’idea della TransuManza della Pace. Io ci ho messo l’esperienza sul campo e le relazioni sviluppate nel corso degli anni nell’area di Srebrenica, Gianni la competenza da agronomo e forestale, i trent’anni a capo della Comunità montana dell’altopiano dei sette Comuni di Asiago, oltre alla sua caparbia volontà da montanaro. Il resto l’ha fatto la complicità e la forza di non arrendersi di fronte al dopoguerra, quello bosniaco delle campagne che, da quest’altra parte del mare Adriatico, si fa fatica a figurarsi. Gianni è “sbarcato” sull’altopiano di Suceska, sopra Srebrenica, nell’agosto del 2009 e lì ha ritrovato il suo di altopiano, quello di Asiago, con la miseria lasciata in montagna dalla Prima guerra mondiale e ha provato dolore e rabbia di fronte a un paesaggio distrutto dall’abbandono dell’uomo: la pulizia etnica in questi luoghi si era consumata già nel 1992 e solo dal 2000 i sopravvissuti delle famiglie che erano scappate hanno iniziato a tornare. Casa per casa, famiglia per famiglia, pranzo dopo pranzo, Gianni ha cominciato a stilare una lista precisa di bisogni e necessità; a poco a poco ha fatto conoscenza con la gente, ha ascoltato le loro storie sugli anni della guerra e del dopoguerra (1992-1995) e si è conquistato la fiducia della comunità.

A lezione di pascolo

I viaggi tra Asiago e Suceska sono diventati mensili, Gianni si è organizzato per impartire ai contadini e agli allevatori delle lezioni che potessero essere loro d’aiuto nella difficile quotidianità del lavoro della terra. In quelle aree c’è ancora un’economia di sussistenza, pesa la mancanza di un’intera generazione, quella di mezzo, quella degli uomini uccisi. Le lezioni hanno riscosso un successo inaspettato, i contadini facevano più di un’ora di strada a piedi per esserci, e questo interesse ha stimolato Gianni a cercare fondi per portare a Suceska delle manze e manzette: dall’alto della sua esperienza sa bene che i migliori operai per il recupero dell’ambiente sono gli animali. Abbiamo provato a coinvolgere nel progetto le istituzioni locali, ma gli sforzi si sono rivelati inutili: nella Bosnia-Erzegovina post Accordo di Dayton lo Stato non esiste. I soldi sono arrivati invece dalla Provincia autonoma di Trento: sono serviti a comprare vacche

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Rendene, eccellente razza autoctona, mite, rustica e resistente, che arriva dalla omonima valle trentina. È iniziata così la lunga trafila burocratica per la donazione delle manze a favore di un Paese non comunitario, procedure estenuanti che hanno messo a serio rischio il progetto stesso e hanno richiesto un’infinita pazienza. Non è stato facile neanche assegnare gli animali alle famiglie: Gianni aveva a disposizione quarantotto manze e manzette di età compresa tra i dodici e i ventiquattro mesi, alcune già gravide, le altre da ingravidare, ma il numero degli allevatori e delle allevatrici locali che ne avevano fatto richiesta era notevolmente superiore. Per poter ricevere la manza occorreva aver partecipato a tutte le lezioni di Gianni, e le condizioni familiari dovevano essere particolarmente svantaggiate: è nata così la prima lista di beneficiari. Il primo dicembre del 2010 nevicava: siamo andati di stalla in stalla in Val Rendena a ritirare gli animali, li abbiamo radunati nella stalla centrale della Federazione allevatori trentini e poi, durante la notte, è iniziato il lungo viaggio su un enorme camion fino alla stalla di confine tra Croazia e Bosnia-Erzegovina dove hanno trascorso il periodo di quarantena, prima di essere consegnate alle famiglie bosniache. Alla vigilia di Natale, in un clima di palpabile emozione, gli animali sono stati portati fino alle loro nuove stalle sull’altopiano di Suceska. Gli uomini, più curiosi delle donne, sbirciavano sotto al telo del camion per individuare la manza che era stata loro assegnata per sorteggio, ciascuno aveva in mano il contratto che Gianni gli aveva fatto firmare, un atto con il quale i destinatari si impegnano a rispettare un piano di fecondazioni in corso, ad allevare le femmine che nasceranno, a vendere i maschi all’interno dell’area e a prendersi cura delle bestie perché, come Gianni ribadisce in continuazione, la vacca deve essere un punto di partenza e non di arrivo.


Lui parla in veneto agli abitanti di Suceska: «Mi te dago la vacca, se te no ghe’a tieni ben, mi te copo!» (Io ti do la vacca, se te non la tieni bene, io ti ammazzo!). Il suo assistente locale Edin Durakovic´ poi si incarica di tradurre. La differenza sostanziale tra gli aiuti umanitari messi in campo in quelle aree da diverse organizzazioni internazionali in questi anni, molti dei quali si sono volatilizzati, sta nel monitoraggio e nella costanza: Gianni non dona e scappa, ma vuol vedere come e dove le vacche andranno a finire, ha messo in atto un processo di recupero e riappropriazione consapevole del luogo in cui si è tornati a vivere.

La seconda generazione

Sull’altopiano bosniaco lo scorso maggio sono nati i primi vitellini e manzette: la prima in assoluto è stata una femmina e l’hanno chiamata Lella, come la moglie di Gianni. Quelle di Suceska ormai sono le stalle di Gianni, lui prosegue i suoi viaggi avanti e indietro tra l’Italia e la Bosnia, continua imperterrito a fare le sue lezioni e non perde occasione per maledirmi per averlo trascinato fin là, di avergli “rovinato” il tempo tranquillo della sua pensione, di avergli fatto percorrere in due anni settantacinquemila chilometri con la jeep


comprata con la liquidazione. Mi cerca su Skype, lui che fino a due anni fa non sapeva che cosa era internet, mi parla con il suo linguaggio da alpino, anteponendo a ogni nostro aggiornamento: «Sta attenta!». E alla fine di novembre, grazie ai nuovi fondi, altre trentuno manze sono partite dalla Val Rendena verso la stalla di confine per la quarantena: il Natale è stato ancora una volta un momento speciale, con Gianni e sua moglie Lella, silente sostenitrice dell’iniziativa fin dal suo nascere, impegnati a consegnare gli animali alla gente di Suceska. Un giorno vorremmo costruire a Suceska un piccolo caseificio, per continuare a ri-generare valori, scambi, relazioni postive, «tra compaesani che vivono differenti geografie», e portare da Asiago un maestro malgaro per tramandare ai bosniaci la capacità di fare formaggi anche stagionati. Ci piacerebbe che quel caseificio fosse dedicato alla memoria operosa di Mario Rigoni Stern, il padre di Gianni.

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E poi i trattori La TransuManza della pace è il road movie girato da Roberta Biagiarelli per documentare l’omonimo progetto, condotto insieme a Gianni Rigoni Stern. Dalla donazione di manze si è passati ai trattori, necessari a meccanizzare l’agricoltura sull’altopiano bosniaco. In soli sei mesi sono stati raccolti i soldi per l’acquisto dei due mezzi a doppia trazione da offrire alla comunità, adesso mancano i fondi per il trasporto e il pagamento dei dazi doganali d’importazione, oltre a otto catene da neve con i ramponi indispensabili per lavorare anche d’inverno. Per proseguire la raccolta fondi Roberta Biagiarelli ha realizzato un altro documentario Un trattore per la Bosnia. Dedicato all’intero progetto è il sito www.babelia.org.


televasioni di

Flavio Soriga

illustrazione

Borislav Sajtinac

il diario del nulla «Cioè, avé rispetto de tutti nun vor dí che je devi sempre dí de sì in faccia e poi a’e spalle je dici de tutto». Se state cercando di capire cosa significa, lasciate perdere: è un pomeriggio qualunque al “Grande Fratello”. Franco ha appena spiegato a Martina che magari poteva nascere qualcosa, tra loro, ma la colpa è sua (di lei) perché l’ha messo lì in un angolo, PUM PUM PUM, ha deciso tutto lei, era meglio se je faceva nasce un po’ de curiosità. Poi però Franco spiega anche che in fondo, un po’ di curiosità in lui c’è. Soltanto che ci sono dieci anni di differenza, tra loro (quando lei era alle medie, lui già sognava di partecipare al “Grande Fratello”), e questa cosa dei dieci anni (come spettatori non si notano) lui non riesce proprio a superarla. Però poi Martina dice che quando scatterà qualcosa da parte di lui, se scatterà, lei “gliela farà sudare”. Perché, diciamoci la verità, una ragazza che te la dà subito ti toglie tutta la poesia. Perché, diciamoci la verità, ci vuole un po’ di rispetto (qualunque cosa significhi). Sono passati dodici anni da quando è nato il diario quotidiano del nulla televisivo e chissà quante centinaia di glutei e cosce e pettorali e ventri piatti e occhioni piangenti, chissà quanti pianti sconsolati e spiegazioni barocche e critiche immotivate e scuse da due soldi e amplessi notturni e compenetrazioni in penombra. Chissà cosa potrebbe comportare, sulla psiche di un essere umano medio, la visione completa di tutto il girato della dozzina d’anni del programma. Chissà cosa avrebbe potuto scrivere, George Orwell, del “Grande Fratello”. Chissà come sono cresciuti, i ventenni di oggi, dall’età di otto anni esposti alla visione (iper-visione) di questo materiale infinito, di questo magma di parole e frasi fatte, luoghi comuni, pensierini da bar, sempre esternati con aria compunta e grave. Chissà quanti ragazzi e ragazze parlano esattamente così, nella vita di tutti i giorni, a scuola e al lavoro. Chissà se sarà possibile, un giorno, capire se il “Grande Fratello” ha inventato un modello di comunicazione (pomposo, insincero, ma con continua proclamazione di sincerità) o se l’ha solo preso dalla realtà, dando rappresentazione a chi non ne aveva. (“E l’antidoto che ho/al futuro anonimo/è la scritta Calvin Klein, è la firma D&G/tatuata sugli slip/sopra la vita dei jeans/che quest’anno va bassa, va bassa/Ed i cantanti dalla radio cantano/ed ogni anno foglie morte cadono/i calendari cambiano/i centravanti contano/e tutto il resto è inutile” – Baustelle, A vita bassa, 2005)

[siae 2012]

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decoder di

il capitale

Violetta Bellocchio

di

Niccolò Mancini

potenti il mercato emozioni ti guarda Poco prima di versare mezza lacrima durante il discorso del 4 dicembre scorso, il ministro del Lavoro Elsa Fornero aveva incontrato una delegazione del Forum nazionale giovani. La delegazione però era priva di donne e Fornero avrebbe abbandonato la riunione, infastidita da quello che chiamava «un atteggiamento culturalmente sbagliato». La notizia, poi smentita, sarebbe comunque passata in secondo piano di fronte al pianto del ministro. Impossibile guardare il filmato del discorso senza accorgersi del milione di flash in sottofondo, scattati al primissimo accenno di difficoltà da parte di Fornero. Il singolo fatto sarà anche stato un incidente di percorso: non lo è il tentativo di umanizzare un politico professionista mettendone in evidenza il lato emotivo, frutto di una crisi reale o di un “momento” costruito ad arte. Lo scorso maggio era toccato al segretario di Stato statunitense Hillary Clinton, fotografata con una mano sulla bocca mentre, pare, stava ricevendo informazioni sul raid contro Osama bin Laden. In passato a Clinton era stato imputato un eccesso di freddezza: troppo trattenuta, poco espressiva, si era salvata solo quando le infedeltà del marito Bill le avevano affidato il ruolo della donna umiliata. Ma quando quella foto è diventata pubblica la storia ha preso una nuova piega. Doppia. Da un lato, ecco il calore che stavamo aspettando; dall’altro, possiamo permettere a una persona tanto fragile di occupare le stanze del potere? Risultato: Clinton ha detto «era solo un colpo di tosse», ha parlato di «allergie», ha fatto di tutto per cambiare discorso. Perché se non ti commuovi sei un mostro, ma se sul viso ti passa qualsiasi cosa non è detto che tu sia in grado di portare a termine operazioni più complesse di un toast. Oppure sì? E il dibattito continua. Il mondo dello spettacolo è stato ridisegnato dal metodo Maria De Filippi, dove le “emozioni” sono diventate l’unico criterio adatto a giudicare una prestazione lavorativa. Perché la politica dovrebbe essere diversa?

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L’incertezza continua a essere il tema portante dei mercati finanziari anche in questo inizio del nuovo anno con esperti e operatori attenti a cogliere probabili nuovi segnali in arrivo dalla Banca centrale europea e soprattutto dalla classe politica continentale, dalle cui scelte dipenderanno i tempi di uscita dalla crisi. I timori sono legati a una probabile, ulteriore flessione delle economie dell’eurozona sulla scia delle misure di austerità varate dai principali Paesi che a detta di molti economisti si rifletterà anche sulle economie di Germania e Francia. Del resto, molti sono i quesiti che restano senza risposta anche a poche settimane dal vertice Ue del 9 dicembre, quello per intenderci che era stato ribattezzato nei giorni precedenti “la madre di tutti i summit” e che in realtà non si è rivelato all’altezza delle attese pur riuscendo almeno parzialmente ad allentare le tensioni in particolare sui Paesi più esposti all’attacco della speculazione internazionale come sempre supportata dall’azione sempre meno ortodossa delle principali agenzie di rating. In particolare i mercati si chiedono in che tempi si approveranno i piani di centralizzazione della gestione dei bilanci, come verranno attuate le nuove regole fiscali, come funzioneranno i vari fondi di salvataggio ipotizzati e, soprattutto, come si procederà alla riduzione dei deficit di bilancio europei senza soffocare la crescita e senza scatenare i temuti disordini sociali. Inutile dire che, a causa di un rapporto deficit/Pil di oltre il 120 per cento, l’Italia continua a essere il “sorvegliato speciale” anche se qualche segnale di distensione è arrivato dalla riduzione dei tassi sui titoli a breve termine (con scadenza fino a tre anni) mentre miglioramenti solo marginali si sono avuti sui rendimenti a più lungo termine e sul differenziale (il famigerato spread) a dieci anni con i titoli tedeschi. La sensazione è che Paesi come il nostro saranno costretti anche per i prossimi mesi a sopportare tassi d’interesse più elevati pur di convincere gli investitori a sottoscrivere le nuove emissioni di titoli statali, con inevitabili conseguenze sulla vita quotidiana di buona parte della popolazione. In sintesi possiamo dire che, se sembra allontanarsi l’ipotesi del default italiano, troppi sono ancora gli elementi dall’esito ancora incerto che ci possono indurre a dichiarare conclusa la crisi del debito europeo e di implosione dell’eurozona.

K


Casa dolce casa a cura di Stella

Spinelli

6 dicembre, Verona

Una donna di 60 anni, Daniela Bertolazzi, è stata uccisa in casa dal suo convivente, nel quartiere Pindemonte a Verona. L’uomo, Pierluigi Petit, 58 anni, è in stato di fermo per omicidio aggravato. È stata la madre di Daniela a scoprire il delitto. Da cinque giorni, l’ottantatreenne tentava di mettersi in contatto con la figlia, ma al telefono rispondeva per scriverci: sempre Pierluigi, dicendo che Daniela aveva casadolcecasa@e-ilmensile.it la raucedine. La donna, che ha dato l’allarme al 113, avrebbe spiegato che il cinquantottenne avrebbe ammesso il delitto. Daniela Bertolazzi è stata uccisa con venti colpi inferti alla testa con un martello e con un attrezzo da palestra. L’omicidio sarebbe maturato al termine di una violenta lite tra la coppia. I due convivevano dal 1992 dopo che la donna aveva divorziato. Pierluigi Petit, davanti al giudice per le indagini preliminari, ha spiegato di essersi arrabbiato perché la sua compagna insisteva affinché la coppia iniziasse una serie di sedute d’analisi perché da tempo l’uomo non usciva più di casa. illustrazione

Guido Guarnieri

22 dicembre, Melfi (Pz)

Casa dolce casa è l’osservatorio mensile sulle donne uccise in Italia da uomini che conoscevano, che hanno amato, di cui si fidavano. Si chiamano femminicidi e rimandano alla relazione di potere tra i generi, che resta tuttora un fattore che ordina la società. I dati pubblicati, vista l’assenza di ricerche ufficiali sul fenomeno, sono raccolti dalla stampa e riguardano il periodo di tempo dal 6 al 31 dicembre 2011. Questo monitoraggio viene effettuato in collaborazione con la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna (www.casadonne.it), associazione impegnata da diversi anni contro la violenza sulle donne, alle quali offre sostegno, ascolto, consulenze e case-rifugio, con una particolare attenzione ai figli minori. Da tempo inoltre la Casa svolge un lavoro di ricerca sul femminicidio dal quale ogni anno deriva un’indagine-quadro sulle donne uccise: nel 2011 sono state 97.

Era geloso di un ex fidanzato che continuava a ronzarle intorno e l’ha uccisa. È morta così Mariya Alferenok, 53 anni, badante ucraina che da tempo conviveva con Vito Y., 33 anni, suo connazionale. È stato proprio lui ad avvertire i carabinieri alle 13 del giorno dopo. La donna era morta da ore in seguito a un violento pestaggio. I carabinieri l’hanno trovata sul letto con il volto tumefatto. Sembra che Vito avesse ridotto Mariya in schiavitù: la picchiava continuamente e viveva alle sue spalle, sfruttandola. I carabinieri lo definiscono «un parassita». Per i magistrati della Procura di Melfi è un assassino che «ha ucciso per futili motivi».

