E il mensile luglio 2012

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E - IL MENSILE. GIÀ PEACEREPORTER • ANNO VI - N°7- LUGLIO 2012 • EURO 4,00 • PUBBLICAZIONE MENSILE POSTE ITALIANE S.P.A.- SPEDIZIONE IN ABB. POSTALE - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N°46) ART. 1, COMMA 1, LO/MI

Stati Uniti.Tango a Milano.Omosessuali in Russia.Carbonai in Calabria LUGLIO 2012

Occupy America

E-IL MENSILE

Carbonai di Calabria Russia omofoba

LUGLIO 2012 • EURO 4,00

Storie del divano rosso hanno scritto: Giorgio Ballario.Giulia Bondi Violetta Bellocchio.Alberto Ferrigolo Enrico Piovesana.Michele Primi.Fabrizio Ravelli hanno fotografato e illustrato: Claudio Francescato Bruce Gilden.Mattia Insolera.Beatrice Mancini Felix Petrus˘ka.Tonino Sgrò.Horst Wackerbarth


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l’editoriale

l'altro mondo Mentre chiudiamo questo numero del giornale, la terra continua a tremare sotto i piedi della gente emiliana. E questa terra che trema ben rappresenta il tremore di un sistema, quello italiano, che sta sempre più in bilico, sul punto di crollare. Tanto sono state straordinarie la mobilitazione e la solidarietà intorno agli emiliani, tanto è apparsa ancora una volta stolta e lontana dalla realtà la politica italiana. Attraverso il nostro sito abbiamo invitato i lettori ad appellarsi al presidente della Repubblica perché annullasse una parata militare anacronistica, quella del 2 giugno, per destinare i soldi risparmiati alle zone colpite dal terremoto. La rete si è mobilitata come raramente accade. Ma quel che siamo riusciti a ottenere è un ossimoro: la parata sobria. Peraltro non si capisce perché una Repubblica che ripudia la guerra debba essere rappresentata nel suo giorno di festa da una sfilata di divise e macchine di morte. In compenso i soldi per ricostruire li prenderanno dai carburanti. Non certo dalle assurde spese militari, che hanno sfondato il tetto dei 23 miliardi di euro. Questo sistema non funziona più. Lo dicono tutti gli indicatori sociali e politici. E allora noi siamo andati a vedere che cosa accade nel cuore di questo sistema, gli Stati Uniti d’America, per cercare di capire quanto è vasta e radicata quella protesta che noi conosciamo come Occupy Wall Street ma che in realtà ha ormai investito tutti gli ambiti della vita del popolo statunitense. Fabbriche, scuole, università, banche, il sistema edilizio. Come finirà non è dato sapere, ma è un buon inizio. Per rilassarci poi siamo andati a fare un giro in una milonga milanese, dove storie e persone diversissime trovano un motivo di unione e confronto nel ballare il tango. E anche questo potrebbe essere un buon inizio. Sulle Serre calabresi abbiamo cercato uno dei mestieri più antichi del mondo, quello dei figli del fuoco, i carbonai, che dal tempo dei Fenici se lo tramandano di padre in figlio. Mestiere eguale dignità. Elementi indispensabili perché ogni buon inizio possa avere anche una buona fine. Come ogni mese, insomma, abbiamo cercato di raccontarvi l’altro mondo possibile. Che in alcuni casi c’è già, e in altri è proprio necessario. Maso Notarianni P.s. Nuove tracce del mensile si trovano già in rete. Nella nuova collana di E-Book che abbiamo deciso di produrre. Il primo segue il reportage di Angelo Miotto nei Paesi Baschi, si intitola Itxaropena, che in basco vuol dire speranza. L’altro è di Christian Elia che, dopo la sbornia degli Europei, torna sul tema raccontando le tante storie di calcio che non finiscono al 90°. Si intitola Storie in fuorigioco, sono quelle che escono dai confini del campo.

Storie in fuorigioco. Non tutte le partite finiscono al 90° di Christian Elia prefazione di Gianni Mura 2,99 euro Itxaropena. Una speranza per i Paesi Baschi di Angelo Miotto foto di Massimo Di Nonno 0,99 euro Li puoi scaricare da: www.amazon.it (per Kindle) www.readmelibri.com/eilmensile (per le altre piattaforme)


in questo numero 5 le storie

In nome del popolo francese di Nicola Accardo

L’ultimo guardiano di Alberto Ferrigolo

Signora accoglienza di Mario Di Vito

Scacco alla miseria di Luciana Grosso foto di Stéphanie Sinclair

Professione busker di Cora Ranci foto di Francesco Geronazzo

12 il reportage

Occupy America Mica solo Wall Street. Alla scoperta delle mille Occupy degli Stati Uniti: che si battono contro le banche, contro gli sfratti, che vogliono che siano puniti i crimini economici. E che annoverano un sostenitore d’eccezione: Tom Morello, chitarrista dei Rage Against The Machine di Enrico Piovesana foto di Bruce Davidson, Leonard Freed, Bruce Gilden, Larry Towell, Paul Fusco

Un mondo senza Wall Street Parlano gli economisti François Morin, Amartya Sen, gli eretici di Boston: è possibile mettere in discussione il dogma liberista e fermare la speculazione finanziaria di Angelo Miotto, Enrico Piovesana e Giulia Bondi

40 le cronache

Il tango di Porta Venezia Nella milonga più bella di Milano, dove ognuno si trasforma per ballare il suo intenso, personalissimo tango di Fabrizio Ravelli foto di Beatrice Mancini

50 il fumetto

Verso Freetown Si chiama Khalid, parte da Milano, torna in Sierra Leone. Il racconto di una migrazione al rovescio

60 il portfolio

Seduti sul sofà Prendi un divano rosso. Portalo in mezzo ai ghiacci, in una savana, tra i grattacieli, in una metropoli o in campagna. Mettici sedute delle persone, comuni o famose, bianche o nere, donne o uomini. Chiedi a ciascuno di loro cosa pensa, che cosa si augura, cosa teme. Per costruire così un’antropologia del nostro tempo

106 domani

Musica di Carlo Boccadoro Teatro di Simona Spaventa Architettura di Raul Pantaleo Cinema di Barbara Sorrentini Arte di Vito Calabretta Rete di Arturo Di Corinto Libri di Alessandra Bonetti Design di Claudia Barana

110 le pagine

di Emergency

foto e testi di Horst Wackerbarth

80 le cronache

Una vita difficile Quella degli omosessuali in Russia alle prese con l’omofobia di tanti: datori di lavoro, famigliari, ma anche nazionalisti e poliziotti di Michele Primi foto di Mattia Insolera

88 il reportage

I figli del fuoco Sulle Serre calabresi resiste un antico mestiere: quello dei carbonai che tramandano di padre in figlio una tecnica che risale ai Fenici foto e testo di Tonino Sgrò

98 il racconto

Il rigore più lungo del rigore più lungo del mondo Una partita sospesa a nove minuti dalla fine e ripresa ventiquattro giorni dopo il calcio di rigore che non era stato battuto. Proprio come in un famoso racconto di Osvaldo Soriano. La storia di un penalty durato più di tre settimane. Con due spettatori d’eccezione di Giorgio Ballario illustrazioni di Felix Petruška

Il bambino e la mina di Cecilia Strada foto di Michele Cazzani

le rubriche 38 Grill di Till Neuburg 39 Robe di Alessandro Robecchi 48 Spiriti liberi di Giulio Giorello 49 Buen vivir di Alfredo Somoza 58 Mad in Italy di Gianni Mura 59 Un fisico bestiale

di Bruno Giorgini

86 .eu di Stefano Squarcina 86 Parola mia

di Patrizia Valduga

87 Polis di Enrico Bertolino 96 Televasioni di Flavio Soriga 97 Decoder di Violetta Bellocchio 97 Il capitale di Niccolò Mancini 112 La posta del cuore di Claudio Bisio

il nostro osservatorio 36 Buone nuove 46 Casa dolce casa 56 L’Italia è una Repubblica

fondata sul lavoro

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Cessate il fuoco

Ci vediamo in edicola dal 25 luglio con il numero di agosto

testo e illustrazioni di Raul Pantaleo e Marta Gerardi

in copertina foto di Horst Wackerbarth


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E - IL MENSILE LUGLIO 2012

con noi

www.eilmensile.it

Direttore responsabile Gianni Mura Condirettore Maso Notarianni Art director Federico Mininni Caporedattori Angelo Miotto ◆ Assunta Sarlo Redattori Gabriele Battaglia ◆ Christian Elia ◆ Luca Galassi

Alessandro Grandi ◆ Antonio Marafioti ◆ Enrico Piovesana Valentina Redaelli ◆ Stella Spinelli ◆ Alberto Tundo Photoeditor Marta Posani ◆ Germana Lavagna Grafica Maddalena Masera Videoeditor Claudia Pozzoli Segreteria di redazione Silvina Grippaldi Hanno collaborato Nicola Accardo ◆ Patrick Aventurier ◆ Lorenzo Bagnoli ◆ Giorgio Ballario Claudia Barana ◆ Violetta Bellocchio ◆ Enrico Bertolino ◆ Claudio Bisio ◆ Carlo Boccadoro ◆ Giulia Bondi ◆ Alessandra Bonetti ◆ Vito Calabretta ◆ Casa delle donne per non subire violenza Bologna ◆ Michele Cazzani ◆ John Chillingworth Yuri Cortez ◆ Bruce Davidson ◆ Todd Davidson ◆ Arturo Di Corinto ◆ Mario Di Vito Elfo ◆ Alberto Ferrigolo ◆ Claudio Francescato ◆ Leonard Freed ◆ Paul Fusco ◆ Maurizio Galimberti ◆ Marta Gerardi ◆ Francesco Geronazzo ◆ Bruce Gilden ◆ Giulio Giorello Bruno Giorgini ◆ Monika Graff ◆ Luciana Grosso ◆ Guido Guarnieri ◆ Mattia Insolera Lucas Jackson ◆ Paolo Lezziero ◆ Vincenzo Lombardo ◆ Beatrice Mancini ◆ Niccolò Mancini ◆ Till Neuburg ◆ Annamaria Palo ◆ Raul Pantaleo ◆ Felix Petruška ◆ Michele Primi ◆ Cora Ranci ◆ rassegna.it ◆ Fabrizio Ravelli ◆ Alessandro Robecchi ◆ Sergio Ronchi ◆ Oscar Sabini ◆ Borislav Sajtinac ◆ David Sandison ◆ Roberto Schmidt Tonino Sgrò ◆ Stéphanie Sinclair ◆ Alfredo Somoza ◆ Flavio Soriga ◆ Barbara Sorrentini ◆ Simona Spaventa ◆ Stefano Squarcina ◆ Cecilia Strada ◆ Justin Sullivan Larry Towell ◆ Patrizia Valduga ◆ Horst Wackerbarth ◆ Kevin Winter

Horst Wackerbarth Enrico Piovesana

Freelance in Iraq e inviato per PeaceReporter in Afghanistan, Pakistan, Cecenia, Sud Ossezia, Sri Lanka, Birmania e Filippine. I suoi reportage sono stati pubblicati dai principali quotidiani e periodici nazionali, i suoi servizi video trasmessi dalla Rai. Vincitore del Premio Baldoni 2007. Ha appena pubblicato Shùlai: il movimento maoista afgano raccontato dai suoi militanti (Città del Sole). È tornato dagli Stati Uniti con un lungo reportage sul movimento Occupy.

È un artista visuale, vive a Düsseldorf. Il suo vero scopo è dare vita a una galleria fotografica dell’umanità. Da più di trent’anni viaggia per il mondo, dai ghiacciai dell’Alaska alle foreste tropicali del Sudamerica, dalle metropoli europee ai villaggi della Siberia, con un divano rosso su cui hanno posato più di settecento persone di 52 Paesi. Uno scatto uguale per tutti: giovani e vecchi, poveri e ricchi, premi Nobel e analfabeti, personaggi famosi e sconosciuti. Alcune di quelle foto sono state selezionate per il nostro portfolio.

E - IL MENSILE già PeaceReporter

Giulia Bondi Alberto Ferrigolo

Venezia, 1956. Principalmente il manifesto. Per circa vent’anni. Poi Diario, per cinque. Dopodiché freelance. Televisione con Andrea Purgatori. La direzione della rivista della Siae. Un breve passaggio a quella di Left. Molte collaborazioni: riviste, settimanali, mensili. Da ultimo è autore dei programmi di Serena Dandini. Su queste pagine ha scritto L’ultimo guardiano.

Nata nel 1976, una laurea in Economia. Come giornalista e videomaker ha pubblicato su Galatea, Terre di Mezzo, internazionale.it, l’Espresso. Si è occupata di storia della Resistenza insieme al nonno partigiano, Ermanno Gorrieri. Ha vinto il premio Ilaria Alpi nel 2006 e il premio Gruppo dello zuccherificio nel 2012. Ha intervistato il premio Nobel Amartya Sen.

Michele Primi

Alle biblioteche carcerarie che ne facciano richiesta verrà attivato un abbonamento omaggio

www.eilmensile.it

Mattia Insolera

www.emergency.it

Scrive per la Repubblica da una trentina d’anni. Ha fatto cronaca giudiziaria a tempo pieno per otto anni. Poi l’inviato, scegliendo di non specializzarsi, così era molto più vario e divertente il panorama dei fatti e delle persone. Ha scritto per lo più di cronaca italiana e poi occasionalmente di esteri, comprese tre guerre: ex Jugoslavia, Kosovo, Iraq. Gli piacciono le storie della gente. Per E ha passato una serata insieme ai tangueros di Milano.

Beatrice Mancini

Resp. trattamento dati (D. Lgs. 30.06.2003, n.196) Gianni Mura

La nostra carta Questo giornale è stampato su carta certificata PEFC

È nato a Reggio Calabria nel 1970 e vive a Milano. Dopo la laurea in Lettere ha iniziato a dedicarsi alla fotografia. Il suo interesse attualmente è rivolto a una ricerca sulla relazione tra città e mezzi pubblici e a un’altra sulle tradizioni in Calabria. A Serra San Bruno ha incontrato i carbonai, custodi dei segreti di un mestiere antichissimo.

Fabrizio Ravelli

Agenzie fotografiche ed editori VII ◆ Afp ◆ BeccoGiallo ◆ Contrasto ◆ Gamma-Keystone ◆ Getty Images Hulton Archive ◆ Magnum Photos ◆ Reuters ◆ Tamassociati Redazione e amministrazione via Vida, 11 - 20127 Milano - Tel 02 801534 - Fax 02 26809458 segreteria@e-ilmensile.it Edito da Dieci dicembre Scarl via Vida, 11 - 20127 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07 Presidente Maso Notarianni Amministratore delegato Rosanna Devilla Amministrazione Annalisa Braga Responsabile IT Stanislao Cuzzocrea Concessionaria pubblicità Poster pubblicità & p.r. Srl Sede legale e Direzione commerciale: via A. Bargoni, 8 - 00153 Roma Sede commerciale: viale Gran Sasso, 2 - 20131 Milano Tel 06 68896911 - Fax 06 58179764 - poster@poster-pr.it Stampa Nuovo Istituto Italiano Arti Grafiche Spa via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Distribuzione M-dis Distribuzione Media Spa via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano - Tel 02 25821 - Fax 02 25825306 Distribuzione in libreria: Joo Distribuzione, via F. Argelati, 35 - 20143 Milano Servizio abbonamenti e arretrati Picomax Srl viale Sondrio, 7 - 20124 Milano Tel 02 77428040 - Fax 02 76340836 Arretrati 8 euro

Tonino Sgrò

Nato nel 1977 a Bologna. Le sue fotografie sono pubblicate da importanti riviste italiane e internazionali. Nel 2009 ha vinto il secondo premio in una categoria del World Press Photo. Suoi i ritratti della comunità omosessuale di San Pietroburgo.

Nato a Milano nel 1973. Giornalista e autore radiofonico e televisivo, scrive per Rolling Stone, GQ e Riders ed è autore per Virgin Radio e Virgin Tv. Ha pubblicato tre monografie musicali per Giunti Editore e curato i testi di volumi fotografici per le case editrici White Star e Rcs Libri. Per noi racconta le difficoltà quotidiane dei gay in Russia.

Nata a Este. Nel 2000 si laurea in Lettere classiche con una specializzazione in Archeologia medievale. Nello stesso anno partecipa a un corso di fotografia e inizia a lavorare come assistente. Nel 2007 partecipa con una borsa di studio al master in Photography and Visual Design presso il Centro Forma. Praticamente vive in treno tra Padova e Milano e fotografa ovunque. Questa volta a Milano, nella milonga dell’Osteria del treno.


storia 78 - Jean–Paul Teissonnière

In nome del popolo francese

storia raccolta da

Nicola Accardo

Jean-Paul Teissonnière, nato a Perpignan 64 anni fa, è il presidente dell’ong Interforum, rete di avvocati europei per la lotta contro i crimini sociali e ambientali, nata dopo il processo Eternit di Torino. Dal 1995 difende in Francia le vittime dell’amianto.

Ho passato una notte in bianco per imparare a memoria la mia arringa, la notte prima dell’udienza dello scorso 14 febbraio a Torino. Quando l’avvocato Sergio Bonetto ha spiegato ai magistrati che non parlo neppure una parola d’italiano, il giudice Casalbore ha detto: «È stato bravo!». Il processo Eternit è stata la più grande soddisfazione della mia carriera. Ho voluto esserci, insieme ad altri avvocati stranieri, per dare a quel processo una dimensione globale. Non riguardava solo le vittime dell’Eternit di Casale Monferrato, ma tutte le vittime dell’amianto nel mondo. È stata una vittoria collettiva, frutto di quindici anni di lavoro intenso. Ho studiato a Montpellier, il movimento del Maggio ’68 mi ha certamente segnato, le questioni sociali mi sono sempre state a cuore. Ma la mia specializzazione nel diritto del lavoro non ha radici ideologiche. Ho iniziato negli anni Settanta come assistente di un avvocato a Bobigny, alla periferia di Parigi, mi sono fatto le ossa nei tribunali del lavoro e ho visto da vicino le organizzazioni sindacali. Nel 1995, quando è scoppiato lo scandalo dell’amianto, ero già l’avvocato del consiglio di fabbrica di Eternit, a Valenciennes, e per questo sono stato scelto per condurre la battaglia giudiziaria dei lavoratori contaminati. Ora il mio studio è composto da quattordici avvocati e quaranta dipendenti in totale; ci occupiamo essenzialmente delle questioni legate all’esposizione ai prodotti tossici come l’amianto, ai pesticidi nell’agricoltura, alle radiazioni nucleari. Come in tutti i Paesi industriali, a partire dalla fine del XIX secolo, l’amianto in Francia ha creato danni irreparabili. L’unica cifra certa è quella dei morti stimati per il periodo 1995-2025: sono centomila, proprio come in Italia, ovvero tremila morti l’anno. L’amianto è una lunga e invisibile Hiroshima, con lo stesso numero di vittime. A queste bisogna aggiungere i morti del perio-

do precedente e di quello successivo, perché le malattie dell’amianto si manifestano fino a quarant’anni dopo la contaminazione. È una situazione assurda di cui si è fatto a lungo finta di non sapere, a causa della connivenza tra poteri economici e poteri pubblici. Abbiamo ritrovato un documento di Plinio il Vecchio, del I secolo d.C., in cui le malattie dell’amianto venivano catalogate tra “le malattie dello schiavo”. Negli anni Cinquanta il carattere cancerogeno dell’amianto era stato definitivamente accertato dai ricercatori medici. Ma c’è stata per tutto il secolo un’incessante attività di lobby portata avanti dagli industriali dell’amianto per soffocare le iniziative dello Stato. Quando è scoppiato lo scandalo, nel 1995, i lavoratori si rivolgevano a noi di nascosto, temevano ripercussioni e ricevevano lettere minatorie. Ora almeno una volta al mese partecipiamo alle assemblee generali delle vittime e a Valenciennes ci sono circa seicento persone che ci accolgono con entusiasmo offrendoci mazzi di fiori. Abbiamo cambiato la vita di questa gente e ne sono orgoglioso. I risarcimenti stabiliti dai processi civili sono stati per loro un riconoscimento morale e materiale. Ma non avranno giustizia fino a quando in Francia non verrà organizzato un processo come quello di Torino. Il giudizio penale ha una funzione fondamentale: denunciare ciò che è proibito. Per lo Stato francese, quindi, quello che è successo con l’amianto non è ancora ascrivibile ai crimini proibiti dalla legge. Le vittime non hanno desiderio di vendetta, non vogliono che i responsabili vadano in carcere, ma che venga pronunciata solennemente da un tribunale una frase magica: «In nome del popolo francese, questa catastrofe è stata un’ingiustizia». Il processo è bloccato per ragioni formali, nonostante un giudice istruttore abbia raccolto tutti gli elementi necessari per il rinvio a giudizio dei responsabili. In Francia la figura del procuratore non ha la stessa indipendenza e lo stesso margine d’azione di cui gode in Italia, è legato alla volontà del ministero della Giustizia. Quando gli interessi economici e politici sono molto forti, le procure si inceppano. Io penso che l’istituzione giudiziaria in Francia stia perdendo credibilità. In una recente intervista a un settimanale, ho detto che Eternit ha continuato ad “avvelenare” la gente. Con mia grande sorpresa, sono stato denunciato dall’azienda per diffamazione. In questa vicenda sarei io, che sto dalla parte delle vittime, l’unico a essere processato. Bene, per vincere un processo per diffamazione, devono portare le prove che quel che ho detto è falso. Non vedo l’ora di essere convocato dal giudice.

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storia 79 - Alflorio Bertaggia

L’ultimo guardiano storia raccolta da

Alberto Ferrigolo

Alflorio Bertaggia è nato a Milano il 5 ottobre 1962. Diploma di ragioneria, è sposato con Elena e ha un figlio di 22 anni, Riccardo. Il primo marzo 1988 è l’ultimo dipendente a esser assunto alla ex Si.To.Co. di Orbetello, matricola n° 139. A 26 anni è addetto alla manodopera e all’amministrazione, si occupa di bolle d’accompagnamento e gestione del magazzino. Lavora dall’adolescenza. Nei campi, dopo la scuola. Poi fa l’aiuto-cuoco. Dopo la leva, tirocinio da un commercialista. Per 700mila lire al mese segue un industriale che rileva fabbriche dismesse e gira mezza Italia.

Il prossimo 5 ottobre faccio cinquant’anni. Se penso che ventiquattro li ho vissuti qui dentro, mi vien male. Ne avevo ventisei quando sono stato assunto alla Fertilgest Srl di Orbetello, stabilimento Federconsorzi, già Si.To. Co., Società interconsorziale Toscana concimi. Colle, fertilizzanti, chimica insomma. Sono entrato come amministrativo, contabilità e paghe. Oggi, però, mi sento come “l’ultimo dei giapponesi”. Impegnato in una guerra di resistenza nella giungla del lavoro e delle prospettive, che dura almeno da sedici anni. Il fatto è che non ce ne sarà più per nessuno. Forse, neppure per me. Per carità, un impiego è un impiego. Uno stipendio, anche se a metà, essendo part time dall’agosto scorso. Comunque non ci si sputa sopra. Mi devo ritenere pure fortunato, anche se dipende da come la si guarda. Qui si è messi male, ma fuori è peggio. Anch’io me la sono vista brutta e ho passato momenti terribili, di grande incertezza. Senza stipendio, licenziato e riassunto tre volte. Una vera odissea. Il punto è che dal 1996 sono rimasto l’unico dipendente. Una sentinella a guardia d’una cittadella industriale di 120mila metri quadrati, tra la ferrovia e la laguna di ponente, per 438mila metri cubi di fabbricati che cadono a pezzi. Strutture fatiscenti, dove s’aggirano solamente i fantasmi di metà della mia vita. Eppure quando sono arrivato nel 1988, la fabbrica era viva. Eravamo oltre ottanta, entravano e uscivano più

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di venticinque autotreni al giorno, tutti i giorni, e qualche treno. Ora non c’è più nulla. Tutto transennato. Erbacce che crescono ovunque, tetti che crollano, travi che marciscono. Eppure dal 13 marzo 1996, da quando è subentrato il liquidatore, ogni mattina ho aperto il cancello alle 8 e l’ho richiuso alle 17. Ora me ne vado alle 13. Ormai questo posto lo considero mio. In fondo l’ho dismesso io. Ho inventariato tutto, ho classificato ogni pezzo, ogni oggetto, ogni utensile, colonna, mattone, chiodo o bullone che sia. Sicuramente tutte le tegole dei tetti, segnalando crolli, ammanchi, tentativi di furto, ingressi illeciti. Una notte hanno anche trovato un ragazzo impiccato. Suicidio o delitto, non s’è mai saputo. Ho difeso il territorio come un buon cane da guardia. E poi ho organizzato la partenza dei materiali, tutto il trasloco, i carotaggi. E la bonifica. Dei terreni, delle cisterne, dei depositi, dei residui delle lavorazioni chimiche, dell’amianto. Ho tenuto aggiornato “il giornale di cantiere”, il libro mastro della dismissione. Dentro al computer c’è tutto. C’è la storia della fabbrica dal 1906 a oggi. Tutto schedato, tutto fotografato. Non è sfuggito nulla. Chiunque venga e chieda notizie qui trova la risposta. Anche se vuole sapere perché davanti a quella finestra sfondata oggi c’è un armadio a protezione dell’ingresso di quella stanza al piano terra che un tempo era la sede della direzione e oggi è la fredda sala di controllo di un degrado inarrestabile. Quando il 9 agosto 1993 vengono licenziati e messi in mobilità gli ultimi trentadue dipendenti, il giorno dopo la fabbrica è una città di fantasmi. Sconvolgente. Come colpita da un’epidemia improvvisa da cui tutti sono fuggiti lasciando le cose come stavano. Pezzi nei morsetti o nel tornio. Una realtà postatomica. Dal caos al niente.


Vista da qui la storia di questa fabbrica è la parabola della chimica in Italia. Ascesa e caduta. Siamo stati pur sempre una fabbrica della Montedison. O la metafora del declino industriale e del lavoro nel nostro Paese. A volte mi sento un po’ prigioniero. Mio malgrado. In fondo, penso, se avessero licenziato anche me sarei stato costretto a darmi una mossa, a trovarmi un altro lavoro. Anche se i tentativi non sono mancati. Non sono mai stato con le mani in mano. Ho persino partecipato a un concorso pubblico. Mi sono preparato per bene. Ero sicuro di me. Poi alla vigilia della prova, uno mi fa: «Ma a te chi ti appoggia?». «Nessuno», gli dico. Lui ride e mi fa i nomi di tutti quelli che sarebbero passati. Li ha azzeccati tutti. Mi sono scoraggiato e avvilito. Qui a Orbetello, oltre la pesca, non ci sono prospettive. Bisognerebbe andarsene via. Ci avevo anche provato, una volta, prima di approdare qui. A Teramo. Ma è andata male. L’imprenditore che mi ha assunto è fallito ed è pure finito in galera. È accaduto una settimana prima del matrimonio. Il 5 dicembre 1987 mi dovevo sposare. Mi sono trovato di colpo senza niente. Con la cucina e i mobili fatti fare su misura. Fortuna che il primo marzo dell’anno dopo sono entrato qui. Un miracolo, a pensarci. In questi anni saranno passati di qui un centinaio di tecnici, si sono avvicendati diversi padroni, saranno stati spesi almeno venti milioni di euro, sono stati concepiti diversi progetti e tante buone intenzioni, ma non s’è mai visto nulla di concreto. Peccato, si è perso solo molto tempo. Un’area di archeologia industriale bella come questa, in faccia alla laguna, di cui non resterà più nulla da recuperare. Hanno pensato di tutto: parco giochi a tema, albergo, centro congressi, polo univer-

sitario, zona residenziale. Hanno invece girato solo alcune scene del Commissario Manara, il dvd per l’album di Nada del 2011, un cortometraggio della Scuola di cinematografia di Roma. Tanti i curiosi e gli appassionati di fotografia. Un buon set. Punto. Io ormai sono questo luogo e questo luogo è me. Ne sono la memoria storica. Il testimone. Ogni giorno faccio il giro e scrivo l’inventario. Specie dei crolli. Sono il guardiano, ho un contratto da amministrativo, ma dal 1991 non ho avuto un solo scatto di stipendio. Di sicuro ne ho avuto più cura io dei legittimi proprietari. Quel che sarà questo luogo un domani io non lo vedrò. Ma di sicuro sarà uno spettacolo.

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storia 80 - Gemma Tonucci

Signora accoglienza storia raccolta da

Mario Di Vito

Gemma Tonucci è nata e vive a Saronno. Da vent’anni è l’anima dell’associazione Givis (Gruppo volontari italostranieri) che si occupa di accogliere e di dare una possibilità ai tanti cittadini stranieri che risiedono nella cittadina alle porte di Milano.

All’inizio ci chiamavamo Associazione extracomunitari Saronno, ma quella parola, extracomunitari, spaventava la città, eravamo come circondati da una coltre di diffidenza, tutti ci guardavano quasi con sospetto. Così, in breve tempo, decidemmo di cambiare il nome in Givis (Gruppo volontari italo-stranieri). Spesso è solo una questione di etichetta: basta cambiarla e subito le cose migliorano. Era il 1989, la legge Martelli aprì le frontiere; tempo un anno e cominciammo a vedere qui a Saronno i primi stranieri. Io vivevo vicino a un oratorio dentro il quale si riunivano in molti, per lo più maghrebini. Il mio coinvolgimento in questa realtà nacque in maniera piuttosto casuale: mi venne chiesto di dare una mano e io mi presentai, mettendomi al servizio delle diverse esigenze. Da lì, nacque l’idea di fare un’associazione strutturata e attiva in città. Per prima cosa si rese necessario insegnare l’italiano. Così partimmo con alcuni corsi serali e doposcuola per bambini. Poi ci accorgemmo che i più piccoli imparavano la lingua più velocemente dei grandi e cominciammo a fare lezioni anche per le mamme. Così come, poi, abbiamo deciso di istituire anche corsi di arabo per gli stessi bambini, in modo che non perdessero il contatto con la loro

lingua d’origine. Da queste parti sono passati anche molti immigrati irregolari, principalmente uomini soli, lontani dalla loro terra, senza affetti e con poche speranze. Molti volontari erano spaventati da questo fatto, ma ne siamo usciti, abbiamo costruito una grande comunità e ora siamo un punto di riferimento per gli stranieri che vengono a Saronno. Ne abbiamo passate davvero tante in questi vent’anni: le forze politiche erano per lo più contro di noi. C’è stato chi, addirittura, è arrivato al punto di consigliare agli stranieri di boicottarci, dicendo che le nostre attività non servivano a niente. Siamo stati messi ai margini della vita cittadina, non riuscivamo a farci ascoltare in Comune: in vent’anni non abbiamo visto il becco di un quattrino da parte loro. Le abbiamo pensate tutte, persino di invitare la Lega Nord nella nostra sede per fare una bella chiacchierata e spiegare per bene quello che facciamo. Abbiamo passato diversi momenti di sconforto in cui eravamo seriamente intenzionati a chiudere e ad andarcene tutti a casa. Poi il vento è cambiato. Dopo vent’anni di tensioni e diffidenza, l’anno scorso il nuovo sindaco di Saronno, Luciano Porro, è venuto addirittura a trovarci. La prima volta che un rappresentante istituzionale ha messo piede nei nostri locali da quando siamo nati. Noi siamo qui, pronti a dare una mano quando serve. E ci saremo sempre.

