

ca|re
costi dell’assistenza e risorse economiche
6|2024
INCONTRI
Sanità digitale e privacy: i nodi ancora da sciogliere senza compromettere la salute
A colloquio con Guido Scorza
Componente del Garante per la protezione dei dati personali
“Il fascicolo sanitario elettronico è – o almeno potrebbe e dovrebbe essere – una delle infrastrutture sanitarie più preziose del paese e, in prospettiva, con lo spazio europeo dei dati sanitari che avanza, dell’intera Unione europea. E, tuttavia, proprio per questo, quando se ne parla dovremmo tutti essere straordinariamente franchi. I problemi esistono, sono tanti e sono alle fondamenta del sistema”.
Non lesina le difficoltà di questo particolare periodo storico Guido Scorza, componente del Garante per la protezione
CARE nasce per offrire a medici, amministratori e operatori sanitari un’opportunità in più di riflessione sulle prospettive dell’assistenza al cittadino, nel tentativo di coniugare – entro severi limiti economici ed etici – autonomia decisionale di chi opera in Sanità, responsabilità collettiva e dignità della persona.
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DOSSIER
dei dati personali, avvocato, giornalista e professore a contratto di diritto delle nuove tecnologie e privacy. Digitale e intelligenza artificiale promettono di cambiare la sanità nel volgere di poco tempo, ma tra spinta all’innovazione e opportunità di miglioramento, esistono rischi e incognite che è saggio individuare e affrontare.
Dati, salute e privacy. Sono questi i cardini della telemedicina e dell’evoluzione digitale della sanità. Come vede l’equilibrio tra questi tre elementi?
È un equilibrio certamente possibile. Ci sono però due condizioni importanti. La prima è provare a non dimenticare – come spesso accade – che neppure i diritti fondamentali, salute e privacy inclusi, sono diritti assoluti o tiranni. Entrambi devono essere pronti a farsi più piccoli e lasciarsi comprimere se tanto serve a garantire la sopravvivenza e l’esercitabilità dell’altro diritto. L’algoritmo di bilanciamento dice che questa compressione deve essere quella minima necessaria a
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CONFRONTI
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E PRIVACY
A colloquio con Guido Scorza
14 Dalla letteratura internazionale
15 Dossier
TRATTAMENTI INTEGRATI IN ONCOLOGIA E TUMORE AL SENO PER UN MODELLO DI MEDICINA SEMPRE PIÙ CENTRATA SULLA PERSONA
21 Confronti
GESTIONE DELLE
CAR-T: L’EVOLUZIONE DEL FARMACISTA
OSPEDALIERO E LE SFIDE PER IL FUTURO
22 L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE NELL’EDITORIA
SCIENTIFICA E NEL SUPPORTO ALLE DECISIONI MEDICHE
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Già avvocato cassazionista nonché socio fondatore dello Studio Legale E-Lex, Guido Scorza è stato nominato a luglio 2020 componente del Garante per la protezione dei dati personali. È stato responsabile degli affari legali nazionali e europei del team per la trasformazione digitale, Consigliere giuridico del Ministro per l’innovazione e rappresentante vicario del Governo italiano presso il GAC – Government advisory Board dell’ICANN nonché componente del sottogruppo policy del Comitato ad hoc sulla regolamentazione dell’intelligenza artificiale del Consiglio d’Europa. Si è sempre occupato di diritto nelle nuove tecnologie, sia come avvocato che nei suoi incarichi pubblici, materia che insegna in diverse università italiane tra cui: l’Università degli Studi Roma Tre, dove è titolare del corso Protezione dei dati personali e tutela delle libertà fondamentali - Clinica legale privacy; l’Università degli Studi Internazionali di Roma - UNINT, dove insegna Diritto della comunicazione e del commercio digitale; l’Università degli Studi di Bologna, dove è titolare del modulo sui contratti ad oggetto informatico del Master in informatica giuridica e diritto delle nuove tecnologie.
È anche giornalista e autore di alcuni libri sull’impatto dell’intelligenza artificiale sulle nostre vite e sul diritto alla privacy.
garantire appunto la sopravvivenza del diritto apparentemente – e solo apparentemente – rivale e antagonista. È sbagliato parlare della privacy come antagonista rispetto alle nuove opportunità che scienza e tecnologia offrono alla cura delle persone ed è sbagliato considerare queste risorse nemiche della privacy. La seconda è che chi difende la privacy e chi difende il diritto alla salute siano d’accordo su un punto: il nostro dovere è garantire alle persone il più sacro di tutti i diritti, ovvero quello a non dover scegliere tra diritti fondamentali. Noi tutti, ciascuno nel proprio ruolo, dobbiamo garantire alle persone il diritto a essere curate nel modo migliore possibile senza rinunciare alla propria privacy. Guai se pensassimo di dover chiedere a una persona di scegliere tra salute e dignità, che rappresenta, in ultima analisi, il bene della vita tutelato dal diritto alla privacy.
Il fascicolo sanitario elettronico continua, non senza intoppi, il suo cammino. Perché è intervenuto di recente il garante nei confronti delle regioni? Pensa che ora siano stati sciolti tutti i nodi o vede ulteriori temi da affrontare per la sua definitiva implementazione?
Ricordavamo pocanzi i problemi di cui dobbiamo essere consapevoli. Il primo e, forse, il più importante è che, a dispetto del titolo del progetto, sfortunatamente, continua a non esistere un solo fascicolo sanitario elettronico e continuano, invece, a essercene tanti, tanti quante sono le regioni o, forse, meglio, tanti quanti sono i fornitori di servizi informatici più coinvolti nelle cose della sanità nelle singole regioni. Il secondo è che, a dispetto di quanto Bruxelles si sforza di ricordarci a proposito dell’importanza di mettere il patrimonio informativo pubblico, anche e soprattutto nell’universo della salute, a fattore comune, l’egoismo dei dati impera e
la disponibilità a condividerli è modestissima. Qui spesso il diritto alla privacy è utilizzato come alibi per non fare ciò che politicamente non si vuol fare. Il terzo è la ragione per la quale siamo di recente stati costretti, dopo aver segnalato il problema al Governo, ad avviare diciotto istruttorie nei confronti di altrettante regioni: i dati sanitari – alcuni dei più preziosi tra i dati personali che abbiamo – destinati a essere condivisi attraverso il nuovo fascicolo sanitario elettronico sono trattati in maniera lontana da come dovrebbero dalla più parte delle regioni. Qui la sensazione è che si stia costruendo su fondamenta instabili e che i vizi che ci sono alla base e che minano i diritti delle persone, possano, qualora non eliminati per tempo, determinare enormi violazioni del diritto alla privacy di milioni di persone a valle del processo di implementazione del fascicolo sanitario elettronico. Dobbiamo impedire che accada anche a rischio di ridimensionare le aspettative, in termini di tempi di ultimazione del progetto. I nodi non sono ancora sciolti anche se, forse, la strada per scioglierli è tracciata.
Abbiamo visto anche nascere (soprattutto sui social network) un moto “No FSE” e diversi filoni di disinformazione (“è un altro modo per controllarci”, “rivenderanno i nostri dati ai privati” etc). Come si contrasta la disinformazione su questi temi? Le istituzioni comunicano in modo adeguato o c’è da fare meglio? Come mai i cittadini sono molto meno suscettibili quando si tratta di concedere i dati a Google, Meta o altri soggetti privati del web?
Qui devo essere ancora più onesto. Rischiamo di sprecare una grande occasione solo perché, da una parte e dall’altra, troppe persone, talvolta anche con ruoli istituzionali importanti, strumentalizzano questo genere di argomenti senza, peraltro, essere
in possesso di competenze adeguate a comprendere il disegno e l’architettura del progetto e a distinguere i rischi reali – che, naturalmente, esistono – da quelli che non lo sono. Personalmente non ho alcun dubbio sul fatto che si possa progettare e costruire un fascicolo sanitario elettronico 2.0 tenendo lontano ogni spettro di profilazione e/o sorveglianza di massa. Ovviamente è fondamentale procedere con prudenza, senza dimenticarsi mai, neppure per un istante, che la nobiltà del fine perseguito e la potenza delle tecnologie utilizzabili non giustificano nessuna deroga o sconto in termini di rispetto dei diritti fondamentali delle persone a cominciare dal diritto alla privacy. Se, per una volta, fossimo capaci di condannare al silenzio chi parla senza sapere e senza capire presentandosi al pubblico come un esperto e mandare avanti le competenze reali – che per fortuna abbiamo – e di aprire un dialogo interdisciplinare, confineremmo rapidamente nell’album dei ricordi alcune discussioni onestamente tragi-
comiche che si registrano nell’universo dei social network e che gareggiano, in una gara al contrario, con talune riflessioni intrise di superficialità e ideologia che talvolta provengono anche da chi occupa posizioni importanti nelle istituzioni. Non proporrei paragoni tra la reazione della gente davanti a progetti come il fascicolo sanitario elettronico e davanti a servizi di natura commerciale. Sono scenari troppo eterogenei.
Altra grande sfida è quella dell’intelligenza artificiale per la sanità. A quale aspetto il garante rivolge maggiore attenzione?
All’equilibrio tra diritti solo apparentemente contrapposti con il quale abbiamo aperto questa intervista. Un equilibrio possibile anche in questo caso.
Intervista a cura di Cesare Buquicchio
L’EDITORIA SCIENTIFICA È RICCA MA È IN CRISI
Le pagine del libro Sul pubblicare in medicina – che spero avrete il piacere di leggere – sono la fotografia di una tragedia. Sì, e per diverse ragioni, a iniziare dall’oligopolio che caratterizza lo scenario: il 50% del mercato globale è da ricondurre solo al ‘deserto’ di cinque case editrici, Relx – attore principale del mercato – Wiley, Taylor&Francis, Springer Nature e Sage. Già nel 2016 Richard Horton su Lancet anticipava l’involuzione di questo settore: “Lo stato dell’editoria scientifica non è mai stato così precario come oggi”1 Anche se – nota Luca De Fiore nel libro – un colosso come “la divisione Elsevier ha un profitto del 38%. Questi numeri sottolineano come l’editoria scientifica che conta abbia oggi una redditività quasi uguale a quella delle industrie più remunerative, a cominciare dall’industria farmaceutica”.
Secondo un modello plurisecolare, la ricerca scientifica ha bisogno di istituzioni, di università, di biblioteche, di riviste serie e oggi anche del web. Purtroppo le cose non procedono nel modo giusto, però. Regole e serietà sono state messe in crisi dalla faciloneria con cui vengono selezionati i contributi da pubblicare, da metriche delle citazioni di discutibile affidabilità, dal ricorso a ghost writer per la scrittura di articoli, dalla pratica del dono al caposcuola della firma degli articoli, tutti mezzi capaci di mettere in crisi l’economia e la credibilità anche delle riviste più serie. In un articolo ‘classico’ e scritto insieme ad altri autori importanti proprio sul ghost writing, Peter Gøtzsche osservava alcuni anni fa che “la comunicazione scientifica dipende dalla fiducia. […] I conflitti di interesse sono onnipresenti; miliardi di dollari vengono guadagnati immeritatamente dalle aziende farmaceutiche attraverso carenze nella ricerca, negli articoli di ricerca, nelle recensioni e negli editoriali; e anche molte carriere accademiche sono state costruite con prove dubbie”2

E quella che era stata presentata come una straordinaria opportunità, l’open access – in teoria alleato dei lettori delle nazioni più povere – ovvero la possibilità di accedere online in modo gratuito a tutti i contenuti scientifici, ha tradito le aspettative. Scrive De Fiore che “l’introduzione dell’open access come modello commerciale alternativo a quello basato sugli abbonamenti è uno dei grandi cambiamenti dell’editoria scientifica degli ultimi decenni”. La sua conclusione amara però è che, sebbene fosse nato con le migliori intenzioni, quel “movimento […] oggi è caratterizzo da luci e ombre: […] i profitti giganteschi dei grandi player dell’editoria scientifica pesano sempre e comunque sui conti pubblici: vuoi che le istituzioni debbano essere spremute per far leggere il personale sanitario, vuoi che gli stessi enti debbano sostenere costi esorbitanti per pubblicare gli studi svolti”. Ed è una tragedia in corso visto che po-
chi giorni dopo l’uscita del libro, il Wall Street Journal allertava i lettori che “studi falsi hanno inondato le direzioni delle migliori riviste scientifiche, portando a migliaia il numero delle ritrattazioni e a milioni di dollari le perdite nelle entrate. Il colpo più grande è arrivato a Wiley […] che […] annuncerà la chiusura di 19 riviste, alcune delle quali contagiate da frodi nella ricerca su larga scala” 3
Come scrive l’autore del libro, è necessario ripensare il sistema dell’informazione scientifica. Servirebbero poche regole facili da seguire: svolgere meno ricerca ma utile e ben disegnata, avere più trasparenza nella ricerca, coinvolgere nel dibattito culturale tutti i protagonisti, rendere le riviste scientifiche uno spazio per la discussione, ripartire da bambini e adolescenti. Sono dunque pagine problematicamente esplosive quelle di Scrivere e pubblicare in medicina. Non è da poco la presenza di una Presentazione dell’ex geniale direttore del Bmj Richard Smith4,5, che sostiene che “questo libro importante fornisce una base da cui partire per il cambiamento”.
Stefano Cagliano
BIBLIOGRAFIA
1. Horton R. Offline: the crisis in scientific publishing. Lancet 2016; 388: 322.
2. Gøtzsche PC, Kassirer JP, Woolley KL, Wager E, Jacobs A, Gertel A, et al. What should be done to tackle ghostwriting in the medical literature? PloS Med 2009; 6(2): 10.1371/journal.pmed.1000023.
3. Subbaraman N. Flood of fake science forces multiple journal closures. Wall Street Journal, May 14, 2024.
4. Smith R. Presentazione. In: De Fiore L. Sul pubblicare in medicina, Roma: 2024, Il Pensiero Scientifico Editore, p. XX.