23 dicembre, Francavilla al Mare (Ch)

Luca D’Alessandro, 18 anni, ha ucciso Silvia Elena Minastirenau, romena di 20 anni, per un bacio negato. Lo studente di Chieti ha confessato: l’ha strangolata nella serata del 23 dicembre nell’appartamento dell’escort che frequentava ormai da dieci mesi. Si trattava di rapporti sessuali a pagamento, ma Luca iniziava a pretendere altro e, di fronte al rifiuto di Silvia, ha perso la testa. Durante un furibondo litigio l’ha colpita e poi afferrata al collo fino a soffocarla. A nulla è servito il tentativo disperato di divincolarsi della giovane. Luca ha dunque nascosto il corpo seminudo sotto il letto e ha trafugato effetti personali, indumenti intimi e soldi. Sembra che i due avessero già litigato molte volte in passato.


27 dicembre, Licodia Eubea (Ct) Era una studentessa Stefania Noce. Aveva 24 anni e un ex, Loris Gagliano, che non si rassegnava a perderla. L’ha uccisa, pugnalandola nella sua casa di Licodia Eubea. Con lei ha perso la vita anche il nonno, Paolo Miano, 71 anni, che ha cercato di difenderla dalla furia di quel laureando in Psicologia alla Sapienza di Roma, che la nipote conosceva da sempre. Dopo il duplice omicidio e il ferimento della nonna di Stefania, Loris è scappato in auto percorrendo quasi 40 chilometri prima di fermarsi sul lungomare di Acate, dove, in stato confusionale, ha tentato di togliersi la vita collegando il tubo di scappamento della sua auto all’abitacolo per respirare i fumi nocivi. Attualmente il ragazzo è agli arresti con l’accusa di duplice omicidio e tentato omicidio. Stefania Noce era una giovane donna impegnata: è stata ricordata dai suoi amici con una bella foto che la ritrae durante la manifestazione di Se non ora quando a Catania e con un suo scritto dal titolo: “Nessuna donna può essere proprietà oppure ostaggio di un uomo, di uno Stato, né tantomeno di una religione”. Dedicato, scriveva, a “tutte quelle donne che non hanno ancora smesso di lottare, ma soprattutto a chi non ci crede. A quelle che si sono arrese e a quelle convinte di potersi accontentare”.

Un anno dopo a Novi di Modena (Mo)

Shahnaz Begum, pachistana di 46 anni, nell’ottobre del 2010 venne uccisa dal marito perché aveva osato difendere il diritto della figlia Nosheen, allora diciannovenne, a ribellarsi al matrimonio combinato con un uomo che non amava. Per questo è morta lapidata dal marito Khan Butt, 53 anni, nel cortile della loro casa di Novi di Modena. L’uomo le aveva sfondato il cranio a colpi di pietra. Anche la figlia Nosheen ha rischiato di morire, dopo essere stata presa a sprangate dal fratello Umair, allora diciottenne. A un anno di distanza è arrivata la sentenza: Khan Butt, il marito, è stato condannato dal tribunale di Modena all’ergastolo, mentre il figlio Umair è stato condannato a vent’anni di carcere per concorso in omicidio volontario – per non aver impedito l’uccisione della madre – e per tentato omicidio nei confronti della sorella. Non era in aula Nosheen, e nemmeno gli altri tre fratelli di 15, 17 e 18 anni. Da quando la loro famiglia è stata travolta dalla violenza, vivono vite parallele, seguiti dai servizi sociali. Dopo l’aggressione, la ragazza ha passato un lungo periodo in ospedale, quindi è stata ospitata in una struttura protetta, in un luogo segreto.

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Fabrizio De André testo e illustrazioni

Sergio Algozzino a cura di BeccoGiallo

Sergio Algozzino

Disegnatore e colorista, insegna presso la Scuola del Fumetto di Palermo. Nel 2006 ha fondato il portale didattico gratuito Kinart (www.kinart.it).

Bocca di Rosa, Piero, Michè, Marinella, il Suonatore Jones, Carlo Martello, il Pescatore, Don Raffaè: che cosa succede se i personaggi delle canzoni che ci ha regalato Fabrizio prendono magicamente vita per raccontarci in prima persona il loro stesso indimenticato creatore? Una galleria memorabile di personaggi umili e ultimi, un coro di voci e volti appassionato, capace di regalare emozioni per continuare a raccontare De André e a sentirlo più vicino che mai.







Conversazione con Enzo Soresi

L’ignota scatola nera È nel nostro cervello. Ma non sappiamo cosa ci sia dentro. Registra, immagazzina e scambia informazioni dal secondo mese di gestazione fino ai tre anni, quando il linguaggio forma la coscienza di sé. Poi quella scatola si chiude, senza possibilità logiche di ritrovare le chiavi.

di

Angelo Miotto

foto

Germana Lavagna

Dentro rimane una memoria implicita, che ci può condizionare per tutta la vita. Nelle scelte, nelle reazioni, negli scompensi immodificabili. Il cervello, organo perfetto, è una mucillagine ancora in evoluzione: molto si sa, molto ancora resta da scoprire. Eppure, asseriscono gli studiosi, dentro il cranio c’è la capacità di far reagire tutto il nostro organismo in positivo e in negativo. Enzo Soresi, pneumologo, oncologo, patologo si è appassionato negli ultimi anni proprio allo studio del cervello, alle intuizioni che, spesso, diventano dati scientifici supportati da riscontri. È divertito nel mostrare, casi clinici alla mano, tutte le scoperte che ha affrontato da quando è diventato un esperto dei meccanismi cerebrali. Il rispetto e l’ammirazione che esprime il suo volto, quando si riferisce al cervello, nasce dalla continua analisi delle trasformazioni di un organo che non ha ancora completato il suo cammino evolutivo. C’è una scatola nera dentro ognuno di noi. Come funziona? «Nei primi tre anni di vita di ogni essere umano il cervello si costruisce attraverso l’interattività con l’ambiente che lo circonda. È come se tu costruissi un hardware che è pietra miliare del tuo agire nel mondo. La psicoanalista infantile Sue Gerhardt, nel libro Perché si devono amare i bambini, sviluppa il tema del disagio psichico correlato ai traumi infantili e parla di cervello sociale dimostrando come lo sviluppo del cervello possa condizionare l’equilibrio emotivo futuro. La vita fetale, la

relazione con la madre e, quindi, lo spazio sensoriale in cui cresci è quello che modifica la costruzione del cervello. L’interattività tra la formazione dei neuroni e l’ambiente di vita ridimensiona il valore del patrimonio genetico, come fattore determinante». Come funziona questa interattività con l’ambiente esterno? «Quando il cervello si forma, circa il 50 per cento delle cellule neuronali deve essere eliminato per poter costruire correttamente l’organo. Questa costruzione si sviluppa dal secondo mese di gestazione fino al terzo anno di vita. Un “suicidio” correlato ai segnali ambientali: se questi sono scorretti – se la situazione familiare vede dei grandi scompensi nei comportamenti o del padre o della madre – la costruzione subisce un danno e diviene precaria. Di conseguenza anche la costruzione dell’organo può subire degli scompensi anatomici. Fare una coccola, in senso lato, può essere determinante per l’armonia di una rete neurale. Il cervello è un organo in fieri, fortemente dinamico. È il neurofisiologo Mauro Mancia a dirci che quel periodo, quella scatola nera, costituisce la nostra memoria implicita. La scoperta è avvenuta per caso, studiando i malati di sindrome di Korsakoff, una sorta di arteriosclerosi cerebrale in cui il malato parla facendo riferimento a un suo mondo sommerso, andando a pescare nella sua memoria implicita tutti i contenuti di cui non ha mai avuto consapevolezza. Su questa osservazione è



nata un’ipotesi, poi confermata scientificamente. È come se tu avessi un hardware che costruisce la rete motoria, ritraducendola nelle emozioni, che vengono a formarsi attraverso lo stato d’animo del bambino nel suo rapporto familiare, fino a quando arriviamo al linguaggio con la consapevolezza del sé. E da quel momento reagiamo quasi in automatico». Quindi non ne siamo consapevoli? «Noi viaggiamo su abitudini consolidate, di cui non siamo consapevoli né siamo i controllori. Un esempio: c’è una bellissima scultura di Alberto Giacometti, L’heure des traces, l’ora delle tracce, che richiama fortemente la scultura etrusca ritrovata a Volterra, L’ombra della sera. Giacometti dice che quella scultura è nata da una inconsapevolezza, senza che lui se ne rendesse conto. Affermazioni che hanno portato il famoso critico Gillo Dorfles a riprendere questo concetto della memoria implicita dicendo che spesso l’artista produce sulle ali di una spinta innata. Per questo amo l’artista, perché crea per compensare un disagio psichico, attraverso il momento creativo. Se leggete Emil Cioran, potreste anche immaginare che avrebbe potuto suicidarsi all’età di sei anni. In realtà è vissuto a lungo e forse proprio perché per lui scrivere era una sorta di autocompensazione». Dopo i tre anni la scatola si chiude. E cosa succede? «Il cervello continua a evolvere, ma a questo punto ne abbiamo consapevolezza. L’altra grande novità è l’incredibile plasticità di questo organo: lo sviluppo del cervello ha un continuo turn-over dialogico, non si ferma mai. Dobbiamo fare una differenza fra inconscio rimosso e memoria implicita. L’inconscio rimosso è un trauma che devi rimuovere e il trattamento psicoterapeutico va a cancellare, attraverso la psicanalisi, quel software, quella angoscia, dalla rete neurale. La memoria implicita, come abbiamo detto, è quello che rimane chiuso nella scatola nera del nostro cervello. Un luogo in cui non può entrare la psicanalisi. Quello che io sostengo è che quando hai un disturbo ossessivo compulsivo (doc) non lo cancelli. Perché sei in un hardware, in una rete neurale, che non controlli e alla quale non hai accesso». Ci fa degli esempi? «Li prendo dal mio libro, Il cervello anarchico (Utet edizioni): l’accensione di un evento di malattia è in funzione dell’organo che in quel momento è vittima di un’infiammazione. Tutto nasce dall’infiammazione. La grande novità della biologia è che abbiamo in mano tutto il network biologico, con cui il nostro organismo comunica, comandato dalle citochine, che sono delle piccole proteine che circolano nel nostro organismo, di cui fanno parte l’interferone e quarantadue interlochine. Se ho una esofagite da reflusso, malattia del secolo, libero quattro interlochine negative che vanno a bombardare il mio esofago. Esempio: donna delle pulizie, forte e robusta, mai stata male, fisico abituato alla fatica, ha una figlia che le comunica che va a studiare per due anni in Inghilterra. La notizia provoca un forte stress nella signora, il fatto è traumatico. Si

gonfia immediatamente un ginocchio: rosso, dolente, caldo, un’infiammazione acuta. Secondo la lastra è una gravissima artrosi della tibia. Fino ad allora non si era mai accesa. Lei ce l’aveva, ma stava benissimo. Nel momento in cui invece lo stress l’ha accesa, ho dovuto farla operare». Il pensiero dello stress ha fatto liberare le proteine che hanno attivato l’infiammazione. «È nel momento in cui entri in tilt stressogeno che diventi un malato. Il gioco della salute è totalmente condizionato da come stiamo al mondo. Se, in più, c’è anche un disturbo ossessivo compulsivo, partiamo ancor più svantaggiati. Altra osservazione clinica: una signora mi chiedeva di mandare la figlia, colpita da anoressia e bulimia, dallo psicologo. Ma la ragazza ogni volta che andava in cura, scappava. Era logico: perché nel momento in cui ti levo l’ossessione, tu non riesci più a parametrarti con il mondo e quindi preferisci tenerti il disagio, pur di sentirti dentro al mondo. La soluzione è avvenuta per via psichiatrica, ma non curando il sintomo, quanto cercando di sostenere la ragazza ricreando una specie di ambiente neuronale. Quindi la psicoterapia diventa una relazione culturale che fa crescere l’individuo che acquisisce consapevolezza di sé. Si convive con quel sintomo. L’hardware è quello che è: tu puoi lavorare sui software che hai costruito negli anni, per convivere con il tuo danno». Quello che sta dicendo ha un impatto frontale con il mondo del farmaco. «Il mondo del farmaco va integrato. Per curarmi, oggi, ho il telefono di tutti gli specialisti, ma non di uno sciamano, perchè non appartiene alla nostra cultura. Quel ruolo, per noi, è ricoperto dalla compressa. Ma se conoscessi uno sciamano, io lo chiamerei a consulto. Non posso avere la presunzione di avere la scienza interpretativa di tutte le soluzioni per un esperimento biologico come l’uomo, che data oltre quattro milioni di anni, perché ognuno di noi è unico. Non possiamo esser clonati, perché dovremmo clonare tutte le nostre esperienze. La medicina può essere solo una scienza in progress. Prende degli abbagli». Torniamo al cervello. Quando nasciamo, prima ancora che si attivi quel meccanismo di interattività che costruisce il nostro cervello, che cosa c’è? «Dentro di noi c’è uno stampo precognitivo, già operativo. Non siamo solo frutto dell’esperienza. John Medina, biologo, nel suo libro Istruzioni per il cervello osserva un fatto: se fa una linguaccia al neonato, questo gli risponde tirando fuori la lingua. Poi c’è il dato esperienziale. Il sistema cognitivo è innato». Come facciamo a saperlo? «Difficile. Non lo sappiamo. Quando veniamo al mondo c’è già un’impronta. Sto leggendo il libro di Roberto Calasso (L’Ardore), che si basa sulla storia dei Veda, una popolazione di antica saggezza con miti già formati dalla notte dei tempi. Sono stampi precognitivi di tremila anni fa. E quando andiamo così indietro ci scontriamo con il concetto della divinità: il divino era uno stampo precognitivo che non aveva

“Il cervello è l’organo più complesso e importante dell’universo. Non è gas, non è liquido, è una mucillagine. I lobi frontali sono i direttori d’orchestra di tutte le nostre operazioni”


altre spiegazioni interpretative. Quando si ha la consapevolezza del sé si diventa critici: non pensi più a un dio, ma a un’ipotesi mitologica».

molto lunghi rispetto all’evoluzione dell’organo cervello. Ecco perché l’adolescente è conflittuale, perché non ha la stessa capacità decisionale di un adulto».

Dal passato, dall’arcano, all’evoluzione futura del cervello: i lobi frontali, una volta definiti “silenti”, per voi studiosi ora non tacciono più. «Il nostro cervello si differenzia da quello dei primati superiori, delle scimmie, proprio per i lobi frontali. Sono quelli dell’evoluzione culturale. Il neuropsicologo Elkhonon Goldberg ipotizzava – siamo negli anni Ottanta – nel suo libro La sinfonia del cervello, che i nostri due emisferi lavorassero in maniera diversa. La sua ipotesi venne confermata successivamente. L’emisfero destro affronta le novità, costruisce degli engrammi – ipotetici elementi neurobiologici che consentirebbero alla memoria di ricordare fatti e sensazioni – e li scheda nel lobo sinistro. È come se avessimo due hardware in rete fra di loro. Questo processo è stato reso evidente dalle scintigrafie: se stai studiando una poesia a memoria si accende il lobo destro, se la ripeti un mese dopo, si accende il sinistro. Il cervello è l’organo più complesso e importante dell’universo. Non è gas, non è liquido, è una mucillagine. I lobi frontali sono i direttori d’orchestra di tutte le nostre operazioni. E devono lavorare in sillogismo. C’è un caso che riguarda un grande giocatore di scacchi: il tessuto che unisce i suoi lobi frontali era diventato calloso. Ripreso davanti a una scacchiera non riusciva più a giocare, perché non riusciva a decidere. Lo stesso vale per la demenza senile. I lobi non hanno un tempo evolutivo adeguato per stare nel mondo; sono giovani e maturano con tempi

Queste scoperte non dovrebbero portare a un radicale mutamento del sistema didattico, nella maniera stessa di concepire l’insegnamento? «Sempre John Medina sostiene che a scuola la memorizzazione andrebbe costruita sulla ripetitività: se si ripetessero le stesse nozioni tre volte al giorno per venticinque minuti il bambino non dovrebbe più studiare a casa. Tutta la scuola è fuori bersaglio: abbiamo bisogno di trovarci di fronte a dei dilemmi, a una ambiguità decisionale. Oggi, la scuola non ti dà più questa ambiguità, ma ti fornisce delle risposte. L’apprendimento scolastico esclude i grandi direttori d’orchestra del cervello». Cosa si può fare per evitare che la nostra capacità di decidere si atrofizzi? «Si deve lavorare su due leve: camminare e studiare. Essere curiosi, sempre. I ‘grandi vecchi’ sono tutte persone che hanno queste caratteristiche, perché la creatività si riflette in maniera diretta sulla rete neuronale. E questa, a sua volta, si riverbera sull’organismo in maniera salutare».

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Una vita per la ricerca Classe 1938, Enzo Soresi è medico chirurgo, specialista in anatomia patologica, malattie dell’apparato respiratorio e oncologia clinica. Si occupa prevalentemente di prevenzione primaria e secondaria delle malattie correlate al fumo. Già membro attivo della Iaslc (International Association for the Study of Lung Cancer) e della Eortc (European Organisation for Research and Treatment of Cancer). Dal 1990 al 1998 ha diretto la divisione di pneumotisiologia dell’Ospedale Niguarda di Milano. Ha pubblicato su riviste scientifiche nazionali e internazionali, oltre 150 articoli sull’oncologia polmonare. Ha recentemente sviluppato ricerche nell’ambito del rapporto tra fattori ambientali e apparato neorologico, alla luce della nuova scienza nota come Pnei (Psiconeuroendocrinoimmunologia), pubblicando per la Utet nel 2005 Il cervello anarchico.


il vizionario

mad in italy di

Gianni Mura

illustrazione

Anna Godeassi

A gentile richiesta, il Vizionario del mese scorso ha un seguito. Si ricorda che il Vizionario è un dizionario rivisto da chi ha il vizio dei giochi di parole. Che non è diffuso come quello dei giochi d’azzardo. Difficile che un poliziotto che ama i giochi di parole sequestri un quindicenne compagno di scuola di suo figlio. Se perde una cifra con i videogiochi allora sì, può farlo (è successo in Lazio). A E-il mensile si lavora in gruppo (in groppo quando si è giù) e quindi anche il nostro caporedattore Angelo Miotto ha preso parte alla stesura. Allacciate le tinture, come direbbe Biscardi a Berlusconi. Si parte.

