

ca|re
costi dell’assistenza e risorse economiche
3|2024
INCONTRI
Tecnologia e intelligenza artificiale come occasioni per migliorare davvero le prestazioni del Servizio sanitario nazionale
A colloquio con Achille Iachino Direttore generale dei dispositivi medici e del servizio farmaceutico, Ministero della salute
Il rapporto tra tecnologia e sanità crea un suo impatto sia sulle cure sia sul piano economico. Come valuta questa evoluzione?
Il rapporto tra tecnologia e sanità è estremamente significativo sia dal punto di vista sanitario che economico. L’applicazione della tecnologia ai dispositivi medici rappresenta un’opportunità che il sistema sanitario deve cogliere appieno, e posso dire che stiamo facen-
CARE nasce per offrire a medici, amministratori e operatori sanitari un’opportunità in più di riflessione sulle prospettive dell’assistenza al cittadino, nel tentativo di coniugare – entro severi limiti economici ed etici – autonomia decisionale di chi opera in Sanità, responsabilità collettiva e dignità della persona.
14
DOSSIER
do progressi significativi in questo senso. Percepiamo le implicazioni della tecnologia, le applichiamo al sistema dei dispositivi medici e ai diversi setting assistenziali, dando vita a un sistema di Health technology assessment (HTA) profondamente rinnovato rispetto al passato, con ruoli più chiari e ben definiti. Attualmente stiamo avviando un programma nazionale che coinvolge diversi soggetti e strumenti, per dimostrare che l’investimento in tecnologia sanitaria è un investimento che genera valore, migliorando la qualità e risparmiando risorse.
Qual è il ruolo dell’intelligenza artificiale nella sanità e cosa sta facendo il Ministero da questo punto di vista?
Per il momento non abbiamo ancora richieste dirette di valutazione di prodotti che applicano l’intelligenza artificiale nella sanità. Tuttavia ciò non significa che non stiamo considerando l’importanza dell’intelligenza artificiale in questo settore. È chiaro che siamo di
Giovanni Rezza presenta un quadro dei piani pandemici in Italia dal precovid a oggi con lo sguardo rivolto al futuro
17
CONFRONTI
Elena Savoia spiega come l’intelligenza artificiale influenzi il modo con cui affrontare e comunicare le emergenze
19
CONFRONTI
Caterina Rizzo illustra come il lavoro dell’igienista si intrecci con quello del comunicatore
11 Incontri TECNOLOGIA E INTELLIGENZA
ARTIFICIALE COME OCCASIONI PER MIGLIORARE DAVVERO LE PRESTAZIONI DEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE
A colloquio con Achille Iachino
13 Dalla letteratura internazionale
14 Dossier
PIANI PANDEMICI: IERI, OGGI E DOMANI di Giovanni Rezza
17 Confronti INTELLIGENZ A ARTIFICIALE E CRISI CLIMATICA
A colloquio con Elena Savoia
19 L’IMPORTANZA DELLA COMUNICAZIONE NEL LAVORO DELL’IGIENISTA A colloquio con Caterina Rizzo
Tutti gli articoli e le interviste sono disponibili su www.careonline.it
CARE Costi dell’assistenza e risorse economiche
Direttore responsabile
Giovanni Luca De Fiore
Comitato editoriale
Cesare Albanese, Giancarlo Bausano
Cristina Cenci, Antonio Federici
Guendalina Graffigna, PierLuigi Lopalco
Mara Losi, Walter Ricciardi, Eugenio Santoro Federico Spandonaro
Stampa Ti Printing srl - Roma
Progetto grafico ed impaginazione
Doppiosegno snc - Roma
Fotografie
©2024 ThinkstockPhotos.it
Registrazione del Tribunale di Roma n. 00472/99 del 19 ottobre 1999
Abbonamenti 2024
Individuale: euro 90,00
Istituzionale: euro 120,00
Periodicità bimestrale
Finito di stampare giugno 2024
Il Pensiero Scientifico Editore
Via San Giovanni Valdarno 8 - 00138 Roma
E-mail: info@careonline.it
Internet://www.careonline.it
Con il patrocinio di


Laureatosi in giurisprudenza nel 1999, Achille Iachino ha ricoperto negli anni vari incarichi di alta amministrazione prima in Agenas e poi nella Regione Lazio. Approdato al Ministero della salute a settembre 2017, dal 2020 è Direttore della Direzione generale dei dispositivi medici e del servizio farmaceutico.
“È un momento chiave per lo sviluppo della tecnologia in sanità. L’Health technology assessment è al centro dell’attenzione non credo per ‘moda’, ma perché in tutti i soggetti si è diffusa la consapevolezza della reale possibilità che la tecnologia ci sta offrendo adesso di migliorare il livello delle prestazioni del Servizio sanitario nazionale. Ma perché questo si realizzi, ci vuole un’attività sempre più costante e coordinata di misurazione dell’utilità delle tecnologie. L’obiettivo deve essere quello di valorizzare la ricerca e gli investimenti, ma al centro ci deve essere sempre il paziente”.
Dall’intervento di Achille Iachino in occasione della presentazione del 19° Rapporto CREA Sanità, svoltasi a Roma il 24 gennaio 2024
fronte a un campo in continua evoluzione e che le previsioni attuali potrebbero essere superate nel prossimo futuro. Quando si parla di intelligenza artificiale in ambito sanitario, è fondamentale tenere presente che tale intelligenza deve servire da supporto alla risorsa umana e alle sue competenze, riducendo i margini di errore e consentendo una lettura più veloce e approfondita di un vasto insieme di dati. È un’innovazione estremamente utile e necessaria per il futuro, ma va governata con raziocinio.
Come si valuta l’appropriatezza nell’utilizzo della tecnologia applicata ai dispositivi medici?
È essenziale garantire che l’utilizzo della tecnologia nei dispositivi medici sia appropriato. Ciò significa che deve essere impiegata in modo tale da migliorare la qualità dell’assistenza sanitaria e da ottimizzare le risorse, evitando sprechi e riducendo i rischi per i pazienti. Gli interventi devono essere guidati dalle necessità cliniche e basati sull’evidenza scientifica, con una costante valutazione dell’efficacia e dell’efficienza delle tecnologie adottate.
Quali sono, secondo lei, le sfide principali da affrontare nell’integrare la tecnologia nella sanità?
Una delle principali sfide è garantire che l’adozione della tecnologia avvenga in modo uniforme ed equo, evitando disparità nell’accesso alle nuove tecnologie tra diverse aree geografiche o gruppi di pazienti. È inoltre importante affrontare le preoccupazioni legate alla sicurezza dei dati e alla privacy dei pazienti, assicurandosi che i sistemi informativi siano robusti e conformi alle normative vigenti. Infine, è necessario promuovere la formazione e l’aggiornamento professionale del personale sanitario
per garantire una corretta gestione e utilizzo delle nuove tecnologie.
Quali sono i vantaggi economici derivanti dall’adozione della tecnologia nella sanità?
L’adozione della tecnologia nella sanità può generare numerosi vantaggi economici, tra cui una maggiore efficienza nei processi sanitari, una riduzione dei costi associati alle cure e una migliore gestione delle risorse. Inoltre, può favorire lo sviluppo di nuove opportunità commerciali nel settore delle tecnologie mediche, stimolando l’innovazione e la crescita economica. Tuttavia, è importante valutare attentamente i costi e i benefici di ciascuna tecnologia adottata, per assicurare un utilizzo razionale delle risorse finanziarie disponibili.
Quali sono le prospettive future per l’applicazione della tecnologia nella sanità?
Le prospettive future per l’applicazione della tecnologia nella sanità sono molto promettenti. Si prevede un continuo sviluppo e diffusione di nuove tecnologie, come l’intelligenza artificiale, la telemedicina e i dispositivi indossabili, che potrebbero trasformare radicalmente il modo in cui viene erogata l’assistenza sanitaria. Tuttavia, è fondamentale affrontare le sfide legate all’adozione e all’implementazione di queste tecnologie, garantendo che siano accessibili a tutti e utilizzate in modo responsabile e sicuro. Inoltre, è importante promuovere la ricerca e l’innovazione nel settore, per continuare a migliorare la qualità e l’efficacia dei servizi sanitari offerti».
Intervista a cura di Cesare Buquicchio
Tendenze globali di sottopeso e obesità: lo studio del Lancet
NCD Risk Factor Collaboration (NCD-RisC)
Worldwide trends in underweight and obesity from 1990 to 2022: a pooled analysis of 3663 populationrepresentative studies with 222 million children, adolescents, and adults
Lancet 2024; 403:1027-1050
Il carico globale della malnutrizione pone significativi problemi ai sistemi sanitari pubblici in tutto il mondo. Associata a una miriade di problematiche sanitarie, la malnutrizione è diventata una questione primaria da risolvere per raggiungere l’equità sanitaria globale, in linea con quanto prefissato dal secondo obiettivo di sviluppo sostenibile.
Il sottopeso e l’obesità rappresentano i due estremi dello spettro della malnutrizione (il cosiddetto dual burden) e comportano significativi rischi per la salute degli individui durante l’intero arco della loro vita. Il sottopeso è associato a una maggiore suscettibilità alle malattie infettive, alla compromissione della crescita e dello sviluppo e a tassi di mortalità più elevati, in particolare tra bambini e donne in gravidanza. L’obesità, invece, è un importante fattore di rischio per le malattie non trasmissibili come le malattie cardiovascolari, il diabete di tipo 2 e alcuni tipi di cancro.
Il fenomeno della transizione nutrizionale, caratterizzato dalla coesistenza di sottopeso e obesità all’interno delle popolazioni e dei nuclei familiari, riflette cambiamenti socioeconomici e ambientali più ampi, tra cui i cambiamenti nei modelli di alimentazione, urbanizzazione e globalizzazione.
Comprendere l’interazione complessa tra questi fattori è essenziale per sviluppare interventi efficaci, atti ad affrontare la malnutrizione in tutte le sue forme.
In questo contesto, lo studio pubblicato sul Lancet fornisce importanti spunti per quanto riguarda la prevalenza e le tendenze della malnutrizione nel corso degli ultimi tre decenni. Analizzando i dati di 3663 studi condotti su scala nazionale, che coinvolgono 222 milioni di partecipanti in 200 paesi e territori, lo studio offre una panoramica completa sull’evoluzione del sottopeso e dell’obesità.
LO STUDIO
Lo studio del Lancet utilizza un modello bayesiano gerarchico per stimare le tendenze dell’indice di massa corporea (IMC) dal 1990 al 2022, includendo sia adulti (età ≥20 anni) sia bambini e adolescenti in età scolare (età 5-19 anni). Il sottopeso è definito da un IMC inferiore a 18,5 kg/m², mentre l’obesità è definita negli adulti da un IMC di almeno 30 kg/m² e nei bambini e negli adolescenti da una distanza maggiore di due deviazioni standard sopra la mediana del relativo riferimento di crescita stabilito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). I dati degli studi condotti su scala nazionale sono stati raccolti e analizzati utilizzando metodi statistici rigorosi, al fine di tenere in considerazione le variazioni in termini di qualità dei dati, di andamento dell’IMC nelle varie fasce di età e in termini di eterogeneità geografica. Questa robusta metodologia ha consentito di generare stime affidabili della prevalenza del sottopeso e dell’obesità in diverse popolazioni e in diversi contesti.
I RISULTATI
Le conclusioni dello studio rivelano tendenze dinamiche nella prevalenza del sottopeso e dell’obesità in diverse regioni del mondo e fasce di età. Dal 1990 al 2022 la prevalenza combinata di questi due fattori ha mostrato traiettorie variegate, con alcuni paesi che hanno registrato in particolare una diminuzione della presenza della denutrizione e altri che hanno registrato un aumento dell’obesità. In particolare, le nazioni insulari dei Caraibi, della Polinesia e della Micronesia, insieme ai paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, hanno mostrato la più alta prevalenza combinata di sottopeso e obesità nel 2022.
Inoltre, lo studio mette in evidenza il cambiamento del carico (burden) della malnutrizione tra i bambini e gli adolescenti (figura), con l’obesità che emerge come problematica dominante nella maggior parte dei paesi in questa fascia d’età, seguendo un trend che si era già manifestato in precedenza tra gli adulti. Nonostante gli sforzi compiuti per gestire la malnutrizione in particolare in regioni come l’Asia Meridionale e i paesi dell’Africa subsahariana, dove sono più evidenti i problemi di denutrizione nelle fasce più vulnerabili della popolazione, rimangono ancora molte questioni da affrontare, e questo sottolinea la necessità di interventi mirati per promuovere comportamenti alimentari corretti e stili di vita sani a livello globale.
LE IMPLICAZIONI E LA NECESSITÀ DI UN APPROCCIO OLISTICO
L’interpretazione dei risultati dello studio sottolinea l’urgente necessità di un approccio olistico per affrontare l’interazione complessa tra sottopeso e obesità. Sebbene siano stati compiuti progressi nel ridurre la malnutrizione in alcune regioni del mondo, l’aumento dell’obesità costituisce una minaccia significativa e predominante per la salute pubblica, specialmente tra le popolazioni vulnerabili. Il cambiamento nelle abitudini alimentari con l’accesso più facile ai cibi altamente processati anche nei paesi a basso e medio reddito insieme a uno stile di vita decisamente più sedentario nelle fasce di

