Casco Inverno 2015

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Periodico trimestrale riservato alla classe medica edito in collaborazione con Via Vitorchiano 151 – 00189 Roma Tel 06 36 19 11 – Fax 06 36 380 311 www.msd-italia.it Numero verde 800 23 99 89 Inverno 2015 Registrazione del Tribunale di Roma in corso Direzione scientifica: Fausto Roila Enzo Ballatori Gruppo editoriale: Claudia Caserta Sonia Fatigoni Guglielmo Fumi Azienda Ospedaliera di Terni

Inverno 2015

In questo numero EDITORIALE

IL PUNTO SU...

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Crisi convulsive da metastasi cerebrali o tumori cerebrali primitivi: profilassi e terapia Claudia Caserta

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Gestione sintomatica del paziente oncologico: i sintomi orfani Guglielmo Fumi

Buon 25° compleanno, IGAR! Enzo Ballatori, Fausto Roila

DALLA LETTERATURA

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Le novità sulle terapie di supporto/palliative nel 2014 Fausto Roila

GESTIONE EVENTI AVVERSI

Il Pensiero Scientifico Editore Via San Giovanni Valdarno 8 00138 Roma Tel 06 862 821 – Fax 06 862 82 250 Internet: www.pensiero.it Stampa: Arti Grafiche Tris, Roma Marzo 2015 Direttore responsabile: Giovanni Luca De Fiore Redazione: Manuela Baroncini Progetto grafico: Antonella Mion Prezzo: Fascicolo singolo €15,00

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CASI CLINICI

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Tossicità di ramucirumab, ceritinib, olaparib Elisa Minenza

È clinicamente rilevante ritardare il primo evento scheletrico? Enzo Ballatori, Fausto Roila

STATISTICA PER CONCETTI

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I contenuti pubblicati dalla rivista rispecchiano le opinioni degli Autori e non necessariamente quelle dell’Editore o della MSD Italia S.r.l. Ogni farmaco menzionato deve essere usato in accordo con il relativo riassunto delle caratteristiche del prodotto fornito dalla ditta produttrice.

La ricerca indipendente: il paradigma dell’IGAR.

In copertina: Mario Ballocco, Reticolo nero diversi blu rosso verso destra (1948).

Test statistici per dati appaiati Enzo Ballatori


Buon 25° compleanno, IGAR!

Editoriale

N

ella seconda metà degli anni ‘70, a Perugia,

economico da parte dell’industria dovesse essere rifiutato,

venivano formandosi i primi gruppi spontanei di

anzi, fu deciso che lo si dovesse accettare, ma solo a

ricerca clinica in Oncologia che, soprattutto per

condizione che non ci sarebbe stata alcuna interferenza: né

motivi logistici, operavano nel campo della terapia

nella preparazione del protocollo, né nella memorizzazione

antiemetica. Ma, anche in questo limitato settore, il balzo

dei dati su supporto magnetico, né nella loro elaborazione,

verso la ricerca internazionale era legato alla capacità di

né nell’interpretazione dei risultati, né nella stesura degli

accrual, e una divisione di Oncologia di una piccola regione

articoli da sottoporre alle riviste per la pubblicazione.

non ne aveva molta. I fondi di ricerca erano inesistenti e quindi occorreva puntare sulla partecipazione volontaria di altri centri oncologici, riconoscendo loro un ruolo di primissimo piano nella pubblicazione dei risultati. Poiché si ritenne che la cosa che veramente contava era fare ricerca, si decise di rinunciare ciascuno alle proprie individualità e di

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Il primo lavoro pubblicato a nome collettivo fu “The Italian Group for Antiemetic Research. Ondansetron + dexamethasone vs metoclopramide + dexamethasone + diphenhydramine in prevention of cisplatin-induced emesis. Lancet 1992; 340: 96-9”.

fondare un gruppo di ricerca indipendente che avrebbe

Festeggiamo oggi il 25° compleanno dell’IGAR perché la

firmato tutti i lavori prodotti con un nome collettivo:

stesura del protocollo (in cui era sancita la firma del lavoro

(The) Italian Group for Antiemetic Research (IGAR).

a nome collettivo) datava da poco più di due anni.

La multidisciplinarietà era ciò che maggiormente

Dati i tempi, che una delle più importanti riviste di

caratterizzava l’IGAR, individuabile nelle figure dei suoi

Medicina interna del mondo dedicasse uno spazio alle

quattro fondatori (che in seguito saranno costantemente i

terapie di supporto in Oncologia per pubblicare i risultati di

coordinatori del Gruppo): Enzo Ballatori, statistico medico,

uno studio italiano fu un fatto che ebbe ampia risonanza.

Albano Del Favero, farmacologo clinico, Fausto Roila (che

Dal punto di vista dei contenuti, il lavoro citato è

ne divenne l’anima più attiva) e Maurizio Tonato, oncologi

importante perché fu tra i primi ad individuare il ruolo dei

medici. Ma si trattava non già di mettere a disposizione

5-HT3 antagonisti nella prevenzione dell’emesi indotta da

degli altri le proprie competenze, come l’interdisciplinarietà

chemioterapia.

era allora comunemente intesa, ma di perseguirla cercando

Dal materiale raccolto nel corso dello studio, vennero messi

ciascuno di appropriarsi delle conoscenze dell’altro; in tal

a punto altri 4 articoli che affrontavano aspetti diversi ed

modo, lo statistico imparò di Oncologia e di Fisiopatologia,

originali, tutti pubblicati su prestigiose riviste; tra essi, il

l’oncologo di Statistica e di Metodologia della ricerca:

primo lavoro pubblicato da un Gruppo italiano su

dopo molte esperienze, anche in altri settori, riteniamo

PharmacoEconomics, che allora era considerata la più

ancora oggi che questo sia il modo più proficuo di

importante rivista di Farmacoeconomia. Ciò obbliga ad una

praticare l’interdisciplinarietà, anche alla luce dei frutti che

riflessione sullo spreco di informazione derivato dall’attuale

ha dato.

modello di ricerca: i dati raccolti servono per pubblicare un

L’IGAR si costituì informalmente come Gruppo spontaneo

articolo (raramente più di uno) e poi vengono accantonati.

per praticare una ricerca clinica realmente indipendente

In tal modo, si può solo immaginare quanti progressi siano

dall’industria. Ciò non implicò che qualunque aiuto

stati negati alla Medicina.

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| Editoriale | Buon 25° compleanno, IGAR!

In questi 25 anni, l’IGAR ha prodotto una cinquantina di

maggiore pervasività nella ricerca clinica dell’industria che

lavori pubblicati su riviste internazionali e tale intensa

paga i ricercatori anche per studiare problemi che sono più

attività fu riconosciuta a livello internazionale anche

finalizzati al marketing che alla ricerca scientifica, ha finito

privilegiando Perugia come luogo dove tenere le

con l’occupare gli spazi che prima restavano per condurre

Consensus Conference per la definizione delle linee guida

ricerche indipendenti. In sintesi, il valore che prima si dava

di trattamento antiemetico, del MASCC, prima, e del

alla conoscenza scientifica dei fenomeni, oggi è dirottato in

MASCC ed ESMO associate, poi. Nella prima Perugia

larga misura sulle decisioni, e ciò anche da parte dello

Consensus Conference furono anche definite le linee guida

Stato che, per tante ragioni, dovrebbe invece tutelare ed

di ricerca clinica sugli antiemetici, che in seguito non si

incentivare la ricerca spontanea.

ritenne di dover più modificare.

Qualora ci fossero sia un cambiamento di atteggiamento

Premesso che IGAR è ancora attivo, sebbene in modo assai

dei decisori di spesa della Sanità pubblica, sia energie

più limitato rispetto al passato, ci si può chiedere cosa resti

sufficienti per tornare a produrre ricerca spontanea, il

dell’esperienza dell’IGAR nel panorama della ricerca clinica.

modello IGAR, magari con qualche modifica, potrebbe

Nei contenuti, l’individuazione del ruolo dei trattamenti

essere quello più valido in quanto ancora oggi non ci

antiemetici oggi in uso; ma ciò di cui si può andare ancora

sembra superato.

più orgogliosi è il valore paradigmatico del modo di fare

Concludiamo questo brevissimo ricordo ringraziando le

ricerca indipendente, basata sulla interdisciplinarietà,

centinaia di centri oncologici che, di volta in volta, hanno

cercando di dare risposte ai quesiti che emergono dalla

aderito alle proposte di studi clinici, prestando

pratica clinica.

disinteressatamente la loro opera: essi rappresentano

Purtroppo però troppe cose sono cambiate nell’ambito

l’anima più vera dell’IGAR, il suo prezioso patrimonio da

della ricerca clinica: una sempre più spinta burocratizzazione rende di fatto impossibile fare una ricerca spontanea poco o scarsamente finanziata; una

tutelare. Enzo Ballatori Fausto Roila

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Dalla letteratura

Le novità sulle terapie di supporto/palliative nel 2014

Fausto Roila Struttura Complessa di Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni

Q

uesto articolo non intende presentare tutte le novità, o presunte tali, pubblicate nel 2014 sulle terapie di supporto/palliative, cosa peraltro quasi impossibile data la mole della letteratura sui sintomi delle neoplasie e sugli eventi avversi dei trattamenti antitumorali. Si pone invece l’obiettivo di selezionare gli studi o le revisioni della letteratura pubblicati dalla fine del 2013 alla fine del 2014 che potrebbero avere un importante impatto sulla pratica clinica tanto da richiedere un aggiornamento delle linee guida disponibili. Alcuni di questi studi sono stati precedentemente riportati in questa rivista nell’articolo sulle novità dell’ASCO 2014.

Dolore da cancro La scala del WHO suggerisce ad ogni gradino la possibilità di aggiungere farmaci adiuvanti ai farmaci analgesici consigliati. Tra questi gli steroidi sono raccomandati da tutte le linee guida anche se poche sono le evidenze disponibili di un loro effetto analgesico. In uno studio randomizzato doppio cieco 47 pazienti sottoposti a oppioidi, con dolore ≥ 4 in una scala da 0 a 10, sono stati trattati con metilprednisolone 16 mg due volte al giorno o placebo per 7 giorni1. Purtroppo l’aggiunta del farmaco non determinava una riduzione del dolore o del consumo di oppioidi anche se migliorava significativamente la fatigue, l’appetito e la soddisfazione dei pazienti. Questo studio ha però importanti limiti: – ha richiesto 4 anni per screenare 592 pazienti e arruolarne 47; – la maggior parte era esclusa perché già in trattamento con steroidi e quindi vi è un rischio di bias di selezione; – vi è uno squilibrio a sfavore dei pazienti randomizzati a ricevere metilprednisolone perché questi erano sottoposti ad una dose mediana di morfina superiore a quelli trattati con placebo (269,9 mg/die versus 160,3 mg/die), avevano un’incidenza superiore di dolore neuropatico (19% versus 5% dei pazienti) che ne giustificava il maggior uso di gabapentina (23% versus 0%). Pertanto, potendo questi limiti almeno in parte spiegare i risultati negativi ottenuti dai pazienti sottoposti a metilprednisolone, sono necessari ulteriori studi meglio pianificati e su una casistica più ampia per rispondere al quesito dell’efficacia analgesica degli steroidi nel dolore da cancro. In una revisione sistematica degli studi sul dolore episo6