5. Smith R. The trouble with medical journals. J R Soc Med. 2006;99(3):115-119.
Disparità razziali e sociali nel prediabete adolescenziale
Harrison C, Peyyety V, Rodriguez Gonzalez A et al
Prediabetes prevalence by adverse social determinants of health in adolescents
JAMA Network Open 2024; 7 (6): e2416088
Il diabete di tipo 2 (T2D) è una malattia fortemente influenzata dalla povertà e dal razzismo strutturale. Negli ultimi due decenni, un’incidenza in rapido aumento del T2D a esordio giovanile, in particolare tra indiani d’America o nativi dell’Alaska, asiatici, neri e ispanici, ha evidenziato l’urgente necessità di prevenire l’insorgenza di questa grave malattia che, nell’80% degli individui, porta ad almeno una complicanza microvascolare entro il terzo-quarto decennio di vita. La prevalenza del prediabete a esordio giovanile è più che raddoppiata negli ultimi 20 anni ed è ora presente nel 28% degli adolescenti statunitensi e nel 40% degli adolescenti obesi e risulta più comune tra i giovani appartenenti a minoranze razziali ed etniche. Anche i determinanti sociali della salute (accesso e qualità di istruzione e assistenza sanitaria, stabilità economica e contesto sociale) svolgono un ruolo fondamentale nella prevalenza del prediabete. Un gruppo di medici e ricercatori afferenti al Center for Pediatric Research in Obesity and Metabolism dell’University of Pittsburgh School of Medicine ha valutato le differenze nella prevalenza del prediabete per determinanti sociali e razza/ etnia in un campione rappresentativo a livello nazionale di adolescenti americani potenzialmente idonei allo screening del T2D, in base all’età e alla classificazione basata sull’indice di massa corporea (Body Mass Index – BMI).
LO STUDIO
È stato condotto uno studio trasversale che ha incluso giovani di età compresa tra 12 e 18 anni con BMI pari o superiore all’85° percentile con misurazioni dei livelli di emoglobina A1c (HbA1c) disponibili nelle indagini biennali del National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES), un ampio programma condotto dal Centro nazionale per le statistiche sanitarie che raccoglie indagini demografiche, socioeconomiche e sanitarie. I determinanti sociali considerati sono sicurezza alimentare, reddito familiare e assicurazione sanitaria. Il prediabete è stato definito solo dal livello di HbA1c a causa del campione molto esiguo di adolescenti con livelli di glucosio a digiuno e della potenziale non rappresentatività di questa piccola sottopopolazione. Utilizzando i criteri dell’American Diabetes Association, livelli di HbA1c compresi tra il 5,7% e il 6,4% sono considerati coerenti con il prediabete; valori superiori identificano una condizione conclamata di diabete. Le associazioni tra ciascun determinante sociale e la prevalenza del prediabete sono state studiate tramite modelli di regressione logistica multivariata.
RISULTATI
Dei 4.522 partecipanti inclusi nello studio, 1.563 hanno un BMI pari o superiore all’85° percentile per età e sesso, una misurazione del livello di HbA1c disponibile e uno stato di diagnosi di diabete segnalato. Il campione ha un’età media di 15,5 anni (IC 95%: 15,3-15,6) e un punteggio BMI di 1,77 (IC 95%: 1,74-1,80). Il campione è equamente distribuito tra maschi e femmine, circa la metà è di razza bianca. Un livello elevato di HbA1c (≥5,7%) risulta presente nell’8,5% dei casi (IC 95%: 6,9%-10,4%), ma varia in base alla razza e all’etnia, con la percentuale maggiore negli asiatici (14,3%; IC 95%: 8,8%-22,4%) e neri (24,5%;
PREDIABETE NEGLI STATI UNITI
IC 95%: 19,4%-30,7%), seguiti da giovani messicani americani (9,7%; IC 95%: 5,9%-15,8%), altri ispanici (7,9%; IC 95%: 4,6%-13,3%), coloro che si identificano in più di una razza o in razze diverse dalla propria (6,6%; IC 95%: 2,9%-14,1%) e giovani bianchi (3,1%; IC 9%: 1,9%-4,9%).
L’insicurezza alimentare è stata segnalata dal 41,0% (IC 95%; 37,6%45,5%) dei giovani in generale, più della metà ha dichiarato di non avere copertura assicurativa sanitaria privata (nessuna assicurazione, 10,2%; IC 95%: 8,4%-12,4%; assicurazione pubblica, 43,2%; IC 95%: 39,4%-46,9%, circa un terzo (35,6%; IC 95%: 31,6%-39,8%) ha riportato un basso reddito familiare (rapporto reddito/povertà <130%). La prevalenza del prediabete è del 4,1% (IC 95%: 0,7%-7,5%) più alta tra i giovani provenienti da famiglie con insicurezza alimentare rispetto a quelli con sicurezza alimentare. Allo stesso modo, la prevalenza del prediabete è del 5,3% (IC 95%: 1,6%-9,1%) più alta tra i giovani con assicurazione pubblica rispetto a quella privata, sebbene la prevalenza non differisca significativamente tra i giovani non assicurati e quelli con assicurazione privata (4,6%; IC 95%: 1,2%-0,3%). La prevalenza del prediabete si conferma più alta del 5,7% (IC 95%: 3,0%-8,3%) tra i giovani con un reddito familiare inferiore al 130% del livello di povertà. Aggiustando le stime per i determinanti sociali all’interno dei gruppi razziali ed etnici, si nota che l’insicurezza alimentare è associata a una prevalenza di prediabete significativamente più elevata solo tra i giovani bianchi (6,3%; IC 95%: 2,8%-9,7%). L’uso di un’assicurazione pubblica rispetto a quella privata è associato a una prevalenza di prediabete significativamente più elevata tra i giovani asiatici (32,0%; IC 95%: 15,3%-48,6%) e bianchi (7,1%; IC 95%: 3,4%-10,9%). Il basso reddito è invece associato a una prevalenza di prediabete significativamente più marcata tra i giovani neri (28,5%; IC 95%: 20,4%-36,5%) e bianchi (6,3%; IC 95%: 3,5%-9,2%).
CONCLUSIONE
I risultati dello studio sottolineano la complessità delle associazioni tra identità razziale ed etnica, esposizione a determinanti sociali avversi ed esiti sanitari. Se da un lato appare chiaro che i determinanti sociali avversi sono associati in modo differenziale alla prevalenza del prediabete in tutti i gruppi razziali ed etnici, dall’altro i risultati evidenziano che la prevalenza del prediabete è rimasta elevata anche nel contesto di determinanti sociali favorevoli tra i giovani asiatici, neri e ispanici. Questo studio sottolinea l’importanza di utilizzare fattori sociali, che sono modificabili, per ridurre il rischio di diabete negli adolescenti rispetto a caratteristiche personali non modificabili, come la razza e l’etnia. È questo il motivo per cui numerose linee guida mediche si stanno allontanando dall’uso esclusivo della razza e dell’etnia per determinare gli standard di cura e di screening, poiché possono esacerbare le disparità invece di ridurle. Invece, adattare i programmi di screening in base all’esposizione a fattori di rischio, e non alla razza, potrebbe fornire migliori strumenti di identificazione di popolazioni pediatriche a rischio di diabete.
Letizia Orzella
Direzione regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria Area della Prevenzione e Promozione della Salute, Regione Lazio
Trial clinici pragmatici e ‘a grappolo’: come bilanciare ricerca e responsabilità?
Weijer C, Taljaard M
Ethical challenges associated with pragmatic and cluster RCTs N Engl J Med 2024; 391: 969-971
La classificazione degli studi clinici in ‘explanatory’ (esplicativi) e ‘pragmatic’ (pragmatici) è stata introdotta per la prima volta nel 1967 da Schwartz e Lellouch1. Se i primi cercano di ridurre al minimo i potenziali fattori di confondimento e di garantire un alto grado di validità interna, con lo scopo di determinare se la condizione sperimentale è efficace in quanto è l’unica condizione che differisce tra casi e controlli, i secondi, invece, vengono spesso condotti per valutare se una terapia o un altro intervento è efficace nelle condizioni reali di utilizzo proposte, con l’obiettivo finale di migliorare la pratica clinica e le politiche sanitarie.
GLI RCT ESPLICATIVI
Generalmente, per approvare un farmaco o un dispositivo medico, si utilizzano gli RCT esplicativi, che cercano di valutare un intervento in condizioni ideali, ma forniscono poche informazioni sulla sua efficacia nella disordinata realtà della pratica clinica. Questo perché nel cosiddetto ‘real world’, i pazienti tendono a essere più anziani e ad avere un maggior numero di comorbilità rispetto a quelli inclusi negli RCT esplicativi. Inoltre, gli RCT esplicativi spesso non sono progettati né per rilevare differenze di efficacia di trattamento tra sottogruppi di pazienti, né per confrontare farmaci o dispositivi con le alternative disponibili, il che potrebbe lasciare medici (e pazienti) in dubbio su quale sia l’opzione migliore. Verrebbe da dire, quindi, che l’approccio pragmatico, o di real world evidence, possa costituire una valida alternativa in grado di colmare queste lacune.
GLI RCT PRAGMATICI E I PAZIENTI VULNERABILI
Charles Weijer, professore di bioetica alla Western University di Londra, e Monica Taljaard, epidemiologa clinica presso l’Università di Ottawa, nella loro Perspective pubblicata recentemente sul NEJM, propongono però alcune riflessioni di carattere etico sull’impiego degli studi pragmatici. Se il bisogno informativo del medico, ad esempio, è sapere se un antibiotico sia migliore di un altro nel trattamento di un esito molto insidioso come quello delle infezioni ospedaliere, lo studio pragmatico potrebbe fare al caso suo, dato che è possibile condurlo in diversi setting di cura (reparti/ospedali), dove reclutare i pazienti è più semplice e la valutazione degli esiti è facilitata dall’uso di dati raccolti di routine. In realtà, l’uso degli RCT pragmatici solleva diverse questioni etiche. La prima riguarda la tutela dei partecipanti vulnerabili: in questi studi, infatti, si cerca spesso di arruolare tutti i partecipanti, compresi quei pazienti tipicamente esclusi dagli studi esplicativi, come gli anziani con patologie coesistenti. Questo approccio porta solitamente a risultati più generalizzabili rispetto ai risultati degli studi esplicativi, ponendo, tuttavia, anche delle sfide in ambito etico, poiché un maggior numero di partecipanti potrebbe essere esposto a eventi avversi. In genere, quindi, i partecipanti vulnerabili dovrebbero essere sì inclusi, ma a condizione che esistano
ulteriori tutele, ovvero la possibilità del paziente di decidere se partecipare o meno, e una valutazione attenta delle comorbilità che potrebbero maggiormente predisporre a effetti collaterali. Tornando all’ipotesi di confronto tra antibiotici, dato che il loro uso può essere associato a effetti collaterali diversi, anche potenzialmente gravi, deve essere richiesta un’analisi personalizzata del rischio per ciascuno dei partecipanti2
IL NODO DEL CONSENSO INFORMATO
Altro aspetto etico importante è rappresentato dalla richiesta del consenso informato, sempre presente negli RCT esplicativi che valutano l’impatto di un farmaco o un dispositivo medico. Recentemente alcuni ricercatori, basandosi sull’idea che i rischi per il paziente siano ridotti al minimo, hanno sostenuto che nelle valutazioni pragmatiche di un trattamento il consenso informato potrebbe non essere necessario. In realtà, il fondamento su cui si basa il consenso informato è innanzitutto il rispetto dell’autonomia decisionale del paziente. La deroga dal consenso del paziente viene ipotizzata anche per gli studi pragmatici a grappolo, ovvero quegli studi in cui l’intervento viene assegnato a intere comunità o ospedali, come ad esempio gli interventi di sanità pubblica. Nello studio di confronto tra antibiotici, la randomizzazione a grappolo potrebbe semplificarne la logistica: non sarebbe necessaria la randomizzazione all’interno degli ospedali e i pazienti idonei di un ospedale riceverebbero tutti lo stesso antibiotico. Ma una linea di trattamento può davvero essere valutata a livello di cluster? Anche qui l’aspetto etico è rilevante, perché a un paziente con una controindicazione all’antibiotico assegnato verrebbe necessariamente assegnato un trattamento diverso, e quindi la possibilità di una valutazione di gruppo sfumerebbe a favore di una differenziazione della terapia a livello individuale. Ne consegue, quindi, che anche negli studi con disegno randomizzato a grappolo non si può prescindere dal richiedere il consenso informato del paziente3
CONCLUSIONI
Appare, quindi, indispensabile coinvolgere sempre i pazienti durante l’intero processo di ricerca e di cura, per favorire un rapporto di fiducia tra ricercatori e pazienti, dimostrare il rispetto per le comunità e rafforzare il valore sociale della ricerca stessa. E visto che l’approccio etico della ricerca è radicato esclusivamente nella tutela del singolo partecipante, sono richieste competenze multidisciplinari e una collaborazione significativa tra le parti interessate di varie discipline per la scelta del disegno di studio più appropriato. Affrontare queste sfide rappresenta un’opportunità per rivedere e approfondire la comprensione dei concetti fondamentali dell’etica della ricerca.
Eliana Ferroni
UOC Servizio Epidemiologico Regionale, Azienda Zero – Regione del Veneto
BIBLIOGRAFIA
1. Schwartz D, Lellouch J. Explanatory and pragmatic attitudes in therapeutically trials. J Chronic Dis 1967; 20: 637-648.
2. Kim SY, Kimmelman J. Practical steps to identifying the research risk of pragmatic trials. Clin Trials 2022; 19: 211-216.
3. Nix HP, Weijer C, Brehaut JC, Forster D, Goldstein CE, Taljaard M. Informed consent in cluster randomised trials: a guide for the perplexed. BMJ Open 2021; 11 (9): e054213.