PROPORZIONE DEL DOPPIO FARDELLO ( DOUBLE BURDEN ) DEL SOTTOPESO E DELL’OBESITÀ NEI BAMBINI E NEGLI ADOLESCENTI IN ETÀ SCOLARE (ETÀ 5-19 ANNI) DAL 1990 AL 2022
Ragazze
popolazione meno abbienti sono sicuramente tra i fattori che hanno favorito l’incremento dell’obesità. Questo sottolinea l’importanza di promuovere una transizione alimentare sana che favorisca l’accesso a cibi di qualità e a una corretta attività fisica, affrontando contemporaneamente i determinanti ambientali e socioeconomici della malnutrizione.
Secondo l’OMS i risultati dello studio evidenziano le dimensioni dell’epidemia globale di obesità, con oltre un miliardo di individui colpiti in tutto il mondo. L’OMS sottolinea anche la persistenza della malnutrizione in alcune regioni, in particolare nel Sud-Est asiatico e nell’Africa subsahariana, dove l’insicurezza alimentare rimane una problematica significativa.
Di conseguenza, le implicazioni dello studio vanno oltre le conoscenze epidemiologiche, plasmando anche le relative risposte politiche e programmatiche. È necessaria un’azione urgente per affrontare l’aumento dell’obesità, garantendo allo stesso tempo un accesso equo a cibi nutrienti e servizi sanitari in particolare nel Sud-Est asiatico e in alcune parti dell’Africa. Inoltre, gli sforzi per combattere la malnutrizione devono essere integrati con strategie più ampie, le quali affrontino i determinanti sociali della salute e promuovano sistemi alimentari sostenibili.
Le disuguaglianze strutturali, tra cui la povertà, la mancanza di accesso all’istruzione e l’inadeguatezza delle infrastrutture sanitarie, contribuiscono alle disparità dei livelli nutrizionali, in particolare tra le
popolazioni svantaggiate. Affrontare questi determinanti richiede un approccio multifattoriale che comprenda non solo interventi sanitari radicali a livello di cure primarie, ma anche politiche e programmi socioeconomici di ampia portata, come trasferimenti di denaro mirati, sussidi o voucher per l’acquisto di cibi sani, e il libero accesso alle mense scolastiche.
I LIMITI DELLO STUDIO
È importante notare anche i limiti di questo studio, che sono propri delle analisi globali. Per esempio, alcuni paesi presentano dati insufficienti e le stime ad essi associate si basano pesantemente sui dati provenienti da altri paesi. Inoltre, la disponibilità dei dati varia a seconda della fascia di età, con meno informazioni per i bambini di età compresa tra i 5 e i 9 anni e gli anziani (≥65 anni), e questo aspetto aumenta l’incertezza nelle stime per questi segmenti demografici. Infine, lo studio non include dati sull’altezza, un importante indicatore del livello di nutrizione e delle condizioni di vita, optando invece per l’IMC, il quale, nonostante implichi alcune limitazioni nell’analisi della distribuzione del grasso corporeo e dunque qualche incertezza sulle condizioni nutritive generali della popolazione analizzata, è comunque ampiamente utilizzato nelle indagini sulla popolazione e nella pratica clinica.
Paolo Rega
Prevalenza della magrezza
Prevalenza uguale
Prevalenza dell’obesità
Esitazione vaccinale. Problema reale o volutamente enfatizzato?
Higgins DM, O’Leary ST
The risks of normalizing parental vaccine hesitancy
N Engl J Med 2024; 390: 485-487
Lo scetticismo nei confronti delle vaccinazioni è fenomeno antico, nato storicamente fin dall’introduzione dei primi vaccini per la prevenzione delle malattie infettive, anche se al giorno d’oggi il suo effettivo impatto potrebbe essere sovrastimato dalla diffusione spesso incontrollata di informazioni errate su internet oltreché da motivazioni di carattere politico-sociale.
A partire dal primo decennio degli anni 2000, per iniziativa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), il fenomeno è stato denominato vaccine hesitancy ed etichettato come “un ritardo o un rifiuto delle vaccinazioni nonostante la loro disponibilità”. Nel corso degli ultimi vent’anni, questo atteggiamento è stato oggetto di particolare attenzione sia per la crescente disponibilità di nuovi vaccini sia per la diffusione di notizie spesso fuorvianti sulla loro efficacia, raggiungendo poi il vertice dell’attenzione in occasione della pandemia da covid-19.
I DETERMINANTI DELL’ESITAZIONE VACCINALE
Nell’agosto 2015, un gruppo di lavoro creato dallo Strategic Advisory Group of Experts on Immunization dell’OMS ha pubblicato sulla rivista Vaccine un numero speciale dedicato all’esitazione vaccinale intitolato WHO recommendations regarding vaccine hesitancy. Nel documento si sottolinea come l’esitazione vaccinale riconosca almeno tre determinanti principali. In primis, fattori storici, sociali, culturali, ben esemplificati dalle note e recenti ‘teorie complottistiche’ secondo le quali i vaccini sono uno strumento a favore di interessi economici e/o politici delle case farmaceutiche e dei governi dei paesi occidentali fino a costituire una vera e propria violazione dei diritti umani. Vi sono poi fattori ‘individuali’ e di ‘gruppo’, fra cui la convinzione che i vaccini possano non essere sicuri o causare altre patologie (per esempio, la supposta relazione tra vaccini e autismo). Esistono infine questioni legate a vaccinazioni specifiche, per esempio nel caso in cui le persone non avvertono la necessità di alcuni vaccini perché non hanno mai fatto esperienza diretta della gravità di alcune patologie. Senza tralasciare i problemi legati all’accesso (in termini di tempi o di disponibilità dei vaccini) o al costo, laddove i sistemi sanitari non garantiscono la fornitura gratuita dei vaccini.
Nel 2019, sempre l’OMS ha incluso l’esitazione vaccinale fra le dieci minacce principali per la salute globale, dopo aver constatato sia in Europa che nel continente americano un incremento preoccupante (di ben 5 volte) della diffusione del morbillo, attribuibile con ogni probabilità al mancato raggiungimento di adeguate coperture vaccinali in queste zone geografiche. Peraltro, se in Europa oggi l’esitazione vaccinale viene considerata l’ostacolo principale a una copertura vaccinale adeguata, in altre zone geografiche meno sviluppate, per esempio l’Africa sub-sahariana, la copertura vaccinale è maggiormente condizionata dalle difficoltà di accesso o disponibilità dei vaccini.
Una recente presa di posizione di un gruppo di pediatri nord-americani ripropone infine un tema interessante che riguarda il presunto