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storia 81 - Phiona Mutesi

Scacco alla miseria

Credo di avere sedici anni. Forse diciassette. Come punto di partenza, non sapere la propria età non è granché. Anche crescere a Katwe, uno dei peggiori slum di Kampala, la capitale dell’Uganda, non è una gran fortuna. Lì ci sono nata e pensavo che ci sarei rimasta per sempre. Adesso abito fuori, nella scuola che frequento. A Katwe torno solo qualche volta. Lì, nelle case di fango e paglia e nei vicoli tra i quali si diffonde l’odore forte delle banane arrostite, abita ancora la mia famiglia: mia madre, i miei due fratelli e una nipotina di sei anni. La nostra casa di cinque metri per cinque è una delle più grandi dello slum: siamo fortunati. E poi abbiamo un materasso, almeno fino a quando non ce lo rubano, e abitiamo poco lontano dalla chiesa di Agape. Dicono che la chiesa sia la prova dell’esistenza di Dio perché resta in piedi per miracolo. Non lo so se sia proprio così, però in quella chiesa un miracolo a me è successo: vi ho conosciuto Robert, che adesso ha più di trent’anni e che come me era poverissimo, anche se ora non lo è più. Dice che si è salvato “con i piedi”. Ha cominciato a giocare a calcio e fino a quando non si è rotto il ginocchio è stato bravo. Lavora per un gruppo americano che si chiama Sport Outreach, una ong che aiuta quelli come me insegnando a leggere e scrivere e uno sport, un gioco, una specialità o qualunque accidenti possa aiutarli a sentirsi bravi in qualcosa. Così Robert ha cominciato a insegnare ai ragazzini di Katwe a giocare a calcio: «Non è semplice come sembra – dice sempre – non basta una palla e un po’ di fiato: serve sapere cosa farci con quella palla e quel fiato». Pensava che il calcio potesse tirare fuori da quel labirinto di foglie e fango chi ci è nato. E per molti è stato così. Per me è stato diverso. Ha recuperato una scacchiera e i pezzi dagli americani e mi ha insegnato come usarla. Proprio qui, nella chiesa che sta in piedi per volontà di Dio. Prima di farlo però ha dovuto leggere un libro con le regole, perché non le conosceva tutte nemmeno lui. Adesso siamo in dieci a fare parte del programma di schacchi. Li chiamiamo chess in inglese, perché in luganda, la lingua di qui, non c’è una parola per dirlo. I primi tempi ero un disastro: «Sei troppo aggressiva», mi ripeteva Robert prima di fare scorpacciate di miei pedoni. «I pezzi degli scacchi sono leggeri: sono capaci tutti di sollevarli, il difficile è posarli nel posto giusto». Gli altri imparavano più in fretta di me e mi battevano regolarmente. Poi però ho capito: il gioco sembrava difficile, ma in realtà era semplice. Dovevi prendere delle decisioni. Se prendevi quelle giuste sopravvivevi, se prendevi quelle sbagliate venivi mangiato. Praticamente come a Katwe: dovevo solo rifare sulla scacchiera quello che facevo tutti i giorni nei vicoli di fango. All’improvviso è diventato tutto facile. Qualcuno dei ragazzi piangeva perfino, perché veniva battuto da una femmina, per di più da una che fino al giorno prima non valeva niente. Poi un giorno ho

battuto anche Robert. E allora le cose si sono fatte serie. Robert ha cominciato a cercare qualche avversario per me nelle scuole del centro di Kampala, ma ci ha messo un po’: lì sono tutti molto ricchi e nessuno voleva giocare con una di Katwe, povera e maleodorante. E comunque nessuno credeva che una come me fosse in grado di giocare. Per convincerli ho dovuto batterli tutti uno dopo l’altro, fino a quando non mi hanno creduto. È stato allora, quando ho finito quelli da battere a Kampala, che Robert è riuscito a farmi partecipare al campionato femminile di scacchi. Era il 2007 e ho vinto anche lì. E così è stato nel 2008 e nel 2009. Forse avrei vinto anche nel 2010, ma i campionati non si sono svolti perché la Federazione ugandese non ha trovato i fondi. Ma vincere quei campionati mi ha portato fortuna. Lì ho conosciuto Zirembuzi, che è il coach della nazionale di scacchi. Mi ha selezionato, fatto giocare e messo su un aereo. Per due volte. La prima, verso il Sudan, per i campionati africani juniores dove io e gli altri della squadra abbiamo battuto sedici avversari diversi. La seconda volta in Russia, a Khanty-Mansiysk. Non chiedetemi dove sia. Prima di farlo però mi ha comprato un paio di scarpe e mi ha detto che avrei visto una cosa nuova per me: il ghiaccio. In realtà di cose nuove ne ho viste un sacco: il buffet dell’albergo, i fuochi d’artificio, le vasche da bagno piene d’acqua, i vestiti incredibili degli occidentali. Quella volta, era il 2010, ho perso per un soffio e ancora mi mangio le mani. Però posso riprovare. Mi sono qualificata per le Olimpiadi di Istanbul, alla fine dell’estate. E se la Federazione trova i soldi per mandarmi fin lì, stavolta prenderò le decisioni giuste e non mi farò più mangiare. Nemmeno un pedone.

Q

storia raccolta da

Luciana Grosso foto

Stephanie Sinclair [vii]

Phiona Mutesi, ugandese, ha un’età incerta, compresa tra i 15 e i 18 anni. Nata e cresciuta nello slum di Katwe, alla periferia di Kampala, con la madre e i fratelli, ha rivelato un precoce talento negli scacchi che le ha consentito di essere campionessa juniores del suo Paese e di qualificarsi per le Olimpiadi che si terranno a Istanbul a fine agosto.


storia 82 - Fabrizio Bezzini

Professione busker

Ne sono consapevole: quello che faccio è da pazzi. Per lavoro suono il banjo per strada, un genere musicale che ho scoperto durante un viaggio coast to coast negli Stati Uniti: si chiama old time music. L’ho sentito per la prima volta in un festival sui monti Appalachi, in North Carolina, dove ho avuto la fortuna di vedere Doc Watson, un anziano signore che ha suonato come un ragazzo fino a 89 anni. È un genere folk molto particolare, che affonda le radici nelle melodie celtiche per violino portate in America dai primi europei. Me ne sono innamorato e da un anno lo suono tutti i giorni per le strade di Bologna. In pratica, faccio il busker a tempo pieno e devo dire che, nonostante parecchie difficoltà, me la passo bene. Da Fucecchio sono arrivato a Bologna nel 2000 per frequentare il Dams musica, ma quando ho scoperto che all’università artisti come Jimi Hendrix e Bob Dylan non venivano considerati degni di essere studiati ho abbandonato. E mi sono laureato in Dams cinema, dove c’è una mentalità più aperta. La chitarra la suonavo da quando avevo 15 anni. A Bologna ho incontrato Flavio Cipriano, con cui ho iniziato a suonare in strada il country blues. Abbiamo subito fatto coppia, fondando il gruppo Lazy Step. All’inizio, per riuscire a fare il musicista, lavoravo part time in un call center. Un giorno, improvvisamente, la società smise di pagare i dipendenti. Abbiamo cominciato gli scioperi, fino ad arrivare, su mia proposta, alla prima occupazione di un call center a Bologna, durata ben venti giorni. Alla fine si è scoperto che la società per la quale lavoravamo – eravamo dodicimila in tutta Italia – aveva sede in uno scantinato in Gran Bretagna e abbiamo visti riconosciuti i nostri diritti. Come Lazy Step continuavamo a suonare in strada, in piazza Maggiore a Bologna e giorno dopo giorno la passione è diventata un mestiere. Nel 2008 abbiamo inciso il nostro primo album intitolato Blues in the kitchen

perché è stato registrato interamente nella cucina di casa mia. Ne abbiamo vendute oltre mille copie, tutte per strada. E da lì è arrivata la svolta. Hanno iniziato a invitarci ai festival blues un po’ in tutta Italia. Finché un giorno ci ha contattati un grandissimo come Fabio Treves, per intenderci, l’unico italiano ad aver suonato con Frank Zappa. Ci invitava ad aprire il concerto a Milano di una leggenda del blues come Bob Margolin. Dopo tanti sacrifici, è stata davvero una bella soddisfazione. Ho continuato comunque a scegliere la strada, dove il contatto con la gente è molto più diretto e stimolante. Ma i busker, in Italia, non hanno vita facile. Molti mi considerano un accattone. Spesso i vigili mi intimano di smettere minacciando multe salate o di sequestrarmi lo strumento. Quotidianamente mi sento dire: «Barbone, vai a lavorare!». Ma del suonare in strada io ho fatto il mio mestiere e guadagno abbastanza da pagarmi l’affitto. Che male c’è? In Italia la figura dell’artista di strada non è riconosciuta. Ogni Comune gestisce la questione a modo suo e, di solito, prevalgono i divieti. In Francia, Germania, Spagna e altri Paesi non è così. A Parigi, ogni anno vengono selezionati quattrocento musicisti da destinare ai sotterranei della metropolitana. Io vorrei che il mestiere di busker venisse regolamentato anche da noi, vorrei poter pagare le tasse su quello che guadagno suonando. Chiedo di pagare le tasse, non una villa con piscina. Per questo ho in mente di fondare un sindacato degli artisti di strada. Non è facile, perché molti miei colleghi non sono d’accordo, hanno paura di esporsi. Ma dopo l’esperienza del call center ho capito che l’unione fa la forza. E penso che per conquistare dignità per questo lavoro si debba passare attraverso un’azione collettiva.

T

storia raccolta da

Cora Ranci foto

Francesco Geronazzo

Fabrizio Bezzini è nato nel 1981 a Fucecchio (Firenze). Da sette anni si esibisce come musicista per le strade e le piazze di Bologna, tra ritmi blues e folk americani. Nel 2011 ha inciso il suo primo disco come solista di banjo strumentale, It’s only old time banjo... but I like it!. Sta cercando di creare un sindacato degli artisti di strada per chiedere la regolamentazione di questi mestieri.


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di

Enrico Piovesana

foto

Bruce Davidson Leonard Freed Paul Fusco Bruce Gilden Larry Towell

[magnum photos/contrasto]

Occupy America Il movimento è vivo e continua la sua lotta. Partito da Wall Street, in questi mesi si è radicato e organizzato in più di centoventi città, resistendo a sgomberi e arresti. Dagli orti vicino a Berkeley ai senzatetto di Los Angeles, da Hollywood ad Harvard, in migliaia chiedono di punire i crimini economici, di fermare il finanziamento ai partiti da parte delle multinazionali, di tutelare le famiglie sfrattate. Una mobilitazione trasversale, post ideologica, pragmatica e non violenta che qui non si era mai vista. E Obama sa che non potrà contare su di loro per la rielezione


Bruce Gilden


I manifestanti la chiamano “gabbia della libertà” o “gabbia di Obama”. Di fronte alla Borsa di Wall Street, sulla scalinata della monumentale Federal Hall, luogo di nascita della democrazia americana, la polizia ha creato un piccolo recinto di transenne legate tra loro da manette di plastica. Al suo interno, sotto la statua di George Washington, i cittadini, a gruppi di massimo venticinque, possono esercitare pubblicamente la loro libertà di parola sancita dal primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. Se lo fanno fuori dalle transenne, vengono automaticamente arrestati dagli agenti che presidiano il recinto. Democrazia in via d’estinzione, chiusa in gabbia come allo zoo. Dall’arrivo della primavera, la piazzetta alberata di Zuccotti Park, all’ombra delle nuovi torri del World Trade Center in costruzione, è tornata a essere il punto di ritrovo del movimento newyorkese Occupy Wall Street. Insieme alla nuova “succursale” in Union Square. Ma le azioni di protesta si sono spostate davanti alla tana del lupo: la Borsa di Wall Street. Fulminei e rumorosi cortei non autorizzati (inseguiti dalla polizia in scooter in un farsesco gioco del gatto con il

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topo che si conclude regolarmente con arresti arbitrari), flash mob, occupazioni temporanee, azioni di disobbedienza civile non violenta e, appunto, dichiarazioni pubbliche di “lamentele” – le doléances della Rivoluzione francese – pronunciate dalla gabbia sulle scalinate della Federal Hall. Una gabbia in cui chiunque può entrare e prendere la parola. Un giovane analista finanziario per denunciare l’irrazionalità del sistema economico vigente. Un reduce dall’Iraq per chiedere la fine di guerre ipocritamente combattute in nome della democrazia. Un senzatetto per spiegare come le banche gli hanno portato via la casa con la frode. Una neolaureata, indebitata a vita con la banca per restituire il suo mutuo universitario, per rivendicare un’istruzione pubblica gratuita. Un disoccupato ispanico per criticare gli stipendi faraonici dei manager che l’hanno licenziato per la crisi. Un ragazzino di strada per ringraziare il movimento d’avergli fatto ritrovare una famiglia. I passanti si fermano ad ascoltare: dieci, trenta, cinquanta. Quando diventano troppi, la polizia li invita a sgomberare il marciapiede.


Leonard Freed

Queste foto Alcune potrebbero sembrare stampe della Grande Depressione ritrovate in soffitta. Hanno la forza della prosa di Steinbeck e della poesia di Woody Guthrie. Sono invece tutte immagini recenti, selezionate dall’archivio dell’agenzia Magnum. Accendono una luce sull’America che, oggi, mette ai margini, un Paese in cui la classe media sta tornando a essere povera, e i poveri a essere esclusi da tutto. La strada è l’ultimo luogo che può accoglierti quando della tua casa pignorata restano un cartello di svendita e una cassetta delle lettere aperta. È anche contro queste ingiustizie che il movimento Occupy combatte.

Libertà da conquistare

Tra i tanti a prendere la parola c’è un ometto robusto, cappotto di pelle, occhi chiari e sorridenti. In pochi lo riconoscono. È David Graeber, docente di Antropologia cacciato dall’Università di Yale per la sua militanza anarchica (ora insegna al Goldsmiths College di Londra): il principale iniziatore del movimento Occupy Wall Street (insieme a Kalle Lasn, direttore della rivista anticonsumista canadese Adbusters) e inventore del fortunato slogan “Noi siamo il 99 per cento”. «Ci troviamo sulla scalinata dell’edificio dove venne approvato il Bill of Rights», inizia con una certa emozione David, subito seguito dalla ripetizione corale del “microfono umano”. «Molti non sanno che gli estensori della Costituzione americana non volevano il Bill of Rights. Lo accettarono solo in seguito a una forte pressione popolare. I padri fondatori non volevano che l’America fosse una democrazia. Ogni pezzetto di democrazia che abbiamo è qualcosa che abbiamo strappato ai nostri governanti facendo quello che stiamo facendo oggi. È da qui che proviene la democrazia, dal popolo che non accetta quello che i governanti hanno deciso per loro. Quello che stiamo facendo oggi è esattamente la stessa cosa che fecero i coloni che insorsero contro i dominatori britannici e poi contro la nobiltà che provò a prenderne il posto. Questo edificio è un memoriale a un’insurrezione da cui derivano tutte le nostre libertà. Sappiamo che le insurrezioni vengono fronteggiate con la violenza, ma questo non ci fermerà perché sappiamo che non avremo mai nessuna libertà se non quelle che ci sapremo conquistare. Le generazioni future ricorderanno quello che stiamo facendo qui oggi». Toni insoliti per il dibattito pubblico americano, ma che rispecchiano il sentire comune di tutti coloro che animano questo movimento: dal giovane anarchico di Occupy Oakland, alla signora di Occupy Venice che ospita le riunioni del movimento nella sua boutique alla moda in una delle vie più trendy di Los Angeles, dallo studente di Economia di Occupy Harvard, all’homeless di colore di Occupy Skid Row. Termini come insurrezione, rivoluzione, potere al popolo, anticapitalismo, lotta di classe, rientrano nel vocabolario comune del movimento, e non solo nelle conversazioni private, nelle assemblee o alle manifestazioni, ma anche nei comunicati ufficiali o nei giornali del movimento come la rivista Tidal o l’Occupy Wall Street Journal. Concetti che, però, non vanno letti attraverso le lenti europee. Occupy è certamente un movimento di sinistra (anche se molti preferiscono evitare anche questa classificazione), in quanto popolare, democratico, anticapitalista, libertario ed egualitario. Ma è innanzitutto un movimento americano, dunque estremamente pragmatico e concreto, e post ideologico, quindi ben diverso anche dal movimento hippie degli anni Sessanta. Occupy non mira certamente a una rivoluzione socialista o a una presa violenta del potere (la non violenza è un punto fermo per gli occupiers, per una questione di principio ma anche di buon senso: tutti si rendono conto che sarebbe masochistico sfidare l’apparato repressivo statunitense).


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Bruce Davidson

Una nuova democrazia

«La nostra rivoluzione è già iniziata: è il risveglio della società civile che si è resa conto che il potere non agisce nell’interesse della collettività che lo legittima con il voto, ma a favore delle multinazionali e delle banche che finanziano le campagne elettorali», spiega Mark, giovane studente e portavoce di Occupy Wall Street, divorando un sandwich su una panchina di Zuccotti Park. «Una società civile che non si sente più rappresentata e che ha scelto la strada dell’azione popolare diretta a difesa dell’interesse pubblico per ottenere risultati concreti: qui e ora, ma anche a lungo termine e a livello globale». In ogni angolo del Paese il movimento sta sperimentando con successo, seppur tra sgomberi e crescenti problemi con la polizia, una forma di autogoverno comunitario che trae ispirazione dalla cultura dei nativi americani e da quella anarchica, dalle esperienze del movimento zapatista messicano e del movimento autogestionario argentino. «Nelle Assemblee generali vengono prese decisioni con il metodo del consenso e nei più ristretti e operativi Consigli dei raggi (Spokes Councils) convergono, come in una ruota, i portavoce dei diversi gruppi di lavoro e di affinità in cui ogni Occupy locale è strutturato», conclude Mark. Da New York a Los Angeles, da Boston a Oakland, in ogni città degli Stati Uniti dove esiste un Occupy (i principali sono almeno centoventi) il movimento è strutturato esattamente così e in maniera sorprendentemente rigida ed efficiente. L’Assemblea generale in piazza, moderata da “facilitatori” e condotta secondo regole così precise da essere codificate in veri e propri manuali, rappresenta un fondamentale momento di condivisione collettiva e di decisione strategica. Ma la forza propulsiva del movimento risiede nei gruppi. Dai gruppi logistici che si occupano delle azioni di protesta, dell’informazione interna e dei rapporti con i media, della gestione della cassa donazioni, del supporto legale ai compagni arrestati (settemila in sette mesi). Ai diversi gruppi che lavorano ogni giorno sulle singole battaglie del movimento, soprattutto a livello locale, come la difesa delle famiglie sfrattate dalle case pignorate dalle banche o dei lavoratori licenziati o sottopagati, la campagna contro il debito studentesco o quella per la sanità pubblica, quella per il trasferimento dei conti correnti ai crediti cooperativi locali o quella – considerata di cruciale importanza da tutto il movimento – per far “uscire i soldi dalla politica” vietando alle multinazionali di finanziare le campagne elettorali. Su quest’ultima battaglia il movimento ha già ottenuto i primi risultati, spingendo i consigli comunali di oltre sessanta città, tra cui New York, Los Angeles e Portland, e il parlamento statale del Vermont ad adottare risoluzioni a favore di un emendamento costituzionale per abolire la “personalità d’impresa”, che parificando quest’ultima al cittadino le riconosce il diritto di parola anche tramite il finanziamento alla politica.


Traditi da Obama

«Questo movimento – racconta entusiasta Lisa, mediattivista di Occupy Los Angeles, guidando nel traffico di Santa Monica – ha compiuto una magia, riuscendo a rivitalizzare e unificare tutta una serie di lotte e di cause che finora erano portate avanti nell’ombra e nel disinteresse generale da associazioni locali e sindacati di base, che ora collaborano con il movimento portandovi il proprio patrimonio di esperienza. E intorno a queste lotte si sono mobilitate persone di ogni ceto che fino a ieri conducevano vite completamente separate e oggi invece lavorano insieme per la stessa causa: quella del 99 per cento. Qui a Los Angeles questo fenomeno è particolarmente evidente. Il movimento locale si è focalizzato sul problema dei quartieri poveri, coinvolgendo quindi attivamente senzatetto, sindacalisti e attivisti politici di colore perseguitati dalla polizia. Ma al contempo in Occupy LA sono attivamente coinvolti personaggi e professionisti del mondo di Hollywood e dello spettacolo: dal chitarrista Tom Morello, sempre pronto a partecipare alle nostre azioni, al direttore della fotografia di Titanic, Russell

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Carpenter, che ora cura le nostre produzioni video insieme alla collega Sandrine Orabona, che invece ha girato il documentario di Michael Jackson, This is It. Stiamo giusto andando da lei». Sandrine, origini corse e aria molto professionale, sta lavorando nel suo studio di produzione a uno spot pro Occupy, coordinando una nutrita squadra di giovani montatori e grafici. La sua stanza è rischiarata solo dalla luce del gigantesco monitor del suo computer e dalla fiammella di una candela aromatica. Non ha molto tempo, ma ci tiene a spiegare che «il successo del movimento dipende molto dalla sua forza comunicativa e quindi da prodotti di qualità professionale che consentono di raggiungere un’audience più vasta possibile». Forza comunicativa che certo non manca agli adesivi del movimento, freschi di stampa, impilati su una scrivania dello studio. Adesivi d’autore, disegnati dal grafico Shepard Fairey, in arte Obey, divenuto famoso (e ricco) grazie alla sua nota effige tricolore di Obama, quella con la scritta “Hope”. Nell’adesivo, al posto del volto del presidente c’è quello di V per Vendetta, icona globale del movimento, e la scritta “WE are the Hope”


Tom Morello: da Occupy non si torna indietro Tom Morello, 47 anni, americano di origini italo-kenyane (pronipote di Jomo Kenyatta, primo presidente eletto del Kenya, e figlio di un ribelle Mau Mau), grande chitarrista della band Rage Against The Machine, fin da subito si è schierato a sostegno del movimento Occupy Wall Street.

Larry Towell

Definiresti Occupy un movimento di sinistra? «Credo che la vecchia terminologia non si possa adattare all’Occupy Movement che si definisce esplicitamente come ‘il 99 per cento’. Sicuramente la critica che il movimento muove agli abusi del capitalismo globale viene da sinistra, ma è espressa in termini così vasti da attrarre nel movimento chiunque sia vittima del capitalismo, a prescindere della sua provenienza politica».

“Se Obama chiude Guantanamo, è quello il posto per i responsabili dei crimini economici. Gli mettiamo una bella tutina arancione e gli facciamo ascoltare i Rage Against The Machine tutto il giorno”

Kevin Winter [getty images]

Tom, qual è per te l’importanza storica di Occupy? «Occupy è un movimento con un’agenda esplicitamente di classe ed è parte di un movimento globale dello stesso tipo. Una cosa che nella mia vita non ho mai visto succedere in questo Paese e che è veramente incoraggiante».

Ce la farà questo movimento a portare un vero cambiamento nella società americana? «Sotto alcuni aspetti il movimento ha già portato un cambiamento indelebile nella società americana. Capisco che possa essere diverso in Europa, ma negli Stati Uniti la parola ‘classe’ era diventata impronunciabile. Negli Stati Uniti c’è questa visione mistica per cui siamo tutti solo ‘americani’, sia che siamo imprenditori oppure lavoratori: una società omogenea, senza divisioni di classe, in cui tutti tifiamo le stesse squadre e sosteniamo le nostre truppe. Occupy ha dato voce al fatto che tutto questo è una bugia. È grazie al movimento se oggi, sulle prime pagine dei principali quotidiani, si parla di ineguaglianze sociali ed economiche e dei crimini di quelle corporation che ci hanno condotto al caos. Le forze della repressione hanno rimosso le occupazioni delle piazze, ma non sono riuscite a cancellare tutte queste persone, né tantomeno l’idea che esiste un’eredità negativa del capitalismo globale che colpisce milioni di famiglie e che deve essere combattuta». Cosa fare concretamente per contrastare lo strapotere di Wall Street e le diseguaglianze sociali che genera? «Personalmente ritengo che la cosa più importante sia introdurre la responsabilità penale per i crimini commessi dalle grandi compagnie. La povertà non è qualcosa che accade e basta, è un crimine commesso da criminali che vanno in giro con i loro yacht e guidano le loro Lamborghini. Sono intoccabili nel sistema esistente, mentre andrebbero ritenuti responsabili dei loro crimini economici. Se un giorno Obama avrà il coraggio di chiudere la prigione di Guantanamo, avremmo trovato il posto giusto per loro: gli mettiamo una bella tutina arancione, un cappuccio nero in testa e gli facciamo ascoltare i Rage Against The Machine ventiquattro ore al giorno». Occupy è una reazione alla disillusione nei confronti delle promessa di cambiamento di Obama? «Sicuramente è una reazione alle speranze infrante dopo le elezioni di Obama. Con la crisi economica le persone si aspettavano un presidente che avesse le palle di stare dalla parte di ciò che era giusto e di rappresentare gli interessi del 99 per cento a spese dei poteri forti economici. Le cose sono andate diversamente. Chi credeva in Obama oggi si ritrova con la casa pignorata dalla banca e con i figli che non riescono a ripagare i prestiti studenteschi. Queste persone oggi cercano quindi una risposta diversa da quella democratica o repubblicana, e la trovano nel movimento Occupy». Tu hai votato per Obama? E alle elezioni presidenziali di novembre che cosa farai? «Sì, ho votato per Obama, seppure con riluttanza. Ammetto di essere stato trascinato dall’euforia della sua campagna elettorale: senza dubbio appariva molto diverso da tutti gli altri candidati presidenziali della storia degli Stati Uniti. Ma non mi sono mai illuso che chi detiene il potere possa portare un reale cambiamento. Cosa farò a novembre? Concentrerò tutte le mie energie, attraverso la mia musica ed il mio attivismo politico, nella battaglia politica popolare per il cambiamento».

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con accanto il bollino “99 per cento”. «Il messaggio è chiaro, no?», spiega Lisa. «Fino a ieri abbiamo sperato in un salvatore, oggi abbiamo capito che dobbiamo salvarci da soli. Nel movimento tutti hanno votato Obama, ma ben pochi lo rivoteranno a novembre. Dopo aver galvanizzato milioni di americani con le sue promesse di cambiamento, Obama ha profondamente deluso i suoi elettori. Quando è arrivata la crisi, invece di farla pagare alle banche che l’hanno causata con la loro criminale avidità e di aiutare chi ha perso il lavoro o la casa, l’uomo del cambiamento ha salvato le banche con trilioni di dollari abbandonando la gente al proprio destino e anzi tagliando i servizi sociali. “Banks got bailed out, we got sold out (le banche sono state salvate, noi siamo stati traditi, ndr)” è uno dei nostri slogan principali».

Le vittime dei subprime

Anche Carlos ce l’ha con Obama, pur avendolo votato. Da anni impegnato nella lotta alle foreclosures (pignoramenti delle case), quest’uomo magrissimo e pieno di energia oggi coordina con rinnovato entusiasmo il gruppo di Occupy LA che porta avanti questa battaglia. In attesa della riunione settimanale del gruppo, in una tavola calda vicino alla stazione ferroviaria, si sfoga bevendo un’aranciata. «Questa maledetta crisi è nata a causa della folle speculazione che le grandi banche hanno fatto per anni sul mercato immobiliare con i famigerati mutui sub-prime. Quando il giochino si è rotto perché la gente non riusciva più a pagare quei mutui-trappola e le banche sono arrivate sull’orlo del fallimento, Obama, come Bush prima di lui, le ha salvate regalando loro trilioni di dollari. Con quei

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Bruce Gilden

Le locandine Ironiche, efficaci, spesso in stile un po’ retro: un misto tra il realismo dei manifesti antifascisti della Guerra civile spagnola e l’Art Nouveau delle pubblicità dei primi Novecento. Occupy ha riscoperto l’arte della propaganda politica. E ha rispolverato la maschera di Guy Fawkes (un militare cattolico che nel 1605 cospirò contro il re d’Inghilterra, Giacomo I), già ripresa dalla graphic novel V per Vendetta e dall’omonimo film. La multinazionale Time Warner Inc. ne possiede i diritti e, grazie alla maschera, ha guadagnato 28 milioni di dollari.

soldi le banche avrebbero in teoria dovuto risolvere la crisi immobiliare, invece hanno iniziato a far cassa rastrellando case con un’ondata di pignoramenti senza precedenti, al ritmo di duecentomila al mese. Un massacro sociale condotto con modalità quasi sempre fraudolente, che colpisce soprattutto i quartieri poveri producendo milioni di nuovi homeless: non barboni, ma famiglie con anziani e bambini. E Obama che fa? Sta a guardare. Beh, noi no». La casetta bianca di Dirma, in un quartiere residenziale di Los Angeles, è tappezzata di cartelli e striscioni di Occupy contro i pignoramenti e le banche. Sul cancelletto d’ingresso sventola una bandiera a stelle e strisce capovolta. Dirma è vedova, fa la badante e vive qui da venticinque anni insieme alla figlia Ingrid, gravemente disabile. «Questa casa l’ho ristrutturata su misura per


lei – racconta in spagnolo la donna, indicando la ragazzina – istallando rampe, cambiando i pavimenti e riempiendo il giardino di rose, che a lei piacciono tanto. Ho chiesto un mutuo per questo, e ho sempre pagato le rate, fin quando la banca me le ha improvvisamente raddoppiate. Ho provato a chiedere spiegazioni, ma nel giro di pochi giorni sono arrivati gli sceriffi con l’ordine di pignoramento da parte della banca, buttandoci fuori con tutte le nostre cose. Ingrid ha avuto una crisi tremenda. Se non avessi chiamato quelli di Occupy, che in dieci minuti sono accorsi a decine, ora saremmo per

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strada. I ragazzi hanno cacciato gli sceriffi, occupato la casa facendomi rientrare e ora stanno trattando con la banca perché riconosca il mio diritto a vivere qui con mia figlia». Tanti, meno fortunati di Dirma, per strada ci sono finiti davvero in questi ultimi anni. A Los Angeles gli homeless sono ovunque, ma soprattutto nel quartiere di Skid Row, che vanta la più alta concentrazione di senzatetto d’America, soprattutto dopo la crisi. «Fino a pochi anni fa eravamo in tre-quattromila a dormire su questi marciapiedi», racconta JoJo, clochard bianco


Bruce Gilden

www.eilmensile.it Sul nostro sito il multimedia del viaggio americano di Enrico Piovesana

di Occupy Skid Row, spingendo un carrello della spesa con dentro i suoi pochi averi. «Ora siamo quasi il doppio, sempre più bianchi, sempre più giovani, sempre più donne. Quasi tutti finiti qui perché hanno perso il lavoro e quindi la casa per colpa della crisi. Il Comune vuole ripulire il quartiere per farne una zona residenziale, insomma per favorire la speculazione immobiliare. La polizia ci perseguita, ci picchia, ci sgombera e ci arresta di continuo per cacciarci. Ma ora che c’è Occupy le cose stanno cambiando perché siamo più forti. Vieni con me all’Assemblea generale e capirai».


La favela di Skid Row

In Pershing Square, tra le palme e i grattacieli delle banche di Downtown, un centinaio di attivisti di Occupy Los Angeles che hanno appena concluso l’assemblea, stanno montando tende alla luce dei lampioni. Ci sono tanti senzatetto, la maggior parte di colore. C’è Brother TC, fazzoletto rosso e spilletta di Che Guevara, figlio di Pantere nere e leader storico della comunità homeless di Skid Row. Con lui c’è General Dogon, ex capo di una gang dei Bloods negli anni Ottanta che in galera, dove ha passato dieci anni, si è redento leggendo Malcolm X per poi votarsi all’attività sociale di sostegno alla gente del suo quartiere. «Se si guarda al regno animale – dice Dogon – non si trovano creature senza casa: i topi hanno una tana, gli uccelli hanno un nido. E se se si guarda all’origine dell’uomo, pure l’australopiteco di tre milioni di anni fa ce l’aveva una casa, la caverna, da cui il nome l’uomo delle caverne. Invece oggi, anno 2012, con tutta la fottuta tecnologia moderna, ci sono milioni di persone che dormono sui marciapiedi. È assurdo, è contro natura! Ma

per cambiare la cose dobbiamo vincere l’indifferenza, dobbiamo far capire a tutti in quale situazione vive la gente del mio quartiere. Da questo punto di vista il movimento Occupy è molto utile». JoJo si mette una maschera di V per Vendetta e, accompagnato da TC e Dogon, spinge fuori dalla piazza il suo carrello su cui ha appoggiato un pezzo di cartone con la scritta a pennarello “Occupy The Hood”: l’ala afroamericana del movimento Occupy, nata nei quartieri poveri delle grandi città allo scopo di difendere i diritti dei “più sfortunati del 99 per cento”. Dietro di loro il corteo si avvia per le strade del centro, con le tende montate portate a spalla dai manifestanti tra i carrelli spinti da altri senzatetto. Alzando i pugni al cielo, i dimostranti urlano «Power to the people!» e «El pueblo unido jamás será vencido». Raggiunta Main Street, le tende vengono allineate su un marciapiede ben illuminato, in bella vista davanti ai negozi e ai locali del centro. «Qui nessuno ci può ignorare», dice JoJo addentando una delle pizze distribuite dai ragazzi del movimento.