Ridurre l’uso di antibiotici grazie a un migliore utilizzo dei vaccini
Estimating the impact of vaccines in reducing antimicrobial resistance and antibiotic use Who, Geneva 2024
Il nuovo rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità Stima dell’impatto dei vaccini nella riduzione della resistenza antimicrobica e dell’uso di antibiotici mette in luce i significativi vantaggi apportati dai vaccini nella lotta contro la resistenza antimicrobica. Le evidenze ci dicono che ogni anno a livello globale quasi 5 milioni di decessi sono associati alla resistenza antimicrobica. I vaccini sono una parte essenziale della risposta per ridurre tale resistenza in quanto prevengono le infezioni, riducono l’uso eccessivo di antimicrobici e rallentano l’emergere e la diffusione di agenti patogeni resistenti ai farmaci. Finora l’impatto dei vaccini sulla resistenza antimicrobica è stato un fattore spesso trascurato nei processi politici e decisionali. Sorprendentemente, nel corso della 79a Assemblea generale delle Nazioni Unite, i leader mondiali si sono però formalmente impegnati al raggiungimento del target di riduzione del 10% – entro il 2030 – dei decessi associati alla resistenza antimicrobica. I risvolti economici di questo impegno sono altrettanto rilevanti: a livello globale, infatti, i costi ospedalieri per il trattamento di agenti patogeni resistenti valutati nel rapporto sono stimati in 730 miliardi di dollari all’anno. Se i vaccini potessero essere distribuiti contro tutti i patogeni valutati, si potrebbero abbattere di un terzo i costi ospedalieri associati alla resistenza antimicrobica.
COME RAGGIUNGERE QUESTI OBIETTIVI?
A fronte di queste analisi, ecco le raccomandazioni dell’OMS.
l È fondamentale introdurre, utilizzare e monitorare l’impatto dei vaccini esistenti: i vaccini contro pneumococco, rotavirus e tifo sono esempi di interventi con efficacia dimostrata nel ridurre infezioni che sono spesso trattate con antibiotici.
l Anche l’inclusione degli endpoint della resistenza antimicrobica negli studi clinici fornirà dati essenziali sull’impatto del vaccino, convalidando le stime dei modelli e fornendo informazioni per analisi costo-efficacia complete.
l Allo stesso tempo, è fondamentale definire una cornice normativa e organizzativa che faciliti l’inclusione degli endpoint della resistenza antimicrobica nelle etichette dei vaccini.
l Inoltre, sarà necessario istituire nuove piattaforme di sorveglianza e migliorare quelle esistenti per raccogliere dati sulla diffusione degli agenti patogeni laddove non presenti, in particolare nei paesi a basso e medio reddito.
Ciò aiuterà a comprendere l’impatto più ampio di questi agenti patogeni e il potenziale ruolo dei vaccini. Infine, per i vaccini mirati ad agenti patogeni altamente resistenti è imprescindibile la sensibilizzazione tra ricercatori, finanziatori e parti interessate a livello nazionale attraverso una nuova e rafforzata sorveglianza.
Letizia Orzella
Direzione Regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria Area della Prevenzione e Promozione della Salute, Regione Lazio
Aumentato rischio di cancro
nelle generazioni post-baby boomer.
Cruciali i mutamenti nello stile di vita?
Sung H, Jiang C, Bandi P et al
Differences in cancer rates among adults born between 1920 and 1990 in the USA: an analysis of populationbased cancer registry data
Lancet Public Health 2024; 9: e583-593
EPIDEMIOLOGIA DEI TUMORI, IL TREND ATTUALE
La prevalenza dei tumori nella popolazione generale è tradizionalmente più elevata negli adulti al di sopra dei 50 anni, eppure già da qualche anno gli epidemiologi hanno registrato una crescita ‘anomala’ di alcune neoplasie negli individui under 50. Nel 2023 l’allarme ha ricevuto una prima autorevole conferma in uno studio pubblicato su BMJ Oncology che segnalava, sulla base del Global Burden of Disease del 2019 (il report che cataloga periodicamente le cause di mortalità e disabilità in tutto il mondo), un aumento dell’80% delle diagnosi di tumori ad esordio precoce rispetto al 1990. Questi numeri riguardavano l’incidenza di 29 diversi tumori in 204 nazioni (figura).
Fra le sedi tumorali prese in esame, il cancro della mammella era il più comune fra gli under 50, ma quelli in cui l’aumento appariva più significativo erano i tumori della prostata e del naso-faringe. Al contrario, le diagnosi di tumore al fegato ad esordio precoce facevano registrare una netta diminuzione rispetto ai primi anni novanta.
Parallelamente è stata osservata anche una crescita della mortalità: rispetto al 1990, i decessi per tumori negli under 50 sono aumentati del 28%, con circa un milione di morti nel 2019. In questo caso, i responsabili principali erano il tumore al seno, ai polmoni e all’apparato digerente (stomaco e intestino).
Se, in generale, i tassi più elevati di tumori a esordio precoce si registrano nelle aree ad alto reddito – Europa occidentale, Nord America, Australia – la mortalità, al contrario, tende per lo più ad essere maggiore nei paesi a basso e medio reddito, indicando probabilmente la minore disponibilità di risorse e innovazioni terapeutiche in queste zone del mondo. Né stupisce che disabilità e mortalità causate da tumori a esordio precoce nei paesi a basso e medio reddito risultino nettamente superiori nel sesso femminile, laddove nei paesi ricchi la situazione tra i due sessi tende a bilanciarsi.*
LO STUDIO AMERICANO
Questo trend preoccupante ha appena ricevuto un’ulteriore convalida da un team di ricercatori nord-americani il cui studio, pubblicato su Lancet Oncology, si basa sulle diagnosi di 34 tipi di cancro in oltre 23 milioni di pazienti e sui dati di mortalità (7.348.137 decessi per 25 tipi di cancro) in individui di età compresa tra 25 e 84 anni estratti dai registri dei tumori statunitensi. Per l’analisi, gli studiosi hanno calcolato i rapporti di incidenza specifici per ogni coorte di nascita, separando i periodi con intervalli di cinque anni, dal 1920 al 1990. È emerso così che i tassi di incidenza sono aumentati per ogni gruppo di nascita successivo al 1920 per 8 dei 34 tipi di cancro. In particola-
* Zhao J, Xu L, Sunet J et al. Global trends in incidence, death, burden and risk factors of early-onset cancer from 1990 to 2019. BMJ Oncology 2023; 2: e000049.
re, il tasso era circa due-tre volte più alto nella coorte di nascita del 1990 rispetto a quella del 1955 per i tumori del pancreas, del rene e dell’intestino tenue, sia nei maschi che nelle femmine. Inoltre, i tassi di incidenza sono aumentati nelle coorti più giovani e calati nei gruppi di nascita più anziani, per 9 tumori, tra cui il cancro al seno, dell’utero, del colon-retto e i tumori gastrici. Insieme al numero di casi, tra le generazioni più giovani cresce anche la mortalità per i tumori dell’utero, della cistifellea, dei testicoli e del colon-retto.
Degno di nota, infine, è che 10 su 17 cancri con incidenza aumentata nelle coorti più giovani sono correlati all’obesità. Fra questi, il cancro di colon-retto, rene, colecisti, utero, pancreas, ovaio, fegato e vie biliari,
INCIDENZA DEI TUMORI
NEGLI ANNI 1990 E 2019 IN 204 NAZIONI
Incidenza 1990
Totale = 1,82 milioni di casi
Tumori apparato digerente
Tumori della pelle
Tumori dell’apparato riproduttivo
Tumore della mammella
Tumori del sangue
Tumori dell’apparato respiratorio
Altre neoplasie maligne
Tumori dell’apparato urinario
Tumore del cer vello e del sistema ner voso centrale
Tumore della tiroide Mesotelioma
Incidenza 2019
Totale = 3,26 milioni di casi
Tumori apparato digerente
Tumori della pelle
Tumori dell’apparato riproduttivo
Tumore della mammella
Tumori del sangue
Tumori dell’apparato respiratorio
Altre neoplasie maligne
Tumori dell’apparato urinario
Tumore del cer vello e del sistema ner voso centrale
Tumore della tiroide Mesotelioma
Fonte: BMJ Oncology 2023; 2: e000049
a dimostrazione che un errato stile di vita e quindi un’aumentata esposizione a fattori di rischio ambientali e comportamentali in età precoce potrebbero essere alla base del trend emergente nelle nuove generazioni. Tuttavia, come avvertono prudentemente gli autori, restano ancora diverse variabili in gioco da chiarire, poiché non tutte le nuove diagnosi possono essere correlate alla diffusione degli screening o a fattori di rischio esterni.
CONCLUSIONI
Se il tasso di mortalità per cancro negli Stati Uniti è sceso di un terzo a partire dal 1991 grazie alla riduzione del fumo, a cure più efficaci e agli screening per la diagnosi precoce, l’aumento dei tumori nella cosiddetta generazione X (nati tra il 1965 e il 1980) e tra i millennial (1980-1994) minaccia seriamente di frenare i progressi ottenuti nella lotta al cancro. È accaduto così che nel 2019 un quinto dei nuovi malati di cancro del colon-retto negli Usa avesse meno di 55 anni (dato quasi raddoppiato rispetto al 1995) e che i pazienti più giovani spesso ricevessero la diagnosi quando il tumore era in fase avanzata, sicché paradossalmente i tassi di mortalità per questo tumore tra gli over 65 stanno diminuendo, mentre crescono negli under 50.
Giancarlo Bausano

FOCUS ADERENZA
Scarsa
aderenza alla terapia ormonale e tumore al seno: una app può essere la soluzione?
Graetz I, Kocak M, Krukowski RA
Remote monitoring app for endocrine therapy adherence among patients with early-stage breast cancer: a randomized clinical trial JAMA Netw Open 2024; 7 (6): e2417873
Il tumore al seno rimane il cancro più comune tra le donne, con la maggior parte delle pazienti che presenta tumori positivi al recettore ormonale. In questi casi, l’uso a lungo termine della terapia endocrina adiuvante (Adjuvant Endocrine Therapy, AET) viene prescritta dopo i trattamenti iniziali, come la chemioterapia. La AET riduce efficacemente il rischio di recidiva e migliora i tassi di sopravvivenza, ma spesso causa effetti avversi, come dolori articolari, vampate di calore e riduzione della libido, i quali portano alla mancata aderenza tra le pazienti. Recenti studi clinici randomizzati hanno testato vari interventi comportamentali che, tuttavia, non hanno prodotto miglioramenti costanti e a lungo termine nell’aderenza.
Il monitoraggio digitale remoto dei sintomi riportati da pazienti adulti in trattamento sistemico contro il cancro ha mostrato risultati promettenti nella gestione dei sintomi e nella riduzione delle visite al pronto soccorso, suggerendo di poter essere una strategia per migliorare anche l’aderenza alla AET. Lo studio randomizzato e controllato, condotto da Ilana Graetz (Department of Health Policy and Management, Emory University, Atlanta, USA) insieme ad un gruppo di ricercatori afferenti ad altre università americane e pubblicato su JAMA Network Open, ha valutato la combinazione dell’uso di una app mobile progettata per il monitoraggio remoto dei sintomi con quello dell’invio di messaggi di testo personalizzati.
LO STUDIO
Lo studio è un RCT non in cieco condotto su donne con tumore al seno in fase precoce, a cui era stata prescritta la AET tra novembre 2018 e giugno 2021. Le partecipanti dovevano possedere un dispositivo mobile, accettare di utilizzare un portapillole elettronico e rispondere ai relativi sondaggi. Lo studio è stato condotto in una vasta rete di centri oncologici che comprendeva 14 cliniche in Tennessee, Mississippi e Arkansas. Le pazienti sono state randomizzate in tre gruppi: un gruppo che ha ricevuto solo l’app, un gruppo che ha ricevuto l’app più feedback personalizzati e un gruppo che ha ricevuto le cure abituali, inteso come gruppo di controllo.
L’app forniva promemoria settimanali per registrare l’aderenza alla AET e segnalare i sintomi, con notifiche inviate al team di assistenza per la gestione di eventuali sintomi gravi o dosi saltate. Il gruppo appplus-feedback riceveva anche messaggi personalizzati riguardanti l’aderenza alla AET, la gestione dei sintomi e le modifiche dello stile di vita. Questi messaggi erano personalizzati in base a fattori individuali delle pazienti, come sintomi, etnia e interessi personali, così da fornire supporto e incoraggiamento.
I ricercatori hanno monitorato l’aderenza delle pazienti tramite i portapillole elettronici e i loro resoconti personali per un anno. Sono stati raccolti anche dati secondari sulla gestione dei sintomi, sull’utilizzo dell’assistenza sanitaria e sugli outcome delle pazienti, tra cui efficacia, qualità della vita e impatto della sintomatologia.
I RISULTATI
Lo studio ha coinvolto 304 donne, di età compresa tra 31 e 83 anni e con un’età media di 60 anni. La maggioranza delle partecipanti era di origine caucasica (63,2%), mentre solo una minoranza si identificava come afroamericana (33,6%). Lo studio è stato completato dall’87,5% delle partecipanti.
Nonostante le aspettative, i gruppi app e app-plus-feedback non hanno raggiunto un’aderenza significativamente più alta rispetto al gruppo che riceveva le cure abituali. I tassi di aderenza a un anno sono stati del 76,6% per il gruppo che riceveva le cure abituali, 73,4% per il gruppo app e 70,9% per il gruppo app-plus-feedback. Anche i tassi di aderenza riportati dalle pazienti dopo un anno di follow-up non hanno mostrato differenze significative tra i gruppi. È interessante invece notare che il gruppo app-plus-feedback ha riportato meno interventi sanitari e visite ad alto costo rispetto al gruppo con cure abituali. Anche le visite ambulatoriali a un anno di follow-up sono risultate notevolmente inferiori per il gruppo app-plus-feedback. Inoltre, mentre le partecipanti del gruppo app hanno mostrato la tendenza a un ricorso ridotto dell’assistenza sanitaria, queste differenze non sono risultate statisticamente significative tra i gruppi. La gestione dei sintomi è stata leggermente più proattiva nel gruppo app-plus-feedback, con più pazienti in questo gruppo che ricevevano modifiche alle loro prescrizioni AET per gestire meglio i sintomi. Tuttavia, la qualità della vita e le comunicazioni paziente-medico non differivano sostanzialmente tra i gruppi, suggerendo che il monitoraggio
ha ridotto le visite ad alto costo, senza tuttavia avere un impatto significativo sugli esiti riportati dalle pazienti.
