CARE 2025 | 1

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costi dell’assistenza e risorse economiche

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INCONTRI

Il ruolo del medico e la sanità come espressione di democrazia

A colloquio con Filippo Anelli

Presidente FNOMCeO

Dottor Anelli, di recente è stato confermato alla presidenza della FNOMCeO. A cosa attribuisce in particolare questa sua meritata rielezione?

Senza dubbio alla chiarezza delle idee e a un programma solido e ben strutturato. La mia esperienza nasce dalla consapevolezza del malessere che attraversa la nostra professione e dalla volontà di darvi voce, traducendo le istanze della categoria in obiettivi concreti. Alcuni

CARE offre dal 1999 a medici, amministratori e operatori sanitari un’opportunità in più di riflessione sulle prospettive dell’assistenza al cittadino, nel tentativo di coniugare – entro severi limiti economici ed etici – autonomia decisionale di chi opera in Sanità, responsabilità collettiva e dignità della persona. 3

di questi obiettivi sono già stati raggiunti, altri restano ancora da realizzare. E, come in ogni percorso, servono pazienza, determinazione e impegno costante.

A proposito di obiettivi, cosa le sta più a cuore tra i risultati ancora da raggiungere e che cosa vorreste ottenere nei prossimi anni? Si dice che il meglio è nemico del bene, ed è vero: non si può ottenere tutto. Tuttavia, molti progetti sono stati avviati concretamente. Quello a cui tengo di più è dare una configurazione chiara agli ordini professionali. È stato un processo lungo e complesso, ma negli ultimi anni abbiamo accelerato. Durante il covid, siamo passati dalla percezione di essere una realtà corporativistica, legata alla difesa di interessi di categoria, alla consapevolezza del nostro ruolo come veri e propri enti pubblici, seppur non economici. Anche i giudici riconoscono che gli ordini realizzano pienamente il pluralismo della nostra società, in

Approfondimenti su: betabloccanti e infarto, epidemia di Mpox, sanità Usa, Ong e ricercatori, Nice e farmaci innovativi

11 DOSSIER

La salute globale di fronte alle scelte degli Stati Uniti: uscita dall’Oms, attacco a Medicaid e alle politiche inclusive

16

CONFRONTI

Il dolore cronico e la legge 38: il nuovo manifesto per il dolore e i dati dell’Iss sul dolore cronico in Italia a quindici anni dalla legge

11 Incontri

IL RUOLO DEL MEDICO E LA SANITÀ COME

ESPRESSIONE DI DEMOCRAZIA

A colloquio con Filippo Anelli

14 Dalla letteratura internazionale

11 Dossier

LA SALUTE GLOBALE

DI FRONTE ALLE SCELTE

POLITCHE DEGLI STATI UNITI

16 Confronti

GESTIONE DEL PAZIENTE

CRONICO: LE SFIDE

DELLA LEGGE 38

Filippo Anelli è un medico specializzato in Reumatologia e Farmacologia clinica. Dopo aver prestato servizio come medico di continuità assistenziale in provincia di Bari dal 1982 al 1987, ha ricoperto importanti incarichi nella FIMMG e nell’Ordine dei medici di Bari, diventandone presidente nel 2012. Nel 2018 è stato eletto Presidente della FNOMCeO, incarico rinnovato nel 2025. La sua carriera si è focalizzata principalmente sulla formazione in medicina generale e sulla promozione della sicurezza dei medici. Ha promosso la realizzazione del docufilm Notturno, trasmesso nel gennaio 2021 su RAI Storia, che documenta la difficile condizione dei medici vittime di violenza nel quotidiano esercizio della professione. Durante la pandemia da covid-19, ha ricoperto un ruolo cruciale a livello scientifico, professionale e comunicativo per la tutela della categoria, ottenendo numerosi riconoscimenti.

linea con i principi della Costituzione. Questo è un risultato straordinario. Sebbene l’iscrizione all’Ordine sia obbligatoria per i medici, il valore di questi enti va oltre la tutela della categoria: essi contribuiscono alla crescita del paese, utilizzando la professione non solo come strumento di democrazia, ma anche come motore di sviluppo per la collettività.

A proposito di crescita del paese, la crescente presenza del mercato nella sanità è un aspetto che vi preoccupa?

Tutti gli articoli e le interviste sono disponibili su www.careonline.it

CARE Costi dell’assistenza e risorse economiche

Direttore responsabile

Giovanni Luca De Fiore

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Sì, la crescente influenza del mercato in ambito sanitario desta molte preoccupazioni. Tempo fa ho incontrato il presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici tedeschi, e anche loro avvertono con forza questa tendenza, condividendo il timore che il diritto alla salute venga trasformato in un mero business.

In Italia, il rischio è ancora più alto: la chiusura degli ospedali, la riduzione dei posti letto e la progressiva scomparsa del medico di famiglia stanno creando vuoti che potrebbero essere colmati da una sanità esclusivamente privata o da medici di famiglia gestiti da grandi holding che investono sul nostro territorio. Se ciò accadesse, si smantellerebbe un sogno: quello che ha portato, alla fine degli anni ’70, alla nascita del Servizio sanitario nazionale. Un sogno basato sul principio della solidarietà, che ha permesso di condividere il peso della malattia tra tutti i cittadini. Se questo principio venisse meno, scomparirebbe anche il Servizio sanitario nazionale così come lo conosciamo.

Sempre restando nell’ambito macroeconomico, gli investimenti promessi anche con il Pnrr sembra siano stati indirizzati prevalentemente sull’adeguamento delle strutture e poco sulla qualificazione economica dei medici di medicina generale e ospedalieri. Qual è la vostra posizione su questo tema?

La nostra posizione sul definanziamento della sanità e sull’impostazione del Pnrr è chiara da tem­

po. L’abbiamo definita ‘questione medica’ e presentata già nel 2021 al governo Conte, poi riproposta all’allora ministro Speranza durante il governo Draghi, e continuiamo a sostenerla tuttora. Il Pnrr finanzia le strutture e le infrastrutture, ma non prevede investimenti per i professionisti, che continuano a non ricevere incentivi adeguati. I contratti di lavoro, infatti, garantiscono solo aumenti nominali, senza compensare l’erosione del potere d’acquisto causata dall’inflazione. Secondo il Censis, negli ultimi dieci anni gli stipendi dei medici hanno perso circa il 6% del loro valore reale. Di fronte a questa situazione, non sorprende che molti professionisti scelgano di lavorare nel settore privato, di trasferirsi all’estero o di optare per il lavoro a gettone. Se non si interviene su questo aspetto, il rischio è quello di un progressivo svuotamento del Servizio sanitario nazionale delle sue risorse più preziose: i medici.

E a chi sostiene che la FNOMCeO non dovrebbe occuparsi di questioni legate alla retribuzione dei professionisti, perché non rientra tra le sue prerogative, cosa rispondete?

La risposta è contenuta nel manifesto “Investire sui medici per salvare il Ssn”, presentato dai sindacati il 25 gennaio scorso. Gli obiettivi di quel documento riguardano aspetti fondamentali dell’esercizio della professione: la dignità del ruolo del medico, la tutela dell’atto medico, il definanziamento della sanità, la depenalizzazione della responsabilità professionale e il contrasto alla violenza contro i sanitari.

Sono tutti temi di cui ci occupiamo da sempre, non in chiave sindacale, ma per restituire autorevolezza e dignità a una categoria che ha dimostrato, con passione, dedizione e generosità, di essere un pilastro fondamentale del nostro sistema sanitario. Del resto, è paradossale avere un Servizio sanitario nazionale sottofinanziato e, al tempo stesso, un paese che vanta una delle popolazioni più longeve al mondo, secondo solo al Giappone.

“Innanzitutto va detto che la sanità è democrazia, perché rappresenta la concretizzazione di un diritto fondamentale… Partecipare ai processi sanitari internazionali significa quindi contribuire alla realizzazione di quella democrazia che la Costituzione stessa auspica”

A proposito di professionalità, come potrebbe evolversi la professione infermieristica per valorizzare il suo ruolo di supporto alle attività di cura accanto al medico, senza però invaderne il campo?

Negli ultimi anni, il rapporto tra le professioni sanitarie è cresciuto in modo significativo. Abbiamo avviato numerose iniziative comuni, istituito tavoli bilaterali e promosso la creazione di un Osservatorio per le professioni sanitarie. Insieme, abbiamo portato avanti battaglie importanti, come quella contro la violenza sugli operatori sanitari.

Credo che il punto di svolta sia rappresentato dalla chiara definizione dell’atto medico: stabilire che diagnosi, prognosi e terapia sono competenza esclusiva del medico pone fine alle polemiche del passato. Allo stesso tempo, su tutto il resto c’è ampio spazio per la crescita e l’interazione delle altre professioni sanitarie.

Oggi non possiamo più immaginare di esercitare questa professione in modo isolato. Il lavoro di squadra è essenziale: accanto al medico devono esserci l’infermiere, il fisioterapista, lo psicologo, l’ostetrico e altri professionisti della salute. Una migliore definizione dei rispettivi ruoli non solo tutela le competenze specifiche di ciascuno, ma consente una crescita esponenziale della sanità nel suo complesso, rispetto al passato.

Lei ha sempre dimostrato grande attenzione ai temi della salute globale, sottolineando anche il legame tra emergenza climatica e sanità. Come ha reagito alla possibile uscita degli Stati Uniti e

di altri paesi dall’Organizzazione mondiale della sanità?

Innanzitutto va detto che la sanità è democrazia, perché rappresenta la concretizzazione di un diritto fondamentale. E i diritti sono il pilastro della nostra Repubblica, poiché trovano il loro fondamento nella Costituzione. Partecipare ai processi sanitari internazionali significa quindi contribuire alla realizzazione di quella democrazia che la Costituzione stessa auspica.

I temi ambientali e sanitari sono strettamente connessi e non possono essere ignorati. I cittadini sono sempre più preoccupati per le condizioni che mettono a rischio la loro salute. E proprio per questo, la salute non può avere confini: le pandemie, ad esempio, si sviluppano in un paese e si diffondono in tutto il mondo, così come il peggioramento delle condizioni sanitarie in un’area geografica può avere ripercussioni su altre nazioni.