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Paul Fusco

Un’alternativa concreta

Sempre a Los Angeles il movimento Occupy ha indirettamente partorito una delle iniziative di protesta più intelligenti ed efficaci attuate finora contro le grandi banche salvate perché “troppo grandi per fallire”. Lo scorso autunno, una giovane gallerista di Beverly Hills simpatizzante del movimento, Kristen Christian, ha lanciato un appello su Facebook per chiedere a tutti gli americani di togliere i propri risparmi dalle grandi banche d’affari speculatrici (in particolare Bank of America, Citigroup, JPMorgan Chase e Wells Fargo) e trasferirli alle Credit Union: i piccoli istituti di credito cooperativo che usano i risparmi dei soci per promuovere lo sviluppo economico della comunità locale. In poche settimane ha risposto all’appello quasi un milione di americani, spostando oltre quattro miliardi e mezzo di dollari. Da allora il flusso non si è mai fermato. Un successo che analoghe iniziative, lanciate in anni precedenti, non hanno mai avuto e che si spiega solo con l’effetto moltiplicatore e catalizzatore di Occupy. «Il sostegno e la visibilità che il movimento Occupy ha dato alla mia iniziativa è stato fondamentale per la sua eccezionale riuscita», dice Kristen, incontrata in un locale hippie di Sunset Boulevard. «Anche se non sono mancate le divergenze con chi nel movimento, in concomitanza con la protesta, ha voluto organizzare azioni dentro le banche e picchetti, che secondo me non servono a molto». Un’altra forma molto concreta di lotta contro un sistema economico sempre più impopolare nel Paese che per decenni ne è stato l’alfiere ha avuto origine dal movimento Occupy Harvard. Gli studenti della prestigiosa e austera università di Cambridge, appena fuori Boston, si sono ribellati contro l’ortodossia pedagogica dell’economia neoclassica, contro l’indiscutibile dogma liberista inculcato nelle menti della futura classe dirigente del Paese. «All’università ci presentano l’economia neoclassica, oggi imperante, come una scienza oggettiva e razionale che non ammette alternative – spiega Kavi, studente d’origine indiana e attivista di Occupy Harvard – quando invece essa è solo una scuola di pensiero, quella dell’un per cento, rivelatasi estremamente nociva per l’interesse collettivo: come si fa a definire razionale il sistema economico di un Paese dove ogni anno muoiono 45mila persone per la mancanza di una sanità accessibile a tutti. Per poter avviare la transizione verso una migliore gestione della nostra società dobbiamo conoscere tutte le teorie economiche, anche quelle considerate eretiche dalla cultura mainstream». «Per questo – interviene Fenna, una sua compagna del movimento – abbiamo protestato contro la lezione d’economia d’apertura semestre tenuta da Greg Mankiw, consigliere di Bush e Romney. Per questo abbiamo iniziato a organizzare conferenze sulle nuove teorie economiche alternative che offrono un approccio del tutto diverso a concetti fondamentali come sviluppo, moneta, debito». A queste conferenze organizzate da Occupy Harvard hanno partecipato diversi economisti alternativi. Tra loro anche un nome che non ti aspetti: quello di Neva Goodwin Rockefeller, docente di Sviluppo globale alla Tufts


University, considerata la pecora nera della potente famiglia di petrolieri e banchieri. E si capisce subito il perché, incontrandola per un tè nel salotto della sua elegante casa di Boston. «Il mercato ignora i bisogni della collettività, soprattutto dei più poveri», esordisce la nipote del fondatore della Standard Oil, oggi ExxonMobil. «Per il mercato conta solo chi ha soldi. Per questo considero molto importante il movimento Occupy: perché sta dando voce a chi non ha peso sul mercato, restituendo importanza a un’idea fuori moda: quella di uguaglianza. Chiedere la fine dei finanziamenti alle campagne elettorali da parte delle multinazionali per separare la politica dal denaro e quindi dalla logica di mercato è un obiettivo fondamentale. Come lo è ridefinire lo scopo dell’economia, che non è la massimizzazione dei consumi a profitto di pochi, bensì la massimizzazione del benessere della collettività in maniera ecologicamente sostenibile: il problema è culturale, per questo ritengo che una rivoluzione pedagogica nelle nostre facoltà di Economia sia di fondamentale importanza».

Terra comune

Già, l’ecologia. Anche in questo ambito, il movimento Occupy sta dando prova di pragmatismo. Ad Albany, periferia popolare di Oakland, California, in occasione della Giornata mondiale della Terra trecento attivisti di Occupy the Farm (residenti locali e studenti di Agronomia della vicina Università di Berkeley), invece di perdersi in verdi chiacchiere hanno occupato, dissodato e seminato un terreno agricolo pubblico venduto a una multinazionale per costruisci un supermercato. In pochi giorni hanno allestito una comune agricola perfettamente efficiente: rete d’irrigazione, allevamento di galline, cucina, libreria, tende per dormire e, al centro, un gran tepee per le riunioni organizzative. Anya, studentessa in tuta da lavoro e cappello di paglia, spiega che «questa azione, pianificata per sei mesi, è volta a sperimentare un’alternativa concreta al controllo delle multinazionali sul nostro sistema agricolo e alimentare. Vogliamo che questo terreno pubblico rimanga una risorsa al servizio della collettività, facendone una fattoria comunitaria fonte di cibo sano e a basso costo per le famiglie più povere del quartiere e un centro di educazione all’autosufficienza alimentare. Per ora la polizia ci sorveglia senza intervenire, ma ci hanno tagliato l’acqua: lotteremo per riaverla». Non l’hanno riavuta e a metà maggio la comune è stata sgomberata dalla polizia. Ma gli attivisti di Occupy the Farm, pur tra mille difficoltà, continuano a coltivare il terreno con il sostegno della comunità locale. «Abbiamo ricevuto la solidarietà del movimento contadino brasiliano dei Sem Terra – dice Anya – stupito che qualcosa del genere stia accadendo qui negli Stati Uniti. Il movimento Occupy ha portato la primavera in questo Paese. È ora di seminare se vogliamo raccogliere i frutti».

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Bruce Gilden


Monika Graff [getty images]

Un mondo senza Wall Street Previsioni sbagliate, speculazioni di mercato e un crac finanziario che ha compromesso l’economia statunitense, prima, e la solidità dell’Unione europea, poi. L’antidoto al virus della crisi mondiale? François Morin, i professori eretici di Boston e il premio Nobel Amartya Sen non hanno dubbi: gli Stati e il popolo devono riprendersi quello che gli è stato tolto dalle Borse e dalle banche


di Angelo

Miotto

«Dobbiamo cambiare radicalmente il sistema del finanziamento dell’economia mondiale». François Morin, classe 1945, seduto su una panchina in un parco di Milano – il giorno dopo la presentazione del suo ultimo saggio, Un mondo senza Wall Street? – guarda diritto da dietro lenti pulitissime di occhiali appoggiati su un naso importante. Il professore emerito di Scienze economiche

all’Università di Toulouse 1, che in passato è stato membro del Consiglio generale della Banca di Francia e del Consiglio d’analisi economica, espone con una invidiabile leggerezza idee che qualsiasi foglio o medium mainstream potrebbe attribuire a giovani estremisti arrabbiati. «Un mondo senza Wall Street non solo è possibile, ma è fortemente auspicabile e necessario per bloccare le logi-


che speculative che si stanno sviluppando e che abbiamo imparato a riconoscere in questi lunghi anni. Abbiamo avuto una crisi finanziaria, seguita da una crisi del debito sovrano, in Europa, Stati Uniti, Giappone. E non è ancora finita: questa speculazione non è stata fermata, non ci sono le regole capaci di distruggere questo mostro». Il professore vede nero di fronte a sé. Siamo di fronte a una nuova crisi sistemica che si annuncia forte quanto le precedenti. Se non di più. La finanza speculativa è dentro il cuore del meccanismo. «Come si fa a invertire la marcia? Il primo passo è quello di prendere coscienza, non sono convinto che la politica abbia capito quanto sia critica la situazione. Come altri economisti e intellettuali, anche io sto dedicando il mio tempo proprio a questo: individuare e socializzare le radici di questa crisi. Non è più solo un problema economico e finanziario, questo è un male d’epoca, che colpisce la nostra civilizzazione. Prima che avvenga la prossima esplosione finanziaria dobbiamo convincere i responsabili politici ad agire. Altrimenti le contromisure saranno prese quando la nuova catastrofe sarà già avvenuta». La caduta di Wall Street, sostiene Morin nel suo saggio, non sarà meccanica, ma avrà un punto di inizio ben preciso; la totale messa al bando dei prodotti derivati. Utopia? In senso classico sì, secondo l’economista, che sostiene con forza la fattibilità del progetto. Mentre i derivati vengono messi al bando si dovrebbe adottare una serie di provvedimenti per il sistema monetario in-

ternazionale. «Sarà l’occasione per una riflessione complessa sul ruolo della moneta e per rispondere a una prima domanda: perché non considerarla come un bene comune dell’umanità?». Torniamo alla realtà: c’è un grosso problema della politica, che non va a colpire il virus della finanza speculativa. Il granello di sabbia nei meccanismi di chi ha oneri e onori nel guidare una comunità sta proprio nella parola “responsabilità”. «Perché loro – afferma Morin – i politici, dicono che devono avere grande senso di responsabilità, quindi non potrebbero mai annunciare una catastrofe imminente, perché questo creerebbe disordine e scompiglio, e loro non vogliono proiettare un’immagine di sé negativa sull’opinione pubblica. Oggi si dovrebbe auspicare che ci fosse gente come Roosevelt o Churchill, persone che abbiano la forza e il coraggio di dire la verità in faccia. Ma non accade. I politici non vogliono mettere in gioco la propria carriera». Con una speranza che viene dai nuovi fermenti internazionali e dal movimento degli indignati. «Hanno dimostrato di essere riusciti a capire, di avere consapevolezza. E hanno mostrato di credere nel potere diretto dei cittadini. È un movimento che non si fermerà, semmai prenderà altre forme. Ma il cambiamento ormai è epocale. I partiti stanno perdendo colpi anche per l’incapacità di fronteggiare la crisi internazionale, con questo sistema finanziario folle che ha destabilizzato tutti gli equilibri e le forme di una volta». Un mondo senza Wall Street sarà un mondo che avrà affrontato non compiutamente, ma perlomeno responsabilmente, la questione Uomo-Natura. «Siamo di fronte a una crisi energetica che si annuncia drammatica e sappiamo che, più in generale, c’è da fare una transizione ecologica che avrà bisogno di investimenti, ricerca, sul medio e lungo periodo, infrastrutture che possano produrre ed economizzare l’elettricità». Anche in questo capitolo di un mondo nuovo esiste una precisa accusa nei confronti della turbofinanza: «Il sistema finanziario, per come lo conosciamo, non prevede investimenti a lungo termine. La finanza globalizzata funziona al millisecondo, con reazioni immediate sui listini. Come si fa a chiedere di ragionare su periodi di venti o trent’anni?». Il viso di François Morin è severo quando accenna ai meccanismi deviati che stanno distruggendo, alla fine, intere classi sociali, salari, convivenza e capacità di sopravvivenza in tutto il mondo. Ma si distende quando parla delle proposte, di una possibile progettualità per ricostruire, appunto, un mondo senza Wall Street. Il suo messaggio, in fondo, non è solo di speranza, ma una chiamata al coinvolgimento personale e collettivo. Che riassume con una frase del filosofo francese Marcel Gauchet: “Perché vi sia rivoluzione è necessario che vi sia un programma rivoluzionario. Ci si mette in marcia in nome di una speranza, di una visione di futuro, della convinzione che altre soluzioni siano a portata di mano”.

M

“C’è da fare una transizione ecologica che avrà bisogno di investimenti, ricerca, sul medio e lungo periodo, infrastrutture che possano produrre ed economizzare l’elettricità”

François Morin Un Mondo senza Wall Street? Marco Tropea Editore 157 pp., 15 euro


Lucas Jackson [reuters/contrasto] di Enrico

Piovesana

Gli eretici di Boston Nei dipartimenti di Economia delle prestigiose università di Boston – capitale intellettuale degli Stati Uniti e culla della Rivoluzione americana – ferve il dibattito sul fallimento del modello economico neoliberista e sulla necessità di un suo superamento. Ragionamenti che, inevitabilmente, tirano in ballo la politica: dalle critiche alla gestione della crisi da parte dell’amministrazione Obama, che su questo si gioca la rielezione a novembre, alla spinta al cambiamento proveniente dal movimento Occupy. «La crisi dimostra l’urgenza di un radicale cambiamento in campo economico, ma perché questo avvenga c’è bisogno di una simbiosi tra nuove teorie economiche, che non mancano, e nuove forze politiche in grado di metterle in opera». Stephen Marglin, studioso di Keynes e Marx e autore di una dura critica all’economia neoclassica (The Dismal Science, La scienza triste), insegna da anni Economia alla prestigiosa Università di Harvard, in un corso complementare, oggi tornato molto di moda tra gli studenti. «La storia dimostra che il cambiamento arriva solo quando si verifica questa combinazione. Le teorie economiche di Karl Marx hanno trovato attuazione tramite il movimento operaio e comunista mondiale. Dopo la Grande Depressione del 1929 le teorie economiche di John Maynard Keynes hanno ispirato il New Deal rooseveltiano e la socialdemocrazia in Europa. Qui in America in molti abbiamo sperato che l’elezione di Obama, in piena crisi economica, avrebbe lanciato un rinnovamento politico in grado di intercettare le teorie

economiche alternative al neoliberismo imperante da trent’anni. Purtroppo non è andata così. Il movimento Occupy rappresenterà una nuova possibilità di simbiosi, se solo sarà in grado di sviluppare una massa critica in grado di incidere sul piano politico». La delusione nei confronti di Obama è molto diffusa tra gli economisti progressisti americani. Neva Goodwin Rockefeller, oltre che pecora nera della leggendaria famiglia (per la sua solitaria battaglia ambientalista in seno all’azienda di famiglia, la ExxonMobil), è direttrice dell’Istituto sviluppo globale e ambiente della Tuft University e autrice di numerosi testi di economia. «È scioccante vedere come i top manager che con le loro pratiche disoneste e illegali hanno causato questo sfacelo, invece di risponderne davanti alla giustizia, siano stati soccorsi dal governo con denaro pubblico. Quei soldi dovevano essere dati alle vittime della crisi, non ai suoi artefici. Questo triste risultato ha una ragione evidente: Obama mi sta simpatico, ma i suoi consiglieri economici sono quasi tutti appartenenti alla cricca di Goldman Sachs, quindi è normale che loro politiche difendano gli interessi di Wall Street, invece che quelli della collettività». Tra i consiglieri economici di Obama c’è anche l’economista di Harvard, Martin Feldstein, vate del neoliberismo già consigliere di Ronald Reagan e George W. Bush, richiamato alla Casa Bianca nel 2009 nonostante il suo coinvolgimento nello scandalo del colosso assicurativo Aig. Negli anni Novanta sospese il corso universitario


Justin Sullivan [getty images]

che la sociologa dell’economia Juliet Shor teneva ad Harvard da diciassette anni. «Mi accusò di tenere un corso ‘ideologico’ perché non rispettavo l’ortodossia neoliberista», racconta la professoressa Shor, oggi al Boston College. «Un dogma, quello sì ideologico, che per trent’anni ha regnato incontrastato nei dipartimenti di Economia delle università americane, ma che oggi, alla luce della crisi, viene finalmente messo in discussione. Ma solo dagli economisti, perché invece i politici continuano a difendere il vecchio modello economico, caro alle lobby finanziarie che li sostengono e li consigliano». «All’inizio del suo mandato – osserva il professor Marglin – Obama godeva di un sostegno popolare enorme e di una libertà di manovra senza precedenti. Avrebbe dovuto avere il coraggio non solo di far pagare la crisi a chi l’aveva causata, invece di salvare i colpevoli a spese delle vittime, ma anche di imporre un’efficace regolamentazione dei mercati finanziari in grado di ridimensionare lo spaventoso potere di cui godono corporation e grandi banche. Invece, non ha fatto nulla, lasciando le volpi a guardia del pollaio». Per gli economisti “eretici” di Boston, così come per il movimento Occupy, lo strapotere accumulato negli ultimi anni dalle grandi banche e multinazionali di Wall Street – un potere assoluto in quanto superiore al potere politico, preso in ostaggio e ridotto a una funzione di vassallaggio – è il vero cancro che sta uccidendo le nostre società: non solo causa della drammatica crisi che sta sgretolando l’economia globale, ma anche ostacolo a qualsiasi possibilità di reale cambiamento. «L’attuale crisi economica affonda le sue radici nello sviluppo abnorme del settore finanziario rispetto all’economia reale e nella conseguente concentrazione di ricchezza e potere nelle mani dei dirigenti delle grandi imprese di questo settore», spiega Neva Goodwin. «Questo, unito a una cultura che esalta il profitto e l’arricchimento personale senza curarsi delle conseguenze sulla collettività, ha prodotto un’irresponsabile esplosione delle attività speculative che ha destabilizzato l’intero sistema economico. E quel che è peggio è che nulla cambierà fin quando le grandi società non verranno private dell’enorme potere politico che consente loro di scegliere i politici, attraverso il finanziamento delle campagne elettorali, e di decidere le leggi che vengono approvate, attraverso il sistema delle lobby. Per raggiungere questo obiettivo, come giustamente chiede il movimento Occupy, c’è solo un modo: abolire la personalità d’impresa surrettiziamente introdotta nella nostra Costituzione a fine Ottocento e che, attribuendo alle società gli stessi diritti degli individui, garantisce loro il ‘diritto di parola’ in politica attraverso il denaro». Insomma, nessuna alternativa economica è pensabile finché la politica non riacquisterà la sua autonomia decisionale mettendosi al servizio della collettività invece che dell’élite economica, del 99 per cento invece che dell’un per cento, per usare l’efficace gergo di Occupy. «Per uscire dalla crisi, sia qui negli Stati Uniti che da voi in Europa – dice Marglin – la politica dovrebbe avere il coraggio di fare scelte economiche radicalmente diverse rispetto al passato. Come Keynes insegna, l’economia non si rimette in moto se sempre più gente perde il

“Il dogma neoliberista, quello sì ideologico, che per trent’anni ha regnato incontrastato nei dipartimenti di Economia delle università americane, oggi, alla luce della crisi, viene finalmente messo in discussione”

lavoro e si impoverisce: l’unica soluzione è una politica di stimoli fiscali, deficit spending, lavori pubblici e welfare». Il lavoro prima di tutto, anche per Juliet Shor. «Con la crisi i disoccupati americani sono diventati oltre 25 milioni e l’orario di lavoro medio è aumentato fino al punto che oggi un americano lavora il 20 per cento in più della media europea, per esempio trecento ore annue in più di un tedesco. La riduzione dell’orario di lavoro sarebbe una soluzione logica da percorrere, se solo ci fosse la volontà politica. Forse da voi in Europa qualcosa si sta muovendo, ma qui negli Stati Uniti la situazione è preoccupante, perché se questa amministrazione ha deluso le aspettative, il futuro rischia di essere ancora peggiore. Alle elezioni di novembre i Democratici rischiano di perdere la maggioranza anche al Senato e anche per Obama la conferma alla Casa Bianca non è scontata: per ogni presidente è difficile farsi rieleggere in periodi di grave crisi economica, soprattutto se c’è tanta gente delusa dal suo operato come c’è oggi. Se Romney dovesse vincere, gli Stati Uniti avrebbero il governo più di destra della loro storia».

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di Giulia

Bondi

David Sandison [getty images]

“In questo momento non è importante come misuriamo la crescita, che sia il Pil o che invece si guardi alle capacità e allo sviluppo umano. Ora dobbiamo ripensare al ruolo dello Stato nel fornire servizi sociali. Puntare su una combinazione di servizi pubblici e crescita economica sarebbe già fondamentale”

L’economista del popolo Quando sono le istituzioni finanziarie a comandare i governi, viene meno la democrazia. È quello che sta accadendo in Europa, e proprio nei Paesi che della democrazia sono stati la culla. A parlare è Amartya Sen, premio Nobel per l’Economia nel 1998. Originario di Dacca, oggi capitale del Bangladesh, ha insegnato nei principali atenei del mondo. Nei suoi studi sull’economia del benessere, in particolare con l’approccio delle “capacità” e dei soggetti, è riuscito a tenere insieme le idee di uguaglianza e di lotta alla povertà a una forte rivendicazione della libertà di scelta e della dignità degli individui. Il settantanovenne filosofo ed economista indiano definisce la crisi finanziaria ed economica «un uragano che miete vittime soprattutto tra i più deboli». Amartya Sen – lo dichiara lui stesso – ha vissuto tutta la vita in campus universitari. Non lancia pietre, parla con voce quieta e non nega che a molti Paesi, Italia inclusa, serva «maggiore responsabilità nella spesa pubblica». Eppure, il suo dissenso verso le politiche di lacrime e sangue è totale: austerità e tagli stanno aggravando la crisi. E non ha senso che a dettare legge siano proprio quelli che hanno scatenato il caos: «Anche ammettendo, cosa di cui dubito, che i potenti della finanza sappiano cosa è giusto fare, non possono dare ordini a governi democratici». Sen ricorda che, nel 2009, il premier britannico Gordon Brown tentò, con il G20 di Londra, di affrontare la crisi attraverso un dibattito globale. Le misure intraprese dai singoli Stati, però, non bastarono. Oggi, davanti ad alta disoccupazione, bassa domanda e crescita stentata, «è difficile pensare a qualcosa di peggio di questi pesanti programmi di tagli». Per ridurre il disavanzo – sostiene – non c’è altra strada che far crescere l’economia, ma oggi i governi sono ostaggi delle agenzie di rating, «le stesse che hanno fallito nel certificare l’affidabilità delle banche

prima del crac nel 2008». Da economista, assicura che agli Stati europei, «l’austerity non basterà a rimettere in ordine i conti», anche perché, con l’euro, hanno perso la possibilità di fare leva sui tassi di cambio. Essere stato, da subito, contrario a una moneta unica senza unione fiscale e politica, è per lui una magra consolazione. Europeista convinto (la seconda moglie, Eva Colorni, era figliastra di Altiero Spinelli, uno dei padri dell’Europa unita), non sopporta che «una meravigliosa idea politica si sia trasformata in un’unione finanziaria precaria e incoerente». Ormai, però, frammentare l’eurozona non farebbe che aggravare le spaccature. La prima mossa dovrebbe essere, invece, «limitare il potere unilaterale delle autorità finanziarie e della leadership economica europea, che ha messo al margine la democrazia in tutto il continente». Poi, serviranno piani di salvataggio di breve periodo, seguiti da riforme di ampio respiro. Ma soprattutto, ribadisce il premio Nobel, è necessario che queste scelte siano frutto di un ragionamento pubblico. La parola e il potere, insomma, devono tornare al popolo, e lo Stato deve riprendersi un ruolo centrale nell’economia. Amartya Sen lo sostiene rifacendosi a un padre del pensiero economico, quell’Adam Smith che di solito si cita per ricordare la “mano invisibile” dei mercati che a tutto provvede. Per Sen, è nel pensiero di Adam Smith, nella poco conosciuta Teoria dei sentimenti morali, che si trovano le basi filosofiche per un intervento pubblico, negli spazi che il mercato dimentica: salute, educazione, sicurezza e cura dei più vulnerabili. La “ricchezza delle nazioni” deve mettere gli individui in condizione di procurarsi, con il lavoro, una vita degna. Non solo, deve fornire introiti agli Stati, per garantire servizi a tutti, in un’ottica che vada anche oltre i confini nazionali. Accanto a una sorprendente riscoperta di Adam Smith come sostenitore del welfare state, Amartya Sen rincara la dose, rivalutando gli economisti neoclassici: «Possiamo imparare lezioni importanti da studiosi che sono stati odiati a lungo». L’importanza di una pluralità di pensieri l’ha appresa da giovane, al Trinity College di Cambridge, dove marxisti e neoclassici convivevano nello stesso dipartimento. Tra i maestri incontrati a Cambridge, ricorda il torinese Piero Sraffa: «Da lui ho imparato che, più che sulla teoria, è importante intendersi sul terreno della pratica». E ancora, Antonio Gramsci, «uno dei mentori di Sraffa, ci insegna che la filosofia non è mai separata dalla vita quotidiana». L’ultimo pensiero è per John Stuart Mill e la sua idea di democrazia come “governo attraverso la discussione”. «È a questo che dobbiamo tornare, perché la voce dei cittadini non sia più messa a tacere da pochi Paesi dominanti e dalle istituzioni finanziarie e bancarie internazionali».

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2 maggio, mondo

Il premio BOBs (Best of Blog), organizzato dalla radio tedesca Deutsche Welle con una giuria di Reporter senza frontiere, è stato vinto da un blogger del Bangladesh che si occupa di esecuzioni extragiudiziarie. Premio del pubblico per un lavoro tibetano: Invisible Tibet. I due autori sono stati premiati tra undici finalisti. Abu Sufian, il giornalista-blogger bengalese, ha condotto numerose inchieste sulle esecuzioni extragiudiziali, un problema che il governo nega e che i media tradizionali ignorano, anche se ogni anno sono migliaia le vittime nel Paese asiatico. Nel suo lavoro, si espone a minacce e pericoli. Dalla Cina, invece, la scrittrice e poetessa Tsering Woeser tiene aperto, pur con mille difficoltà, un blog che racconta la situazione del Tibet fuori dalla vulgata ufficiale. Di recente, ha ampiamente coperto le autoimmolazioni di monaci (e non solo) che protestavano contro le politiche di Pechino.

9 maggio, Brasile

Gli indios Pataxó Hã-Hã-Hãe ottengono di poter vivere indisturbati sulle loro terre. La comunità, il cui territorio si trova nello Stato di Bahia, è stata vessata per decenni dagli allevatori che sconfinavano o letteralmente occupavano le loro terre. La Corte suprema brasiliana ha deciso che i rancheros dovranno abbandonare il territorio dei Pataxó. «Oggi il nostro cuore ferito sta piangendo di felicità», è stato il primo commento di un indio dopo la sentenza.

10 maggio, Argentina

Diritto alla morte dignitosa, con la definitiva approvazione della Ley de la muerte digna in Senato. La nuova norma garantisce il diritto dei malati terminali di rifiutare interventi chirurgici, trattamenti medici e di rianimazione: una decisione che pone un limite all’accanimento terapeutico. Le persone che soffrono di “malattie irreversibili e incurabili o che sono allo stadio terminale” – dice la nuova legge – avranno dunque il “diritto a manifestare la propria volontà rifiutando pratiche di chirurgia e di rianimazione artificiale” e di dire basta a tutti i trattamenti miranti a prolungare loro la vita. Una norma che i senatori hanno approvato all’unanimità, confermando la decisione presa a novembre dalla Camera dei deputati.

11 maggio, Italia

I blog non sono da considerarsi stampa clandestina. Lo sancisce una sentenza della Cassazione che chiude anni di dibattiti, fissando un principio: il blogger non è un giornalista e non è tenuto a registrare il proprio sito al Tribunale della Stampa. Nonostante la legislazione sia ancora poco chiara, appare evidente che ai diari online non sono applicabili le leggi sulla stampa, tra le quali c’è l’obbligo di rettifica. La vicenda giudiziaria che ha portato a questa storica sentenza è quella di un giornalista siciliano, Carlo Ruta, che curava saltuariamente un blog, Accade in Sicilia. Ruta era stato precedentemente condannato per diffamazione dal Tribunale di Modica dopo la denuncia di un magistrato che si era sentito offeso dai contenuti del suo blog.

14 maggio, Burkina Faso

Il governo lancia un programma per difendere le donne accusate di stregoneria, che vengono cacciate dalle proprie case e bandite dal villaggio. Secondo il piano, che sarà attuato da qui al 2016, il ministero per l’Azione sociale e la solidarietà nazionale si farà carico delle vittime di questa forma di esclusione sociale, in maggioranza donne, che ora potranno accedere all’assistenza legale e psicosociale nonché a un sostegno finanziario, per rimettersi in carreggiata. Sono circa seicento le donne che finora hanno fatto le spese della pratica del “trasporto del corpo”, in base alla quale, quando una morte è considerata sospetta, un gruppo di uomini porta il cadavere attraverso il villaggio, credendo che il defunto li guiderà verso la persona responsabile della sua morte. Il sospetto viene quindi cacciato dalla comunità. La maggior parte delle donne, per il momento, ha trovato un rifugio precario in uno degli undici centri, sparsi in tutto il Paese, gestiti da ong che si occupano del problema.

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16 maggio, Italia

Il Bel Paese è primo in Europa nelle esportazioni di prodotti biologici. Lo rende noto la Cia (Confederazione italiana agricoltori) sulla base di una ricerca Ismea. E in quanto a produzione, il settore registra una crescita per il sesto anno consecutivo, con un più 8,9 per cento. Il bio appare come un mercato sempre più appetibile, con un giro d’affari che in Italia si attesta intorno agli 1,5 miliardi di euro. Siamo al quarto posto nella graduatoria europea dei fatturati (dopo Germania, Francia e Regno Unito) e al sesto a livello mondiale. Ma quale bio ci piace? A trainare gli acquisti ci sono innanzitutto le uova (+21,4 per cento), seguite da latticini e formaggi (+16,2 per cento), spinti in alto dal boom di yogurt (+27,5 per cento) e latte (+9,5 per cento). Vanno molto bene anche biscotti, dolciumi e snack (+16,1 per cento) e bevande analcoliche (+16 per cento), mentre è un po’ più lenta la crescita dell’ortofrutta fresca e trasformata (+3,4 per cento).

17 maggio, Giappone

Il pinguino 337 è vivo. Una piccola storia, che però ha appassionato il Giappone. Lui si chiama 337 in quanto è ancora troppo piccolo perché se ne possa determinare il sesso. Ciononostante, quasi tre mesi fa ha scalato una parete di roccia alta quattro metri e superato la recinzione di filo spinato per fuggire dal Sea Life Park di Tokyo. Ormai era dato per morto, ma 337 è ricomparso sotto un ponte sul fiume, l’Edo, che divide Tokyo dalla prefettura di Chiba. Dopo 82 giorni di fuga, il pennuto è stato quindi catturato da due operatori dell’acquario e riportato nel parco marino. La buona notizia è che almeno è al sicuro.

23 maggio, Australia

Gli aborigeni Arabana ottengono diritti “nativi” su un’area più grande della Svizzera: 70mila chilometri quadrati. Siamo nell’Australia centrale e il territorio comprende il lago Eyre, il più grande del Paese quando si riempie a intervalli di anni dopo il ciclo di piogge torrenziali. La decisione è stata presa dal Tribunale per i Titoli nativi dopo una battaglia legale di quattordici anni. Il riconoscimento non concede diritti esclusivi ma accesso e diritti di caccia, pesca e accampamento, oltre al diritto di svolgere cerimonie tradizionali nel territorio che circonda il lago, sacro per i nativi. Sono previsti finanziamenti per la conservazione dell’area, che comprende i resti di una missione cristiana e di un allevamento. In cambio, gli aborigeni hanno rinunciato ai diritti su un terreno dove oggi sorge una cittadina.

28 maggio, Bahrein

Rilasciato su cauzione l’attivista Nabeel Rajab. Il direttore del Centro per i diritti umani in Bahrein era stato arrestato nei primi giorni di maggio all’aeroporto di Manama, al suo rientro da un viaggio in Libano. Era accusato di aver “istigato manifestazioni

illegali” attraverso l’uso dei social network e di aver “diffamato” le forze di sicurezza del Paese. Rajab, uno dei leader del movimento pro democrazia, ha più volte subìto violenze in carcere. Durante le udienze in tribunale ha sempre respinto le accuse, definendo il proprio caso «una decisione politica». «Non ho commesso alcun crimine – ha detto – ho solo praticato il mio diritto alla libertà di espressione».