LA DISCUSSIONE
Lo studio evidenzia la difficoltà di migliorare l’aderenza a lungo termine alla AET, anche con una app progettata attentamente e con feedback personalizzati. In particolare, mentre i tassi di aderenza non sono migliorati, il ricorso all’assistenza sanitaria, in particolare per le visite ad alto costo, è stato ridotto nel gruppo app-plus-feedback senza incrementare le visite ambulatoriali.
La riduzione degli interventi ad alto costo, in linea con i risultati di altri studi, suggerisce che il monitoraggio regolare dei sintomi con messaggi personalizzati potrebbe aiutare le pazienti a gestirli senza dover necessariamente ricorrere a visite ambulatoriali. La maggior parte dei problemi correlati ai sintomi, infatti, è stata gestita tramite brevi follow-up o telefonate. È interessante notare che il portapillole elettronico usato da tutte le partecipanti potrebbe aver contribuito a determinare un livello di aderenza generalmente più elevato tra i gruppi, probabilmente per un ‘effetto Hawthorne’, in base al quale il semplice fatto di sapere di essere osservati migliora l’aderenza.
Lo studio presenta diversi punti di forza, tra cui la diversità economica e razziale del campione e la solida raccolta di dati tramite monitoraggio elettronico e autosegnalazioni. Tuttavia, presenta anche alcune limitazioni, come il reclutamento delle pazienti in un singolo centro, che potrebbe limitarne la generalizzabilità. Inoltre, l’analisi si è limitata a partecipanti di lingua inglese in grado di avere accesso alla tecnologia, senza considerare contesti linguistici e tecnologici diversi. Infine, lo studio ha avuto una durata di un anno, un periodo relativamente breve per valutare l’aderenza alla AET, che in genere viene prescritta per 5 o più anni.
Paolo Rega
Aderenza monitorata dal portapillole elettronico

riportata dalle pazienti

A.
Aderenza alla terapia antidepressiva: l’importanza della qualità e della condivisione delle cure
Donneyong IMM, Bynum M, Kemavor A et al Patient satisfaction with the quality of care received is associated with adherence to antidepressant medications
PLoS ONE 2024; 19 (1): e0296062
La depressione è una delle cause principali di morbilità in tutto il mondo. Un recente rapporto dell’Osservatorio nazionale sui medicinali (OsMed) di Aifa sottolinea che la depressione è di fatto una delle condizioni che impatta maggiormente sulla salute e la qualità della vita, aumentando i costi sociosanitari, il rischio di comorbilità e mortalità associate.
In Italia si stima che quasi 3 milioni di persone siano affette da depressione (considerando le varie forme) e che circa il 6% degli adulti tra i 18 e i 69 anni riferisca sintomi depressivi, più frequenti con l’avanzare dell’età, nel sesso femminile, nelle situazioni socio-economiche più svantaggiate e nelle persone affette da patologie croniche. Ne consegue che l’uso di psicofarmaci di tipo antidepressivo (AD) è assai diffuso nella popolazione e, sempre secondo l’OsMed, il numero di dosi di AD assunte dagli italiani continua a crescere, con una spesa che supera i 400 milioni all’anno, di cui almeno la metà è rappresentata da antidepressivi SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina). Nel 2021 il consumo di AD rappresentava il 3,4% del consumo totale di farmaci in Italia.
IL PROBLEMA DELL’ADERENZA
Purtroppo almeno un terzo dei pazienti trattati non raggiunge la remissione e il fenomeno sembra in parte riconducibile al fatto che solo una percentuale ridotta di soggetti effettua un trattamento appropriato con AD. Per esempio, solo il 40% dei nuovi trattati segue la terapia per più di 3 mesi e appena il 20-30% di coloro cui viene prescritto un AD rimane aderente alle prescrizioni nel corso dei 6-12 mesi successivi. Questo ovviamente comporta tassi elevati di recidiva, con conseguente aumento di ricoveri e visite in pronto soccorso (PS). Secondo una rilevazione di Aifa, su un campione di oltre 120.000 individui over 45 nuovi utilizzatori di AD, con un’età mediana di 69 anni e per due terzi donne, gli AD sono fra le categorie terapeutiche con la percentuale più alta di soggetti non aderenti. Solo il 16% di chi usa questi farmaci ha un’alta aderenza, ma questa percentuale scende al 14% fra i 75-84enni e all’11% fra gli over 85. Per quanto riguarda la persistenza, cioè il tempo mediano che intercorre fra la prescrizione e la sospensione del trattamento, già dopo 90 giorni dall’inizio della terapia la probabilità di interrompere il trattamento è del 50%, sia fra gli uomini che fra le donne. Solo un nuovo utilizzatore su quattro nel campione è ancora in trattamento a un anno dall’inizio della terapia.
LO STUDIO AMERICANO
Negli Usa almeno 6 milioni di persone, il 12% della popolazione, sono affette da depressione e anche in questo paese le stime sull’aderenza alla terapia riportano dati simili a quelli italiani: un’aderenza
sub-ottimale si associa a un rischio fino a 8 volte superiore di recidive, accompagnato da un incremento fino al 20% della percentuale di ricoveri o visite in PS. Negli Usa, spesso per ragioni legate ai rimborsi assicurativi, si ricorre frequentemente all’impiego di questionari focalizzati sul grado di soddisfazione relativo alla qualità dell’assistenza ricevuta, che tiene conto del rapporto di fiducia con gli specialisti incaricati delle cure, dell’efficacia della comunicazione medico-paziente e del grado di condivisione delle scelte terapeutiche. Grazie all’analisi dei questionari si può anche valutare secondariamente quanto la soddisfazione del paziente condizioni l’aderenza alla terapia. Uno studio di coorte su quasi 5.000 pazienti in trattamento con AD è stato condotto utilizzando i dati di un’indagine nazionale (Medical Expenditure Panel Survey), che ha lo scopo di valutare periodicamente i costi e l’utilizzo delle risorse sanitarie in un’ampia popolazione di individui curati ambulatorialmente. Il grado di soddisfazione rispetto alla qualità e alla capacità di accesso alle cure è stato misurato mediante un sistema di valutazione standardizzato.
Il 36% del campione risultava aderente, mentre quasi il 40% aveva sospeso la terapia. Almeno la metà dei pazienti interpellati era soddisfatto della qualità delle cure ricevute e il grado di soddisfazione era strettamente collegato a un buon livello di comunicazione con il medico e alla consapevolezza di essere attivamente coinvolti nelle scelte terapeutiche. Va da sé che proprio in questo gruppo il grado di aderenza alla terapia a distanza di un anno fosse più elevato rispetto ai pazienti non soddisfatti (46% vs 38%) come pure la percentuale di coloro che proseguivano nella cura.
Relazione tra soddisfazione del paziente rispetto all’assistenza sanitaria ricevuta, aderenza e persistenza alla terapia antidepressiva (AD). Le differenze sono statisticamente significative
Pazienti in terapia con AD Aderenza Sospensione della terapia Soddisfatti Non soddisfatti Soddisfatti Non soddisfatti
CONCLUSIONI
Dinanzi alla scelta di utilizzare o meno uno psicofarmaco non si può prescindere dall’assioma per cui la pratica medica deve essere orientata a ottenere il massimo beneficio del paziente evitando interventi che possano procurare danno. Oggi, i nuovi orientamenti terapeutici sanciscono anche l’importanza del coinvolgimento del soggetto in cura e il suo diritto di decidere a quale trattamento sottoporsi, cioè il principio di autonomia che stabilisce il diritto di autodeterminazione del paziente.
Al di là dei dati biochimici e farmacologici, l’assunzione di uno psicofarmaco ha importanti implicazioni a livello emotivo, psicologico e sociale. Alla base di una buona aderenza alla terapia farmacologica ci deve essere pertanto una buona relazione terapeutica tra medico e paziente e lo studio conferma che attraverso strumenti efficaci di valutazione del grado di soddisfazione è possibile predire l’aderenza alle prescrizioni ricevute e quindi l’esito di una terapia.
Giancarlo
Bausano
Ipertensione grave: uno studio qualitativo analizza le barriere all’aderenza
Lu Y, Arowojolu O, Qiu X et al
Barriers to optimal clinician guideline adherence in management of markedly elevated blood pressure: a qualitative study
JAMA Netw Open 2024; 7 (8): e2426135
Burnier M
Poor physician adherence to clinical guidelines in hypertension-time for physicians to face clinical inertia
JAMA Netw Open 2024; 7 (8): e2426830.
L’ipertensione coinvolge quasi la metà della popolazione adulta statunitense, con un sottogruppo affetto da gravi innalzamenti della pressione arteriosa (PA sistolica ≥160 mm Hg o PA diastolica ≥100 mm Hg). Questi pazienti, che costituiscono circa il 12% della popolazione ipertesa, corrono rischi maggiori in termini di gravi complicazioni, il che sottolinea la necessità di un intervento farmacologico tempestivo. Le linee guida dell’American College of Cardiology e dell’American Heart Association pubblicate nel 2017 raccomandano un trattamento immediato e un monitoraggio continuo in caso di ipertensione grave. Tuttavia, l’aderenza dei clinici a queste linee guida rimane insufficiente1. Lavori recenti basati su dati derivati dalle cartelle cliniche elettroniche in ambito ambulatoriale indicano che quasi il 30% dei pazienti con pressione arteriosa molto elevata non riceve prescrizioni di farmaci ipertensivi alla seconda visita medica e solo circa il 54% dei soggetti trattati riceve la terapia a due farmaci raccomandata2-4
LO STUDIO
Lo studio di Yuan Lu e dei suoi collaboratori dello Yale New Haven Hospital (Connecticut, USA), pubblicato su JAMA Network Open, ha esaminato le ragioni alla base di queste lacune nell’aderenza, sviluppando una classificazione degli scenari di mancata aderenza e identificando le relative barriere legate a tre fattori principali: il medico, il paziente e la complessità clinica.
I ricercatori hanno analizzato i dati delle cartelle cliniche elettroniche dello Yale New Haven Health System relativi a pazienti adulti di età compresa tra 18 e 85 anni, che hanno registrato due visite consecuti-

ve con pressione sanguigna elevata dal 1° gennaio 2013 al 31 dicembre 2021. Dalle oltre 20.000 cartelle identificate, ne sono state selezionate casualmente 200, raggiungendo la saturazione tematica dopo l’analisi di 100 casi. L’analisi qualitativa ha comportato la valutazione dei fattori che influenzano questa mancanza di aderenza, prendendo in esame l’anamnesi del paziente, la sua storia clinica e i dati demografici. Il campione finale ha riguardato 100 pazienti con un’età media di 66,5 anni, per la metà donne, prevalentemente di origine caucasica (85%) e con comorbilità comuni come obesità (23%), diabete (16%) e cancro (36%).
I RISULTATI
L’analisi ha identificato tre scenari rispetto ai quali analizzare le cause della mancata aderenza alle indicazioni proposte dalle linee guida, che coinvolgono il medico, il paziente e la complessità clinica del singolo caso (figura a pag. 12). Per quanto riguarda l’ambito riconducibile all’attività del medico, il mancato inizio della somministrazione o intensificazione della terapia antipertensiva si può spiegare con la rinuncia della presa in carico del problema da parte dello stesso medico, per un eccessivo carico di lavoro che lo porta a visite troppo affrettate nelle quali viene dato poco spazio all’ascolto delle reali esigenze paziente, o con il fatto che il medico preferisce deferire a uno specialista la gestione dell’ipertensione. D’altro canto, anche la scarsa aderenza alla terapia già in corso da parte del paziente o le sue preferenze individuali possono essere fattori che demotivano il medico dall’intensificare il trattamento nonostante quanto suggerito dalle linee guida. Nell’ambito della complessità clinica, l’incertezza diagnostica dovuta al riscontro di valori di misurazione oscillanti tra più o meno alti, l’intenzione da parte del clinico di voler valutare attentamente l’efficacia della terapia già in corso o l’effetto di cambiamenti importanti nello stile di vita del paziente, nonché il subentrare di altre patologie che richiedono interventi urgenti, sono tutti motivi utili a spiegare il perché i medici possono dimostrarsi restii a intensificare la terapia antipertensiva.
GLI INTERVENTI PROPOSTI PER MIGLIORARE L’ADERENZA
L’analisi ha permesso di identificare barriere complesse e sfaccettate rispetto all’adesione alle indicazioni delle linee guida. Nei contesti legati ai clinici, ostacoli rappresentati da ruoli istituzionali poco chiari, tempi di consultazione limitati e sovraccarico di lavoro spesso riducono l’efficacia degli interventi. E questi problemi possono essere aggravati anche da linee guida poco chiare. Dal lato dei pazienti, la mancata aderenza – oltre che dalla scarsa consapevolezza o motivazione del paziente – può derivare però anche dalle convinzioni cliniche del medico o dalla paura di complicazioni. La complessità clinica, con incertezze diagnostiche e comorbilità, può spingere i clinici a mantenere le terapie esistenti o a non intervenire in presenza di priorità mediche concorrenti.