ACCETTATO

ANTICACCIA

ACETATO

ANTIPESTO

AMORAZZI

Chiusura con i nostri amici animali

acetato, a Sassari accettato, a Padova dichiarate passioni per le armi

ANFIBIOTICO

medicinale difettoso

ANGIOLOGO

esperto di angioli

ANGIPORTO

sofferente di angina

ANNEGARE

non riconoscere partiti di destra

ANNIDARE

stabilire un’età

ANTELUCANO campano

ANTENNATI

dotati di tv

megera, donna vecchia e brutta avversione per le trenette

ARMADILLO

invocazione a una pistola

ASSIOLO

uccello che canta fuori dal coro

AVERLA

uccello con sogni di possesso

BABIRUSSA

sonno del pupo

BUFALO

maschio di una delusione

CAVOLAIA

farfalla che fa sciocchezze

CERVOSTERZO

rapidissima manovra se l’ungulato attraversa la strada

J

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testo e foto di Alessandro

Scotti

Le mie

Tagikistan La sede della Drug Control Agency tagika è un grande palazzo costruito ai tempi dell’Unione sovietica. Una stecca di cemento armato, un muro grigio alternato da finestre a intervalli regolari, lungo una via di scorrimento fuori dal centro di Dušanbe. Qui finiscono, almeno finché non si sono conclusi indagini e processi, i sospettati tagiki di traffico internazionale di stupefacenti. Al centro di detenzione speciale si accede dal retro, dopo una serie di cancellate e sbarre a non finire. Un giorno qui vale come tre giorni in un normale penitenziario: niente televisione, le ore d’aria sono limitate e la maggior parte della giornata viene spesa chiusi in cella.

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prigioni

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Myanmar Territori sotto il controllo dell’autorità Wa, nel Myanmar orientale, al confine con la Cina. La prigione di uno dei villaggi più grossi, quelli a fondo valle, è la caricatura di uno stereotipo da film, di quelle cose che quando le vedi al cinema ti ribelli pensando a un’iperbole, a un’esagerazione pacchiana di messinscena. È immersa in una risaia e, come tale, perennemente allagata. Il muro perimetrale è una sequenza ininterrotta di pali di bambù, affilati da un lato e piantati nel terreno dall’altro. Dentro, un grande spazio vuoto di terra battuta e tre capanne: due per gli uomini, una per donne e bambini. In tutto sono in 341. Di acqua corrente non c’è traccia, a parte quella accumulata negli avvallamenti del terreno. I figli dei detenuti vengono ospitati perché non avrebbero di che sopravvivere all’esterno. Tutti hanno le catene ai piedi, gli unici dispensati sono i bambini, ma non gli adolescenti.

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Jamaica Quello di Kingston è un equilibrio socio-economico fragilissimo. Nel 2003, la capitale jamaicana era al terzo posto nella classifica delle città con il più alto numero di omicidi per abitante del mondo. Nell’isola-Stato, su una popolazione carceraria totale di nemmeno duemila individui, solo trecento sono donne. Quasi la metà sono straniere, ma tutte – nessuna esclusa – arrestate per narcotraffico. Molte sono ragazze europee che pensavano di ripagarsi un paio di settimane di vacanza riportando a casa qualche etto di marijuana. Per sopravvivere al carcere sono imbottite di psicofarmaci. Nel penitenziario maschile le tensioni tra i detenuti sono palpabili. Nella foto: discussione fra i carcerati.

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Colombia El Buen Pastor, prigione femminile nel centro di Bogotå: la maggior parte della popolazione carceraria è composta da donne fra i diciotto e i venticinque anni. Le detenute con figli minori di tre anni hanno accesso a condizioni speciali e a un braccio del carcere progettato appositamente per tenere i figli con le madri (nella foto). Superati i tre anni di età , i minori vengono trasferiti fuori dal carcere e avranno contatto con le madri solo nei giorni di visita.

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Thailandia Nel 1992 i carcerati in Thailandia erano 73mila con un rapporto prigionieri/staff di 8 a 1. Dieci anni dopo, la popolazione carceraria è cresciuta fino a 257mila con un rapporto 23 a 1. È stato il picco. Nel 2006 erano oltre 151mila, il 59 per cento dei quali dentro per reati legati alla droga. Di questi quasi il 40 per cento aveva meno di trent’anni. Gli stranieri erano più di settemila (dopo i vicini laotiani, birmani e cambogiani, i più numerosi erano i nigeriani). Tra le poche possibilità di uscire prima dello scadere della sentenza, il Royal Pardon, una speciale grazia concessa da Sua Maestà ad personam. Nella foto: un braccio del carcere di Bangkok.

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Afghanistan Il sistema carcerario afgano è stato progettato per una capacità complessiva di diecimila detenuti suddivisi in 33 carceri provinciali e oltre 180 centri di detenzione distrettuali. A oggi i detenuti nel Paese sono quasi 19mila e, considerato l’attuale tasso di incarcerazione, potrebbero facilmente superare i 30mila entro il 2015. L’infrastruttura esistente non può sopportare un tale numero di prigionieri e le risorse sono talmente limitate che in un carcere della provincia del Badakhshan (nella foto), dove in inverno il clima è particolarmente rigido, a ogni detenuto viene distribuito un solo chilo di legna al giorno per riscaldarsi e cucinare.

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Senegal Affastellati, in lunghe baracche in muratura che affacciano su corridoi a cielo aperto su cui svettano le torri di guardia delle sentinelle. I detenuti della prigione centrale di Dakar vivono uno sopra l’altro. Il clima permette di passare diverse ore del giorno all’aperto, nei corridoi di terra battuta e nei cortili; ma quando il sole arde, l’unico riparo è offerto dalle camerate. Per aumentarne la capacità sono stati costruiti soppalchi in ferro e legno in modo che i prigionieri possano dormire su due piani. Il ruolo gerarchico di ogni detenuto corrisponde alla sua posizione in questa indistinta distesa di corpi.

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Liberia La prigione centrale di Monrovia è un piccolo inferno circondato da mura. Fuori dal cancello del carcere un cartello sancisce perentorio: “Jesus is in control!”. Al di là del muro, cinque bracci separati da filo spinato e terra battuta. Durante la mia visita solo venti dei 555 detenuti hanno terminato il loro iter processuale e sono stati condannati; tutti gli altri sono in attesa di sentenza, molti da anni. Celle per tre detenuti possono arrivare a ospitarne fino a diciassette. All’entrata del blocco principale una scritta sul muro intima di “non pagare tariffe per l’accesso ai bagni”. Le celle dei vecchi bracci non hanno servizi igienici e i detenuti devono svuotare i secchi con i loro escrementi una volta al giorno nei bagni comuni. Le guardie non se la passano molto meglio: il salario del responsabile della sicurezza è di un dollaro al giorno e il cibo condiviso con i prigionieri.

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Guinea Bissau Snodo fondamentale per i traffici illeciti in Africa Occidentale, la Guinea Bissau è un Paese da meno di due milioni di abitanti con tre prigioni improvvisate. Il centro di Segunda Escuadra (nella foto) occupa l’edificio di una ex prigione portoghese, poi diventata centro di detenzione per prigionieri politici durante la guerra civile. L’unica vera prigione è la Primera Escuadra: una ex casa coloniale senza letti né cucina da cui, però, ogni tanto i detenuti possono assentarsi per tornare a casa.

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Myanmar, la di

Alessandro Scotti

L’importanza assoluta della forma, anche a detrimento della sostanza, è uno degli aspetti che più mi hanno affascinato nel tempo passato in Oriente: Roland Barthes ne tratta profusamente nell’Impero dei segni. Negli anni ho imparato che non si tratta solo del Giappone – può essere che la cultura giapponese abbia sublimato questa inclinazione dando origine a forme espressive particolarmente raffinate di arte e di relazione – ma il culto per la forma è un elemento che connota l’Oriente intero: è una tensione all’armonia da cui queste culture non possono prescindere. È il 2007, la mia ricerca mi ha portato dietro le sbarre di Paesi molto diversi, dai più ai meno democratici. Approdo all’aeroporto di Rangoon con un volo Yangon Airways e il primo contatto con la giunta militare che governa il Myanmar da quasi vent’anni è in una tasca dello schienale della poltrona del passeggero di fronte. Assieme al sacchetto per il mal d’aria, c’è una copia omaggio di SweSone – la rivista della compagnia aerea birmana – che riporta il “Desiderio del Popolo” in quattro punti precisi, circostanziati: “Contrastare chi abbia fiducia e spalleggi elementi esterni, così come chi abbia opinioni negative. Contrastare chi cerchi di mettere a repentaglio la stabilità dello Stato e il progresso della nazione. Contrastare i Paesi stranieri che interferiscano nelle vicende interne dello Stato. Annientare tutti gli elementi distruttivi interni ed esterni come nemico comune”. Per quanto il programma-manifesto del governo militare sia puntuale ed esplicito, siamo in Oriente e la forma va preservata. Sfogliando SweSone mi domando come le autorità locali concilieranno il “Desiderio del Popolo” e il permesso di accesso al carcere centrale di Rangoon che porto in tasca. Ci sono volute settimane di negoziazione eppure l’interprete mi dice che quella sequenza di lettere tutte rotonde sul foglio timbrato non lascia spazio a dubbi: “Accordato permesso di visita ai detenuti e accesso al carcere centrale di Yangon”. L’interprete stesso, benché stupito, è fiducioso. Arrivo davanti al carcere all’inizio di un pomeriggio assolato. Dopo lunghe attese e convenevoli con il direttore della prigione, vengo introdotto in una specie di aula, dove una trentina fra uomini e donne sono seduti composti nella loro uniforme bianca stirata. Domando chi siano e il direttore mi risponde cortese che sono i detenuti che ho chiesto di vedere. Gli rispondo che forse la mia richiesta è stata mal intesa e che avrei dovuto incontrare i prigionieri nelle loro normali condizioni di detenzione.

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«In che senso?», mi chiede lui. «Nelle loro celle, o nelle camerate. Mentre svolgono le loro attività quotidiane», gli rispondo. «E quali attività?». Nelle carceri gestite dalle autorità Wa nel Nordest del Paese ho visto detenuti incatenati ai lavori forzati, scelgo quindi di rimanere vago per non indispettire il direttore con quelli che sarebbero interpretati come pregiudizi. «Qualsiasi attività che normalmente venga svolta dai reclusi durante la giornata: i pasti, la preghiera, il lavoro. Nulla di speciale, voglio solo incontrarli e parlare con loro nel loro normale contesto di vita». «Non è uguale se li incontra qui in quest’aula?». «No. Non è uguale». La risposta mi appare scontata, ma per lui non è così. «Quindi qui non ci vuole parlare?» «No, grazie». Ci trasferiamo in un’altra sala mentre il direttore e una dozzina di funzionari mi seguono in corteo. Si accomodano tutti sulle sedie disposte lungo il perimetro della stanza: gli uffici e le sale riunioni in Myanmar sono fatte così, come un conclave, con una fila di sedute appoggiate ai muri; il personaggio più importante ha davanti un tavolino basso, oppure una serie di tavoli bassi accostati che riempie il centro della stanza, tanto da rendere l’accesso alle sedie stretto come un corridoio. Il direttore e i funzionari chiacchierano per decine di minuti e io, non capendo ciò che dicono, mi illudo che stiano discutendo della mia richiesta. Ciò che mi rincuora è che sorridono e, spesso, si abbandonano a qualche risata. Dopo una mezz’ora, il direttore mi porge con gentilezza tra le mani un librone con il dorso dorato: è un ampolloso quaderno dei ricordi dove, agli ospiti illustri, viene chiesto di lasciare una traccia del loro passaggio: una dedica, le proprie impressioni e una firma. È qui che riconosco il “pacchetto non vuoto, ma vuotato” dell’Impero dei segni, e “il gesto cortese, segno di rispetto scambiato fra una pienezza e un’altra, attraverso i confini della mondanità”. Entrambi adattati al contesto birmano. Entrambi lontani da un approccio occidentale, dove l’esteriorità sociale dell’uomo e l’autenticità individuale sono entità diverse. A volte contrapposte. È solo in questo momento che mi rendo conto che la mia visita è finita, più di mezz’ora fa: quando ho detto che non mi interessava parlare ai detenuti a quelle condizioni. Sfoglio il libro: le pagine sono un elenco ordinato di ministri, segretari e ambasciatori. Ogni foglio è stato diviso, a penna, in colonne: la data nella prima, il nome e il rango nella seconda e una breve dedica con le impressioni nella colonna di destra. Ce ne sono in decine di lingue e sono tutti invariabilmente concisi e


forma è salva suadenti complimenti. Mi viene chiesto gentilmente di contribuire a mia volta. Dato, però, che la visita è finita, che ho quasi perso la giornata e che non sono qui per dar fondo all’ipocrisia, decido di essere sincero, forse un po’ esplicito, ma breve e sincero. Nulla di più. Scrivo nella colonna di destra che “ringrazio per la cordiale ospitalità, per le vivande e per la gentilezza; e mi rammarico di non aver potuto raggiungere lo scopo prefissato dalla mia visita”. Mentre scrivo, i funzionari continuano a chiacchierare e ridere amabilmente con il direttore. Firmo e passo il librone al militare che siede alla mia destra. Lui lo apre curioso e va all’ultima pagina compilata; la mia, quella dove ho lasciato il segnalibro di tela gialla. Legge e l’espressione gli cambia in volto; chiude veloce e passa il libro alla sua destra. Stessa scena, a cui io assisto stupito. Il libro fa il giro di tutta la sala, ognuno ripete la stessa smorfia e l’atmosfera si fa cupa. Finché arriva nelle mani del direttore, seduto giusto alla mia sinistra. Mentre lui legge sono tutti zitti. Poi iniziano a discutere e dopo qualche minuto il direttore si rivolge al mio interprete: «Non è possibile. Non possiamo lasciare scritto così!». «E perché?» dico io. «Siete stati gentilissimi, e l’ho scritto, ma lo scopo della mia missione non è stato raggiunto così come era stato richiesto». «Ma non possiamo lasciare scritto così! Questo libro potrebbe finire nelle mani dei miei superiori, lei capisce». «Certo che capisco, direttore, ma che cosa vuole che le dica? Non è grave, si tranquillizzi, lei ha fatto il suo dovere, è stato gentile e ospitale». «Sì», dice lui concitato, «ma qui c’è scritto che lo scopo della sua missione non è stato raggiunto». «E così è, direttore, lei è libero di vietarmi di entrare nel carcere. È qui per questo, questo è il suo ruolo». «Mi dica che cosa vuole per cancellare e scrivere un’altra cosa!». Il direttore è risoluto e decido di esserlo anch’io. «Quello che ho richiesto fin dall’inizio: entrare nel carcere e vedere le condizioni di vita dei prigionieri». «Quando mangiano, quando dormono eccetera?». «Esatto». «E poi mi assicura che cancellerà e cambierà la sua dedica?». «Certamente, scriverò la verità, come ho fatto ora». «Guardi che me lo ha promesso!». «Non si preoccupi». Siamo in Oriente e la forma va sempre salvata. Sempre. Il direttore dà disposizioni per la mia visita, ma ci vuole più di un’ora: sarà la visita più incredibile che io abbia mai fatto in un carcere. Tutte le guardie sono state mobilitate perché la messinscena sia impeccabile: i prigionieri sono vestiti con uniformi linde e stirate, ad alcuni è stata ingenuamente

scritta sulla schiena perfino la data di oggi. Mentre il mio codazzo e io ci spostiamo tra i bracci, va in scena uno spettacolo a comando: in una camerata i detenuti sono seduti composti lungo tutta la parete. In mezzo è ben disposta una serie di materassini intonsi e arrotolati. In fondo alla sala c’è addirittura una televisione accesa. Trasmette preghiere. «Qui è dove dormono», dice il direttore, ma la camerata è chiaramente una sala riunioni svuotata a tempo di record delle sue suppellettili e riempita di attori. Giro l’angolo: dietro un muro una guardia sull’attenti batte le mani e cinque detenuti imbarazzati iniziano a giocare con una pallina fatta di liane intrecciate. «Queste sono le attività sportive», ma i detenuti sono più preoccupati di non sporcare l’uniforme stirata e di guardare me che di colpire la palla. «E ora la zona dei pasti, in questo periodo, dato il caldo, li facciamo pranzare all’aperto, sotto il portico», il direttore è entusiasta della sua regia e il suo è un entusiasmo meritato. «È proprio fortunato sa? È capitato all’ora di cena, staranno mangiando in questo momento, venga venga». Lo spettacolo è grottesco, i detenuti iniziano a portarsi il boccone alla bocca all’unisono, appena varco la soglia del porticato: ognuno ha davanti una serie di ciotole, anche quattro o cinque a testa, con riso, salse, carne, frutta. Un pranzo luculliano. C’è addirittura una seconda fila di detenuti che rinfrescano i primi, quelli che stanno mangiando, con dei ventagli. «Quelli con i ventagli», spiega orgoglioso il direttore, «sono i ragazzi del secondo turno; ceneranno quando questi hanno finito. E allora saranno quelli del primo turno a fargli aria». Sono attonito; felice, se non altro, che questa messinscena abbia fruttato ai detenuti una cena come non vedevano da sempre. Così mi dilungo sotto il portico per permettergli di mangiare il più possibile, sapendo che, appena girerò i tacchi, quel cibo finirà alle guardie. Quando esco, considerata la profusione di sforzi, tiro una riga a penna sulla mia dedica precedente e ringrazio per la visita. Il direttore e il suo staff sono felici, la forma è salva, tutto è in armonia.