diffondersi negli USA di un crescente scetticismo nei confronti delle vaccinazioni infantili, segnalato a partire dalla pandemia da covid-19. Tale fenomeno sarebbe in realtà il frutto avvelenato di una sistematica disinformazione diffusa online da attivisti no-vax, tesa a creare nell’opinione pubblica l’errata convinzione che la maggioranza dei genitori è contraria alla vaccinazione per i propri figli.
I dati disponibili, tuttavia, certificano ben altro, perché, a parte alcune criticità riguardanti la vaccinazione antinfluenzale e anti-covid, la stragrande maggioranza dei genitori americani, secondo i pediatri della University of Colorado and Children’s Hospital, continua a vaccinare i propri figli in base al calendario raccomandato dai Centers for Disease Control and Prevention (CDC) e dall’American Academy of Pediatrics. Lo confermano sia i dati di un recente sondaggio secondo il quale l’88% degli adulti americani crede nel valore della vaccinazione contro il morbillo, la rosolia e la parotite, sostenendo che i vantaggi del vaccino sono largamente superiori ai suoi rischi, sia una ricerca effettuata in Colorado che mostra una bassa percentuale di esitazione vaccinale anche dopo la pandemia. Cifre analoghe si ricavano da uno studio dei CDC pubblicato nel 2023, che ha rivelato come il 93% dei bambini della scuola materna aveva ricevuto le vaccinazioni prescritte, anche in questo caso senza variazioni significative dopo la pandemia. L’esistenza di basse percentuali di vaccinati in talune comunità non dovrebbe pertanto essere ascritta al fenomeno dell’esitazione vaccinale quanto piuttosto alle difficoltà di accesso ai vaccini da parte di gruppi culturalmente ed economicamente svantaggiati, probabile espressione della scarsa equità del sistema sanitario americano.
LE STRATEGIE PER ARGINARE IL FENOMENO
Benché dunque il problema dell’esitazione vaccinale vada forse ridimensionato, lo Strategic Advisory Group of Experts on Immunization sottolinea saggiamente l’opportunità di sviluppare sistemi istituzionali e competenze organizzative a livello locale e globale per: 1. intercettare e correggere l’incertezza o il rifiuto vaccinale; 2. rispondere tempestivamente ai movimenti no-vax in caso di disinformazione o potenziali eventi avversi;
3. coinvolgere il maggior numero di stakeholder nel processo decisionale sui programmi di immunizzazione e nell’organizzazione e fornitura dei servizi vaccinali.
Giancarlo Bausano
Come ‘accentuare il positivo’
nella nostra ricerca di salute
Galea S
Admitting better, encouraging optimism.
On ‘accentuating the positive’ in our pursuit of health
The Healthiest Goldfish, 24 febbraio 2024
Sandro Galea, epidemiologo e medico statunitense, decano della Boston University School of Public Health, in un post del suo blog The Healthiest Goldfish sottolinea l’importanza di parlare anche dei progressi compiuti nel campo della salute collettiva, sebbene ammetta di aver lui stesso prevalentemente sottolineato in molti suoi scritti ciò che potrebbe essere migliorato rispetto a quanto non sia già migliorato in questo ambito.
Galea dichiara dunque di voler iniziare a scrivere di quanto di positivo esiste nel mondo, sebbene di solito sia abituato a scrivere di ciò che nel mondo non va rispetto alla salute. Nell’esplicitare questo proposito, si rifà all’articolo The case for optimism in health and health care, scritto nell’aprile del 2023 per il JAMA Forum insieme alla dottoressa Salma Abdalla, nel quale si sostiene che, nonostante i problemi che si devono affrontare, ci sono molti dati a sostegno di una visione ottimistica del futuro della salute nel mondo.
PERCHÉ ESSERE OTTIMISTI
Aspettativa di vita e indicatori di salute in miglioramento Nel 1900 l’aspettativa di vita globale media alla nascita era di 32 anni, mentre nel 2021 è salita a 71 anni. Questo aumento riflette i miglioramenti avvenuti nell’alimentazione, nell’istruzione, nella ricerca medica, nel tenore di vita, nello sviluppo tecnologico, nell’espansione dei mercati liberi e del commercio globale. A dire il vero, le forze che hanno sostenuto questo miglioramento non sono state un bene assoluto. La tecnologia ha migliorato la vita di molti, ma ha portato anche cambiamenti destabilizzanti, per esempio permettendo la costruzione di armi da guerra sempre più efficaci o rendendoci più isolati nel rapporto diretto con gli altri esseri umani, tramite le applicazioni che consentono di comunicare a distanza incidendo sui legami umani. Ancora, il commercio globale ha permesso un aumento del tenore di vita, ma non ha risolto le disuguaglianze e, in molti casi, ha approfondito il divario tra chi ha molto e chi ha poco. Tuttavia il mondo nel 2024 è un luogo più sano e migliore rispetto a qualsiasi altro momento della nostra storia passata.
Negli Stati Uniti vediamo segnali altrettanto incoraggianti. All’inizio del ventesimo secolo, l’aspettativa di vita era di circa 47 anni e all’inizio del ventunesimo secolo è arrivata a 71 anni. Seppure la salute rimane segnata da profonde diseguaglianze, gli indicatori continuano a migliorare e anche il divario nell’aspettativa di vita tra americani bianchi e neri è andato diminuendo, passando da 14,6 anni nel 1900 a 4 anni

L’epidemiologia sociale di fronte alla sfida delle crisi globali
Rasella D, Macicame I, Naheed A, Naidoo M et al
The need for global social epidemiology in the polycrisis era
BMJ Glob Health 2024; 9: e015320
Gli effetti della pandemia da covid-19, l’escalation dei conflitti globali, l’instabilità economica e il cambiamento climatico sono crisi che simultaneamente interagiscono fra loro amplificando il proprio impatto a livello globale. Sebbene queste crisi differiscano per natura, dinamica e cause, hanno tutte il denominatore comune di colpire in modo sproporzionato le fasce più vulnerabili della popolazione, esacerbando la povertà e le disuguaglianze a livello locale e globale. Dal punto di vista della salute pubblica, questo si traduce in un aumento significativo di morbilità e mortalità tra i più poveri. Davide Rasella, del Barcelona Institute for Global Health, insieme ad altri ricercatori afferenti a centri di ricerca presenti in Brasile, Mozambico, Bangladesh, Sud Africa, Ecuador e Argentina, nel loro articolo pubblicato sul BMJ Gobal Health vogliono evidenziare la necessità di un rinnovamento nel campo dell’epidemiologia sociale, che si occupa dello studio degli effetti dei determinanti sociali della salute, nonché stimolare la definizione di un nuovo approccio di questa scienza, che dovrebbe avere le sette priorità riportate di seguito per poter comprendere e mitigare l’impatto delle crisi sulla salute globale.