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dico intenso (breakthrough pain) nei pazienti neoplastici sono stati analizzati 19 studi osservazionali che hanno evidenziato una prevalenza nel 59,2% dei pazienti, variando dal 39,9% nei pazienti ambulatoriali all’80,5% nei pazienti ricoverati in Hospice2. Quindi il fenomeno ha un’incidenza veramente alta e vi è un rischio reale di sottovalutazione di questo sintomo e quindi di un non appropriato trattamento. Nel 2014 è stata pubblicata anche una network metanalisi degli studi controllati sui farmaci oppioidi impiegati nel trattamento del dolore episodico intenso3. Come è noto per questa indicazione abbiamo a disposizione varie formulazioni di fentanyl somministrabili al bisogno attraverso varie vie (intranasale, intramucosale, sublinguale, ecc.), ma mancano studi controllati ben fatti per poter scegliere il farmaco migliore, ammesso che le modeste differenze nella farmacocinetica di queste formulazioni possano tradursi in un diverso beneficio sia di efficacia che di tossicità. Purtroppo infatti l’unico studio finora pubblicato è uno studio industria-sponsored, non in cieco fra fentanyl intranasale e fentanyl transmucosale orale i cui risultati proprio perché non eseguito in doppio cieco non possono essere considerati come una prova della superiorità di una formulazione rispetto all’altra. Finora scarsa attenzione è stata rivolta alla valutazione e al trattamento del dolore dovuto alle terapie delle neoplasie e alle procedure diagnostiche del cancro (ad esempio, embolizzazioni delle neoplasie, toracentesi, inserzione di nefrostomie, biopsie midollari ed ossee, agobiopsie transtoraciche, punture lombari, ecc.). Ciò potenzialmente potrebbe causare la somministrazione di trattamenti subottimali. Questo è stato oggetto di una revisione della letteratura in cui si sottolinea la necessità di eseguire studi in questi tipi di dolore4. Prevenzione della nausea e vomito da chemioterapia Le linee guida pubblicate da varie organizzazioni internazionali (ESMO/MASCC, ASCO, ecc.) raccomandano per prevenire la nausea ed il vomito acuto (prime 24 ore dopo la chemioterapia) indotti da cisplatino o da antracicline più ciclofosfamide, in donne affette da carcinoma della mammella, un regime a tre farmaci includenti una dose singola di un 5-HT3 antagonista più desametasone più aprepitant (o fosaprepitant) somministrati prima della chemioterapia. Nel 2014 sono stati pubblicati vari studi controllati con nuovi NK1 antagonisti quali il netupitant (approvato recentemente dalla FDA in combinazione in unica compressa con palonosetron) ed il rolapitant. Gli studi hanno confrontato il NK1 antagonista aggiunto al 5-HT3 antagonista e al desametasone versus il 5-HT3 antagonista più desametasone da soli5-9. Consi-


| Dalla letteratura | Le novità sulle terapie di supporto/palliative nel 2014

derando anche gli studi sull’aprepitant l’aggiunta di un NK1 antagonista aumenta la risposta completa (non vomito né terapie di salvataggio) nelle prime 24 ore dal 4% al 15% nei pazienti sottoposti a cisplatino e dal 3% al 7% nelle pazienti con carcinoma della mammella sottoposte a AC/EC rispetto alla combinazione del 5-HT3 antagonista più desametasone senza NK1 antagonista. Questo aumento non solo è statisticamente significativo ma anche clinicamente rilevante perché impatta sull’incidenza dell’emesi ritardata (giorni 2-5) dello stesso ciclo di chemioterapia e sull’incidenza dell’emesi acuta e ritardata dei cicli di chemioterapia successivi. Purtroppo al momento non sono stati eseguiti studi di confronto per identificare differenze di efficacia e tossicità tra i tre NK1 antagonisti. Pertanto quando questi farmaci saranno disponibili, la scelta dovrebbe essere basata sul loro rispettivo costo d’acquisto. Infine una nota polemica rispetto agli enti regolatori: quando la smetteranno di suggerire studi non etici come quelli sopra riportati all’industrie farmaceutiche? Non sarebbe opportuno registrare i nuovi farmaci con studi di confronto versus i trattamenti standard che comprendevano in questi casi anche un NK1 antagonista? Nel 2014 sono stati pubblicati tre studi sull’uso dell’aprepitant in associazione con altri antiemetici che dovrebbero portare ad aggiornare le linee guida attualmente esistenti. Uno studio randomizzato doppio cieco di fase III in 297 pazienti con carcinoma ovarico, dell’endometrio e della cervice uterina, sottoposti per la prima volta a chemioterapia con carboplatino e paclitaxel, sono stati randomizzati a ricevere aprepitant o placebo in associazione con un 5-HT3 antagonista più desametasone10. L’endpoint primario dello studio era la percentuale di risposte complete, di assenza di vomito e di assenza di nausea significativa nei giorni 1-5 dopo la chemioterapia. L’aggiunta dell’aprepitant ha migliorato significativamente la risposta completa (61,6% versus 47,3% dei pazienti), l’assenza di vomito (78,2% versus 54,8%) e di nausea significativa (85,4% versus 74,7%). In uno studio doppio-cieco 302 pazienti pediatrici* sottoposti a chemioterapia moderatamente/altamente emetogena sono stati randomizzati a ricevere aprepitant (125 mg giorno 1 e 80 mg giorni 2 e 3 se di età compresa tra 12 e 17 anni, 3 mg/kg giorno 1 e 2 mg/kg giorni 2 e 3 se di età compresa tra 6 mesi e < 12 anni) o placebo ambedue associati ad ondansetron11. Il desametasone era aggiunto a discrezione dell’investigatore. L’endpoint primario era la percentuale di risposta completa nei giorni 2-5 dopo la chemioterapia. L’aprepitant aumentava significativamente la risposta completa (50,7% versus 26,0% nei giorni 2-5, 66,4% versus 52,0% nel giorno 1 e 40,1% versus 21,3% nei giorni 1-5). In un altro studio doppio-cieco in 362 pazienti con mieloma multiplo sottoposti a terapia con alte dosi di melphalan (100 mg/m2 giorni 1 e 2) e trapianto di midollo autologo il giorno 4 sono stati randomizzati a ricevere aprepitant (125 mg giorno 1 e 80 mg giorni 2-4**) più granisetron (2 mg os giorni 1-4) e desametasone (4 mg os giorno 1 e 2 mg os giorni 2 e 3) o granisetron alle stesse dosi più desametasone (8 mg os giorno 1 e 4 mg os giorni 2 e 3)12. L’endpoint primario dello studio era la percentuale di risposta completa nei

giorni 1-5 dopo la somministrazione di melphalan. L’aggiunta dell’aprepitant aumentava significativamente la risposta completa (58% versus 41% dei pazienti), la percentuale di pazienti senza vomito (78% versus 65%) e di pazienti senza nausea significativa (94% versus 88%). Infine si ricordano i risultati dello studio del gruppo italiano per la ricerca sugli antiemetici che ha presentato all’ASCO uno studio che ha dimostrato in pazienti sottoposti a chemioterapia con cisplatino e trattati tutti con aprepitant, ondansetron e desametasone per prevenire il vomito acuto, la simile efficacia dell’aprepitant e della metoclopramide, ambedue associati al desametasone, nel controllo del vomito ritardato13. Infezioni L’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM) ha recentemente pubblicato le raccomandazioni per la prevenzione dell’influenza14. I pazienti neoplastici essendo immunosoppressi possono avere una risposta immunologica subottimale al vaccino dell’influenza. Purtroppo l’effetto del vaccino nei pazienti con tumori solidi non è stato sufficientemente studiato così come poco si conosce circa il tempo ottimale per somministrarlo durante il trattamento chemioterapico. In ogni caso essendo la vaccinazione il metodo più efficace per prevenire l’influenza questa deve essere raccomandata a tutti i pazienti per ridurre il rischio di contrarre l’infezione. La chemioterapia precauzionale con taxani e antracicline in pazienti con carcinoma della mammella ha un alto rischio di neutropenia febbrile, specie nei primi due cicli, e richiede una profilassi con G-CSF (granulocyte colony-stimulating factors) che da risultati preliminari sembravano più efficaci quando somministrati all’inizio della chemioterapia. Su queste basi è stato pianificato uno studio che ha randomizzato i pazienti a ricevere G-CSF per soli due cicli versus G-CSF per tutti i cicli di chemioterapia15. Lo studio è stato interrotto dopo l’inclusione di 162 pazienti perché ad un’analisi ad interim si è evidenziato che la neutropenia febbrile insorgeva nel 10% dei pazienti che ricevevano G-CSF tutti i cicli versus 36% in chi li riceveva per soli 2 cicli. Una monoterapia antibiotica empirica è la terapia standard della neutropenia febbrile, ma può essere inadeguata per infezioni causate da batteri multiresistenti specie in pazienti con neoplasie ematologiche. In uno studio 390 pazienti sono stati randomizzati a ricevere piperacillina-tazobactam 4,5 grammi ev ogni 8 ore ± tigeciclina (50 mg ev due volte al giorno)16. La combinazione ha indotto un successo (risoluzione della febbre) nel 67,9% versus 44,3% dei pazienti ed era superiore anche in pazienti con batteriemia e in pazienti con infezione clinicamente documentata. La mortalità e gli effetti collaterali erano simili in ambedue i bracci di trattamento. * La sicurezza e l’efficacia di aprepitant o fosaprepitant in pazienti di età inferiore a 18 anni non sono state ancora stabilite. MSD non raccomanda un uso dei suoi prodotti differente da quanto specificato in RCP. ** EMEND è indicato per tre giorni nel contesto di una terapia di associazione. MSD non raccomanda posologie diverse da quelle riportate nel riassunto delle caratteristiche del prodotto. CASCO — Inverno 2015

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| Dalla letteratura | Le novità sulle terapie di supporto/palliative nel 2014

Prevenzione e trattamento del tromboembolismo venoso Comprende la prevenzione ed il trattamento delle trombosi venose profonde e dell’embolia polmonare che sono condizioni comuni e potenzialmente letali. Le eparine a basso peso molecolare e gli antagonisti della vitamina K hanno permesso il trattamento ambulatoriale delle trombosi venose profonde e talora anche dell’embolia polmonare nella fase acuta. Lo sviluppo di nuovi anticoagulanti somministrabili per via orale potrebbe permettere un’ulteriore semplificazione della terapia. I farmaci anticoagulanti sono inibitori diretti del fattore Xa (rivaroxaban, apixaban, edoxaban) e del fattore IIa (dabigatran)17. I vantaggi di questi farmaci sono: l’uso per via orale, hanno un rapido inizio di attività, non inducono restrizioni dietetiche nei pazienti, hanno poche interazioni con i farmaci e, soprattutto, non necessitano di monitoraggio laboratoristico. Gli svantaggi sono rappresentati da una limitata esperienza clinica, dalla mancanza di test di laboratorio di efficacia validati, dalla mancanza di farmaci che ne blocchino l’efficacia, dal doverli usare con cautela nei pazienti con insufficienza renale e dalla necessità di alti livelli di compliance dato che la più breve emivita aumenta i rischi se non si assumono tutte le dosi. Recentemente è stata fatta una revisione dell’uso di questi farmaci nei pazienti oncologici18. Un ostacolo al loro uso è rappresentato dall’aumentato rischio trombotico ed emorragico dei pazienti con cancro già in condizioni basali, dalla propensione dei pazienti neoplastici a rapidi cambiamenti della funzione renale ed epatica e dalla mancanza di farmaci in grado di bloccare l’efficacia dei nuovi anticoagulanti. Inoltre molti farmaci antitumorali, e non solo, interagiscono significativamente con l’enzima CYP3A4 e/o con la P glicoproteina di trasporto che può alterare il livello di anticoagulazione e predisporre a complicanze emorragiche e trombotiche. Pertanto, in assenza di dati di efficacia e tossicità in pazienti con cancro i nuovi anticoagulanti dovrebbero essere usati con cautela e solo dopo un’accurata valutazione dei rischi e dei benefici. Una revisione della letteratura ha sottolineato come le tromboflebiti superficiali agli arti inferiori tendono a recidivare, estendersi o progredire a trombosi venose profonde nel 10% dei pazienti nonostante il trattamento19. Fondaparinux 2,5 mg sottocute 1 volta al giorno per 45 giorni induce rispetto al placebo minori rischi di trombosi venose profonde sintomatiche e minori estensioni o recidive di trombosi venose superficiali senza aumentare il rischio di emorragie. Le eparine a basso peso molecolare ed i FANS danno risultati simili ma i dati sulle trombosi venose profonde sintomatiche con questi farmaci non sono definitivi. Infine uno studio in 70 pazienti con neoplasia non ematologica che ha randomizzato i pazienti a ricevere un PICC (catetere venoso centrale inserito perifericamente) o un port per somministrare la chemioterapia20. L’endpoint primario era l’insorgenza di complicazioni maggiori che richiedevano la rimozione del catetere venoso centrale. Il port presentava meno complicazioni (12% versus 29%). Anche la percentuale di complicanze maggiori era inferiore con il port (6% versus 20%). I costi e l’impatto sulla qualità di vita erano simili. 8