1 giugno, India

L’India ha deciso di proteggere una rara tribù delle isole Andamane e di punire con un massimo di sette anni di carcere i turisti che avvicinano gli indigeni per i cosiddetti safari umani. Lo riferisce l’agenzia Pti. Il provvedimento, emanato dalla presidente della Repubblica, Pratibha Patil, prevede l’istituzione di una zona cuscinetto di cinque chilometri intorno alla riserva dei Jarawa. Secondo Sophie Grieg, di Survival, «è opinione diffusa che questi facciano parte di una delle prime migrazioni di successo fuori dall’Africa e abbiano vissuto sulle isole per circa 55mila anni. Gli antropologi li chiamano “negrito”, una parola non molto gentile, ma usata per descrivere le tribù di piccola statura e di pelle nera che vivono nelle isole Andamane e in alcune zone della Malesia e delle Filippine. Non assomigliano in alcun modo ad altre popolazioni dell’India». Da mesi, gruppi di tutela dei diritti tribali, come Survival, denunciavano la non applicazione di una sentenza della Corte suprema indiana risalente a dieci anni fa, che imponeva la chiusura di una strada che attraversa la riserva dei Jarawa, lungo la quale transitano almeno 250 veicoli al giorno.

1 giugno, Gran Bretagna

Popoli tribali di quattro continenti chiedono alla Gran Bretagna di ratificare una legge che garantisca la loro sopravvivenza. È la prima volta che un network esteso di africani, papuani occidentali, brasiliani, russi e organizzazioni del Regno Unito fa un appello così esplicito, forte e diretto, con una lettera al ministro degli Esteri britannico William Hague. In oggetto, la Convenzione Ilo 169, dell’Organizzazione internazionale del lavoro delle Nazioni unite, l’unica legge internazionale giuridicamente vincolante (vi hanno aderito 22 Paesi) e concepita per tutelare i diritti dei popoli tribali, come quello di possedere la terra su cui vivono, prendere decisioni sui progetti che li riguardano e per garantire loro libertà e uguaglianza. I firmatari invitano le autorità britanniche a creare un precedente, sostenendo una legge che non solo protegge la vita dei popoli tribali, ma conserva anche preziosi ecosistemi. I liberaldemocratici britannici, che fanno parte della coalizione di governo, sostengono ufficialmente la Convenzione Ilo 169 e hanno inserito la sua ratifica nel programma dell’esecutivo.


grill di

Till Neuburg

foto Vincenzo [getty images]

Lombardo

traspapparenza Per raccontarci la combinazione sempre più perversa tra ignoranza e blablà, ad Altan bastano sette parole. In uno dei suoi recenti botti, seduto di fronte a una fattucchiera, il solito Signor Nessuno chiede: «Cosa dice la sfera?» E lei: «Inserire la password». La “trasparenza” dei nostri giorni, è tutta qui. La sfera di cristallo di chi dovrebbe illuminarci, in realtà è una palla d’acciaio che rimbalza di continuo nel flipper dell’economia e dell’etica parolaia. Il suo significato etimologico (attraverso+visibilità) dovrebbe essere per tutti una caratteristica ovvia e immanente. Invece se ne straparla, in modo sempre più ossessivo, deviante, opaco. Non è un caso se nei siti commerciali, nelle homepage delle istituzioni, dei media e delle banche, le matrioske, le scatole cinesi e le metafore più devianti vengono continuamente coniugate assieme all’attributo più conosciuto del vetro, che notoriamente è un materiale indeformabile, igienico e neutrale, ma anche duro, tagliente, fragile e, se debitamente lavorato, persino deformante. Dalle lenti molate da Spinoza fino ai teleobiettivi dei paparazzi, la trasparenza ottica non è mai un valore in sé. Ma, come sta scritto nel capolavoro del filosofo olandese, la purezza del pensiero non è affatto un bene disponibile di default. È un valore che va cercato, scovato, coltivato, amato, comunque, ovunque, da chiunque. Ciò che è esposto nelle bacheche dei tribunali, negli showroom del lusso, dietro gli sportelli delle banche, è tutto perfettamente visibile, leggibile, ostentato. Il primo grado di separazione (il vetro) tra quelle cose e noi non nasconde nulla che non si sapesse già. Ma la vera realtà sta altrove. Non necessariamente, visibilità fa rima con realtà. Di questa dissociazione, già Seneca parlava con clarté anticipatamente cartesiana: «La menzogna è uno schermo sottile: se guardi con attenzione, è trasparente». Eppure, senza la lucentezza dell’ambra, non avremmo mai saputo come erano fatti i minuscoli vicini di casa, che ci avevano preceduti milioni di anni fa. È un magnifico rewind visivo grazie al quale traspaiono i cicli e ricicli della vita, in tutta la loro magnificenza e semplicità. Invece, in tema di trasparenza, un tantino meno lontana, quando la De Beers ci dice che “un diamante è per sempre”, il monopolista sudafricano non ci svela perché quello slogan è assolutamente veritiero: infatti, un diamante “usato” non lo vendi mai, salvo accontentarti dell’obolo di un usuraio che, in tema di taglio, carati, lucentezza e di raggiri bottegai ne sa cento volte più di te. Insistendo sulle battute commerciali, l’arcinota headline “Fiat Lux” (attribuita al creativo più adulato del mondo), potrebbe essere il titolo di un avvincente trailer per un qualsiasi colosso industriale che la mena con la trasparenza. Solo che i titoli di coda di paglia dei garagisti torinesi e della multinazionale anglo-olandese delle saponette, in realtà sono molto più contigui al videogioco Grand Theft Auto e alle soap opera che non al Decalogo del Monte Sinai o del memorabile ciclo di Kieslowski. La lavagna luminosa di chi pubblicamente vuole illuminarci sull’etica, di solito risulta alquanto opacizzata. Nel campo della politica, dell’economia e della finanza, più che parlare di lampi di genio con perfetto nitore Swarovski, potremmo soffiare sulle candeline che si autoestinguerebbero comunque nel giro di poche frasi fatte e strafatte. Cosa succede invece quando un conferenziere s’illude di poter schiarire la realtà, lo si era già visto nel lontano 1986. Che la Glasnost di Gorbaciov non fosse solo un sinonimo di chiarezza e di luminosità, ma anche di estrema debolezza e fragilità, lo avevano poi concretamente dimostrato i suoi diretti eredi – da Eltsin a Medvedev e Putin – tutti in solida combutta politica, mediatica e finanziaria con i più abili gestori del rublo, del dollaro, dell’euro e dello yen, da Potanin (Interros), Fridman (Gruppo Alfa), Kovalchuk (Banca Rossiya, Ren-Tv, Izvestia), Prokhorov (Polyus Gold), Timchenko (Gunvor), Miller (Gazprom), Sechin (Rosneft), Yakunin (ferrovie), Abramovich (Chelsea), sino al fido tovarish nostrano che regnava, spendeva e trombava allegramente nella sua dacia in puro stile milanese-milanista-brianzolo. In barba alla trasparenza, secondo il combattente afroamericano per i diritti civili Andrew Jackson «niente è illegale se un centinaio di uomini d’affari decidono di farlo». Che quei gentlemen driver dell’economia si siano de-formati al Kgb oppure alla Bocconi, non fa nessuna differenza.

W

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di

Alessandro Robecchi

senza ascensore Buongiorno, sono il tecnico degli ascensori. Mi chiamano, arrivo, sistemo il problema. Di solito. Sono bravino, ecco, ma non posso mica fare i miracoli. Mi chiamano per un’emergenza. C’è un ascensore fermo. Dico: «Arrivo». E anche: «Che tipo di ascensore è?». «Sociale», fa quello, e mette giù. Vabbé, vediamo cosa si può fare. ’Sto ascensore sociale non solo è fermo, ma c’è rimasta chiusa dentro un sacco di gente, diciamo alcuni milioni di persone. Stanno dentro ’sto ascensore sociale bloccato e reagiscono in vario modo. Mi stupisco un po’ che quelli veramente arrabbiati siano pochini. Vabbé. Al lavoro. Ve lo dico: ’sto ascensore sociale dicono tutti che è nuovo di pacca, cioè, il condominio se la tira da palazzo moderno, vagamente ricchetto, al passo con i tempi. Tutto bello insomma, ma l’ascensore sociale fa schifo. Vedo subito che qualcosa non va. I dieci inquilini più ricchi detengono una ricchezza pari a quella di tre milioni degli inquilini più poveri. I salari di chi usa ’sto ascensore sono fermi in termini reali dal 1995. È una bella fregatura. Tu invecchi, tua moglie invecchia, i bambini diventano grandi. Però quando esci e incontri il tuo stipendio dici: «Ehi, amico, non sei cambiato per niente, dimostri vent’anni di meno!». Fuori dall’ascensore c’è una targhetta che dice: “Premiare il merito”. Beh, dico, è già qualcosa. Poi più in piccolo: “Il merito di usare le scale”. Ah, ecco. Mi metto al lavoro. Non funziona niente, nessuno olia gli ingranaggi da anni. Quando serve un pezzo di ricambio lo prendono da qui. Ogni tanto entra uno importante, promette alla gente che l’ascensore verrà sbloccato in cambio di qualche sacrificio. Quelli sospirano e dicono «va bene». Poi si richiudono le porte e l’ascensore resta lì. Non sempre. A volte scende di qualche centimetro verso lo scantinato. Nell’ascensore sociale c’è un serio problema di sicurezza sociale. Solo venti figli di operai su cento, in questo condominio, arrivano all’università. Molti perdono il lavoro. Parecchi se la cavano con lavoretti saltuari. Non mi stupisce: restare bloccati in ascensore di solito fa quest’effetto. Mi chiedo come fanno quelli dei piani alti, e lo chiedo al tipo. «Hanno altri ascensori», mi risponde. Io dico: «Va bene, mi dia un’oretta». E quello, vedo che si agita, si allarma: «Ma come – mi fa – non vorrà mica ripararlo sul serio!». E io: «Perché no?». E lui: «Perché se no quelli degli ascensori veloci vanno più lenti e arrivano in ritardo al consiglio di amministrazione». Ah, ecco. Ho capito. Le mando la fattura, eh? Per l’uscita. [gamma-keystone/getty images]

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di

Fabrizio Ravelli

foto

Beatrice Mancini

Il tango di40Porta


Senza parlarsi, né guardarsi o sorridersi: l’intesa, nel ballo argentino, viene raggiunta con il dialogo fra due corpi silenziosi. Le parole sono i passi e il loro ritmo è scandito da una sorta di dolore trattenuto. Siamo nella milonga più bella di Milano dove da vent’anni coppie di tutte le età si incontrano

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Il tango milanese, e per la precisione tango di Porta Venezia, è uno spettacolo che va gustato in anticipo. Quando ancora la sala Liberty dell’Osteria del treno è mezza vuota, i tavoli coperti di rosso deserti, e la musica tace. Quando la gente comincia ad arrivare, dalla via San Gregorio silenziosa di una domenica sera. La milonga, che non è solo il ballo ma anche la sala da ballo, si popola lentamente di persone in attesa di un cambiamento. E sono le donne il primo spettacolo. Arrivano infagottate nei panni ancora invernali, spariscono dietro le quinte, ricompaiono trasformate. La maestra elementare ora ha un vestito che lascia le spalle nude. La ragazza in felpa e pantaloni militari e cuffia dell’iPod mostra ora le gambe da uno spacco. L’architetto aveva dei calzerotti di lana a righe, ora ha un abito corto verde brillante. Si siedono, e l’ultimo tocco sensuale è lo sventolìo di gambe nude che accompagna il cambio delle scarpe: leggere, affusolate, col tacco alto. Ora sono pronte, e la serata può cominciare. Dicono che questa sala Liberty è la milonga più bella di Milano, che assomiglia (in piccolo) alla Confitería Ideal di Buenos Aires. Ma sono tanti i posti milanesi dove si libera la passione per il tango, che dura da almeno una ventina d’anni e coinvolge diverse migliaia di persone. Poi ci sono le scuole, dove si studia prima di avventurarsi in pista. Giuppi, una bella signora con un fantastico vestito rosa, è con il suo socio Domiziano uno dei musicalizadores, quelli che scelgono la sequenza di brani musicali. E dice: «Io ho preso due anni di lezioni prima di metter piede in una milonga. Adesso c’è gente che ci prova dopo due o tre trimestri». Musicalizador sarebbe il dj del tango, detta brutalmente, ma ha un ruolo fondamentale: «Una tande, cioè una sequenza, è fissa: quattro tanghi, poi altri quattro, poi tre milonghe. E ancora quattro più quattro tanghi e tre vals. Valzer che si ballano in tre quarti». “Un pensiero triste che si balla” è il tango secondo la famosa definizione di Enrique Luis Discépolo. Ma non è tristezza questa che va in scena alla milonga del Treno. Piuttosto una miscela di abbandono e concentrazione, sensualità e controllo, complicità ed energia. Forse non bisognerebbe guardare il tango, pare un gesto sconveniente, come di bambini che spiano un atto d’amore. Queste persone, le stesse che sono arrivate nei loro cappotti e hanno comprato una bottiglia da litro d’acqua minerale, adesso sono diverse. Le donne ballano a occhi chiusi, spiegano che è per concentrarsi, ma non è solo quello. Gli uomini più giovani si muovono più veloci, ma poi qualcuno ti dice che i più bravi sono quelli che non avevi notato: il pilota d’aerei triste con le scarpe rosse, il signore piccolo e anziano in doppiopetto grigio. Le coppie si stringono petto contro petto, ma non si toccano con il bacino, a volte stanno inclinate, come affacciate a scrutare un mistero sottostante. Questo che si balla qui è il tango milonghero, come dire da balera: «O anche tango del Centro», dice Rosanna Remon, che lo insegna a Milano da vent’anni. «Si balla in poco spazio, senza alzare le gambe, senza figure. Abbracciati, anche perché l’uomo guida con il petto e la donna risponde con il bacino. Si intendono anche coppie occasionali». E anche quelli che arrivano


in coppia non sempre ballano fra loro, ma cambiano spesso compagno. Per l’invito dovrebbe bastare uno sguardo, anche da una parte all’altra della sala. Poi ci sono quelli che arrivano da soli e aspettano lo sguardo. «Io quando vengo a ballare mi sfilo la vera e la metto alla mano destra, sennò spesso l’uomo si fa timido», dice ridendo Maris, che pure è arrivata da Locarno con il marito Michele, bibliotecario. «Il tango ti prende perché ti spinge verso un’altra persona e il segreto è riuscire a intendersi. Il primo è di assaggio, poi ci si comincia piano piano a conoscere». Non si parla, durante il tango, né si sorride. C’è tutto un dialogo serrato affidato ai corpi, sensuale e serio,

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una comunicazione dove un gesto sbagliato suonerebbe forse offensivo. Certo, visto da fuori è misterioso. Dicono che ci sono passi codificati e studiati a lungo. Ma davvero l’intesa fra due persone che magari non si sono mai incontrate sembra un prodigio. Questo dev’essere il segreto della passione per il tango, lo dicono tutti: chi sia l’altro non ha molta importanza, è un corpo con cui comunicare, dirsi delle cose a tempo, intendersi. In un mondo in cui toccarsi è quasi un tabù, si capisce quell’espressione concentrata e languida dei ballerini, quella sorta di dolore trattenuto. Stanno trasgredendo, violando i confini freddi e striminziti dell’area che circonda i corpi, e si trasmettono qualcosa. Un invito, un’accettazione, senza parole. Qualcosa come il sesso, ma dicono che ben pochi vengono alla milonga per rimorchiare, quasi nessuno. Non si fa, dicono. Linda, che di mestiere è architetto, dice che, come per il sesso, «quando si balla con la persona


che si ama è un’altra cosa. Ma è bello anche non conoscere la persona con cui si balla. Io a volte vengo qui da sola, e mi piace scegliere. Non si hanno maschere, ma si comunica. A volte, ballando con un uomo che non conosco, riesco a capire di che umore è». E sarà anche vero che nel tango comanda l’uomo, ma forse le donne sono più importanti e lo capiscono meglio. «Da donna che voleva essere emancipata – dice ancora Linda – ho trovato la libertà totale in un ballo dove comanda l’uomo. Perché si è rispettate e in questo ruolo così definito c’è paradossalmente più libertà. Comanda l’uomo, ma la risposta della donna è più importante. L’uomo decide, ma balla per lei». La donna, si direbbe, balla anche per se stessa. Si vede bene qual è il piacere di portare un vestito attraente, una gonna che sventola, delle scarpe leggere. Molte si alzano per un altro tango e lasciano gli occhiali sul tavolino. Gli uomini, spesso, non badano tanto a come si vestono. Nemmeno alle scarpe, che sono la cosa più preziosa e necessaria: stasera ce n’è perfino uno con le Adidas. E ci sono ragazzi giovani che certo una giacca

“Ho trovato la libertà totale in un ballo dove comanda l’uomo. Comanda l’uomo, ma la risposta della donna è più importante. L’uomo decide, ma balla per lei”


non se la mettono: jeans e camicia e via andare. Carlo ha 27 anni, professione programmatore, balla da cinque anni e ha cominciato per caso. Adesso, quando può, parte per Buenos Aires in vacanza di tango, le scarpe da ballo in valigia. Molti lo fanno, perché dicono che poi a Buenos Aires è un’altra cosa. Si passano indirizzi di milongas e di maestri: «Quest’anno ho ballato con Chicho e con Julio», basta il nome di battesimo a intendersi. Ci sono, al contrario, argentini che scoprono il tango a Milano. Come Leonardo, 32 anni, barista disoccupato: «Io ho cominciato qui. Succede, di aver nostalgia dell’Argentina e curarla così». C’è chi usa il tango per interpretare il passato, come Liliana, attrice e regista: «Ballo da tredici anni e un certo giorno ho scoperto che anche mia nonna amava il tango. Le ho dedicato uno spettacolo, a mia nonna Mariuccia partigiana di Giustizia e Libertà, assassinata dai fascisti a Baggio».

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C’è chi, come Bruna, balla da una vita e ormai balla solo in Argentina: «Perché qui, diciamolo, non si balla poi tanto bene». Per un profano, farsi consigliare dagli esperti toglie un po’ di fascino allo spettacolo. Salvo quando ti indicano, lì sulla pista della sala Liberty, chi davvero balla bene il tango. Magari non quella coppia che fa più scena, invece quel signore anziano in doppiopetto grigio, piccolo e magro, calvo e triste. Si chiama Giancarlo, è ingegnere, viene da Bergamo: «Vengo con mia moglie», e indica una signora seduta, dall’aria poco allegra anche lei. «Il tango è l’unica cosa che mi fa evadere, quando sono qui io stacco da tutto». Il suo tango è serio, leggero e come trattenuto. Si muove come in economia, stretto a una signora che forse nemmeno conosce. E sembra appunto che balli per dimenticare. In questa milonga di Porta Venezia, affacciato sull’orlo di un’altra settimana di tran tran.

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Casa dolce casa a cura di Stella

Spinelli

illustrazione

Guido Guarnieri

5 maggio, Vicenza

Diceva di amarla, eppure la minacciava e l’aggrediva da mesi. Lei, Julissa Dilia Reyes Feliciano, dominicana di 26 anni e madre di una bambina di due, non voleva più saperne. Una sera, Gil Jesus Maria Paredes, 38 anni, suo connazionale, ha atteso Julissa fuori dal locale dove faceva la ballerina e l’ha convinta a seguirlo in un vicino hotel. È qui che le ha inferto diverse coltellate per poi chiamare la madre di lei e sussurrarle: «Finalmente ho ucciso tua figlia».

6 maggio, Villaricca (Na) per scriverci: casadolcecasa@e-ilmensile.it

Casa dolce casa è l’osservatorio mensile sulle donne uccise in Italia da uomini che conoscevano, che hanno amato, di cui si fidavano. Si chiamano femminicidi e rimandano alla relazione di potere tra i generi, che resta tuttora un fattore che ordina la società. I dati pubblicati, vista l’assenza di ricerche ufficiali sul fenomeno, sono raccolti dalla stampa e riguardano il periodo di tempo dal 4 al 31 maggio. Questo monitoraggio viene effettuato in collaborazione con la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna (www.casadonne.it), associazione impegnata da diversi anni contro la violenza sulle donne, alle quali offre sostegno, ascolto, consulenze e case-rifugio, con una particolare attenzione ai figli minori. Da tempo inoltre la Casa svolge un lavoro di ricerca sul femminicidio dal quale ogni anno deriva un’indagine-quadro sulle donne uccise: nel 2011 sono state 97.

Alessandra Cubeddo, 36 anni, è stata uccisa dal compagno Michele Perrotta, 59, per gelosia. L’uomo le ha ripetutamente sbattuto la testa sul pavimento della loro abitazione. La loro bambina, di sei anni, era a scuola.

7 maggio, Pegli (Ge)

Giovanna Sfoglietta, pensionata di 82 anni, è stata uccisa da suo marito, Alfredo Trucco, 84, anche lui in pensione. Giovanna era costretta a letto da otto anni per una grave malattia e Alfredo le ha sparato con una vecchia pistola perché non poteva più vederla soffrire. Poi ha rivolto l’arma contro se stesso e si è suicidato.

12 maggio, Fiorenzuola d’Arda (Pc) L’ha uccisa e ha gettato il corpo nel Po. Singhj Kulbir, di origini indiane, non sopportava che sua moglie, Kaur Balwinde, 27 anni, incinta di tre mesi, vestisse all’occidentale e durante un litigio l’ha strangolata. Il cadavere della giovane è stato trovato il 27 maggio da un pescatore su un argine del fiume a San Nazzaro, frazione di Monticelli d’Ongina. Interrogato dai carabinieri, Singhj ha confessato.

17 maggio, Paternò (Ct)

Ha chiesto un incontro alla sua ex convivente, Enza Maria Anicito, 42 anni, e al suo rifiuto di tornare con lui, le ha sparato sei colpi di pistola. Poi, Salvatore Paternò, 46 anni, si è suicidato sparandosi due colpi al petto con la stessa pistola. Enza Maria lascia due figli di 23 e 19 anni.

21 maggio, Brescia

Marco Turrini, agente pubblicitario di 41 anni, era depresso per le difficoltà economiche e per la morte del padre, che si era suicidato un anno fa. Durante l’ennesimo litigio con Elena Morè, 38 anni, infermiera, ha gettato dalla finestra della loro casa al settimo piano i due figli di 4 anni e 14 mesi, poi ha tentato di fare altrettanto con la moglie, senza riuscirci. Quindi si è ucciso, buttandosi di sotto.


29 maggio, Brusciano (Na)

Stavano litigando per una questione di soldi. Vincenza Zullo, 33 anni, ne chiedeva di più al marito, Salvatore Velotto, 36, perché erano necessari per mantenere i due figli di 12 e 7 anni. Lui, guardia giurata, l’ha uccisa, sparandole al volto con la pistola di servizio. In un primo momento ha detto ai carabinieri che la donna si era suicidata, ma alla fine è crollato e ha confessato.

30 maggio, Biella

«L’ho colpita due volte alla testa, con un martello. Quando mi sono accorto che non era ancora morta, per non vederla soffrire, le ho tagliato la gola con un seghetto». Remo Schiapparelli, 90 anni, ha raccontato di aver aggredito la moglie Teresita Trompeo, di 88, al termine di un litigio. Remo voleva suicidarsi e quando Teresita ha cercato di fermarlo l’ha uccisa.

30 maggio, Copparo (Fe)

Ha lasciato due biglietti e inviato un sms alla figlia in cui annunciava il gesto, poi ha strangolato Ludmila Rogova, 43 anni, e si è sparato un colpo alla tempia. Giuliano Frezzati, 66 anni, separato e padre di due figli, aveva conosciuto Ludmila, ucraina e madre di due ragazzi di 6 e 16 anni, pochi mesi fa e l’aveva assunta come badante per l’anziana madre. Con lei aveva iniziato una relazione, e non accettava la sua decisione di tornare in Ucraina dai figli. Ultimamente i litigi erano continui. Ricoverato in condizioni disperate all’ospedale Sant’Anna, l’uomo è morto il giorno dopo.

31 maggio, Cesena

La loro breve storia era finita, ma lui non se ne faceva una ragione. Gaetano Delle Foglie, 60 anni, ha atteso Sabrina Blotti, 44 anni, sotto casa della figlia, di cui lei era amica e ospite; le si è avvicinato mentre saliva in auto, per parlarle, ma poi, quando la discussione è degenerata, le ha sparato tre colpi di pistola. L’uomo si è poi asserragliato nel duomo di Cervia dove, dopo ore di trattative con psicologi e forze dell’ordine, si è sparato. Non era la prima volta che Gaetano aggrediva la donna: due mesi fa lei lo aveva denunciato per stalking e atti persecutori. Sabrina, separata e madre di due figli di 14 e 7 anni, è morta durante il trasporto in ospedale.

31 maggio, Roma

Claudia Bianca Benca, cittadina romena di 23 anni, è morta sgozzata dal suo ex, Andrej Scirpcariu, davanti al figlioletto di due anni. L’uomo, già respinto da Claudia più volte, l’aveva pedinata per tutto il giorno: poco dopo le 23 l’aveva convinta a farlo salire in auto. Lì l’hanno trovata i passanti, attirati dalle sue urla. Con lo stesso coltellaccio, Scirpcariu ha poi tentato il suicidio, ferendosi alla gola.


spiriti liberi di

Giulio Giorello

illustrazione

Elfo

Equitalia e la zia “Non mi interessa tanto andare a vedere dove finiscono i miei dollari quanto che cosa comporti la mia obbedienza”, scriveva nel 1849 Henry David Thoreau (1817-1862), che sarebbe divenuto uno dei più agguerriti rappresentanti del pensiero libertario americano. Il 24-25 luglio 1846 si era rifiutato di pagare le tasse per protesta contro la guerra imperialistica condotta dal governo Usa contro il Messico, adducendo per di più che non voleva dare un soldo a un Paese che manteneva in vigore la schiavitù. Rimase in prigione una notte; la mattina dopo una zia pagò, contro la volontà dell’interessato, tutti gli arretrati. Venne così scarcerato, nonostante le sue vigorose rimostranze: riteneva iniquo conformarsi a un’autorità che gli pareva calpestasse le norme di base del vivere civile. La schiavitù è stata formalmente abolita (negli Stati Uniti a prezzo di una sanguinosa guerra civile, 1861-1865); in molte parti del mondo la condizione umana non è migliore, però, di quella dei neri americani prima di Lincoln; e oggi le imprese belliche qualche volta si chiamano “missioni di pace”, mentre le potenze dell’Occidente non rinunciano facilmente al loro “destino manifesto” di esportare la democrazia con missili e cannoni. Qui in Europa abbiamo l’euro anziché il dollaro, e in Italia un’apposita organizzazione per “riscuotere il dovuto”, nota come Equitalia, ultimamente sembra aver attirato su di sé non poca animosità da parte dei “comuni cittadini”. L’anomalia italiana è che questo peculiare esattore è una società i cui azionisti sono l’Agenzia delle entrate per il 51 per cento e l’Inps per il restante 49 per cento, cui lo Stato “ha delegato il massimo dei propri poteri autoritativi”, pur restando Equitalia un istituto tipicamente privatistico, per sua natura esposto agli alti e bassi della domanda e dell’offerta, come ha osservato un liberale come Piero Ostellino (Corriere della Sera, 17 maggio), che aggiunge che pare fondato “il sospetto che Equitalia sia stata creata dallo Stato per stornare da sé, non mettendoci la faccia, il risentimento popolare”, un risentimento peraltro perfettamente comprensibile sullo sfondo di un “sistema fiscale tra i più oppressivi”. È in tempi come questi, di proteste sempre più rumorose – che per molti osservatori finiscono con lo sfiorare la stessa galassia del terrorismo – che l’esempio di Thoreau ci ricorda come chi pratica la disobbedienza civile abbia tutto il diritto di mettere a repentaglio il proprio corpo, astenendosi però dal recare danno a corpi o a cose altrui. Si potrebbe riformulare la modesta proposta di Thoreau in questo modo: non un euro a uno Stato che si è rimangiato i risultati di un referendum contro il finanziamento dei partiti con la farsa dei rimborsi elettorali; non un euro a uno Stato coinvolto in quelle che, al di fuori della retorica, restano guerre imperialistiche, come è accaduto e accade in Afghanistan. Ma se, con un recupero di etica e di dignità, le cose davvero cambiassero, saremmo ben lieti di pagare il dovuto senza l’intervento della zia.

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viva il diverso

buen vivir di

Alfredo Somoza

foto Yuri Cortez [afp/getty images]

A Santo Domingo de Heredia, un centinaio di chilometri da San José, la capitale della Costa Rica, il 26 ottobre 1989, all’interno di uno scantinato, un piccolo gruppo di persone stappava bottiglie per festeggiare la legalizzazione di un’associazione assolutamente rivoluzionaria e senza precedenti: l’Inbio. L’Instituto Nacional de Biodiversidad nasceva, con l’appoggio dello Stato, con l’obiettivo di censire e valorizzare, anche economicamente, la biodiversità di questo Paese del Centro America, scrigno di ricchezze naturali. L’Inbio si poneva obiettivi simili a quelli di tante multinazionali che da decenni scandagliano le foreste tropicali alla ricerca di principi attivi da sfruttare per i cosmetici, i farmaci, gli integratori alimentari. La differenza, non trascurabile, è che l’Inbio si prendeva carico di censire il patrimonio naturale del Paese per poi negoziare gli eventuali profitti che si potevano ricavare dalle scoperte fatte, da investire per il 10 per cento nella ricerca e per il 50 per cento nella tutela delle aree protette. Negli anni l’Inbio è diventato un esempio delle potenzialità della gestione pubblico-privata della biodiversità, in un contesto mondiale nel quale continua a mancare la tutela, soprattutto nei Paesi più poveri, del proprio patrimonio naturale. Con il termine di “biopirateria” si definisce il furto di patrimonio genetico naturale ai danni di comunità che, paradossalmente, possono trovarsi successivamente a dover pagare royalties alle multinazionali che hanno brevettato le loro risorse. Per questo motivo la firma del Protocollo di Nagoya, avvenuta nel 2011 in Giappone, è stato un evento di grandissima portata. L’accordo prescrive infatti la difesa della vita e dei suoi ecosistemi includendo per la prima volta le risorse genetiche. Quando le multinazionali sfrutteranno geni di piante e animali per sviluppare nuovi prodotti, dovranno pertanto condividere i profitti con le comunità locali. Non è difficile leggere tra le righe del Protocollo l’essenza dell’esperienza costaricana, considerata all’avanguardia mondiale. È passato il principio che lo sfruttamento economico della biodiversità non possa avvenire senza un accordo tra imprese e comunità locali, trasferendo di fatto la sovranità sul patrimonio genetico ai legittimi proprietari e custodi, che ne erano stati espropriati fin dai tempi del colonialismo. È previsto quindi un ruolo per lo Stato come garante della comunità locale e degli interessi del Paese e di ong locali di spessore scientifico come Inbio. Una piccola notizia, forse la più importante degli ultimi tempi, per tanti Paesi in America Latina, e non solo, che custodiscono le riserve di biodiversità dell’umanità senza averne un ritorno economico. Un’eccellenza di un Paese centroamericano che ha ispirato una piccola rivoluzione.

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Verso Freetown testi e illustrazioni

Raul Pantaleo e Marta Gerardi [tamassociati] a cura di

BeccoGiallo

Libia, Sudan, Darfur, Repubblica Centrafricana, con destinazione finale Freetown. Il racconto della “migrazione al contrario” di Khalid da Milano alla Sierra Leone, lasciata con il miraggio di un mondo migliore, l’Italia, che lo ha invece ricacciato involontariamente nel mare che lo aveva portato.







L’Italia è una Repubblica a cura di

3 maggio, Pianopoli (Cz)

9 maggio, Montecalvo Irpino (Av)

4 maggio, Messina

10 maggio, Schiavi di Abruzzo (Ch)

Giovanni Vescio, 21 anni, stava guidando il suo trattore quando il mezzo si è ribaltato schiacciandolo.