nel 2019. Lo stesso accade in altri settori come l’educazione o in generale la ricchezza.
Determinanti di salute e dibattito pubblico Galea sottolinea poi che abbiamo assistito nel dibattito pubblico a uno spostamento dell’attenzione verso le cause più profonde che determinano e spiegano la salute di una società. Ricorda infatti che due decenni fa, all’inizio della sua carriera nella sanità pubblica, non era così comune sentir parlare di istruzione, politica, economia, ingiustizia razziale, cambiamento climatico e violenza con le armi come determinanti di salute. La situazione è cambiata. La discussione sull’inter-
sezione tra la salute e i molteplici fattori che la determinano è ora ben presente nel dibattito pubblico.
CONCLUSIONI
Se non si è anche ottimisti, sottolinea Galea, le persone smetteranno di ascoltarci. Dopo tutto, chi vuole ascoltare qualcuno che ha sempre una visione negativa della realtà? Creare un movimento per la costruzione di un mondo più sano significa anche comunicare ottimismo, che stimola al maggiore impegno delle persone nel perseguire i propri obiettivi. A questo proposito l’autore cita Franklin Delano Roosevelt, noto per la sua capacità di trasmettere ottimismo e buonumore nell’arena pubblica, indipendentemente dalle circostanze. Anche quando i tempi sono difficili, come lo erano certamente negli anni Trenta e Quaranta, sottolinea Galea, essere ottimisti non significa negare le sfide, ma brillare di una luce che può aiutarci a trovare un percorso attraverso le difficoltà. Enfatizzando sempre gli aspetti negativi nel commentare le questioni di politica e organizzazione sanitaria, il rischio non è solo quello di offrire un’interpretazione non veritiera della realtà, ma di allontanare dalla sfida di agire per costruire un mondo sempre più sano proprio gli stessi decisori politici che potrebbero aiutarci a raggiungere questo obiettivo.
Clara Veroli
1. Favorire interventi in grado di mitigare gli impatti negativi delle crisi e di sviluppare la resilienza. Un esempio è la recessione economica brasiliana del 2014-2016: la protezione sociale è stata in grado di mitigare gli effetti dannosi sulla salute, soprattutto tra le popolazioni più vulnerabili.
2. Prendere in considerazione le relazioni globali esistenti tra i paesi. La natura interconnessa della globalizzazione gioca infatti un ruolo fondamentale nella salute e nel benessere socioeconomico delle popolazioni di tutto il mondo, aumentando il rischio che una crisi locale possa trasformarsi in una crisi globale a causa dell’effetto domino, come accadde nel 2008 in occasione della crisi del mercato immobiliare statunitense.
3. Rivolgere una particolare attenzione verso i paesi a basso e medio reddito, poiché sono quelli che stanno affrontando l’onere maggiore delle crisi in corso poiché le disuguaglianze e la povertà sono aumentate drammaticamente. La ricerca epidemiologica sociale transnazionale è al momento inadeguata per sviluppare un’azione orientata a trovare soluzioni per i paesi a basso e medio reddito.
4. Incrementare gli approcci multimetodologici per generare dati e conoscenze, sfruttando i collegamenti tra i dataset socioeconomici e sanitari, implementando i progetti di valutazione sperimentali, e i modelli di simulazione e previsione così da identificare gli interventi di maggior impatto ed economicamente vantaggiosi.
5. Rafforzare gli approcci multidisciplinari per le valutazioni globali. È fondamentale coinvolgere non solo epidemiologi e professionisti della sanità pubblica, ma anche una serie diversificata di esperti,
come economisti, sociologi e antropologi, così da garantire la valutazione di tutte le dimensioni delle diseguaglianze.
6. Potenziare gli approcci multisettoriali per un processo decisionale basato sull’evidenza. Progetti e studi dovrebbero essere definiti coinvolgendo non solo i ministeri e i dipartimenti della sanità, ma anche quelli dell’economia, dell’istruzione e della protezione sociale.
7. Colmare il divario tra ricerca e politica. La produzione di evidenze deve essere in linea con le priorità politiche. È inoltre necessario stabilire meccanismi efficaci per coinvolgere attivamente tutte le parti interessate in tutte le fasi del processo di ricerca.
La recente creazione del Global Social Epidemiology Network, un’alleanza di ricercatori internazionali e multidisciplinari impegnati ad affrontare i determinanti strutturali globali della salute e delle disuguaglianze sanitarie promossa dagli stessi autori dell’articolo, è un primo passo in avanti. L’epidemiologia sociale globale ha tutto il potenziale per fornire evidenze in grado di affrontare le cause profonde della disuguaglianza, favorendo la resilienza e contribuendo al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile legati alla salute.
Letizia Orzella
Direzione Regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria
Area Farmaci e Dispositivi, Regione Lazio
Diabete e spese sanitarie negli Stati
Uniti: minoranze etniche più a rischio di spese fuori controllo
Linde S, Egede LE
Catastrophic health expenditures: a disproportionate risk in uninsured ethnic minorities with diabetes
Health Economics Review 2024; 14: 18
La spesa per l’assistenza sanitaria viene definita ‘fuori controllo’ (catastrophic health expenditures, CHE) quando è superiore al 40% del reddito di un individuo post sussistenza, cioè del reddito al netto delle spese alimentari. Negli Stati Uniti il rischio che le fatture mediche comportino spese sanitarie catastrofiche può essere più elevato per i pazienti non assicurati, che pagano in base alle tariffe dei fornitori, ovvero ai prezzi di listino che i fornitori e i sistemi sanitari assegnano ai servizi medici e che sono decisamente superiori alle tariffe pagate dagli individui assicurati.
La letteratura evidenzia come le spese sanitarie fuori controllo siano più elevate tra gli individui con condizioni di cronicità come il diabete. Inoltre alcuni studi hanno mostrato che le minoranze etniche tendono a essere sovrarappresentate all’interno della popolazione di pazienti non assicurati e tra quelli con una diagnosi di diabete.
Obiettivo dello studio di Linde e Egede è l’analisi del rischio di CHE all’interno di queste popolazioni nel contesto sanitario statunitense, con un focus particolare sulle spese sostenute dai pazienti non assicurati.
LO STUDIO
Gli autori hanno esaminato retrospettivamente le fatture mediche di un campione di 256.280 individui di età pari o superiore a 18 anni appartenenti all’etnia bianca non ispanica e a quella nera non ispanica e ispanica nel periodo compreso tra il 2002 e il 2017, utilizzando i dati del Medical Expenditure Panel Survey (MEPS). CHE è una variabile binaria che assume il valore 1 se le spese vive superano il 40% del reddito post sussistenza e il valore 0 negli altri casi. Tale misura è definita a livello individuale e dipende da quattro fattori: il reddito individuale del paziente, l’importo che spende per il cibo, le spese sanitarie sostenute di tasca propria e la soglia percentuale rispetto alla quale si ritiene che le spese sanitarie sostenute personalmente abbiano superato un livello critico rispetto al reddito disponibile. Le principali variabili indipendenti di interesse per lo studio consistono nella copertura assicurativa del paziente, nella diagnosi di diabete e nell’etnia di appartenenza. Con metodi di regressione logistica gli autori hanno stimato la relazione tra il rischio di spese catastrofiche e tali variabili.
TREND DELL’INCIDENZA DELLE SPESE SANITARIE CATASTROFICHE
Spese aggiustate per l’inflazione al valore del 2017 rispetto al reddito nel periodo compreso tra il 2002 e il 2017 nella popolazione presa in esame nello studio.
I RISULTATI
Nella popolazione di studio il rischio di CHE presenta un’incidenza complessiva del 14%, con livelli notevolmente più elevati per i pazienti non assicurati (p <0,0001) o con una diagnosi di diabete (p <0,0001). Il rischio di CHE tra pazienti assicurati e non assicurati, nonché tra pazienti con e senza diagnosi di diabete, è rimasto omogeneo e significativo (p <0,05) nel periodo 2002-2017. Inoltre, si evidenzia il rischio di CHE sulla base dell’etnia di appartenenza sia all’interno della popolazione totale sia tra le popolazioni non assicurate. Nella popolazione dei non assicurati, i pazienti neri non ispanici presentano un rischio significativamente più elevato di CHE rispetto ai pazienti bianchi non ispanici (p <0,0001) (o ispanici, p = 0,0002). Il modello di regressione logistica indica che la probabilità relativa di CHE se non assicurati, è pari a 5,9 (p <0,01), mentre se assicurati è pari a 1,1 (p <0,01). Inoltre i pazienti non assicurati, e che hanno anche una diagnosi di diabete, hanno un rischio 9,5 volte maggiore (p <0,01) di soffrire di CHE rispetto ai pazienti assicurati senza una diagnosi di diabete a dimostrazione che l’effetto totale di non essere assicurati e di avere una diagnosi di diabete sul rischio di CHE supera di gran lunga la somma del rischio totale di ciascuno di questi effetti individualmente. I risultati evidenziano disparità significative tra etnie: i neri non ispanici e gli ispanici hanno rispettivamente il 13% e il 14,2% (entrambi con p <0,05) di probabilità più elevate di sperimentare CHE rispetto ai bianchi non ispanici. Esaminando il sottocampione con diagnosi di diabete, non notiamo alcuna differenza significativa. Tuttavia, quando alla diagnosi di diabete si associa anche la mancata copertura assicurativa si nota che i pazienti ispanici hanno una probabilità relativa di CHE superiore del 39,3% rispetto a quella dei pazienti bianchi non ispanici.
LE CONCLUSIONI
Lo studio pone l’attenzione su due aspetti molto rilevanti. Il primo è che i rischi di CHE aumentano drammaticamente in mancanza di copertura assicurativa e di diagnosi di diabete e, inoltre, che esiste un’associazione statisticamente significativa tra avere una diagnosi di diabete e non essere assicurati. In questo modo si identifica una popolazione particolarmente vulnerabile per la quale dovrebbe essere stanziato un sostegno finanziario ad hoc per mitigare i rischi di CHE.
Il secondo riguarda la disparità etnica all’interno della popolazione di pazienti non assicurati e della popolazione di pazienti non assicurati e con una diagnosi di diabete, evidenziando livelli diversi di esposizione al razzismo strutturale nelle popolazioni considerate da questo studio. Un’ampia letteratura riporta, infatti, evidenze che indicano che gli individui che risiedono in aree storicamente esposte a leggi razziste strutturali sperimentano svantaggi nell’accesso alle cure mediche. Questa associazione rischia di perpetuare disuguaglianze strutturali come la perdita di accesso al credito e la conseguente capacità degli individui di costruire una ricchezza intergenerazionale. Sono quindi necessarie politiche volte alla regolamentazione delle tariffe per i non assicurati e a una maggiore trasparenza dei prezzi all’interno del sistema sanitario statunitense.
Letizia Orzella
Direzione Regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria Area Farmaci e Dispositivi, Regione Lazio
Le implicazioni del linguaggio utilizzato nella legislazione in caso di emergenza sanitaria globale
Wenham C, Stout L
A legal mapping of 48 WHO member states’ inclusion of public health emergency of international concern, pandemic, and health emergency terminology within national emergency legislation in responding to health emergencies Lancet 2024; 403: 1504-1512
Un’emergenza sanitaria pubblica di rilevanza internazionale (PHEIC) è “un evento straordinario che costituisce un rischio per la salute pubblica per altri stati a causa della diffusione internazionale della malattia” e “richiede potenzialmente una risposta internazionale coordinata”. Il PHEIC, lanciando l’allarme su un agente patogeno emergente, è un meccanismo chiave nell’ambito della salute pubblica globale e rientra nel Regolamento sanitario internazionale (IHR) del 2005, la norma internazionale vincolante per “prevenire, proteggere, controllare e fornire una risposta sanitaria pubblica alla diffusione internazionale delle malattie limitando i rischi per la salute pubblica ed evitando inutili interferenze con il traffico e il commercio internazionale.” Il direttore generale dell’OMS comunica una PHEIC su consiglio del Comitato di esperti di emergenza, richiedendo una risposta internazionale coordinata.
LO STUDIO
Obiettivo dello studio di Wenham e Stout è quello di comprendere cosa guidi l’azione di uno stato durante un’emergenza sanitaria e se le dichiarazioni dell’OMS siano effettivamente vincolanti. È stata condotta una revisione esplorativa per valutare l’utilizzo del PHEIC e del ‘linguaggio pandemico’ all’interno della legislazione nazionale. Sono stati selezionati paesi con diverse dimensioni, livelli di reddito e strutture di governance (figura 1). Sono stati esaminati 165 atti legislativi nazionali di 48 paesi. Otto (16,7%) presentano una legislazione con esplicito riferimento alla PHEIC; 18 (37,5%) al termine pandemia, 38 (79,2%) al termine epidemia, 27 (56,3%) fanno riferimento alle indicazioni dell’OMS e 13 (27,1%) forniscono un’indicazione di emergenza sanitaria pubblica (PHE). Negli otto paesi con una legislazione che fa riferimento alla PHEIC, così come nei 18 paesi che fanno riferimento alla pandemia, è stato possibile rilevare una netta suddivisione tra atti normativi prima e dopo l’anno 2020. I risultati mostrano una situazione estremamente eterogena. Gli stati membri, al fine di porre in essere un cambiamento incisivo, hanno concordato di rivedere la propria legislazione nazionale integrandola con la terminologia prevista dall’OMS così da permettere un completo allineamento del diritto internazionale e nazionale per garantire una migliore preparazione e risposta alla pandemia. La strada, tuttavia, è ancora lunga. Circa l’83% degli stati inclusi nello studio non menziona la PHEIC nella legislazione, a conferma che le indicazioni dell’OMS sembrano non avere alcun significato giuridico a livello nazionale. Lo stesso vale per la terminologia pandemica, con 30 stati membri che non attribuiscono alcun peso giuridicamente vincolante a tale termine.
PAESI OGGETTO DELLO STUDIO EVIDENZIATI SULLA BASE DELLA REGIONE OMS DI APPARTENENZA
Regione africana
Regione mediterranea orientale
Le aree grige rappresentano i paesi non inclusi nello studio.
Regione europea
Regione delle Americhe
Le zone bianche all’interno della mappa corrispondono alle zone occupate dall’acqua.
L’IMPORTANZA DI UN LINGUAGGIO CONDIVISO
La questione è invece fondamentale: utilizzare un linguaggio condiviso potrebbe migliorare l’interazione tra l’OMS – che determina una PHEIC o dichiara una pandemia – e l’azione dei paesi che realizzano le misure necessarie a mitigare la diffusione transnazionale della malattia. Più del doppio degli stati analizzati ha menzionato la pandemia rispetto alla PHEIC, anche se il termine pandemia non è formalmente utilizzato nel diritto internazionale dall’OMS. Allo stesso tempo, il 72,9% dei paesi considerati non ha dato indicazioni specifiche per dichiarare una PHE. Solo quattro paesi hanno fatto esplicito riferimento alla PHEIC e sei hanno fatto riferimento al termine pandemia, dimostrando che, anche quando è stata individuata una PHE, la maggior parte degli stati membri non ha integrato la propria terminologia con quella dell’OMS. Il termine epidemia è stato quello utilizzato più frequentemente (in 38 paesi). Ogni stato non considera le malattie locali come una minaccia a livello globale, con risposte di emergenza orientate alle sole preoccupazioni nazionali, indebolendo l’autorità dell’OMS. Non solo, nella maggior parte dei paesi che fanno riferimento alla PHEIC o alla pandemia si nota immediatamente che la legislazione è stata approvata a partire dall’anno 2020, a riprova del fatto che, in occasione dell’implementazione e adozione del Regolamento sanitario internazionale avvenuta nel 2007, non è stata applicata alcuna riforma legislativa immediata e sostanziale. Inoltre, le modifiche legislative apportate durante la pandemia di covid-19 sono state spesso temporanee e potrebbero non essere più in vigore.
CONCLUSIONI
Regione dell’Asia sud-orientale
Regione del Pacifico occidentale
In termini di governance sanitaria globale, i risultati sono nel complesso allarmanti. Affinché si consegua il successo del processo di revisione del Regolamento sanitario internazionale e dell’elaborazione di un accordo per la preparazione e la risposta alle pandemie avviata dal proprio organo intergovernativo di negoziazione, l’OMS deve per primo riconoscere l’apparente debolezza giuridica del meccanismo PHEIC e della dichiarazione di pandemia nello stimolare risposte nazionali prima di concordare i relativi emendamenti e sviluppare una nuova terminologia vincolante in relazione a un’emergenza pandemica. Riconoscere i limiti della terminologia PHEIC e pandemica aiuterà a garantire che le revisioni legislative promuovano i cambiamenti necessari. In caso contrario, l’OMS rischia di creare meccanismi legali con applicazione limitata e di sperimentare il ripetersi di risposte ritardate alle future minacce sanitarie da parte degli stati. Comprendere l’importanza delle implicazioni del linguaggio utilizzato nella legislazione stimolerà la responsabilità dei singoli paesi, rafforzando la governance sanitaria globale, promuovendo una risposta rapida e mitigando la diffusione di agenti patogeni emergenti.
Letizia Orzella
Direzione Regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria
Area Farmaci e Dispositivi, Regione Lazio
Assistenza sanitaria di base: cosa succede ai
pazienti quando i medici escono dal sistema sanitario?
Zocher K
Exiting primary care providers
Health Economics 2024; 33: 1033-1054
L’assistenza sanitaria di base, erogando un servizio di cura coordinato e continuativo a un’ampia popolazione, rappresenta il primo punto di contatto dei pazienti con il sistema sanitario. Quando i medici di base lasciano il sistema sanitario locale, i pazienti devono affrontare una discontinuità nell’assistenza sanitaria. Sebbene sia sempre esistita una fine naturale in ogni rapporto medico-paziente, è solo negli ultimi anni che sono stati fatti alcuni tentativi per quantificare tale discontinuità e misurare l’impatto delle uscite dei medici di base dal servizio sanitario sul ricorso all’assistenza sanitaria, sullo stato di salute e sulla spesa sanitaria dei pazienti. Finora la ricerca in questo campo ha indicato che il pensionamento o il trasferimento del medico di base comporta una riduzione, nel lungo periodo, nel ricorso alle cure primarie dei pazienti rimasti senza medico di base e a un aumento delle cure specialistiche o degli accessi in pronto soccorso. L’indagine condotta da Katrin Zocher, ricercatrice del Dipartimento di Economia della Johannes Kepler University di Linz, ha esaminato specificatamente l’interruzione della relazione paziente-medico di base nel contesto di un passaggio pianificato (pensionamento, trasferimento o altri motivi) dei pazienti a un successore nel contesto austriaco.
LO STUDIO
Sono stati analizzati i dati della popolazione austriaca risalenti al periodo 2005-2017, forniti dal Fondo regionale di assicurazione sanitaria. Tali dati includono informazioni dettagliate su visite mediche, farmaci prescritti, ricoveri ospedalieri e visite ambulatoriali. È stato creato un modello econometrico volto a valutare il comportamento dei pazienti e quello dei medici, ed è stata condotta un’analisi di eterogeneità che suddivide i pazienti in base alle classi di rischio.
I RISULTATI
L’analisi mostra che, nel periodo immediatamente precedente l’uscita dei medici dal servizio, i pazienti con gravi condizioni preesistenti hanno una probabilità significativamente maggiore rispetto agli altri di essere indirizzati agli ospedali dal loro medico (con un aumento significativo della spesa sanitaria).
Nel periodo successivo, i pazienti sperimentano invece un aumento significativo di richiesta di cure preventive (in particolare per il trattamento del diabete e per check-up sanitari generali), di test diagnostici (visite radiologiche e visite di laboratorio) e di richieste di visite specialistiche da parte del nuovo medico di base. La crescita della spesa in questo periodo è anche determinata dai ricoveri ospedalieri, che sono una conseguenza di successivi o nuovi ricoveri richiesti dal nuovo medico di base. Nonostante si osservi un aumento complessivo dell’utilizzo dei servizi sanitari, la mortalità tra i pazienti che hanno sperimentato una discontinuità nel servizio dell’assistenza sanitaria di base è significativamente aumentata.
Una possibile spiegazione potrebbe risiedere nella bassa frequenza di follow-up nei trattamenti per quei pazienti che sono stati indirizzati agli ospedali dal loro ex medico di base e che devono discutere cure e trattamenti di follow-up con medici a loro sconosciuti. Aumento della spesa e contestuale aumento della mortalità sono pertanto motivi di preoccupazione, senza contare che l’imminente ondata di pensionamenti in molti paesi OCSE potrebbe rendere la situazione ancora più difficile.
Oltre alla discontinuità causata dall’uscita dal servizio del medico di base, questa tendenza può portare a una riduzione dell’accesso all’assistenza sanitaria e, quindi, alla diminuzione degli esiti di salute. Misure come le cartelle cliniche elettroniche, in cui sono archiviate tutte le prescrizioni, i rapporti diagnostici e la cronologia dei trattamenti, a cui i medici hanno accesso, possono contribuire a ridurre il divario informativo tra i medici di base in uscita e quelli che auspicabilmente prenderanno il loro posto o con le strutture sanitarie alle quali i pazienti momentaneamente senza medico di riferimento possano rivolgersi.
Letizia Orzella
Direzione Regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria
Area Farmaci e Dispositivi, Regione Lazio
Pensionamento
Medico di base
Paziente
Migliorare la salute pubblica con l’approccio EIDM
Clark EC, Burnett T, Bair R et al
Strategies to implement evidence-informed decision making at the organizational level: a rapid systematic review
BMC Health Serv Res 2024; 24: 405
Le organizzazioni sanitarie pubbliche sono coinvolte in un’ampia gamma di funzioni critiche, come la promozione della salute, la prevenzione delle malattie e la preparazione alle emergenze, e influenzano significativamente la salute delle comunità, attraverso decisioni e programmi che dovrebbero idealmente essere fondati sulle migliori evidenze a disposizione. Queste ultime includono i dati provenienti dalla ricerca scientifica, le eventuali considerazioni sui contesti locali e l’allineamento con le direttive in vigore. Questo tipo di approccio, noto come EIDM (evidence-informed decision-making, processo decisionale basato sull’evidenza), integra le evidenze disponibili nel processo decisionale a tutti i livelli, facendo sì che le organizzazioni sanitarie che lo utilizzano traggano notevoli benefici in termini di massimizzazione dell’efficacia dei programmi, ottimizzazione dell’uso delle risorse, incremento del livello di trasparenza e, soprattutto, miglioramento dei risultati sanitari. Tuttavia, nonostante gli evidenti vantaggi, l’implementazione di questo approccio è un compito particolarmente difficile, soprattutto considerando l’ardua applicazione del cambiamento radicale richiesto in termini di cultura organizzativa, flusso di lavoro e coinvolgimento del personale.