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Prevenzione della perdita di fertilità Nel 2014 il Lancet ha pubblicato due importanti revisioni della letteratura sulla preservazione della fertilità in pazienti neoplastici maschi21 e femmine22. Nel maschio il trattamento del cancro ed in particolar modo gli agenti alchilanti e la radioterapia, che causano perdita delle cellule germinali, possono compromettere la fertilità. Di conseguenza varie strategie di preservazione della fertilità sono state studiate di cui la criopreservazione dello sperma è un metodica efficace spesso sottoutilizzata per salvaguardare gli spermatozoi. Nelle donne, l’interesse alla preservazione della fertilità è cresciuto con l’aumentare delle percentuali di guarigione di giovani donne. La criopreservazione del tessuto ovarico, la protezione farmacologica delle ovaie dagli agenti antitumorali, il trapianto di follicoli fino alle più recenti tecniche di vitrificazione e maturazione degli ovociti in vitro rappresentano tecniche promettenti ma ancora sperimentali. In alcuni studi per prevenire la perdita di fertilità è stato utilizzato un farmaco LH-RH agonista in grado di determinare una castrazione chimica che in teoria potrebbe prevenire il danno indotto dalla chemioterapia sull’ovaie. In un importante studio presentato all’ASCO 2014 è stato somministrato ogni mese il goserelin per 4 dosi consecutive a partire da sette giorni prima dell’inizio della chemioterapia in 135 donne con carcinoma della mammella in premenopausa con recettori ormonali negativi23. L’endpoint primario dello studio era l’insufficienza ovarica precoce caratterizzata da amenorrea da almeno 6 mesi e livelli postmenopausali di FSH. Questa è stata osservata nel 22% (15/69) delle donne sottoposte a sola chemioterapia e nell’8% (5/66) di quelle trattate con chemioterapia piu goserelin. Ma il risultato più interessante e finora mai descritto è stato l’impatto del goserelin sulla fertilità della donna, che era un endpoint secondario dello studio. Circa lo stesso numero di pazienti in ambedue i bracci di trattamento aspiravano ad avere una gravidanza. In questo studio la gravidanza si raggiungeva nel 21% delle pazienti sottoposte a chemioterapia più goserelin rispetto all’11% di quelle che facevano solo chemioterapia. Dopo circa 4 anni dal trattamento la sopravvivenza libera da progressione di malattia (89% versus 78%) e la sopravvivenza globale (92% versus 82%) erano superiori nelle pazienti sottoposte a goserelin. Ovviamente non essendo lo studio pianificato per osservare differenze indotte dal goserelin in termini di sopravvivenza libera da progressione e sopravvivenza globale tali risultati dovranno essere confermati da altri studi. Sintomi vaginali Donne in post-menopausa affette da pregressa neoplasia ginecologica o della mammella spesso lamentano sintomi di atrofia vaginale e difficoltà a raggiungere un’adeguata soddisfazione sessuale. Uno studio ha randomizzato 441 donne con ≥ moderata secchezza vaginale o dolore a ricevere un emolliente vaginale rappresentato da 3,25 o 6,5 mg di deidroepiandrosterone o placebo (147 pazienti per ogni gruppo) applicato quotidianamente tramite una siringa preriempita per 12 settimane prima di andare a letto24. I sintomi miglioravano


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in tutti e tre i bracci di trattamento (-1,4; -1,6; e -1,3 rispettivamente con 3,25; 6,5 e placebo). La dose di 6,5 rispetto al placebo migliorava significativamente tutti gli aspetti della funzione sessuale a 12 settimane eccetto l’orgasmo. La tossicità di grado 2/3 non era differente tra i trattamenti anche se i cambi di voce e la cefalea erano superiori nelle pazienti sottoposte al deidroepiandrosterone. Difosfonati È stato eseguito uno studio in 403 donne affette da metastasi ossee di carcinoma della mammella che sono state randomizzate, dopo avere ricevuto terapia con acido zoledronico o pamidronato somministrati ogni mese per almeno 9 mesi, a ricevere acido zoledronico ogni 4 settimane (terapia standard) versus acido zoledronico ogni 12 settimane per via endovenosa25. Questo era uno studio di non inferiorità. Ad un follow-up mediano di 11,9 mesi gli eventi scheletrici (ipercalcemia, fratture ossee vertebrali e non vertebrali, radioterapia su lesioni ossee o chirurgia per lesioni ossee) erano osservati nella stessa percentuale di pazienti (22% versus 23,2%) così come non significativamente differente era il tempo al primo evento scheletrico. Gli effetti collaterali dei due trattamenti erano simili ma meno insufficienza renale (7,9% versus 9,6%) e meno osteonecrosi della mandibola (0 versus 2) erano osservate nelle pazienti sottoposte ad acido zoledronico ogni 12 settimane. Anoressia La anoressia/cachessia è una condizione debilitante caratterizzata da scarso appetito e diminuzione del peso corporeo principalmente dovuto alla perdita di massa corporea magra. I trattamenti finora disponibili hanno limitata efficacia e potenziali rischi specie in pazienti con neoplasie avanzate. La grelina produce il rilascio dell’ormone della crescita stimolando così molteplici patways che regolano il peso corporeo, la massa corporea magra, l’appetito ed il metabolismo. L’anamorelina, un agonista dei recettori della grelina attivo per via orale, è stata valutata in due studi randomizzati doppio-cieco (ROMANA 1 e ROMANA 2) versus placebo in 979 pazienti con carcinoma del polmone non microcitoma non resecabile stadio IIIB e IV con cachessia (perdita di peso ≥ 5% entro i precedenti 6 mesi o indice di massa corporea (BMI) < 20 kg/m2) quasi tutti sottoposti a chemioterapia o radioterapia26. Gli endpoint co-primari erano le modifiche a 12 settimane rispetto alle condizioni basali della massa corporea magra e della forza nella mano non dominante, mentre endpoint secondari erano le modifiche nel tempo del peso, della qualità di vita e della sopravvivenza globale. L’anamorelina a dosi di 100 mg al giorno per 12 settimane ha aumentato significativamente la massa corporea magra (+1,10 kg versus 0,44 kg in ROMANA 1 e + 0,75 kg versus – 0,96 kg in ROMANA 2) il peso corporeo (+ 2,20 kg versus 0,14 kg e + 0,95 versus + 0,57 kg, rispettivamente). L’anamorelina non ha migliorato la forza nella mano non dominante ma ha migliorato i sintomi dei pazienti. Il trattamento è stato ben tollerato: gli effetti collaterali più importanti sono stati iperglicemia nel 5,3% e nausea nel 3,8% dei pazienti nello studio ROMANA

1 e iperglicemia nel 4,2% e diabete mellito nel 2,1% nello studio ROMANA 2. Neurotossicità periferica Nel 2014 sono state pubblicate le linee guida dell’ASCO sulla prevenzione ed il trattamento della neuropatia periferica in pazienti con cancro27. Sono stati valutati 48 studi randomizzati, studi eterogeni spesso con campione di pazienti insufficiente per evidenziare differenze clinicamente importanti. I differenti endpoint primari utilizzati negli studi così come i differenti strumenti utilizzati per valutare la neurotossicità periferica spesso non permettono un confronto tra loro. Sulla base delle poche evidenze di buona qualità disponibili non si possono raccomandare farmaci per la prevenzione della neuropatia periferica indotta da chemioterapia. Per quanto riguarda invece il trattamento si suggerisce l’uso della duloxetina. Infine, sebbene gli studi non siano conclusivi riguardo gli antidepressivi, la gabapentina ed un gel per uso topico contenente baclofen, amitriptilina e ketamina questi trattamenti si possono utilizzare sulla base di evidenze disponibili in altre condizioni di neuropatia periferica. Nel 2014 è stato pubblicato per esteso il lavoro sui sali di calcio e magnesio nella prevenzione della neuropatia periferica da oxaliplatino. In questo studio 353 pazienti affetti da carcinoma del colon-retto sottoposti a chemioterapia con FOLFOX sono stati randomizzati a ricevere Ca/Mg prima e dopo oxaliplatino o CA/Mg solo prima o placebo28. L’endpoint primario era la neurotossicità cumulativa misurata con il modulo sulla neurotossicità indotta dalla chemioterapia del questionario EORTC sulla qualità di vita. Non vi erano differenze significative tra i tre bracci dello studio nella neurotossicità cumulativa né nel tempo alla insorgenza di neuropatia di grado 2. Nessuna efficacia infine era evidente nel ridurre la neuropatia acuta con sali di Ca/Mg. Sono stati pubblicati inoltre altri due studi con risultati negativi. In uno di questi, 185 pazienti sottoposti a paclitaxel e carboplatino sono stati randomizzati a ricevere glutatione 1,5 gr/m2 ev o placebo 15 minuti prima della chemioterapia29. L’endpoint primario era la neuropatia periferica misurata dal modulo del questionario EORTC sulla qualità di vita. Non vi erano differenze significative nella neurotossicità periferica, nella incidenza della sindrome dolorosa acuta da paclitaxel e nel tempo alla progressione della malattia. La tollerabilità dei due trattamenti era simile. In un altro studio 462 pazienti che hanno completato la chemioterapia da almeno un mese e con dolore da neuropatia periferica indotta dalla chemioterapia ≥ 4 sono stati randomizzati a ricevere una crema applicata nelle aree con dolore due volte al giorno contenente amitriptilina al 4% e ketamina al 2% o placebo30. Dopo 6 settimane non vi era una riduzione significativa dei sintomi della neuropatia periferica fra i due trattamenti. Fatigue Tutti i farmaci studiati per il trattamento della fatigue da cancro (psicostimolanti come il metilfenidato, dexmetilfenidato, dexanfetamina, antidepressivi, inibitori dell’acetilcoliCASCO — Inverno 2015

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nesterasi come il donepezil, L-carnitina e coenzima Q) hanno dato risultati negativi eccetto il desametasone dimostratosi utile nel migliorare la fatigue nei pazienti terminali. È pertanto necessario studiare popolazioni di pazienti più selezionate (fatigue di tutti i gradi versus fatigue di grado moderato-severo versus fatigue di grado severo; pazienti sottoposti a chemioterapia versus pazienti sottoposti a radioterapia versus pazienti terminali versus pazienti lungo sopravviventi) e fare più studi fisiopatologici per identificare i mediatori della fatigue. Nel 2014 è stato pubblicato uno studio randomizzato doppio-cieco che ha valutato il modafinil versus placebo in 208 pazienti con NSCLC. Sono stati arruolati nello studio pazienti con performance status secondo ECOG 0-2, non trattati con chemioterapia o radioterapia nelle ultime 4 settimane e con fatigue ≥ 5 in una scala d 0 A 1031. Il modafinil era somministrato a dosi di 100 mg nei giorni 1-14 e 200 mg nei giorni 15-28. L’endpoint primario erano le modifiche della fatigue al giorno 28 valutate con il questionario FACIT-fatigue. Purtroppo lo score migliorava con ambedue i trattamenti ma senza differenze significative tra di loro. Diarrea da chemioterapia In uno studio randomizzato 139 pazienti con carcinoma del colon-retto che iniziavano terapia adiuvante o per metastasi con fluorouracile, capecitabina e/o irinotecan sono stati randomizzati a ricevere octreotide LAR 30 mg intramuscolo ogni 4 settimane con inizio al primo ciclo di chemioterapia e poi continuato per 6 mesi o il trattamento di scelta in caso di diarrea32. Diarrea era osservata in una percentuale non diversa tra i due gruppi di pazienti (76,1% trattati con octreotide LAR versus 78,9% trattati se compariva diarrea) così come non significativa era la percentuale di ospedalizzazioni, di pazienti che necessitavano idratazione ev e la loro qualità di vita. Mucosite Nel 2014 sono state aggiornate le linee guida del MASCC/ISOO per il trattamento delle mucositi secondarie a trattamenti antitumorali33. Per la mucosite gastrointestinale sono raccomandati i seguenti trattamenti: — Amifostina ev per prevenire la proctite da radioterapia; — Octreotide >100μg sc due volte al giorno per diarrea da chemioterapia (standard o alte dosi) resistente alla loperamide. Sono invece suggeriti i seguenti trattamenti: — Amifostina ev per prevenire esofagite da chemioterapia ± radioterapia nel NSCLC; — clistere di sucralfato per proctite cronica sanguinante da radioterapia; — Sulfasalazina 500 mg x 2 volte al giorno per prevenire enteropatia da radioterapia sulla pelvi; — Probiotici contenenti Lactobacillus per prevenire diarrea da chemioterapia e/o radioterapia per una neoplasia pelvica. Nel trattamento della mucosite orale sono invece raccomandati: — Crioterapia orale (30 minuti) per prevenire mucosite da bolo di fluorouracile; — Palifermina (60 mg/kg/al giorno) tre giorni prima e tre giorni dopo il trapianto di midollo; — Laserterapia a basso voltaggio per prevenire mucosite indotta da alte dosi di chemioterapia con o senza irradiazione totale corporea; — patient controlled analgesia con morfina per dolore da mucosite orale in pazienti sotto10