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Questo progetto Ho iniziato a interessarmi di prigioni quasi per caso: occupandomi di crimine organizzato. Questo è uno dei contesti in cui finisco a parlare con alcuni dei protagonisti delle mie storie. In una ho incontrato mercenari occidentali con fax e telefoni che pretendevano di fare i detenuti in terra straniera per agire nel carcere indisturbati; in un’altra ho chiacchierato più o meno amabilmente con il capo indiscusso della mafia russa in Centro Asia. In un carcere di provincia ho osservato la guardia del corpo di Tareq Aziz – una massa di muscoli avvolta in un costume da Aladino – sollevare pesi per ore con un ghigno beffardo. In una decina d’anni ho visto mura perimetrali di bambù, celle scavate come pozzi nel fango, detenuti incatenati alle caviglie 24 ore su 24 e interi istituti carcerari gestiti quasi completamente dalle mafie interne. Ogni volta ho cercato di capire – riuscendoci di rado – le dinamiche complesse di un mondo a parte. Per anni mi ha accompagnato un quesito che la memoria attribuisce a un vecchio libro di Tiziano Terzani. È passato del tempo e non riesco a risalire all’origine precisa della domanda; la verità è che non ricordo nemmeno se Terzani ponesse la questione in questi termini. Eppure quel punto interrogativo è sedimentato cella dopo cella in una forma precisa: perché ogni volta che entro in un carcere sono preda di stereotipi? Perché, di fronte alla privazione della libertà, non si può fare a meno di essere dalla parte del recluso e considerare le guardie degli aguzzini? L’unica soluzione che ho trovato è stata quella di continuare a documentare la vita dietro le sbarre, convinto del potere lenitivo di questa pratica e che almeno le immagini potessero dar voce a realtà inaccessibili. Forse qualcun altro avrebbe potuto trarne conclusioni più chiare, dato che dopo ogni missione torno a casa con un’idea della realtà più complessa di quella che avevo prima di cominciare.


un fisico bestiale di

Bruno Giorgini

materia d’indagine lessico paritario parola mia di

Lo scorso 7 dicembre, Nature ha pubblicato un articolo che annunciava la scoperta di due enormi buchi neri, pesanti circa dieci miliardi di volte la massa del nostro sole. Uno sta al centro della galassia ellittica Ngc 3842, la più brillante di un ammasso che dista dalla terra circa 98 megaparsec; il secondo, forse ancor più massivo, si trova al centro della Ngc 4889, la galassia più luminosa dell’ammasso della Chioma di Berenice, a circa 103 megaparsec. Un buco nero è un oggetto tanto massivo e denso da produrre un campo gravitazionale così forte che trattiene persino i raggi luminosi, e quindi invisibile all’esterno: insomma, non lo si può osservare direttamente. Semplificando, è un po’ come se il nostro sguardo non raggiungesse mai la ragazza o il ragazzo per i quali abbiamo avuto un colpo di fulmine. Li aveva già pensati e previsti Pierre Simon Laplace alla fine del Settecento, ma nessuno vi aveva creduto, a dispetto del semplice calcolo del matematico francese. Quando, ancora ragazzo, entrai all’Istituto di Fisica, i più grandi usavano dire che un buco nero è il tipico oggetto che osservi soltanto se ti arriva addosso nel corridoio. Il fatto è che per scoprirli bisogna indagare lo spazio intorno a loro, e valutare quali effetti producano su quest’ultimo. Un lavoro degno degli investigatori immaginati da Dashiell Hammett, o dei cacciatori di assassini seriali, che ricostruiscono la personalità, il profilo del killer e gli danno la caccia seguendone le tracce. Se poi a qualcuno capitasse di caderci dentro, ecco che potrebbe incontrare delle linee di tipo tempo chiuse, dove scompare qualunque distinzione tra passato, presente e futuro, per cui io potrei tornare nel passato, uccidere mio nonno, e quindi non nascere. Per avere un’idea di cosa sia un buco nero, si può immaginare di mettere tutta la popolazione mondiale dentro i confini di Milano: la materia ci sta un po’ stretta. Però, girovagando nelle strade, potrebbe capitarvi di incontrare voi stessi ancora bambini, ma non potreste raccontarlo a nessuno, a eccezione, forse, di un bosone di Higgs, tra gli oggetti più leggeri, eterei e impercettibili dell’universo; quello che forse, proprio in questi giorni, ha battuto le ciglia nell’acceleratore Lhc del Cern, a Ginevra.

C

Patrizia Valduga

Ho apprezzato molto il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri quando ha dichiarato che abolirebbe la festa dell’8 marzo, perché le donne non devono «sentirsi razza a parte», dal momento che sono «molto meglio degli uomini». In attesa di una effettiva parità nel mondo del lavoro, e nel mondo tout court, ci si è dati intanto a parificare la grammatica. Dopo l’orribile “architetta” (che fa pensare alle tette, delle cui esibizioni inutili non ci si è, peraltro, ancora liberati), si sono diffuse le discutibili “assessora”, “sindaca”, “procuratora” (che suonano dialettali e un po’ sprezzanti) e “ministra” (che sembra, se non lo è per davvero, spagnolo, e che fa pensare alla minestra). Bisognerà forse abolire tutte le parole col suffisso “essa” come offensive per le donne e i loro diritti? Avremmo dunque la professora, la dottora, la studenta, la presidenta, la giudica (o la giudicia?), l’avvocata, la sacerdota, la osta. E, perché no, la prìncipa, la barona e la conta. Ma allora bisognerà abolire anche la femminilizzazione col suffisso “ice” (dal maschile in “ore”). Ne verrebbero fuori – se non sono già comparse – la scrittora, la pittora, la scultora, l’incisora, la stampatora, l’imprenditora, l’attora, l’autora, l’editora, la governatora, la senatora, l’istitutora, l’oratora, la ricamatora, la stiratora, la genitora, la benefattora, l’imperatora, la cacciatora (quest’ultima fa venire fame, mentre le altre fanno solo senso). E quei nomi di genere comune, che hanno un’unica forma che serve sia per il maschile che per il femminile, saranno lasciati così o sarà più “dalla parte delle donne” cominciare a dire “la parenta”, la “nipota”, la “consorta”, la “cantanta”, la “custoda”, e così via? Poeta finisce in a; ho sperato che la facesse franca. Invece no, l’accanimento parificante ha prodotto – ed è in uso – un “la poeta”, che lascia impietriti.

Z

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polis di

Enrico Bertolino

foto Masiar

Pasquali

i nuovi barbari Tempi difficili, i nostri. La crisi imperversa, i mercati affondano, le Borse cadono e l’Europa trema; eppure, a mio parere, il pericolo più grande rimane l’indifferenza nei confronti di ciò che dovrebbe farci preoccupare sul serio. Le prime pagine dei quotidiani nazionali sono piene di previsioni sull’impatto della manovra sull’economia, sul calo dei consumi e sulle diatribe tra i partiti circa i sacrifici da chiedere, non certo ai propri leader o dirigenti, ma agli elettori. Mentre i disastri già avvenuti o preannunciati rimangono delle semplici notizie di cronaca. È come se, avvisati dell’impatto di un asteroide con la Terra, ci si preoccupasse di quando si potrebbe giocare il recupero del campionato, nel caso in cui la collisione avvenisse di domenica. In momenti come questi, quando servirebbe davvero la tanto citata e mai trovata unità nazionale, si assiste invece passivamente al fenomeno che determinò la caduta dell’Impero romano, cioè all’abulia da benessere percepito (ma non più reale). I romani, una volta che il loro impero raggiunse un’estensione che andava dalla Scozia all’Iraq e dal Portogallo all’Armenia di oggi, si sedettero letteralmente sugli allori, lasciando che i barbari invadessero un impero difeso con fatica e controvoglia e arrivassero fino a Roma, saccheggiandola (celebre il monito di Brenno: «Vae Victis», guai ai vinti). Ai nostri giorni, i “nuovi barbari” sono scesi a Roma già da tempo, eletti dal popolo dal 1987 (la Lega Nord è il partito più vecchio che abbiamo oggi in Parlamento). Sono scesi con le loro cravatte verdi, con i fazzoletti nei taschini di improbabili giacche a quadretti e si sono posizionati nell’odiata capitale, cercando di imporre i loro riti druidici e celtici, come l’ampolla di acqua del Po, trasformando magicamente una porcata in legge elettorale (il Porcellum) e proponendo un Risiko chiamato federalismo. Si sono poi sistemati non nelle tende ma nei ristoranti e negli alberghi della capitale, di cui poi criticano usi e costumi e, ora che l’impero vacilla, proprio come Brenno dopo aver bivaccato ritirano le truppe e ritornano agli accampamenti per riorganizzare una nuova invasione, nuovi tumulti e disordini su un territorio che già avevano conquistato. Ecco dunque i nuovi barbari a intermittenza; prima al tavolo con i nobili e poi in piazza con gli eserciti e la plebe, il tutto alla faccia di un valore ben più importante di quello dell’euro e ben più prezioso dello spread, la coerenza, la cui assenza favorisce e genera l’indifferenza, che per fortuna ancora non intacca chi ha una sua coscienza. Scusate le rime, ma anche Dante Alighieri cominciò così, quasi per scherzo.

P


L’Italia è una Repubblica a cura di

4 dicembre, Belmonte del Sannio (Is) 10 dicembre, Crucoli (Kr) Bambino Zaccardi, 61 anni, stava raccogliendo olive quando si è spezzato un ramo dell’albero sul quale era salito; l’uomo è caduto battendo violentemente la testa.

L’agricoltore Giuseppe Zito, 54 anni, stava lavorando in un terreno nel comune di Crucoli. È morto schiacciato dal suo trattore quando il mezzo si è ribaltato.

5 dicembre, Assago (Mi)

10 dicembre, Serradifalco (Cl)

Gkoka Mohammed, operaio albanese di 45 anni, stava lavorando al secondo piano di una casa. È precipitato da un’altezza di circa dieci metri.

5 dicembre, Conegliano (Tv) L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro è il nostro osservatorio sulle morti bianche. Si tratta di un elenco parziale e incompleto, ricavato da fonti secondarie, degli infortuni mortali avvenuti tra il 4 dicembre e il 3 gennaio. A cura di rassegna.it, sito d’informazione su lavoro, politica ed economia sociale, che dal settembre 2010 porta avanti un monitoraggio quotidiano delle vittime. Secondo l’Osservatorio indipendente di Bologna morti sul lavoro, nel 2011 si sono registrati circa 1.170 incidenti mortali. Si tratta di una cifra provvisoria cui l’Osservatorio è arrivato prendendo in esame non solo le morti sul lavoro in senso stretto, ma anche quelle avvenute in itinere, cioè per strada, di lavoratori che utilizzano un mezzo di trasporto per raggiungere e tornare dal luogo d’impiego o spostarsi per lavoro, le morti in nero e quelle dei militari impegnati in missioni all’estero.

Stava lavorando nella sua azienda a Campidui, quando è rimasta schiacciata da una pressa. La vittima è Gabriela Iliescu, operaia romena di 44 anni.

6 dicembre, Carbonia-Iglesias

Un agricoltore quarantatreenne, Antonello Casula, era al lavoro sul suo trattore. In un tratto in pendenza del terreno, il mezzo si è rovesciato e lo ha travolto.

8 dicembre, Siniscola (Nu)

Franco Bandinu, elettricista di 24 anni, è rimasto folgorato mentre installava l’impianto elettrico in un’abitazione.

9 dicembre, Vitorchiano (Vt)

Un operaio edile stava ristrutturando una casa nel centro di Vitorchiano, quando il solaio è crollato, schiacciandolo. La vittima è un albanese di 29 anni.

10 dicembre, Castelfranco (Tv)

Tiziano Bonaldo, operaio di 52 anni, era rimasto gravemente ustionato il 2 novembre nel reparto verniciatura dell’azienda in cui lavorava. Dimesso dall’ospedale, si è aggravato improvvisamente.

Carmelo Falduzza, autista di 29 anni, è rimasto folgorato all’interno dell’autorimessa in cui lavorava. L’uomo stava lavando il suo mezzo con una potente idropulitrice.

12 dicembre, Trieste

Francesco Pinna, 20 anni, stava montando il palco per il concerto di Jovanotti. La struttura ha ceduto e lo ha travolto. Insieme a lui, sono rimasti feriti altri dodici operai.

13 dicembre, Terento (Bz)

Il diciassettenne Matthias Passler muore schiacciato dallo spalaneve che guidava, dopo essere uscito di strada, poco lontano dal maso in cui abitava con la sua famiglia, in Val Pusteria.

14 dicembre, Caravino (To)

Stava lavorando sul trattore nel terreno di sua proprietà, nelle campagne fuori Torino. Ha perso il controllo del mezzo ed è rimasto schiacciato. Così è morto Andrea Giovanni Simonetto, 71 anni.

14 dicembre, Pescara

Michele Dell’Orso, 19 anni, lavorava alla potatura degli alberi all’interno del cimitero. Un ramo si è spezzato, facendolo precipitare a terra.

16 dicembre, Susa (To)

Imprenditore di 55 anni, Marco Claretto è caduto dal ponteggio di un cantiere a Susa. Stava dipingendo la facciata di un edificio.

16 dicembre, Vedano Olona (Va)

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Luigi Di Leo, 27 anni, era impegnato in lavori nel bosco vicino casa quando la ruspa che guidava si è ribaltata, uccidendolo.


fondata sul lavoro 19 dicembre, Adro (Bs)

Lavorava nel forno di una fonderia quando c’è stata un’esplosione e un oggetto metallico lo ha colpito alla testa. L’operaio si chiamava Roberto Cavalleri e aveva 47 anni.

19 dicembre, Taranto

Francesco Malcore, guardia giurata di 35 anni, è rimasto ucciso nel corso di una rapina nel quartiere Tamburi. I malviventi gli hanno sparato alla testa.

19 dicembre, Termoli (Cb)

Un peschereccio ha sbattuto contro gli scogli e si è rovesciato, sbalzando in acqua i due pescatori. Le vittime sono i tunisini Mohammed Abwelhed, di 40 anni, e Fathi M’Baya di 45 anni, che la gente del luogo chiamava semplicemente Franco.

23 dicembre, Falciano del Massico (Ce) Un operaio romeno di 38 anni, Constantin Iftimie, residente a Loreggia, Padova, è caduto dall’impalcatura di un capannone in costruzione a Falciano del Massico, forse a causa di un colpo di vento.

23 dicembre, San Marco Castellabate (Sa)

Remo Martuscelli, pescatore di 51 anni, era appena uscito con il suo otto metri. L’imbarcazione è stata travolta dalle onde non appena fuori dall’imboccatura del porto.

24 dicembre, Vertova (Bg)

Antonio Maffeis, 62 anni, guidava il suo trattore nella campagna di Vertova, in Val Seriana. È finito sotto il mezzo, rovesciatosi in curva.

27 dicembre, Oleggio (No)

Michele Camporelli, 72 anni, effettuava lavori in un’azienda agricola di Oleggio quando il trattore si è ribaltato.

30 dicembre, Monteriggioni (Si)

Geometra di 58 anni, Fabio Grassi era sul tetto di un’azienda a Monteriggioni per effettuare alcuni rilievi. A causa del cedimento della struttura, è precipitato di sotto cadendo attraverso il lucernario.

30 dicembre, Vidor (Tv)

Il quarandueenne Alessandro Baldissera stava sistemando balle di fieno in un capannone. È scivolato da una di queste, cadendo da un’altezza di due metri e sbattendo la testa sull’aratro.

3 gennaio, Genova

Jorge Luis Lanata, operaio peruviano di 47 anni, muore per le conseguenze di un incidente verificatosi il 30 dicembre. L’uomo stava eseguendo lavori di manutenzione in uno stabile quando è rimasto schiacciato dall’ascensore.

23 dicembre, Villa Masone (Re) Lattoniere di 46 anni, Vito Rusce è caduto da un’impalcatura di sei metri, mentre stava lavorando in un’azienda agricola.

23 dicembre, Parma

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4 dicembre - 3 gennaio morti sul lavoro

Maurizio Galimberti

Marco Mattioli, operaio di 46 anni, stava lavorando in una cabina elettrica del gruppo Iren. È stato folgorato da una scarica da 15mila volt.


di

Luciano Del Sette

foto

Paolo Ranzani

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Conversazione con Chen Shiqin

Indovina chi cucina

I tagliolini all’uovo, tajarin in piemontese, compiono quattro, cinque giravolte nella padella impugnata con mano ferma. La stessa mano che depone la padella sul fuoco dei fornelli e poi lavora di grattugia per coprire i tagliolini con scaglie di tartufo bianco. Tajarin e tartufi sono un rito tanto sacro quanto consueto nei menu autunnali delle Langhe. Un po’ meno consueto, se a compierlo è un trentenne che all’anagrafe di Shanghai fa di cognome Chen e di nome Shiqin, chef al ristorante La Rei, Serralunga d’Alba.