Il Pensiero Scientifico Editore
La letteratura scientifica attuale, sebbene ricca di studi che esaminano l’implementazione di specifiche pratiche basate sull’evidenza nei vari contesti sanitari, offre spunti limitati per quanto riguarda l’uso sistematico dell’approccio EIDM. La revisione sistematica realizzata dai ricercatori della McMaster University (Hamilton, Canada) mira a colmare questa lacuna, valutando le strategie più efficaci per l’istituzionalizzazione dell’approccio EIDM, grazie all’ausilio del cosiddetto modello COM-B (Capability, Opportunity, Motivation-Behaviour Model), secondo il quale un cambiamento comportamentale (B) si verifica come risultato dell’interazione tra tre condizioni necessarie: capacità (C), opportunità (O) e motivazione (M) (figura).
LA METODOLOGIA UTILIZZATA
La metodologia usata per questa revisione segue le linee guida stabilite dal PRISMA Statement (Preferred Reporting Items for Systematic Reviews and Meta-Analyses, PRISMA) ed è stata registrata presso il database PROSPERO (numero di registrazione: CRD42022318994). Adottando un approccio di revisione rapida, lo studio sintetizza le informazioni raccolte da diversi database come Medline, Embase, and PsycINFO, focalizzando l’attenzione sui lavori pubblicati a partire del 2012.
Specificatamente, la revisione considera gli studi che coinvolgono le organizzazioni sanitarie pubbliche e valuta gli interventi volti a promuovere l’approccio EIDM a tutti livelli del processo decisionale, mentre il modello COM-B fornisce un quadro ben strutturato per analizzare le capacità, le opportunità e le motivazioni essenziali per un’efficace implementazione di questo approccio.
Applicando i criteri di inclusione, sono stati considerati solo gli studi primari pubblicati in lingua inglese con disegno sperimentale o osservazionale, concentrando l’attenzione su quelli svolti nell’ambito della
FONDAMENTI DI GRANTSMANSHIP
Guida pratica alle richieste di finanziamento per la ricerca
Chiara Gabbi
Prefazione di Giovanni Apolone
Arricchito da numerosi e preziosi esempi pratici, questo manuale affronta gli aspetti strutturali del processo di finanziamento, dalla ricerca dei bandi e degli enti finanziatori, al percorso di scrittura, fino alla revisione del progetto; fornisce indicazioni sulla stesura del piano sperimentale e dei documenti di supporto; descrive il processo di inoltro della grant application, i principi generali di gestione del finanziamento e come recepire i commenti dei revisori.
Pensato e disegnato per ricercatori di lingua italiana nelle prime fasi di carriera, dottorandi, specializzandi, post-doctoral fellows, assegnisti di ricerca) in ambito biomedico-sanitario, questo libro è una vera e propria guida utile a progettare e scrivere una richiesta di finanziamento competitiva e vicente.
MODELLO COM-B PER OTTENERE UN CAMBIAMENTO COMPORTAMENTALE ATTRAVERSO L’IMPLEMENTAZIONE DELL’APPROCCIO EIDM

Capacità
Questo comportamento può essere realizzato in linea di principio?


Opportunità
Ci sono su cienti opportunità a nché si veri chi un determinato comportamento?

Fattori facilitanti
Sviluppare le conoscenze e competenze del personale, stabilire ruoli specializzati, condividere la conoscenza all’interno dell’organizzazione
Barriere
Mancanza di conoscenze e competenze, mancanza di tempo, ricambio del personale

Motivazione
C’è una motivazione su ciente a nché si manifesti un determinato comportamento?
Fattori facilitanti
Sviluppo dei processi o dei meccanismi per supportare nuove pratiche, forum per l’apprendimento e lo sviluppo di competenze (per esempio, comunità di pratica, club giornalistici), tempi tutelati
Barriere
Priorità concorrenti