L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) è nata con l’obiettivo di superare i nazionalismi e gli individualismi che hanno caratterizzato la prima metà del Novecento, fornendo una risposta collettiva alle emergenze globali. Uscire dall’Oms oggi sarebbe un errore gravissimo. Certo, ogni organizzazione può essere migliorata, aggiornata e adeguata alle nuove sfide, ma l’Oms rappresenta ancora oggi l’unico vero strumento di supporto per i paesi più poveri nel garantire l’accesso alle cure. In un mondo che ha sempre più bisogno di solidarietà, indebolire un’istituzione così fondamentale sarebbe una scelta miope e dannosa per tutti. n

Intervista a cura di Luca De Fiore

Etica per il medico giusto

Giorgio Macellari

Un medico l’etica se la trova davanti ogni giorno: non solo quando affronta le fasi terminali della vita, magari interpellato per azioni eutanasiche, ma anche quando guarda negli occhi una persona che soffre, la tocca per visitarla, trasmette cattive notizie, formula una prognosi e traccia un destino.

Una guida, ma anche una bussola, per orientarsi tra i mille incroci morali che un professionista della salute incontra lungo il cammino.

Dalla Prefazione di Giuseppe Remuzzi

È un testo che aiuta a costruire una consapevolezza etica e professionale solida, necessaria per affrontare le sfide di un mestiere in costante evoluzione.

Dalla Presentazione di Filippo Anelli

Betabloccanti dopo infarto miocardico

acuto: quando è possibile deprescriverli migliorando l’aderenza terapeutica

Jernberg T

Routine beta-blockers in secondary prevention: approaching retirement?

N Engl J Med 2024;391:1356­1357

A partire dagli anni ottanta i betabloccanti hanno rappresentato uno dei pilastri della terapia dopo l’infarto miocardico acuto. Gli studi disponibili avevano infatti dimostrato un aumento della sopravvivenza con l’utilizzo dei betabloccanti a lungo termine. Fortunatamente l’impiego dell’angioplastica primaria e il progresso sia in campo diagnostico che farmacologico, hanno migliorato notevolmente la prognosi di questi pazienti. Di conseguenza i pazienti attuali hanno un profilo di rischio minore e sempre più spesso una normale funzione sistolica ventricolare sinistra dopo infarto miocardico acuto. Una metanalisi che ha incluso i dati di 60 trial ha concluso che l’impiego del betabloccante ha ridotto la mortalità totale negli studi appartenenti al periodo pre­riperfusione coronarica, ma non successivamente alla sua introduzione1

La carenza di dati in merito all’utilizzo del betabloccante nell’epoca moderna ha costituito quindi la spinta per nuovi trial randomizzati sull’argomento.

NUOVE EVIDENZE SCIENTIFICHE

Thomas Jernberg, professore di cardiologia e direttore del Dipartimento di scienze cliniche del Danderyd Hospital, presso l’Istituto Karolinska di Stoccolma, fa il punto su questo tema citando i trial più importanti in un editoriale pubblicato sul New England Journal of Medicine

Il trial REDUCE­AMI (Randomized Evaluation of Decreased Usage of Beta­Blockers after Acute Myocardial Infarction) ha incluso oltre 5.000 pazienti con infarto miocardico acuto sottoposti ad angioplastica coronarica e frazione d’eiezione > 50%. L’utilizzo del betabloccante non ha comportato una riduzione dell’endpoint composito a 3 anni di morte per tutte le cause e infarto miocardico acuto2. Lo studio randomizzato ABYSS (Assessment of Beta­Blocker Interruption 1 Year after an Uncomplicated Myocardial Infarction on Safety and Symptomatic Cardiac Events Requiring Hospitalization) ha invece incluso più di 3.500 pazienti con pregresso infarto miocardico acuto (non nei 6 mesi precedenti) e frazione d’eiezione almeno del 40%. I pazienti sono stati randomizzati alla sospensione o meno del betabloccante, in assenza di differenze significative in termini di morte, infarto miocardico acuto o ictus. Tuttavia il trial non ha dimostrato la non inferiorità della sospensione del betabloccante, a causa dell’aumento delle ospedalizzazioni per cause cardiovascolari (in particolare per angina), che erano state incluse quale ulteriore componente dell’endpoint primario composito. Inoltre, contrariamente a quanto ci si poteva aspettare, non è emersa una differenza tra i due gruppi riguardo alla percezione della qualità della vita3

Altri studi randomizzati sono attualmente in corso e forniranno un contributo fondamentale nel chiarire il ruolo dei betabloccanti in questo setting di pazienti4

LA PRESCRIZIONE NEL MONDO REALE

Le linee guida delle principali società scientifiche europee e americane raccomandano l’utilizzo dei betabloccanti con indicazione di classe IA nel post infarto con frazione d’eiezione <40%. Mentre nei pazienti con frazione d’eiezione >40% la raccomandazione è più debole (IIa­IIb); in particolare nell’infarto miocardico senza sopraslivellamento del tratto ST viene sottolineata la mancanza di evidenze scientifiche. Tuttavia, nella pratica clinica quotidiana, la maggioranza dei pazienti viene ancora dimessa dopo infarto miocardico acuto con la prescrizione del betabloccante, pur in assenza di severa disfunzione sistolica ventricolare sinistra. Tale pratica è supportata unicamente da evidenze storiche, contraddittorie tra loro ed estrapolate da studi non più attuali. I dati del registro svedese SWEDEHEART su oltre 40.000 pazienti senza disfunzione ventricolare sinistra mostrano che il 78% di essi è in terapia betabloccante ad un anno dall’infarto miocardico acuto5

Da un punto di vista economico in Italia non è possibile quantificare la spesa in relazione alla prescrizione di betabloccanti nel post infarto in assenza di disfunzione sistolica ventricolare sinistra. Sappiamo però che tra i principi attivi a maggior impatto di spesa sul prezzo di riferimento, più della metà afferisce alla categoria dei farmaci attivi sul sistema cardiovascolare. Peraltro i dati del 2022 dell’Osservatorio Nazionale sull’impiego dei Medicinali mostrano una prevalenza generale d’uso dei betabloccanti selettivi del 10.4%, con un incremento dei consumi tra il 2021 e il 2022 (+3.8% per il bisoprololo).

Oltre all’aspetto economico, la prescrizione di farmaci senza una concreta indicazione espone i pazienti al rischio di effetti collaterali indesiderati (astenia, bradicardia, ipotensione e altro). Inoltre, più in generale, è noto come all’aumentare del numero di farmaci prescritti si riduce l’aderenza terapeutica complessiva dei pazienti. Pertanto da tutti i punti di vista è auspicabile limitare le prescrizioni ai farmaci strettamente necessari e riservare l’impiego del betabloccante a coloro che possono trarne giovamento.

CONCLUSIONI

I dati più recenti sui betabloccanti non hanno dimostrato un miglioramento prognostico dopo infarto miocardico acuto senza disfunzione sistolica ventricolare sinistra. Pertanto, nei casi di frazione d’eiezione conservata (>50%), i betabloccanti possono avere un ruolo solo come farmaci sintomatici antianginosi, altrimenti non andrebbero utilizzati. Invece nei casi con frazione d’eiezione ridotta di grado lieve­moderato (40­49%), il beneficio è dubbio per cui non vi sono raccomandazioni certe al riguardo. I trial randomizzati in corso forniranno dati preziosi per chiarire meglio gli effetti in queste categorie di pazienti.

Giulia Bugani

Cardiologa, Ospedale Maggiore CA Pizzardi - AUSL Bologna

BIBLIOGRAFIA

1. Bangalore S, Makani H, Radford M, et al. Clinical outcomes with beta-blockers for myocardial infarction: a meta-analysis of randomized trials. Am J Med 2014; 127: 939-53.

2. Yndigegn T, Lindahl B, Mars K, et al. Beta-blockers after myocardial infarction and preserved ejection fraction. N Engl J Med 2024; 390: 1372-81.

3. Silvain J, Cayla G, Ferrari E, et al. Beta-blocker interruption or continuation after myocardial infarction. N Engl J Med 2024; 391: 1277-86.

4. O ttani F, Staszewsky L, Latini R. I betabloccanti nel post-infarto con funzione sistolica conservata: utili o ridondanti? G Ital Cardiol 2022; 23: 932-937.

5. Ishak D, Aktaa S, Lindhagen L, et al Association of beta-blockers beyond 1 year after myocardial infarction and cardiovascular outcomes Heart 2023; 109: 1159-1165.

Cosa ci sta insegnando la nuova amministrazione americana per la sanità?

Cutting Medicaid? How Republicans could change the program

https://www.nytimes.com/2025/03/10/briefing/ republicans­medicaid.html

L’attenzione costante per quanto sta avvenendo oltre Atlantico, a causa delle spinte della nuova amministrazione di Donald Trump e del suo Gabinetto, non è dovuta soltanto al fatto che gli Stati Uniti restano comunque la principale forza fin qui schierata nel campo occidentale, interlocutrice tradizionalmente privilegiata del mondo europeo e anche dell’Italia, ma si spiega anche perché quel che si sta decidendo lì adesso in ambito sanitario sembra anticipare, amplificandole, alcune tendenze da tempo all’opera anche qui da noi. Trump e i suoi sodali non si fanno però alcuno scrupolo nel rendere palese l’attacco al welfare sociale, da noi ancora mascherato. Ciò spiega perché il New York Times stia seguendo con tanta preoccupata attenzione le mosse del nuovo esecutivo, di cui ha dato conto anche in un recente editoriale.

GLI ATTACCHI A MEDICAID

Già nel corso del suo primo mandato Trump aveva provato a colpire il sistema Medicaid, riducendone drasticamente i fondi. La memoria del fallito tentativo del 2017, sconfitto grazie alla mobilitazione

popolare e alle pressioni dei governatori repubblicani preoccupati per le ricadute economiche locali, sembra di buon auspicio per l’oggi, se i cittadini si dimostreranno pronti a difendere uno dei pilastri della sicurezza sociale statunitense. Di fatto, le recenti proposte dei leader repubblicani al Congresso di tagliare 880 miliardi di dollari dal prossimo bilancio federale mettono a rischio il futuro stesso del programma Medicaid, nonostante le rassicurazioni ufficiali. Pur dichiarando che i tagli non sono mirati specificamente contro Medicaid — il programma di assicurazione sanitaria che assiste 72 milioni di americani poveri e disabili — l’entità della somma non lascia dubbi: colpire Medicare, come promesso da Trump, non è un’opzione plausibile, e quindi la scure cadrà inevitabilmente su Medicaid. Ricordiamo un paio di cifre: il programma Medicaid copre il 21% dei cittadini statunitensi, tra i quali il 48% degli adulti poveri, il 41% dei disabili e l’80% dei bambini a basso reddito. Non a caso i democratici hanno deciso di focalizzarsi su Medicaid come punto centrale della loro opposizione al nuovo piano di bilancio repubblicano.