Lavorava alla costruzione di una palazzina a Santa Margherita. Cosimo Messina, 45 anni, ha perso l’equilibrio precipitando dal quarto piano.

4 maggio, Santa Croce sull’Arno (Pi) Antonio Cerri, 52 anni, stava lavorando a un pozzo in località Paduletta. Mentre cercava attrezzi nel pianale del furgone, il mezzo si è mosso e lo ha travolto.

4 maggio, Vertova (Bg) L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro è il nostro osservatorio sulle morti bianche. Si tratta di un elenco parziale e incompleto, ricavato da fonti secondarie, degli infortuni mortali avvenuti tra il 2 maggio e il primo giugno. A cura di rassegna.it, sito d’informazione su lavoro, politica ed economia sociale, che dal settembre 2010 porta avanti un monitoraggio quotidiano delle vittime.

Era impegnato nello smaltimento dell’amianto alla Tecnostrutture, quando è caduto dal tetto dell’azienda. La vittima è Roberto Ezio Boarato, di 48 anni.

5 maggio, Pieve Torina (Mc)

Sedeva accanto all’autista, su un trattore che si è ribaltato. La vittima è un lavoratore romeno di 41 anni, di cui non è stato fornito il nome.

5 maggio, San Vito (Ch)

Antonio D’Angelo, 75 anni, stava lavorando sul terreno di sua proprietà con un trattore, che si è ribaltato a causa di una manovra sbagliata.

6 maggio, Falzes (Bz)

Giovanni Meola, 54 anni, stava pulendo l’autobus nella rimessa della società per la quale lavorava come autista, quando il pullman si è messo in moto schiacciandolo.

8 maggio, Borgo Ticino (No)

Michele G., 65 anni, è morto al Cto di Torino, dove era ricoverato dal 30 aprile per le ferite riportate nel ribaltamento di un trattore.

8 maggio, Egna (Bz)

Il trattore si è rovesciato, sbalzandolo fuori. La vittima è Antonio D’Addona, agricoltore di 73 anni.

Remo Cese, agricoltore di 77 anni, è rimasto schiacciato dal suo trattore mentre arava un campo nell’Alto Vastese.

10 maggio, Imèr (Tn)

Igor Dal Cortivo, 35 anni, stava tagliando un albero nei boschi in località Agnerola, quando è stato colpito dal cavo di una teleferica.

12 maggio, Catania

Un operaio di 42 anni è caduto dal ponteggio mentre era al lavoro nella zona industriale della città ed è morto dopo due giorni d’ospedale.

12 maggio, Fiorenzuola (Pc)

Daniel Gelu Dan, autotrasportatore romeno di 46 anni, è rimasto schiacciato sotto la cabina di guida del suo mezzo. L’aveva sollevata per controllare un guasto.

12 maggio, Sellero (Bs)

Giandomenico Feriti, operaio di 56 anni, è stato travolto da un blocco di cemento mentre effettuava lavori di consolidamento all’interno di una fossa.

13 maggio, Albenga (Sv)

Gheorghe Mohorea, pastore romeno di 40 anni, è annegato mentre tentava di recuperare una pecora caduta nel Centa.

13 maggio, Torano Castello (Cs)

Il trattore lo ha schiacciato mentre lavorava nel suo terreno. Così è morto l’agricoltore Pinuzzo Ruffo, 66 anni.

14 maggio, Palmi (Rc)

Stavano lavorando sul trattore quando il mezzo si è ribaltato. Le vittime si chiamavano Antonio Sgrò, 27 anni, e Pasquale Melissari, 38.

Stava rientrando in macchina da Milano sulla A22, quando la sua auto ha sbandato dopo aver toccato un tir. Vittima l’ispettore della squadra mobile di Bolzano, Mario Morgavi.

15 maggio, Marano di Valpolicella (Vr)

8 maggio, Supino (Fr)

17 maggio, Borgo San Lorenzo (Fi)

Marcello Savelloni, 58 anni, stava sistemando un muro di contenimento. Una lastra si è staccata e lo ha ucciso.

9 maggio, Farindola (Pe)

Gino Damiani, agricoltore di 59 anni, è morto nel ribaltamento del trattore sul quale stava lavorando.

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Giovanni Fasoli, 75 anni, è morto nel ribaltamento del trattore che guidava.

L’autobus in sosta, ma con una scolaresca a bordo, ha cominciato a muoversi, forse per un cedimento del freno. Marco Buzzichelli, 44 anni, l’autista, ha provato a salire al volo per fermare il mezzo ma è stato travolto.

17 maggio, Castellavazzo (Bl)

Montava una rete paramassi, quando è scivolato, cadendo da un’altezza di 22 metri. Così è morto Fabio Garavana, disgaggiatore di 46 anni.

17 maggio, Macomer (Nu)

Davide Sanna, commerciante di mangimi di 33 anni, stava caricando con una gru la merce su un camion. Il braccio ha urtato un tetto, che si è staccato travolgendolo.


fondata sul lavoro 17 maggio, Montefano (Mc)

Nazzareno Canullo, 72 anni, stava riempiendo d’acqua una botte con una motopompa. Il suo grembiule è rimasto incastrato tra gli ingranaggi, che l’hanno stritolato.

28 maggio, Roma

Stava lavorando sul cestello di una gru che ha ceduto di colpo. La vittima è un operaio romeno di 55 anni, di cui non è stato diffuso il nome.

17 maggio, Rosignano Monferrato (Al) 29 maggio, Castiglione Olona (Va) Il suo trattore è finito in una scarpata, ribaltandosi. Così è morto Mario Bernardi, 57 anni.

20 maggio, provincia di Ferrara

Stavano lavorando in un capannone di Sant’Agostino quando il terremoto li ha sorpresi. Nel crollo della struttura sono morti Leonardo Ansaloni, 51 anni, Nicola Cavicchi di 35 e Gerardo Cesaro di 57. Un altro operaio, il marocchino Tarik Naouch, di 29 anni, è morto nel crollo di una fabbrica di polistirolo a Bondeno.

20 maggio, Naro (Ag)

Giuseppe Licata, agricoltore di 60 anni, stava attaccando l’aratro al trattore quando un braccio gli è rimasto incastrato in un giunto di collegamento. L’uomo è morto dissanguato.

22 maggio, Brugnera (Pn)

Samuele Rizzetto, 39 anni, era addetto alla Maeg Costruzioni. Due lastre d’acciaio che si sono staccate da un carroponte lo hanno schiacciato.

23 maggio, Alì Terme (Me)

Lo spuntone di roccia sul quale era salito per effettuare un sopralluogo ha ceduto, trascinandolo a valle. L’operaio si chiamava Salvatore Scarpignato, 30 anni.

24 maggio, Custonaci (Tp)

Saimir Audyli, di origine romena, 38 anni, stava saldando una tanica all’interno della sua azienda quando l’oggetto è esploso, forse per l’alta temperatura della fiamma ossidrica.

24 maggio, Roma

Marinaio di 29 anni, Alessandro Nasta è caduto da uno dei pennoni della nave Amerigo Vespucci, in viaggio nel tratto di mare tra La Spezia e Civitavecchia.

25 maggio, Cepagatti (Pe)

Alfredo Papa, edile di 59 anni, stava lavorando in un capannone quando è caduto da un’impalcatura.

25 maggio, Colledara (Te)

Ramaj Kujtim, albanese di 42 anni, stava smaltando l’interno di un tombino a Castiglione Olona. È morto avvelenato dalle esalazioni della resina.

29 maggio, Altamura (Ba)

Donato Laquale, edile di 47 anni, era impegnato nella ristrutturazione di una palazzina. È caduto da un’impalcatura alta due metri.

29 maggio, provincia di Modena

Quattordici delle diciassette persone che hanno perso la vita nella seconda forte scossa di terremoto che ha colpito l’Emilia, sono morte lavorando. A San Giacomo Roncole, frazione di Mirandola, il crollo di una parte del capannone della Bbg ha ucciso uno dei soci, Enea Grilli di 64 anni, e gli operai Eddy Borghi e Vincenzo Iacono di 39 anni. A Mirandola, nel crollo di un’altra struttura, è morto anche Mauro Mantovani, titolare dell’Aries Biomedicale. Alla Meta di San Felice, hanno perso la vita Gianni Bignardi, ingegnere di 62 anni, che stava effettuando verifiche statiche, il caporeparto Mohammad Azaarg, marocchino, e l’operaio indiano Kumar Pawan, rispettivamente di 46 e di 27 anni. Daniela Salvioli di 44 anni e Iva Contini di 56 sono morte nel crollo del loro mobilificio a Cavezzo. Sotto le macerie della Haemotronic di Medolla sono rimasti Paolo Siclari, 37 anni, Biagio Santucci, 25, e altri due operai, Matteo Serra, 37 anni, e Giordano Visconti. A Carpi, colpito dai calcinacci nella chiesa di Santa Caterina, è morto don Ivan Martini: stava facendo l’inventario delle opere da mettere in salvo.

30 maggio, Termeno (Bz)

Franz Moser, agricoltore di 57 anni, è rimasto schiacciato dal trattore mentre lavorava nel suo vigneto.

1 giugno, Acquapendente (Vt)

Stava manovrando il trattore quando il mezzo si è ribaltato. Ferdinando Sbarrini era un agricoltore di 60 anni.

Un autotrasportatore di 45 anni, Giovanni Di Natale, è rimasto coinvolto in un incidente stradale allo svincolo di Colledara. L’uomo è morto nell’incendio del suo mezzo.

Giovanni Capocefalo, 37 anni, stava rimuovendo materiale ferroso dal soppalco di un caseificio, quando ha perso l’equilibrio ed è caduto in una botola.

28 maggio, Lodi

Gianmario Boccardelli, 54 anni, era al lavoro in un capannone industriale quando, probabilmente a causa di un malore, è caduto dalla scala.

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2 maggio - 1 giugno morti sul lavoro

Maurizio Galimberti

25 maggio, Venosa (Pz)


mad in italy di

Gianni Mura

illustrazioni

Oscar Sabini

il Vizionario Da dove mi arriva questa specie di malattia, questo irrefrenabile tic che mi porta a giocare con le parole? Questo mi chiede una lettrice. Rispondo. È una malattia infantile e, ammetto, inguaribile. Me la trasmette mio padre con La settimana enigmistica. Una volta contagiato, approfondisco. Una svolta (ecco la ricaduta) è quando al ginnasio acquisto un libro di poesie di Jacques Prévert e ne trovo una brevissima, tre righe, intitolata I conquistatori. Eccola: Terre/ Horizon/ Terrorisons. Non faccio poesie ma prose. Se son prose, fioriranno. Il Vizionario continua.

AUMENTIRE

dire bugie in crescendo

AVARIARE

rendere tirchi

AVVENIENTE non bello

AYE-AYE

proscimmia dolorante

BACCALÀ

avvistamento di mirtillo

BACCANALE

orgia a Venezia

BARDARE

cedere un pubblico locale

BAIONETTA

striglia per cavalli

BALLOTTARE

aggredirsi danzando

BALORDO

sciocco e sporco

BANCHINA

banca marginale

BANDONEON

cacciata luminosa

BARBARO

locale dove si truccano le carte

BARDOTTO

cenacolo letterario

BAROCRAZIA

potere degli imbroglioni

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la promessa di Hollande un fisico bestiale di

Bruno Giorgini

foto Patrick [getty images]

Aventurier

Le elezioni possono essere l’eterna, e noiosa, ripetizione del già noto, oppure rivelare dinamiche sociali profonde e inattese: una sorta di nuova fisica sociale. Le elezioni presidenziali francesi, che hanno visto vincente il socialista François Hollande, sembrano appartenere a questa seconda categoria. La fondazione Terra Nova, un think tank di ispirazione socialista ma decisamente estraneo alle querelle politiche di basso livello, ha messo in luce un fenomeno che nessuno aveva previsto. Hollande vince largamente tra i nuovi lavoratori della conoscenza, spesso precari, dagli ingegneri informatici, ai ricercatori, ai “creativi” di ogni tipo, siano essi artisti di strada o famosi designer. E non era così imprevedibile. Invece stupisce che, più o meno con le stesse percentuali, spesso superiori al 55-60 per cento, Hollande abbia vinto nelle banlieue della rivolta, in particolare tra i giovani e i giovanissimi alla prima esperienza elettorale, i beur – come vengono chiamati i ragazzi immigrati della seconda generazione, con genitori spesso maghrebini – cittadini francesi sulla carta, ma che i governi della destra volevano tenere ghettizzati, criminalizzandoli. Si tratta di una ricomposizione, nelle urne, tra strati sociali diversi, che è una novità di straordinaria importanza, anche perché dimostra che il processo di conquista di questi giovani attivato dall’integralismo islamico si è inceppato, il che non significa che questi rinuncino alla loro religione, quando credenti. Ma, nell’agire politico, danno prova di aver assimilato il principio di Liberté, Égalité, Fraternité, appropriandosi con il voto della cittadinanza repubblicana. Naturalmente, molto ha pesato la promessa del diritto di voto agli immigrati nelle elezioni locali. Un fatto simbolico per i beur, già cittadini francesi, ma decisivo almeno una decina di milioni di persone. Promessa che adesso va mantenuta. Il contrario sarebbe gravissimo.

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foto e testi

Horst Wackerbarth

Seduti Sono passati ormai più di trent’anni da quando un divano rosso mi ha preso in ostaggio. Ho percorso più di cinquecentomila chilometri con questo divano e con l’equipaggiamento necessario – un banco ottico 8x10, una luce Arri e una videocamera. Finora più di settecento persone di 52 Paesi hanno accettato di farsi fotografare sul divano rosso e di rispondere alle mie domande universali in 53 lingue diverse. Più che un fotografo, mi considero un collezionista di esseri umani. Il divano rosso è il comune denominatore, il filo conduttore, il palco, il trono, la piattaforma di comunicazione, l’elemento che accomuna tutti gli ospiti, ponendoli tutti sullo stesso piano. Nella maggior parte dei casi sono stati ritratti nel milieu che più li caratterizza e che più rivela della loro personalità. Il risultato è una varietà impressionante di contesti e significati. Uomini e donne, giovani e anziani, ricchi e poveri, famosi e sconosciuti, premi Nobel e analfabeti, seduti su quel divano, ciascuno a sottolineare l’appartenenza alla stessa umanità. Dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti, andai a New York con il mio amico americano Kevin Clarke. Vivevamo nell’atelier del pittore Russell Maltz. Dormivo nel mio sacco a pelo su un vecchio divano che gli avevano lasciato i suoi genitori. Era rosso, di un rosso luminoso, non passava inosservato in un loft tutto bianco come la neve. Un giorno trasportammo il divano in una piscina vuota per una performance artistica. Per strada, in Crosby Street a Soho, più o meno casualmente cominciai a fotografarlo. Per il divano fu l’inizio di un viaggio molto più lungo nello spazio e nel tempo. Molti mi chiedono quanti divani ho consumato da allora e quanti ce ne sono in circolazione. C’è sempre e solo un divano in circolazione. Tre sono andati persi; uno si è inabissato nel Pacifico in seguito a una manovra audace della nave che ci trasportava; uno ha preso fuoco e un altro è stato inavvertitamente scambiato per rifiuto ingombrante dalle maestranze di una sala espositiva ed è finito in discarica. Quello attualmente in uso risale al 1996 ed è quindi quello su cui si sono accomodate più persone. È stato ritappezzato regolarmente ed è stato completamente rimesso a nuovo due volte, dopo il mio tentativo di mettere in posa dei leoni e degli orsi bianchi. L’intero progetto Divano rosso – settecento scatti – è composto da tredici sottoprogetti che hanno avuto bisogno di grandi finanziamenti. I costi di viaggio, trasporto e produzione sono esorbitanti. Un altro problema che si pone nel caso di progetti a lungo termine è la necessità di tenere sempre alta la motivazione per dare continuità a un’opera che sia innovativa – da un punto di vista estetico e di contenuto – e non ripetitiva.

Tre fasi, in particolare, hanno permesso a questo lavoro di evolversi: il primo sottoprogetto A Portrait of America (dal 1979 al 1984, in collaborazione con Kevin Clarke) è puramente fotografico e va alla ricerca di tutte le facce della nazione americana, dai neri ai nativi, dai latinos agli asiatici, ai discendenti dei popoli europei. Con il sottoprogetto A Portrait of Europe (dal 1995 al 2004), sulla spinta della globalizzazione e della rivoluzione digitale, ho deciso di porre ai protagonisti domande universali, esistenziali, registrando le interviste con una telecamera. Sempre le stesse domande, che però si prestano alle risposte più diverse, quelle di un bambino come quelle di un premio Nobel. Da quel momento il progetto è diventato anche una videoinstallazione. Per il sottoprogetto Here & There (dal 2008 al 2011), invece, ho scelto per la prima volta un tema: migrazioni globali e integrazione. Le foto precedenti mostravano il singolo individuo con il divano come palcoscenico. Here & There invece è composto soprattutto da foto di gruppo, o di coppie di persone che nella vita normale non si sarebbero mai incontrate, per esempio l’amministratore delegato di una multinazionale con l’apprendista marocchino che ha abbandonato la scuola dell’obbligo. Qui il divano diventa più che altro una piattaforma di comunicazione. Sono stato influenzato e ispirato da diverse opere e artisti: Antlitz der Zeit (Volti di questo tempo) di August Sander, Worlds in a Small Room (Mondi in una piccola stanza) di Irving Penn e dal concetto artistico allargato di scultura sociale di Joseph Beuys. Per Beuys non conta l’oggetto d’arte in quanto tale, ma la relazione che si crea tra l’opera e i processi della società. Quando porto il cardinale dell’Honduras in una moschea in mezzo a una folla di musulmani o quando faccio sedere vicini una poliziotta tedesca di origini turche e un ultrà di origini italiane durante un derby, faccio scaturire una reazione, un discorso, un dialogo, un’interazione sociale. Lo scopo del progetto è quello di dare forma a un’antropologia del Ventunesimo secolo, raccontata dai protagonisti stessi. Sicuramente continuerò questo progetto fino alla fine dei miei giorni. E poi, quando il mio corpo sarà sottoterra mangiato dai vermi, queste fotografie rimarranno. Questo pensiero, sinceramente, mi sembra piuttosto sexy. Düsseldorf, giugno 2012

E


sul sofĂ

Thingvellir Crepaccio sulla dorsale che separa la placca continentale nordamericana da quella euroasiatica. Thingvellir, Islanda, 2003


Frank Fools Crow Uomo di medicina degli Oglala Lakota. South Dakota Badlands, Stati Uniti, 1983


Klara I. Sigurdadottir Studentessa e guida turistica. Jökulsárlón, Vatnajökull, Islanda, 2003 Klara Sigurdadottir, 20 anni, frequenta le scuole superiori a Reykjavík. Nei mesi estivi accompagna i gruppi di turisti attraverso gli iceberg e i blocchi di ghiaccio della laguna Jökulsárlón, lunga 21 chilometri e profonda 200 metri. A Klara piace il suo lavoro, soprattutto perché le permette di entrare in contatto con persone di provenienze e culture diverse. Per cosa vale la pena vivere? Fare della vita il meglio che si può. E poi, viaggiare all’estero. Che cosa non ti piace della vita? I cattivi umori. Qual è la tua idea di felicità? Il momento in cui è nata mia sorella. Qual è la tua idea di infelicità? La morte di mia nonna. Ero molto triste. Vorrei che un momento simile non ricapitasse mai più.

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Qual è il tuo più grande errore? Non mi viene in mente. Forse anche perché preferiamo non ricordarceli. Che cosa ti fa paura? I ragni e i serpenti. Se potessi scegliere, chi o che cosa vorresti essere? Vorrei essere una tigre. Sono così belle. Che significato hanno per te gli animali e le piante? Gli animali sono miei amici ed è per questo che non mangio carne. Non si mangiano i propri amici, no? Secondo te chi ha creato l’universo? Gesù Cristo e Dio, suo padre. Vado in chiesa tre volte al mese. Che cosa ti aspetti dopo la morte? Una nuova vita. Lo spirito continuerà a vivere in un mondo più bello.


Guoqian Lin e Chang Chao Li Corrieri in bicicletta. Jiang’an, Wuhan, Hubei, Cina, 2009 Guoqian Lin, 47 anni, è un lavoratore migrante cinese. Con il suo amico Chang Chao Li, 46 anni, si guadagna a fatica da vivere trasportando merci con un risciò. Qui e là? Sono venuto in città dal mio villaggio per contribuire allo sviluppo economico della Cina. Qui la paga e il tenore di vita sono più alti. Per cosa vale la pena vivere? Guadagnare un po’ di soldi tutti i giorni per dare alla mia famiglia la possibilità di una vita migliore. Per cosa non vale la pena vivere? Non avere i soldi. Felicità? Quando andai in riva al fiume a vedere i fuochi d’artificio in occasione del sedicesimo anniversario della Repubblica popolare cinese.

Infelicità? Non esiste. Non c’è bisogno di parlarne. Paura? Non ne ho. Abbiamo un grande governo in Cina, quindi non abbiamo nulla da temere. Desiderio? Mi basterebbe avere una vita più gradevole quando sarò anziano. Cambiamento? Vorrei essere una pianta che rende la vita più bella. Universo? L’uomo ha creato il mondo. Morte? Rimpiangerei di non aver fatto abbastanza per il Paese e per la prossima generazione della nostra nazione cinese.


Hans Dawidzinski Operaio specializzato della Thyssen-Krupp. Duisburg, Germania, 2009 Hans Dawidzinski, 47 anni, vive a Duisburg e lavora come operaio alle acciaierie Thyssen-Krupp. È nato in Alta Slesia, Polonia, ed è arrivato in Germania nel 1977 per ricongiungersi con il resto della sua famiglia. Qui e là? La differenza tra l’Alta Slesia e Duisburg sta nella mentalità della gente. La vita in Polonia era molto più caotica e più ostica. Ma forse era dovuto alla situazione economica di allora. Ora è tutto cambiato nel mio Paese d’origine, purtroppo non solo in meglio. Hanno accantonato l’umanità, ma il benessere è più diffuso. Per cosa non vale la pena vivere? Che il mercato sia la priorità. Non sono certo ingenuo, i soldi sono importanti, ma mi pare che tutto ruoti intorno ai soldi. E questo mi disturba. Felicità? La nascita di mio figlio. Prima, mia moglie ne aveva perso uno. La sua nascita quindi è stata un dono. E io ho pianto di gioia.

Paura? La mia più grande paura è quella di restare da solo. Lo vedo nei miei genitori: i loro amici sono sempre meno e si sentono soli. Cambiamento? Vorrei essere un politico potente mentre annnuncia la pace in tutto il mondo. Universo? Sicuramente non è stato Dio. Anche se vado in chiesa, la mia immaginazione non si spinge fino a credere che Dio abbia potuto creare qualcosa come l’universo. Morte? Non ci penso. Voglio vivere, poi sarà scritto un nuovo capitolo. Qualsiasi cosa succeda, non dipenderà da me.

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Dariusz Kloskowski Polacco, lavoratore del porto. Virgilio Portsmouth, Gran Bretagna, 2010 Dariusz Kloskowski, 35 anni, polacco, lavora per la MMD Shipping Service, una società di proprietà della Città di Portsmouth che gestisce la logistica del 70 per cento dell’importazione di banane in Gran Bretagna. Virgilio Quintana, 42 anni, viene dalle Filippine. È nato in un villaggio, ma ora vive a Manila. È un ufficiale di bordo della olandese Benguela Stream. La nave trasporta banane dall’America Centrale a Portsmouth. Qui e là? Kloskowski: Sono venuto in Inghilterra cinque anni fa perché in Polonia ero disoccupato. Qui ho un buon lavoro e guadagno bene: è una vita facile, così ho deciso di restare. Carico e scarico le banane. Quintana: Di solito lavoro sulla nave per nove mesi di fila. Mia moglie e i bambini capiscono perché dobbiamo stare lontani così a lungo. La vita in mare è bella. Con le onde alte è anche avventurosa. Per cosa vale la pena vivere? Quintana: Imparo un sacco di cose, soprattutto a bordo. Siamo una piccola comunità e ognuno è il capo di se stesso. Per cosa non vale la pena vivere? Kloskowski: Quando devi fare un lavoro duro, senza mai fermarti.

Quintana Filippino, primo ufficiale della nave Benguela Stream.

Felicità? Kloskowski: Quando vado in Polonia a trovare i miei figli. Purtroppo succede solo due o tre volte all’anno. Infelicità? Kloskowski: Se sono stressato o se ho problemi di soldi. Se hai abbastanza soldi non hai problemi. Quintana: Non mi piace piangere. Sono un ragazzo felice, riesco davvero a ridere per le piccole cose. Paura? Quintana: La mia più grande paura è quella di perdere il lavoro. Voglio continuare a lavorare, perché questa è l’unica fonte di guadagno per la mia famiglia. Desiderio? Kloskowski: Se avessi molti soldi, prima di tutto mi piacerebbe comprare una casa grande e poi forse una bella macchina, magari una Bmw. Mi piacciono le Bmw. Morte? Quintana: C’è una vita dopo la morte. Bisogna comportarsi bene sulla Terra per conquistarsi il Paradiso. Cosa pensi di chi ti siede accanto? Kloskowski: È un bravo ragazzo. Non ho problemi con le persone diverse da me. Mi piacciono tutti. Quintana: È un buono, penso, quando lo guardo. Sì, è davvero buono.


Craig Robins Immobiliarista e collezionista d’arte. Miami Design District, Florida, Stati Uniti, 2008 Craig Robins è immobiliarista, costruttore edile e collezionista d’arte. È considerato “l’artefice” del Design District di Miami, un tempo quartiere decadente, nel quale sono stati aperti ristoranti, gallerie d’arte, boutique e case di lusso. Per cosa vale la pena vivere? Mi piacciono la gente, l’arte e la natura. Per cosa non vale la pena vivere? La crudeltà. Felicità? Mi sento felice quando mi sento connesso alle persone o quando lavoro a progetti interessanti. Mi sento particolarmente bene quando capisco che sto facendo progressi, che sto dando un contributo al mondo. Spesso questa sensazione ha a che fare con l’innovazione.

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Infelicità? Per me, l’infelicità è essere solo. Paura? La mia più grande paura è smettere di innovare e diventare insensibile. Desiderio? Una vita in armonia. Cambiamento? Sono contento di essere me stesso. Universo? Penso sia troppo infinito per me per spiegarlo o capirlo. Morte? È una transizione.


Rolf tedesco, Mike tedesco-canadese, Tino di origini italiane, Norbert e Mariusz di origini polacche. “Fat Mexican” Bandidos Chapter Duisburg. Duisburg, Germania, 2010 Mike e Rolf sono i membri tedeschi del Bandidos Motorcycle Club di Duisburg. Qui parlano anche a nome degli altri “fratelli” ritratti sul sofà. La struttura dei Bandidos è gerarchica: si parte come “supporter” o “hanger on” per poi diventare “prospective” (candidato), “probationer” (Bandido in attesa di approvazione) e infine “1%er” (membro). La foto è stata scattata di fronte al Fat Mexican, la loro sede. L’edificio è finito sui giornali l’8 ottobre del 2009, quando il Bandido Eschli è stato ucciso lì di fronte da un avversario. Qui e là? Mike: Siamo nel nostro quartier generale, il Fat Mexican, che prende il nome dallo stemma che indossiamo sulle giacche. Questo simbolo arrivò in Europa nel 1989 attraverso i nostri fratelli di Marsiglia. Da allora abbiamo raggiunto la Scandinavia negli anni Novanta e la Germania nel 1999. E la nostra espansione non è finita qui. Rolf: Il Bandidos Motorcycle Club è stato fondato in Texas nel 1966 da un ex marine: ecco perché i nostri colori sono il rosso e l’oro. La società ci definisce una sottocultura, termine che per me non vuole dire niente. Ci definiscono così per sottolineare che ci posizioniamo deliberatamente al di fuori della società. È un’opinione che non riesco a comprendere. Siamo persone come

tutti gli altri. Lavoriamo, festeggiamo, soffriamo. Per cosa vale la pena vivere? Rolf: Apprezzo la vita stessa, il fatto di poter vivere su questa Terra, di aver ricevuto dai miei genitori il dono della vita. Spero in una vita lunga e sana e vorrei morire con dignità da vecchio. Per cosa non vale la pena vivere? Mike: L’eterna ricerca di soldi per sopravvivere. Felicità? Rolf: 1 giugno 1989, il giorno in cui ho sposato la mia meravigliosa moglie. Infelicità? Mike: Forse il giorno in cui morirò. Cambiamento? Mike: Vorrei essere il ministro degli Interni per un periodo. Rolf: Vorrei essere la Piramide di Cheope. Universo? Una grande, enorme, potenza, credo, ma non certo Dio. Morte? Mike: La mia speranza, ovviamente, è quella di andare in moto per l’eternità insieme ai miei fratelli scomparsi. Ma in realtà credo che si chiuderà il sipario e sarà tutto finito.


No Border Attivisti e rifugiati dall’Africa. Africa House, Calais, Francia, 2010 Tre attivisti di No Border dividono il divano rosso con tre migranti africani. Per proteggersi hanno deciso di coprirsi il volto. No Border è una organizzazione non governativa convinta che le frontiere dovrebbero essere abolite. I rifugiati dall’Africa, soprattutto dalle zone del conflitto Sudan-Darfur, vivono in una vecchia fabbrica che la gente di Calais chiama “Africa House”. Qui e là? Attivista di No Border: A Calais lo Stato francese ha rafforzato i controlli alla frontiera in modo crudele. I migranti sono soggetti a un’estrema forma di repressione, soprattutto da parte della Crs, le forze speciali della polizia. Cerchiamo di disturbare l’attività della Crs, insieme ai migranti, per contrapporci a quello che gli sta succedendo. Siamo impegnati in altre attività solidali, come la distribuzione di cibo e vestiti, e non siamo gli unici a farlo. La differenza tra No Border e altre organizzazioni è la nostra resistenza all’oppressione dello Stato francese. Questa mattina, per esempio, mi sono svegliato alle sette mentre la polizia si stava avvicinando. Siamo usciti per affrontare la polizia. Per le due ore successive, hanno cercato di arrestare chi non era in possesso di documenti. I dipendenti comunali volevano disfarsi dei letti. Tre dei nostri membri sono stati arrestati per aver opposto resistenza o per essersi rifiutati di abbandonare l’Africa House.

Per cosa vale la pena vivere? Per me la lotta è un aspetto essenziale della vita. Attraverso questa lotta incontro persone che mi ricordano che cos’è l’umanità. Ma, al momento, trovo che la vita sia emozionalmente difficile per il contesto in cui mi trovo. Per cosa non vale la pena vivere? Il conflitto sociale e lo sfruttamento sociale. Ce n’è molto nel capitalismo. Ne siamo sopraffatti a volte perché è una logica che pervade tutto. Viviamo il conflitto sociale in così tanti aspetti della vita – non solo con la polizia – che sembra che tutta la vita sia un conflitto. Infelicità? La mia situazione personale è sopportabile e serena. La mia infelicità deriva dal vedere la sofferenza di altre persone. E mi rendo conto che il nostro benessere materiale si basa sulla sofferenza di altre persone. Cambiamento? Vorrei essere più forte e più rilassato. Universo? Non credo che qualcuno lo abbia creato. Un mio amico dice: «Credo nella scienza», frase che secondo me non è completamente vera, ma che rispecchia la mia visione scientifica della creazione. Messaggio al pubblico? Credete che un mondo senza frontiere sia possibile?