Comportamento target
Fattori facilitanti
Cultura organizzativa di supporto, aspettative riguardo all’uso delle nuove pratiche, riconoscimento e rinforzo positivo, solido supporto da parte della leadership
Barriere
Atteggiamento negativo verso le nuove pratiche, mancanza di supporto e comprensione da parte dell’amministrazione
sanità pubblica. La qualità degli studi è stata valutata usando gli strumenti di valutazione del Joanna Briggs Institute (JBI Manual for Evidence Synthesis), in modo da assicurare che solo le migliori evidenze vengano effettivamente prese in considerazione.
I RISULTATI
Del pool iniziale di 7067 articoli, solo 37 hanno soddisfatto i criteri di inclusione e sono stati sottoposti a un’analisi approfondita. Sedici di questi studi riguardano specificatamente l’ambito dell’assistenza primaria, gli altri invece esaminano vari contesti e servizi della sanità pubblica negli Stati Uniti, in Canada, Australia ed Europa, rappresentando un’ampia gamma di sistemi e pratiche sanitarie di diversa natura.
Le strategie più comuni usate per l’implementazione dell’approccio EIDM, intese come fattori facilitanti, includono la creazione di ruoli speciali come il knowledge broker, in grado di facilitare la trasformazione delle conoscenze in azione costruendo la capacità dello staff di ricorrere all’approccio EIDM, e l’ideazione di opportuni programmi di formazione, oltre che l’integrazione di specifici processi di supporto. Gli studi evidenziano anche la presenza di diverse barriere che impediscono il ricorso a tale approccio, come il tempo limitato assegnato alle attività EIDM, la resistenza mostrata verso il cambiamento organizzativo, la mancanza di comprensione e supporto da parte dell’amministrazione e gli elevati tassi di turnover del personale.
La revisione rivela che, sebbene molte organizzazioni siano desiderose di adottare questa strategia, il suo successo spesso dipende, oltre che dall’assenza delle barriere precedentemente menzionate, dalla pre-
senza di una cultura organizzativa di supporto, dall’adozione di una leadership chiara e dedicata a questo scopo e dall’impiego di meccanismi che garantiscano il facile accesso alle evidenze.
La revisione sostiene un approccio multi-strategico, volto non solo a rimuovere le barriere che possono ostacolare l’adozione delle strategie EIDM, ma anche a creare le basi per ottenere quella sostenibilità a lungo termine necessaria per l’implementazione di tali strategie. Inoltre, la revisione sottolinea la necessità di garantire la formazione continua del personale coinvolto in questi processi, il coinvolgimento strategico della leadership e lo sviluppo di solidi sistemi di supporto all’interno delle organizzazioni, al fine di promuovere un ambiente favorevole per le pratiche basate sull’evidenza.
I LIMITI DELLO STUDIO
È importante notare che la revisione presenta anche dei limiti. Prima di tutto, a causa della diversa natura degli studi considerati, la revisione non è in grado di determinare quali siano le strategie più efficaci per l’implementazione delle pratiche EIDM, in quanto la loro efficacia spesso dipende dallo specifico contesto di ciascuna organizzazione. Inoltre, la revisione è stata condotta seguendo un protocollo di revisione rapida, usando un solo revisore per la fase di screening e un solo revisore per il controllo di qualità che agisce non in cieco. Per questo motivo, il protocollo seguito può aver introdotto dei bias e, sebbene siano stati fatti sforzi per calibrare il processo revisionale, non è possibile escluderne la presenza in queste circostanze.
Paolo Rega
Piani pandemici: ieri, oggi e domani
di Giovanni Rezza
Epidemiologo e Professore di Igiene, Università Vita-Salute San Raffaele, Milano
“I piani pandemici sono purtroppo diventati argomento di polemica politica, ma pochi conoscono in verità i loro obiettivi e quelli che dovrebbero essere i contenuti di tali documenti strategici”
Premessa
Le pandemie e le epidemie che si verificano su ampia scala possono causare milioni di morti, disgregare il tessuto sociale e devastare l’economia dei paesi colpiti. Per questo, dopo che i focolai di influenza aviaria causati dal virus H5N1 divennero sempre più diffusi in Estremo Oriente tra il 2002 e il 2003, l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) iniziò a raccomandare a tutti i paesi la messa a punto di piani di preparazione e risposta nei confronti di eventuali pandemie influenzali, nonché il loro costante aggiornamento in base a linee guida concordate.
LA COMUNICAZIONE NELLE EMERGENZE SANITARIE COME STRUMENTO DI SANITÀ PUBBLICA
I virus si muovono velocemente ma i dati possono muoversi ancora più velocemente. Con le giuste informazioni, i paesi e le comunità possono stare al passo con i rischi emergenti e salvare vite umane
Tedros Adhanon Ghebreyesus, Direttore Generale WHO
Una bugia fa in tempo a viaggiare per mezzo mondo mentre la verità si sta ancora mettendo le scarpe
Mark Twain
Il processo di comunicazione delle informazioni, soprattutto se in ambito sanitario, è perfettamente riassunto in queste due citazioni riportate nel libro La comunicazione nelle emergenze sanitarie. Gestione dell’infodemia e contrasto alla disinformazione come strumenti di sanità pubblica di Cesare Buquicchio, Cristiana Pulcinelli e Diana Romersi (Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 2023). Comunicare in ambito sanitario significa condividere conoscenza, valori, professionalità, cioè scegliere la cultura della salute. Informazioni chiare, univoche, tempestive, divulgate tramite tutti i canali, permettono al cittadino di dare un significato a ciò che accade ‘intorno a lui’ e ‘per lui’. È una scelta in primo luogo etica, perché per essere efficace la comunicazione deve partire dall’ascolto e dal rispetto dell’altro, e prendere in considerazione le sue fragilità e paure, il contesto socioculturale in cui vive, il suo livello di scolarizzazione. Le evidenze scientifiche hanno dimostrato che anche l’informazione è uno dei determinanti della salute: si ammala di più non solo chi meno accede alle cure ma anche chi è meno informato. È, inoltre, anche una scelta strategica che permette di definire e di raggiungere gli obiettivi di salute.
Informare non è sinonimo di convincere
Partendo da questi presupposti, gli autori affrontano il tema della comunicazione in situazioni di emergenza chiarendo innanzitutto che informare non è si-
I piani pandemici pre-covid in Italia
Fu così che anche in Italia nel 2006 venne emanato un ‘Piano nazionale di preparazione e risposta a una pandemia influenzale’ che aggiornava e sostituiva il ‘Piano italiano multifase per una pandemia influenzale’ del 2002.
Sulla base delle indicazioni fornite dall’OMS, gli obiettivi del Piano del 2006 erano i seguenti:
1. identificare rapidamente casi di influenza dovuti a nuovi sottotipi virali;
2. minimizzare il rischio di trasmissione;
3. ridurre l‘impatto sui servizi sanitari e sociali e assicurare il mantenimento dei servizi essenziali;