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posti a trapianto di midollo; — Sciacqui di benzidamina per prevenire mucosite in pazienti con neoplasia testa-collo sottoposti a dosi moderate di radioterapia senza chemioterapia. Sono invece trattamenti suggeriti: — Igiene orale; — Crioterapia orale per alte dosi di melphalan ± irradiazione totale corporea (trapianto); — Laserterapia a basso voltaggio per radioterapia senza chemioterapia (testa-collo); — Fentanyl transdermico per dolore in pazienti sottoposti a chemioterapia (standard o alte dosi) con o senza irradiazione corporea totale; — Sciacqui di morfina al 2% per dolore da radioterapia più chemioterapa (testa-collo); — Sciacqui di doxepina 0,5% per dolore da mucositi; — Supplementi di zinco per mucosite da radioterapia o radioterapia più chemioterapia. Tossicità cutanea Il trattamento della sindrome mano-piede, relativamente frequente in pazienti sottoposti a capecitabina, doxorubicina liposomiale, sorafenib ed altre targeted therapies, è essenziale per evitare interruzioni del trattamento o ritardi nella sua somministrazione. Una metanalisi ha esaminato 10 studi pubblicati: il celecoxib è più efficace del placebo nella sindrome mano-piede di grado moderata-severa e di tutti i gradi34. La piridossina e la formulazione in crema di urea e acido lattico non sono efficaci. Nessun farmaco è stato provato efficace nella sindrome mano-piede lieve. Broncorrea È definita come la produzione di più di 100 ml al giorno di sputo acquoso; le secrezioni possono raggiungere anche 9 litri al giorno. È tipicamente associata con neoplasie, in particolare il carcinoma bronchioloalveolare specie mucinoso o le metastasi polmonari. Gefitinib ed erlotinib possono migliorare o talora risolvere la broncorrea nei pazienti con carcinoma bronchioloalveolare in meno di una settimana35. Gli inibitori dell’EGFR possono ridurre la produzione di mucina inibendo la sintesi di MUC5AC nelle cellule secernenti mucina. Sono stati anche segnalati pazienti con broncorrea che hanno ottenuto dei benefici dall’associazione di macrolidi più steroidi, o dall’inalazione di indometacina. Infine, un articolo riporta una paziente affetta da carcinoma bronchioloalveolare del polmone con importante broncorrea in cui l’octreotide somministrato ev in infusione continua o per via sottocutanea è stato in grado di controllare la broncorrea36. •

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Gestione eventi avversi

Tossicità di ramucirumab, ceritinib, olaparib

Elisa Minenza Struttura Complessa di Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni

RIASSUNTO La Food and Drug Administration (FDA) ha approvato ad aprile 2014 il ramucirumab per il trattamento di pazienti affetti da tumore allo stomaco o della giunzione gastro-esofagea in stato avanzato in progressione ad una prima linea di chemioterapia; nello stesso periodo è stato approvato dall’FDA il ceritinib per i pazienti affetti da carcinoma del polmone con microcitoma avanzato con traslocazione di ALK resistenti a chemioterapia e a terapia con crizotinib. La Commissione Europea ha concesso l’autorizzazione all’immissione in commercio di olaparib come prima terapia per il trattamento di mantenimento in pazienti adulti con carcinoma ovarico epiteliale sieroso ad alto grado BRCA relato, in ricaduta di malattia, che presentino una risposta completa o parziale a una chemioterapia a base di platino. Lo scopo di questo articolo è quello di analizzare i più importanti effetti collaterali di questi nuovi farmaci. Parole chiave. Tossicità, ramucirumab, ceritinib, olaparib, carcinoma gastrico, carcinoma polmonare, carcinoma ovarico, fatigue, nausea.

SUMMARY

Toxicity of ramucirumab, ceritinib, olaparib The Food and Drug Administration (FDA) approved ramucirumab, in 2014th April, for treatment of metastatic gastric cancer or gastroesophageal junction cancer after first-line chemotherapy progression; in the same period the FDA approved ceritinib for metastatic NSCLC and ALK translocation resistant to chemotherapy and crizotinib therapy. The European Commission has granted marketing authorization of olaparib for maintenance treatment after platinum-basedchemotherapy for epithelial high-grade serous BRCA related disease relapse, for patients which present a complete or partial response to platinum-based chemotherapy. The purpose of this article is to analyze the most important side effects of these new drugs. Key words. Toxicity, ramucirumab, ceritinib, olaparib, gastric cancer, lung cancer, ovarian cancer, fatigue, nausea.

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CASCO — Inverno 2015

RAMUCIRUMAB

Introduzione Il ramucirumab è un anticorpo monoclonale completamente umanizzato che lega con alta affinità il recettore del fattore di crescita dell’endotelio vascolare 2 (VEGFR-2), recettore transmembranario ad attività tirosino-chinasica espresso nella superficie dello stroma peritumorale delle cellule endoteliali1. Il ramucirumab è stato approvato nell’aprile 2014 dalla Food and Drug Administration per il trattamento di II linea del carcinoma gastrico o della giunzione gastro-esofagea dopo progressione ad una prima linea di chemioterapia con fluoro-pirimidine o platino2. Dal 5 novembre 2014 inoltre è stata estesa l’approvazione dell’indicazione alla combinazione di ramucirumab con paclitaxel settimanale3. La terapia di prima linea per il carcinoma gastrico avanzato consiste nell’impiego della chemioterapia (in combinazione o meno al trastuzumab nei carcinomi che esprimono HER24 con una sopravvivenza globale mediana di circa 8-12 mesi; non esiste invece un trattamento standard per la II linea. Impiego clinico Lo studio registrativo di ramucirumab doppio-cieco, placebo-controlled di fase III, REGARD2, ha randomizzato 355 pazienti affetti da carcinoma gastrico o della giunzione gastro-esofagea, malattia avanzata, progrediti dopo una prima linea di chemioterapia mantenendo un buon Performance Status (0-1) a terapia con ramucirumab a somministrazione bisettimanale versus placebo (random 2:1). L’endpoint primario dello studio era la sopravvivenza globale. Gli endpoint secondari comprendevano la sopravvivenza libera da progressione, la sopravvivenza libera da progressione a 12 settimane, il tasso di risposta globale e la sicurezza. È stata osservata una sopravvivenza globale mediana di 5,2 mesi con ramucirumab rispetto ai 3,8 mesi con placebo (HR= 0,776). La sopravvivenza a 12 mesi è stata del 18% nei pazienti in terapia con ramucirumab rispetto al 12% dei pazienti in terapia di supporto esclusiva. La durata mediana di terapia con ramucirumab è stata di 8 settimane (4 infusioni). La sopravvivenza mediana libera da progressione è risultata di 2,1 mesi nel braccio con ramucirumab rispetto a 1,3 mesi con placebo (HR=0,483) e anche il tasso di controllo della malattia è risultato superiore con ramucirumab (49% vs 23%, p<0,0001). Più recentemente è stata valutata l’associazione di ramucirumab con paclitaxel settimanale rispetto alla sola monochemioterapia con taxani nel setting refrattario (II linea) in uno studio internazionale, multicentrico, randomizzato di


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fase III, lo studio RAINBOW3. L’endpoint primario dello studio era la sopravvivenza globale e sono stati arruolati 655 pazienti nello studio. Lo studio è risultato positivo con un vantaggio in sopravvivenza globale della combinazione rispetto alla monoterapia di 9,63 mesi rispetto a 7, 36 mesi (HR=0,807, p=0,0169). Positivi anche gli endpoint secondari dello studio di sopravvivenza libera da progressione pari rispettivamente a 4,4 mesi rispetto a 2,86 mesi (HR=0,635, p=0,0001) e il tasso di risposte (28% vs 16%, p=0,0001). L’efficacia di ramucirumab è risultata similare nei pazienti caucasici rispetto a quelli asiatici. Negativa è risultata invece l’attività dell’associazione di ramucirumab con la chemioterapia (regime FOLFOX6) nella prima linea di trattamento5. Uno studio multicentrico, doppio-cieco di fase II su 168 pazienti affetti da carcinoma esofageo, gastrico o della giunzione gastro-esofagea malattia avanzata o localmente avanzata sono stati randomizzati a ricevere chemioterapia con il regime FOLFOX6 in combinazione a ramucirumab o placebo. Non è stata documentata attività dell’associazione di ramucirumab con la chemioterapia rispetto alla chemioterapia da sola: la sopravvivenza libera da progressione (endpoint primario dello studio) è risultata sovrapponibile nei due gruppi (6,4 vs 6,7 mesi, HR=0,98, p=0,89). Da segnalare che il 45% dei pazienti in studio era affetto da carcinoma dell’esofago e che c’è stata una rilevante percentuale di pazienti nel braccio della combinazione (27% vs 10%) che ha sospeso il trattamento prima dell’evidenza di progressione di malattia. Nell’ambito del carcinoma del polmone non a piccole cellule (NSCLC) all’ultimo ASCO 2014 è stato presentato lo studio REVEL6, studio randomizzato, doppio-cieco di fase III che ha randomizzato pazienti in progressione dopo una prima linea di trattamento con chemioterapia a base di platino a ricevere terapia con docetaxel 75 mg/mq + ramucirumab (10 mg/kg) (n=628 pazienti) o chemioterapia con docetaxel 75 mg/mq + placebo (n=625 pazienti). La sopravvivenza globale, endpoint principale dello studio, è risultata positiva: 10,4 mesi per il braccio sperimentale rispetto a 9,1 mesi per la sola chemioterapia (HR=0,857, p=0,0235); risultati similari per i pazienti ad istologia squamosa o non-squamosa. I pazienti che hanno ricevuto ramucirumab hanno presentato anche una più lunga sopravvivenza libera da progressione (4,5 vs 3 mesi, p<0,0001) e tasso di risposte obiettive (22,9 vs 13,6%, p<0,001). In corso studi di fase II che valutano l’associazione di ramucirumab alla chemioterapia per la prima linea di trattamento. Negativi anche gli studi inerenti il carcinoma della mammella, in particolare lo studio di fase II presentato al’ultimo ASCO 20147 di combinazione di ramucirumab 10 mg/kg ogni 3 settimane con eribulina 1,4 mg/mq gg1-8 q21 rispetto a terapia con eri bulina e placebo in pazienti pretrattati con antracicline e taxani. Lo studio non ha raggiunto il suo endpoint primario con una sopravvivenza libera da progressione di 4,4 mesi per il braccio sperimentale rispetto a 4,1 mesi del braccio con il placebo (p=0,4).