Trent’anni, Chen. E già tre stelle Michelin guadagnate. Due con L’Antica Corona Reale di Cervere, insieme al suo maestro e amico Giampiero Vivalda; un’altra arrivata nel 2011 con il suo ingresso al La Rei. Quando, in Italia, si immagina un signore cinese alle prese con la cucina, il rimando immediato è a quei locali disseminati lungo la nostra penisola, dove la grande cultura gastronomica del Celeste impero è stata mortificata da piatti inventati di sana pianta (il riso alla cantonese su tutti), dalla qualità in genere scadente del cibo, dagli odori mafiosi della Piovra gialla che usa i ristoranti come paravento per il riciclaggio di denaro. Ultima trasformazione, baluardo estremo a una popolarità da tempo in declino, le insegne che propongono menu cinese, menu italiano e pizzeria. Ma la storia di Shiqin, decidendo di chiamarlo per nome, non è differente soltanto guardando alla sua professione. Lui, uomo dal sorriso tranquillo e dai modi garbati, porta con sé un bagaglio di ricordi, esperienze, avvenimenti, affetti, che passeresti ore a sentir raccontare. Le colline e i vigneti di Serralunga d’Alba fanno da sfondo a Shiqin, mentre parla: la voce bassa, l’italiano affrontato con poche incertezze e, se ci sono, accompagnate da una risata; gli occhi che a volte smettono di guardarti, per tornare, appena un istante, magari a Shanghai, alla sua famiglia, al suo passato. «Mio padre ha sessantotto anni, era impiegato in un’azienda di trasporti governativa; mia madre ne ha sessantatré, e lavorava come commercialista. Io sono figlio unico per legge cinese. Ho fatto le scuole fino alle superiori, poi come stagista in un ufficio dove passavo il mio tempo davanti a un computer. Abitavamo in un condominio di un quartiere popolare. Quando ci riunivamo per le feste, tra i parenti di mio padre e quelli di mia madre, in casa arrivavano una quarantina di persone. Le feste erano il capodanno cinese, ma anche il Primo maggio e il Primo ottobre, le celebrazioni politiche delle grandi parate. Shanghai era ed è una città diversa dalle altre metropoli cinesi, un porto internazionale, ventitré milioni di abitanti, aperta da sempre al mondo. Forse per questo, a un certo punto della mia vita, ho cominciato a pensare che mi sarebbe piaciuto conoscere l’Europa: l’Italia, la Francia, la Spagna, la loro cultura. Nel 2000, mi rivolsi a un’agenzia di Stato che curava lo scambio di studenti per stage all’Estero. L’Italia non era inclusa nell’elenco dei Paesi. Un anno dopo, l’Icif (Italian Culinary Institute for Foreigners) di Costigliole d’Asti, che in seguito ha aperto una scuola di cucina a Shanghai, raggiunse con la Cina un accordo per portare diciassette studenti nelle Langhe a imparare il mestiere di cuoco. Io mi ritrovai, per caso, tra loro». Vuoi dire che la cucina non ti interessava per nulla? «Nella maniera più assoluta. A casa mia non avevo mai toccato una pentola, o considerato un piatto se non quando arrivava in tavola. Andare in Italia, rappresentava per me l’opportunità di conoscere un’immensa cultura, imparare una lingua, visitare i luoghi, incontrare

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“Da Torino a Costigliole, l’autobus viaggiò sotto una neve fitta. (...) Mi ritrovai a Cervere, dove parlavano soltanto italiano e piemontese”

gente diversa da me e dalla mia gente. Diventare chef era lontanissimo dai miei pensieri e dai miei progetti. Devo confessare che quando atterrai all’aeroporto di Torino Caselle da Francoforte, mi sentii disorientato. Era un aeroporto piccolo, ben diverso da quello che poi sarebbe diventato con le Olimpiadi invernali del 2006. Mentre facevo la fila al controllo passaporti, mi chiesi: “Ma questa è l’Italia?”. Da Torino a Costigliole, l’autobus viaggiò sotto una neve fitta». Dunque, un altro cinese arriva in Italia, dove il luogo comune che i cinesi siano popolo impenetrabile regna sovrano. E dove, vale lo stesso in altre parti d’Europa, la comunità cinese vive in disparte, tesse rapporti esclusivamente di carattere economico, trasforma in Chinatown quartieri come via Paolo Sarpi a Milano e l’Esquilino a Roma, porta su di sé l’ombra mafiosa della Piovra gialla. «Siamo sempre stati un popolo di emigranti. In epoca moderna, generazioni e generazioni di cinesi sono partite verso gli Stati Uniti, l’Europa, il Giappone, soprattutto dallo Zhe Jiang, provincia di Shanghai grande quanto l’Italia, in cerca di tre cose fondamentali: la libertà, il guadagno, la possibilità di vivere bene. Le ultime due cose si possono ottenere a patto di essere

bravi commercianti e grandi risparmiatori. Tutte e due le cose limitano il rapporto con il mondo esterno. Aggiungo che il popolo cinese vuole continuare a vivere la sua cultura anche nella condizione di straniero, ed è profondamente orgoglioso delle proprie origini. Sul piatto della bilancia dei rapporti, pesa poi, non poco, la differenza religiosa, e tutto ciò che porta con sé: usanze, tradizioni, ritualità, che hanno la loro celebrazione nell’intimo delle case. Certo, una componente non estranea all’isolamento delle comunità cinesi rispetto all’esterno è la presenza della Piovra gialla, che costringe alla clandestinità e sequestra decine di migliaia di persone, rendendole schiave. Una forza pari, se non superiore, alla mafia siciliana. Quanto a me, e credo valga per tanti altri miei compatrioti della mia età, voglio conservare la mia identità, voglio continuare a essere cinese. Parlo la mia lingua, non intendo prendere la cittadinanza italiana, non voglio altro nome se non Chen Shiqin, lavoro e vivo qui rinnovando il permesso di soggiorno. Non sono molto credente, ma ho fede nelle mie radici e nelle mie origini. Le nuove generazioni sono e saranno diverse. Vanno a scuola e qui incontrano bambini e ragazzi italiani. Entrare in contatto con ‘gli altri’ è quasi automatico. Le differenze si attenuano e un giorno non lontano scompariranno.


Quando e perché, Shiqin, il ragazzo che non aveva mai toccato una pentola, divenne chef? «A Costigliole m’interessava soprattutto imparare l’italiano. Intanto cucinavo, assaggiavo, mi incuriosivo. Ma la passione era ancora lontana. Dopo i due mesi di stage, mi propongono di continuare da Giampiero Vivalda. È allora che la passione comincia a venir fuori, grazie anche al papà di Giampiero, Renzo, grande maestro in cucina. La passione, ma anche il disorientamento, lo sconforto. Mi ritrovai a Cervere, dove parlavano soltanto italiano e piemontese. Vivalda, al termine dello stage, mi chiese di restare. Invece me ne andai in Toscana, a Siena, per continuare a studiare la vostra lingua, visitare i luoghi, cercare di capire la vostra terra. Nel 2002, Giampiero mi richiama: “Sei ancora qui?”. Torno da lui. Arrivano le due stelle Michelin, ma io emigro di nuovo, è il 2004. Vado a Canneto sull’Oglio, un’altra provincia, quella di Mantova, per lavorare al Pescatore di Nadia Santini. Fu un’esperienza umana bellissima. Poi di nuovo Giampiero, fino al 2006, quando la nostalgia di casa e dei miei genitori era diventata troppo forte. Presi un aereo per Shanghai, trovai lavoro in un ristorante di proprietà di un giapponese, dove si cucinava italiano ad alti livelli. Ma senza la passione che adesso sen-

tivo appartenermi. Durò pochi mesi, lasciai la Cina per L’Antica Corona. Adesso sono al La Rei, fin da quando ha aperto».

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Se parliamo di futuro, quale futuro immagini per te e per la Cina, cui, comunque, senti di appartenere? «Il mio cuore combatte sempre fra restare e tornare. Penso ai miei genitori, al tempo in cui saranno vecchi, al nostro Capodanno, agli amici cinesi che in Italia non ho mai trovato. Penso ad aprire un ristorante. Scelta difficile. In Cina bisogna avere conoscenze, vincere la burocrazia, superare tanti ostacoli. Voglio tornare, questo sì. Quanto al mio Paese, è cambiato molto. Le contraddizioni non si contano, i ricchi spendono 98mila euro per una cena a base di tartufi, senza capire cosa stiano mangiando, e buttano via una bottiglia di vino costosissimo dopo averne assaggiato mezzo bicchiere. Lo fanno perché non hanno passione per il cibo italiano. L’unica condizione che mi spingerebbe ad aprire un ristorante a Shanghai è proprio questa: la passione. Senza passione, cucinare, e vivere, non ha alcun significato».

E


Cessate il fuoco a cura di

Lorenzo Bagnoli

Le notizie sui conflitti in tempo reale su: www.eilmensile.it

285 13

Messico Colombia

Nigeria

Sono le otto di mattina del 25 dicembre a Madalla, periferia di Abuja, la capitale nigeriana. D’improvviso esplode una bomba nei pressi della chiesa di Santa Teresa: muoiono 27 fedeli che si stavano recando a messa. Qualche ora dopo, a Jos, città di passaggio tra il Sud cattolico e il Nord musulmano, scoppia un altro ordigno. Il Natale di sangue nigeriano si conclude con l’ultimo attentato a Gadaka, nello Stato settentrionale di Yobe, e un bilancio finale di 49 vittime. A rivendicare gli atti terroristici è il gruppo filoqaedista Boko Haram (“L’educazione occidentale è peccato” in lingua hausa), che nel 2011 ha ucciso più di cinquecento persone in tutto il Paese.

48 1 14 500 5 296 38 24 330 33

Egitto Algeria Libia Somalia Etiopia Nigeria Senegal Rep. Dem. Congo Sudan Costa d’Avorio

India

Il 30 dicembre i guerriglieri maoisti del Partito comunista indiano hanno attaccato a sorpresa il villaggio di Kanaudi, nello Stato di Bihar. Nell’operazione sono morti tre abitanti mentre altri quattro sono stati sequestrati dai miliziani. Il giorno seguente, il 31 dicembre, la polizia ha ritrovato i corpi senza vita di Mansoor, Kallu, Kashim e Sahadat Ansari, le quattro persone rapite. I cadaveri erano in un pozzo, vicino alla cittadina di Banka.

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[news agency of nigeria/xinhua/zumapress/kikapress]

Cessate il fuoco è l’osservatorio mensile delle vittime dei conflitti nel mondo. I dati, che si riferiscono al periodo dal 4 dicembre 2011 al 3 gennaio 2012, vengono raccolti da organizzazioni umanitarie o da fonti giornalistiche e quindi non potranno essere esaustivi.


4.312

351

Iraq Israele Palestina Nord Caucaso Turchia Siria

105 885

15 19

615 406 25 13 62 30

Afghanistan Pakistan Birmania Thailandia India Filippine

197 2

Yemen Bahrein

Siria Messico

Undici persone sono state uccise in diversi attacchi sferrati contro gli autobus di linea nello Stato di Veracruz, a nord del Paese. È il 22 dicembre: un veicolo viene fermato sulla strada che collega Pánuco e Tantoyuca. Qui i sicari uccidono i primi sette passeggeri. Altri quattro muoiono vicino a una fermata nel comune di El Higo, colpiti da una granata. La tesi della polizia è che gli autori della strage fossero dei ladri. Una circostanza però fa pensare che l’eccidio sia una ritorsione dei narcos contro le autorità di Veracruz. Il giorno prima, infatti, il governo locale aveva sospeso gli agenti addetti alla sicurezza nel porto di Boca del Rio. L’accusa: connivenza con il cartello dei Los Zetas, i narcotrafficanti che controllano la regione del Golfo del Messico.

Nell’ultima manifestazione del 2011, il 30 dicembre, sono state almeno 32 le vittime tra i civili scesi in piazza. Lo rivelano fonti dell’opposizione, secondo cui le forze fedeli al regime di Bashar al Assad hanno sparato senza motivo sulle decine di migliaia di persone arrivate a Damasco per contestare il presidente. L’esercito ha aperto il fuoco nonostante nel Paese ci fossero dieci emissari della Lega araba in visita per verificare abusi contro i civili. Il 2 gennaio, a una settimana dall’inizio della spedizione diplomatica, il segretario generale della Lega Araba, Nabil al Arabi, ha dichiarato: «Sono state ritirate le presenze militari dalle città, dove restano attivi solo i cecchini: difficile dire chi spara contro chi». I documenti video in mano ai dissidenti, però, testimoniano ancora una massiccia presenza dei militari lealisti.

vittime


pìpol di

Gino&Michele

facce decisive “Perdonare è liberare un prigioniero e scoprire che quel prigioniero eri tu”. Si tratta di una frase più volte citata e riferita alle Sacre scritture. La prendiamo così com’è, senza troppi approfondimenti – ci piace – e la regaliamo a chi non ha mai dubitato che Francesco Azzarà sarebbe tornato. *** La storia del cane, del leone e della scimmietta raccontata ai bambini ma anche agli altri. Un giorno, durante una battuta di caccia grossa in Africa un cucciolo di cane, portato lì per addestramento, si perde nella savana rincorrendo una farfalla. Solo e indifeso, a un tratto scorge un leone che lo sta puntando. Il cagnolino è terrorizzato. Si guarda intorno e vede poco lontano la carcassa di un grosso animale. La raggiunge e comincia a leccare un osso. Quando il leone sta per attaccarlo il cucciolo dice a voce alta: «Uhmmm!, che buon leone mi sono mangiato! Me ne papperei subito un altro!». Il leone si blocca e a quelle parole pensa: “Che razza di animale sarà? E se poi faccio la stessa fine di quello lì? Meglio sparire!”. Una scimmietta, che stava appollaiata su un ramo e aveva assistito a tutta la scena scende dall’albero e fa al leone: «Ma va là, stupido, è tutta una finta: quella carcassa era già lì da un pezzo. Quello è semplicemente un cane e ti ha fregato». Il leone: «Ah sì? Allora saltami in groppa che andiamo a trovare quel cane nano e poi vediamo chi mangia chi!». E si mette a correre verso il cucciolo con la scimmia sulle spalle. Il cagnolino ha visto e sentito tutto. Ci pensa un attimo; poi, invece di scappare, si siede dando le spalle al leone ed esclama a voce alta: «Quella maledetta scimmia! Mezz’ora fa le ho ordinato di portarmi un altro bel leone grasso e ancora non si fa vedere». Leone divora scimmietta. Cane salvo. *** Praga, inverno 2011. Un viaggetto da turisti. C’è in giro per la città il manifesto della Rivoluzione di velluto, in ceco Sametová Revoluce, in slovacco Nežná Revolúcia, in inglese Velvet Revolution. Quella che ventidue anni fa, senza eccessi di violenza, portò alla caduta della maldestra ipotesi di comunismo in Cecoslovacchia. Non fu un entusiasmante esperimento, quello del comunismo nei Paesi dell’Est nel dopoguerra. Ma forse – tra quelli come noi che hanno vissuto sia le emozioni della Primavera di Praga sia quelle della Rivoluzione di velluto – nessuno sa che il popolo cecoslovacco era stato tra i pochi, forse l’unico del blocco dell’Est, che aveva scelto il partito comunista del suo Paese con elezioni libere. Forse tutta la differenza stava proprio in quelle tre parole: “del suo Paese”. Ma dove eravamo rimasti? Ai manifesti della Velvet Revolution. Ne riportiamo uno qui. Bello. Chissà perché le foto delle grandi emozioni della storia hanno sempre giovani con facce decisive. A noi piace pensare che i giovani, quando sono impegnati nei loro ideali, abbiano sempre facce decisive. *** Il Museo del comunismo a Praga è ospitato in un palazzo un po’ decrepito e del tutto anonimo, a Na Prikope 10, in semicentro. È un po’ triste e disordinato, ma pieno zeppo di cose. Usciamo decisamente frastornati. Ci accorgiamo che ai due lati del museo, stesso pianerottolo, ci sono due casinò aperti 24 ore su 24. Ok, niente moralismi. Ma cazzo, dai! E comunque tutto ha un prezzo, porca vacca. *** “Quello che davvero mi interessa è se Dio, quando creò il mondo, aveva scelta”. Albert Einstein, professione scienziato laico.

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emergenza bambini buen vivir di

Alfredo Somoza

foto Fernando [panos/luz]

Moleres

Com’è ormai noto, la sola crescita economica non basta per favorire l’inclusione sociale nei Paesi in cui le riforme neoliberali degli anni Ottanta e Novanta hanno portato alla concentrazione del reddito in poche mani, e spinto nella povertà estrema ampie fasce della popolazione. L’America Latina non fa eccezione: malgrado il successo delle politiche di ridistribuzione del reddito, promosse in molti Paesi ora governati da forze progressiste, c’è un dato statistico che aiuta a capire quanto la strada verso una significativa inclusione sociale sia ancora lunga e impervia. Il rapporto firmato dalla Commissione economica per l’America Latina (Cepal) e dall’Unicef rivela che il 45 per cento dei minori del subcontinente (81 milioni) vive in povertà perché non riesce a soddisfare uno o più bisogni basici. In diversi Paesi, il tema della condizione dell’infanzia è diventato una priorità, ma molte, troppe persone continuano a crescere senza godere di alcuni diritti fondamentali. Secondo la definizione stilata dall’Unicef nel 2005, sono poveri “i bambini privati delle risorse materiali, spirituali ed emozionali necessarie per sopravvivere, svilupparsi e prosperare”. In questa vasta area geografica, i principali problemi si concentrano sulle condizioni socio-sanitarie dei quartieri marginali e sull’accesso all’educazione. Questi problemi, che le politiche degli ultimi anni hanno affrontato ma non ancora debellato, continuano a condizionare pesantemente soprattutto la qualità della vita di bambini e adolescenti. Un’abitazione dignitosa rimane un miraggio per centinaia di milioni di latinoamericani che vivono in favelas, pueblos jovenes, poblaciones di baracche precarie, dove spesso manca il sistema fognario e l’acqua potabile. Soltanto gli Stati potrebbero intervenire con piani mirati di edilizia popolare, e in parte alcuni lo hanno fatto, ma si è ancora lontani dal soddisfare i bisogni esistenti. Ci sono però rilevanti differenze tra i diversi Paesi; si va dal 20 per cento di bambini poveri in Costa Rica, primatista in termini positivi in molti campi, seguito a breve distanza da Cile, Uruguay e Argentina, fino all’87 per cento (!) di El Salvador, tallonato da Guatemala, Bolivia e Perù. Il Brasile, la grande potenza, non più solo regionale, dichiara un 39 per cento di bambini poveri, in calo rispetto al 45 per cento di un decennio fa. Sono percentuali che parlano di cittadini con il futuro segnato. Per questo, la sfida della lotta alla povertà in America Latina non si vince soltanto con Stati più attenti e sensibili – cosa che senza ombra di dubbio è già un grandissimo passo in avanti – ma con una cultura diffusa dell’inclusione sociale come diritto di cittadinanza primario e con la consapevolezza dell’importanza di investire sui bambini, il futuro di ogni Paese.