Per migliorare quindi in primis l’aderenza dei clinici alle linee guida, lo studio suggerisce interventi mirati volti a rafforzare la loro leadership e a definire ruoli più chiari nelle organizzazioni sanitarie. Gli stessi forum di condivisione e gli strumenti di supporto per prendere decisioni cliniche basate su evidenze, così come i promemoria automatici nei sistemi di cartelle cliniche elettroniche, sono interventi che potrebbero aiutare i clinici in questa direzione. Educare i professionisti sanitari e incorag-
CLASSIFICAZIONE DEGLI SCENARI CHE SPIEGANO UN’ADERENZA NON OTTIMALE ALLE LINEE GUIDA NELLA GESTIONE DELL’IPERTENSIONE
Scenari correlati al medico
Non ha a rontato il problema
Di usione di responsabilità
Scenari correlati al paziente
Scenari correlati alla complessità clinica
Mancata aderenza del paziente
Preferenze del paziente
Incertezza diagnostica
Mantenimento del trattamento attuale
Priorità mediche sovrapposte
giarli a seguire le linee guida, oltre che informare e motivare i pazienti, sono passi fondamentali da intraprendere. A proposito di linee guida, la loro semplificazione e il loro adattamento ai contesti locali, con il coinvolgimento nel loro sviluppo di clinici in prima linea su questo tema e pazienti, potrebbero migliorare l’aderenza e gli esiti dei pazienti. Nonostante i risultati interessanti, è importante considerare i limiti dello studio. Le note cliniche presenti nelle cartelle elettroniche potrebbero infatti non fornire sempre dettagli sufficienti per stabilire in modo definitivo le intenzioni o le motivazioni alla base di specifiche decisioni cliniche. Inoltre la predominanza di pazienti caucasici con copertura assicurativa e la conduzione della ricerca in un singolo sito accademico riducono la possibilità di generalizzare i risultati a popolazioni più diversificate.
IL COMMENTO
Alla luce dei risultati, Michel Burnier dell’Università di Losanna (Svizzera) enfatizza nel suo commentary la necessità di combattere l’inerzia clinica, ovvero l’inazione di fronte all’ipertensione. Sebbene l’aderenza del paziente sia al centro dell’attenzione da tempo, la mancata aderenza del medico gioca infatti un ruolo altrettanto significativo nella gestione inadeguata dell’ipertensione. Riprendendo i risultati di una revisione sistematica condotta nel 20185, Burnier spiega che affrontare l’inerzia clinica richiede un approccio multidimensionale. Da una parte possono giocare un ruolo importante i promemoria per i medici, l’incentivazione del monitoraggio della pressione arteriosa fuori dall’ambulatorio, e la partecipazione a interventi educativi da parte dei
Il clinico non ha riconosciuto né dato priorità alla pressione arteriosa durante la visita.
Il clinico ha preferito inviare il paziente a uno specialista per la gestione dell’ipertensione, piuttosto che intervenire direttamente.
Il clinico ha evitato di intensi care il trattamento per la scarsa aderenza del paziente alla terapia in corso.
Il medico non ha intensi cato il trattamento per rispettare le preferenze del paziente.
Il clinico non ha intensi cato il trattamento per variazioni tra i valori della pressione arteriosa misurata a casa e in ambulatorio, includendo i casi interpretati come ipertensione “da camice bianco”.
Il clinico ha scelto di ritardare l’intensi cazione della terapia per osservare i risultati degli interventi terapeutici già in atto e del cambiamento dello stile di vita.
Il clinico ha evitato di intensi care il trattamento a causa di altre considerazioni cliniche urgenti.
medici di medicina generale. Dall’altra sarebbe anche importante pubblicare le linee guida stesse in un formato più accessibile e rendere le raccomandazioni pratiche e gli algoritmi di trattamento il più semplici possibile. Anche un approccio multidisciplinare, che coinvolga tutti i membri del team di cura (ad esempio, infermieri, farmacisti e dietisti) potrebbe essere di aiuto al medico, che si sente sempre più schiacciato dalla mancanza di tempo necessaria per gestire da solo casi sempre più complessi. Tutto questo per garantire che ogni interazione con il paziente diventi davvero un’opportunità per un intervento e un miglior controllo della pressione arteriosa.
Paolo Rega
BIBLIOGRAFIA
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3. Burnier M, Egan BM. Adherence in hypertension. Circ Res 2019; 124: 1124-1140.
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Perché l’aderenza alla terapia
insulinica è fondamentale nel diabete di tipo 2
Aroda VR, Nielsen N, Mangla KK et al
Greater persistence and adherence to basal insulin therapy is associated with lower healthcare utilization and medical costs in patients with type 2 diabetes: a retrospective database analysis
BMJ Open Diab Res Care 2024; 12: e003825
Nel mondo oltre 500 milioni di persone tra 20 e 79 anni, circa 1 adulto su 10, sono affette da diabete e tale stima sembra destinata ad aumentare. Peraltro, la stragrande maggioranza di questi pazienti ha un diabete di tipo 2: in Italia più di 4 milioni di persone ne soffrono, negli USA questi pazienti sono oltre 35 milioni1. Ciò che sicuramente li accomuna è la difficoltà ad assumere regolarmente le terapie prescritte, un problema che può avere ricadute negative sulla prognosi della malattia (per esempio, sulla comparsa nel tempo di complicanze anche gravi), sull’utilizzo di risorse (visite, analisi, ricoveri) e, in definitiva, sui costi sociosanitari2
ADERENZA ALLA TERAPIA INSULINICA
Tutti gli studi sono concordi nell’affermare che l’aderenza, cioè la capacità di uniformarsi alle prescrizioni ricevute dal medico, ma anche la persistenza, cioè la durata nel tempo della terapia senza sospensioni premature, sono elementi chiave per ottenere un controllo glicemi-
co soddisfacente. Per questo sia l’American Diabetes Association che l’European Association for the Study of Diabetes raccomandano ai medici di valutare con attenzione l’aderenza alle terapie farmacologiche quando si prescrivono farmaci antidiabetici.
Tra le malattie croniche, il diabete, e in particolare il diabete di tipo 2, è una delle condizioni cliniche nelle quali è più facile registrare un basso livello di aderenza terapeutica. Studi condotti su soggetti con diabete di tipo 2 hanno evidenziato che:
1. in media solo i tre quarti dei diabetici di tipo 2 assumono correttamente gli ipoglicemizzanti orali;
2. l’accuratezza nell’eseguire la terapia insulinica oscilla tra il 20 e l’80%; 3. l’adesione alle raccomandazioni dietetiche è all’incirca del 65%; 4. l’adesione all’autocontrollo della glicemia è di poco superiore al 50%, seppur migliorata negli ultimi anni grazie al progresso dei device tecnologici;
5. ancor più bassa (<30%) è l’aderenza nel tempo ai programmi di attività fisica consigliati.
La terapia con insulina presenta, in particolare, diverse criticità. È un fatto – come sottolinea un recente commento dell’Istituto Mario Negri – che l’inizio della terapia insulinica viene percepito in molti casi dal paziente come un netto peggioramento non solo della sua malattia, ma anche della qualità di vita3
Il malato deve programmare quotidianamente la somministrazione sottocutanea del farmaco e aumentare i controlli della glicemia per raggiungere la dose corretta, ma anche per ridurre il rischio di ipoglicemie improvvise che possono essere pericolose per la vita. E proprio per questo il paziente spesso riduce le dosi di insulina, con conseguente scarso controllo glicemico.
Non aderenza Persistenza Non persistenza
Percentuale di ricoveri e visite specialistiche a distanza di 24 mesi in rapporto all’aderenza e alla persistenza della terapia insulinica. Le differenze sono statisticamente significative.
Aderenza
Aderenza
RICADUTE SOCIOSANITARIE
Quali possono essere le conseguenze derivanti da un’insufficiente aderenza alla terapia insulinica? Un ampio studio retrospettivo di tipo osservazionale ha provato a dare una risposta prendendo in esame una popolazione di pazienti americani con diabete di tipo 2 estratti da un database fornito da IQVIA, azienda leader nell’elaborazione di dati in ambito healthcare e nello sviluppo di tecnologie rivolte agli operatori in ambito farmaceutico e sanitario.
La popolazione originaria era composta da circa 850.000 diabetici, cui ad un certo punto della storia clinica veniva prescritta l’insulina, in prima istanza o dopo una terapia con antidiabetici orali. I pazienti dovevano avere almeno 18 anni alla data della prima prescrizione e il loro percorso clinico è stato seguito per almeno un anno prima e dopo l’inizio della terapia. Lo scopo era quello di stabilire se l’aderenza alla prescrizione ricevuta e la continuità della terapia (persistenza) comportasse in prospettiva un minor consumo di risorse mediche e quindi un risparmio sui costi sociosanitari rispetto ai pazienti che non seguivano una terapia corretta o la sospendevano prematuramente. Dei quasi 65.000 pazienti selezionati, il 42% mostrava una corretta aderenza alla terapia insulinica con una persistenza del 57% circa. Un’età maggiore di 35 anni e l’assunzione precedente di farmaci antidiabetici per via orale e iniettiva erano altrettanti fattori favorenti una buona aderenza e persistenza alla terapia. Ma, quel che più conta, una buona aderenza e persistenza si accompagnavano nel corso dei 24 mesi successivi a una percentuale significativamente ridotta di ricoveri ospedalieri, visite specialistiche ed esami (figura a pagina 13), con un risparmio medio di circa 1.000 dollari/pro capite al secondo anno di terapia.
CONCLUSIONI
Lo studio ha confermato che nei pazienti in terapia insulinica aderenza e persistenza sono ancora generalmente insufficienti, anche se in coloro che adottano un atteggiamento ‘virtuoso’ la malattia può avere un decorso clinico nettamente migliore con ovvie implicazioni positive sui costi sanitari. Lo studio peraltro ha documentato che i maggiori oneri legati all’impiego di insulina controbilanciano in parte i risparmi ottenuti dal minor ricorso a ricoveri, visite e analisi, ma, come sottolineano gli autori, sono stati presi in esame solo i primi due anni di terapia senza poter quantificare i costi successivi – presumibilmente elevati – derivanti dalla maggior incidenza di complicanze a distanza del diabete (3-4 volte maggiori rispetto ai pazienti ben trattati), dal possibile peggioramento della qualità di vita, dall’assenteismo sul lavoro e dal tempo impiegato per effettuare i controlli clinici che via via si rendono necessari.
Va ricordato peraltro che la recente approvazione da parte dell’Agenzia Europea del Farmaco di una nuova insulina da somministrare una sola volta a settimana (forse disponibile in Italia nei primi sei mesi del 2025) potrebbe contribuire a cambiare radicalmente lo scenario descritto.
Giancarlo Bausano
NOTE
1. IDF Diabetes Atlas 2021. https://diabetesatlas.org/atlas/tenth-edition/.
2. https://careonline.it/2024/07/aderenza-alla-terapia-antidiabetica-e-barrieresocioeconomiche/.
3. https://www.marionegri.it/magazine/insulina-settimanale-diabete-icodec.

FONDAMENTI DI GRANTSMANSHIP
Guida pratica alle richieste di finanziamento per la ricerca
Chiara Gabbi
Prefazione di Giovanni Apolone
Arricchito da numerosi e preziosi esempi pratici, questo manuale affronta gli aspetti strutturali del processo di finanziamento, dalla ricerca dei bandi e degli enti finanziatori, al percorso di scrittura, fino alla revisione del progetto; fornisce indicazioni sulla stesura del piano sperimentale e dei documenti di supporto; descrive il processo di inoltro della grant application, i principi generali di gestione del finanziamento e come recepire i commenti dei revisori.
Pensato e disegnato per ricercatori di lingua italiana nelle prime fasi di carriera, dottorandi, specializzandi, post-doctoral fellows, assegnisti di ricerca) in ambito biomedico-sanitario, questo libro è una vera e propria guida utile a progettare e scrivere una richiesta di finanziamento competitiva e vicente.
Il Pensiero Scientifico Editore www.pensiero.it
Trattamenti integrati in oncologia e tumore al seno per un
modello di medicina sempre più centrata sulla persona
Grazie alla sinergia virtuosa tra la Fondazione Komen Italia e la Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS, è nato ormai più di 10 anni fa il Centro per i trattamenti integrati in oncologia con l’obiettivo di creare un modello di medicina centrata sulla persona piuttosto che sulla malattia, con piani terapeutici personalizzati che rispondano ai bisogni meno ascoltati delle pazienti. Il progetto consente alle donne in cura nel Centro di senologia e nel Day hospital dei tumori femminili del Gemelli di ricevere, insieme alle più avanzate terapie oncologiche, anche una serie di trattamenti complementari utili a migliorare il benessere psicofisico durante e dopo i percorsi di cura, a limitare gli effetti secondari delle terapie oncologiche tradizionali, a ridurre i rischi di recidiva della malattia e ad aumentare l’aderenza alle terapie.
Per rafforzare l’evidenza scientifica dell’impatto delle terapie integrate è stato da poco inaugurato il Centro universitario di ricerca e formazione sulle terapie integrate nelle neoplasie mammarie (CERITIN) in collaborazione con la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Riccardo Masetti, già direttore del Centro di Senologia del Policlinico Gemelli nonché direttore del CERITIN e fondatore della Fondazione Komen Italia, Stefano Magno, chirurgo senologo e responsabile del Servizio di terapie integrate presso la Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS e Alessio Filippone, biologo nutrizionista presso il Centro Komen Italia per i trattamenti integrati in oncologia; approfondiscono per noi diversi aspetti che riguardano questi centri.
Terapie integrate e tumore al seno: l’innovazione del Centro Komen
Italia
A colloquio con Riccardo Masetti
Già direttore del Centro di Senologia del Policlinico Gemelli e direttore del Centro di ricerche e terapie integrate nei tumori del seno; fondatore della Fondazione Komen Italia
Professor Masetti, a lei si deve il merito di aver portato in Italia ormai 24 anni fa la più importante organizzazione no profit dedicata alla lotta ai tumori del seno negli Stati Uniti, la Susan G. Komen. Quali sono, secondo lei, i principali bisogni non soddisfatti delle pazienti oncologiche che avete saputo intercettare svolgendo il vostro ruolo di intermediazione tra la cittadinanza e il mondo della sanità pubblica?