Tossicità Negli studi di fase I è emerso che ramucirumab potrebbe essere somministrato con cadenza settimanale, bisettimanale, o ogni 3 settimane. La somministrazione una volta ogni 2 o 3 settimane non è risultata associata a una dose massima tollerata. Come per altri farmaci ad azione antiangiogenica, le principali tossicità riportate con l’utilizzo di ramucirumab sono state l’ipertensione che generalmente viene gestita con l’utilizzo di farmaci antiipertensivi o sospensioni transitorie del trattamento, eventi vascolari trombotici e proteinuria. Il profilo di tossicità di ramucirumab è risultato maneggevole negli studi di fase III in pazienti affetti da carcinoma gastrico2,3. Eventi avversi di grado 3/4 sono risultati rari. Più del 25% dei pazienti arruolati negli studi clinici ha comunque presentato tossicità: fatigue (51,4%), mal di testa (51,4%), edemi periferici (35,1%), diarrea (35,1%), nausea (32,4%), infezioni delle alte vie respiratorie (32,4%), dolore addominale (29,7%), anoressia (29,7%), costipazione (29,7%), epistassi (29,7%), proteinuria (29,7%), artralgie (27,0%), tosse (27,0%), e dispnea (27,0%). Nello studio REGARD2 gli eventi avversi di grado lieve sono risultati pressoché sovrapponibili nei due gruppi (223 pazienti (94%) in terapia con ramucirumab rispetto a 101 pazienti (88%) in terapia con placebo); gli eventi avversi più comunemente registrati di grado lieve (G1-2) nei pazienti trattati con ramucirumab sono stati: fatigue, dolore addominale, anoressia, vomito, stipsi, disfagia, ascite, iponatriemia e anemia. Anche l’incidenza di eventi avversi di grado ≥ 3 è risultata similare nei due gruppi e l’utilizzo del ramucirumab non è stato associato ad un peggioramento della qualità di vita (57% nel braccio di terapia con ramucirumab e 58% nel braccio di trattamento con placebo). Solo l’ipertensione è risultata più frequentemente associata a terapia con ramucirumab, sia in generale (16,1% con ramucirumab vs 7,8% placebo), sia di grado 3 (7,6% vs 2,6% rispettivamente). La terapia con ramucirumab non è stata invece associata ad aumento di sanguinamenti, trombosi venose o perforazioni gastrointestinali. Da segnalare che 128 pazienti arruolati nello studio aveva un’età superiore a 65 anni. Cinque morti nel braccio di terapia con ramucirumab (2%) rispetto a 2 morti (2%) nel braccio del placebo sono state correlate al farmaco. Nello studio RAINBOW3 l’aggiunta di ramucirumab alla chemioterapia aumenta il rischio degli eventi avversi di G3 relati alla chemioterapia (82% nel braccio di terapia con ramucirumab vs 63% della sola chemioterapia), in particolare la neutropenia (40,7% vs 18,8%), leucopenia (17,4% vs 6,7%), fatigue (11,9% vs 5,5%) e neuropatia (8,3% vs 4,6%). L’ipertensione di grado ≥ 3 è risultata più incidente nel braccio di terapia con ramucirumab (14,7% vs 2,7%). L’aumento di incidenza di eventi avversi di G3 non ha CASCO — Inverno 2015

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però comportato una maggiore percentuale di discontinuazione del trattamento. Anche le morti tossiche correlate al trattamento sono risultati sovrapponibili nei due bracci in studio (4% vs 4,6%). Per quanto riguarda il NSCLC, nello studio REVEL6 gli eventi avversi più frequenti nel braccio sperimentale sono stati: fatigue (14% vs 10%), neutropenia (49% vs 40%), leucopenia (14% vs 12%), neutropenia febbrile (16% vs 10%) e ipertensione (6% vs 2%). Le tossicità riportate con ramucirumab sono risultate maneggevoli con piccole modifiche del dosaggio o con terapie di supporto associate. Nello studio sul carcinoma della mammella7 ramucirumab in associazione ad eribulina ha determinato una maggiore incidenza di effetti collaterali di ogni grado, in particolare fatigue (64% vs 57%), mal di testa (39% vs 15%), diarrea (25% vs 15%), sanguinamenti (4,6% vs 18,8%), ipertensione (1,5% vs 13,0%) e scompenso cardiaco congestizio (0% vs 1,4%). Anche i risultati dello studio di fase III8 di associazione di ramucirumab + docetaxel rispetto alla sola chemioterapia su 1.144 pazienti affetti da carcinoma della mammella avanzato HER2 negativo in prima linea di trattamento non hanno evidenziato alcun beneficio per il braccio di terapia sperimentale a scapito di un incremento di tossicità nel braccio del ramucirumab, soprattutto fatigue, ipertensione, neutropenia febbrile, eritrodisestesia palmo-plantare e stomatiti.

CERITINIB

Introduzione Il 3-7% circa dei carcinomi del polmone non a piccole cellule esprime la traslocazione di EML4-ALK. Il crizotinib è il farmaco registrato in Italia per la II linea di trattamento di pazienti affetti da NSCLC stadio IV e traslocazione di ALK in progressione ad una prima linea di chemioterapia contenente platino. Lo studio registrativo di fase III (PROFILE 007) ha dimostrato un miglioramento della sopravvivenza libera da progressione per i pazienti trattati con crizotinib (n=173) rispetto a quelli sottoposti a chemioterapia (n=174): 7,7 mesi vs 3 mesi, p<0,0019. All’ultimo ASCO 2014 è stato presentato lo studio di fase III PROFILE 101410 che ha documentato in 343 pazienti randomizzati 1:1 a terapia con crizotinib 250 mg due volte al giorno rispetto a chemioterapia con platino + pemetrexed una migliore sopravvivenza libera da progressione (endpoint primario dello studio) (10,9 mesi vs 7 mesi, p<0,0001) e tassi di risposta di circa il 70% per la piccola molecola nella prima linea di trattamento di pazienti affetti da NSCLC stadio IV con traslocazione di EML4-ALK. Nonostante le iniziali risposte però la maggior parte dei pazienti sviluppa resistenza a crizotinib entro i primi 12 mesi di trattamento. Ceritinib (LDK378) è una piccola molecola inibitore della tirosin chinasi ALK con meccanismo competitivo per l’ATP. Diversamente da crizotinib, ceritinib non inibisce l’attività chinasica di MET ma può inibire il recettore IGF-1 (insulin-like 14

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growth factor-1) anche se con una potenza circa 50 volte inferiore rispetto all’inibizione di ALK. Ceritnib ha mostrato di avere efficacia sia in pazienti crizotinib naive che in pazienti che hanno sviluppato resistenza a crizotinib.

Impiego clinico In uno studio multicentrico di fase I, 130 pazienti globalmente (59 all’inizio poi 130 con una successiva fase di espansione) con traslocazione di EML4-ALK hanno ricevuto ceritinib per os dalla dose di 50 mg a quella di 750 mg una volta al giorno11. Tra i 114 pazienti che hanno ricevuto ceritinib alla dose di 400-750 mg/die il tasso di risposte è stato di circa il 58% circa con risposte che si sono osservate sia nel gruppo di pazienti con mutazioni di resistenza al crizotinib, sia in pazienti senza individuate mutazioni di resistenza e anche in pazienti con metastasi al SNC non trattate localmente. La sopravvivenza mediana libera da progressione è stata di 7 mesi nei pazienti trattati con ceritinib alla dose di 400 mg. Sulla base di questi risultati ceritinib è stato approvato dalla Food and Drug Administration (FDA) il 29-04-2014 in pazienti affetti da NSCLC e traslocazione di ALK resistenti a terapia con crizotinib. All’ASCO 201412 è stata presentata la fase di espansione dello studio ASCEND-1 di fase I, multicentrico (20 centri). Sono stati valutati 255 pazienti ALK traslocati, 246 avevano un NSCLC avanzato ALK traslocato, 163 di essi erano già stati trattati con inibitori di ALK (tutti crizotinib e 5 di essi anche alectinib) mentre 83 di essi erano naive a terapie con ALK inibitori. La terapia con ceritinib alla dose di 750 mg/die induceva un tasso di risposte del 58,5% in tutti i pazienti, percentuale poco inferiore nei pazienti pretrattati (54,6%); 66,3% invece era il tasso di risposte nei pazienti naive per inibitori di ALK. La durata della risposta è di circa 9,69 mesi (7,39 nei pazienti pretrattati mentre non è stata ancora stimata nei pazienti naive). La sopravvivenza libera da progressione è di circa 8,21 mesi (considerando tutti i pazienti); 6,9 mesi per i pazienti pretrattati e non ancora raggiunta nei pazienti naive. Ceritinib inoltre ha documentato attività nei pazienti affetti da metastasi cerebrali. Due studi di fase II hanno completato l’arruolamento e sono in attesa di pubblicazione; l’obiettivo di questi studi è valutare l’attività di ceritinib in pazienti affetti da NSCLC stadio IV ALK traslocati crizotinib naive o in progressione dopo chemioterapia di prima linea e crizotinib.Sono inoltre in corso due studi di fase III con lo stesso disegno per valutare l’efficacia di ceritinib. Tossicità La dose massima tollerata di ceritinib è di 750 mg una volta al giorno11. Il ceritinib è associato ad una maggiore percentuale di eventi avversi rispetto al crizotinib, di ogni grado, tra i più frequenti: nausea (82%), diarrea (75%), vomito (65%), fatigue (47%) e incremento delle transaminasi (35%). Le tossicità dose-limitanti sono state: diarrea (alla dose di ol-


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tre 600 mg), vomito (dose di 750 mg), disidratazione (alla dose di 600 mg), incremento delle transaminasi (alla dose di 400 mg) e ipofosfatemia (alla dose di 400 mg). Tutte queste tossicità si sono risolte con la sospensione temporanea del trattamento; solo un paziente ha definitivamente sospeso il trattamento per progressione di malattia durante la sospensione. Gli eventi avversi più frequenti di grado 3 sono stati: incremento delle transaminasi (ALT nel 21% dei casi eAST nell’11%), diarrea nel 7% dei casi e incremento dei livelli di lipasi nel 7%, tutti reversibili con la sospensione del trattamento. Sono stati segnalati 4 casi di malattia interstiziale polmonare, tutti risolti con la sospensione del trattamento e con la somministrazione di terapie standard. Dei 130 pazienti complessivamente, 66 (51%) hanno richiesto almeno una riduzione di dose e la durata mediana di interruzione del trattamento è stata di 7,3 giorni. Otto pazienti (6%) hanno interrotto definitivamente il trattamento a causa degli eventi avversi. Alla dose di 750 mg il 62% dei pazienti (50 degli 81 pazienti) ha richiesto almeno una riduzione di dose. In 32 pazienti tali riduzioni avvenivano al terzo ciclo o dopo il terzo ciclo di trattamento. Non ci sono state morti tossiche correlate al trattamento. Le tossicità più frequentemente descritte nei 255 pazienti della fase di espansione dello studio ASCEND-1(12) erano: diarrea (84%), nausea (77%), vomito (57%), fatigue (36%), e incremento delle ALT (36%). I più comuni eventi avversi di G3/4 erano: incremento delle ALT increased (21%) e delle AST (8%). Il 59% dei pazienti (150/255) ha somministrato ceritinib almeno con una riduzione di dose dovuta ad effetti collaterali. Circa il 9% dei pazienti (24/255) sospendevano il trattamento con ceritinib per gli eventi avversi. Il 3,9% dei pazienti (10/255) ha sviluppato polmoniti interstiziali, tra questi 3 pazienti hanno interrotto definitivamente il trattamento e si è registrato un caso di decesso. Il trattamento con ceritinib è in corso per il 58% dei pazienti.