nonimo di convincere, quanto piuttosto di creare i presupposti per una maggiore conoscenza e consapevolezza in merito a uno specifico tema. La scienza, attraverso una rigorosa metodologia, punta a incrementare la conoscenza dei fenomeni e a ridurre i livelli di incertezza, ma questo processo avviene progressivamente. Si procede per prove ed errori perché proprio quella frangia di incertezza, fisiologica e comprensibile per la comunità scientifica, è la cosa più difficoltosa da trasmettere alla popolazione in un contesto emergenziale. La comunicazione è uno strumento molto articolato che richiede, proprio per la sua complessità, un impegno qualificato e continuo, così da trasmettere messaggi coerenti, in cui le incertezze vengano riconosciute senza che la comunicazione sia discordante, incerta. In questa fase è cruciale il ruolo delle istituzioni, che hanno il dovere di fornire un messaggio univoco alla popolazione quando si verifica un’emergenza sanitaria. La gestione delle informazioni e il modo in cui vengono condivise è infatti fondamentale per il controllo delle epidemie e per gli effetti che esse provocano sulla popolazione. Una vera e propria sfida per affrontare la quale non sono più procrastinabili interventi a favore dell’alfabetizzazione sanitaria come strumento di promozione della salute, sulla base di quanto illustrato nel capitolo Comunicazione e salute, così come fondamentale è approfondire il tema del rischio sanitario sia dal punto di vista della comunicazione nelle emergenze (“mai sminuire il rischio, mai minimizzare il pericolo, mai nascondere informazioni negative”) sia della percezione stessa del rischio sanitario da parte della popolazione, tema al quale è dedicato un apposito capitolo.
I nove pilastri della comunicazione
4. assicurare un’adeguata formazione del personale; 5. garantire informazioni aggiornate e tempestive;
6. monitorare l’efficienza degli interventi intrapresi.
Le azioni chiave, invece, consistevano nel:
1. migliorare la sorveglianza epidemiologica e virologica;
2. attuare misure di prevenzione e controllo;
3. garantire assistenza e trattamento dei malati;
4. mettere a punto piani di emergenza per mantenere la funzionalità dei servizi sanitari e altri servizi essenziali;
5. mettere a punto un piano di formazione;
6. pianificare adeguate strategie di comunicazione;
7. monitorare l’attuazione delle azioni pianificate.
Il piano del 2006 era quindi incentrato del tutto sulle pandemie causate da virus influenzali.
Nel 2009 la comparsa e successiva diffusione di un virus influenzale di origine suina (in verità derivato dalla ricombinazione genica – riassortimento o riarrangiamento – di virus influenzali suini, aviari e umani) rappresentò un primo test per valutare la capacità di risposta dei paesi nei confronti di un evento pandemico. Il virus H1N1v 2009 si dimostrò però di bassa virulenza e soprattutto il suo impatto
Il fulcro del libro risiede sicuramente nella sezione dedicata ai ‘pilastri della comunicazione’, in cui si definisce un ‘quasi decalogo’ per poter procedere con una comunicazione efficace.
1. Costruire la fiducia con i cittadini: è imprescindibile che il cittadino si fidi della fonte da cui provengono le informazioni. La fiducia va tuttavia conquistata (anche e soprattutto in una fase interpandemica), rafforzata e mantenuta nel tempo.
2. Comunicare l’incertezza: l’aleatorietà è parte integrante di una situazione di emergenza. Non si deve tacere l’incertezza, anzi questa deve essere riconosciuta e descritta all’interno di una comunicazione coerente.
3. Coinvolgere le comunità: la coesione come elemento di costruzione della fiducia. Se si agisce a livello locale, il coinvolgimento ha un impatto determinante.
4. Fornire messaggi tempestivi, chiari, coerenti ed empatici: le informazioni si devono adattare al contesto culturale e devono essere riviste nel corso della crisi, sulla base della sua continua evoluzione.
5. Coordinamento tra le istituzioni: la coesione fra le istituzioni, a tutti i livelli, è un altro pilastro fondamentale (“più che una voce unica, l’obiettivo è arrivare a un’unità di voci”).
6. Ritagliare le informazioni sui bisogni e valutare la percezione del rischio: l’OMS ha suddiviso la popolazione in tre gruppi, eccessivamente cauti, fatalisti e indifferenti. Se si vuole che l’informazione raggiunga tutta la popolazione è necessario comprenderne i bisogni e la sua propensione al rischio, adeguando la comunicazione di conseguenza.
7. Avere personale e budget dedicato alla comunicazione: è molto importante affidarsi ad esperti del settore poiché la comunicazione non è un’attività che si può improvvisare.
8. Attivare pianificazione, simulazione, monitoraggio e valutazione: la fase preparatoria (ex ante) di una pandemia è quella più rilevante perché è in questa fase che si gettano le basi per la corretta gestione di un’emergenza. Il monitoraggio viene invece effettuato in itinere. La valutazione va fatta sia ex ante sia ex post.
nella popolazione anziana, già esposta a sottotipi virali simili in passato, non fu elevato. Pertanto, a parte alcune misure di mitigazione consistenti nella chiusura di qualche scuola per pochi giorni, l’epidemia non richiese l’adozione di particolari misure di sanità pubblica. Piuttosto, vennero ordinati diversi milioni di dosi di vaccino, che si resero disponibili nel giro di circa 8 mesi, di cui solo una minima parte venne utilizzata.
L’arrivo del covid e l’approvazione del nuovo piano pandemico
Quando, all’inizio del 2020, a seguito della comparsa di SARS-CoV-2 in Cina, nella città di Wuhan, l’epidemia si propagò in Europa, colpendo per prima l’Italia, fu invece subito chiaro che l’impatto epidemiologico e clinico della pandemia sarebbe stato ben più pesante. Il piano pandemico, peraltro non aggiornato, non venne poi utilizzato, anche perché ritenuto troppo specifico per le pandemie dovute a virus influenzali. A questo proposito, a prescindere dai diversi punti di vista, bisogna ribadire quanto sia importante, certo, aggiornare i piani pandemici, ma allo stesso tempo quanto sia necessario renderli
9. Promuovere la relazione con social media e media tradizionali: i mass media (sia quelli tradizionali sia quelli social) svolgono un ruolo fondamentale durante una crisi.
I nove pilastri, imprescindibili e tutti interconnessi fra loro, sono affiancati da un’altra grande sfida, quella della gestione dell’infodemia, cioè di quell’abbondanza di informazioni, alcune accurate e altre no, che rendono complicato districarsi in questo dedalo e capire quali sono le fonti realmente affidabili.
Tre lezioni che scaturiscono dalla lettura del libro
Cosa si apprende leggendo questo libro?
In primo luogo, che la comunicazione è uno degli elementi più innovativi e caratterizzanti l’esperienza della pandemia che abbiamo appena vissuto. Ma anche che una buona comunicazione è possibile – e sarebbe ancora più facilmente realizzabile – in un contesto in cui l’alfabetizzazione scientifica fosse maggiormente promossa nella popolazione così da permettere una minore semplificazione delle informazioni che si vogliono condividere e da rendere più semplice la comprensione della complessità in cui vengono costruiti e mostrati i dati.
La terza lezione è legata alla gestione dell’incertezza che potrebbe diventare un punto di forza se tutti noi (istituzioni e cittadini) partissimo dal presupposto che nessuna verità è definitiva, che ogni conoscenza acquisita è un’approssimazione, la più vera e la più affidabile in quel momento. Assumersi la responsabilità del limite della conoscenza e costruire in quel varco la fiducia tra chi fa la scienza e chi la ‘racconta’ è uno dei compiti delle istituzioni sul piano della comunicazione.
Letizia Orzella
Direzione Regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria
Area Farmaci e Dispositivi, Regione Lazio
“Un’enfasi particolare merita anche la necessità di mantenere efficiente e resiliente il sistema sanitario”
‘materia vivente’, ricorrendo a esercitazioni, ravvivando le scorte di dispositivi di protezione individuale, farmaci e vaccini (naturalmente queste non potevano esser previste per una ‘malattia X’ quale appunto la sindrome respiratoria acuta causata da un coronavirus) e ricorrendo spesso ad esercitazioni e simulazioni. Venne comunque messo a punto un piano di contingenza ad hoc, che prevedeva fra l’altro l’ampliamento dei posti letto in terapia intensiva sulla base di diversi scenari.
Comunque, nel gennaio 2021, in piena pandemia da covid-19, venne ultimato e approvato in Conferenza Stato-Regioni il nuovo piano pandemico, intitolato ‘Piano strategico-operativo nazionale di preparazione e risposta a una pandemia influenzale (PanFlu) 2021-2023’. Oltre a fare tesoro del precedente piano pandemico, il nuovo documento teneva in considerazione una serie di rapporti pubblicati dall’OMS, a cominciare dalla WHO checklist for influenza pandemic planning pubblicata nel 2005, facendo propri i concetti di preparedness e readiness, nonché l’adozione delle diverse fasi: i) fase di allerta pandemica; ii) fase pandemica; iii) fase di transizione pandemica; iv) fase inter-pandemica.
Pur specificando che, ancora, si trattava di un piano indirizzato principalmente a contrastare un’eventuale pandemia influenzale, si iniziava a introdurre il concetto che esistono differenze ma anche elementi comuni fra le diverse virosi respiratorie, e che di alcuni di questi elementi va tenuto conto nel formulare e pianificare strategie di prevenzione e controllo. Inoltre, un’enfasi ancor maggiore rispetto al passato veniva data a interventi di contenimento e/o mitigazione, prime fra tutte le misure di distanziamento sociale, sino ad arrivare a quelle più estreme, quali le cosiddette ‘zone rosse’.
L’aggiornamento in corso
Nel momento in cui scrivo, il piano pandemico del 2021 è in corso di aggiornamento ed è già circolata una bozza che non si distanzia molto, in termini di contenuti e misure da adottare, rispetto al piano precedente. La novità maggiore, anche sulla base di indicazioni internazionali, è quella di allargare lo spettro del piano, aldilà dei virus influenzali, ad altri patogeni a trasmissione respiratoria a maggior potenziale pandemico. Ciò rappresenta la logica conseguenza di quanto accaduto prima con la minaccia, fortunatamente arginata, della SARS nel 2002/2003, e poi con la pandemia vera e propria causata da SARS-CoV-2. Naturalmente, essendo il piano attualmente in corso di revisione, è
possibile che vengano apportate alcune modifiche, che potrebbero riguardare la necessità di prevedere obblighi per alcune misure particolarmente restrittive, o il ricorso all’uso di strumenti giuridici quali i DPCM, sui quali spesso la ‘politica’ si è divisa. È però necessario distinguere quelle che sono le misure tecniche, sempre ispirate a raccomandazioni internazionali possibilmente basate sull’evidenza, che devono certo essere sottoposte a valutazione scientifica e adeguata revisione, da quelle che invece possono essere considerate scelte di carattere politico (per esempio, la decisione di imporre obblighi di varia natura, dal blocco delle attività produttive al green pass). A questo proposito si ricorda che è stata varata una Commissione parlamentare di indagine, i cui lavori però non sono ancora iniziati. Altri paesi, contrariamente al nostro, hanno preferito eseguire una post-action review basata soprattutto su commissioni tecniche indipendenti, con il compito di valutare l’adeguatezza e l’efficacia/efficienza degli strumenti utilizzati e degli interventi di controllo implementati.
Le azioni intraprese a livello internazionale
In questo momento poi è in atto un serrato lavoro a livello internazionale per migliorare i piani di preparazione e risposta alle pandemie. Per quanto riguarda l’Unione europea, ECDC ha recentemente pubblicato un technical report dal titolo Public health and social measures for public emergencies and pandemics in the EU/EEA: recommendations for strengthening preparedness planning, nel quale si fa il punto su quel complesso di misure ritenute necessarie, ma che dovrebbero essere proporzionali all’entità della minaccia e dei suoi effetti negativi. In particolare, nel rapporto tecnico si raccomanda che i piani di preparazione pandemica siano allineati con le International health regulations (IHR) e con il Regolamento (EU) 2022/2371. Le raccomandazioni, che contengono sia misure personali sia sociali, e vanno dall’igiene delle mani all’uso di mascherine, a varie forme di distanziamento sociale, inclusi provvedimenti quali isolamento e quarantena, andrebbero protratte – sempre secondo ECDC – non oltre il tempo ritenuto indispensabile per mitigare il corso dell’epidemia, e comunque sottoposte a un’attenta valutazione, anche per le conseguenze socioeconomiche che potrebbero comportare. Un’enfasi particolare merita anche la necessità di mantenere efficiente e resiliente il sistema sanitario.
Da parte sua l’OMS ha lanciato, nel corso nel 2023, una call to action per un approccio innovativo che possa migliorare i piani di preparazione pandemica,
con l’iniziativa denominata Preparedness and resilience or emerging threats (PRET), tenendo in considerazione diversi gruppi di patogeni in base alla loro modalità di trasmissione (respiratoria, tramite vettori, fecale-orale, etc). È però chiaro che la priorità è ora rappresentata dai patogeni respiratori, dai virus influenzali ai coronavirus. Inoltre, sempre a livello OMS, si sta discutendo sia il cosiddetto ‘Trattato pandemico’ (Pandemic treaty) sia il regolamento sanitario internazionale, ovvero l’IHR, al fine di meglio coordinare gli sforzi per affrontare importanti minacce alla salute globale quali epidemie ed eventi pandemici. Fra l’altro, a questo proposito, è attualmente in corso un dibattito su come poter permettere all’OMS di coordinare meglio gli sforzi senza limitare, però, la sovranità nazionale da parte dei singoli stati membri.
I nodi da risolvere in Italia sul piano
strutturale
Per concludere, è certamente importante completare l’aggiornamento del Piano di preparazione pandemica da poco scaduto e, soprattutto, trovare le risorse per mantenere le scorte, opzionare vaccini pandemici, prevedere la possibilità di aumentare l’offerta di posti di terapia intensiva, migliorare la comunicazione del rischio in emergenza, il contrasto alla disinformazione e la gestione dell’infodemia e formare il personale su tutte queste tematiche, rendendo ‘vivo’ il piano stesso con esercitazioni e simulazioni.
Allo stesso tempo, in un momento difficile per il nostro servizio sanitario, è fondamentale il processo di adeguamento del numero di operatori sanitari, soprattutto nel settore delle emergenze, offrendo loro anche le dovute protezioni (è noto a questo proposito come minacce e denunce nei confronti di chi opera spesso in condizioni d’urgenza siano ormai all’ordine del giorno).
Vediamo ora come, nonostante lo stress test rappresentato dalla pandemia, si fatichi a far fronte alle liste d’attesa e a rendere efficienti i pronto soccorso ospedalieri. Naturalmente si tratta di problemi che affondano le radici nel passato, ma acuiti nel corso, e a seguito, della pandemia. Infine, la medicina del territorio, sia a livello di prevenzione che di filtro, va certamente rafforzata e resa maggiormente operativa. Senza questo adeguamento strutturale, che vede nodi critici da risolvere già in una situazione di routine, anche il migliore dei piani pandemici rischia di essere difficilmente realizzabile nella pratica qualora si dovesse paventare un evento di carattere emergenziale. n
Intelligenza artificiale e crisi climatica: le nuove sfide che la comunicazione della scienza deve affrontare
A colloquio Elena Savoia
Professoressa presso il Dipartimento di Biostatistica, Harvard TH Chan School of Public Health, Boston, e condirettrice di EPREP, Emergency Preparedness Research Evaluation & Practice Program, presso la stessa Università
“Al di là della sorveglianza attiva, l’intelligenza artificiale sta influenzando il modo in cui pensiamo e affrontiamo le emergenze. E sta cambiando rapidamente non solo il modo in cui impariamo e utilizziamo le informazioni ricevute ma anche quello con cui comunichiamo con il pubblico. Per questo dobbiamo stare al passo con le tecnologie della comunicazione”. È questa la frontiera individuata da Elena Savoia, che è anche tra i fondatori dell’IRIS Academic Research Group, la piattaforma che riunisce i ricercatori della London School of Hygiene e Tropical Medicine, della City University of London - Alan Turing Institute, della Ca’ Foscari Università di Venezia, della Sapienza Università di Roma, dell’Università di Cambridge e della stessa Harvard T.H. Chan School of Public Health di Boston nella ricerca sull’infodemia e sulla promozione di una comunicazione corretta sui temi della salute e dell’ambiente.
Quali sono i pattern, emersi durante il covid-19, a cui la sanità pubblica deve lavorare per prepararsi meglio?
La recente pandemia ci ha insegnato che è importante migliorare le capacità di sorveglianza attiva per poter costruire una risposta rapida, flessibile ed efficace. Stiamo vivendo ora una situazione di incertezza nell’utilizzo dei sistemi di sorveglianza dell’H5N1; è importante ampliare le capacità del sistema e migliorare le conoscenze dei professionisti sanitari che lavorano per proteggere la salute degli animali e degli uomini. La comunicazione tra le agenzie che si occupano della salute animale e umana è fondamentale in questo momento di incertezza riguardo alla capacità del virus H5N1 di diffondersi e ai rischi di un passaggio di specie. La mancanza di consapevolezza, dati e ricerca può portarci a ritardi nella risposta. Ogni volta che un virus si comporta in modo diverso da come ci aspettiamo, corriamo il rischio di non prestargli sufficiente attenzione.
Si fa abbastanza formazione su questi temi?
C’è poca formazione in preparedness nei diversi paesi; gli operatori di sanità pubblica imparano sul posto di lavoro. Non ci sono abbastanza opportunità di formazione che permettano di acquisire le competenze necessarie per gestire un’emergenza di sanità pubblica.
Perché è così importante fare simulazioni, esercitazioni, check-list?
Negli Stati Uniti si dice “impara, fa e insegna”. La parte del fare è importante nel nostro campo.