Mi occupo da più di quarant’anni delle azioni di contrasto ai tumori del seno in campo clinico attraverso le attività che realizziamo presso il Policlinico Gemelli dove, secondo gli ultimi dati dell’Agenas, abbiamo operato nel 2023 più di 1.400 donne con tumore del seno, collocandoci al secondo posto dopo l’Istituto europeo di oncologia di Milano, tra tutte le Breast Unit italiane. Sul versante della fondazione Komen Italia, 25 anni fa ho portato in Italia un progetto nato negli Stati Uniti, creando il primo gruppo di collaborazione internazionale con la Fondazione Susan G. Komen. Questa fondazione è la più grande organizzazione no profit al mondo
che si occupa delle azioni di contrasto ai tumori del seno, creata da Nancy Brinker in memoria della sorella. Ha sede a Dallas e la Komen Italia è stata il loro primo affiliato internazionale. Nel maggio del 2000 abbiamo portato per la prima volta in Italia, al Circo Massimo di Roma, il loro evento simbolo che è la Race for the cure, una mini maratona di cinque chilometri e una passeggiata di due chilometri, caratterizzate dal fatto che le donne con tumore del seno scelgono di rendersi visibili indossando una maglietta rosa. È stato un successo molto più grande di quello che immaginavamo già dalla prima edizione, quando speravamo di avere almeno 2.000 iscritti e invece ne abbiamo avuti quasi 6.000! Quest’anno abbiamo avuto l’onore di celebrare questa iniziativa insieme al Presidente della Repubblica, che ci ha ricevuto al Quirinale e ha dato avvio al Circo Massimo alla 25ª edizione di Roma, alla quale hanno partecipato quasi 150.000 persone. Come è accaduto negli Stati Uniti, anche in Italia siamo riusciti, attraverso la testimonianza coraggiosa di quelle che noi chiamiamo “le donne in rosa”, a cambiare in parte la cultura, il modo di affrontare questa malattia, a rompere la paura e il silenzio, e a sostituirlo con la condivisione, che è una forza e una medicina molto potente per chi vive questa esperienza difficile che coinvolge circa 56.000 donne all’anno in Italia.
Con la Komen in questi anni abbiamo raccolto quasi 30 milioni di euro per avviare tanti progetti: abbiamo dato premi di studio a quasi 200 giovani

“Grazie alla Carovana della prevenzione si offre la possibilità di eseguire i controlli di screening anche a donne che vivono in condizioni di fragilità sociale”
ricercatori e clinici per aiutarli a rimanere in Italia, abbiamo aiutato alcune associazioni a mettere in gioco le loro idee e abbiamo messo in atto un progetto che si chiama Carovana della prevenzione. Si tratta di sette unità mobili che girano per tutta l’Italia per portare gratuitamente esami di prevenzione. Grazie a questa iniziativa, oltre a sensibilizzare la popolazione sull’importanza di sottoporsi ai controlli, si offre la possibilità di eseguirli gratuitamente, soprattutto nei casi di donne che vivono in condizioni di fragilità sociale e che altrimenti questi esami non riuscirebbero a farli. Da quando abbiamo iniziato questo progetto abbiamo offerto controlli di prevenzione a più di 300.000 donne.
Con la creazione del Centro Komen Italia per i Trattamenti Integrati in Oncologia, in collaborazione con la Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, siete stati tra i primi a sostenere in Italia l’importanza di affiancare al percorso di cura tradizionale quello delle terapie complementari, spesso privilegio per poche. Perché ritenete sia importante garantire a tutte le donne questa possibilità?
Nel Centro Komen Italia per i trattamenti integrati in oncologia, situato presso la Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS, abbiamo iniziato più di 15 anni fa un percorso per offrire alle donne, che si confrontano con un tumore del seno, non solo terapie oncologiche di eccellenza, ma anche una presa in carico delle conseguenze faticose della malattia. Sviluppare un tumore del seno, proprio per la sua valenza particolare di simbolo della maternità e della fecondità, è per una donna un’esperienza diversa rispetto a quella di contrarlo in un altro organo, e che crea problemi complessi. Prima di tutto quelli oncologici, legati alla peculiarità di questo tumore, sotto il cui nome oggi sappiamo che si riuniscono cinque o sei tipi di malattie con caratteristiche diverse nel modo in cui si presentano, nel loro andamento, nelle terapie che richiedono e nei livelli di preoccupazione che suscitano. Oggi, nell’era della medicina personalizzata, cerchiamo di capire caso per caso le peculiarità di ogni singolo tumore per scegliere il percorso di cura oncologica più efficace e le terapie meno faticose. Abbiamo osservato però che tante donne guariscono dalla malattia oncologica senza ricevere il sostegno necessario per superare l’impatto negativo che la malattia ha sulla loro vita personale, relazionale e familiare. Non riescono a tornare pienamente a una vita normale perché rimane dentro di loro una ferita dovuta alla paura, all’incertezza, alla difficoltà di programmare il futuro: emozioni che non avrebbero ragione di esistere poiché la malattia è stata risolta, ma che rimangono come segno dell’impatto
globale che la malattia ha sulla persona. Dunque, la presa in carico di una paziente con tumore del seno deve necessariamente consistere nell’offerta di cure oncologiche, ma anche di terapie integrate. Si tratta di mettere insieme e offrire al meglio queste due risorse terapeutiche garantendo a queste donne dei trattamenti complementari scientificamente validati, che possono aiutarle a migliorare lo stato di benessere psicologico durante e dopo le terapie. Inoltre, è stato dimostrato che queste terapie integrate possono ridurre gli effetti collaterali delle terapie oncologiche tradizionali, che spesso sono così invalidanti da non permettere a una donna di completarle. Infine, le terapie complementari hanno una funzione di prevenzione terziaria poiché possono ridurre il rischio che corre ogni donna che ha sviluppato un tumore del seno di ammalarsi di nuovo, e questo si ottiene attraverso un miglioramento degli stili di vita.
Nel centro Komen Italia prevediamo nella nostra offerta terapeutica anche questi trattamenti. È stato un percorso graduale, la cui realizzazione è dipesa dalle risorse economiche disponibili. Dal momento che attualmente questi trattamenti non vengono riconosciuti come terapie, non è previsto un rimborso regionale per l’erogazione di questo servizio. Abbiamo dovuto quindi trovare i finanziamenti necessari per poterli offrire alle pazienti e in questo ci è venuta incontro la Fondazione Komen, grazie alla quale abbiamo raggiunto quello che noi consideriamo un obiettivo fondamentale: fare in modo non solo che la malattia non ci sia più, ma anche che la rielaborazione dell’esperienza di malattia, anziché lasciare una ferita, aggiunga qualcosa, rafforzi le qualità personali e sia un punto di ripartenza che renda più forti invece che più fragili, perché si è imparato a rielaborare le priorità nella propria vita, a navigare attraverso un’esperienza difficile, attenuando le ferite. Grazie alla sinergia virtuosa che si è creata con la Fondazione Komen abbiamo rafforzato a poco a poco questo modello che si sta espandendo gradualmente, non solo nell’offerta di queste terapie ma anche nel loro studio e nella loro validazione scientifica tanto che ora esiste un master universitario che ha già diplomato circa 50 specialisti in terapie integrate.
Tutte le pazienti curate al Gemelli per un tumore al seno possono accedere a questo centro?
Sì, tutte le pazienti che prendiamo in cura transitano da qui, per fare delle valutazioni sul loro stato nutrizionale e sul livello di attività fisica che svolgono. Così come raccogliamo la loro storia clinica, in questo centro facciamo un’analisi attenta delle caratteristiche del loro stile di vita e per tutte prevediamo sedute con gli psico-oncologi. Chi lo desidera
“Il CERITIN è nato con l’obiettivo di aiutare a rafforzare l’evidenza scientifica, per sottolineare l’importanza delle terapie integrate e fare in modo che... siano parte dei servizi che offre qualsiasi Breast unit in Italia”
può poi usufruire dello spazio che abbiamo creato all’esterno, ristrutturando delle terrazze nelle quali abbiamo realizzato un giardino terapeutico dove le pazienti in trattamento clinico possono respirare un’aria diversa da quella dell’ospedale. All’interno del centro si svolgono anche corsi di Qi Gong, yoga e mindfulness. Man mano che il centro viene conosciuto, aumenta anche la richiesta da parte delle pazienti e di pari passo cerchiamo di migliorare i servizi che offriamo, che non dovrebbero essere considerati degli extra ma dovrebbero diventare il modello di cura ottimale. Con il tempo anche altre strutture ospedaliere hanno compreso il valore delle terapie complementari e se ne fanno carico, ma noi siamo stati pionieri in questo.
È di settembre l’annuncio della nascita del Centro Universitario di Ricerca e Formazione sulle Terapie Integrate nelle neoplasie mammarie (CERITIN) in collaborazione con la facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, di cui lei è direttore. Quali sono gli obiettivi di questo centro?
Il CERITIN è nato con l’obiettivo di aiutare a rafforzare l’evidenza scientifica, per sottolineare l’importanza delle terapie integrate e fare in modo che non restino nella mente di tanti oncologi come delle appendici, ma che invece siano parte del lavoro e dei servizi che offre qualsiasi Breast unit in Italia. È un centro di ricerca che ha una valenza universitaria e che è riconosciuto dalla nostra stessa università come un asset determinante perché aggiunge dei filoni di ricerca meritori. La missione dell’università è di offrire formazione, ricerca e cura. E lo statuto di questo centro prevede proprio il rafforzamento delle iniziative educative. Nel comitato direttivo abbiamo incluso molti colleghi specializzati in altre discipline oncologiche, in modo che capiscano che questo modello deve essere offerto a tutti i pazienti oncologici, indipendentemente dal tipo di tumore. Ci auguriamo quindi che l’ospedale, nei suoi sviluppi futuri, investa sempre di più perché a questo servizio siano riservati spazi sempre più ampi. Intanto noi stiamo facendo un percorso virtuoso, dedicandoci con passione e intelligenza strategica nei limiti di quello che le risorse economiche ci permettono di portare avanti, facendo breccia in una mentalità che queste terapie non le ha mai considerate. Già esiste il master di primo livello presso la nostra università e si organizzano numerosi convegni e seminari. Il prossimo passo, in virtù del fatto che c’è un centro di ricerca che lo può promuovere, è creare un master di secondo livello, di specializzazione più alta, e dare maggiore impulso alle attività, non solo per incrementarle numericamente, ma per offrire loro uno standing più alto. n FC
Presa in carico integrata della donna affetta da tumore al seno: il ruolo delle terapie di supporto
A colloquio con Stefano Magno
Chirurgo senologo e direttore Centro Komen Italia per i trattamenti integrati in oncologia della Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS, Roma
A quali pazienti è rivolto e come è strutturato il modello di cura realizzato nel Centro Komen Italia per i trattamenti integrati in oncologia della Fondazione Policlinico Gemelli di Roma?
Trovandosi all’interno del Polo della salute della donna del Policlinico Gemelli, il nostro Centro accoglie in larga prevalenza donne con tumore al seno e tumori ginecologici. Su tutte queste donne la diagnosi di tumore al seno ha un forte impatto sia sul piano fisico sia su quello emotivo e psicologico. Considerando quindi corpo e mente delle nostre pazienti come parti di un unico elemento, abbiamo basato il nostro modello di cure integrate su due pilastri, rappresentati dal supporto psico-oncologico e dall’educazione a uno stile di vita corretto. Prima dell’intervento chirurgico, le nostre pazienti eseguono nel nostro Centro un triage psico-oncologico, che serve a valutare sia i livelli di distress alla diagnosi, ovvero le criticità, sia le risorse della paziente, poiché queste rappresentano l’aspetto positivo su cui possiamo puntare per costruire insieme un percorso di supporto alla cura. Successivamente ci confrontiamo sullo stile di vita della paziente, ovvero sulle sue abitudini alimentari e sulla sua propensione a svolgere attività fisica. È infatti dimostrato che lo stile di vita svolge un ruolo molto importante non solo a livello di prevenzione primaria, diminuendo il rischio di contrarre un tumore, ma anche, nei casi delle persone già malate, sulla capacità di tollerare meglio la tossicità dei trattamenti. Per intenderci, chi mangia male, è obeso o sedentario presenta più effetti collaterali e ottiene minore efficacia dai trattamenti rispetto a chi segue un corretto stile di vita. In questo modo aiutiamo la paziente prima di tutto nella pre-abilitazione ai trattamenti, e poi nella riabilitazione e nel controllo degli effetti collaterali. Un altro supporto fondamentale che offriamo alle nostre pazienti è rappresentato dalle terapie cosiddette complementari, come l’agopuntura, che non utilizza meccanismi biomolecolari ma energetici che non interferiscono con i farmaci. Tra le altre terapie di supporto, prevediamo anche la musicoterapia e la mindfulness, in base innanzitutto alle indicazioni cliniche e anche alle preferenze delle pazienti. A questo proposito voglio dire che sono convinto che non esista una distinzione netta tra medicina convenzionale e integrata, ma che dobbiamo fare in modo che tali terapie convergano in un’unica medi-
“Sono convinto che non esista una distinzione netta tra medicina convenzionale e integrata, ma che dobbiamo fare in modo che tali terapie convergano in un’unica medicina basata sulle evidenze”
cina basata sulle evidenze. I criteri di evidenza, per cui possiamo utilizzare queste risorse, devono quindi essere gli stessi: gli studi scientifici, il giudizio del curante e le attitudini delle pazienti. Secondo noi, questa prospettiva è il miglior antidoto alla cosiddetta ‘medicina alternativa’, poiché quest’ultima si nutre di bisogni non soddisfatti di pazienti che non si sentono trattati come persone.
Quali sono i punti di forza e i punti critici di questo modello di cura?
Una seduta di riflessologia presso il Centro Komen Italia per le terapie integrate in oncologia.