OLAPARIB Olaparib è un farmaco appartenente alla classe dei PARP (poli-ADP-riboso polimerasi)-inibitori che sfrutta le alterazioni dei processi di riparazione del DNA tumorale per indurre apoptosi nelle cellule cancerose. Olaparib viene somministrato per via orale; alte dosi di olaparib (400 mg/due volte al giorno) sono associate a più alto tasso di risposte e più lunga sopravvivenza libera da progressione rispetto a dosi basse (100 mg/due volte al giorno)12. Studi di fase I/II hanno dimostrato sicurezza e attività di olaparib in pazienti affetti da carcinoma della mammella con mutazione a carico del BRCA, pazienti affetti da carcinoma ovarico (tra cui pazienti con istotipo sieroso ad alto grado in ripresa), carcinoma prostatico e pancreatico pretrattato con gemcitabina. Nello studio di fase II di Kaufman recentemente pubblicato14 olaparib alla dose di 400 mg/due volte al giorno è stato somministrato in 298 pazienti affetti da carcinomi BRCA re-

lati, in particolare carcinoma ovarico resistente a terapia con platino, carcinoma mammario avanzato in progressione a più di tre linee di chemioterapia, carcinomi pancreatici pretrattati con gemcitabina e carcinomi prostatici oronorefrattari e in progressione ad un regime di chemioterapia. Il tasso di risposte è stato del 26,2%, 31,1%, 12,9%, 21,7% e 50% rispettivamente per il carcinoma ovarico, mammario, pancreatico e prostatico. Malattia stabile per più di 8 settimane è stata osservata nel 42% dei pazienti (40%, 47%, 35% e 25% rispettivamente nei pazienti con carcinoma ovarico, mammario, pancreatico e prostatico). Nello studio di Kaufman gli effetti collaterali più frequenti della terapia (di ogni grado) con olaparib sono stati: fatigue e nausea nel 60% circa dei pazienti, seguiti da vomito nel 39% circa, anemia, diarrea e dolore addominale in circa il 30% dei pazienti, diminuzione dell’appetito, dispepsia e disgeusia in circa il 20% dei pazienti, mal di testa in circa il 16% dei pazienti. Eventi avversi di grado ≥ 3 hanno coinvolto 162 pazienti (54,4% di essi) e nove pazienti sono deceduti a causa di eventi avversi (2 morti per sepsi, 2 per leucosi, uno per BPCO, 1 per embolia polmonare, 1 per sindrome mielodisplastica, 1 per deiscenza della ferita e 1 per evento cerebro-vascolare). La sepsi e la sindrome mielodisplastica potrebbero essere legati ad olaparib. Il 3,7% dei pazienti ha dovuto discontinuare il trattamento per tossicità; in particolare per iperbilirubinemia anemia, nausea, dolore addominale, incremento delle transaminasi, ostruzione intestinale, trombocitopenia, leucopenia, vomito e iponatriemia. Il 40,3% dei pazienti è stato sottoposto a modifiche del dosaggio per la somministrazione di olaparib. Uno studio di fase II15 ha inoltre valutato l’attività di olaparib in 91 pazienti (65 affetti da carcinoma ovarico e 26 pazienti con carcinoma mammario triplo negativo in parte BRCA mutati). Risposte oggettive sono state documentate in pazienti affette da carcinoma ovarico, in particolare in 7 delle 17 pazienti con mutazione del BRCA e in 11 delle 46 pazienti senza mutazioni. Non sono state documentate risposte oggettive in pazienti affette da carcinoma della mammella. Buon profilo di tossicità per olaparib; gli effetti collaterali più frequenti sono stati: fatigue (nel 70% dei pazienti con carcinoma ovarico e nel 50% di pazienti con carcinoma mammario), nausea globalmente in circa il 60% dei pazienti, vomito in circa il 35% dei pazienti e anoressia in circa il 30% dei pazienti. Per quanto riguarda il carcinoma ovarico, lo studio di Ledermann et al.16, randomizzato, placebo-controllato, di fase II ha documentato che il mantenimento con olaparib rispetto a placebo in pazienti affette da carcinoma ovarico sieroso ad alto grado platino sensibile è associato ad un miglioramento statisticamente significativo della sopravvivenza libera da progressione: 8,4 mesi per olaparib rispetto a 4,8 mesi con la chemioterapia (PFS quasi raddoppiata) e una riduzione del 65% del rischio di progressione per i pazienti sottoposti a terapia con inibitore di PARP. Ad una analisi ad interim per i dati di sopravvivenza questa è risultata pressoché sovrapponibile nei due gruppi (34,9 mesi vs 31,9 mesi) ma CASCO — Inverno 2015

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i dati sulla sopravvivenza globale non sono ancora maturi, inoltre circa il 22% dei pazienti aveva effettuato il crossover ad olaparib e la PFS mediana è stata di 11,2 vs 4,3 mesi di olaparib rispetto a placebo, p<0,0001, in particolare per i pazienti affetti da mutazione del BRCA. I pazienti sottoposti ad olaparib hanno presentato una maggiore percentuale di effetti collaterali ma generalmente di grado lieve (G1-2), in particolare la nausea che ha colpito il 68% dei pazienti sottoposti ad olaparib e il 35% dei pazienti sottoposti a terapia con placebo, fatigue nel 49% e 38% rispettivamente, vomito (32% vs 14%) e anemia (17% vs 5% rispettivamente). Dopo 6 mesi di terapia di mantenimento con olaparib il 55,6% di tutte le pazienti non ha subito alcuna alterazione della qualità di vita rispetto al 49,1% delle pazienti trattate con placebo; la qualità di vita è migliorata nel 27% delle pazienti trattate con olaparib rispetto al 20,8% delle pazienti trattate con placebo. La qualità di vita legata alla salute è stata valutata utilizzando il questionario FACT-O (Functional Assesment of Cancer Therapy Ovarian). Pochi giorni fa è stato pubblicato su Lancet Oncology17 uno studio randomizzato, open-label di fase II che ha valutato l’attività e la tossicità di olaparib in combinazione a chemioterapia con carboplatino e paclitaxel seguiti dal solo olaparib o della sola chemioterapia in pazienti affetti da carcinoma sieroso dell’ovaio ad alto grado in recidiva platino sensibile. Su 156 pazienti sono stati trattati con la terapia di combinazione, 121 hanno proseguito la terapia di mantenimento. Il 38% dei pazienti era portatore di una mutazione a carico dei geni BRCA. La sopravvivenza libera da progressione, endpoint primario dello studio, è risultata significativamente più lunga nel braccio di mantenimento con olaparib rispetto alla sola chemioterapia (12,2 mesi vs 9,6 mesi, p=0,0012), soprattutto nei pazienti con mutazione del BRCA. Le tossicità più frequentemente riportate nel braccio della combinazione di olaparib con chemioterapia sono state: alopecia, nausea, neutropenia, diarrea, mal di testa, neuropatia periferica, dispepsia per di più di lieve o moderata gravità e sono risultati più frequenti di circa il 10% rispetto alla sola chemioterapia. La neutropenia e l’anemia sono stati gli effetti collaterali più frequenti di grado 3. Eventi avversi di G3-4 hanno riguardato 12 degli 81 pazienti (15%) sottoposti a combinazione di olaparib e chemioterapia e 16 dei 75 pazienti (21%) trattati con sola chemioterapia. Sono in corso studi di fase III con olaparib in mantenimento in pazienti affette da carcinoma ovarico platino sensibili (SOLO-2). Olaparib in monoterapia viene somministrato alla dose di 400 mg/due volte al giorno sotto forma di capsule. Olaparib in monoterapia risulta quindi ben tollerato; circa il 25-40% dei pazienti trattati con olaparib riferisce effetti collaterali generalmente di grado lieve, tra i più frequenti ci sono: fatigue, mal di testa, disturbi gastrointestinali (come nausea, vomito, anoressia e dolore addominale). Studi di associazione di fase I tra inibitori di PARP e agenti che16

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mioterapici, soprattutto alchilanti hanno mostrato beneficio clinico per l’associazione, però importante profilo di tossicità per azione sinergica dei farmaci soprattutto per quello che riguarda la tossicità midollare e la fatigue18,19. All’ASCO di quest’anno19 è stata valutata la combinazione con random 1:1 di olaparib 400 mg/due volte al giorno e cediranib (inibitore dei recettori per il fattore di crescita vascolare endoteliale) 30 mg/die rispetto al solo olaparib in 90 donne affette da carcinoma ovarico BRCA mutato o sieroso di alto grado, platino sensibile e recidivato. La sopravvivenza libera da progressione mediana è stata di 17,7 mesi per il braccio della combinazione rispetto ai 9 mesi del solo olaparib. Le pazienti sono state stratificate in base alla presenza di mutazione a carico dei geni BRCA; nonostante studi precedenti abbiano dimostrato una maggiore sensibilità agli inibitori di PARP per donne affette da mutazione dei geni BRCA la sopravvivenza libera da progressione è risultata prolungata per le pazienti BRCA wild-type ed è stata rispettivamente di 16,5 mesi per la combinazione rispetto a 5,7 mesi della monoterapia con olaparib (p=0,008). Tali risultati andranno comunque confermati in studi di fase III. Anche l’associazione di olaparib con farmaci biologici può essere gravata da importanti effetti collaterali, sebbene diversi da quelli della chemioterapia; nello studio di fase II20 di associazione di olaparib e cediranib la loro combinazione a dose piena è stata gravata da importante tossicità: la tossicità di G3/4 risulta più alta per la combinazione (70%) rispetto al solo olaparib (7%); in particolare le tossicità più rilevanti sono state: fatigue (27 vs 7% rispettivamente), diarrea (23% vs 0%), ipertensione (39% vs 0%). Risultati in linea con gli effetti collaterali descritti nella precedente fase I, dei 28 pazienti arruolati 2 pazienti hanno presentato leucopenia e piastrinopenia di G4 ed il 75% dei pazienti ha presentato almeno un effetto tossico di G3, in particolare ipertensione di G3 nel 25% dei pazienti e fatigue di G3 nel 18% dei pazienti. L’FDA ha approvato olaparib il 18 dicembre 2014 con la procedura FDA’s Accelerated Approval Programme basata sull’evidenza dei dati in response rate e duration of response in attesa di verificare il beneficio clinico degli studi in corso di fase III confermatori. La Commissione Europea ha concesso l’autorizzazione all’immissione in commercio di olaparib capsule (400 mg due volte al giorno) come prima terapia per il trattamento di mantenimento in pazienti adulti con carcinoma ovarico epiteliale sieroso ad alto grado (inclusi cancro alle tube di Falloppio o carcinoma peritoneale primario), in ricaduta di malattia, legato a mutazione BRCA (germinale e/o somatica), che presentino una risposta completa o parziale a una chemioterapia a base di platino. •

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| Gestione eventi avversi | Tossicità di ramucirumab, ceritinib, olaparib

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Il punto su...

Crisi convulsive da metastasi cerebrali o tumori cerebrali primitivi: profilassi e terapia

Claudia Caserta Struttura Complessa di Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni

RIASSUNTO Le crisi epilettiche sono una complicanza frequente in pazienti con tumore cerebrale primitivo o secondario. I meccanismi patogenetici dell’epilessia nei pazienti con tumore cerebrale non sono stati completamente chiariti, e ciò ha rappresentato finora un ostacolo all’identificazione di nuovi target terapeutici per lo sviluppo di farmaci più efficaci. Non esiste consenso sul management ottimale dell’epilessia nei pazienti oncologici. La terapia anticonvulsivante è ampiamente utilizzata nei pazienti che abbiano avuto almeno una crisi epilettica, ma non esistono evidenze sufficienti a guidare la scelta del tipo di farmaco o combinazione di farmaci da utilizzare. Inoltre, l’appropriatezza della profilassi anticonvulsivante di lunga durata nei pazienti con tumore cerebrale primitivo o secondario che non abbiano mai avuto una crisi non è stata ancora stabilita. Nell’attività clinica quotidiana la decisione terapeutica dovrebbe essere il frutto della valutazione da parte di un gruppo multidisciplinare neuro-oncologico e dell’attenta discussione con il paziente del bilancio tra i potenziali rischi e benefici di ciascuna terapia. Parole chiave. Epilessia, tumore cerebrale, metastasi cerebrali, terapia antiepilettica, profilassi anticonvulsivante.