UNA STRATEGIA INSIDIOSA

La strategia è insidiosa e ben studiata e dovrebbe ricordare qualcosa anche a noi italiani. Poiché la maggior parte dei fondi Medicaid viene trasferita ai bilanci statali, i tagli si tradurranno in una drastica riduzione delle risorse locali. I legislatori dei singoli Stati, quindi, si troveranno costretti a prendere decisioni difficili: ridurre la copertura sanitaria, aumentare le tasse o tagliare spese vitali come l’istruzione. Insomma, siamo di fronte a un classico: una decisione federale (da noi, di Governo) scarica i suoi effetti a livello statuale (da noi, regionale), mettendo in sofferenza le strutture locali.

I possibili rimedi proposti dai repubblicani, come l’imposizione di un requisito lavorativo per i beneficiari non disabili della fascia ampliata con l’Obamacare, risparmierebbero al Governo federale solo una frazione della cifra richiesta. Tagliare le prestazioni opzionali, come la copertura dei farmaci da prescrizione, o ridurre i pagamenti a medici e ospedali rischia invece di compromettere gravemente l’accesso alle cure, soprattutto in aree rurali o presso le strutture di assistenza a lungo termine.

CONCLUSIONI

Dietro questo piano si cela una logica politica che scarica la responsabilità sui singoli Stati, consentendo ai repubblicani al Congresso di dichiarare di non aver tecnicamente ridotto i benefici Medicaid, sebbene la conseguenza pratica sarà, in molti casi, esattamente quella. I repubblicani giustificano questi tagli sostenendo che gli Stati hanno abusato di stratagemmi contabili per ridurre il loro contributo a Medicaid, lasciando a Washington una fetta sproporzionata dei costi. Tuttavia, l’espansione del programma avvenuta con l’Obamacare ha reso Medicaid ampiamente popolare: oltre la metà degli americani dichiara di conoscere qualcuno che ne ha beneficiato, e solo una minoranza (17%) è d’accordo con la riduzione del budget.

SI vedrà più avanti se il piano passerà o se l’opposizione federale al Congresso e nei singoli Stati, a livello locale, impedirà o conterrà questo ennesimo, poderoso attacco ad uno dei pochi pilastri di stato sociale presenti negli Stati Uniti.

Dunque gli Stati Uniti lasciano l’Oms? Il

punto del NEJM

Yamey G, Titanji BK

Withdrawal of the United States from the WHOHow president trump is weakening public health

NEJM 2025; published online March, 5

Sapete a quanto ammonta il budget annuo dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms)1, al quale il Presidente Trump ha deciso di negare d’ora in poi l’apporto degli Stati Uniti? Bene: il suo bilancio per il 2024­2025 è di 6,83 miliardi di dollari, meno di quanto il minuscolo Stato americano del Rhode Island ha speso per l’assistenza sanitaria nel 2022 (9 miliardi di dollari). Rendiamoci conto: mentre il mondo, Europa in testa, ragiona su come dotarsi di nuovi, colossali armamenti al prezzo di centinaia di miliardi di dollari, l’Oms svolge anno dopo anno un lavoro straordinario con finanziamenti risibili.

La pandemia da Covid­19 è appena alle spalle, ma non abbiamo imparato niente. Noi per primi, occorre dirlo: l’Italia, con i suoi 65 milioni di dollari, si posiziona al ventunesimo posto2 tra i contributori dell’Oms per l’ultimo biennio, meno di un quinto dell’apporto di Germania e Gran Bretagna, per dire. Al contrario, la comunità internazionale dovrebbe cogliere questo momento per rafforzare la cooperazione sanitaria globale, contrastare il ritiro degli Stati Uniti dall’Oms e garantire che il mondo non diventi più vulnerabile a future pandemie.

Questo è il messaggio lanciato dal NEJM in una Perspective pubblicata a marzo, a sottolineare viceversa la necessità di restare uniti e solidali, mai come in questo momento. Eppure, la realtà è questa: il 20 gennaio 2025, nel giorno stesso dell’inaugurazione del suo secondo mandato, Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per ritirare gli Stati Uniti dall’Oms e sospendere i finanziamenti futuri al principale organo internazionale di coordinamento della sanità pubblica. Se attuato, le conseguenze sarebbero devastanti sulla capacità globale di rispondere a pandemie ed epidemie, minacciando non solo la salute mondiale, ma in primis quella degli stessi cittadini statunitensi. Peraltro, già nel 2020, durante la sua prima presidenza, Trump aveva tenta­

to di ritirare gli Stati Uniti dall’Oms, accusando l’agenzia di non aver risposto con sufficiente prontezza alla diffusione del Covid­19. Fortunatamente, la procedura di uscita richiede un anno per essere completata e il presidente Joe Biden, il primo giorno del suo mandato, aveva ribaltato la decisione. Ora però, grazie alla maggioranza repubblicana al Congresso, il ritiro sembra avere maggiori possibilità di concretizzarsi. Se portato a termine, l’addio statunitense rappresenterebbe una frattura e un precedente storici: nessun altro paese ha mai deciso di abbandonare l’Oms, l’organizzazione che dal 1948 coordina la risposta internazionale alle emergenze sanitarie.

LE CONSEGUENZE DI UN RITIRO DEGLI STATI UNITI

DALL’OMS

Il ritiro degli Stati Uniti dall’Oms avrebbe un impatto diretto su due fronti principali: il finanziamento dei programmi globali di salute pubblica e la cooperazione scientifica internazionale per il controllo delle malattie infettive. Di fatto, gli Stati Uniti sono stati, per anni, il più grande donatore dell’Oms, contribuendo tra i 163 milioni e gli 816 milioni di dollari all’anno nell’ultimo decennio. Solo nel biennio 20222023, il paese ha versato 1,28 miliardi di dollari, pari al 16% del budget totale dell’organizzazione. La maggior parte di questi fondi è destinata a programmi critici come la lotta alle pandemie, l’eradicazione della poliomielite e la gestione delle emergenze sanitarie. Senza il supporto economico statunitense, molte di queste iniziative rischiano di essere ridimensionate o addirittura interrotte, lasciando scoperti milioni di individui nei paesi più vulnerabili. Uno dei programmi più a rischio è l’Iniziativa Globale per l’Eradicazione della Polio, che si basa in gran parte sui fondi statunitensi. Un rallentamento o una sospensione di questo programma potrebbe portare a una recrudescenza della malattia in diverse parti del mondo.

Oltre al danno economico, il ritiro degli Stati Uniti minerebbe la cooperazione scientifica e la condivisione di dati cruciali per la prevenzione e il controllo delle epidemie. L’ordine esecutivo di Trump prevede infatti che i Centers for disease control and prevention (Cdc) interrompano ogni comunicazione con l’Oms, creando una pericolosa frattura nella rete di sorveglianza epidemiologica globale. Per

La sede dell’Oms a Ginevra.

esempio, il Cdc ospita il Centro collaborativo dell’Oms per la sorveglianza dell’influenza, una struttura chiave per il monitoraggio delle mutazioni del virus influenzale e la prevenzione di pandemie. Senza questo collegamento, l’identificazione precoce di nuove varianti del virus potrebbe subire ritardi, aumentando il rischio di focolai globali non controllati. A detta del lavoro apparso sul NEJM, la mancanza di cooperazione potrebbe anche compromettere la risposta a emergenze sanitarie attuali, come l’epidemia di aviaria in Nord America o i nuovi focolai di Ebola in Uganda. In passato, la collaborazione tra CDC e Oms è stata determinante per contenere epidemie: durante l’emergenza Ebola del 2014­2016, gli Stati Uniti hanno inviato oltre 1400 operatori sanitari in Africa occidentale per supportare il lavoro sul campo dell’Oms. Senza questa sinergia, il contagio avrebbe potuto diffondersi ben oltre i confini della regione. Contrariamente a quanto affermato da Trump, il ritiro dall’Oms non rafforza la sovranità sanitaria degli Stati Uniti, ma li espone a rischi maggiori. Senza accesso ai dati epidemiologici globali, i Cdc potrebbero trovarsi impreparati di fronte a nuove minacce sanitarie emergenti. Un’epidemia non riconosciuta tempestivamente in Asia o in Africa potrebbe arrivare sul suolo americano senza adeguate misure di contenimento. Inoltre, la decisione di isolarsi renderebbe gli Stati Uniti meno influenti nelle discussioni globali sulla salute pubblica. Anche se Trump ha accennato alla possibilità di riconsiderare la sua decisione in cambio di riforme all’Oms e della nomina di un direttore generale statunitense, il meccanismo di selezione dell’agenzia rende questa richiesta irrealistica.

LA SFIDA DA AFFRONTARE

L’uscita degli Stati Uniti dall’Oms impone una sfida senza precedenti alla comunità internazionale. L’organizzazione dovrà colmare il vuoto finanziario lasciato dagli americani, cercando nuove fonti di finanziamento tra governi, fondazioni filantropiche e donatori privati. La Bill & Melinda Gates Foundation potrebbe giocare un ruolo chiave, ma non è chiaro se possa compensare interamente la perdita. A complicare il quadro, altri paesi, come l’Argentina di Javier Milei, stanno valutando di seguire l’esempio americano, rischiando di innescare un effetto domino che indebolirebbe ulteriormente l’Oms. In un momento storico segnato dall’aumento delle epidemie, dalla resistenza agli antibiotici e dagli effetti della crisi climatica sulla salute, la frammentazione della governance sanitaria globale potrebbe avere conseguenze disastrose. In sostanza, il ritiro degli Stati Uniti dall’Oms rappresenta un pericoloso passo indietro nella lotta contro le malattie infettive e le emergenze sanitarie globali. Se questa decisione non verrà invertita, il mondo sarà più vulnerabile di fronte a future pandemie. Nel frattempo, la comunità scientifica internazionale e le organizzazioni sanitarie devono trovare nuovi modi per collaborare e rafforzare la cooperazione globale, perché i virus non rispettano confini politici.