Vorrei iniziare proprio dal punto di forza del nostro modello integrato di cura, che è quello di trasformare l’urgenza di realizzare un percorso di cura focalizzato sulla persona e sulla sua qualità di vita in una necessità inderogabile. In generale anche se nella comunità scientifica si percepisce il valore di offrire alle pazienti oncologiche un percorso di questo tipo, la sua effettiva realizzazione rimane spesso un’opzione. Se ne riconosce il valore ma non lo si ritiene fondante, non si crede che prendersi cura della qualità di vita fin dall’inizio dei trattamenti sia di pari dignità e importanza rispetto al debellare la malattia, e quindi ad allungare la sopravvivenza. Di contro, le pazienti oncologiche capiscono molto bene i vantaggi di questo modello e ci raccontano con la loro stessa voce quanto il tema della qualità di vita sia almeno altrettanto importante per loro rispetto a quello della sopravvivenza. Lo è a maggior ragione quando le prospettive di cura si riducono, oppure nei casi di pazienti trentenni o quarantenni che guariscono, e quindi hanno un’aspettativa di vita molto lunga davanti a sé, ma la loro qualità di vita è devastata dai trattamenti, prima ancora che dalla malattia. È un tema trasversale: per queste donne e per i pazienti oncologici in generale diventa centrale la qualità di vita, proprio perché abbiamo ottenuto dei risultati straordinari sulla sopravvivenza. Un aspetto che può essere considerato critico, ma che è di importanza fondamentale se vogliamo che questo modello integrato diventi uno standard di cura, è quello legato alla sua sostenibilità economica. Perché, se anche i costi sono più contenuti rispetto a quelli della spesa per i farmaci, le attrezzature, la radioterapia e le sale operatorie, la realizzazione di questo modello ha comunque un costo sia per quanto riguarda il personale sia in termini di tempo, che vale sicuramente la pena di affrontare nel momento in cui si riconoscono il valore e la necessità di intraprendere un percorso incentrato sulla qualità di vita della persona e non sulla malattia.
anche prestigioso, che offre terapie integrate per le pazienti oncologiche. Ci sono molti altri esempi in Italia e fuori dall’Italia. Quello che manca, in base alla nostra esperienza e a quello che abbiamo potuto osservare in altri paesi europei, è una presa in carico sistematica e olistica della paziente. Esistono tante realtà che offrono servizi non coordinati in un percorso coerente, all’interno dello stesso spazio fisico e degli stessi tempi di cura come facciamo noi. In sostanza, manca un percorso che sia basato su evidenze e che sia coordinato da specialisti. Noi, invece, siamo abituati a ragionare per diagnosi, indicazioni terapeutiche, proposte alla paziente. Il modello che proponiamo deve valere per tutti i tipi di trattamento, perché, come abbiamo detto, dobbiamo parlare lo stesso linguaggio della medicina basata sulle evidenze e sulle linee guida già disponibili. In base agli effetti collaterali della paziente, raccomanderemo la terapia complementare eventualmente utile nel caso specifico, ma se non ci sono effetti collaterali su cui si possa intervenire, non raccomanderemo nessuna terapia complementare.
Avete dei dati che confermano una maggiore aderenza alle prescrizioni cliniche, e quindi un miglioramento della qualità di vita delle pazienti, grazie alle terapie di supporto?
Esistono dei dati preliminari, ma non siamo ancora in grado di affermare che chi ha un approccio del genere presenta una migliore aderenza e dunque outcome oncologici migliori e una possibilità di sopravvivenza superiore rispetto a chi non intraprende un trattamento di supporto. Sicuramente abbiamo già dimostrato che tali terapie complementari migliorano la qualità di vita delle pazienti e quindi, indirettamente, chi ha una qualità di vita migliore tende a non abbandonare i percorsi oncologici convenzionali. In ogni caso, abbiamo introdotto pratiche che sono già riconosciute nelle linee guida internazionali recepite da ASCO. Il nostro criterio resta quello dell’evidenza scientifica e delle linee guida oncologiche internazionali. Si tratta di terapie complementari che hanno dimostrato livelli sufficienti di sicurezza e di efficacia.
Perché il vostro può essere considerato un progetto davvero innovativo?
Il Policlinico Gemelli non è l’unico ospedale,
Quali ricadute possono avere le terapie complementari sugli aspetti psicologici e sociali nella vita delle pazienti? Aiutano a creare una comunità di persone che condividono la stessa esperienza? Esistono dei bisogni di salute che trovano risposta in trattamenti individuali. Prima facevo l’esempio dell’agopuntura, che noi utilizziamo per i dolori articolari e che ha dei buoni livelli di efficacia e di evidenza. Ci sono, poi, dei bisogni che richiedono un approccio più comunitario e sociale. Per esem-
“La tossicità temporale è un concetto cruciale soprattutto per le pazienti con un’aspettativa di vita ridotta e che corrono il rischio di trascorrere i mesi di vita faticosamente guadagnati in una struttura ospedaliera invece che accanto ai propri cari”
pio, tra i trattamenti che noi eroghiamo in piccoli gruppi c’è la mindfulness: si tratta di un protocollo di psicoterapia associata alla meditazione, della durata di otto settimane, con uno svolgimento standardizzato di una seduta a settimana. La standardizzazione di questo protocollo ha consentito di effettuare studi molto rigorosi che hanno dimostrato l’efficacia della mindfulness in molti problemi di salute, che hanno a che fare, per esempio, con il dolore cronico o con il miglioramento della qualità di vita.
Ci sono altri trattamenti che, se erogati in gruppo, potenziano la loro efficacia: parliamo della musicoterapia, della psicoterapia di gruppo, e di tutte quelle terapie legate alla rappresentazione, alla scrittura, alla medicina narrativa che, realizzate in una comunità di pazienti che condividono la stessa situazione di malattia, hanno risposte anche più efficaci.
di agopuntura nelle giornate in cui le pazienti vengono al Centro a fare le infusioni.
Una seduta di agopuntura presso il Centro Komen Italia per le terapie integrate in oncologia.
Anche in oncologia si è iniziato a parlare di tossicità temporale, ovvero dell’impatto che affrontare la cura della patologia ha sul tempo delle persone. Crede che le difficoltà logistiche delle pazienti possano costituire un limite all’aderenza a queste terapie complementari?
La tossicità temporale è un concetto cruciale soprattutto per le pazienti con un’aspettativa di vita ridotta e che corrono il rischio di trascorrere i mesi di vita faticosamente guadagnati in una struttura ospedaliera invece che accanto ai propri cari. Penso che non esista una definizione unica di tossicità temporale, perché ogni paziente ha il suo punto di vista. Alcune pazienti preferiscono guadagnare qualcosa in termini di aspettativa di vita e quindi sono disponibili a sacrificare il tempo passato a casa con i propri familiari per ottenere questo obiettivo. E questo discorso vale sia rispetto ai trattamenti salvavita antitumorali, sia rispetto a quelli che consentono di salvaguardare la qualità di vita. Riferendoci solo a questi ultimi, la quantità di tempo da dedicare alle terapie complementari durante trattamenti invasivi che provocano nausea, vomito e altri disturbi deve essere concordata con le pazienti. Per esempio, noi cerchiamo di calendarizzare le sedute

Un altro modo per far fronte alla tossicità temporale è quello di favorire la prossimità territoriale dei servizi in grado di erogare terapie integrate. La gran parte di queste terapie potrebbe infatti essere erogata vicino al domicilio delle pazienti, ovvero nelle ASL di pertinenza, piuttosto che in un grande ospedale. Parlo, per esempio, dello shiatsu, della riflessologia o dell’agopuntura. L’auspicio è che venga adottato un modello che preveda una maggiore prossimità territoriale, per venire incontro alle esigenze delle pazienti che hanno poco tempo a disposizione, o non hanno le capacità, la voglia, le risorse per venire in grandi ospedali. Nella Regione Lazio è stata depositata una proposta di legge per l’introduzione di centri di terapie integrate in oncologia, che vengono definiti Care. Ogni ASL dovrà dotarsi di almeno un centro di terapie integrate per la promozione della qualità di vita dei pazienti oncologici. È una prospettiva interessante che noi abbiamo fortemente voluto, appoggiato e contribuito a definire nella sua stesura.
Secondo lei la condizione socioeconomica dei pazienti e delle pazienti oncologiche influisce sull’accesso alle terapie di supporto?
In letteratura si trovano studi basati su delle survey, soprattutto nordamericane, che hanno dimostrato che l’utente medio delle terapie integrate ha un livello socioeconomico elevato. Le compagnie assicurative non rimborsano la gran parte di queste terapie e quindi il paziente paga di tasca propria. La realtà nel Policlinico Gemelli è un po’ diversa, fortunatamente, perché questo progetto è stato sostenuto e fortemente voluto dalla Komen Italia, che è una organizzazione no-profit che ha previsto dei fondi, in questi oltre dieci anni di attività, che hanno coperto interamente le spese per le pazienti. Quindi la nostra è un’esperienza singolare e virtuosa. Le organizzazioni no-profit e le associazioni di pazienti possono fare una grande differenza, ma si spera che anche i decisori politici – come sta avvenendo nella Regione Lazio – cerchino delle soluzioni a livello istituzionale, così da consentire alle pazienti almeno le terapie che fanno maggiormente la differenza, cioè quelle sugli stili di vita e il supporto psicologico. Dal momento che questi trattamenti hanno un impatto indiretto anche sugli esiti oncologici, sono un diritto per tutte e tutti, e non possono essere un privilegio per qualcuno. Nell’ambito delle terapie integrate poi dovrebbero essere accessibili a tutti almeno quelle che hanno dimostrato prove evidenti di miglioramento della qualità di vita e dell’aderenza terapeutica, e quindi poi degli esiti. E per raggiungere questo obiettivo anche le aziende farmaceutiche e gli stakeholder privati potrebbero dare il loro contributo. n FC
Lo staff del Centro Komen Italia per i trattamenti integrati in oncologia.
In piedi tra le due ali dello staff il professor Masetti, seduti a sinistra per chi guarda il dottor Stefano Magno e a destra il dottor Alessio Filippone.
Foto di Lorenzo Fortunati.
La consulenza nutrizionale alleata delle pazienti oncologiche in un percorso di cura integrato
A colloquio con Alessio Filippone
Biologo nutrizionista presso il Centro Komen Italia per i trattamenti integrati in oncologia della Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS di Roma
Nell’approccio integrato alla cura messo a punto nel vostro centro l’aspetto nutrizionale ha un ruolo importante. Vuole spiegarcene i motivi?
Il supporto alle pazienti oncologiche dal punto di vista della nutrizione svolge un ruolo importante sia nel contribuire a migliorare l’aderenza terapeutica delle pazienti, evitando che ci siano interruzioni nella terapia, sia nell’aiutarle a gestire meglio gli effetti collaterali delle terapie antitumorali, come nausea, vomito, diarrea o stipsi, cambiamento del gusto e difficoltà di deglutizione, e a prevenire la sarcopenia, ossia la riduzione della massa muscolare, e l’obesità. La maggior parte delle nostre pazienti è infatti obesa o in sovrappeso.
Tutto ciò che riguarda l’alimentazione e lo stile di vita ha un impatto sulla prognosi e sul rischio di tossicità da terapia. È un tema che stiamo affrontando all’interno delle istituzioni medico-scientifiche, come la Commissione nutrizione dell’Ordine dei biologi di Lazio e Abruzzo e il gruppo di lavoro che si occupa di nutrizione in oncologia all’interno della Società italiana di nutrizione umana. All’ultimo congresso di questa società abbiamo presentato uno studio proprio sull’impatto della composizione corporea nelle tossicità da chemioterapia. Attraver-

so questo studio abbiamo osservato che avere una massa grassa molto alta e una massa muscolare poco presente aumenta il rischio di tossicità neurologica ed ematologica durante i trattamenti per tumori del seno. L’attenzione all’alimentazione nel percorso di cura delle pazienti oncologiche è quindi fondamentale.
La particolarità di questo centro è che l’aspetto della nutrizione è integrato ad altre terapie complementari. Ci spieghi meglio.
Nella maggior parte degli altri centri si prende il peso della paziente e lo si monitora solo nei casi in cui la cachessia è importante oppure la consulenza nutrizionale viene effettuata su richiesta della paziente stessa. Nel nostro Centro, sostenuto dalla Susan G. Komen Italia, la realizziamo invece in modo sistematico effettuando da subito uno screening nutrizionale, secondo le linee di indirizzo ministeriali sulla nutrizione in oncologia, per indagare sia la malnutrizione per eccesso che per difetto della paziente, con l’obiettivo di valutare anche la sua aderenza alla dieta mediterranea. Attraverso la raccolta di questi dati, si forniscono alle pazienti dei consigli di alimentazione semplici ma scientificamente validati, in linea con le raccomandazioni del World Cancer Research Fund, così da affiancare il percorso di cura oncologico senza appesantirlo. Le informazioni relative a ogni paziente vengono sistematizzate e sono rintracciabili attraverso un codice di priorità e di profilo di rischio così da consentire il monitoraggio dello stato di salute della paziente.
Ogni paziente avviata a un intervento chirurgico, nel giorno della pre-ospedalizzazione, effettua una visita con il nutrizionista, che le fornisce delle raccomandazioni per orientarla nella gestione nutrizionale durante il percorso di chemioterapia e nel follow-up successivo alle terapie. Se la paziente non ha particolari necessità in attesa dell’intervento, viene semplicemente monitorata; in caso contrario le si propone di iniziare un percorso di pre-abilitazione all’intervento chirurgico o alla chemioterapia neoadiuvante, sfruttando la finestra di tempo che intercorre dal colloquio all’inizio della terapia. Abbiamo notato che le pazienti in prima istanza possono essere più o meno ricettive, poiché sono molto concentrate sull’intervento chirurgico e sull’inizio della terapia. Superata questa fase, diventano più aderenti alle prescrizioni del nutrizionista. A mio avviso, è come se iniziassero a capire che con il nutrizionista hanno avviato un percorso, rispetto al proprio stile di vita, fatto di scelte personali e modulabili, che dipendono esclusivamente da loro. In questo modo sono sempre di più soggetti attivi del loro iter di cura e l’alleanza terapeutica diventa molto efficace. n FC
La gestione delle CAR-T: l’evoluzione del farmacista ospedaliero
e le sfide per il futuro
L’introduzione delle terapie CAR-T ha rappresentato una svolta epocale nel trattamento di alcune patologie oncoematologiche come il linfoma non-Hodgkin, migliorando significativamente le prospettive di vita dei pazienti. Tuttavia, questa innovazione ha anche comportato cambiamenti sostanziali nel sistema sanitario, ridefinendo il ruolo del farmacista ospedaliero e sollevando nuove sfide di governance e sostenibilità.