SUMMARY

Role of prophylaxis and anticonvulsant therapy in the management of brain tumors and metastases Brain tumours and metastases frequently cause epileptic seizures. The underlying mechanisms of epileptogenesis in patients with brain tumors are poorly understood. Better understanding of focal changes that are involved in epileptogenesis is essential to identify new therapeutic targets and to develop more effective treatments. Optimal management of epilepsy in these patients is not been defined. Anticonvulsants are widely used in patients with brain tumor after a first seizure. However, the available data are scarce and weak to recommend the choice of specific drug in this setting. Routine prophylactic use of anticonvulsants is not recommended because the lack of evidences suggesting any benefit from seizure prophylaxis in patients with brain tumor or metastases and no history of seizure. In daily clinical practice, the de18

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cision making requires a multidisciplinary approach and a broad discussion with the patient on the best risk-benefit ratio of each therapy in the individual patient. Key words. Epilepsy, brain tumor, brain metastases, anticonvulsant therapy, anticonvulsant prophylaxis.

Introduzione Le complicanze neurologiche sono piuttosto comuni nei pazienti oncologici. Tra queste, le crisi epilettiche rappresentano la prima manifestazione clinica in circa il 25-30% dei pazienti adulti con tumore cerebrale primitivo o metastatico ed esiste un rischio del 10-30% di avere una crisi epilettica durante il corso della malattia nei casi in cui la crisi non sia stata il sintomo di esordio1. I tumori cerebrali primitivi più frequenti negli adulti sono i gliomi; di questi il 70% circa sono gliomi di alto grado che colpiscono prevalentemente soggetti tra i 50 e i 60 anni, mentre il 30% sono gliomi di basso grado che colpiscono di solito pazienti più giovani. Le metastasi cerebrali sono un evento comune nei pazienti con tumore metastatico, con un’incidenza del 20-40%, in aumento a causa della maggiore disponibilità ed efficacia di terapie antitumorali che hanno prolungato la sopravvivenza dei pazienti. La presenza di una lesione intracranica predispone all’insorgenza di epilessia, ma il rischio e la frequenza delle crisi sono influenzati dall’istologia, dalla sede e dalla modalità di crescita del tumore. Gli istotipi a maggior rischio epilettogeno sono gli oligodendrogliomi in cui fino all’80-90% dei pazienti ha crisi epilettiche, i gliomi anaplastici (70%) e le metastasi da melanoma, carcinoma polmonare, carcinoma mammario e renale. L’esatta incidenza di crisi epilettiche nei pazienti con tumore metastatico è difficile da stabilire, poiché non esistono ampi studi prospettici o retrospettivi che abbiano valutato questo problema. Inoltre la diagnosi di epilessia non è sempre facile, poiché in molti casi nessun osservatore è presente all’evento, perché le crisi epilettiche possono essere facilmente confuse con altre manifestazioni neurologiche e perché le crisi parziali sono spesso misconosciute. La localizzazione del tumore influenza il rischio di epilessia: le lesioni più epilettogene sono quelle che coinvolgono i lobi parietale e temporale; i tumori a sede corticale hanno un maggior rischio di causare epilessia rispetto alle lesioni più profonde non corticali, ma anche le metastasi durali e leptomeningee possono causare crisi epilettiche. L’edema perilesionale rappresenta un fattore di rischio aggiuntivo. Le metastasi cerebrali causano crisi epilettiche con minore frequenza rispetto ai tumori cerebrali primitivi, probabilmente in virtù del loro tipico pattern di cre-


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scita sferico e non infiltrativo. Esistono infine fattori di rischio meno frequenti, come alterazioni metaboliche, cause farmacologiche, infettive e vascolari. Le più frequenti cause di crisi epilettiche nei pazienti oncologici sono descritte nella tabella I. In uno stesso paziente possono agire più fattori e pertanto un’anamnesi accurata è parte essenziale del work-up diagnostico di ciascun paziente. Clinicamente l’epilessia nel paziente oncologico può manifestarsi come crisi epilettica parziale, semplice o complessa, con o senza secondaria generalizzazione, e in quasi la metà dei casi è farmacoresistente. Quando non controllata, l’epilessia influisce negativamente sulla qualità di vita del paziente e dei suoi familiari: le crisi possono rendere necessario il ricovero in ospedale, limitare l’autonomia del paziente, causare la perdita di funzioni motorie o accelerare il deterioTabella I. Eziologia delle crisi epilettiche nei pazienti oncologici.

Fattori eziologici Tumori intracranici – Parenchimali

Cause Tumori cerebrali primitivi (Gliomi), Tumori metastatici

– Meningei

Tumori cerebrali primitivi (Gliomatosi meningea), Tumori metastatici (Linfomatosi, Carcinosi meningea)

Radioterapia

Aumento dell’edema perilesionale Radionecrosi

Chemioterapia

Cisplatino, methotrexate, ifosfamide, citarabina, 5-fluorouracile, paclitaxel

Agenti biologici o ormonali

IL-2, Interferon, Enzalutamide

Altri farmaci

Morfina, Aloperidolo, Fenotiazina, Antidepressivi triciclici, Antibiotici (chinolonici, betalattamici) Mezzo di contrasto iodato

Fattori metabolici – Iponatremia

Sindrome da inappropriata secrezione di ADH

– Ipoglicemia

Malnutrizione, Tumori del pancreas

– Ipocalcemia

Secondaria a farmaci (cisplatino, bifosfonati)

– Ipomagnesemia

Secondaria a farmaci (cisplatino)

– Ipossia

Tumori o metastasi polmonari, Fibrosi polmonare, Embolia polmonare

Cause cerebro-vascolari – Emorragiche

Intratumorale o perilesionale, Secondaria a piastrinopenia, Secondaria a farmaci antitumorali (antiangiogenici)

– Vascolari

Stroke, Vasculiti (paraneoplastiche, correlate al trattamento)

Infezioni

Herpes simplex, Herpes zoster, Cytomegalovirus Comuni batteri, Mycobatteri, Listeria Aspergillus, Cryptococcus

ramento cognitivo, incrementare la necessità di assumere dosaggi più elevati di farmaci anticonvulsivanti o di associare più di un farmaco, con il conseguente incremento dei potenziali eventi avversi. I meccanismi patogenetici dell’epilessia nei pazienti con tumore cerebrale non sono stati completamente chiariti, rappresentando un ostacolo all’identificazione di nuovi target terapeutici per lo sviluppo di farmaci più efficaci. Il management ottimale dell’epilessia nei pazienti oncologici non è stato definito. La terapia anticonvulsivante è ampiamente utilizzata nei pazienti che abbiano avuto almeno una crisi epilettica e nella profilassi nel periodo perioperatorio nei pazienti sottoposti a craniotomia, mentre l’appropriatezza della profilassi anticonvulsivante di lunga durata nei pazienti con tumore cerebrale primitivo o secondario che non abbiano mai avuto una crisi non è stata ancora stabilita1,2. Diagnosi La diagnosi di epilessia si basa sulla raccolta dettagliata della storia clinica del paziente, sull’esame clinico e neurologico, sui risultati di test di laboratorio, esami di neuroimaging e studio elettroencefalografico3. Il clinico deve cercare di ottenere un’accurata descrizione dell’evento: presenza o assenza di aura, elementi di focalità, comportamento del paziente immediatamente prima dell’evento, durata dell’evento e del periodo post-critico, presenza di residui deficit neurologici focali o cambiamenti dello stato mentale. È importante conoscere le comorbilità del paziente (storia di crisi epilettiche, traumi cranici, malattie cardiache e cerebrali, diabete e malattie metaboliche), l’anamnesi oncologica, comprendente diagnosi istologica, sede e stadio del tumore, terapie precedenti e in atto, l’anamnesi farmacologica del paziente, con particolare attenzione ai farmaci eventualmente assunti prima dell’insorgenza della crisi. L’esame fisico e neurologico può aiutare ad identificare le cause della crisi epilettica: la presenza di deficit neurologici focali suggerisce la presenza di una lesione focale intracranica; un alterato livello di coscienza, mioclonie e asterixis suggeriscono disordini metabolici. L’iter diagnostico dovrebbe includere l’esecuzione di alcuni esami di laboratorio: emocromo e profilo biochimico con dosaggio di glicemia, magnesio, sodio, calcio, esami colturali delle urine e del sangue, esame tossicologico completo. La TC o la RM dell’encefalo sono essenziali per identificare lesioni neoplastiche intracraniche, metastasi leptomeningee, ictus ischemici o emorragie. L’elettroencefalogramma può aiutare ad identificare la sede del focolaio epilettogeno. La diagnosi differenziale deve essere fatta con altri eventi che possono simulare una crisi epilettica, come sincopi, scosse miocloniche, tetano, encefalopatia transitoria, attacco ischemico transitorio, attacco di panico, eventi avversi causati da farmaci. Trattamento In caso di crisi epilettica in un paziente oncologico è sempre indicato iniziare una terapia anticonvulsivante? L’efficacia del trattamento antiepilettico è stata dimostrata nella popolazione generale affetta da epilessia, inclusi i pazienti con epilessia dovuta a lesioni neoplastiche cerebrali. CASCO — Inverno 2015

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Sulla base delle evidenze disponibili le principali linee guida internazionali raccomandano di iniziare la terapia anticonvulsivante immediatamente dopo la prima crisi epilettica e di proseguirla indefinitivamente. Secondo alcuni autori, i farmaci di nuova generazione (levetiracetam, pregabalin, gabapentin, lamotrigina, oxcarbazepina, topiramato, zonisamide e lacosamide) sarebbero da preferire ai farmaci antiepilettici di vecchia generazione (fenitoina, fenobarbital, carbamazepina, acido valproico) perché inducono minori eventi avversi e minori interazioni con altri farmaci, tra cui molti chemioterapici. Purtroppo, gli studi che hanno incluso solo pazienti oncologici sono pochi, piccoli per numerosità del campione e disomogenei per le caratteristiche della popolazione; spesso sono studi retrospettivi, non randomizzati e controllati, gli endpoint valutati sono diversi nei vari studi e non c’è uniformità nella valutazione dell’efficacia della terapia. In virtù di queste considerazioni, le evidenze disponibili a supportare la scelta del tipo di farmaco antiepilettico per il trattamento di pazienti adulti con tumore cerebrale primitivo o secondario, sono scarse e deboli, cioè non derivanti dai risultati di ampi studi, randomizzati, controllati4. Un piccolo studio randomizzato recentemente pubblicato ha confrontato il levetiracetam con il pregabalin nel trattamento di pazienti con tumori cerebrali primitivi e almeno una precedente crisi epilettica. Su 52 pazienti inclusi nello studio, non ci sono state differenze tra i due farmaci in termini di efficacia e tollerabilità5. In un altro piccolo studio pilota, prospettico, randomizzato, open-label, il levetiracetam è stato confrontato con la fenitoina nella prevenzione delle crisi epilettiche dopo craniotomia in pazienti con glioma. I pazienti sono stati randomizzati in un rapporto 2:1 ad iniziare terapia con levetiracetam nelle 24 ore successive alla craniotomia o a continuare terapia con fenitoina. Ad un follow-up di 6 mesi erano valutabili 15 pazienti trattati con levetiracetam e 8 con fenitoina. I risultati indicano l’assenza di differenze significative tra i due farmaci sia rispetto all’efficacia che alla tollerabilità (87% dei pazienti trattati con levetiracetam era libero da crisi a sei mesi rispetto al 75% dei pazienti trattati con fenitoina)6. In conclusione, sarebbero necessari studi randomizzati e controllati più ampi per poter stabilire se gli antiepilettici di nuova generazione sono superiori ai farmaci di vecchia generazione per prevenire le crisi epilettiche in pazienti con tumore cerebrale che abbiano avuto almeno una crisi e per confermare la migliore tollerabilità e le minori interazioni con i farmaci antitumorali. In prima istanza, quando si inizia una terapia anticonvulsivante è sempre da preferire una monoterapia. In caso di epilessia resistente è consigliato raggiungere la massima dose ed eventualmente associare un secondo farmaco. La resezione del tumore può portare ad un controllo delle crisi in una percentuale significativa di pazienti con tumore cerebrale. In particolare, nei pazienti con gliomi di basso grado la fattibilità e l’entità della resezione è il più importante fattore predittivo di sopravvivenza libera da epilessia7. È importante notare che, la percentuale di pazienti con 20