BIBLIOGRAFIA

1. WHO. Programme budget. Disponibile online al seguente indirizzo: https://www.who. int/about/accountability/budget

2. Osser vatorio Conti Pubblici Italiani (CPI). Come si finanzia l’OMS? Disponibile online al seguente indirizzo: https://osservatoriocpi.unicatt.it/ocpi-pubblicazioni-come-sifinanzia-l-oms

La collaborazione tra organizzazioni non governative e ricercatori per la scoperta dei farmaci

Anna Napolitano

Partners in drug discovery: how to collaborate with nongovernmental organizations https://www.nature.com/articles/d41586­024­02774­y

Le collaborazioni accademiche con le organizzazioni non governative (Ong) possono stimolare la ricerca e dare un contributo nel far arrivare nuovi farmaci nei luoghi del mondo dove sono più necessari ma non ci sono risorse per comprarli. Non sempre infatti viene sfruttato a pieno il potenziale di una scoperta biomedica per affrontare una malattia. Può accadere che per motivi legati al ritorno economico considerato non sufficientemente elevato o per altre cause la scoperta si limiti alla sola pubblicazione accademica. Molti ricercatori biomedici, dunque, collaborano con organizzazioni non governative per trasformare le loro idee scientifiche in prodotti, lavorando quindi al di fuori del tipico processo di sviluppo di biotecnologie o farmaci, e senza dover creare una propria azienda o vendere le loro scoperte a una grande casa farmaceutica. D’altra parte, il vantaggio che trovano le Ong nella collaborazione con il mondo accademico risiede nella possibilità di raggiungere le persone che hanno più bisogno di questi prodotti e tecnologie.

Nature prende in esame quattro esperienze di accademici che hanno stretto partnership con alcune Ong e descrivono come favorevole la loro collaborazione, tanto da dare consigli su come gestire al meglio il lavoro tra le due parti.

ALCUNE ESPERIENZE

Drugs for Neglected Disease

Annette Von Delft, Responsabile degli antinfettivi presso il Centre for Medicines Discovery dell’Università di Oxford, fa parte del COVID Moonshot, un consorzio no­profit e open­s cience di scienziati, nato come collaborazione virtuale e spontanea nel marzo 2020, quando un gruppo di scienziati, accademici, team di ricerca farmaceutica e studenti di tutto il mondo ha iniziato una corsa contro il tempo, alimentata da quello che allora si chiamava Twitter, per identificare nuove molecole in grado di bloccare l’infezione da SARSCoV­2. Il sogno era quello di creare una pillola che tutti, in tutto il mondo, potessero ottenere in modo rapido e conveniente.

L’Ong Drugs for Neglected Diseases (DNDi) è stata fondata nel 2003 da sette partner – tra cui l’organizzazione umanitaria internazionale Medici Senza Frontiere – in risposta alla frustrazione di fronte a farmaci inefficaci, non sicuri, non disponibili o non accessibili. DNDi aveva le competenze in materia di test preclinici e di farmaci a prezzi accessibili che COVID Moonshot desiderava. Il progetto aveva la necessità di accedere alla produzione su larga scala e alle approvazioni normative, e DNDi le ha fornite, direttamente o attraverso partnership negoziate con altre organizzazioni no­profit o attraverso le biotecnologie. L’Ong ha avuto il ruolo di ponte tra i ricercatori e il pubblico in generale, senza la necessità di investire tutto il denaro tipicamente associato allo sviluppo di un farmaco. I costi di produzione del farmaco e di esecuzione dei test preclinici rimangono, ma le Ong come il DNDi hanno le com­

petenze e la rete di contatti per esternalizzare a finanziatori filantropici o governativi i primi costi di scoperta e i costi preclinici.

“Agli accademici che vogliono cooperare con una Ong – conclude Annette Von Delft – suggerirei di cercare diversi potenziali partner. Avendo chiaro il proprio progetto di ricerca, gli scienziati dovrebbero valutare le dimensioni delle organizzazioni, la rapidità del processo e in che misura possono avere accesso a sistemi di finanziamento alternativi. Secondo la mia esperienza, vale sempre la pena lavorare con le Ong: la loro capacità di raggiungere un maggior numero di persone è più ampia di quella delle aziende farmaceutiche e la visione e la missione che hanno danno un valore aggiunto. In fin dei conti, facciamo scienza per aiutare le persone, e le Ong mettono in contatto gli scienziati con le persone più bisognose”.

No Leprosy Remains

L’Ong internazionale No Leprosy Remains, con sede ad Amsterdam, lavora in paesi in cui la lebbra e altre malattie trascurate rappresentano un pesante fardello che ha ricadute anche sull’esclusione sociale ed economica delle persone malate. Premesso che è un vantaggio per tutti se un governo adotta nuovi trattamenti o piani di prevenzione, le Ong che si occupano di malattie mirano a facilitare un approccio di collaborazione trasversale tra accademici e politici. Nel caso di No Leprosy Remains, questa partnership ha portato alla stesura di linee guida tecniche dell’Organizzazione mondiale della sanità per fermare la trasmissione della lebbra. Inoltre, grazie agli uffici di cui dispone in diversi paesi, No Leprosy Remains fa parte di una grande rete di organizzazioni e offre agli accademici le conoscenze sul campo e i contatti con i governi locali, che potrebbero non trovare nel loro istituto di ricerca. Per gli accademici dei paesi a basso e medio reddito, l’Ong offre formazione sui metodi di ricerca e sulla scrittura scientifica, oltre a collegamenti con gli istituti di ricerca di altri paesi e tutoraggio per l’avanzamento di carriera.

Sightsavers

Sunday Isiyaku, direttore nazionale per la Nigeria e il Ghana di Sightsavers, racconta la sua carriera da ricercatore biomedico fino ad arrivare a lavorare nell’organizzazione no­profit internazionale Sightsa­

vers, che si occupa di prevenire alcune patologie oculari evitabili, e di combattere la stigmatizzazione delle disabilità nei paesi a basso e medio reddito. Sightsavers è una delle poche Ong internazionali ad avere lo status di organizzazione di ricerca indipendente nel Regno Unito, il che significa che, come le università, può richiedere finanziamenti specifici per sostenere la propria ricerca.

La maggior parte delle persone colpite dalle patologie oculari di cui si occupa l’Ong vive in Africa. Queste condizioni sono per lo più conseguenza di malattie trascurate o di infezioni curabili, ma nei paesi a basso e medio reddito non vengono affrontate in modo efficiente o rapido, con conseguenze devastanti per la vita delle persone. Per esempio, la cecità fluviale è causata dalla puntura di una mosca nera (Simulium damnosum) infettata da un parassita. In Africa occidentale, è responsabile di un numero enorme di casi di cecità da infezione. Gli scienziati hanno dimostrato che il farmaco ivermectina è efficace nel bloccare la trasmissione del parassita, ma non era mai stato testato per la cecità fluviale nelle persone. Sightsavers ha collaborato con i ricercatori, le comunità locali e le organizzazioni dell’Africa occidentale per testare il farmaco sulle persone e ha funzionato. Grazie anche ai dati di Sightsavers, il trattamento di massa con ivermectina è ora una procedura standard per eliminare questa malattia dai paesi colpiti. Sightsavers stabilisce anche collaborazioni con i governi e le comunità locali per garantire che le scoperte scientifiche siano rilevanti e messe in atto nel contesto del paese o della comunità. L’organizzazione ha aiutato le istituzioni accademiche a comunicare meglio con le comunità locali per incoraggiare le persone ad assumere trattamenti preventivi per malattie come la cecità fluviale, la schistosomiasi e la filaria linfatica. Nei casi in cui l’obiettivo ultimo di una Ong è quello di incidere sulle politiche di un paese – con il fine di migliorarle – in materia di trattamento delle malattie, la stessa organizzazione ha bisogno di partner di ricerca che possano fornire evidenze scientifiche in grado di influenzare il cambiamento delle politiche.

CONCLUSIONI

Sunday Isiyaku conclude: “Come accademico che ora lavora in una Ong so bene che, per il successo dei progetti, le Ong devono collaborare con gli accademici delle istituzioni, perché pongono domande difficili, essenziali per ottenere prove solide. Unire le forze con il personale di ricerca impiegato nelle istituzioni può aiutare a ridurre la distanza tra questi due mondi. Le posizioni ibride aiutano i ricercatori a pensare alle applicazioni del loro lavoro fin dall’inizio e aiutano le Ong ad accedere tempestivamente alle scoperte scientifiche”. Daniel Fletcher, bioingegnere dell’Università della California e inventore del CellScope, pone l’accento sulla conoscenza e la diffusione delle opportunità di finanziamento da parte delle Ong. “La maggior parte dei miei partenariati con le Ong è arrivata attraverso il passaparola. Avere una sorta di database centralizzato in cui trovare le aree prioritarie delle Ong, le capacità di finanziamento e i bandi per le sovvenzioni aiuterebbe gli accademici a impegnarsi maggiormente con queste realtà. Nonostante le sfide, queste collaborazioni sono state molto produttive per tutti i soggetti coinvolti. Il mio team ha imparato molto su come un’idea scientifica possa avere una gamma di applicazioni molto più ampia rispetto al suo scopo originario. Le comunità ricevono ora diagnosi tempestive grazie a quello che in origine era solo un progetto di curiosità”.

Emergenza globale per Mpox: servono risposte efficaci ed eque

Gostin LO, Jha AK, Finch A

The Mpox global health emergency. A time for solidarity and equity

N Engl J Med 2024; 391: 1265­1267

Il 14 agosto 2024 il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha dichiarato che il vaiolo delle scimmie nella Repubblica Democratica del Congo e nei paesi limitrofi è un’emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale secondo il Regolamento sanitario internazionale (IHR) del 2005, il livello di allerta più alto dell’Oms. Ce lo ricordano i ricercatori americani Lawrence O. Gostin, Ashish Jha e Alexandra Finch nella Perspective pubblicata sul NEJM a ottobre 2024, nella quale fanno il punto della situazione sottolineando l’importanza di intraprendere azioni solidali a livello internazionale per contenere l’emergenza.