Bruce Denton Conducente di muta di cani da slitta. Eagle Crest, Alaska, Stati Uniti, 1984

Disoccupati Chicago, Illinois, Stati Uniti, 1983


Barbara Gladysch Attivista per i diritti umani e dei bambini. Qui, in rappresentanza dei rifugiati ceceni. Duisburg, Germania, 2009 Barbara Gladysch, 69 anni, è una pacifista tedesca. È la fondatrice di Mütter für den Frieden (Madri per la pace). Dal 1997 si è dedicata soprattutto ai bambini e profughi ceceni. In questa foto Barbara Gladysch rappresenta i rifugiati ceceni che, per paura di rappresaglie e persecuzioni in Cecenia e in Germania, hanno preferito non partecipare al progetto. Qui e là? Quest’anno sono andata in Cecenia per la ventiduesima volta. Ci vado sempre perché ci sono bambini, ormai teenager, che hanno vissuto due guerre e ne soffrono ancora adesso. Con l’aiuto di amici sono riuscita ad aiutare questi ragazzi. E loro mi aspettano! Quando sono in Cecenia mi vesto come una waynaschka (così sono chiamate le donne della mia età), in modo da passare inosservata. Le donne indossano sempre vestiti scuri, gonne lunghe e un velo che nasconde completamente i capelli. Ho comprato questo vestito tre anni fa in un mercato a Grozny. Non so se per caso o per destino, sono andata per la prima volta in Cecenia con le madri dei soldati russi nel 1996. E, una volta lì, ho capito che sarebbe stato per sempre. Quel Paese è dentro di me. C’è molto da fare e questo mi dà gioia. Per cosa vale la pena vivere? I bambini.

Per cosa non vale la pena vivere? Violenza, potere e vanità. Felicità? Un attimo fa, quando il mio nipotino di due anni e mezzo è corso tra le mie braccia e mi ha chiamato «nonna». Infelicità? Ogni volta che ho portato mio figlio maggiore, che è autistico, in un ospedale psichiatrico. Sapevo che non ci avrebbe portato da nessuna parte. Paura? Non ho paura di niente. Desiderio? Dare speranza, fiducia e gioia a molte persone e contagiarle con la mia assenza di paura. Cambiamento? Voglio essere me stessa. Universo? Non lo so e non devo saperlo. Non me ne può importare di meno. So che c’è e che dobbiamo trattarlo con cura. Ne siamo responsabili. Non penso sia importante sapere se ci sia un dio. Io credo in Dio, ma non dico sia necessario. Morte? Finalmente la possibilità di riposare in pace.


Mikhail Gorbaciov Ultimo presidente dell’Unione Sovietica, nel cantiere del Museo della Perestrojka. Mosca, Russia, 1998


Mikhail Gorbaciov è nato nel 1931 nel Caucaso, Russia meridionale. I suoi genitori, nonni e bisnonni erano tutti contadini, per cui fin da giovane è stato abituato a lavorare nei campi. È andato a scuola e poi all’università. Dopo gli studi si è dedicato alla politica per quarant’anni. Ha cominciato con un ruolo minore nell’organizzazione giovanile del Partito ed è finito a capo dell’Unione Sovietica. Nel 1991 ha dovuto lasciare l’incarico a causa dei drammatici eventi che hanno investito Mosca: il crollo dell’Unione Sovietica e la fine della Perestrojka. Per cosa vale la pena vivere? Devi lasciare qualcosa dietro di te, lasciare qualcosa nella mente e nel cuore delle persone, qualcosa per le generazioni future. Magari la tua esperienza gli sarà utile. Potrà sembrare presuntuoso, ma penso che funzioni così. Ed è questa prospettiva che rende le persone più magnanime, più responsabili del proprio comportamento. Perché non devi soltanto assumerti la responsabilità dell’oggi, ma vuoi lasciare traccia nelle menti dei tuoi figli e dei tuoi nipoti. Se non c’è memoria, non hai vissuto come un essere umano.

Qual è la tua definizione di felicità? La più grande felicità è vivere. Vivere ed essere capiti, ed essere utili agli altri. Non puoi essere felice se nessuno ha bisogno di te. Ma la cosa più importante è questa: sarai sempre infelice – anche se hai tutto il resto – se non vivi la grande passione, la grande emozione dell’amore. Amore per una donna, per i figli, per la Terra, amore per il tuo Paese. Se hai tutto questo, e se puoi fare qualcosa di cui le persone ti saranno grate, allora sarai doppiamente felice. Qual è la cosa più interessante che ti sia mai capitata? Ci sono stati tre momenti della mia vita veramente speciali. La felicità di quando, dopo che ci avevano detto che mio padre era morto al fronte, lo abbiamo visto tornare vivo. La felicità di quando ho incontrato Raissa, mia moglie, a diciotto anni. Siamo stati insieme tutta la vita. Ed è stata il mio amico più caro. Infine, l’evento che mi ha fatto diventare leader di un grande Paese, nel quale ho potuto cominciare a mettere in atto la mia visione e i miei programmi in una cornice di maggiore libertà, democrazia e umanesimo. Qual è la cosa peggiore che ti sia mai capitata? Un momento veramente infelice è stato il più difficile per le riforme. Pensavamo di aver sconfitto l’opposizione e di poterci avviare verso una nuova fase di riforme negli anni della Perestrojka. Improvvisamente ci fu il colpo di Stato (agosto 1991, con il mio arresto nella dacia di Foros, in Crimea) ed è finito tutto. È stato un momento estenuante, non solo a livello personale, ma un disastro per il popolo in generale.

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Yehudi Menuhin Violinista e direttore d’orchestra, mentre legge una partitura di Bach. Rainham, Essex, Gran Bretagna, 1998


Yehudi Menuhin, nato nel 1916 a New York e cresciuto a San Francisco, fin da piccolo ha entusiasmato il pubblico con i suoi virtuosismi al violino. A dodici anni ha tenuto un leggendario concerto alla Berliner Philarmonie che si è concluso con una standing ovation. «Adesso so che c’è un Dio in paradiso», avrebbe commentato Albert Einstein. Menuhin fu il primo artista ebreo a esibirsi a Berlino dopo la guerra, nel 1947, come segno di riconciliazione. Si è sempre considerato un difensore delle minoranze. Nel marzo del 1999, l’anno dopo questa intervista, è morto a Berlino durante una tournée. Che cosa non ti piace della vita? La vita sarebbe invivibile se mi trovassi nell’impossibilità di essere utile a qualcuno. Sento che gli altri esseri viventi sono essenziali per me. Penso che dipendiamo tutti dagli altri. Abbiamo anche una spinta e un’idea di indipendenza, certo, ma è importante capire quanto dipendiamo dagli altri. Qual è la tua idea di infelicità? L’assenza di speranza e il fatto di non poter essere d’aiuto. Qual è la cosa peggiore che ti sia capitata? La morte di nostro figlio. Qual è il tuo più grande auspicio? Che gli esseri umani alla fine imparino dai propri errori. Che cosa significa l’amore per te? Direi che l’amore è l’elemento che tiene insieme la vita. È ciò che ci lega all’altro, all’eternità, al futuro, al passato. L’amore è fatto di interessamento, solidarietà, curiosità, desiderio di proteggere, desiderio di imparare. È un’emozione completa. Secondo te chi ha creato l’universo? Credo che l’essere umano appartenga all’intero universo, abitato dall’eterno e dall’infinito. Non posso sapere, nessuno sa, com’è cominciato e come finirà, sempre che abbia un inizio e una fine. È impossibile dirlo. Ma sono certo che ci siano un’intelligenza universale, o un’energia universale, una coscienza e una consapevolezza universali di cui siamo tutti parte. Che cosa ti aspetti dopo la morte? Per me la morte fa parte della vita. Non ci sarebbe vita senza la morte. È parte della nostra continuità. Se una parte di noi dovesse sopravvivere, se una parte della nostra coscienza dovesse sopravvivere, sarebbe in ogni caso un’avventura nella continuità. Credo che tutti noi dobbiamo ritornare a qualcosa che eravamo.

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Mark Buckley e Mr. Clucky Animalista. Miami, Florida, Stati Uniti, 2008 Mark Buckley, di Miami Beach, è un bon vivant e un animalista. Il suo galletto, Mr. Clucky, è il suo migliore amico. L’ha trovato tra i cespugli, gravemente ferito dalla lama di un coltello, probabilmente durante un rito Voodoo. Quando Clucky si è ristabilito, Mark ha deciso di portarlo sempre con sé sulla sua bici. I due sono diventati media celebrities. Per cosa vale la pena vivere? Probabilmente è meglio che essere morti. Per cosa non vale la pena vivere? Non mi piace vedere la sofferenza. Felicità? Mi piace stare nella natura selvaggia. In particolare sulle spiagge dove non ci sono altre persone, con il bel tempo. Infelicità? La sofferenza mi rende infelice. Le immagini di guerra e le condizioni di quei luoghi. Paura? Non ho esperienze di cui ti voglia parlare.

Cambiamento? Non l’ho mai preso in considerazione. Forse vorrei essere qualcuno migliore di me. Universo? Mr. Clucky ha creato l’universo. Ne sono quasi certo. Morte? Quando avevo diciotto anni ho preso la polmonite e ho rischiato di finire ne2ll’aldilà. Sono tornato indietro, ma sono stato male per anni. Sono cose che succedono.

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Piefke e tre leonesse Zoo di Duisburg. Duisburg, Germania, 2009


Cessate il fuoco a cura di

Lorenzo Bagnoli

Cessate il fuoco è l’osservatorio mensile delle vittime dei conflitti nel mondo. I dati, che si riferiscono al periodo dal 4 maggio al 3 giugno, vengono raccolti da organizzazioni umanitarie o da fonti giornalistiche e quindi non potranno essere esaustivi. Le notizie sui conflitti in tempo reale su: www.eilmensile.it

Repubblica Democratica del Congo

Sono circa 65 le vittime dell’attacco delle Forze democratiche di liberazione del Ruanda (Fdlr) al villaggio di Kamananga, nella provincia del Sud Kivu. L’attacco è cominciato nella notte tra il 13 e il 14 maggio, a tre chilometri dalla base operativa della Monusco, la missione delle Nazioni unite in Congo. L’ong Eredi della giustizia ha diffuso un elenco con i nomi di 15 dispersi. Finora sono stati identificati e sepolti in una fossa comune 31 cadaveri. Il giorno dopo il massacro, la popolazione di Kamananga ha protestato contro i Caschi blu, accusati di proteggere i carnefici invece che il villaggio. Durante la manifestazione, undici militari pakistani della Monusco sono rimasti feriti, sette dei quali in modo grave.

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Messico Colombia

Siria

3 7 20 207 12 144 196 2 188 117 3

Egitto Algeria Libia Somalia Etiopia Sudan Nigeria Senegal Rep. Dem. Congo Mali Rep. Centrafricana

Il 25 maggio a Houla, venti chilometri a nord di Homs, sono state uccise 108 persone, di cui la metà bambini. Il massacro non ha ancora un colpevole. Secondo l’Onu, i responsabili sono i soldati dell’esercito di Bashar al Assad, insieme ai miliziani Shabiha (“fantasmi” in arabo), guerriglieri in abiti civili che uccidono chi si oppone al regime. Damasco ha risposto con una controperizia in cui attribuisce la strage a terroristi legati ad al Qaeda. Una posizione che si giustifica con i riscontri medici eseguiti dall’Onu, secondo cui la maggior parte delle vittime è stata uccisa nelle proprie abitazioni e non dai bombardamenti. Non è d’accordo Human Rights Watch: «Ci sono elementi evidenti che suggeriscono il coinvolgimento delle forze proregime nel massacro», ha dichiarato Sarah Leah Whitson, responsabile dell’ong per l’area mediorientale.


Myanmar

Non c’è tregua nel conflitto tra il governo centrale birmano e i guerriglieri del Kia, l’Esercito indipendentista del Kachin. Il 15 maggio nel distretto di Kyaukme, nell’Est del Paese, in uno scontro a fuoco durato diverse ore sono morti quattro soldati dell’esercito di Rangoon. Testimoni hanno raccontato al sito Kachin news che i feriti sono almeno una decina. Il Kia ha occupato militarmente queste zone per impedire che il governo centrale realizzi lo Shwe gas project. L’opera, più di duemila chilometri di oleodotti e gasdotti, dovrebbe permettere il trasporto di gas e petrolio da Kyaukpyu, nel Golfo del Bengala, alla regione dello Yunnan, in Cina.

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Iraq Israele Palestina Nord Caucaso Turchia Siria Yemen

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Roberto Schmidt [getty images]

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Afghanistan Pakistan Myanmar India Thailandia Filippine

La mattina del 30 maggio, alle sette, una bomba è esplosa a Galkayo, nello Stato centrosettentrionale di Mudug. L’ordigno ha ucciso quattro agenti di pattuglia nel quartiere di Garsoor. Tra i feriti, in totale una ventina, si sono contati alti ufficiali delle forze dell’ordine locali e diversi passanti. L’esplosivo si trovava addosso al corpo di un uomo, ucciso poco prima dei fatti da due agenti per non aver rispettato un posto di blocco mentre viaggiava in auto. Insieme a lui, si trovava anche un complice, che è riuscito a fuggire. Forse è stato quest’ultimo ad azionare l’ordigno a distanza, nel momento in cui le forze dell’ordine si sono avvicinate al cadavere del compagno.


Una vita difficile di

Michele Primi

foto

Mattia Insolera

«Siamo come fantasmi. Viviamo senza mai lasciare entrare nessuno nella nostra vita privata, altrimenti siamo costretti a mentire». Gavril Nikolaev ha ventisette anni e viene dalla repubblica di Sakha, una provincia asiatica della Russia. Dopo la laurea si è trasferito a San Pietroburgo e lavora come direttore vendite in una ditta di abbigliamento. Il suo capo è uno dei pochi ai quali ha detto di essere gay: «Non avrei mai pensato di venire a vivere in una grande città e non avrei mai pensato di fare coming out. Mia madre ha scoperto la mia omosessualità sentendo per caso una mia telefonata ed è rimasta scioccata. Mio padre ha ascoltato, ma è come se non avesse recepito

l’informazione. E io me ne sono dovuto andare». Storie di omosessuali in un Paese omofobo. Nella mappa di Rainbow Europe che monitora la situazione legislativa nei confronti della comunità Lgbt (lesbo, gay, bisessuale e transgender) europea, la Russia è in una zona rossa insieme ad Armenia, Georgia, Turchia e Cipro. Non c’è il riconoscimento legale delle coppie dello stesso sesso e le manifestazioni pubbliche sono proibite. La situazione peggiore è in Moldavia, Bielorussia e Ucraina, ma nella Russia che si affaccia sull’Europa, l’omofobia è un nemico nascosto, che sembra imbattibile. L’alimentano il nazionalismo e il fanatismo religioso, ma anche la mentalità comune e l’eredità del-


Nella Russia di oggi, come ai tempi dell’Urss, per gli omosessuali la strada è piena di tranelli, insidie e discriminazioni. Il governo, la polizia, i nazionalisti, i datori di lavoro, e anche alcune famiglie, impediscono ogni giorno a tante coppie gay di godere degli stessi diritti degli etero. Ma c’è chi, nelle organizzazioni Lgbt, non si arrende ai soprusi la legislazione sovietica, secondo la quale fino al 1993 l’omosessualità era considerata non solo un reato, ma anche una malattia. «La Russia non è un Paese democratico. Le leggi contro la discriminazione delle minoranze ci sono: l’articolo 282 della Costituzione vieta l’istigazione all’odio nei confronti di qualsiasi gruppo sociale. Ma nel caso degli omosessuali queste leggi non vengono applicate».

Rock contro l’omofobia

Polina Savchenko è una delle organizzatrici di Coming Out, un’associazione che dal 2008 organizza QueerFest, il primo festival di cultura gay di San Pietroburgo. Una settimana di incontri, dibattiti e conferenze e un solo evento pubblico, un concerto di gruppi rock che si esibiscono sotto uno striscione: “Stop homofobia.” Polina è cresciuta negli Stati Uniti, ma da cinque anni è tornata a vivere in Russia: «Preferisco battermi contro un problema nel mio Paese, piuttosto che non avere problemi in un Paese che non è il mio». Rappresenta una nuova generazione di omosessuali russi, che ha deciso di lottare per cambiare una situa-

Gli organizzatori del QueerFest di fronte alla chiesa del Salvatore sul Sangue Versato a San Pietroburgo. In primo piano, da sinistra: Sasha e Polina (le direttrici). In secondo piano: Mikhail (con la giacca rossa) e altri volontari


Lgbt in Europa Nella giornata internazionale contro l’omofobia, il 17 maggio, secondo molte associazioni, il bilancio in Europa delle leggi che proteggono la comunità Lgbt è positivo. Il matrimonio tra coppie omosessuali, approvato per la prima volta nei Paesi Bassi nel 2001, è diventato realtà anche in Belgio (2003), Spagna (‘05), Svezia (‘09) e Portogallo (‘10). Diverse forme di unioni civili tra persone dello stesso sesso sono riconosciute in Danimarca, Francia, Germania, Lussemburgo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Slovenia, Ungheria, Austria e Irlanda. L’adozione di figli da parte di coppie omosessuali è un diritto nei Paesi Bassi, Svezia, Spagna, Regno Unito, Belgio e Danimarca. Il Trattato di Amsterdam, entrato in vigore nel 1999, impone l’approvazione di specifiche leggi antidiscriminazione da parte dei Paesi che vogliono essere ammessi nell’Unione europea. Sentenze più dure per i crimini a carattere omofobo sono state approvate in Romania e Portogallo nel 2006 e 2007. In realtà l’omofobia continua a essere presente nei 47 Stati membri dell’Unione. Il segretario generale del Consiglio d’Europa Thorbjorn Jagland ha dichiarato: «Lesbiche, gay, bisessuali e transgender incontrano ancora barriere sociali nella maggior parte degli Stati membri. Questa disastrosa situazione non può rimanere insoluta in una società democratica». Jagland ha ribadito l’impegno del Consiglio per convincere i Paesi membri a rispettare gli impegni assunti con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Sei Stati hanno aderito alle nuove iniziative per sostenere i diritti delle persone Lgbt: Italia, Albania, Montenegro, Serbia, Lettonia e Polonia.

▶Sessione di tarocchi sull’identità femminile durante il QueerFest ▶▶Mikhail Belodedov e il suo fidanzato Maxim nel loro appartamento nella periferia di San Pietroburgo


zione apparentemente senza via di uscita. «In Russia le persone non hanno mai avuto la possibilità di pensare con la propria testa. La gente si sente sicura sotto un’ideologia. E il nazionalismo dà risposte facili». Il terreno su cui nasce l’omofobia, nella Russia del 2012, è un misto tra la politica dei conservatori di Edinaya Rossiya, il partito di Vladimir Putin (che intervistato da Larry King ha negato ogni discriminazione nei confronti dei gay nel Paese), il nazionalismo dei gruppi estremisti come il Russian Imperial Movement (che dal suo sito rivendica le aggressioni ai gay con lo slogan “Stop Sodoma”) e il controllo esercitato sull’opinione pubblica dall’organizzazione religiosa ortodossa Narodny Sobor, che da quattro anni cerca di impedire lo svolgimento del QueerFest. «Nel 2008 abbiamo organizzato il primo Lgbt Film Festival, ma i vigili del fuoco hanno chiuso la sede per ragioni di sicurezza», racconta Polina. «Abbiamo inoltrato una protesta ufficiale che è finita nel nulla. Le autorità evitano ogni forma di contatto diretto con noi. Cerchiamo di garantire l’applicazione di leggi esistenti, ma il divieto può arrivare da ogni parte. L’anno scorso è bastata una telefonata del Comitato per la Cultura per bloccare un evento. C’erano state le proteste di un’associazione di genitori. Ma dietro alle leggi ci sono le persone, e noi vogliamo provare a cambiare la mentalità delle persone». Mikhail Belodedov, assistente finanziario della rete Lgbt Network Russia e volontario presso Coming Out, vive con il fidanzato Maxim in un piccolo appartamento nella sterminata periferia di San Pietroburgo: «Il primo passo deve essere fatto dai gay stessi. Devono riconoscere di essere discriminati. Sono così abituati a nascondersi che non si rendono conto di quanto sia assurda questa situazione. Noi riusciamo a parlare solo con le autorità locali, senza mai arrivare ai membri del governo. Ma stiamo seguendo i passi fatti da altre comunità Lgbt in Europa, quindi ce la faremo».

Il niet dei nazionalisti

La situazione, però, appare difficile. Narodny Sobor raccoglie oltre duecento movimenti nazionalisti e religiosi dietro alla bandiera di “fede, famiglia, onore e tradizione” e ha portato un suo sostenitore, Georgii Poltavchenko, sulla poltrona di governatore di San Pietroburgo. Durante il governo Medvedev è stata promulgata nella città di Arkhangelsk una legge “contro la propaganda dell’omosessualità” che potrebbe essere estesa a tutto il Paese. È appoggiato da professori universitari, politici come Vasilij Duma (che ha detto: «L’omofobia è un invenzione dell’Occidente») o l’ex sindaco di Mosca, Yuri Luzhkov, persino dal cantante Boris Moiseyev, che nonostante sia dichiaratamente gay, a proposito dei tentativi falliti di organizzare un gay pride nella capitale ha detto: «Se la società si oppone, gli omosessuali non dovrebbero insistere».

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Un episodio di cronaca ha reso evidente questa situazione. Alcuni mesi fa, a San Pietroburgo, tre poliziotti in borghese sono entrati al Blue Oyster, uno dei due club gay della città. «Erano ubriachi e aggressivi, ma non sono venuti apposta». Vitaly, gestore del Blue Oyster dal 2009, parla perfettamente italiano e tenta di raccontare i fatti senza mettere a rischio la sua attività. I poliziotti hanno fatto irruzione nel club e hanno picchiato tutti, una brutale aggressione che è finita sulle pagine di cronaca dei quotidiani, ma che è rimasta impunita. «In questo Paese manca la cultura del dialogo – dice Vitaly – noi riusciamo a parlare solo con le autorità della nostra zona di San Pietroburgo. Non sono tolleranti, ci conoscono e ci lasciano in pace. Questa volta però i poliziotti erano di un’altra zona». Per fare fronte agli episodi di violenza, Coming Out ha creato un servizio di assistenza legale gratuita. L’obiettivo è raccogliere il maggior numero di casi e mettere insieme un dossier da presentare a Mosca. ▲Polina Savchenko durante il party di apertura del QueerFest ▲▶Due ragazze si baciano nella discoteca The Club ▶Serata nel bar gay Blue Oyster a San Pietroburgo. Nel 2011 il locale è stato oggetto di un attacco omofobo da parte di tre poliziotti in borghese

All’ombra della paura

In tre mesi di volontariato, l’avvocato Maria Kozloskova ha raccolto cinque casi. Sono quasi tutti frutto di lettere ed email anonime, perché nessuno ha il coraggio di presentarsi e di denunciare. Raccontano storie come questa: «David è un omosessuale di quarant’anni che è stato picchiato dal suo coinquilino – racconta Maria – l’appartamento è di proprietà del fratello, che ha sfrattato l’aggressore. David non è andato né all’ospedale né alla polizia, non ha prove e non può sporgere denuncia. Ma almeno è salvo». C’è anche la storia di una ragazza che ha divorziato dal marito ed è andata a vivere con una donna. Il marito, d’accordo con la famiglia di lei che la considera pericolosa, le impedisce di vedere il figlio: «Potrebbe ottenere facilmente la custodia del figlio – dice Maria – ma non intraprende un’azione legale. Ho cercato di convincerla a sporgere denuncia, ma non mi ha ascoltato. Spesso queste persone non hanno nemmeno il

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coraggio di incontrare la persona che li sta aiutando». La discriminazione sul lavoro è un altro problema. Il caso di Gavril, che ha trovato più comprensione sul lavoro che in famiglia, è un’eccezione. In Russia fare coming out può voler dire essere licenziati: «Trovano il modo di arrivare alla giusta causa», spiega ancora Maria Kozloskova. Alexandra R. (non vuole rivelare il cognome) ha trentasette anni e lavora in un’azienda farmaceutica. Ha un buono stipendio, un alto livello di istruzione e una bella casa in una zona residenziale della città. Vive insieme a Nadya P. e ai loro due figli, Vanya e Sasha, concepiti con l’inseminazione artificiale. «In Russia – racconta – c’è un problema di crescita zero, quindi se vai in una clinica privata nessuno ti chiede niente. Nelle strutture pubbliche invece accettano solo coppie sposate». In famiglia, la coppia di donne è stata accettata senza problemi, ma sul lavoro Alexandra dice che Nadya è sua cugina e che vivono insieme perché sono ragazze madri. «Il mio ruolo all’interno dell’azienda è molto rispettato e verrebbe compromesso dalle voci sulla mia omosessualità. È una questione di mentalità. La radice dell’omofobia è la stessa del razzismo: la paura. Credo che solo l’approvazione dei matrimoni gay potrebbe cambiare la situazione. In Russia si tende a pensare che se una cosa è legale, allora è normale».

Diritti soppressi

L’ultimo giorno del QueerFest, una telefonata aveva fatto salire la tensione. Una protesta dei cittadini minacciava di fermare il concerto previsto per la serata di chiusura. L’accusa è sempre la stessa: propaganda omosessuale. I ragazzi di Coming Out sono stati convocati dalla polizia. Alla fine il concerto si è fatto e i poliziotti che presidiavano la sala addirittura sorridevano mentre suonava un gruppo rock moldavo molto famoso. La strada per il riconoscimento dei diritti degli omosessuali, però, è ancora lunga. Coming Out continua la sua attività di supporto alla comunità Lgbt e il suo tentativo di cambiare l’opinione pubblica e fare azione di lobbying per arrivare a parlare con il governo. Riceve l’appoggio economico di Svezia, Olanda e Stati Uniti e cerca di sviluppare una struttura di piccole donazioni, rispettando ogni regola fino all’ultima virgola. Basta un errore per perdere lo status di associazione ufficiale e tornare in clandestinità. Polina Savchenko dice che la censura è ancora forte e che a volte si ha l’impressione di parlare con un soldato chiuso in un carrarmato: «Il governo vuole il controllo della popolazione, non una società aperta e tollerante. La nostra causa è molto impopolare, quindi non insegnano alla gente a non odiarci, dicono a noi di stare zitti. Ma con il QueerFest abbiamo ottenuto qualche risultato: molti cittadini hanno cambiato idea nei confronti degli omosessuali. In Russia tutto quello che è diverso fa paura, ma noi dobbiamo smettere di nasconderci. Dobbiamo mostrare il nostro volto, finché non saremo rispettati. C’è una nuova generazione più tollerante pronta a sostituire quella vecchia».

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parola mia

Stefano Squarcina

di

Patrizia Valduga

omofobia: nessun alibi

la donna e la femmina

Il tormentone è sempre lo stesso, ossessivo: «È l’Europa che ce lo chiede!». E allora vai con i tagli a deficit e bilanci, vai con lo smantellamento dello stato sociale e le riforme impopolari. Come potremmo – ci spiegano – contravvenire alle indicazioni dell’Unione europea? E allora sfidiamoli sul loro stesso terreno, vediamo quali scuse avanzeranno questa volta. Sì, perché adesso è il Parlamento europeo che chiede agli Stati Ue che non l’hanno ancora fatto, e l’Italia è tra questi, di “condannare con forza tutte le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere”, di “fare in modo che i diritti fondamentali di lesbiche, gay, bisessuali e transessuali (Lgbt) siano sempre rispettati garantendo appieno la loro protezione”, di “assicurare alle coppie dello stesso sesso il medesimo rispetto, dignità e protezione riconosciuti al resto della società”. La risoluzione di Strasburgo – approvata il 24 maggio scorso con 430 voti a favore, 105 contrari, 59 astenuti – spiega “che i diritti Lgbt sarebbero maggiormente tutelati se queste persone avessero accesso a istituti giuridici quali coabitazione, unione registrata o matrimonio”; ribadisce poi l’impegno dell’Europa a favore della non discriminazione e della lotta all’omofobia, assimilata a “razzismo, xenofobia, antisemitismo e sessismo”. L’Europa, insomma, chiede anche all’Italia di dotarsi di una legge per combattere l’omofobia e di mettersi al passo con la miglior civiltà giuridica. Il consenso è ampio, tant’è vero che la risoluzione è stata formalmente sostenuta anche dal Partito popolare europeo (Ppe), a dimostrazione di quanto la repressione dell’omofobia sia percepita come un valore comune in Europa. Ma ciò non è bastato agli italiani del Ppe: undici eurodeputati Pdl e Udc hanno votato contro il testo ignorando le indicazioni del loro gruppo, cinque si sono astenuti; altri quattro, invece, hanno votato a favore (Albertini, Antinoro, Iacolino e Mazzoni). Vediamola comunque in positivo: è la prima volta che il centrodestra italiano non vota in modo compatto su un tema sensibile come quello dell’omofobia. Chissà che il voto di Strasburgo sia foriero di un cambio di posizione in Italia, ce n’è davvero bisogno. Il Pd europeo ha sostenuto la risoluzione, anche se alla fine vanno segnalate le astensioni di Silvia Costa, Mario Pirillo e Vittorio Prodi, considerate da importanti esponenti dei socialisti europei “una vera sorpresa”. Peccato anche che nessun eurodeputato Pd abbia sottoscritto la risoluzione messa ai voti, eppure firmano sempre di tutto. Solo Gianni Vattimo e Sonia Alfano, dell’Italia dei valori, hanno voluto associare il loro nome a un testo significativo per la promozione dei diritti fondamentali. Caro Parlamento italiano, è l’Europa che te lo chiede, quanto bisogna aspettare ancora per avere una legge contro l’omofobia?

Che brutta parola la parola “femminicidio”: non mi piace perché non mi piace la parola “femmina”. In biologia la si usa per indicare l’animale destinato a partorire i figli o a deporre le uova, e in botanica per indicare la pianta che sa fare fiori solo di sesso femminile. Gli altri significati hanno una connotazione decisamente spregiativa: si riferiscono a veri o presunti difetti o debolezze della donna, oppure alla sua nuda e cruda sessualità. Si è detto per secoli: “essere vile, debole, curioso, come una femmina”, “commuoversi, disperarsi per nulla come una femminuccia”. Spero che non si dica più, oggi che sappiamo che “i due sessi dello spirito” (Jules Michelet) sono in ogni essere umano, e che il sesso maschile può essere altrettanto vile, debole, curioso, facile alla commozione e alla disperazione quanto quello femminile. Ma “femmina” sta soprattutto per “donna sessualmente desiderabile”, o “dedita ai piaceri erotici”, o “amante”, o anche “prostituta”, specie nelle locuzioni “malafemmina”, “femmina pubblica”, “femmina mondana”, “femmina da prezzo”, “femmina da mercato”, “femmina di malavita”, ecc. Insomma, ogni volta che, parlando di una persona di sesso femminile, si dice “femmina”, si sottintende una contrapposizione con la parola “donna”, che indica invece cose nobili, sensibilità, doti spirituali, dignità, e spesso anche un’alta condizione sociale. Mi riesce così molto difficile e quasi doloroso, per il fantasma di aggressività carnale e di sessualità animalesca che evoca, associare la parola “femmina” a quelle donne morte assassinate, assassinate proprio perché donne e non femmine.