K


Due solitud di

Claudia Priano

illustrazioni Oscar

Sabini

Claudia Priano Nata a Genova, dove vive. Ha pubblicato il suo primo romanzo nel 2006, Cose che capitano, con Aliberti Editore. Nel 2007 pubblica, con Aliberti, Con il cuore leggermente indolenzito e, con Kowalski, la novellizzazione della fiction Rai “Medicina Generale”. Il 2009 è stato l’anno di Smettila di camminarmi addosso, edito da Guanda. Con quest’opera ha vinto, nel 2010, la IV edizione del Premio nazionale di narrativa Mariateresa Di Lascia e il Premio Università di Camerino. Quest’anno uscirà un altro romanzo con Guanda. Ha lavorato per il Teatro della Tosse e collaborato con riviste di vario genere e con www.mentelocale.it.

Oscar Sabini Nato nel 1972 a Venezia, città in cui attualmente vive e lavora. Collabora con diverse case editrici e riviste italiane. Si occupa di illustrazione per l’editoria, di grafica e di comunicazione in ambito sociale. È autore del libro illustrato Primo giorno di scuola, pubblicato dalle edizioni Logos. Le sue illustrazioni sono state selezionate per l’edizione 2012 del prestigioso concorso portoghese Ilustrarte di Lisbona. Quando non disegna fa l’educatore di strada, impegnato in attività di prevenzione del disagio e delle marginalità, nonché della promozione sociale e della solidarietà.

“... Femmine un giorno e poi madri per sempre...” Fabrizio De André da La buona novella

Ci siamo, o almeno credo. L’indirizzo è esatto, me lo ha dato zia Cassie, lei è piuttosto precisa, in genere, quando si tratta di mandarmi in qualche posto dove lei non può o non vuole andare. Ero scesa dal treno affollato di pendolari ciondolanti e ansanti nonostante fosse sabato, mi facevo largo tra la folla, alcuni ragazzi esuberanti mi avevano spintonata, indossavano zaini ingombranti e colorati che portavano con disinvoltura come fossero vuoti, ho blaterato qualcosa a mezza voce per richiamare la loro attenzione, ma quelli niente, erano già lontani, ho dato un’occhiata alla mia borsa, non era voluminosa ma la sentivo pesante, la fibbia mi tagliava la spalla, che accidenti ci avevo messo dentro?, ho controllato che la cerniera fosse chiusa, «non si sa mai», mi sono detta. Mi sentivo smarrita in quella grande stazione, mi guardavo in giro come se non fossi mai stata lì, eppure ci ero passata tante volte, non ricordavo quando l’ultima, qualche mese prima, prima che succedesse tutto, durante una vacanza con Michele e i ragazzi, in una giornata d’estate carica di allegria e di promesse. Forza andiamo, ora che ci sono, tanto vale. Avevo imboccato la scala e in pochi attimi ero stipata nella metropolitana, un occhio all’orologio e un altro al pannello che indicava le fermate, un tizio dall’alito carico d’aglio mi fiatava sul collo, ho cercato di spostarmi ma niente da fare, ho chiuso gli occhi per un momento, mi sentivo stanca e intrappolata, ormai da giorni, me la sentivo colare dal naso che tutta quella faccenda l’avrei dovuta affrontare da sola, mio fratello mi ha detto che aveva troppo da fare, «neanche un momento libero, sai com’è, il lavoro, le scadenze, i clienti che non pagano e poi ho la pressione alta, me l’ha detto il medico. Però poi chiamami, fammi sapere se hai bisogno». «Sì, vabbè, certo, ti chiamo». Sono scesa, l’aria pungente mi aveva aggredita all’improvviso distraendomi dai miei pensieri, riportandomi al motivo per cui ero lì, maledizione, una fitta allo stomaco, appena un attimo. Il cielo scuro e fitto minacciava pioggia. Ho infilato una mano nella tasca del cappotto, ho tirato fuori il foglietto su cui avevo scritto tutto, orario dei treni, fermata della metro, indirizzo, numero civico. Camminavo lungo una strada desolata e scomposta, gli alberi nudi ma alti, poche macchine posteggiate davanti a villette a schiera. Superai un paio di incroci e poi arrivai a quello indicato sul pezzo di carta. Avevo rallentato. Via Merini, eccola, ci siamo davvero, mi sono detta. Una donna mi camminava accanto con passo lento ma costante, curva per il peso di due grosse borse di plastica che lasciavano intravedere generi alimentari di ogni specie. Era piccola, minuta, lo sguardo appeso a un viso di antico pallore, le labbra disegnate dal rossetto, serrate in una smorfia inevitabile per la fatica, i capelli sbiaditi da una tinta ormai vecchia e spettinati dal vento ma non solo, un pastrano scuro, di buona fattura non serviva a nascondere la gobba prominente sulla sua schiena, si trascinava lenta e implacabile, guardandosi la

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Due solitudini

punta dei piedi. In quel momento pensai a lei. L’ultima volta che l’avevo vista era così, smagrita e stanca ma sempre con un sorriso delicato e composto, anche lei appesantita da due borse della spesa, «no, lascia, non ti preoccupare, ci sono abituata», mi aveva detto. La via era quella, ero certa, rimasi immobile, osservai i palazzi avvolti in un grigiore velato, tutt’intorno dei cantieri, un gran fracasso di scavatrici e ruspe. Non riuscivo a proseguire. La donna con le borse della spesa era quasi scomparsa alla mia vista, la vedevo appena, una macchia scura in fondo al viale. Tornai sui miei passi, accelerai, avevo visto un bar poco prima, l’insegna colorata, un albero di Natale lampeggiava veloce. Avevo freddo. Avevo bisogno di bere qualcosa. «Un caffè per favore. Anzi no, un Vov, grazie. E una brioche. E un bicchier d’acqua, sì, grazie, naturale va bene». C’era della musica, in sottofondo. Accanto a me un gruppo di ragazzi discuteva animatamente di calcio, rideva chiassoso. Poco più in là altri quattro uomini attempati sciorinavano roboanti teorie politiche gonfie di demagogia. Dal tono che prendeva la conversazione dovevano avere intenzione di risolvere i problemi del mondo entro l’ora di pranzo. La donna dietro il banco ammiccava sorridente, fingendo di seguire i loro discorsi, prima di uno e poi dell’altro assembramento, dopo si voltava verso di me e mi strizzava l’occhio con aria complice, prendeva una matita e compilava un cruciverba. Un paio di ragazzini appiccicati a una macchinetta in fondo alla sala battevano sui tasti, in silenzio. «Quanto le devo? Grazie, buona giornata a lei». Ci siamo. Il portone è questo, non c’è dubbio. Non trovo i citofoni, l’interno è il numero uno, zia Cassie me l’ha ripetuto almeno due volte. Un signore con un cane al guinzaglio mi apre e mi saluta sollevando il cappello. «Mi scusi, lei sa se abita qui Fenoglio?». Scrolla la testa e muove gli occhi. «No, non mi dice niente». «No, mi scusi, il nome da ragazza è Tarquini». «Tarquini? La signora Anemone?». «Sì, lei». «Certo, è quella porta lì dietro». «La portineria? È sicuro?». «Certo che sono sicuro. Abita proprio lì. Ma lei chi è scusi?». «Un’amica». «Però non so se c’è. Il sabato è chiusa». «Beh, io provo». «Ah, signora simpatica la Anemone. E poi quel nome. Mitologico, mi ha spiegato. Il padre era un professore, aveva il pallino dei miti greci e così...». «Mm». «Bisogna saperli portare certi nomi. Ma lei lo porta benissimo. E poi da quando c’è lei. Guardi questo portone. Guardi com’è pulito, e le piante poi. Quello di prima le faceva morire tutte. Donna simpatica la Anemone. Gliel’ho detto anche all’amministratore. Me la saluti, eh». «Certo, lo farò». «Le dica ragionier Gastaldi, secondo piano». «Sì. Grazie». Ci siamo. Ci siamo davvero. Mi batte forte il cuore, non dovevo prenderlo il Vov, controllo il respiro, ma non ci riesco, è come se avessi fatto di corsa cinque piani di scale, ci provo a riprendere fiato, mi tocco i capelli, come sarò?, in disordine, forse, per il vento e per altro, io sono sempre in disordine, zia Cassie me lo dice sempre, «sei scapigliata, sei nata scapigliata figlia mia». Non ho idea di come la troverò, sono passati due, anzi tre mesi dall’ultima volta che l’ho vista con le buste della spesa. Non so cosa le dirò, ma temo di più quello che mi potrà dire lei. Allungo la mano, pigio il bottone, din don, din don, din don, cavolo, forse l’ho tenuto premuto troppo a lungo. Sento la sua voce. «Chi è?». «Sono...». La porta si apre. «Ciao mamma». Eccomi qui seduta davanti a lei in un modesto salottino, modesto ma accogliente, io


sul divano, lei su una poltroncina rivestita con della stoffa a fiori, sono certa che l’ha foderato lei, le sono sempre piaciuti i fiori, le sono sempre piaciuti i colori. È magra, ma non così tanto. Ha i capelli mogano, la sua solita tinta, forse il tono rosso appena un po’ più acceso. «L’hai foderato tu quello?». È la prima cosa che le chiedo. «Sì». È la prima cosa che mi dice. «Sai, quando sono arrivata qui era tutto un po’ triste e allora mi sono data da fare, mi sono sbizzarrita con i colori. Forse troppo?». «Ma no, è accogliente». «Grazie. E tu come stai?». «Bene». «Vuoi del caffè?». «No, niente grazie». «Hai freddo, vuoi che alzi il riscaldamento?». «No, qui fa caldo». «E Michele?». «Tutto a posto. Ora partiamo per la tournée». «Bello. E per quanto tempo?». «Un mesetto». «E Michele è contento dello spettacolo?». «Sì, è soddisfatto. Abbiamo provato fino a tre giorni fa. Dopodomani si parte. Ma lui è tranquillo». Tre giorni prima: «Certo che tua madre ha scelto proprio un bel momento per sparire, con il nuovo spettacolo e tutta la nostra vita che è diventata un dramma, ma dico io, è una pazza o cosa?, e poi tu non sei concentrata, lo vedo sai? Mi accorgo di quanto ti sforzi, ma non ci siamo, non ci siamooo Mavi, mi sono spiegato? Non ci sei con la testa. E poi ti prego di dire a tuo padre di non venire tutti i momenti a interromperti durante le prove e adesso che lo abbiamo quasi in pianta stabile da noi, no, ti dico che non si può andare avanti così, che se ne occupi tuo fratello, il grande manager, quello è uno stronzo, te lo dico io, si fa vivo solo per chiedere soldi o favori, e già che ci siamo, dì a quell’isterica di tua zia Cassandra di non farsi più vedere, sì, l’altro giorno sarò stato maleducato, ma lei mi logora il sistema nervoso, perciò non la voglio più vedere, giuro che la prossima volta che me la trovo davanti la impalo. Sono stato chiaro? Riprendiamo le prove. Sei tranquilla ora?». «Ti trovo stanca». «Mi sono alzata presto». «Sei venuta in treno?». «Sì». «Ce l’hai con me, vero?». «No. Non lo so. Sì». «Bevi un po’ di questo». «Che roba è?». «Tè verde. Fa bene, dicono. Sai, ora vado anche in palestra». «Davvero». «Sì. E poi a teatro. Ho fatto un abbonamento a un piccolo teatro qui vicino. E seguo un corso di ceramica due sere la settimana. Guarda, quello l’ho fatto io». «Bello. Ma cosa è tutto questo rumore?». «Eh, fanno i lavori qui fuori. C’è un cantiere». «C’è un tale chiasso». «Ci si abitua. Io quasi non lo sento». «E poi da questa finestra si sente un gran via vai di macchine». «Sì, sotto c’è un garage». «Ah».

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Due solitudini

«Allora dici che non ho esagerato con i colori?». «Ma no, va bene». «Non so. A tuo padre non piacevano tanto». «Non è morto. Non gli piacciono, puoi dire». «Certo scusa». «Ma tu come fai con i soldi, scusa?». «Lavoro». «Ma come...». «Qui me la cavo. Ho un appartamento, sì, è piccolo, due stanze, ma per me va bene. Trovare questa sistemazione è stata una fortuna. La portineria mi rende quanto basta. Ho un piccolo stipendio e faccio anche dei lavori in casa qui vicino, la mattina presto, due volte la settimana. E ho dei risparmi». «Non potevi chiedere qualcosa a papà?». «Lasciamo perdere. A proposito, come sta?». «Bene». «Lo hai visto di recente?». «Sì, tre giorni fa, ma sta bene». «Mi fa piacere». Tre giorni fa: «Senti Mavi, sia chiaro, io non voglio che tu vada da lei per dirle di tornare, che se ne stia dov’è che io sto molto bene così. Però pretendo che mi dia una spiegazione. Pretendo che venga a dirmi perché ha voluto a tutti i costi rovinarmi la vita. Pretendo che mi chieda scusa per il modo incivile e folle in cui si è comportata. E sia ben chiaro. Io non le darò una lira. Anche se la sapessi sotto un ponte, con l’acqua alla gola, io non tiro fuori un solo centesimo. Se pensa di fregarmi, sappia che non è così. Mi sono già rivolto a un avvocato. Le ho scritto una lettera. Sotto sua dettatura. E staremo a vedere. Io devo avere una spiegazione, capisci? Non sarà certo per qualche piccola scappatella in passato, ma no, ma no, niente, fesserie, sì, lo so che non lo sapevi, ma cose di nessuna importanza, capisci? Scusa Mavi, mi spiace, so che a quest’ora state provando lo spettacolo, non volevo interrompervi, vai pure adesso, e stai tranquilla, non ti disturberò più oggi, magari ti chiamo domani, resto solo un momento seduto qui, sai tutta questa rabbia mi fa male, mi sento mancare, ma no, non è niente, no, sono già andato dal dottore, mi ha detto che è la solita ernia iatale, esofagite da reflusso, sai, niente di grave, ma se vado avanti così, a mangiare bile per quella disgraziata, so che è tua madre, ma io adesso cosa faccio?, mi devo organizzare. Mi devo perfino cercare un’altra donna delle pulizie. Sì, di nuovo, e che ci vuoi fare?, quella che c’era se n’è andata. Ma che ne so io?, in fondo non le davo molto da fare. E la pagavo». «Ma perché non ne hai parlato con papà?». «Gli ho parlato. Per anni. Non mi ascoltava neppure». «È per via di certe scappatelle in passato?». «Cosa? E tu come lo sai?». «Me lo ha detto lui, che quando eravate giovani... Perché ridi?». «Quando eravamo giovani ha detto?». «Sì. Perché ridi?». «Ah, certo tuo padre ha una bella faccia tosta. Quel vecchio satiro!». «Non penserai che lui si faccia tutte le sue studentesse?». «Tutte no, e come potrebbe!». «Smettila di ridere. Smettila ti dico!». «Va bene, smetto. Scusa». «Perché non hai parlato con me?». «Non ce la facevo. Dopo non avrei potuto andarmene». «Ma perché? Perché non ti sei fidata?». «Tu e tuo fratello siete ancora troppo figli. Io troppo madre». «Ma che significa, sei pazza!». «Non è stato facile. So che adesso mi odiate. Ma forse un giorno capirete». «Non una parola in tre mesi». «Vi ho scritto mie notizie ogni giorno». «Esiste anche il telefono». «Non potevo. Non pretendo che tu mi capisca o che mi perdoni. Ma per me è già tanto che tu sia qui».


«Ti odio, capisci. Mi hai fatto stare in pensiero!». «Non piangere Mavi. Oppure fallo. Forse è meglio». «Sei scappata come una ladra». «Già». «Fai la portinaia...». «Già». «Dammi un fazzoletto». «Ecco, tieni». «Grazie. Non chiedermi adesso di digerire tutta questa storia». «Non te lo chiedo». «Per me è troppo, ora». «Prenditi il tempo che vuoi». «Sei una terribile egoista». «Forse». «E poi zia Cassie mi ha detto che saresti tornata». «Quando l’hai vista?». «Tre giorni fa». «Anche lei. Hai avuto una giornata impegnativa tre giorni fa». «Essì». Tre giorni fa: «Maria Vittoria, apri, sono io, zia Cassie. Scusa l’ora, ma ce l’ho fatta! Ho una grande notizia. Prima di tutto, c’è mica il tuo beneamato fidanzato in casa? No? Meno male. Quell’individuo ignobile. Il grande regista! Roba da matti, parlare così a me, ma chi si crede di essere? Un essere piccolo, meschino e ignorante. Sì, invece, lasciamelo dire, tu non hai idea di quello che è uscito dalla sua bocca. Ioo? Io non gli ho detto nulla, no, ti dico che non l’ho provocato. Comunque da uno così cosa ci si può aspettare. Già uno che non si prende le sue responsabilità. Eh sì, eh sì, ricomincio questo discorso, proprio questo discorso, Maria Vittoria. Perché non ti sposa?, e non venirmi a raccontare quella che pure tu non vuoi sposarti e non vuoi avere figli, guarda che il tempo passa cara, tic tac, tic tac, poi quando sei vecchia cosa fai? Comunque va bene, ora la pianto, sono venuta per dirti che sono riuscita a parlare con tua madre, alleluia, non chiedermi quanto mi è costato perché non te lo dico, ho dovuto muovere mari e monti per farlo in assoluta discrezione, ma sono riuscita a parlarle al telefono, le ho scritto una mail dove le dicevo che sarei andata a trovarla, che avevo scoperto il suo indirizzo, e allora lei mi ha chiamata, si è degnata, capisci?, non ti racconto della telefonata, ma insomma l’ho convinta, andrai tu a trovarla, ci andrai presto, questo è l’indirizzo. Come non te la senti? Come devi partire per la tournée? E chi se ne frega della tournée, ci andrai un paio di giorni prima della partenza. Ma tu la devi convincere a tornare, tra l’altro appena ti vede fa le valigie e torna, di questo sono certa, e poi lassù di che vive, cosa farà?, la barbona? Comunque tu parti, questo è fuori discussione. E lei tornerà a casa. Sicuramente. Vuoi che non conosca mia sorella?». «Sai che io non tornerò da tuo padre, vero?». «Fa quello che ti pare. Affari tuoi. Affari vostri». «Mavi, vorrei spiegarti». «Alla buon’ora». «Sai, in tutti questi anni io ho vissuto due solitudini. La mia e la sua. È stato troppo. Lo capisci questo?». «Mm». «Vivevamo in stato d’assedio l’uno dell’altra. Prigionieri e carcerieri nello stesso tempo». «Mm». «Non so se un giorno capirà. Forse». «Mi pare che tu la faccia troppo facile». «Non lo è affatto. L’ho amato tanto. Forse lo amo ancora, in qualche modo. Ma ora è tempo che io viva la mia vita, prima che mi sfugga di mano. Lo capisci?».