EVOLUZIONE DELL’EPIDEMIA

Nel 2023 il Congo aveva già visto un forte aumento della diffusione di Mpox, guidato da un sottotipo geneticamente distinto e più trasmissibile, il clade Ib. Nel 2024 l’epidemia è continuata con la segnalazione di più di 15.600 casi di contagio e 537 decessi. Tuttavia, a causa della scarsa sorveglianza, della mancata esecuzione di test e tracciamento dei contatti, i numeri del contagio sono sicuramente più alti perché molti altri casi non sono stati rilevati. Episodi di contagio sono stati segnalati in tutte le 26 province della Repubblica. La trasmissione da uomo a uomo si è verificata principalmente all’interno delle famiglie, in contesti sanitari o attraverso il contatto sessuale, con il rischio maggiore tra gli uomini che hanno rapporti sessuali con uomini e le lavoratrici del sesso.

Le evidenze suggeriscono che il clade Ib ha maggiori probabilità di essere letale rispetto al clade IIb2, il ceppo che ha causato l’epidemia globale di Mpox nel 2022, colpendo principalmente gli uomini che hanno rapporti sessuali con uomini e causando quasi 100.000 casi e oltre 208 morti in 116 paesi. La maggior parte dei casi e dei decessi nell’attuale epidemia si è verificata tra i bambini, ad indicare che la trasmissione avviene attraverso vie diverse dal contatto sessuale.

LE DICHIARAZIONI DI EMERGENZA

L’Oms aveva già dichiarato un’emergenza sanitaria per l’epidemia globale di Mpox di clade IIb nel 2022, non ottenendo però la stessa attenzione mediatica e gli stessi investimenti rispetto a quanto sta accadendo oggi. Attualmente esistono due vaccini contro il morbo raccomandati dall’Oms, che ha sollecitato i produttori a richiedere il loro inserimento nella lista per uso in emergenza (emergency use listening) così da facilitarne la distribuzione nei paesi africani a prezzi accessibili. La dichiarazione di emergenza attiva obblighi giuridici vincolanti per la cooperazione internazionale e la rapida comunicazione dei dati, il

rispetto di eventuali raccomandazioni temporanee emanate dall’Oms e la mobilitazione di finanziamenti da destinare alla diagnostica, alla sorveglianza e all’adozione di tutte le contromisure mediche necessarie. Poiché questa è la prima volta che le dichiarazioni di emergenza regionali e internazionali sono in vigore contemporaneamente, è fondamentale armonizzare la risposta globale all’Mpox e dare pieno sostegno ai paesi africani e ai funzionari della sanità pubblica che guidano la risposta al virus nelle loro comunità. Il regolamento sanitario internazionale chiede di evitare di imporre inutili restrizioni ai viaggi o al commercio e di basare la risposta all’emergenza sanitaria pubblica sulle evidenze disponibili e sul rispetto dei diritti umani.

LE PRIORITÀ PER UNA RISPOSTA SOLIDALE

Secondo gli autori per offrire una risposta globale efficace a questa emergenza è prioritario rafforzare i sistemi sanitari con importanti investimenti nell’ambito della diagnostica, della sorveglianza e del personale sanitario ma anche incrementare le capacità di sorveglianza nelle aree di confine per prevenire un’ulteriore diffusione internazionale. E tutto questo non può prescindere da un’assistenza finanziaria internazionale agli stati africani perché siano incentivati a sviluppare e attuare contromisure sanitarie più sicure ed efficaci al loro interno. L’aiuto internazionale è vitale anche per facilitare un accesso equo ai test diagnostici e ai vaccini in questi stessi paesi. Inoltre, una comunicazione del rischio accurata e non stigmatizzante, fornita dagli stessi membri delle comunità africane, sarà determinante per mitigare l’ulteriore diffusione dell’epidemia, soprattutto per le popolazioni a rischio come le prostitute e gli uomini che hanno rapporti sessuali con uomini. Diversi paesi africani, purtroppo, hanno promulgato leggi che criminalizzano la condotta sessuale tra persone dello stesso sesso, il che può dissuadere queste persone dal richiedere vaccinazioni o cure. È quindi particolarmente importante che le campagne di informazione su come evitare il contagio raggiungano queste popolazioni.

L’ultima, ma non meno importante, considerazione fatta dai ricercatori americani riguarda la frequenza delle dichiarazioni dello stato di emergenza. Quella di cui stiamo parlando è la terza in 5 anni: un chiaro riconoscimento delle continue minacce alla sicurezza sanitaria. Ogni emergenza dichiarata stimola indubbiamente l’azione internazionale, che poi si affievolisce senza porre fine alle malattie endemiche. Mantenere alta l’attenzione verso questa epidemia e aiutare anche finanziariamente la Repubblica del Congo e i paesi confinanti perché riescano a contenerla in modo efficace è un bene non solo per queste regioni ma anche per i paesi più avanzati nel mondo. I casi, per ora isolati, individuati in Svezia e Tailandia evidenziano il potenziale pandemico di questa epidemia. “Se ci adagiamo sulle nostre certezze, senza dare a questi segnali l’attenzione che meritano, rischiamo di dover realmente affrontare nel prossimo futuro un più grande evento sanitario a livello globale”, concludono gli autori.

Letizia Orzella

Direzione regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria

Area della Prevenzione e Promozione della Salute, Regione Lazio

Il difficile compromesso tra innovazione e massimizzazione della salute

Huseyin Naci, Peter Murphy, Beth Woods et al.

Population-health impact of new drugs recommended by the National Institute for Health and Care Excellence in England during 2000-20: a retrospective analysis Lancet 2025; 405: 50­60

Ogni sistema sanitario deve affrontare difficili compromessi quando stabilisce di finanziare e raccomandare nuovi farmaci. Un gruppo di economisti sanitari guidato da Huseyin Naci, della London school of economics and political science, ha condotto uno studio retrospettivo sull’impatto sulla salute pubblica delle raccomandazioni prodotte dal Nice (National institute for health and care excellence) sui nuovi farmaci disponibili in Inghilterra tra il 2000 e il 2020 a 5 anni dalla loro approvazione da parte della Medicines and Healthcare products Regulatory Agency, l’agenzia regolatoria inglese. Ogni farmaco raccomandato dal Nice può essere rimborsato dal servizio sanitario inglese generando in questo modo indiscutibili benefici per la parte della popolazione interessata all’utilizzo di quel farmaco. Occorre però una valutazione attenta dei benefici globali che si possono ottenere, prendendo in considerazione anche l’aspetto del costo­opportunità ossia dei benefici che si sarebbero potuti ottenere se le stesse risorse fossero state investite in altri trattamenti sanitari. In un sistema sanitario con risorse limitate, l’allocazione di fondi per nuovi farmaci può comportare la riduzione o l’eliminazione di altri interventi sanitari già esistenti, con un impatto potenzialmente negativo sulla salute complessiva della popolazione.

ASPETTI ANALIZZATI

Gli autori hanno esaminato 332 farmaci unici valutati da Nice, escludendo quelli non raccomandati o ritirati, nonché le valutazioni relative a dispositivi medici, diagnostica o procedure interventistiche. La valutazione ha considerato i seguenti aspetti: l anni di vita guadagnati aggiustati per la qualità (Quality­Adjusted Life Years, QALYs) per ogni nuovo farmaco; l il costo incrementale per QALY (ICER) di ogni nuovo farmaco. Questo indicatore è utilizzato per valutare l’efficacia di un farmaco rispetto al suo costo (più questo valore è basso, più il trattamento è relativamente più conveniente per i benefici che offre); l il numero di pazienti trattati con i farmaci raccomandati; l l’effetto netto sulla salute della popolazione, calcolando la differenza tra i guadagni incrementali di QALY derivanti dall’implementazione del nuovo farmaco e i QALY stimati che si potrebbero ipoteticamente ottenere riallocando gli stessi fondi ad altri servizi o trattamenti del National health service (Nhs).

RISULTATI

Dei 332 farmaci unici valutati dal Nice, 276 (83%) hanno ricevuto raccomandazioni positive. Di questi, 207 (75%) sono stati valutati entro 5 anni dall’approvazione regolatoria e 183 sono stati inclusi nell’analisi finale. I risultati mostrano che l’adozione dei nuovi farmaci ha comportato una spesa aggiuntiva di 75,1 miliardi di sterline per il sistema sanitario

inglese, generando un totale di circa 3,75 milioni di QALY aggiuntivi per 19,82 milioni di pazienti. Tuttavia, se le stesse risorse fossero state investite in altri servizi sanitari, si sarebbero potuti ottenere circa 5 milioni di QALY, ossia 1,25 milioni di QALY in più. In altre parole la copertura dei nuovi farmaci da parte del Nhs ha sacrificato più salute di quanta ne abbia generata. Questo effetto negativo è particolarmente evidente nei farmaci oncologici, per i quali è stato calcolato un ICER di 30.000 sterline, e meno evidente per i farmaci anti­infettivi, che hanno avuto un ICER di 6.478 sterline.

IMPLICAZIONI POLITICHE

L’analisi evidenzia che l’allocazione delle risorse verso nuovi farmaci ha spesso sacrificato interventi sanitari più efficienti in termini di rapporto costo­beneficio.

Il Nice consiglia di considerare i nuovi farmaci idonei al finanziamento all’interno del Nhs se il loro costo è inferiore a 20.000­30.000 sterline per ogni anno aggiuntivo di piena salute guadagnato, misurato in QALY. Questa soglia, sottolineano gli autori, potrebbe però essere troppo alta rispetto alla soglia reale di costo­opportunità del Nhs che, sulla base delle analisi utilizzate dal Department of health and social care, è fissata a 15.000 sterline per QALY.

Dal punto di vista politico, questi risultati potrebbero influenzare il dibattito sulla sostenibilità del finanziamento ai farmaci innovativi. Ridurre la soglia di costo­efficacia potrebbe limitare l’accesso a nuovi farmaci, mentre mantenerla elevata rischia di sottrarre risorse a interventi più efficienti. Secondo gli autori una maggiore trasparenza nei processi decisionali del Nice e la revisione delle priorità sanitarie dovrebbero essere gli elementi chiave da considerare per garantire un migliore equilibrio tra innovazione e massimizzazione della salute della popolazione.