Ne abbiamo parlato con Arturo Cavaliere, Direttore della Farmacia Ospedaliera dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Sant’Andrea di Roma e Presidente della Società Italiana di Farmacia Ospedaliera, e Vito Ladisa, Direttore della Farmacia Ospedaliera presso l’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano.
EFFICACIA E SICUREZZA:
UNA NUOVA ERA PER I PAZIENTI
Come ci ha spiegato Vito Ladisa, le CAR-T hanno trasformato la vita dei pazienti. Per malattie come il linfoma non-Hodgkin, che in passato lasciavano poche speranze, oggi circa il 40% dei pazienti raggiunge una risposta completa. Gli eventi avversi, come la sindrome da rilascio di citochine (CRS) o la sindrome da neurotossicità associata alle cellule effettrici della risposta immune (ICANS), vengono ora gestiti con maggiore competenza clinica, diventando persino segnali di efficacia terapeutica. Questa capacità di controllo riflette un significativo progresso nella gestione delle CAR-T, che richiede un’attenta selezione dei pazienti e un monitoraggio continuo anche post-trattamento.
IL RUOLO AMPLIATO DEL FARMACISTA OSPEDALIERO
La gestione efficace e sicura di queste nuove terapie non può prescindere – ha continuato Ladisa – da un’evoluzione della figura del farmacista ospedaliero, divenuto ora elemento cardine del CAR-T team. All’interno di questo team, il farmacista ospedaliero non si limita infatti alla sola gestione amministrativa dei farmaci, ma è coinvolto in modo diretto nella selezione dei pazienti, nel monitoraggio post-infusione e nel supporto al clinico nei processi legati al trattamento con le CAR-T. Basti pensare alle attività di farmacovigilanza, alla gestione della bridging therapy, e alla garanzia della disponibilità 24/7 dei farmaci essenziali per monitorare e gestire gli eventi avversi. E la funzione di questo professionista, ha sottolineato Ladisa, non si esaurisce con la dimissione perché il paziente CAR-T necessita di un importante accompagnamento anche nel momento in cui viene dimesso dall’ospedale non solo da un punto di vista esclusivamente clinico, ma anche farmacologico in considerazione delle terapie di supporto che possono rendersi necessarie.
GOVERNANCE E SOSTENIBILITÀ:
UNA SFIDA COLLETTIVA
Affrontando il problema della sostenibilità di queste terapie, Arturo Cavaliere ha voluto sottolineare l’importanza di un approccio strutturato per garantire l’accesso uniforme alle CAR-T su scala nazionale. Secondo Cavaliere, il farmacista ospedaliero è lo specialista qualificato per individuare il bisogno terapeutico inespresso rispetto all’erogazione delle CAR-T, coadiuvando in questo compito gli organismi regionali. Di fatto le Regioni si stanno dotando di strumenti innovativi, come gli algoritmi predittivi che utilizzano l’intelligenza artificiale, in grado di calcolare il bisogno terapeutico attuale e per gli anni a venire di ogni singola Regione e pianificare in modo efficiente le risorse, assicurando che ogni paziente idoneo possa beneficiare di questa importante innovazione terapeutica.
IL FUTURO DELLE CAR-T IN ITALIA
Per affrontare le sfide poste dalle CAR-T, Cavaliere propone l’adozione di linee guida nazionali che definiscano chiaramente il ruolo dei diversi professionisti coinvolti nel percorso di cura. Questo approccio favorirebbe la formazione continua e il coordinamento tra clinici, farmacisti e altri specialisti, garantendo la gestione efficace delle terapie avanzate.
Le CAR-T rappresentano una straordinaria opportunità per il trattamento di alcune gravi patologie, ma richiedono un impegno condiviso per affrontare le complessità organizzative che pongono e per garantire la loro sostenibilità economica anche in vista dell’ampliamento delle loro indicazioni terapeutiche. La collaborazione tra farmacisti ospedalieri, clinici e istituzioni sanitarie è quindi cruciale per consolidare i successi ottenuti e garantire l’accesso equo a queste terapie salvavita.
Mara Losi
Si ringrazia Gilead per il supporto non condizionante alla realizzazione di questo contenuto.
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Arturo Cavaliere
Vito Ladisa
L’intelligenza artificiale nell’editoria scientifica e nel supporto alle decisioni mediche
L’intelligenza artificiale sta trasformando profondamente l’editoria scientifica e il settore medico, aprendo nuove opportunità in entrambi i campi, ma sollevando al contempo importanti interrogativi etici. Su questi temi si sono confrontati alcuni esperti del mondo accademico, editoriale e aziendale nella tavola rotonda dedicata al tema Intelligenza artificiale e nuove tecnologie: una visione del loro impatto futuro nel mondo dell’informazione, svoltasi nell’ambito dell’EBSCO Open Day organizzato a Roma presso il Museo dell’Ara Pacis lo scorso 10 ottobre.
Per approfondire il livello di integrazione dell’intelligenza artificiale in entrambi questi ambiti abbiamo rivolto qualche domanda a Gionata Giacomelli, Regional Sales Manager di EBSCO Information Services, che ha moderato la tavola rotonda, e a Cosma Dellisanti, Executive Managing Editor di EBSCO DynaMedex.
L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE NELL’EDITORIA SCIENTIFICA
L’intelligenza artificiale è già ampiamente impiegata nel publishing scientifico, ci conferma Giacomelli. Gli editori la utilizzano per una vasta gamma di attività: dalla formattazione dei testi alla verifica
delle citazioni e dei riferimenti bibliografici, fino alla prevenzione del plagio. Sistemi avanzati di intelligenza artificiale analizzano i metadati per classificare e rendere più facilmente ricercabili gli articoli, individuare tendenze emergenti nella ricerca e supportare la selezione dei revisori per il processo di peer review.
Gli strumenti basati sull’intelligenza artificiale aiutano inoltre gli autori nella redazione di abstract più precisi, nella scrittura di articoli chiari ed efficaci, nella traduzione dei contenuti in altre lingue e nella creazione di grafici e immagini che migliorano la comprensione degli articoli. “Queste tecnologie – sottolinea Giacomelli – contribuiscono quindi a rendere la ricerca e i suoi risultati più accessibili a un pubblico sempre più vasto di ricercatori”.
E sulla possibilità di affidare direttamente all’intelligenza artificiale il processo di peer review, Dellisanti osserva che è una possibilità più vicina di quanto si pensi, che ci permetterà di fare un salto di qualità sui temi della trasparenza, consentendoci di scoprire più facilmente eventuali plagi o manipolazione dei dati, e dell’imparzialità. Non dobbiamo però dimenticare che la selezione dei dati e delle informazioni sulla base delle quali l’intelligenza artificiale è stata addestrata possono dare luogo a bias interpretativi nel momento in cui il processo di valutazione degli articoli scientifici sia affidato esclusivamente all’intelligenza
COS’È DYNAMED?
DynaMed è un point-of-care tool. In altre parole, è una sorta di “manuale digitale di clinica medica” consultato quotidianamente da milioni di utenti in tutto il mondo: clinici, medici, assistenti medici, infermieri professionali, ostetriche, specializzandi e studenti di medicina, nonché da qualsiasi professionista sanitario che svolge un ruolo nella prescrizione o nella facilitazione del processo decisionale clinico.
I contenuti di DynaMed sono redatti da un team di medici e ricercatori di livello mondiale che sintetizzano le prove e forniscono analisi obiettive per migliaia di argomenti clinici e farmacologici. Gli argomenti trattati sono sempre corroborati da evidenze cliniche e mai prodotti esclusivamente in base all’esperienza o all’opinione dell’autore, garantendo quindi risposte cliniche imparziali, obiettive ed affidabili.
Le caratteristiche di DynaMed riconosciute a livello internazionale sono principalmente queste:
l contenuti di alta qualità con migliaia di diagnosi, malattie e farmaci che coprono tutte le specialità;
l migliaia di grafici e immagini mediche per supportare diagnosi accurate; l contenuti imparziali e basati sull’evidenza, in modo da garantire l’affidabilità e l’aggiornamento delle informazioni;
l un processo di aggiornamento quotidiano senza eguali, con un accesso continuo alle evidenze più aggiornate;
l sintesi di evidenze tratte da oltre 500 riviste e linee guida di organizzazioni internazionali, selezionate in base alla loro pertinenza e utilità;
l accesso immediato agli aggiornamenti rilevanti relativi al cambiamento delle pratiche cliniche tramite la funzione alerts;
l possibilità di collegamento a molte fonti delle informazioni per accedere alle prove originali;
l integrazioni API (Application programming interface) e EHR (Electronic health records) personalizzabili per supportare gli attuali flussi di lavoro dei medici;
l link alle linee guida nazionali e internazionali.
Il contenuto di DynaMed è suddiviso in oltre 12.000 argomenti relativi a 37 specialità mediche per l’uso nel setting assistenziale (può ovviamente essere consultato anche dallo smartphone in modo molto efficace) con:
l oltre 2.500 argomenti che riguardano la valutazione;
l oltre 3.000 argomenti che riguardano la gestione;
l oltre 2.500 argomenti che coprono: prevenzione, screening, prognosi, epidemiologia ed eziologia;
l oltre 200 argomenti che coprono segni e sintomi;
l oltre 100 argomenti che coprono procedure interventistiche e diagnostiche;
l oltre 2.500 argomenti relativi a farmaci (monografie);
l oltre 600 argomenti di laboratorio.
DynaMed include panoramiche concise e accurate per malattie e condizioni, nonché raccomandazioni per il trattamento più appropriato, basate sull’evidenza. I medici possono visualizzare la sezione Overview and Recommendations di ognuno degli argomenti di DynaMed per ottenere un rapido riepilogo dell’argomento e delle azioni consigliate in base alle evidenze più recenti. I collegamenti interni a questa sezione forniscono un facile accesso ai dettagli e alle prove di supporto.
È molto importante sottolineare che le raccomandazioni sono sviluppate utilizzando il sistema GRADE (Grading of Recommendations Assessment, Development and Evaluation), accettato a livello internazionale, e sono successivamente sottoposte a un’ulteriore revisione da parte di un redattore indipendente scelto per la sua esperienza nella medicina basata sull’evidenza, nella metodologia e nello sviluppo di linee guida. Questi redattori di raccomandazioni garantiscono che tutte le raccomandazioni siano valide, supportate e basate sull’evidenza. Alcune Overview and Recommendations relative alla medicina interna sono inoltre sottoposte a ulteriori revisioni da parte dei partner dell’American College of Physicians (ACP).

artificiale. Per questo motivo, conclude Dellisanti, “è importante sempre tenere il fattore umano al centro del processo al fine di utilizzare l’intelligenza artificiale come quell’elemento che ci possa permettere un incremento dell’efficienza e dell’efficacia del processo senza determinarlo in maniera unica.”
L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE IN AMBITO MEDICO
Anche in medicina, l’intelligenza artificiale si sta affermando come uno strumento ideale per migliorare l’efficienza dei processi decisionali. Dellisanti sottolinea come, in contesti legati alla medicina basata sull’evidenza, l’intelligenza artificiale possa essere utilizzata per analizzare i dati clinici e selezionare le informazioni più rilevanti. Inoltre, l’intelligenza artificiale sta dimostrando un ruolo fondamentale nel sintetizzare rapidamente le evidenze scientifiche che alimentano i point-of-care tool, strumenti progettati per supportare i professionisti sanitari nella pratica clinica quotidiana, offrendo informazioni rapide e affidabili direttamente nel punto di cura del paziente. Questo contribuisce a rendere tali strumenti sempre più aggiornati e precisi. Tuttavia Dellisanti avverte che le risposte generate dall’intelligenza artificiale sono strettamente legate alla qualità dei dati utilizzati per il suo addestramento. Per questo motivo, il controllo umano resta essenziale nei processi di selezione e valutazione. L’intelligenza artificiale non può sostituire le competenze e l’esperienza del medico, indispensabili per contestualizzare i risultati e personalizzare i trattamenti in base alle caratteristiche uniche di ogni paziente. Aspetti fondamentali come l’empatia e l’intuizione clinica, almeno per ora, rimangono prerogativa esclusiva dell’essere umano.
LE QUESTIONI ETICHE
Un tema centrale, emerso dalle risposte di entrambi gli intervistati, riguarda le implicazioni etiche dell’uso dell’intelligenza artificiale. La comunità scientifica è chiamata a riflettere sul valore della cono-
scenza prodotta dalle macchine e a definire criteri condivisi che garantiscano trasparenza ed equità. È evidente l’importanza di un approccio concertato: coinvolgere tutti gli attori interessati – dai ricercatori agli editori, fino agli utilizzatori e valutatori – è essenziale per minimizzare i rischi e affrontare le potenziali conseguenze negative legate a queste tecnologie emergenti.
L’intelligenza artificiale si configura come un alleato prezioso sia nell’editoria scientifica sia nel supporto alla pratica medica, ma il suo impiego richiede un delicato equilibrio tra automazione e controllo umano. Questa integrazione deve essere accompagnata da una riflessione etica costante, con l’obiettivo di non sostituire il giudizio umano, ma di potenziarlo. Solo così i progressi tecnologici potranno essere messi al servizio della società in modo sicuro, equo e sostenibile.
Mara Losi
Questo contenuto è stato realizzato anche grazie al supporto di EBSCO Information Services srl
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Cosma Dellisanti Gionata Giacomelli