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polis di

Enrico Bertolino

foto John Chillingworth [hulton archive/getty images]

autunno caldo, estate fredda Come se fossero ritornati improvvisamente di moda i maglioni peruviani, le espadrillas o i pantaloni a zampa d’elefante, questa estate inizia – come tanti anni fa – con le preoccupazioni per un autunno che definire caldo potrebbe essere molto riduttivo. Si va in ferie – chi ancora può chiamarle così, dato che per poterle fare si deve avere un lavoro – con l’incubo del ritorno a settembre. Fabbriche ricondizionate, smantellate o più semplicemente chiuse, lavoratori senza lavoro, senza liquidazione o ammortizzatori sociali ma soprattutto, ed è a mio avviso il pericolo più grande, senza speranze, progetti o sogni da realizzare. Il governo tecnico, come tutti i tecnici che conosco, dopo aver fatto il sopralluogo e stilato il preventivo senza passare per la consultazione del cliente, cioè noi, farà il suo lavoro e poi presenterà il conto con regolare fattura, ci mancherebbe. E non ci saranno sconti né passi indietro e persino il Gabibbo e le Iene non saranno in grado di fermarli, figuriamoci i partiti, o quel che ne resta, tra i banchi di una Montecitorio sempre più simile a un’arena spagnola dove, finite le corride, è scemato l’interesse, il toro è fuggito (anche da piazza Affari) e i toreri fingono schermaglie per poi ritrovarsi alla buvette e consolarsi a vicenda. La fine dei partiti, per come li conoscevamo, è stata preannunciata da segnali prima deboli, poi sempre più forti, tipo quelli che avvisarono i dinosauri nel Cretaceo della loro prossima estinzione. E proprio come per i dinosauri, invece di spostarsi nei luoghi più caldi, si azzannarono tra loro per poi finire mummificati nei musei. Tra qualche secolo forse anche i discendenti dell’italica stirpe, se ancora ce ne sarà una, potranno ammirare le mummie di Casini, Alfano e Bersani (Cab, più adatto ai temi di governo tecnico-bancario) nei musei di scienze naturali, oppure un Umberto Bossi conservato in formaldeide con a fianco il Trota, come dei fossili di un’era geologica più volte annunciata ma mai iniziata, l’era della Padania libera. Ricordo bene quegli anni in cui l’autunno caldo fungeva da efficace spauracchio, agitato a dovere da quel mostro a tre teste (Cgil, Cisl e Uil) che si muovevano in direzioni diverse, ma almeno insieme e attaccate a un unico corpo massiccio, quello degli operai e impiegati. Ebbene, quell’anatema scagliato sempre verso fine maggio/primi di giugno, spaventava la classe politica timorosa di perdere, con il voto, lo scranno e i privilegi, ma soprattutto dava il via alle negoziazioni che poi avrebbero spesso portato alla firma dei contratti nazionali appena in tempo per scongiurare lo scontro fra titani (industria e sindacati). Oggi lo scontro non è più fra titani, ma si svolge sul Titanic, ovvero in un Paese, inserito in un continente, che sta attraversando la tempesta più forte degli ultimi decenni e che in più si trova senza una classe dirigente di livello, senza un governo eletto dal popolo (e questo da molti anni) con una legge elettorale che il relatore della stessa definì da subito “una porcata”. Votandola comunque, dato che era per l’Italia, Repubblica della quale egli stesso fu senatore, e non per l’amata Padania, in quel simpatico coacervo di buone intenzioni e di minchiate solenni chiamato Federalismo e/o Stato celtico. Ora ci troviamo di fronte a un pericolo maggiore, perché più vicino e incombente dell’autunno caldo, ovvero l’estate fredda, e non solo per le temperature o le correnti d’aria dei Balcani (sempre responsabili di ogni disagio, un po’ come i comunisti per Berlusconi), ma per il vuoto partecipativo che ormai si dà per scontato, che però potrebbe rivelarsi determinante in caso di una necessaria ricostruzione del Paese. Non credo che durante il Rinascimento la gente comune fosse coinvolta più di tanto nelle decisioni più importanti, ma sicuramente non rimase lì passiva ad attendere che arrivasse il leader carismatico o il venditore di pozioni magiche, commentando lo spread che sale davanti allo spritz che scende.

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testo e foto

Tonino Sgrò

I figli del 88


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Sulle Serre calabresi, nel cuore di boschi di faggi e castagni, resiste un antico mestiere che chiede pazienza e precisione di gesti e che, dopo venti giorni di cure costanti, muta il legno in carbone


Serra, in questo dialetto aspro, vuol dire sega e serrari significa tagliare il legno. Serra San Bruno è un paese delle Serre calabresi, rilievi e colline a forma di sega come vuole il nome, zona di boschi, di lecci, di faggi, querce e castagni, a sud l’Aspromonte, a nord le foreste silane. La vita in queste montagne è legata a doppia mandata al bosco e perfino lo scontro tra alcune famiglie di ’ndrangheta ha preso il nome di “faida dei boschi”. Ogni angolo qui è pervaso dal rumore delle motoseghe che tagliano gli alberi per

produrre quel legname che poi finirà in parte ai mobilifici e, in parte, diventerà carbone. Dell’albero nulla si butta: ogni pezzo, dal tronco ai rami, ha una sua destinazione. La carbonaia è una di queste, la più antica, che risale addirittura ai Fenici, ma anche quella che rischia la scomparsa per l’enorme fatica umana che richiede. Solo un profondo legame, quasi ancestrale, ai luoghi ha impedito che anche questo lavoro fosse travolto dalla modernità, soltanto il passaggio tra le generazioni, di padre in


figlio, ha finora consentito la sopravvivenza di questo antico mestiere.

Un boscaiolo per famiglia

Da queste parti, in ogni famiglia, c’è un boscaiolo. Una volta era così anche per i carbonai. Oggi i pochi che sono rimasti sono contesi perché hanno in mano un mestiere che è una via di mezzo tra l’ingegneria e l’alchimia. È l’equilibrio perfetto tra precisione del disporre e pazienza del costruire che produce il mistero del

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fuoco che cuoce il legno, trasformandolo in carbone. Assistere al lavoro minuzioso dei carbonai che costruiscono dal nulla dei piccoli vulcani a forma di cupola richiama alla mente l’aggettivo certosino. Pazienza, solitudine, silenzio: tra le montagne è sorto un luogo dove, insieme alla preghiera, sono questi i fondamenti della vita. Poco distante vivono infatti i monaci della Certosa di San Bruno – una storia millenaria, un luogo di grande suggestione – che hanno sostituito la vita nel mondo con quella nella preghiera. E, come i


monaci che hanno la loro giornata scandita delle ore della preghiera, anche la vita dei carbonai è scandita dal controllo della cottura del carbone. E non può essere altrimenti data la grande difficoltà e fatica necessarie a costruire una carbonaia.

La sequenza dei gesti

Le azioni sono inderogabili. Dalla prima all’ultima, sempre le stesse, da generazioni. La legna viene scaricata dai camion su una piazzola e deve cadere in un

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ordine ben preciso, per primi i pezzi più piccoli poi quelli sempre più grandi: una sequenza che era già stata rispettata al momento del carico sui mezzi. Una volta a terra, il legno viene disposto in un grande cerchio, i pezzi più grandi davanti e quelli più piccoli dietro. Bisogna sistemarli in questo modo perché quando inizierà la costruzione dello scarazzo, è il nome in dialetto della carbonaia, verranno usati in questo ordine e così il lavoro procede in maniera più razionale. La piazzola, che ha una forma circolare, deve essere


“Ho passato la mia vita con la testa tra le nuvole, attraverso il cielo. Io e mio marito abbiamo portato in Brasile le prime mongolfiere”

perfettamente pulita e un pezzo di legno viene conficcato nella terra per segnarne il centro esatto. La sistemazione dei pezzi di legno più grandi ha inizio: sono quelli che formeranno una sorta di canna fumaria, la fiedura (fessura). Attorno a questa, gradualmente e con grande attenzione, in modo che ogni pezzo combaci con gli altri, vengono sistemate le parti sempre più piccole fino a colmare l’intero spazio. Prima di essere accesa, la carbonaia ha dunque la forma di una cupola. Dal cuore di legno, se è vero che per fare cento quintali

di carbone ne servono cinquecento di legna e altri venti dovranno essere bruciati per mantenere sempre acceso il fuoco dentro la canna fumaria. Un carbonaio impiega cinque giorni, lavorando dalle sette di mattina fino alle sei di sera, per creare queste isole dalla geometria perfetta. Manca ancora un’ultima fase prima dell’accensione. Bisogna coprire il tutto con della paglia per isolare la legna, sopra poi si stenderà lo strato di terra che fa da camera di combustione, contenendo il fumo che trasforma il legno in carbone.


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È giunto il momento di accendere la carbonaia. Con un badile, il fuoco viene portato in cima e buttato all’interno del cratere, profondo cinque metri. Ha inizio la metamorfosi. La fiamma per venti giorni verrà alimentata, in dialetto civata (cibata), proprio come un neonato, ogni tre ore.

L’alchimia finale

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Da questo momento il carbonaio diventa una sorta di alchimista che riesce a capire, semplicemente calpestando la terra, come distribuire il fumo per fare in modo che la legna cuocia in modo omogeneo. Se la terra cede sotto i piedi vuol dire che quella parte è già diventata carbone e dunque bisogna fare in modo che il fumo vada da un’altra parte. Lo spostamento avviene praticando dei buchi lungo le pareti della carbonaia. Come sia possibile riuscire a regolare la vita che pulsa all’interno di questo ammasso nero non è un mistero soltanto per chi vive in completa simbiosi con la sua creatura e riesce a sentirne la condizione. «È come un essere vivente», commenta Bruno che ha 37 anni e da 27 è carbonaio. «Da quando sono nato vivo in mezzo alla legna: una volta i carbonai stavano nei boschi quasi tutto l’anno con la famiglia, le donne scendevano in paese soltanto per partorire, poi ritornavano nella casetta di legno vicino al cantiere. Insomma, sono nato carbonaio e poi ho cominciato a farlo anch’io». La vita alimentata dal fuoco deve essere monitorata continuamente e così il tempo degli uomini viene regolato su quello della carbonaia, che bisogna tenere sotto controllo ogni quattro ore per evitare che il fuoco provochi un incendio. Arrivati a casa, dopo una giornata di lavoro, il pensiero continua a correre alla carbonaia in mezzo alla montagna. E così alle dieci di sera si esce per andare a vedere se è tutto a posto, poi ancora verso le due e l’ultima visita, alle sei, inaugura la nuova giornata di lavoro. Dopo venti giorni, quando il fumo da azzurro che era è diventato bianco, arriva il momento finale, insieme pericoloso e liberatorio: l’ora di aprire la carbonaia, di dare avvio alla scarbonatura, la fase in cui bisogna liberare dalla terra quello che era legno ed è ora carbone. Lo si può fare solo all’alba quando l’aria in montagna è fresca e consente di avvicinarsi, altrimenti si rischierebbe l’ustione. Nonostante l’acqua che viene buttata per raffreddare la cupola nera, il calore è in ogni caso insopportabile. Se si sposta la terra senza fare attenzione a che non ci siano fiamme si rischia lo scoppio della carbonaia, perché il fuoco, al contatto con l’aria, può provocare un incendio. «Non resterebbe niente, è impossibile spegnere cento quintali di carbone. Una volta si è incendiata una carbonaia, sono arrivati i vigili del fuoco, ma è stato inutile. Abbiamo perso tutto», ricorda Cosimo, mentre scompare inghiottito da una nuvola di polvere pesante e irrespirabile. Quando ne riemerge ha in mano il primo pezzo di carbone. Dicono che, sul mercato, non ce ne sia uno migliore.

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televasioni di

Flavio Soriga

illustrazione

Borislav Sajtinac

senza paura Abbiamo discusso tanto, sul fatto che “Quello che non ho” fosse bello o brutto, e nell’unanimità di giudizio sul fatto che sia stato un programma utile, e anche necessario, e senza dubbio meritorio, e di grande valore civico, c’era chi avanzava dubbi sul ritmo, su una sorta di buonismo senza tregua, sulla durata dei monologhi di Saviano e sulla scelta degli ospiti e sui tanti invisibili che avrebbero potuto trovare spazio, e su altre cose ancora. Ci siamo tanto divisi, e con tanta forza, in un locale di San Lorenzo, davanti alle nostre pizze e alle mezze birre, e all’improvviso ci siamo detti una cosa, sorridendo: quanto è bello che questo programma Fazio e Saviano l’abbiano potuto preparare e mettere in scena come in un Paese normale. Senza fibrillazioni politiche e sommovimenti aziendali, paginate dei quotidiani e tremori di Responsabili e Viceresponsabili e Funzionari e portaborse, con la bravura che hanno saputo mettere loro e i loro autori, con le loro intelligenze libere, e poi decida il pubblico, e discuta pure in pizzeria, liberamente. Quanto è stato bello, finalmente, giudicare prescindendo dal nemico che sbraita contro chi osa denunciare e criticare, dalla paura dei Governanti e dalla loro reazione censoria, intimdatoria, antidemocratica. Non è un Paese felice, l’Italia, né sereno né aperto, ma almeno questo l’abbiamo guadagnato, in così pochi mesi, e non è tanto poco. Nel ventennale dalle stragi di mafia del ’92, RaiTre ha mandato in onda uno straordinario documentario con protagonista Rosaria Schifani, vedova del poliziotto Vito, della scorta di Giovanni Falcone, e un “Lucarelli racconta” così bello e terribile da stare male a guardarlo, e chi non l’ha visto può farlo in replica sul sito della rete, e anzi dovrebbe, e magari in compagnia dei propri figli. Non è un Paese felice, né facile, il nostro, e anzi non poche volte fa un po’ vergognare, ma ci sono persone che hanno dato e danno un senso alla parola Stato, e alcune di esse hanno perso la vita per farlo, ed è bene ricordarle, queste persone, perché è grazie a loro che ogni tanto qualche ragazzo si iscrive a Legge con il sogno di migliorare un po’ questo Paese, di fare un po’ più giusta questa Italia. Beati gli Stati che non hanno bisogno di eroi: chissà quando sarà concessa, a noi, questa beatitudine. (“La storia sì che è bella, ma la conoscono in pochi, non è scritta nei libri, non si studia a scuola. La storia è di chi lavora in giro, la storia è dei morti in miniera, la storia è degli innocenti in galera”. Franco Madau, Cantendi sa storia nosta)

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decoder di

il capitale

Violetta Bellocchio

di

Niccolò Mancini

sulle tracce il suo nome del botox è eurobond Superati i trent’anni, si sa, una donna ha due grandi doveri: da un lato “invecchiare con grazia”, dall’altro “combattere l’invecchiamento”. Chi si serve di qualche ritocco chirurgico potrà essere considerata stupida, fatua, vanitosa. Oppure coraggiosa e sincera. Sempre che poi lei non muoia sotto il bisturi, perché allora diventerà “un simbolo”, come l’ex Miss Argentina Solange Magnano nel 2009. Una brutta storia molto locale trasformata in un campanello d’allarme per tutto il pianeta. I singoli incidenti di percorso contano poco, però, rispetto ai milioni di volti femminili, in vario modo pubblici, che forse non sono più del tutto naturali. E per parlare di loro i giornali usano il classico metodo alla “CSI”; la nuova “scena del crimine” è il corpo di una donna viva ed è possibile determinare che cosa lei si sia fatta, con una precisione che non ammette repliche. L’ultima vittima è stata l’attrice Ashley Judd, icona della moda e della bellezza anni Novanta tornata a recitare in una serie tv, “Missing”. Sono bastati tre episodi a far scattare il verdetto: la signora appariva “gonfia”. Forse ingrassata, di certo diversa. Cambiata. E alle analisi generiche (“Ashley non ha più lo stesso viso di quindici anni fa: che strano!”) sono seguite quelle degli esperti (“Ashley è gonfia, ma ha la pelle ancora liscia; sarà piena di botox”). Dopo un mese di confronti fotografici e opinioni ottenute da chirurghi totalmente estranei ai fatti, la protagonista ha risposto, offrendo una spiegazione ragionevole (il gonfiore era dovuto all’uso di steroidi per curare un’infezione) e raccontando quanto fosse stata umiliante l’ondata di pettegolezzi. In questo caso la presunta rifatta ha scelto di dire la sua. Molte preferiscono tacere e sperare che passi. Che tocchi a un’altra finire sotto il microscopio.

Il suo nome è Bond, eurobond. Questo sarebbe il “magico” strumento in grado dall’oggi al domani di mettere in sicurezza l’intero sistema bancario europeo. Ormai la sopravvivenza dell’euro è questione di mesi se non di settimane, come testimonia la situazione in cui si trova la Spagna, divenuta nel primo semestre 2012 l’obiettivo principale di chi vuole scardinare la valuta comune, a causa della fragilità del suo sistema bancario, di cui sono note le commistioni con il settore immobiliare da qualche tempo al centro di un brusco ridimensionamento. Del resto il ragionamento della speculazione è semplice. Se l’Unione, a causa della debolezza politica che la caratterizza, non è stata in grado di salvare la Grecia, un attacco alla Spagna, e di conseguenza all’Italia, metterebbe definitivamente in ginocchio l’euro, garantendo enormi guadagni a chi da molti mesi sta puntando contro la valuta comune. La peculiarità degli eurobond è esattamente questa: riportare la fiducia sui mercati, mettendo in sicurezza il sistema bancario europeo, “sequestrando” le armi oggi in mano alla speculazione e dando respiro alle economie fiaccate dalla recessione, grazie a tassi d’interesse più bassi. Le euro-obbligazioni, come suggerisce il nome, sarebbero emesse da un fondo finanziario europeo creato ad hoc e verrebbero garantite da un mix di riserve auree (di cui le Banche centrali dei Paesi dell’Ue sono i maggiori detentori al mondo) e azioni di società di pubblica utilità (reti e infrastrutture) che i singoli Stati conferirebbero proporzionalmente al loro peso nell’Unione. Senza entrare in tecnicismi, l’ipotesi è che il fondo venga dotato di un capitale di mille miliardi di euro, a cui l’Italia per esempio contribuirebbe con 101 miliardi in oro e 79 miliardi in azioni di aziende partecipate e proprietà dello Stato (Terna, Snam, Ferrovie, Anas, ecc.) per un totale di 180 miliardi. Grazie alla garanzie di oro e aziende, questo fondo potrebbe operare per il triplo del suo controvalore effettivo, ovvero tremila miliardi, cosa che gli consentirebbe di rilevare tutti i titoli oggi emessi dai singoli Paesi (2.300 miliardi), mentre i 700 miliardi rimanenti dovrebbero essere impiegati per finanziare la ripresa con investimenti nelle infrastrutture. Tutto facile? Nemmeno per sogno, considerato il nein tedesco alla condivisione degli oneri. Si ha però la sensazione che l’accerchiamento esterno – ma anche interno – di Angela Merkel, al quale si somma la recente frenata economica mondiale, potrebbe portare all’auspicato passo indietro con il conseguente varo degli eurobond.

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rigore

Il

più lungo

del rigore più lungo del mondo di

Giorgio Ballario

illustrazioni

Felix Petruška

Giorgio Ballario Torinese, 48 anni, giornalista de La Stampa, Giorgio Ballario è autore di tre romanzi noir (Morire è un attimo, Una donna di troppo, Il volo della cicala, tutti pubblicati da Edizioni Angolo Manzoni) e ha partecipato alle antologie di racconti Crimini di piombo (Editrice Laurum) e Altri risorgimenti (Bietti Edizioni). Nella primavera di quest’anno è uscito per l’editore Hobby & Work il suo quarto romanzo, Le rose di Axum. Nel 2010 con Una donna di troppo è stato finalista del Premio Acqui Storia nella sezione romanzo storico.

Felix Petruška È nato a Milano nel 1977. Ha disegnato per Diario, Corriere della Sera, il Saggiatore, Isbn edizioni, Feltrinelli, Salani.

Nel suo volume di racconti Cuentos de los años felices, uscito nel 1993 e tradotto in Italia nel ’95 con il titolo Pensare con i piedi, lo scrittore argentino Osvaldo Soriano (1943-1997) inventò un’epica e sgangherata partita di calcio in Patagonia, durante la quale venne battuto “Il rigore più lungo del mondo”, titolo dell’omonimo racconto, considerato da molti il più bello mai scritto sul calcio. È la storia della sfida tra due squadre immaginarie, l’Estrella Polar e il Deportivo Belgrano, per vincere un campionato minore. La Estrella, che gioca fuori casa, conduce per 2 a 1, ma all’ultimo minuto l’arbitro fischia un rigore inesistente per i padroni di casa. Rissa sugli spalti, invasione, spari in aria, partita sospesa. Appuntamento la domenica successiva, cancelli chiusi e solo venti secondi per battere il rigore, che verrà parato dal mitico portiere indio Gato Diaz. “Così quel rigore durò una settimana – scrive Soriano – ed è, se nessuno mi dimostra il contrario, il più lungo della storia”. Poiché la realtà spesso supera la fantasia, specialmente quando si parla di calcio sudamericano, Soriano è stato smentito sul campo. È successo nell’aprile del 2003, quando l’autore era prematuramente scomparso già da sei anni, e non nella lontana Patagonia bensì in un campetto periferico della Grande Buenos Aires. Per motivi che sono realisticamente descritti nel racconto che segue, la partita di terza categoria fra Defensores de Cambaceres e Atlanta venne rinviata per invasione di campo nel momento in cui si doveva battere un rigore; e poi ripresa ventiquattro giorni dopo, su campo neutro, proprio con la trasformazione di quel rigore, al quale sono poi seguiti i restanti nove minuti di gioco. Dunque, se da un punto di vista letterario il “rigore più lungo del mondo” resta senza dubbio quello della sfida patagonica tra Belgrano e Estrella Polar, nella realtà il penalty che ha deciso la sfida Cambaceres-Atlanta è durato tre volte tanto. E sono sicuro che Soriano, se avesse potuto assistere a quello stralunato epilogo di gara, si sarebbe divertito un mondo. Questo racconto è stato scritto nel quindicesimo anniversario della sua scomparsa, ricorrenza che cadeva il 29 gennaio 2012. ***


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Il rigore più lungo del rigore più lungo del mondo

Il piccolo impianto dell’Argentino di Quilmes sembrava lo scheletro di un dinosauro estinto, una carcassa abbandonata fra terreni incolti e piccoli capannoni lasciati in balia della ruggine. La tribuna coperta era in legno, sullo stile degli stadi inglesi anni Trenta, e rimandava a tempi migliori e a partite ben più gloriose. Pur essendo minuscola appariva deserta, malgrado gli sforzi di un centinaio di tifosi dell’Atlanta di animarla con canti e striscioni. Ce n’erano altrettanti al di fuori del recinto e molti di più in giro per Buenos Aires, sintonizzati su Radio AM 570. Quel giorno allo stadio si entrava solo su invito, come a una festa di laurea o di compleanno. Ed erano ammessi appena un centinaio di sostenitori gialloblù; quelli del Defensores de Cambaceres li avevano tenuti alla larga, dopo gli incidenti di ventiquattro giorni prima. Poi c’erano i dirigenti dei due club, gli accompagnatori, i giornalisti. In tutto non si arrivava a centoventi spettatori, appollaiati sulla tribunetta al riparo da una pioggerellina fine ma intensa, tipica del precoce autunno australe. Il campo era allentato, spiegava con un eufemismo il radiocronista alla sua platea invisibile. In realtà in alcuni punti si era già trasformato in palude, ma nessuno si preoccupava: in fin dei conti la faccenda sarebbe finita in fretta. Tempo di battere un rigore e di giocare i nove minuti rimanenti. C’era anche Adalberto Hernandez, che tutti chiamavano El Flaco, il magro. A dire il vero a scuola gli avevano dato il soprannome di Orejudo, per via delle orecchie a sventola. Ma poi Adalberto s’era fatto crescere i capelli per nascondere gli scomodi padiglioni auricolari, tanto da riuscire a far dimenticare quel nomignolo sgradevole. El Flaco stringeva i suoi vent’anni in un giubbotto troppo leggero per impedirgli di sentire i brividi. O forse era l’emozione a giocargli un brutto scherzo. Da alcuni mesi collaborava con uno dei più importanti quotidiani argentini, anche se per il momento si limitava a telefonare in redazione i tabellini e dieci righe di cronaca delle partite di Primera B Metropolitana, la terza categoria. Era stato lui, ventiquattro giorni prima, a comunicare il pasticciaccio avvenuto nello stadio 12 de Octubre di Ensenada, sobborgo della Grande Buenos Aires. A nove minuti dalla fine dell’incontro tra Defensores de Cambaceres e Atlanta, decisivo per la salvezza di entrambe, proprio quando la gara sembrava incanalata verso l’inevitabile 0 a 0, l’arbitro Alejandro Toia aveva fischiato un rigore a favore degli ospiti. Un rigore dubbio, anzi inesistente. Dalla tribuna tutti avevano visto che la palla era schizzata sulla pancia del difensore, e non contro il braccio. Ma la giacchetta nera era stata irremovibile di fronte alle proteste dei giocatori del Cambaceres. La sua fermezza era vacillata soltanto quando aveva notato decine di ultras locali aggrappati alla recinzione del campo di gioco e dagli spalti erano piovute raffiche di insulti alla sua mamma, seguite poi da virulenti cori antisemiti rivolti ai giocatori dell’Atlanta, club da sempre considerato espressione della comunità ebraica porteña. Quando poi aveva visto i primi scalmanati oltrepassare la cancellata, Toia non aveva avuto esitazioni e se l’era data a gambe verso gli spogliatoi, seguito a ruota dai giocatori dell’Atlanta. Il pallone era rimasto lì per un paio di minuti, abbandonato sul dischetto del rigore, fino a quando non era stato travolto dalla rabbia dei tifosi. Partita sospesa, campo del Cambaceres squalificato, ricorsi e controricorsi agli organismi federali, articoli sui giornali, trasmissioni televisive contro la violenza nel mondo del calcio. Alla fine, a ventiquattro giorni dal fattaccio, la Federazione aveva deciso di far terminare la partita in terreno neutro e a porte chiuse, a eccezione di cento spettatori direttamente invitati dalla dirigenza dell’Atlanta, giacché i tifosi del club di Ensenada erano stati banditi dalla gara. Il redattore capo dello sport aveva detto al Flaco: «Occupati come sempre dei tabellini, vista l’importanza dell’evento abbiamo deciso di mandare un inviato». E il Flaco aveva risposto: «Va bene». Anche se in cuor suo aveva coltivato la speranza di poter scrivere l’articolo principale, o almeno le interviste negli spogliatoi. Aveva poco più di vent’anni ma


conosceva già le regole del gioco: collaborava al giornale da sei mesi, gli dicevano che era bravino ma sapeva benissimo che la gavetta sarebbe stata ancora lunga. Per cui, in quel pomeriggio piovoso di fine aprile, si era seduto in tribuna tenendo un posto vicino a sé per l’inviato del giornale. Non gli avevano detto chi avrebbero mandato. Forse Hugo De La Peña o Gerardo Biondini, che di solito seguivano le categorie inferiori. O magari inviati di punta come Enrique Discépolo o Roberto Goyeneche, che lui aveva visto soltanto nelle trasmissioni sportive in televisione. Mezz’ora prima dell’inizio, Adalberto vide avvicinarsi un tipo sulla sessantina. Era corpulento, con pochi capelli e la barba incolta e camminava con un’andatura un po’ caracollante. Tra le labbra teneva un mezzo sigaro al quale ogni tanto dava un tiro, per impedire che si spegnesse. «Sei tu il Flaco Hernandez?». Il giovane cronista si alzò in piedi per dargli la mano, ma non riuscì a comprendere il nome che l’altro gli farfugliò, mentre lo salutava. Non era Discépolo né Goyeneche, e neanche De La Peña o Biondini. Non l’aveva mai visto in televisione né ascoltato alla radio. Uno sconosciuto. L’altro gli fece un sorriso, mentre completava la frase: «Ma dammi pure del tu e chiamami Gordo, come fanno tutti. Suona bene, no? El Gordo y El Flaco, come Stanlio e Ollio». Adalberto non capì se voleva prenderlo in giro o soltanto rompere il ghiaccio, ma ricambiò il sorriso. Dietro al Gordo c’era un altro uomo, pure lui abbastanza anziano agli occhi di un ventenne. Indossava un soprabito beige e fumava una sigaretta. «Lui è Giovanni, un amico italiano. Ma se vuoi puoi chiamarlo Arp». «È anche lui giornalista?». «In un certo senso. E scrive di calcio». «Non mi dire che questa storia del rigore interessa anche ai giornali italiani?». Il Gordo sorrise di nuovo, dando una boccata al sigaro. «No. Era qui in visita e non sapeva cosa fare, allora me lo sono portato dietro». Lo scampolo di partita stava per iniziare. Seguito dalle due squadre, l’arbitro Toia entrò in campo. Nessuno fece caso ai suoi occhi che, tradendo un po’ di paura, scrutavano gli spalti vuoti per sincerarsi che non ci fosse in circolazione neppure un tifoso del Cambaceres. Anziché avviarsi in direzione del cerchio di centrocampo, il giudice di gara fece rotta verso una delle due porte, collocò il pallone sul dischetto del rigore e attese che il portiere César González prendesse posto fra i pali. Poi si rivolse a Lucas Ferreiro, il numero 10 dell’Atlanta, l’uomo incaricato della trasformazione, e gli fece cenno di attendere il suo fischio. Nel silenzio irreale dello stadio semideserto si udivano solo le grida dei pochi tifosi gialloblù e le frasi a raffica del commentatore radiofonico, che non avendo a disposizione una cabina chiusa irradiava la sua cronaca in tutta la tribuna. Il Flaco rivolse lo sguardo verso il Gordo e Arp, che continuavano a fumare imperterriti. Notò che l’inviato non aveva neppure un taccuino per prendere appunti, ma non osò offrirgli il suo. «Tengo tutto a mente», disse il Gordo, come se gli avesse letto il pensiero. «Tanto per il tabellino ci pensi tu, vero?». Adalberto fece segno di sì con la testa, chiedendosi come diavolo avesse fatto il tipo a indovinare quel che stava pensando. L’inviato gli fece l’occhiolino e soffiò una boccata di fumo. «Flaco, lascia che ti insegni un trucco che forse ti sarà utile per fare questo mestiere. Portati sempre dietro il taccuino e prendi appunti, per un giornalista è come la copertina di Linus: dà sicurezza nei momenti di difficoltà. Ma se vuoi capire come va il mondo, che tu stia seguendo una partita di calcio o un discorso del

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presidente della Repubblica, guardati attorno, osserva la gente, cerca di comprendere cosa desidera e di cosa ha paura. E poi pensa sempre con la tua testa». Dalla tribuna si udì chiaramente il fischio dell’arbitro Toia. Lucas Ferreiro prese una breve rincorsa, evitò una pozzanghera e calciò forte alla sinistra del portiere. La palla gonfiò la rete, scatenando il tripudio nella pattuglia di tifosi dell’Atlanta, mentre il radiocronista ululò il tradizionale “Goooooooooooooolllllllllll!!!”. Il Gordo annuì serafico, continuando a mordicchiare l’estremità del sigaro, mentre Arp si accendeva un’altra sigaretta. Il giudice di gara rimise la palla al centro, controllò il cronometro e diede il via agli ultimi nove minuti di fuoco. Perso per perso, il Cambaceres si riversò nell’area avversaria alla ricerca del gol del pareggio. Una sconfitta, infatti, l’avrebbe risucchiato verso il fondo della graduatoria; mentre al contrario per l’Atlanta, ormai vicina al fanalino di coda, i tre punti avrebbero significato una salutare boccata d’ossigeno. I rossi si buttarono avanti come indiani all’assalto di Fort Apache, facendo fioccare cross dalle fasce laterali e confidando nelle terribili mischie sotto porta. E i gialloblù dell’Atlanta si difendevano come gli irriducibili del Settimo Cavalleggeri del generale Custer, spalla contro spalla, tentando di prendere a calci qualsiasi cosa capitasse loro a tiro. E pazienza se era il pallone. A una manciata di minuti dalla fine, la resa sembrò inevitabile: l’attaccante Chiapetta del Cambaceres si presentò a tu per tu con l’estremo difensore Barrera, ma quest’ultimo, con un riflesso prodigioso, mandò in calcio d’angolo il tiro destinato a insaccarsi in rete. Urla di giubilo, bestemmie, sfottò e disperazione. Ancora una volta nell’arco di pochi istanti il fútbol sembrò distillare le sensazioni di una vita. Ci fu giusto il tempo per un paio di mischioni in area, poi l’arbitro Toia fischiò la fine. «Bella partitella», commentò Arp in italiano, accendendosi l’ennesima sigaretta. Il Gordo ridacchiava, infischiandosene del baccano dei tifosi dell’Atlanta e dell’andirivieni degli altri giornalisti in tribuna. Poi si rivolse al Flaco: «Vai a telefonare al giornale». «Pensavo dovessi farlo tu», rispose timidamente Adalberto. «No, chiama tu. E ricordati, Flaco: pensa sempre con la tua testa». Il giovane cronista si precipitò in sala stampa, alla ricerca di un telefono lasciato libero dagli altri reporter sportivi delle testate minori, che come lui non avevano a disposizione un cellulare. Dopo cinque minuti ne trovò uno libero e si attaccò alla cornetta. «Hernandez, è mezz’ora che ti cerco ma in quel cazzo di stadio non ti conosce nessuno!», gli gridò il redattore capo dall’altro capo del filo. «Volevo dirti che Goyeneche ha avuto un problema grave, un incidente d’auto. Ci ha chiamato dall’ospedale, ha un colpo di frusta. E non abbiamo fatto in tempo a mandare nessun altro». «Ma... qui c’è il Gordo!». «E chi è il Gordo, un amico tuo? Senti, non farmi perdere tempo: ci serve un bel pezzo di cinquanta righe più altre trenta di intervista dagli spogliatoi. Oh, guarda

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che siamo nelle tue mani, eh! Il direttore voleva mettere l’articolo in prima, se l’avesse scritto Goyeneche. Magari se non ci mandi proprio una schifezza riesco a convincerlo a non cambiare idea, hai capito?». «Sì, va bene. Ma cosa dico al Gordo? È in tribuna, con il suo amico italiano». «Dì un po’, Flaco: hai bevuto? Chi cazzo è ’sto Gordo di cui vai blaterando? Mettiti al lavoro e non fare stronzate, mi raccomando. Ci servono i due pezzi al più tardi per le sette. Ora vai, porco mondo, e mandaci qualcosa di pubblicabile!». Il Flaco Hernandez rimase per alcuni istanti con la cornetta appiccicata all’orecchio, senza capirci più niente. Poi agganciò e si chiese come diavolo avrebbe fatto a dire al Gordo che i pezzi li avrebbe dovuti scrivere lui. Risalì lentamente gli scalini fino alla tribuna, ma quando arrivò alla sua postazione non vide più nessuno. Né il Gordo né il suo amico italiano. Si grattò la capoccia, ancor più confuso. «Hai mica visto dove sono andati quei due tizi che prima stavano con me?», domandò al collega di un giornaletto di Ensenada. «Quali tizi?». «Quei due che erano seduti qui. Il tipo grassottello con il sigaro e il suo amico italiano, con l’impermeabile beige». «Ma che stai dicendo, Flaco? Lì non c’era seduto nessuno. Sei scemo o hai voglia di prendermi in giro?». «Ma non puoi non averli visti! Erano seduti qui, hanno guardato la partita insieme a me. Quei due che fumavano sempre».