QALY sacrificati: -1,25 milioni Milioni di QALY

QALY guadagnati con i nuovi farmaci

QALY ipotetici in seguito a una riallocazione delle risorse

Impatto netto dei nuovi farmaci sulla salute della popolazione inglese sulla base dello studio pubblicato dal Lancet

“Dunque, tra i soldi fissi e quelli delle donazioni periodiche, oltre che attraverso organizzazioni private, si può dire che gli Stati Uniti investono nell’Oms oltre 1,2 miliardi di dollari l’anno. Sono il primo contribuente”, Giuseppe Ippolito

La salute globale di fronte alle sfide delle scelte politiche degli Stati Uniti

Il dibattito sulla salute globale è sempre più interconnesso con le dinamiche politiche ed economiche internazionali. Questo dossier raccoglie le riflessioni di esperti provenienti da diversi ambiti del settore sanitario nazionale sulle implicazioni delle politiche dell’amministrazione Trump, le cui decisioni rischiano di incidere non solo sulla salute della popolazione statunitense, ma anche sugli equilibri sanitari globali. Il preannunciato ritiro degli Stati Uniti dall’Organizzazione mondiale della sanità e la crescente incidenza dei finanziamenti privati nel sostegno a questa istituzione sollevano interrogativi sulla sua autonomia

Oms: tra pubblico e privato

Subito dopo il suo insediamento, Trump ha firmato importanti ordini esecutivi presidenziali, tra cui il ritiro degli Stati Uniti dall’Oms. La decisione era già stata presa nel 2020 ma successivamente revocata da Biden. Abbiamo chiesto a Giuseppe Ippolito, Gavino Maciocco, Maurizio Bonati e Marco Geddes da Filicaia un commento a caldo sulle conseguenze dell’attuazione di questi ordini.

LO SCHIAFFO DI TRUMP ALL’OMS

Giuseppe Ippolito, Professore ordinario di Malattie infettive alla Saint Camillus International University of Health Sciences di Roma, già Direttore generale per la Ricerca e l’innovazione in sanità del Ministero della salute, afferma che “i dati sui quali si basa la decisione di Trump sono incontrovertibili: gli Stati Uniti sono il primo contributore di finanziamento corrente dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) con 250 milioni di dollari. Esistono dei finanziamenti periodici all’Oms, denominati ‘contributi volontari’, e gli Stati Uniti rappresentano il primo paese a fornirne in maniera diretta. Dunque, tra i soldi fissi e quelli delle donazioni periodiche, oltre che attraverso organizzazioni private, si può dire che gli Stati Uniti investono oltre 1,2 miliardi di dollari l’anno. Sono il primo contribuente. Trump vuole contare di più e per questo fa la voce grossa e ‘dà uno schiaffo’ all’Oms. Non penso che diventi una guerra reale perché l’isolamento non fa bene a

e sull’urgenza di una riforma strutturale. Contestualmente, il congelamento degli aiuti umanitari da parte del governo statunitense compromette l’operatività di agenzie internazionali come USAID, limitando il supporto alle popolazioni più vulnerabili e ponendo interrogativi sul futuro della cooperazione internazionale in ambito sanitario. In un contesto in cui la sanità pubblica è sempre più soggetta a strumentalizzazioni politiche, diventa essenziale un confronto su modelli di governance che garantiscano equità, indipendenza e giustizia sociale su scala globale.

nessuno; il clima mondiale scoraggia questo tipo di misure perché è necessario avere un modello di coordinamento.”

Gavino Maciocco, docente di Igiene e sanità pubblica presso l’Università di Firenze e promotore e coordinatore di Saluteinternazionale.info nonché direttore della rivista quadrimestrale Salute e Sviluppo (dell’Ong Medici con l’Africa, Cuamm), fa il quadro sulla provenienza dei finanziamenti che arrivano all’Oms fornendo numeri importanti: “Gli Stati Uniti rappresentano il 25% del bilancio dell’organizzazione internazionale; quindi, il loro ritiro sarebbe catastrofico in termini di capacità dell’Oms di svolgere le proprie funzioni. La situazione attuale dell’Oms non è felicissima poiché sta aumentando notevolmente la quota di finanziamento da parte dei privati. Per esempio, la Fondazione Bill e Melinda Gates dà un contributo del 18­20% sul totale dei fondi ricevuti dall’Oms. Il bilancio dell’Oms è suddiviso in due componenti principali. La prima è costituita dai contributi obbligatori versati dagli Stati membri, calcolati in base al loro Pil. Questo spiega perché, se gli Stati Uniti escono, viene meno una componente del 25% della parte obbligatoria, essendo il paese più ricco del mondo. La seconda è composta di contributi dei privati. Mentre la parte obbligatoria negli ultimi anni è rimasta sempre fissa, quella volontaria è aumentata grazie non soltanto a semplici filantropi, ma spesso anche a fondi messi a disposizione da case farmaceutiche o da gruppi che hanno a che fare con la salute, come Coca Cola

e McDonald’s, che quindi potrebbero influire sulle politiche dell’Oms.”

Parlando con Maurizio Bonati, medico, già responsabile del Dipartimento di Salute pubblica e del Laboratorio per la Salute materno infantile dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri Irccs di Milano, salta agli occhi il divario tra Stati Uniti e Cina: “a mio parere la notizia vera degli ultimi giorni in merito alla decisione di Trump di uscire dall’Oms è il fatto di averla ribadita e messa tra le priorità della sua agenda. Secondo il mio punto di vista, la ragione principale di questa presa di posizione netta di Trump si trova nell’atteggiamento assunto dall’Oms di fronte alla pandemia covid­19. Il punto di vista di Trump è chiaro: ‘abbiamo dovuto pagare una crisi di salute globale per un errore della Cina e l’Oms è andata in aiuto di quel paese’. Il fatto che si tratti della Cina non è un aspetto secondario, perché è il paese con la popolazione più numerosa al mondo, ma nonostante questo gli Stati Uniti attualmente investono in misura maggiore nell’Oms. Parliamo del fatto che gli Stati Uniti contribuiscono finanziariamente in misura nove volte superiore alla Cina, che, con una popolazione di 1,4 miliardi di persone, ha il 300% della popolazione degli Stati Uniti, ma contribuisce per il 90% in meno all’Oms. Quindi si tratta di una lotta esclusivamente politica tra i due poli. Consideriamo anche che, grazie alle tecnologie sviluppate in quella nazione, gli Stati Uniti controllano la politica sanitaria globale e quindi tengono di fatto il coltello dalla parte del manico.”

È NECESSARIA UNA RIFORMA SERIA ALL’INTERNO DELL’OMS

“Il pericolo è la mancanza di un coordinamento delle iniziative soprattutto in tema di malattie trasmissibili – prosegue Ippolito – e si tratta di una questione che da un lato può essere gestita solo dall’Oms, e dall’altro ha suscitato molte critiche negli ultimi anni proprio per come è stata gestita. Certamente l’Oms ha bisogno di essere riformata ma non è possibile farne a meno. Non è da oggi che si parla dei punti critici che ha, per esempio, la gestione delle risorse umane con assunzioni per quote legate ai singoli paesi o per influsso politico. A questo va aggiunto che, nonostante l’Oms abbia fatto molto per prendere decisioni basate sulle evidenze, ancora c’è molto da fare.”

Chi coordinerà la risposta a una futura pandemia? È sempre Ippolito a chiederselo: “La perdita delle competenze statunitensi potrebbe essere terribile per l’Oms, che conta molto su scienziati e dipendenti delle agenzie federali. In particolare, la stretta collaborazione tra l’Oms e i Centers for disease control and prevention (Cdc) è cruciale per sviluppare politiche di prevenzione, promuovere lo sviluppo scientifico e fornire supporto internazionale ai paesi terzi.”

Alle perplessità sulle ripercussioni di carattere internazionale se ne aggiungono altre sul fronte interno.

“Gli Stati Uniti sono in una situazione estremamente arretrata rispetto a questioni di sanità pubblica. Questo provvedimento porterà a una situazione di ulteriore disastro” spiega Marco Geddes da Filicaia, già direttore sanitario del Presidio Ospedaliero Firenze centro dell’Azienda sanitaria di Firenze e dell’Istituto nazionale tumori di Genova, e vice presidente del Consiglio superiore di sanità. E prosegue: “Considerando la situazione attuale, i due aspetti più critici mi sembrano l’Oms e le politiche ambientali. Questi provvedimenti, pur essendo stati definiti sia a parole che con atti operativi, avranno effetti concreti solo tra qualche mese o al massimo un anno”.

È emerso più volte negli interventi dei nostri interlocutori il ruolo centrale di enti privati nella definizione delle politiche di salute globale. Pur essendo assente dalla cerimonia di insediamento del nuovo Presidente, Gates è quello che opera con maggiore intensità e per certi versi anche più dell’Oms a livello di salute globale, con un approccio privatistico e multinazionale. “Questa situazione non solo mette in difficoltà finanziaria l’Oms, ma la rende più dipendente dai finanziamenti privati. La mia speranza – conclude Geddes da Filicaia – è che altri paesi contribuiscano in misura maggiore, anche se temo che l’unico paese che possa controbilanciare dal punto di vista economico l’uscita degli Usa sia la Cina.”

A cura di Federica Ciavoni

“… è chiaro a tutti l’ordine esecutivo degli Usa di ritirarsi dall’Oms o dagli accordi sul clima di Parigi. Quale sarà però il nuovo approccio per governare i temi globali di salute o climatici della nazione più ricca del mondo non è dato di sapere”

Terremoto nella sanità statunitense

Grandi cambiamenti in vista negli Stati Uniti. Forse più di quanto ci si aspettasse. L’amministrazione Trump ha nel mirino l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms): firma (per la seconda volta) l’uscita del proprio paese dall’istituzione sovranazionale (anche se potrebbe ripensarci). Ovviamente, però, il bersaglio principale è l’organizzazione sanitaria interna al paese. Di seguito una conversazione tra Antonio Addis – ricercatore del Dipartimento di epidemiologia del Ssr del Lazio Asl Roma 1 e per molti anni componente della Commissione tecnico scientifica dell’Agenzia italiana del farmaco – e la redazione di CARE.