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Due solitudini

«Ma tu non eri felice?». «Lo sono stata». «Io ti ricordo felice, da piccola». «Lo ero». «Eri felice di essere madre». «Sì, anche ora. Ma adesso tu e tuo fratello avete la vostra vita». «Mi danno il tormento». «Chi?». «Tutti. Papà, zia Cassie, tutti!». «Mandali a fanculo». «Mamma!». «Non trovavo altre parole». «Ma non è da te! No so più cosa è da te, in effetti». «Lo so. Mi spiace». «Mm». «Ti va un bicchiere di vino? Ho del salame buono. Me lo ha dato un inquilino del secondo piano». «Chi? Il ragioniere?». «Come lo conosci?». «L’ho incontrato sul portone». «Simpatico vedovo. Se non esagera». «Mamma, hai un altro?». «No. E per ora neppure mi sfiora l’idea». «Non è che il vedovo...?». «Mavi...». «E smettila di ridere, mamma!». «Dai, beviamo un bicchiere». «Guarda che per me non finisce qui, a tarallucci e vino». «Sì, ma non possiamo vivere d’aria». «La nostra vita è un disastro e tu parli di salame». «C’è anche il vino. E un ottimo pane che ho fatto io». «Mamma!». «Parleremo meglio con qualcosa sullo stomaco». «Non ho più voglia di parlare. Sono stanca». «Va bene. Ma mangiamo qualcosa, nel frattempo». Quando mi sveglio è già buio. Mi sono addormentata sul divano, erano settimane che non dormivo così profondamente, le due bottiglie di vino sono sul tavolo insieme ai bicchieri e alle briciole sparse sulla tovaglia. La chiamo. Niente. Deve essere uscita. C’è un silenzio profondo adesso, surreale. Guardo l’orologio, se mi sbrigo entro un’ora ho un treno, per cena sono a casa. Afferro la giacca, la borsa, poi eccola, intravedo la sua sagoma. Là, in camera, sul letto, si è addormentata. Prendo il plaid e le restituisco il favore, le copro bene le spalle, le gambe, i piedi. La guardo, è così bella, lo è sempre stata. Non deve essere facile neanche per lei. Vorrei abbracciarla ma temo di svegliarla. Vorrei pregarla di aiutarmi a capire ma so che non potrebbe. Vorrei pregarla di non lasciarmi ma so che sono io che devo lasciarla andare, almeno per ora. Chiudo la luce, in punta di piedi attraverso la stanza. Mi pare, nella penombra, di scorgere i suoi occhi e il suo sorriso. Esco e chiudo la porta dietro di me. Attenta a non fare rumore.

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di Matteo

Scanni

Come funziona un monastero nell’era di internet? La Regola di San Benedetto è compatibile con Wikipedia? Ecco un lavoro che piacerebbe a Sergio Zavoli, il primo a dedicare un’inchiesta radiofonica alla clausura e a raccogliere con un magnetofono le storie che s’intrecciano all’ombra di un chiostro. Notre-Dame du Net, prodotto dall’agenzia Sapiens Sapiens e pubblicato da Le Monde, aggiorna il linguaggio dell’esplorazione religiosa (foto, video, navigazione), ma riparte in fondo dalle stesse domande. Il pretesto della narrazione è fornire il ritratto di una piccola comunità monastica che usa il web come finestra per affacciarsi sul mondo. Il luogo dell’incontro è un convento benedettino alla periferia di Lille dove i monaci, conservando comunque la Regola del fondatore, hanno scelto di vivere da contemporanei, con i piedi saldamente piantati nel mondo, dunque (anche) nella Rete. Marie-Josèphe, la suora più giovane, ha quarantatré anni, Johanna, la più anziana, centotré. Apparentemente lontane dalla società, le monache hanno deciso di servire Dio, pregare, studiare e lavorare dietro le porte della clausura. Ma esattamente come la maggior parte delle 3.700 religiose di Francia, le consorelle del monastero di Notre-Dame de la Plaine utilizzano internet per tenere i contatti con i parenti o, più semplicemente, per eseguire ricerche. È un uso tutt’altro che sporadico, quello del web, un gesto familiare che scandisce il ritmo circadiano del convento. A novantasei anni, suor Marie-Lucile passa buona parte della giornata alla macchina da cucire, dove confeziona maglie di lana per la cattedrale di Lille ascoltando musica classica; Marie-Nicole prepara vasetti di confettura e gestisce gli ordini dello spaccio del convento attraverso una postazione internet fissa; Frère Bernard-Marie, monaco della vicina abbazia di Mont des Cats, ha un sito personale dal 1996 ed è considerato un pioniere del monachesimo digitale. Ma il web è un campo in pieno sviluppo: i Benedettini hanno da poco creato una loro pagina su Wikipedia e, d’intesa con altre comunità, un portale per presentare ai giovani il senso dell’esperienza monastica. E, visti i risultati, stanno considerando seriamente l’ipotesi di installare una rete wi-fi. Notre-Dame du Net, di Elisa Mignot e Raphaëlle Thomas, produzione Sapiens Sapiens/d’Aeon Consulting

diiBarbara

Sorrentini

Restare incinta da adolescente, una sciagura! Ma un film come Juno, qualche anno fa, aveva contraddetto il buon senso comune, raccontando la storia di una minorenne decisa a portare a termine la gravidanza, frutto di un rapporto non protetto con un compagno di scuola. Ora una simile avventura viene raccontata in 17 ragazze, film corale diretto a quattro mani e che moltiplica la gestazione per diciassette. Un caso in Francia, che promette bene anche in Italia dopo la vittoria di un premio importante al Torino Film Festival. Le registe Delphine e Muriel Coulin sono sorelle, hanno firmato solo cortometraggi pur avendo lavorato con registi come Louis Malle, Aki Kaurismaki e Krzysztof Kieslowski. Come spesso accade ai fratelli di pellicola, una è più brava a scrivere, l’altra a dirigere. Non a caso, il loro primo lungometraggio è stato finanaziato da Denis Freyd, storico produttore dei fratelli Dardenne. Il film è ambientato a Lorient, una piccola città francese sull’Atlantico. Un centro operaio, distrutto durante la Seconda guerra mondiale e ricostruito con grandi speranze avveniristiche negli anni Cinquanta. Nella sua epoca d’oro, quando dal suo porto partivano navi per tutto il mondo, la cittadina veniva soprannominata “L’Orient”. Oggi, invece, il luogo risente della crisi, senza potere offrire sbocchi per le nuove generazioni. È in questo contesto che si colloca la storia, vera, delle diciassette adolescenti che quasi contemporaneamente decidono di restare incinte, persino pagando qualche coetaneo per farsi aiutare nell’opera. Un gesto di ribellione, sembrerebbe, per sfuggire alla noia e alla routine scolastica. Ma non è solo questo. L’amicizia delle ragazze, che si fondava su lunghi pomeriggi passati a spettegolare su compagni e professori o frequentando feste da ballo, piano piano si trasforma nella ricerca di una nuova responsabilità adulta. Nei pomeriggi insieme a casa di una o dell’altra, i discorsi si concentrano sulla cura di un altro essere e sul senso di diventare madri, pur essendo esse stesse figlie adolescenti. Lo sguardo delle due registe è tenero, ma fino a un certo punto. Finché qualcosa si rompe, nell’ingenua quotidianità delle diciassette fanciulle, evidentemente non ancora pronte per una decisione così complicata che, più che un atto di ribellione o una ricerca di attenzione, sembra una disperata fuga dalla realtà. 17 ragazze, da marzo

[courtesy of films distribution]

Documentario

Monaci in Rete

Cinema

Domani

Scandalo a Lorient


di

Simona Spaventa

Una polverina impalpabile che si stacca da fibre 1.300 volte più sottili di un capello e si insinua dappertutto, trasportata dal vento, dalle persone, dalle macchine. È invisibile e subdolo l’amianto che ha avvelenato Casale Monferrato, causando una delle più gravi tragedie ambientali e del lavoro della nostra storia. Al centro del nuovo lavoro di Laura Curino, Malapolvere, c’è una vicenda attualissima: il 17 dicembre scorso la giunta di centrodestra che governa il Comune della cittadina piemontese ha accettato l’indennizzo di 18,3 milioni di euro offerto dal magnate svizzero Stephan Schmidheiny, proprietario della Eternit, impegnandosi di fatto a rinunciare a costituirsi parte civile. Un monologo teso e preciso, da maestra del teatro di narrazione qual è, prodotto dallo Stabile di Torino, al debutto dal 31 gennaio al 12 febbraio al Teatro Gobetti, e poi in scena il 18 febbraio al Teatro San Filippo Neri di Nembro (Bergamo) e dal 22 al 26 al Teatro Duse di Genova. «Quella di Casale – sottolinea Laura Curino, che per la pièce si è ispirata al libro di Silvana Mossano Mala polvere (Edizioni Sonda, 2010) – è una storia emblematica delle tante fabbriche che da luogo di riscatto dalla povertà della campagna, e anche dell’emigrazione, si sono trasformate in inferno. Qui, tra le colline e il Po, nell’arco di più di cento anni si dipana una delle storie simbolo della nostra contemporaneità: veleni in cambio di prosperità economica; fatiche e disagi al limite dell’umano per salari decorosi, fino all’assurdo scambio, malattia contro “benessere”. Vivere all’inferno per guadagnarsi il paradiso. È successo a tanti operai, non solo della Eternit, pensiamo all’Ipca di Cirié o all’Acna di Cengio». Una storia che è rabbia, «ma anche amore, è malefica eppure salvifica. Ed è proprio questo che voglio raccontare: le persone che non si sono arrese, la loro lotta che è una battaglia universale, perché già arrivare al processo è stato un miracolo, una vittoria di Davide contro Golia. E il minimo che possiamo fare di fronte al loro coraggio è restare vigili, non lasciarci andare all’indifferenza».

Giorgio Sottile

Malapolvere. Veleni e antidoti per l’invisibile di Laura Curino Teatro Gobetti, Torino dal 31 gennaio al 12 febbraio Teatro San Filippo Neri, Nembro (Bg) 18 febbraio Teatro Duse, Genova dal 22 al 26 febbraio

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Quando il clic diventa un tic

Rete

Teatro

Vite avvelenate

di

Arturo Di Corinto

All’inizio c’era l’attivismo. Diverso dalla militanza nei partiti e nelle associazioni, l’activism è l’azione diretta dei movimenti di base per denunciare un torto, contestare una scelta politica e dare voce alla protesta sociale su questioni specifiche. Poi è venuto l’hack-tivism, l’attivismo al computer, l’azione diretta in Rete con tecniche da hacker, e dopo ancora il media-attivismo, l’uso consapevole e critico di telecamere, televisioni di strada e web-tv autogestite. Oggi va di moda l’attivismo 2.0. Giovani e meno giovani hanno abbracciato i social media (il web 2.0) per promuovere campagne sociali e fare attivismo oltre le forme tradizionali degli scioperi, delle occupazioni, dei boicottaggi, dei cortei e delle petizioni virtuali. Questa nuova forma di attivismo che si esprime nel “Mi piace” di Facebook, nel commentare un video su YouTube o “retwittare” un post, pretende di contribuire a una singola causa con un piccolo atto pratico, un semplice clic, ma spesso si risolve nel suo peggiore estremo: il clicktivism. Puoi twittare una causa e votarla su Facebook senza coinvolgerti in nessuna azione diretta o sentire che sei importante per il suo successo. Quel gesto ripetuto si trasforma allora in slacktivism, l’attivismo fannullone che non si interessa di come è andata a finire. Magari un piccolo clic ci porta a impegnarci in una cosa successiva, ma la maggior parte delle cause richiede qualcosa di più. Soprattutto se questi clic non producono azione e cambiamento, c’è il rischio di diventare cinici e smettere di crederci. Perciò, anche se qualcuno usa i social media come parte della propria strategia di cambiamento, non vuol dire che li stia usando strategicamente. Ci sono tanti modi di perdere tempo in campagne che non cambiano niente. E in questo caso il risultato non dipende dagli strumenti in sé: non è il mezzo a essere inefficace, ma l’uso che se ne fa. Per essere efficaci, quei clic vanno collegati alle opportunità quotidiane di reagire offline alle ingiustizie di cui siamo testimoni ogni giorno. Un solo clic non basta.sati male. Per essere efficaci quei click vanno collegati alle opportunità quotidiane di reagire off-line alle ingiustizie di cui siamo testimoni ogni giorno. Un solo click non basta. www.wikipedia.org


di Vito

Calabretta

Superata l’estesa periferia di Novara, cioè la sporcizia architettonica che caratterizza molte città fino al loro pieno centro, si arriva in piazza del Duomo e si entra nell’Arengo del Broletto, una corte grande e accogliente. Lì si scoprono due preziose suggestioni molto diverse tra loro. La Galleria Giannoni è la collezione permanente d’arte, ricca di una grande varietà di espressioni dell’Ottocento e del Novecento. Divisa per temi (dal trattamento della figura alla scuola della Val Vigezzo, alle ricerche simbolistiche sulla luce, passando per temi squisitamente novecenteschi), offre innumerevoli spunti. Si può apprezzare, per esempio, il modo rarefatto e quasi espressionista in cui Giovanni Segantini rappresenta una donna malata, nel 1880, o la scelta di Giovanni Sottocornola di utilizzare il verde per rendere l’incarnato di una fanciulla, in La rosa bianca, del 1907, o di se stesso, nell’autoritratto del 1905. Merita più tempo la seconda suggestione, l’esposizione temporanea dedicata ad Albrecht Dürer, allestita in modo molto semplice, una collezione tutta in bianco e nero. Dürer è uno degli artisti più importanti del Rinascimento e ci ha lasciato un’eredità fatta di pittura, di incisioni e di pensiero. Il suo lavoro rivela un’enorme capacità tecnica, acquisita anche grazie alla sua formazione di orafo e incisore. Il corpo di incisioni esposte a Novara consente di avvicinarsi alla sua arte in modo lento, riflessivo. La varietà dei temi è un florilegio. Il Ritratto di Willibald Pirckheimer parla dell’amicizia attraverso lo sfumato grigio generato dal tratteggio. Se dal volto dell’amico Willi si passa a La Nemesi, si vede innanzitutto il modo carnoso di trattare il corpo, il connubio di anatomismo e culto della prosperità. Ma scendendo, attraverso la sfera della Fortuna, si entra in un paesaggio alpino, quello di Chiusa, nel Sud Tirolo. Con il Suonatore di Cornamusa, Dürer rivela un altro modo di trattare il corpo, questa volta in una scena di vita quotidiana, in una corrispondenza formale tra la curva del corpo del suonatore e quella del fusto dell’albero al quale è appoggiato. Insomma, la visita vale il viaggio, perché è un’esperienza arricchente, fuori dai trend delle mode prêt-à-porter. Albrecht Dürer. Le stampe della collezione di Novara, Arengo del Broletto, Novara, fino al 28 febbraio

Musica

Arte

Incisioni senza tempo

L’altro Mozart di Carlo

Boccadoro

Pianisti, violinisti e violoncellisti trovano ampio spazio negli scaffali dei negozi di dischi, mentre gli altri strumenti dell’orchestra, chissà come mai, hanno più difficoltà a far conoscere a livello discografico le grandi pagine solistiche del proprio repertorio. Il corno è uno strumento stupendo, capace di essere espressivo e coinvolgente non meno di un violino, dalle qualità cantabili e virtuosistiche in grado di rivaleggiare con qualsiasi dei suoi più celebri colleghi, eppure queste pagine mozartiane a lui dedicate, ancorché di fattura squisita, non appartengono certo ai lavori più conosciuti o amati dal grande pubblico. Sono quattro concerti scritti tra il 1782 e il 1787, uno più bello dell’altro, splendidamente concepiti e orchestrati, dal miracoloso equilibrio tra il solista e le varie sezioni strumentali, formalmente perfetti e degni di figurare tra le grandi pagine del genio salisburghese. Richiedono da parte del solista un’intonazione perfetta, grandi abilità di articolazione, capacità di legare perfettamente lungo tutta l’estensione dello strumento; insomma, sono destinati unicamente a grandi musicisti. Speriamo che una recentissima incisione, realizzata da uno dei maggiori solisti viventi di corno, Alessio Allegrini (la bellezza del suo suono è qualcosa di impossibile da descrivere, dovete ascoltarlo per capirne la bravura impareggiabile) assieme a Claudio Abbado e alla giovane ma già affermata Orchestra Mozart, possa contribuire a far conoscere agli ascoltatori più curiosi un repertorio di grande fascino e bellezza. Nella stessa collana della Deutsche Grammophon, Allegrini ha recentemente pubblicato, assieme ad altri solisti come Jacques Zoon e Alessandro Carbonare, una fantastica esecuzione della sinfonia concertante per fiati e orchestra, altra pagina tanto grande quanto misconosciuta di Mozart e anch’essa decisamente da riscoprire. Alessio Allegrini, Claudio Abbado, Orchestra Mozart: Mozart Horn Concertos (Deutsche Grammophon), 20,10 euro