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«Ma vai a farti fottere! Dovevo capirlo che eri un po’ matto, vedendoti parlare da solo». E se ne andò con aria scocciata. Adalberto Hernandez si lasciò cadere sul seggiolino dello stadio, distrutto. Non sapeva nemmeno più cosa pensare, se non che di lì a poco avrebbe dovuto scrivere cinquanta righe di articolo e altre trenta di intervista dagli spogliatoi. Aprì il taccuino. Erano annotati soltanto le formazioni delle due squadre e uno scarno elenco degli episodi salienti, con a fianco i minuti di gioco. Non ce l’avrebbe mai fatta a imbastire un pezzo da cinquanta righe che meritasse di finire in prima pagina. E neanche nelle pagine dello sport locale, forse. Fu allora che notò i due libri. Erano appoggiati sui seggiolini dove poco prima stavano seduti il Gordo e Arp. Il Flaco li prese in mano, incuriosito. Il primo era un volume di racconti di tal Osvaldo Soriano, intitolato Cuentos de los años felices. Aprì il libro in corrispondenza di una pagina con l’orecchietta all’angolo e il titolo del racconto gli provocò un brivido lungo la schiena: “Il rigore più lungo del mondo”. Gli girava la testa e per un attimo fu costretto a chiudere gli occhi e a respirare profondamente. Poi afferrò l’altro libro. Era scritto in italiano e s’intitolava Azzurro tenebra. Lesse il nome dell’autore, ma già immaginava: Giovanni Arpino. Arp. Deglutì, ma aveva la gola secca e sentiva le mani che gli tremavano. Osservò l’orologio cinese che portava al polso: erano già le cinque passate. Aveva meno di due ore per andare negli spogliatoi a intervistare i protagonisti e per scrivere i due pezzi. Prese i libri e si precipitò dabbasso. Un’ora più tardi, nella sala stampa fumosa e affollata di cronisti, cominciò a buttare giù l’articolo, sbirciando di tanto in tanto i due volumi che teneva lì vicino. Si sorprese a sorridere, come di rado gli capitava. Il pezzo sarebbe finito in prima pagina.

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Nota dell’autore Osvaldo Soriano e Giovanni Arpino si conobbero nel 1977, prima per via epistolare e poi di persona, quando El Gordo (a quei tempi in esilio in Belgio e poi a Parigi) si recò a Torino per incontrare uno degli scrittori che più aveva contribuito a farlo conoscere in Italia. Rimasero in contatto per dieci anni, fino alla morte di Arpino nel 1987. Il carteggio fra i due scrittori è stato pubblicato nel volume Bracconieri di storie, a cura di Massimo Novelli (edizioni Spoon River).

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Teatro

Domani

La rivincita di Mercuzio

Barocco segreto di Carlo

Boccadoro

La popolarità di Antonio Vivaldi presso il grande pubblico ha gettato in un cono d’ombra altri compositori del Barocco veneziano non meno grandi di lui, appartenenti a una scuola compositiva di qualità che meriterebbe di essere conosciuta anche al di fuori della cerchia degli appassionati. Musicisti come Giovanni Picchi, Giovanni Gabrieli, Dario Castello hanno scritto musica meravigliosa e perfettamente godibile da chiunque, generosa e ancora fresca nonostante il passare dei secoli, ricca di riferimenti al mondo dell’Opera e caratterizzata da quella “stravaganza” (come si definiva all’epoca) e mutevolezza di espressione che risentiva molto della qualità improvvisativa del pensiero musicale di questi autori. Il nuovo disco (Sonate concertate in stil moderno) del violinista John Holloway, virtuoso della scuola esecutiva filologica, cerca di riportare giustizia accendendo i riflettori sulle sonate per violino e basso continuo di Dario Castello e Giovanni Battista Fontana, e ci regala un’ora di pura beatitudine sonora. L’inventiva melodica di questi compositori è inesauribile e richiede, da parte di chi esegue queste sonate, finezza nel fraseggio, slancio ritmico, nonché un notevole virtuosismo strumentale, qualità che Holloway e i suoi collaboratori (Lars Ulrik Mortensen al clavicembalo e Jane Gower alla dulciana, un antenato del moderno fagotto) possiedono in abbondanza. La splendida qualità della registrazione mette in evidenza ogni sfumatura della musica, permettendoci così di apprezzare in dettaglio la sapienza compositiva di questi autori. Dario Castello, Giovanni Battista Fontana, Sonate concertate in stil moderno, eseguite da John Holloway, Lars Ulrik Mortensen, Jane Gower, ECM, 21 euro

Simona Spaventa

Fermare la storia, interrompere il meccanismo perverso di un potere violento, far sì che l’immaginazione non soccomba e si prenda una rivincita sulla realtà. Era un sogno anticonformista il Mercuzio non vuole morire che Armando Punzo ha messo in scena l’anno scorso con i suoi attori-detenuti del carcere di Volterra. Un Mercuzio «poeta, attore, uomo di cultura – racconta il regista – a cui abbiamo dato la possibilità di opporsi al destino imposto dal padre Shakespeare, per incarnare un’utopia di ribellione». Ma l’utopia, se si è soli, non va lontano. E allora quest’anno Punzo – testimone vivente di un’utopia trasformata in realtà, se si pensa che da 25 anni lavora in carcere dove ha fatto della sua Compagnia della Fortezza una delle eccellenze teatrali italiane, con attori straordinari come Aniello Arena, protagonista di Reality di Matteo Garrone, Grand Prix a Cannes – ha sognato in grande, immaginandosi che il suo Mercuzio e il suo festival Volterrateatro (dal 23 al 29 luglio) escano dal carcere per diventare un evento di teatro di massa che invade piazze e vie non solo di Volterra, ma anche di Pomarance, Castelnuovo e Montecatini Val di Cecina, coinvolgendo migliaia di cittadini. Nel segno della partecipazione, tratto distintivo di questa seconda fase del progetto Mercuzio non vuole morire, che diventerà presto anche un film: «Si partirà in carcere – spiega il regista – dove con i miei quaranta attori metteremo in scena un bozzetto da Shakespeare. Un luogo fisico dove avverrà una sorta di magia che avrà riflessi all’esterno». Sarà un teatro di massa, con migliaia di cittadini che diventano attori in scene semplici, simboliche, giocate sui grandi numeri. «Oltre a Mercuzio, in Romeo e Giulietta l’altra figura marginale sono proprio i cittadini di Verona. Non contano nulla, sono in balia di vecchie faide tra potenti che uccidono il futuro. Noi li faremo crescere a dismisura – conclude Punzo – perché Mercuzio ha bisogno di tanti amici. Se resta solo, muore». Volterrateatro, Volterra, Pomarance, Castelnuovo Val di Cecina, Montecatini Val di Cecina (Pi), dal 23 al 29 luglio

Carlo Gattai

Musica

di

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Architettura Cinema

L’anima inquieta del prof di Barbara

Sorrentini

“E non mi sono mai sentito così profondamente distaccato da me stesso e allo stesso tempo così presente nel mondo” (Albert Camus). Una lunga lista di premi anticipa i titoli di testa del film: dal Tribeca a Deauville, passando per Tokyo, San Paolo, Woodstock e Taipei. Detachment - Il distacco, nonostante si occupi di un tema sempre attuale, si muove in un’atmosfera avvolta dal mistero. Henry Barthes, che ha la discrezione e la timidezza dell’attore Adrien Brody, è un supplente di letteratura in una scuola degradata della periferia americana. Solitario, malinconico e attento agli altri, Barthes transita per brevi periodi nelle scuole cercando di lasciare un segno importante negli studenti che incontra. Lo si capisce fin dall’inizio, dall’atteggiamento brusco e determinato che ha con gli allievi aggressivi e irrispettosi e da quello rassicurante nei confronti delle vittime del bullismo e fatte oggetto di derisione. Per ritrarre la complicata vita scolastica di questa scuola mista, frequentata da ragazzi che non hanno nessun interesse per lo studio e da professori che hanno perso ogni speranza, il regista Tony Kaye, già cantante, compositore e realizzatore di American History X, deve essersi ispirato a film come La classe di Laurent Cantet, L’attimo fuggente di Peter Weir o Pensieri pericolosi di John N. Smith. Film che illuminano quegli insegnanti che riescono a farsi rispettare e amare anche dagli studenti più difficili trasmettendo loro la passione per lo studio, l’istruzione e la cultura. Una specie di miracolo, non istituzionalizzato ma compiuto grazie alla sensibilità di singoli maestri. Nel caso di Henry Barthes, fin dalle prime immagini si intuisce che non ha avuto una vita facile. La sua infanzia e la ricostruzione del suo mistero vengono descritti attraverso numerosi flashback che irrompono nel presente. Un presente triste, vissuto accanto a un nonno che sta per morire e a una prostituta giovanissima che una sera lo ha seguito fino a casa, stabilendosi da lui, in cerca di una redenzione. Il distacco del protagonista è una sorta di male oscuro, incurabile e doloroso, ma che lo spinge a fare del bene, aiutando gli infelici come lui a superare gli ostacoli senza farsi abbattere. Detachment - Il distacco, di Tony Kaye, dal 22 giugno

Un muro ci salverà di

Raul Pantaleo

Selinunte è luogo difficile da dimenticare. Monumenti di straordinaria bellezza quali il tempio dedicato a Era (460-450 a.C.), opere dell’ingegno umano e della magnificenza della natura. Ma un esploratore del contemporaneo ammirerebbe innanzitutto l’ingresso al Parco archeologico progettato negli anni Ottanta dall’architetto Franco Minissi, con Pietro Porcinai e Matteo Arena, e ancor più si soffermerebbe sulla straordinaria opera paesaggistica dello stesso Porcinai (Firenze 1910-1986), uno dei massimi paesaggisti italiani del Novecento (di lui basti ricordare la sistemazione esterna del Centre Pompidou a Parigi e il Parco di Pinocchio a Collodi). È un’opera di salvaguardia archeologica bellissima e nello stesso tempo pratica e intelligente: un imponente argine in terra, ora ricoperto da una lussureggiante vegetazione mediterranea, messo a protezione del parco archeologico. Una barriera all’avanzare della speculazione edilizia, limite invalicabile a protezione di un sito compromesso da decenni di edilizia disordinata e scadente che assediava i templi e minacciava un patrimonio storico e ambientale di valore inestimabile. Superato il bellissimo argine, si viene proiettati in un mondo “altro” dominato esclusivamente dalla storia e dalla natura. L’opera di Porcinai, un’esperienza sensoriale indescrivibile, dà vita a un universo paesaggistico e ambientale che isola lo spazio monumentale e lo spettatore in una dimensione senza tempo. Ma forse il significato di quest’opera va ben oltre il mero valore architettonico e paesaggistico, perché ha un importante significato civico e politico. In un’Italia dove la speculazione e l’abusivismo non possono essere fermati da regole di civile convivenza o più semplicemente dai vincoli di legge, non resta che la costruzione di un muro invalicabile che sembra dire: di qui non si passa. È la vittoria della grande architettura sull’inciviltà e del buon senso sulla bellezza, ma allo stesso tempo la sconfitta di una politica incapace di stabilire dei limiti e di una società che non sa darseli da sola. Un muro contro la barbarie, architettura resistente al degrado e all’incultura, segno forte e ottimista che dice semplicemente: l’inciviltà si può fermare.


Rete

Nodi da non sciogliere di Arturo

Arte

Mimmo Paladino, Calici, 2012, ossidi, smalti e ingobbi, cm 19,5x50x60

Nelle coppe di Paladino di Vito

Calabretta

Il Museo internazionale delle ceramiche di Faenza ha più di un secolo di vita, è stato distrutto dalle bombe durante l’ultima guerra e poi ricostruito e riempito con altre opere. È un luogo affascinante perché vi si trova la testimonianza dell’incontro tra la manifattura e la ricerca estetica e artistica. Oltre alle collezioni “di casa”, in questo periodo si possono ammirare le opere in ceramica di Mimmo Paladino, artista attivo su molti fronti, dalla pittura alla scultura alla scenografia, baciato da un folgorante successo mondiale. A Faenza vediamo i grandi lavori scuri come il Treno del 2007 e quelli piccoli, i variopinti vasi di coccio, le figure umane ridotte a ricordo di se stesse, le tavole e le formelle dense di frammenti e di citazioni misteriose: maschere, tegole, coppe, tondini di metallo. A un primo sguardo, può risultare difficile capire il senso di tutti questi inserti, dar loro un significato. In effetti uno degli elementi che costituiscono la ricerca artistica di Paladino è il desiderio di evocare contenuti che non conosciamo: abbiamo, infatti, un numero troppo esiguo di frammenti per conoscere davvero il modo in cui, nell’antichità, i nostri antenati si rappresentavano. Possiamo soltanto immaginarlo. La mostra di Faenza è un’occasione per seguire Mimmo Paladino in questo suo viaggio alla ricerca di codici sconosciuti: con le sue opere egli rivela come i manufatti artistici possano nascondere proiezioni del nostro desiderio di conoscere la nostra storia. La testimonianza di Paladino si aggiunge a quella delle opere esposte in maniera permanente: manufatti che dispiegano un racconto fisico e concreto della storia culturale della nostra civiltà materiale. Il museo di Faenza è una collezione di mondi: il luogo della ceramica faentina, quello che accoglie gli artisti, che ne raccoglie la produzione e la mette a disposizione del pubblico, ma anche un’istituzione che promuove un premio internazionale, il Premio Faenza. Lì, la ceramica è intesa non soltanto come comparto produttivo di manufatti, ma anche come linguaggio espressivo e area di azione in cui gli artisti si calano nei modi più vari: basti pensare a cosa ha creato con la ceramica Giò Ponti o cosa ha fatto Fausto Melotti quando si è messo a formare delle coppe capaci di togliere il fiato. Paladino Ceramiche, Museo internazionale delle ceramiche, Faenza, fino al 7 ottobre www.micfaenza.org

Di Corinto

Ninux.org è una comunità di radioamatori, filosofi e informatici che ha tra i suoi scopi quello di realizzare in Italia delle reti mesh wireless libere, senza scopo di lucro, nel rispetto della filosofia open source e in un’ottica di condivisione. Diversamente da internet, che di fatto è una struttura di telecomunicazioni che per inviare segnali ha bisogno di mezzi fisici, quali fili e fibre ottiche, queste sono reti a maglie costituite da un certo numero di nodi che fungono da ricevitori, trasmettitori e ripetitori. Poiché ogni pc che vi accede diventa parte della rete e trasmette il segnale inviato in broadcast dai nodi più vicini, una rete mesh è decentralizzata, perché non ci sono server centrali, ma anche flessibile e robusta. Ogni nodo può trasmettere il proprio segnale fino a quello successivo, riuscendo così a coprire grandi distanze. Se un nodo si guasta, quelli vicini cercano altri percorsi per trasmettere il segnale. Le capacità delle rete aumentano installando altri nodi, sia fissi sia mobili. Inoltre, è anche economica: con un router e un’antenna per diffondere e condividere la connettività, si diventa nodo spendendo poco più di tre euro l’anno di elettricità. Quindi un mesh network serve a risparmiare, a ridurre l’inquinamento e a controllare dal basso la rete che si usa per comunicare. La scelta di Ninux.org è quella di costruire una rete wireless per sperimentare e divertirsi, ma anche per aiutare le comunità altrimenti impossibilitate a utilizzare internet a causa del digital divide. Non sono gli unici che portano avanti un progetto alternativo di rete aperta, decentralizzata e di proprietà del cittadino. In Italia lo fanno insieme a quelli di Eigenlab, studenti pisani di fisica e matematica. Le reti mesh sono anche alla base del concetto di networking sostenuto da One Laptop per Child in Africa e Brasile. Un’iniziativa, quest’ultima, volta a fornire a ogni bambino del mondo, specie a quelli nei Paesi in via di sviluppo, l’accesso alla conoscenza e all’istruzione attraverso un computer che costa meno di 80 euro, con programmi open source, processore low cost e batteria interna ricaricabile: con una manovella, una batteria d’auto, un trasformatore di rete.


Alessandra Bonetti

Durante un’intervista, a Sean Connery fu chiesto che cosa lo facesse piangere. Dopo una breve riflessione, l’attore rispose: l’atletica. È successo anche a me – che non mi intendo di sport e mi annoio persino a guardare l’Italia ai Mondiali di calcio – leggendo il libro di Adharanand Finn, Nati per correre. Per scoprire il segreto dei corridori più veloci del mondo, Finn si è trasferito in Kenya, precisamente a Iten, un piccolo villaggio a 2.400 metri di quota dove, su quattromila abitanti, mille sono atleti. Da buon giornalista inglese, a Finn non basta osservare per raccontare, deve partecipare. E così s’iscrive a una delle maratone più dure del continente, quella di Lewa, 42 chilometri sotto il caldo della savana. Per sei mesi si allena con gli atleti kenyoti, animali da corsa lanciati verso il traguardo alla ricerca di un riscatto. C’è un qualcosa di brutale e primitivo in questo sport, ma anche di essenziale che ha a che fare con l’essere umano, come spiega Christopher McDougall, mentore di Finn e teorico della corsa a piedi nudi, che invito ad ascoltare sulla piattaforma di conferenze online TED. Ma, alla vigilia delle Olimpiadi di Londra, a riconciliarmi con un mondo che, come dice l’ex centometrista Pietro Mennea, è stato rovinato dal marketing e dal capitalismo delle celebrazioni (Il costo delle Olimpiadi, Delta 3 Edizioni), è stato anche un romanzo, La fine è solo un inizio. La storia comincia con un canotto alla deriva nell’oceano Pacifico, durante la Seconda guerra mondiale. Su quell’imbarcazione di fortuna, c’è Louis Zamperini, un soldato americano figlio d’immigrati italiani. Louis era stato un ragazzo indomabile, rissoso, la cui unica qualità era la velocità di fuga. La sua salvezza fu una pista d’atletica, dove per la prima volta non correva via da qualcuno, ma perché era quello che il suo corpo desiderava fare. A forza di correre, arrivò a Berlino, alle Olimpiadi del 1936, dove vinse l’oro nei 5.000 metri. Certo, quelli erano tempi diversi. Se si pensa che oggi un oro equivale a migliaia di euro, allora tutto il compenso di Zamperini fu una medaglia e una stretta di mano da Hitler. Con lo scoppiare della guerra, i sogni di gloria di Zamperini si trasformano in pagine di combattimenti, la prigionia in Giappone, gli incubi che lo hanno tormentato al rientro in patria. Ma la storia di questo bambino “sbagliato”, indisciplinato, irrequieto che riesce a fare di tutte queste cose sbagliate una cosa giusta, vincere le Olimpiadi, mi è apparsa come una parabola. Si pensa che dietro ogni vittoria ci sia una storia di perfezione, invece spesso è vero il contrario. Lo racconta bene Gino Cervi in un piccolo libro illustrato per ragazzi, Storie a cinque cerchi. L’uomo molla e altri racconti olimpici, dove narra lo stile vincente di dieci eroi imperfetti. Adharanand Finn, Nati per correre, Sperling & Kupfer, 300 pp., 17,50 euro Laura Hillenbrand, La fine è solo un inizio, Mondadori, 512 pp., 19 euro Gino Cervi, Storie a cinque cerchi. L’uomo molla e altri racconti olimpici, Ed.It, 80 pp., 14 euro

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Design

di

Che bello ’o cafè di Claudia

Barana

Un progetto minimo e minimalista che individua nel riuso dei fondi di caffè il suo ingrediente base. È quello del giovane designer spagnolo Raúl Laurí parte da una ricerca sul ciclo della vita per capire come migliorare il processo produttivo delle cose: «Abbiamo a disposizione molte buone soluzioni, dobbiamo solo applicare la nostra passione verso la natura, la riflessione e la creatività». Il risultato è una serie di scodelline dal leggero aroma di caffè, lisce al tatto, che il designer trasforma in collezione di lampade da tavolo, da terra e a sospensione. Oggetti dal segno pulito, essenziale, plasmati a partire da una mescola capace di emozionare perché mantiene un forte carattere visivo, tattile e olfattivo. Il lavoro di riciclo di Raúl Laurí è di duplice trasformazione: inverte un ciclo di vita di un prodotto solo apparentemente finito e converte l’uso di un materiale destinandolo a una filiera industriale altra. La scelta del caffè non è casuale. Raúl Laurí lo ha selezionato fra i tanti resti alimentari quotidiani perché, ci racconta, «è una sostanza che accomuna e che permette di vivere esperienze diverse in tutto il mondo. Il caffè lo si trova ovunque; crea un’atmosfera speciale e può servire a ogni individuo per superare le sue preoccupazioni, la sua tristezza. Inoltre, il caffè è il prodotto più scambiato, dopo il petrolio. Aspetti di universalità che ho voluto trasferire ai miei oggetti». Raúl Laurí, Decafé, www.rlauri.com

[courtesy of raúl laurí]

Libri

Verso il traguardo


Michele Cazzani

Il bambino e la mina di Cecilia

Strada

È difficile raccontare questa storia senza retorica. Ci provo, ma non garantisco niente. In questa storia ci sono un bambino, una mina antiuomo, un mutilato, un professore. Il bambino si chiama Soran ed è nato nel Kurdistan iracheno. Ha una testa piena di capelli scuri, gli occhi grandi e un difetto: gli piace giocare. E giocare, si sa, è una delle attività “ad alto rischio” per i civili in tempo di guerra. La mina antiuomo si chiama Valmara 69. È nata in Italia, per la precisione a Castenedolo, provincia di Brescia, e da allora ne ha fatta di strada: Angola, Mozambico, Iran, Egitto, Sahara occidentale, Sudan; le Valmara 69 hanno girato il mondo e si sono fatte un nome, perché sono un’arma potentissima e micidiale, che uccide nel raggio di 25 metri dall’esplosione, e dissemina le schegge contenute al suo interno ferendo e mutilando in un raggio di 200 metri. Quando un bambino a cui piace giocare nei campi incontra una Valmara 69, la storia spesso finisce bruscamente: nel giro di tre secondi e nel raggio di 25 metri. Invece Soran, insieme a tre amici, era un po’ più lontano. Il boato, le urla, qualcuno che corre a

prenderli e li carica su una jeep, poi sei ore su strade dissestate fino ad arrivare, ormai è notte, alla porta di un ospedale, e poi in sala operatoria. Il mattino dopo, quattro ragazzini mutilati si guardano attorno, nel giardino dell’ospedale. Soran ha perso la gamba destra, e non è il più grave. I pigiami sono troppo larghi: perché questi bambini sono piccoli, troppo piccoli per stare in un ospedale per vittime di guerra. La corsia C, quella pediatrica, è piena di pigiami troppo larghi: c’è un paziente che è grande come il suo cuscino. Gli animali colorati dipinti sul muro della corsia sono molto più grandi di lui. Dopo qualche giorno, i ragazzini mutilati tecnicamente sarebbero “guariti”. Potrebbero essere dimessi e mandati a casa: “Ecco la tua sedia a rotelle, immagino che sarai destinato a un futuro di invalidità, tu non potrai lavorare e qualcuno della tua famiglia nemmeno perché dovrà occuparsi di te – è proprio per questo che le mine antiuomo sono così apprezzate da chi fa la guerra, sai, un buon investimento per mettere in ginocchio la popolazione nemica – però magari potrai chiedere l’elemosina, chissà; ha vinto la mina, arrivederci e grazie, questo è il foglio di dimissioni”, e fine della storia.


[archivio emergency]

Invece no, perché in quell’ospedale i medici – italiani, come la mina – hanno altri progetti. Due mesi e mezzo di fisioterapia e poi, finalmente, si può provare una protesi, fatta su misura. Un’ora al giorno, poi due, poi tre. Soran ha imparato a mettersi la protesi da solo, sistema bene i pantaloni, si guarda attorno. Fa tre passi, poi si mette a correre nel giardino dell’ospedale. Sorride. Ancora qualche giorno, e spunta un pallone da calcio: Soran e i suoi amici si mettono a giocare. Possono farlo ancora. Possono di nuovo camminare, correre, giocare, non sono destinati a un futuro di invalidità, potranno lavorare, potranno essere autonomi. Hanno vinto loro, non la mina. Fine della storia. E il professore? Giusto. Il professore ha ventisette anni, insegna il curdo a quattro classi di bambini di cinque e sei anni. È sposato, ha due figlie e una testa di capelli scuri. Quindici anni prima aveva incontrato una mina italiana, e la sua storia poteva finire lì. Invece ha incontrato dei medici italiani, e oggi può scriversi da solo la sua storia, ogni giorno. Si chiama Soran.

L

Kurdistan Iracheno

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Emergency è attiva in Iraq dal 1995, impegnata soprattutto nella regione del Kurdistan iracheno, area densamente minata. All’ospedale riattivato a Choman, sono seguiti i Centri chirurgici di Sulaimaniya ed Erbil, nel 1996 e nel 1998, ampliati poi con unità specializzate nel trattamento delle ustioni e delle lesioni spinali. A Sulaimaniya è stato aperto anche un Centro di riabilitazione e reintegrazione sociale, per restituire alle persone che hanno subìto amputazioni a causa delle mine una vita normale, anche attraverso corsi di formazione professionale e assistenza economica e gestionale per aprire cooperative artigiane: in tutto, sono 475 gli apprendisti diplomati e 275 le cooperative avviate. Un altro passo importante in questa direzione è stato il varo del progetto Home Modification Programme per l’abbattimento delle barriere architettoniche, che ha ridato ai disabili autonomia e facilità di movimento nelle proprie abitazioni. Il centro è l’unica struttura specializzata e gratuita nell’area, tanto da essere un punto di riferimento per tutto l'Iraq, l'Iran e la Siria. Dal 2005, i Centri chirurgici e i 22 Posti di primo soccorso sono stati integrati nel sistema sanitario iracheno. Attualmente il centro di riabilitazione di Sulaimaniya è l’unico progetto che l’ong ha attivo in Iraq, Paese in cui Emergency, dal 1995 a oggi, ha assistito e curato oltre 390mila persone.


no profit d’Italia per quanto riguarda il cioccolato equosolidale. Ti scrivo non solo per dare una speranza a Ivan e per invitarlo a venire a trovarci in Umbria, ma anche perché la tua risposta è la sintesi dell’idea che sta muovendo l’organizzazione della nostra manifestazione di ottobre: Si può fare! Tutto è cominciato due mesi fa, quando ho visto il tuo film e da lì ho capito come potevamo declinare la voglia di mostrare quanto l’economia solidale sia un’alternativa credibile e necessaria per tornare ad avere una società ricca di varietà e di condivisione e soprattutto piena di speranza nel futuro. Andrea

la posta del cuore di

Claudio Bisio

illustrazione

Todd Davidson

[getty images]

per scrivere: cuore@e-ilmensile.it

Cari lettori di E, questo mese vorrei iniziare pubblicando un paio di lettere che si riferiscono al caso di Ivan, che ci ha scritto raccontando la sua sofferta decisione di mollare un lavoro garantito per intraprendere un’attività legata al commercio di prodotti equosolidali in un piccolo paese della Sardegna. Caro Claudio, mi chiamo Andrea, ho 32 anni e sono il nuovo coordinatore di Altrocioccolato. Ieri ho letto la bellissima lettera scritta da Ivan che hai pubblicato sul numero di maggio e ho rivisto quella che era la mia situazione fino a dodici mesi fa. Anche io sono di un piccolo paesino, delle Marche però, e anche io, proprio come lui, avevo una sistemazione ideale: ho avuto la fortuna di nascere figlio di un pioniere dell’agricoltura biologica e il lavoro non mi è mai mancato. Per vocazione, però, ho sempre voluto fare qualcosa di più e l’azienda di famiglia la sentivo stretta; è per questo che l’anno scorso ho gettato il cuore oltre l’ostacolo e ho iniziato a collaborare con gli amici di Umbria EquoSolidale a un progetto di filiera diretta con la Costa d’Avorio. Il mio è stato un azzardo che mi ha messo in serie difficoltà economiche e t’assicuro che più di una volta ho avuto la tentazione di lasciar perdere ma, grazie alla mia compagna e alle persone che operano nel settore, oggi sono qui a scriverti, sapendo di avere l’onore e l’onere di rappresentare una delle più significative manifestazioni

Gentile Claudio, ho appena letto la posta di maggio e non ho resistito alla voglia di scriverle per chiederle di far sapere a Ivan che ha fatto bene e ce la farà. Gli mando un abbraccio di stima e incoraggiamento, e la ringrazio per l’amabile risposta alla sua lettera. Carol E ora, cambiando radicalmente argomento, segnalo la lettera di una ragazza non ancora maggiorenne che parla di amore, ma con il groppo in gola. La vorrei pubblicare così, senza troppe correzioni, perché si capisce che è stata buttata giù di getto, forse inviata senza neppure essere riletta. Compresa la citazione di un certo vik, minuscolo, che sarebbe Vittorio Arrigoni. Ci sono delle frasi con una forza anche poetica, come quella in cui dice di non poterne più di un amore di “sole interpretazioni”. Ovviamente, non ho risposte da darle. Ho solo voglia di ascoltarla e, visto che ci ha scritto, di esaudire il suo desiderio di essere letta. Ci sono tanti modi per amare, tanti quante sono le persone di cui potersi innamorare... il nostro modo di approcciarci a questo sentimento muta e si sviluppa in base alle nostre esperienze di vita... ciò che vi posso dire è che io, dall’alto dei miei quasi 18, sono alla ricerca di un amore all’insegna di più semplificazioni possibili... non ne posso più di un amore di sole interpretazioni. Dico ciò perché il mio cuore di giorno in giorno è sempre più tramortito e questo è il minimo che gli può succedere se vedi tua madre maltrattata. Se vedi violenza sei spinto a reagire con violenza... il mio cuore però mi ha sempre aiutato ad affrontare gli impatti con il dolore, mi ha aiutato a non odiare, ma a rifiutare un amore violento (se questo è amore). Il mio cuore vive anche dopo essere stato più volte messo a dura prova... il mio cuore vive, e io con lui cerco la mia strada verso un po’ di leggerezza, e un vero riscatto sentimentale... tutto sta forse (come diceva vik) nel restare il più umani possibile! La firma una ragazza che però chiede di restare anonima.

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