CARE “Viviamo in tempi interessanti”: la maledizione cinese (attualizzata da Slavoj Žižek1) sta diventando una preoccupazione. L’anno è iniziato all’insegna della furia del nuovo presidente degli Stati Uniti che, oltre all’Oms, ha nel mirino diverse agenzie sanitarie, a cominciare dai National institutes of health (Nih), che gestiscono circa 40 miliardi di dollari e informano il lavoro di qualcosa come 300.000 scienziati e ricercatori in 2.500 università e altri istituti di ricerca. L’ex candidato alla presidenza Robert F. Kennedy Jr2 potrebbe essere nominato alla guida del Department of health and human services (Hhs), agenzia madre dei Nih, e Jay Bhattacharya3, professore di medicina e politica sanitaria all’Università di Stanford, è forse il principale candidato alla direzione dei Nih4. Quest’ultimo è tra i promotori della Great Barrington Declaration5, che consigliava un approccio diverso al contenimento della pandemia covid­19, con la protezione localizzata delle persone più vulnerabili (anziani, persone immunodepresse, ecc.) per salvaguardare il lavoro della popolazione attiva e, soprattutto, dare continuità all’istruzione di bambini e adolescenti. Viene da pensare – soprattutto a distanza di tempo dalla tragedia del covid­19 – che queste misure proposte fossero quasi più “di sinistra” rispetto al lockdown generalizzato. È uno dei segni che fanno pensare ad una fase della storia in cui il riconoscersi in una visione del mondo sociale e politica è meno importante di un tempo. A farla breve, l’appartenenza a categorie come Destra e Sinistra è messa in discussione. Cosa ne pensa?

Addis I segnali che possiamo registrare da queste prime mosse della nuova governance sanitaria americana a me appaiono in qualche modo inquietanti ma anche contradditori. Nella stanza dei bottoni entrano delle menti molto critiche ma con approcci molto differenti fra loro. In pratica, a parte la comunanza per essere stati dei fieri antagonisti delle posizioni di Anthony Fauci, i nomi che citate

in un caso fanno riferimento al negazionismo antiscientifico e dall’altro al bisogno di basare ogni decisione e intervento in sanità pubblica su dati robusti e sulla ricerca. Il tema della Destra e della Sinistra come categorie di giudizio per decidere su qualsiasi discussione, anche la più tecnica, è proprio di una visione che definirei decadente, a cui piace ipersemplificare. Nell’impossibilità di riuscire a gestire la complessità ce la caviamo, anche nelle scelte mediche, polarizzando le opzioni: bianco­nero, uomo­donna, destra­sinistra e così via.

CARE Se avessimo avuto dei dubbi, durante la pandemia, che “ne saremmo usciti migliori”, pensiamo che quello che abbiamo di fronte oggi dia una risposta chiara. Però, è difficile negare che oltre agli errori inevitabili dovuti all’incertezza e alla mancanza di conoscenza che ha condizionato l’agire negli anni 2020 e 2021, si siano aggiunti degli errori evitabili di comunicazione e diremmo di trasparenza che hanno compromesso la credibilità di alcune funzioni ed enti in ambito sanitario e scientifico. Ora l’approccio è quasi inquisitorio, laddove sarebbe stata un’occasione preziosa per un esercizio di “lesson learning” al quale avrebbero dovuto partecipare tutti, sia chi governava il paese, sia chi era all’opposizione in quegli anni: non crede?

Addis Anche io rimango particolarmente colpito dal fatto che personalità molto diverse tra loro e che si sono trovate su posizioni molto differenti alla fine decidano di utilizzare lo stesso linguaggio, privo di dubbi e incertezze e molto aggressivo. Questo lo si è fatto ai tempi della pandemia sui vaccini e lo si fa ora con la caccia alle streghe. Tutto ciò non sembra preannunciare niente di buono. Ogni cambiamento di amministrazione porta con sé la legittima speranza per alcuni di modificare e aggiornare le traiettorie e le scelte fatte fino ad allora. Quello che sta succedendo però è qualcosa di diverso. Si respira un clima vendicativo, in cui sembra prevalere la logica del “non si fanno prigionieri”, che ha a che fare con le cose che vengono smantellate, con i progetti interrotti o i finanziamenti revocati. Non è ancora per niente chiaro quale sia l’alternativa. Per esempio, è chiaro a tutti l’ordine esecutivo degli Usa di ritirarsi dall’Oms o dagli accordi sul clima di Parigi. Quale sarà però il nuovo approccio per governare i temi globali di salute o climatici della nazione più ricca del mondo non è dato di sapere.

CARE A proposito dell’emergenza climatica, questo approccio più disincantato alla politica sanitaria suggerisce a persone come Batthacharya3 di esprimersi per un superamento – non sapremmo come meglio definirlo – della cancel culture nelle università statunitensi. E la preoccupazione aumenta pensando che questo cambiamento di rotta è stato associato da Batthacharya alla libertà di esprimersi sul cambiamento climatico. “Libertà

di espressione” che viene contraddetta da un’altra disposizione che va in senso contrario: un portavoce dell’Hhs ha dichiarato che “l’Hhs ha deciso di sospendere le comunicazioni al pubblico e le apparizioni pubbliche che non siano direttamente collegate alle emergenze o a situazioni critiche per preservare la salute. Si tratta di una breve pausa per consentire al nuovo team di istituire un processo di revisione e definizione delle priorità. Sono previste eccezioni per gli annunci che le divisioni dell’Hhs ritengono critici per la missione, ma saranno fatte caso per caso”. Nella sua esperienza, in che misura le modalità di comunicazione di un’istituzione sono una ‘spia’ dei suoi obiettivi?

tici e qualsiasi altra cosa che faccia progredire la salute umana e non possa essere brevettata dall’industria farmaceutica”. Viene da chiedersi se ci sia da aspettarsi una reazione da parte delle industrie, che pure non hanno risparmiato finanziamenti6 a Trump durante il periodo della sua candidatura. Addis Sarà molto interessante seguire quanto accade e sta per accadere. Si tratta di capire quali saranno le regole del gioco. Al contrario della vulgata generale, la qualità e i criteri con cui si determinano queste regole sui farmaci segnano la cifra di un’agenzia regolatoria ancora più dei tempi con cui si approvano i nuovi farmaci. Tutto ciò avrà una ripercussione immediata anche sugli enti regolatori del resto del mondo. Sta già avvenendo ora. Con la nuova legge in bilancio anche il nostro paese ha deciso di rivedere i termini con cui un farmaco viene valutato innovativo, semplicemente nuovo o non innovativo. Non sono sicuro che tutto ciò corrisponda a una buona notizia per le case farmaceutiche che hanno effettivamente investito su medicinali che portano un reale valore terapeutico aggiunto.

CARE Con Donald Trump, che si è assicurato un secondo mandato presidenziale e il suo partito che ha preso il controllo del Senato, l’industria farmaceutica statunitense entra in un periodo che potrebbe portare sia continuità sia cambiamenti nei prossimi quattro anni. Dopo il voto, quali sono secondo lei le questioni che potenzialmente potrebbero agitare il settore nei prossimi anni?

“Non sono sicuro che tutto ciò corrisponda a una buona notizia per le case farmaceutiche che hanno investito su medicinali che portano un reale valore terapeutico aggiunto”

Addis Nella mia modesta esperienza all’interno dell’amministrazione pubblica le cose peggiori in termini di interruzioni di servizio di informazioni sono sempre cominciate con un provvedimento ‘temporaneo’. Ricordo con tenerezza l’ingenuità di quando abbiamo tutti creduto che, ad esempio, l’attività di informazione sui farmaci svolta tra gli anni 2002 e 2009 da parte dell’Agenzia italiana del farmaco attraverso bollettini, formulari e programmi di formazione a distanza subisse semplicemente una breve pausa di ripensamento. Allora non è stato così: tutto il lavoro di informazione e dialogo sui farmaci con e tra i professionisti sanitari è stato cancellato. Anche in questo caso però mi chiedo: qual è l’urgenza di interrompere la comunicazione prima di chiarire quale sarà il nuovo processo di revisione e le nuove priorità?

CARE Un’altra agenzia sanitaria nel mirino della nuova amministrazione è la Food and drug administration (Fda). Kennedy l’ha accusata di aver sabotato l’approvazione di “psichedelici, peptidi, cellule staminali, latte crudo, terapie iperbariche, composti chelanti, ivermectina, idrossiclorochina, vitamine, cibi puliti, sole, esercizio fisico, nutraceu­

Addis Nella storia della medicina il posizionamento verso l’alto degli standard di riferimento ha sempre prodotto delle innovazioni importanti. Ciò però è stato possibile attraverso il confronto, la contaminazione, il dibattito, anche acceso. A mio avviso la cancel culture da una parte, così come il negazionismo dall’altra, offrono approcci assertivi e autoreferenziali che mal si adattano alla crescita della massa critica necessaria per individuare le vere innovazioni, anche in ambito farmaceutico. n

BIBLIOGRAFIA

1. Zizek S. Benvenuti in tempi interessanti. Milano: Ponte alle Grazie; 2012.

2. Lovelance B jr. 5 key health topics to watch at RFK Jr.’s Senate confirmation hearings. NBC News, January 26, 2025. Disponibile online al seguente indirizzo: https://www. nbcnews.com/health/health-news/rfk-jrs-confirmationhearings-5-key-health-topics-watch-rcna188934.

3. Jayanta Bhattacharya. Disponibile al seguente indirizzo: https://profiles.stanford.edu/jay-bhattacharya.

4. BBC. Trump picks Covid l.ockdown critic to lead top health agency. 27 November 2024. Disponibile online al seguente indirizzo: https://www.bbc.com/news/articles/cvg4yxmmg1zo

5. The Great Barrington Declaration. Disponibile al seguente indirizzo: https://gbdeclaration.org/

6. K ansteiner F. Pfizer, PhRMA rank among groups pledging funding for Trump’s inauguration: NYT. Disponibile al seguente indirizzo: https://www.fiercepharma.com/pharma/ pfizer-phrma-rank-among-companies-helping-fund-trumpsinauguration-nyt

BIBLIOGRAFIA

1. Guerra P, De Maio F, Streed CG Jr. Facing Political Attacks on Medical Education - The Future of Diversity, Equity, and Inclusion in Medicine. N Engl J Med. 2025 Mar 6;392(10):941944.

2. https://www.whitehouse.gov/ presidential-actions/2025/01/ defending-women-from-genderideology-extremism-and-restoringbiological-truth-to-the-federalgovernment/

3. Melody Schreiber. Trump’s antidiversity executive orders threaten Americans’ health, experts say. As certain terms are scrubbed from US health agency websites decades of vital data is vanishing, advocates warn. The Guardian, 10 February 2025.