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di Claudia

Libri

Barana

Pensare al design come mezzo per soluzioni veloci e immediate in caso di emergenza; per riportare un’apparente normalità nelle regioni colpite da guerre o catastrofi naturali. Situazioni gravi in cui mancano beni primari come l’acqua potabile o la luce elettrica. Anche quest’ultima, un bene essenziale. Perché, nel mondo, un sesto della popolazione non ha accesso all’elettricità stabile. E quindi ai servizi che permettono una vita normale. E le persone devono fare affidamento su lampade a cherosene come fonte primaria di luce: sistemi di illuminazione pericolosi, tossici e molto costosi. Diversi gli studi per ovviare a queste difficoltà e molteplici le alternative di design oggi proposte, nate anche grazie agli sviluppi della tecnologia solare su larga scala. Fra i più innovativi, risulta molto interessante il progetto elaborato da due donne dello studio di design della Facoltà di Architettura della Columbia University. In conseguenza alle catastrofi provocate dal terremoto ad Haiti, Anna Stork e Andrea Sreshta hanno disegnato LuminAid: un piccolo gonfiabile capace di illuminare fino a cinque ore consecutive grazie a un sistema di pannelli solari. Impermeabile, galleggiante ed economico, questo “cuscino” richiede una manutenzione minima ed è anche molto facile da distribuire. Simile a una lanterna per tipologia di luce, propone però una tecnologia innovativa grazie alla sottile pellicola fotovoltaica in plastica Peva. Al lato, un beccuccio permette di gonfiare la borsa lanterna che diventa facile da trasportare grazie a un manico rinforzato. Caratteristiche di disegno che abbattono le difficoltà legate a prezzo e fornitura e permettono di dare luce alle popolazioni in difficoltà. [luminaid lab]

Design

Lampade da gonfiare

Spaesati e sospesi di Alessandra

Bonetti

Ci sono momenti in cui si vorrebbe vivere la beatitudine dell’ovvio e diventare spettatori di un mondo che si muove, si affanna per le stesse vecchie robe logore. “La vita è un proiettile che buca, ti sparpaglia il cervello”, dice Tamar, la ragazza “fuorimondo” che vive, o meglio osserva la vita, nelle pagine di un libro di un’autrice inspiegabilmente poco conosciuta da noi. Ornela Vorpsi è nata a Tirana, vive a Parigi ma scrive in italiano, lingua che ha imparato quando a 22 anni è fuggita dall’Albania per sbarcare a Milano, dove ha studiato, si è arrangiata facendo la cubista e ha appreso l’arte dello spaesamento, del vivere sospesi come Tamar, che dalla finestra racconta la morte del fratellino Rafi, l’amore di Manuela per il bel Dolfi, la folle bellezza della zia e i tanti personaggi che appaiono con pennellate improvvise come quella della ragazza che voleva prendersi una pausa da tutto quel vedere: “Io non porto gli occhiali, e mi sembra di vedere bene, anzi vedo troppo bene, vedo anche quello che non voglio vedere. Le sto chiedendo un paio di occhiali che annebbiano la vista”. Il segreto è ridursi al nulla, svela Veronica Soffici, una delle due sorelle che dà il titolo al romanzo di Pierpaolo Vettori, segnalato dalla giuria del Premio Calvino. Attraverso i suoi occhi, a metà strada fra il mondo reale e quello fantastico, la storia della decadenza di una famiglia nell’Italia di Tangentopoli diventa una favola contemporanea in cui specchiarsi: non per vedere se qualcosa è fuori posto, ma per controllare se esistiamo ancora. Smarrimento è anche la parola chiave dei sei racconti-reportage che Angela Bubba, già finalista al Premio Strega con il romanzo d’esordio La casa, dedica alla sua terra, la Calabria, quintessenza di un Paese che non accetta l’evoluzione e dove le cose rimangono sospese. Ma senza l’aiuto della fantasia, lo smarrimento si chiama paralisi. Si parte da Rosarno, per attraversare le nubi tossiche della Seteco, i mortali black out dell’ospedale Jazzolino, lo stupro del Parco archeologico di Capo Colonna. Una lettera urgente, rapsodica, che mescola neologismi, “idee rotte”, immigrati che “squarantottano”, “rabbia gastrica”, cammei incisi nella sopportazione, per raccontare l’inganno di un Paese “dove immagini che non ci sia inverno e dimentichi che te lo porti dentro”. Ornela Vorpsi, Fuorimondo, Einaudi, 170 pp., 13,50 euro, Pierpaolo Vettori, Le sorelle Soffici, Elliot, 192 pp., 15 euro Angela Bubba, Malinati, Bompiani, 252 pp., 15 euro


la posta di E Egregio direttore, l’editoriale di gennaio contiene alcune affermazioni che, data per scontata la Sua buona fede, possono essere solo il frutto di una lettura superficiale dei provvedimenti adottati dal governo Monti oppure della mancanza di specifica competenza nella materia. Parto dalla lotta all’evasione. Tra i provvedimenti già adottati c’è l’obbligo per le banche di comunicare all’amministrazione pubblica tutti i movimenti di tutti i conti correnti. L’incrocio di questi dati con le dichiarazioni dei redditi degli intestatari dei conti è quanto di più efficace si possa immaginare nella lotta sia all’evasione sia ai traffici illeciti e alle estorsioni. Patrimonialina. L’Ici, o Imu, è una imposta patrimoniale così come è una imposta patrimoniale quella sui dossier titoli. Non averle chiamate con il loro nome è una forma di “understatement” che testimonia solo l’intelligenza politica del governo. Le franchigie, solo sulla prima casa, di 200 e di 50 euro per ogni figlio a carico rendono il provvedimento sicuramente non iniquo (secondo i miei calcoli un appartamento di 110 mq, in uno stabile “civile” a meno di 2,5 chilometri dal Duomo, con annesso box pagherà 400 euro) e tale da non sconvolgere la vita. Allungamento dell’età della pensione.Capisco che per una persona alle soglie della pensione l’allungamento della vita lavorativa possa essere un dramma. Dobbiamo considerare però che quelli della mia generazione (ho 70 anni) e di quelle che l’hanno preceduta godono di pensioni superiori a quelle che spetterebbero loro sulla base dei calcoli della matematica finanziaria e attuariale. Ciò lo hanno ottenuto caricando il fardello che devono portare i loro figli e nipoti. Il calcolo della pensione con il sistema contributivo dà quello che è equo senza continuare lo scippo a danno delle generazioni future. Egregio direttore le parole sono pietre e quelle scritte dai giornalisti hanno maggiori conseguenze di quelle pronunciate al bar. Nel caso non dovesse ritenere di meglio precisare il suo pensiero nel prossimo editoriale consideri la presente quale disdetta dell’abbonamento alla naturale scadenza evitando di inviarmi i successivi numeri. Distinti saluti Pasquale Vaira Egregio signor Vaira, grazie perché dà per scontata la mia buona fede. Restano la lettura superficiale o la mancanza di competenza. O anche tutt’e due, aggiungo. Può essere. Oppure la spiegazione sta in parte nelle date: il suo messaggio è del 2 gennaio, il mio editoriale è uscito il 23 dicembre e l’ho scritto una settimana prima della pubblicazione. In quei giorni, se ben ricordo, ero in numerosa compagnia (non tutta stimabile) sul fronte delle critiche severe e i principali quotidiani, dal Corriere a Repubblica, alla Stampa, esprimevano molte perplessità sulla manovra del governo Monti. Spero che lei abbia ragione e io torto. Ma non mi sembra il caso di dedicare un altro editoriale all’argomento, dato che del precedente non cambierei una virgola. Ricambio i saluti. (gm)

Siamo due studenti in Scienze mediche. Ci sarebbe piaciuto leggere, nel numero di dicembre, un articolo più dettagliato, informativo e sostanzioso sul business dei “sani malati”, che non inserisse nello stesso paragrafo prediabete e cellulite, l’eccesso di tagli cesarei con l’uso delle statine per prevenire eventi cardiovascolari nei soggetti a rischio. Abbiamo trovato disinformativo accostare, o perlomeno non distinguere adeguatamente, problemi estetici o di malasanità con condizioni francamente più serie. Ci avete abituato (troppo) bene, confidiamo che continuerete a fare vera e buona informazione. Davide e Caterina Salve, sul numero di dicembre ho letto l’articolo “Il business dei sani” di Roberta Villa. Mi chiedo se ciò che è stato scritto riguardo alla fibromialgia è di vostra appartenenza perché, se così fosse, ne sarei molto dispiaciuta visto i valori che segue Emergency. Sono anni che soffro di questa malattia e spero che medici, scienziati e giornalisti diano la giusta collocazione a questa patologia. Forse sono le case farmaceutiche e i medici che invece di fare ricerca fanno il business dei farmaci. La fibromialgia esiste. Stefania Lepore Cara Stefania, mi dispiace molto se insieme a lei anche altri lettori possono essersi sentiti feriti dal riferimento alla fibromialgia come “malattia inventata”. Come giustamente scrive nella sua lettera, i valori di Emergency non sono compatibili con la volontà di sottovalutare il dolore di nessuno e non era certamente questa l’intenzione mia o di chi ho intervistato. La sofferenza è sempre reale, sono le etichette a volte a essere fasulle. Lo spazio a mia disposizione per l’inchiesta non mi consentiva di approfondire i diversi argomenti che ho toccato e la definizione di fibromialgia è certamente un argomento complesso che, come lei ben sa, impegna gli esperti da molti anni. Il suo inquadramento è infatti ostacolato dal fatto che in questa sindrome non ci sono esami del sangue o risultati di altri esami che siano fuori dalla norma e consentano di diagnosticare con certezza la malattia o valutarne l’andamento. Il dolore è l’unico segno di questa condizione e nessuno, al di là di chi lo vive, lo può misurare. Ciò inevitabilmente crea un certo scetticismo, non solo nella scienza, ma anche talvolta in chi sta vicino ai malati, che può fare ancora più male. Le perplessità con cui almeno una parte del mondo della medicina guarda alla fibromialgia non si riferiscono alla realtà della sofferenza individuale, quanto all’etichetta posta su questa condizione -- che nulla aggiunge e nulla toglie a chi ne è colpito -e al modo in cui viene usata questa stessa etichetta dall’industria della salute per fare affari. Lei non deve sentirsi offesa da questi dubbi, ma anzi farne tesoro nella sua battaglia per stare meglio. Con i migliori auguri per la sua salute, Roberta Villa

illustrazione

Ale+Ale

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Il giardino di

Cecilia Strada

foto Mattia

Velati

A Kabul c’è un giardino. Nel giardino ci sono fiori gialli, rose e bouganvillee. Tra le rose c’è una piccola struttura in ferro, ricoperta di stracci e bandiere: è il punto in cui, nel 1992, un razzo uccise cinque bambini. A quel tempo, il giardino ospitava un asilo che poi fu abbandonato. Anni dopo, il vecchio asilo è stato ristrutturato, ampliato e trasformato in un ospedale: oggi, in quel giardino nel cuore di Kabul, c’è il Centro chirurgico per vittime di guerra di Emergency. Nel giardino del Centro ci sono cinque giardinieri. I cinque giardinieri hanno quattro braccia. Sono solo alcuni dei tanti mutilati e disabili che ogni giorno, in questo come negli altri ospedali di Emergency, fanno

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il loro lavoro con professionalità e passione, ricevendo uno stipendio che altrove, per loro, sarebbe difficile se non impossibile trovare. Nel Centro chirurgico c’è un Pronto soccorso. Il Pronto soccorso è sempre pieno. A volte, troppo pieno: un attentato, una grossa esplosione in città possono portare ai cancelli dell’ospedale anche trenta, quaranta, cinquanta feriti nel giro di mezz’ora. Per questo nel giardino ci sono tre grosse tende. Quando un boato scuote la città – e succede spesso, troppo spesso – tutto il personale sa già cosa fare: si attiva il piano di mass casualty, la procedura per gestire l’afflusso massiccio di feriti. Le tende ospitano il triage, dove gli infermieri, i medici, il personale ausiliario lavorano senza sosta. Medicare e mandare a casa i feriti lievi. Preparare i feriti più gravi per la sala operatoria: finito un intervento, ne comincia un altro. Distribuire medicine, coperte, acqua. Consolare i bambini, che magari hanno smarrito i


di Kabul genitori nel caos dopo l’esplosione, e rimettere insieme le famiglie. Ricomporre chi è arrivato in ospedale già morto, aspettare i suoi parenti. E anche assistere chi è giunto in ospedale moribondo e non ce la farà: deve poter finire la sua vita senza dolore e con dignità. Anche questo è il nostro lavoro. Nel cuore di Kabul c’è un giardino, nel giardino c’è un ospedale, nell’ospedale ci sono le vittime di una guerra che sembra durare da sempre e non finire mai. Insieme alle vittime ci sono i medici e gli infermieri di Emergency, che ogni giorno offrono aiuto a chi non avrebbe altra possibilità di cura. Insieme alle vittime ci siete voi, che con il vostro sostegno e la vostra generosità permettete ogni giorno a quei medici e a quegli infermieri di essere lì. Ci siete voi, che permettete a un giardiniere disabile di continuare a mantenere la sua famiglia, che permettete a una madre di riportare a casa il figlio guarito, che permettete a un infermiere

afgano di ricevere formazione specializzata. C’è anche una stanza, nel centro di Kabul, in cui teniamo i registri dell’attività: 75.686 visite ambulatoriali, 24.749 pazienti ricoverati, 30.336 interventi chirurgici. Quando leggerete queste righe, i dati saranno già vecchi: qualcuno avrà aggiornato i registri con i nuovi numeri e ognuno di quei numeri parla di nuovi feriti, nuovi mutilati. Ognuno di quei numeri parla di voi: perché è grazie a voi se tutti loro hanno potuto ricevere le cure di cui avevano bisogno. E a proposito di numeri: c’è il 45508. Mandando un sms a questo numero, dal 30 gennaio al 19 febbraio, potrete aiutarci a mantenere vivo quell’ospedale, in un giardino nel cuore di Kabul.

s

Dalla parte dei civili Aperto da Emergency nel 2001, in quel che restava di un asilo colpito durante un bombardamento, il Centro chirurgico di Kabul offre assistenza, di alto livello e gratuita, alle vittime di guerra. La struttura ha 95 posti letto e dà lavoro a 260 afgani. Era stata pensata per rispondere a emergenze chirurgiche e traumotologiche, ma oggi è dotata anche di un reparto di rianimazione e terapia intensiva e di un apparecchio per le tomografie computerizzate, l’unico che sia disponibile gratuitamente in Afghanistan. A quasi 11 anni dalla sua apertura, è ancora il principale centro di chirurgia di guerra del Paese.


per inciso di

Gino Strada

foto Dino [buenavista]

Fracchia

cretini da caccia Gli F-35, aerei da caccia Usa, sono ormai un simbolo in Italia, dove alcuni cretini vogliono acquistarne 131. Spesa prevista (e abbiamo già sperimentato più volte la capacità dei cretini di spendere cinque o dieci volte il previsto) circa 15 miliardi degli euro che noi cittadini abbiamo dato allo Stato, tramite le tasse, per “fare il bene dei cittadini”, cioè il nostro. Il supergoverno bipartisan ha appena deciso tagli alle pensioni e alla sanità e pensa di spendere quei soldi per acquistare 131 velivoli F-35, aerei da caccia. Quei soldi sono proprio quelli che lo Stato e le sue istituzioni hanno appena deciso di togliere dalle nostre tasche per riversarli “nelle casse dello Stato”, che se non ricordo male dovrebbe essere cosa di tutti. Se quei soldi dovevano poi servire ad acquistare 131 aerei da caccia, i “Salvatori dell’Italia” potevano evitare di mettere in campo tutto il proprio know-how bocconiano per escogitare misure innovative come l’aumento del prezzo della benzina e delle sigarette. Niente aerei e niente manovra. Una questione di decenza, se non altro. Non mi sembra il caso di scomodare parole importanti come eguaglianza, giustizia sociale, solidarietà. Non mi aspetto certo che il supertecnogoverno sia davvero “interessato”, coinvolto con passione nel raggiungimento di quei nobili obiettivi. Basta guardarsi intorno senza censurare nulla, ed è subito evidente che (anche) in Italia sono in aumento i poveri, che le famiglie “fanno fatica”, che uno dopo l’altro i diritti sociali vengono sgretolati. È evidente che ci sono bisogni ingravescenti e sempre più disattesi. Basterebbe questa considerazione per dissuadere ogni persona intelligente, che sia o no un politico, dall’idea di sprecare decine di miliardi di euro per l’acquisto degli F-35. A maggior ragione nella situazione economica attuale. Invece esiste il rischio che il governo italiano li compri davvero (magari con le rituali “modifiche” dell’accordo). Perché i cretini, come i corrotti, sono molto ben rappresentati nella nostra casta politica. I cretini, in quanto tali, non si pongono neppure la domanda che un cittadino normale si fa ogni volta acquistando le patate al mercato: a che cosa mi servono? I cretini non riescono a pensare così lontano. Vorrei poter incontrare tutti i parlamentari che voteranno (posto che la cosuccia venga sottoposta alla approvazione del Parlamento) a favore dell’acquisto dei caccia e regalare a ciascuno di loro una maglietta. Rossa, con uno stormo di F-35 e una grande scritta: “Cccp?”. Non è un attacco senile di paleocomunismo. È semplicemente la domanda che mi verrebbe spontaneo fare a ciascuno di loro: “Che Cazzo Cacciano, Pirla?”.

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