È necessario mettere in pratica i processi di risposta che si attivano durante una crisi, così come è necessario che gli attori chiave della risposta si siedano insieme a un tavolo per essere in grado di testare il sistema attraverso delle simulazioni. È importante valutare scenari diversi e discutere i trigger della risposta. L’H5N1 ci sta offrendo un’occasione unica per discutere sull’adeguatezza dei piani pandemici. Creare un piano pandemico non è sufficiente, anzi diciamo proprio che non serve a nulla se non viene testato... Inoltre, è importante creare opportunità di dialogo con la popolazione, perché il pubblico deve essere informato sui rischi rappresentati dai virus che vengono monitorati dalle agenzie di sanità pubblica, mantenendo trasparenza assoluta fin dall’inizio. Al momento non abbiamo informazioni sufficienti per capire il livello di rischio dell’H5N1 o di virus simili, perché ci servono più dati, ma possiamo immaginare alcuni scenari e discutere sui trigger e sui meccanismi decisionali.
Quanto la comunicazione e la disinformazione hanno influenzato le scelte di salute?
I dati che abbiamo raccolto durante la pandemia dimostrano che la disinformazione ha influito in modo negativo sull’accettazione del vaccino per il covid-19 da parte della popolazione.
A mio avviso però la disinformazione non è la causa di questi comportamenti. Alla radice c’è un calo di fiducia nel sistema di sanità pubblica. Tale sfiducia può essere dovuta a diversi fattori, perché le persone costruiscono un rapporto con le istituzioni nel corso degli anni in vari modi, interagendo con le amministrazioni comunali, i medici di base, gli operatori di sicurezza pubblica e così via. Ogni interazione a vario livello ha un impatto sull’opinione delle istituzioni che il cittadino crea nella sua mente. Quando poi si presenta un’emergenza, la capacità di credere o meno a quello che viene detto
IL CRONICO TRAUMA DELLA GUERRA
Donne e bambini le prime vittime
Di Maurizio Bonati
Arricchito da una selezione di scritti per la pace e da innumerevoli suggerimenti di lettura, questo volume fornisce una dettagliata analisi degli squilibri che alimentano le tante guerre che infiammano il pianeta, integrata da una documentata descrizione delle prolungate conseguenze che ogni conflitto esercita sulla salute delle popolazioni coinvolte.
Ne emerge un quadro estremamente articolato che dimostra l’interdipendenza dell’ampio spettro di problematiche esaminate. Un importante contributo alla costruzione della pace che si rivolge agli operatori sanitari, ma anche agli studenti, agli insegnanti, a tutti i cittadini interessati alle scienze politiche, all’attualità, alla situazione internazionale.
dipende dal rapporto di fiducia che si è instaurato negli anni tra cittadino e istituzioni. Se poi il pubblico, di fronte a dubbi o a domande legittime, non ottiene informazioni adeguate da fonti istituzionali o scientifiche che si rapportino con la popolazione in modo semplice e immediato, si rivolge altrove, e quell’altrove può diventare fonte di inganno. Pertanto, è importante costruire un dialogo continuo con la popolazione ed educare il pubblico alla complessità e, spesso, all’incertezza e alla continua evoluzione della scienza.
Cosa si può fare per contrastare efficacemente la polarizzazione su temi come la salute e la crisi climatica?
La trasparenza è fondamentale per contrastare la polarizzazione, non possiamo nascondere al pubblico i limiti della scienza. Per definizione la scienza si basa su meccanismi di raccolta dati che sfidano un’ipotesi iniziale. Confutare tale ipotesi è alla base del ragionamento scientifico. Riguardo ad argomenti scientifici complessi come la crisi climatica, al momento le informazioni fornite da fonti istituzionali sono molto difficili da comprendere per il cittadino. Le persone cercano informazioni semplici, e quando le istituzioni o gli scienziati non gliele forniscono si rivolgono ad altre fonti. Spesso le fonti alternative utilizzano contenuti che generano scontento, e nello scontento diventiamo tutti emotivamente più vulnerabili rispetto a quel che ci viene detto. Nel caso della crisi climatica vi è una certa difficoltà nel tradurre concetti complessi in messaggi semplici, il cittadino fa fatica a quantificare l’impatto delle scelte e delle azioni che può intraprendere per contrastare questo problema globale, pertanto la disinformazione diventa ancora più difficile da definire e di conseguenza riconoscere.
Intervista a cura di Cesare Buquicchio
Il Pensiero Scientifico Editore www.pensiero.it
L’importanza della comunicazione nel lavoro dell’igienista
A colloquio con Caterina Rizzo
Professoressa Ordinaria di Igiene generale e applicata, Dipartimento di ricerca traslazionale e delle nuove tecnologie in medicina e chirurgia, Università di Pisa e Direttrice del Corso di perfezionamento
‘Comunicare il rischio durante le emergenze sanitarie: dall’analisi delle sfide alla gestione dell’infodemia (CreSP)’
“Abbiamo imparato che la comunicazione è tutto nella gestione delle emergenze sanitarie. Per questi oggi ci sentiamo ingaggiati per incrementare l’empowerment della popolazione così da contrastare la tendenza alla perdita di fiducia nelle indicazioni delle istituzioni, contenendo e mitigando una qualsiasi emergenza che possa avere una ricaduta sanitaria sui cittadini”. Illustra così Caterina Rizzo il suo impegno sul fronte della comunicazione del rischio in emergenza e comunque in ogni contesto che coinvolga la salute.
Quali sono le azioni prioritarie da implementare?
Individuare i bisogni informativi è una delle attività fondamentali. E partire da quelli anche per definire meglio le politiche di salute perché non possiamo più pensare che l’Igiene sia semplicemente la notifica delle patologie o compilare i registri di malattia. Nel pieno rispetto della privacy e delle indicazioni del Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR) dobbiamo imparare a sfruttare le potenzialità delle nuove tecnologie. Pensiamo alle opportunità offerte dai social network nel raccogliere informazioni non soltanto sulla posizione di specifici gruppi sociali rispetto ad aspetti più propriamente legati alla salute, ma anche sui determinanti che ci possono aiutare a migliorare gli stili di vita e la prevenzione.
Come si intreccia il lavoro dell’igienista e quello del comunicatore?
Come igienisti ci troviamo a raccogliere dati, a mettere in fila le evidenze e a preparare i report che poi presentiamo ai decisori politici, a quelli che sono gli stakeholder e alla popolazione. Ma se non ascoltiamo prima quello che la popolazione pensa, la sua posizione sulle misure che raccomandiamo, se non impariamo a ragionare su questo, rischiamo di produrre dei documenti che poi alla fine non hanno nessun impatto. Per fare questo, dunque, abbiamo imparato che solo mettendo insieme professionalità diverse e discipline diverse si riescono a definire strategie che possono essere efficaci in termini di comunicazione. Da solo un medico non farà molta strada se non ha qualcuno che lo supporta a comunicare nel modo migliore, a sapere quale mezzo di comunicazione usare e come utilizzarlo. Perché la radio non è un giornale cartaceo, un social media non è la tv, un documento di risk assessment non è un comunicato stampa.
È una consapevolezza che si è evoluta in maniera maggiore negli ultimi anni?
Sì, l’abbiamo visto con la pandemia da covid-19, ma si ripropone in tutti i casi in cui si affronta una patologia sconosciuta o dagli effetti inediti. Bisogna prepararsi a rispondere alle domande dei cittadini bilanciando l’evoluzione delle conoscenze e la comunicazione dell’incertezza. Bisogna evitare di essere troppo evasivi e nello stesso tempo non alimentare la preoccupazione che può portare al panico.
Come ci si prepara alle prossime emergenze su questo aspetto?
Il primo passo deve essere la formazione ed è il percorso che stiamo facendo all’Università di Pisa, sulla scorta di quello che fanno e suggeriscono molte istituzioni sanitarie internazionali a cominciare da WHO ed ECDC. Lo facciamo aprendoci al confronto e allo scambio con altre discipline, con esperti di sanità pubblica, comunicatori professionisti, giornalisti, esperti di social media, data scientist, psicologi, sociologi e molti altri ancora.
Su questo aspetto influisce spesso anche la disinformazione?
Sì, ma spesso all’origine della disinformazione si rintracciano bisogni informativi a cui non si è data una risposta adeguata. E come sanità pubblica dobbiamo imparare a colmare questi vuoti prima che lo facciano le narrative distorte. Negli ultimi mesi, per fare un esempio, abbiamo osservato come il corretto suggerimento di fare insieme il vaccino contro l’influenza e quello contro il covid-19 abbia generato, per un cortocircuito semantico, un po’ di dubbi in parte della popolazione che ha pensato si trattasse di un’unica iniezione. Dove questi dubbi non sono stati chiariti abbiamo misurato una crescente sfiducia nelle campagne vaccinali e la riproposizione di elementi di disinformazione.
I piani pandemici nazionali e regionali stanno aumentando l’attenzione anche sulla comunicazione del rischio in emergenza e per la prima volta in Italia è stato approvato un Piano nazionale di comunicazione del rischio pandemico. Cosa ne pensa?
Tutta questa produzione, ovviamente, è fondamentale ma non va trascurata l’importanza di calare quei testi nello scenario passato e in quello futuro. Quindi compiere delle valutazioni rispetto a quello che è successo in situazioni del passato e lavorare sul piano delle simulazioni che sono fondamentali per ‘allenarsi’ sulle emergenze del futuro. Se ciò non viene fatto in modo metodico, quei piani rischiano di rimanere parole sulla carta. Come la sorveglianza epidemiologica, sia essa digitale, routinaria, sindromica, ci consente di raccogliere dati e di fare strategie, così sarebbe importante individuare alcuni indicatori dettagliati per valutare l’applicazione dei piani pandemici, senza lasciarli solo sulla carta ma andando a vedere se effettivamente le diverse regioni hanno raggiunto gli standard richiesti e intraprendere azioni correttive dove non si è raggiunto un livello adeguato. Bisogna imparare da quello che si fa con la comunicazione del rischio clinico in ospedale e tornare all’antica tradizione di andare poi a migliorare e ad aggiustare quello che non va.
Intervista a cura di Cesare Buquicchio
The business of publishing and of getting published have corrupted the evidence needed for care. It is missing. It is late. It is hyped. It is noisy. Luca eloquently calls for urgent reform to abolish this travesty of science.
Victor Montori
Knowledge and Evaluation Research (KER) Unit, Mayo Clinic, Rochester
In this new book, Luca De Fiore, a longtime proponent of precision in medical evidence, casts his critical eye on academic medical publishing, and disdains what he sees.
Jerome P. Kassirer
Distinguished Professor, Tufts University School of Medicine, Editor-in-Chief Emeritus, New England Journal of Medicine
There are lots of things wrong with medical publishing. But, fortunately, some things are right, like this book by Luca De Fiore.
Steven Woloshin
Center for Medicine and media, Darmouth University, Lisa Schwartz Foundation

Sul pubblicare in medicina Impact factor, open access, peer review, predatory journal e altre creature misteriose
Un libro di Luca De Fiore [Il Pensiero Scientifico Editore]
Un libro di 192 pagine. € 18,00
Presentazione di Richard Smith [Former Editor-in-Chief, The BMJ] www.pensiero.it