4. Viennot B. La lingua di Trump. Einaudi: Torino, 2019.

5. How schools are responding to Trump’s D.E.I. orders. The New York Times, 13 February 2025. https://www. nytimes.com/2025/02/13/nyregion/ trump-dei-executive-orders-schools. html?smid=nytcore-ios-share&referrin gSource=articleShare

Trump, Musk e l’attacco alle diversità

Le persone nere negli Stati Uniti vivono più a lungo negli Stati dove c’è una più alta percentuale di medici di colore: è una delle evidenze citate in un articolo pubblicato sul New England Journal of Medicine1 il 12 febbraio del 2025. Proprio nei giorni in cui la nuova amministrazione presidenziale di Donald Trump ha preso le prime radicali decisioni anche sui diritti civili2, attaccando in modo frontale la normativa in essere a favore del rispetto della diversità, dell’uguaglianza e dell’inclusione. “Sono politiche che minacciano la composizione e l’integrità della forza lavoro sanitaria e alla fine colpiranno direttamente la salute della popolazione” scrivono gli autori dell’articolo. E proseguono: “Sappiamo, infatti, dai dati di letteratura, che nell’assistenza sanitaria una forza lavoro che rispecchi le diversità presenti nella società in termini di etnia, di genere, di preferenza sessuale può servire meglio i pazienti rispetto a una forza lavoro più omogenea di quanto non sia la composizione sociale.” L’articolo sottolinea come dal 2023 ci siano state almeno 256 nuove leggi nei diversi stati americani che hanno direttamente messo in discussione le conquiste ottenute in termini di rispetto della diversità, dell’equità e della inclusione.

I DATI CANCELLATI

“L’assenza o la cancellazione di informazioni davvero vitali avrà un effetto dannoso su molte di queste comunità”, ha dichiarato al Guardian3 Oni Blackstock, medico infettivologo e fondatore di Health Justice. “È davvero devastante.” Come spiega il quotidiano inglese, decenni di dati sulla salute stanno scomparendo da un giorno all’altro e ci si chiede se la raccolta di dati su questi temi continuerà. Ai ricercatori che ricevono finanziamenti federali è stato ordinato di rimuovere parole come donna e disabilità, e acronimi come LGBT da progetti proposti per finanziamenti e dalla pubblicazione di studi. La Food and Drug Administration statunitense ha rimosso le sue linee guida per il reclutamento nella ricerca di partecipanti appartenenti a specifiche popolazioni, il che renderà molto più difficile approfondire gli effetti di un farmaco, sia positivi che negativi, su pazienti che non siano di sesso maschile e di etnia caucasica.

IL LINGUAGGIO AGGRESSIVO

Una delle caratteristiche principali delle iniziative messe in atto negli ultimi tempi è che queste nuove norme sono presentate e descritte con un linguaggio aggressivo, tale da provocare nell’opinione pubblica una risposta fortemente emotiva.

È qualcosa che avremmo considerato impensabile almeno fino a pochi mesi fa, ma – come ha scritto la giornalista francese Bérengère Viennot in un libro pubblicato in Italia da Einaudi4 – “se la lingua di Donald Trump rispecchia perfettamente il suo modo di pensare e la sua politica, venata di misoginia, di razzismo, di mancanza assoluta di empatia e di sfrenata ricerca del profitto, significa che è il prodotto del suo tempo e della sua società. Gli Stati Uniti d’America, quando guardano al loro presidente, si vedono in uno specchio che credono deformante ma che riflette una realtà che hanno a lungo voluto occultare e che sta tornando loro dritto in faccia.” Gli esempi recenti potrebbero essere moltissimi, ma tra le altre enormità si è parlato delle politiche che hanno cercato di rispettare le preferenze individuali nell’identità di genere come di “abuso dell’infanzia” o di “sperimentazioni”. Anche per questo la risposta dell’opinione pubblica è stata spesso veemente, giustamente polemica e fortemente polarizzata.

LE RESPONSABILITÀ

La comunità medica gioca un ruolo in queste dinamiche così dannose, affermano gli autori dell’articolo. “Alcune associazioni e società scientifiche hanno fatto attività di advocacy contro la cura che si è mostrata rispettosa delle diversità di genere e hanno negato l’esistenza nella sanità di un razzismo sistemico, istituzionale e interpersonale”. L’articolo, dunque, sembra prendere posizione netta contro le politiche della nuova presidenza Trump ma non risparmia anche le accuse a diverse componenti importanti della medicina accademica.

CONCLUSIONI

In una scena in cui sembra che ogni luce venga spenta, qualcosa continua a illuminare un’America sotto choc. “Alcuni leader democratici del settore dell’istruzione hanno dichiarato senza mezzi termini che non intendono cambiare le loro pratiche in risposta a Trump” scrive il New York Times5. Per quanto riguarda le questioni di genere e orientamento sessuale, “la legge della California non è influenzata dai recenti cambiamenti della politica federale”, ha dichiarato Tony Thurmond, sovrintendente delle scuole statali. A New York, segnala ancora il NYTimes, il dipartimento statale per l’istruzione ha rilasciato una dichiarazione in cui definisce le azioni di Trump “inefficaci” e “antitetiche” rispetto alla storia della politica federale in materia di istruzione, che tradizionalmente ha cercato di proteggere le minoranze razziali, sessuali, gli studenti disabili e altri gruppi.

A cura di Mara Losi

Gestione del paziente con dolore cronico: le

sfide della legge

38

In occasione dei quindici anni dall’approvazione della legge 38 del 15 marzo 2010, un gruppo di Società scientifiche, professionisti sanitari, Associazioni di pazienti e cittadini ha redatto un “Nuovo Manifesto sul Dolore” per sollecitare interventi volti a promuovere una maggiore consapevolezza del problema e a garantire una presa in carico mirata e tempestiva. Il Manifesto, sottoscritto da Associazione Italiana per lo Studio del Dolore (AISD), FederDolore, Fondazione ISAL, Società Italiana di Medicina Generale (SIMG), Federfarma, Cittadinanzattiva e Fondazione ONDA ETS, è stato presentato il 25 febbraio 2025 ai giornalisti e agli addetti ai lavori a Roma presso la sala stampa della Camera dei Deputati, su iniziativa del Vicepresidente della Commissione Affari Sociali, Luciano Ciocchetti. L’evento va inquadrato in un percorso di awareness e sensibilizzazione volto a colmare i gap che ancora oggi esistono nell’applicazione della Legge 38.

I

dati dell’Istituto

superiore di sanità sul dolore cronico, a 15 anni dalla legge 38

Il dolore cronico rappresenta una delle principali sfide per la salute pubblica a livello globale e deve essere considerato una vera e propria condizione clinica, non soltanto un sintomo di altre patologie. Si definisce tale quando persiste per almeno tre mesi in modo continuo, ricorrente o persistente.

In Italia, questa condizione colpisce oltre 10 milioni di persone, pari al 24% della popolazione, con una netta prevalenza tra le donne (60%).

Il divario di genere inizia a manifestarsi fin dalla giovane età e diventa più evidente fino ai 35 anni, con una tendenza che aumenta progressivamente con l’invecchiamento, incidendo significativamente anche sull’età lavorativa delle pazienti. La distribuzione del dolore cronico è omogenea su tutto il territorio nazionale, ma un’analisi specifica sugli ultrasessantacinquenni evidenzia un maggiore disagio nelle regioni meridionali e nelle isole. Inoltre, le persone affette da dolore cronico sono colpite da depressione e ansia cronica grave con una frequenza straordinariamente superiore rispetto alla popolazione generale: la prevalenza di depressione diagnosticata passa dal 2% tra chi non soffre di dolore cronico al 13% tra chi ne è affetto.

Nonostante la disponibilità di terapie e una normativa in vigore da quindici anni che sancisce il diritto a non soffrire inutilmente, in molti casi il dolore cronico continua a non ricevere un’adeguata risposta terapeutica.

Sono alcuni dei dati riportati da Virgilia Toccaceli, ricercatrice presso il Centro per la salute mentale e comportamentale dell’Istituto superiore di sanità, in occasione del convegno dedicato alla presentazione del nuovo manifesto sul dolore svoltasi a Roma lo scorso febbraio.

LA RACCOLTA DEI DATI

Toccaceli fa parte del Gruppo di Lavoro Interistituzionale (ISS­ISTAT­ISAL) che ha condotto lo studio da cui è scaturito il Rapporto ISTISAN 23/28 – “Dolore cronico in Italia e suoi correlati psicosociali”. Nel corso del convegno ha spiegato: “I dati che analizziamo offrono una panoramica dettagliata della prevalenza del fenomeno a livello nazionale. Il primo rapporto tecnico su questo tema è stato pubblicato a dicembre 2023. Lo studio ha stimato la diffusione del dolore cronico nella popolazione adulta italiana (18 anni e più) attraverso un questionario elettronico validato dal nostro Gruppo di lavoro e somministrato a oltre 44.000 individui nell’ambito dell’‘Indagine europea sulla salute’ (EHIS – wave 3), condotta dall’ISTAT nel 2019”.

Le informazioni raccolte includono dati su frequenza e intensità del dolore, cause scatenanti, trattamenti farmacologici e riabilitativi, nonché la loro efficacia percepita. Questi dati sono stati analizzati considerando fattori demografici e lo stato di salute mentale, spesso associato a condizioni di multimorbilità. Il dolore cronico, infatti, non si risolve con il trattamento delle malattie acute o di origine infettiva, ma evolve in una condizione di cronicità che richiede un approccio specifico e multidisciplinare.

L’IMPATTO SOCIOECONOMICO E IL RUOLO DEI FATTORI SOCIOCULTURALI

L’impatto socioeconomico è significativo: il rischio di limitazioni nell’autonomia funzionale quadruplica nei pazienti con dolore cronico, mentre la difficoltà di accesso ai servizi sanitari aumenta di otto volte rispetto alla popolazione generale, con conseguenze rilevanti per il Servizio sanitario nazionale.

Toccaceli ha inoltre sottolineato: “Abbiamo analizzato anche il ruolo dei fattori socioculturali nella richiesta di cure e nella consapevolezza della malattia. Un dato particolarmente interessante emerge quando si stratificano i pazienti in base al titolo di studio: tra le persone con livelli di istruzione più elevati, il divario di genere nella prevalenza del dolore cronico tende a ridursi. Questo conferma la necessità di sensibilizzare la popolazione sull’importanza di un approccio terapeutico efficace e di promuovere la formazione dei giovani affinché si sviluppi una maggiore consapevolezza su questa condizione curabile”.

Il dolore cronico, dunque, non è solo una condizione medica, ma una sfida sociale e culturale che richiede un impegno congiunto per garantire a tutti i pazienti un accesso equo alle cure e un miglioramento della qualità della vita.

A cura di Federica Ciavoni

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