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una significativa riduzione delle crisi epilettiche dopo chirurgia è più alta se vengono utilizzate tecniche diagnostiche più sofisticate, come per esempio la RM funzionale, la magnetoencefalografia, l’elettrostimolazione durante craniotomia a paziente sveglio, che aiutano a localizzare e a resecare i focolai epilettogeni, che in un terzo dei casi non coincidono con l’area del tumore. Anche i trattamenti radioterapico e chemioterapico possono migliorare il controllo delle crisi, ma i dati disponibili sono limitati e riguardano per lo più pazienti con gliomi di basso grado non resecabili1. Se la causa della crisi epilettica è un’alterazione metabolica o tossica (alcool, droghe o farmaci), i farmaci antiepilettici possono essere interrotti quando la crisi si è risolta e la causa della crisi è stata rimossa. Ogni farmaco con potenziale effetto epilettogeno deve essere interrotto ed evitato; le alterazioni metaboliche devono essere corrette; in caso di infezione deve essere prontamente iniziata un’appropriata terapia. Nel paziente neoplastico in fase terminale, l’incidenza di crisi epilettiche è elevata, per effetto della progressione della malattia, dell’aumento dell’edema perilesionale o della difficoltà di assumere le terapie anticonvulsivanti orali. Anche in questa fase della malattia la prevenzione delle crisi può migliorare la qualità di vita del paziente. Nei pazienti con disfagia o alterazione dello stato di coscienza viene suggerito il passaggio dalla terapia anticomiziale orale a quella parenterale con fenobarbital o levetiracetam8. In caso di stato di male epilettico, è necessario un monitoraggio intensivo del paziente; è prioritario assicurare la pervietà delle vie aeree e somministrare terapia endovenosa con benzodiazepine (diazepam, lorazepam), da preferire per la loro breve durata d’azione e l’effetto immediato, ed in caso di non risposta alla benzodiazepina, si può iniziare terapia endovenosa con fenitoina9. Profilassi La terapia anticonvulsivante nel periodo perioperatorio dopo craniotomia per un tumore cerebrale primitivo o secondario è ampiamente utilizzata nella pratica clinica quotidiana. Gli autori di una recente revisione dei dati disponibili nella letteratura hanno concluso che la profilassi anticonvulsivante dopo chirurgia per un tumore cerebrale non dovrebbe essere usata di routine, a causa della disponibilità di pochi dati, spesso contraddittori, che non supportano tale pratica10. Se, nonostante l’assenza di dati di sicura efficacia, un farmaco anticonvulsivante è stato iniziato nel periodo perioperatorio, nei pazienti che non abbiano presentato crisi, la terapia può essere sospesa dopo la prima settimana successiva all’intervento chirurgico11. L’uso della terapia anticonvulsivante come profilassi in pazienti affetti da tumore cerebrale o metastasi cerebrali che non abbiano mai avuto una crisi epilettica non è raccomandato di routine. I risultati dei pochi studi clinici controllati e randomizzati pubblicati, indicano che non ci sono differenze tra i pazienti sottoposti a terapia profilattica e i controlli nella prevenzione della prima crisi epilettica, mentre gli eventi av-


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versi sono maggiori tra i pazienti che hanno ricevuto la terapia anticonvulsivante12,13. Le evidenze scientifiche sono comunque scarse e gli studi disponibili sottodimensionati. Uno degli studi più ampi pubblicati è uno studio prospettico, randomizzato, open-label, che aveva l’obiettivo di determinare se la terapia anticonvulsivante profilattica in pazienti con nuova diagnosi di tumore cerebrale, senza storia di epilessia, riduce la frequenza delle crisi. Lo studio è stato chiuso alla prima analisi ad interim dopo l’arruolamento di 100 pazienti. 60 pazienti avevano metastasi cerebrali e 40 tumori cerebrali primitivi. 46 pazienti erano randomizzati nel gruppo della terapia anticonvulsivante e 54 nel gruppo di controllo. Ad un follow-up mediano di 5,44 mesi non c’erano differenze tra i due gruppi nell’endpoint primario dello studio che era la frequenza di crisi a 3 mesi dalla randomizzazione. La percentuale di pazienti liberi da epilessia a 3 mesi era infatti 87% nel gruppo di trattamento e 90% nel gruppo senza terapia (log rank test, p = 0,98). La frequenza di crisi epilettiche era molto più bassa del previsto nel gruppo senza terapia (solo il 10%) e questo ha significato che, per poter dimostrare una differenza clinicamente significativa tra i due gruppi, sarebbe stato necessario arruolare almeno 900 pazienti14. Gli effetti collaterali dei farmaci anticonvulsivanti (decadimento cognitivo, mielosoppressione, tossicità epatica, reazioni dermatologiche dal rash cutaneo alla sindrome di Stevens-Johnson) sembrano più frequenti nei pazienti con tumore cerebrale che in altri gruppi di pazienti. Inoltre, molti farmaci antiepilettici stimolano il sistema enzimatico del citocromo P450 portando ad un accelerato metabolismo di un’ampia serie di farmaci chemioterapici e di nuovi farmaci a target molecolare, con possibili conseguenze sull’efficacia e tossicità del trattamento antitumorale. I corticosteroidi e alcuni farmaci chemioterapici possono altresì alterare il metabolismo dei farmaci anticonvulsivanti, determinando un sottodosaggio o più spesso un sovradosaggio del farmaco antiepilettico15. Queste considerazioni sulla sicurezza dei farmaci antiepilettici, insieme all’assenza di evidenze sull’efficacia della terapia profilattica nei pazienti con tumore cerebrale, inducono a non raccomandare la profilassi anticonvulsivante nella pratica clinica. Conclusioni Le crisi epilettiche sono una complicanza frequente in pazienti con tumore cerebrale primitivo o secondario. I meccanismi patogenetici dell’epilessia nel paziente oncologico non sono completamente chiariti; probabilmente il tumore induce dei cambiamenti nell’architettura strutturale, cellulare e molecolare del tessuto cerebrale, responsabili di alterazioni nelle connessioni funzionali cerebrali. La terapia dovrebbe avere l’obiettivo di eliminare il focus epilettogeno e di ridurne l’attività epilettica, ma nessun farmaco finora è riuscito ad ottenere una remissione completa delle crisi. Il trattamento ottimale dell’epilessia nei pazienti oncologici non è stato ancora definito. La ricerca futura avrà il compito di svelare i segreti della patogenesi dell’epilessia tumorale per identificare nuovi targets per nuovi agenti terapeutici.

I quesiti aperti sono tanti, poiché le evidenze scientifiche sia sul trattamento che sulla profilassi dell’epilessia nei pazienti oncologici sono scarse e troppo deboli per poter definire delle raccomandazioni da trasferire nella pratica clinica. Sarebbe necessario pianificare e condurre studi clinici, controllati, randomizzati, su popolazioni di pazienti omogenee, per poter rispondere ai quesiti clinici più rilevanti. Nella nostra attività quotidiana la decisione terapeutica dovrebbe essere il frutto della valutazione da parte di un gruppo multidisciplinare neuro-oncologico e dell’attenta discussione con il paziente del bilancio tra i potenziali rischi e benefici di ciascuna terapia. •

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Gestione sintomatica del paziente oncologico: i sintomi orfani

Guglielmo Fumi Struttura Complessa di Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni

RIASSUNTO Nel corso della storia di malattia oncologica i Pazienti possono presentare una varietà di sintomi, legati direttamente o indirettamente alla malattia stessa o conseguenti ai trattamenti antineoplastici. La frequenza di presentazione fa emergere come “più importanti” sintomi quali fatigue, dolore, anoressia, cachessia, dispnea. Se l’attenzione dell’oncologo nei confronti dei sintomi “maggiori” è scarsa, ancora meno viene rivolta verso i cosiddetti sintomi minori, quali prurito, tosse, singhiozzo, broncorrea. Questi ed altri, se pure presenti in minore frequenza, risultano notevolmente invalidanti per i pazienti, presentandosi spesso ad aggravare la fase terminale di malattia. Ancora una volta troviamo a sostegno del curante una letteratura scarsa e per lo più aneddotica, orfana appunto, per cui il ricorso all’empirismo rischia di essere l’unica risorsa. Parole chiave. Prurito, tosse,singhiozzo,sintomi orfani, cancro.

SUMMARY

Symptomatic management in cancer patients: the orphan symptoms During oncological disease, patients can suffer a variety of symptoms, directly related or not to cancer or to its treatments. The attention of oncologists towards symptoms control could be not properly oriented, expecially for the so called “orphan symptoms”, for which there is poor evidence and no consensus about adeguate care. Pruritus, cough and hiccup are exemples of disabilitating, hateful symptoms; without scientific evidences, anecdotical reports and expert’s opinion could be the only reference for patient’s care Key words. Pruritus, hich, cough, hiccup, orphan symptoms, cancer.

Prurito Pur non essendo tra i sintomi più frequenti, il prurito può risultare estremamente penalizzante, anche considerando la non piena conoscenza circa i meccanismi fisiopatogenetici nelle varie situazioni e la mancanza di algoritmi terapeutici validati. Il processo che porta alla sgradevole sensazione 22

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coinvolge recettori cutanei (attivabili da stimoli fisici e chimici, es istamina, acetilcolina, serotonina, prostaglandine, oppioidi endogeni ed esogeni, chinine), il sistema nervoso periferico (fibre amieliniche C a lenta conduzione, un tempo ritenute le stesse degli stimoli dolorosi urenti) e specifiche regioni del sistema nervoso centrale. Nel 2003 veniva proposta una classificazione del prurito1,2 in 4 categorie, ad oggi accettata come riferimento (tabella I). Recentemente il prurito è stato messo in relazione con alterata neurotrasmissione centrale, legata ad alterata concentrazione di oppioidi endogeni; questo supporta il razionale dell’utilizzo di antagonisti degli oppioidi. Una revisione sistematica pubblicata nel 2013 valuta l’efficacia di differenti trattamenti farmacologici nella gestione del prurito in pazienti adulti inseriti in programmi di cure palliative. Sono stati considerati 40 studi randomizzati, coinvolgenti 1.286 pazienti, in quattro diversi gruppi di patologie (solo 23 pazienti erano oncologici). Viene analizzata l’efficacia di ben trenta diversi trattamenti, fra topici e sistemici, ma con evidenti limiti metodologici. La paroxetina si è mostrata efficace nel prurito da cause svariate; la gabapentina può essere un’opzione per il prurito da insufficienza renale cronica (così come il k-agonista nafuralfina), l’indometacina nel prurito associato all’infezione da HIV. La rifampicina ed il flumecinolo possono essere indicati nel prurito da colestasi, così come il naltrexone, il cui utilizzo nel setting palliativo è però condizionato dalla riduzione della analgesia; anche la buprenorfina può risultare efficace, in virtù della sua azione agonista/antagonista sui recettori per oppioidi. Nonostante le segnalazioni di efficacia nel prurito da colestasi, l’ondansetron negli studi analizzati non ha mostrato vantaggi. I dati sulla colestiramina non sono valutabili per lo scarso numero di pazienti arruolati3. Tabella I. Classificazione patogenetica del prurito (Twycross R e Yosipovitch G).

Pruritocettivo

Sostenuto da evidenti processi infiammatori della cute, es orticaria

Neurogenico

Generato dal sistema nervoso centrale in risposta a sostanze circolanti, come potrebbe essere in corso di colestasi

Neuropatico

Lesioni di strutture nervose periferiche o centrali

Psicogeno

Assenza di cause o lesioni evidenziabili


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Recentemente è stata segnalata l’efficacia di aprepitant, un antagonista dei recettori per la sostanza P (nk-1), nel prurito intrattabile in corso di malattia di Sezary e di dermopatia pruriginosa da anti EGFR; in effetti la aumentata espressione del recettore bersaglio di aprepitant è documentata nei cheratinociti della cute in corso di malattie pruriginose4,5. Riportiamo infine alcune segnalazioni di attività dei cannabinoidi (dronabinolo) nel prurito da colestasi6.

Suggerimenti pratici Cura locale della cute, specie se presenta lesioni, secchezza o sudorazione eccessiva, con accorgimenti o soluzioni topiche, in accordo con il dermatologo; è segnalata una possibile utilità di lidocaina o capsaicina topica. Sul versante farmacologico sistemico, l’uso di corticosteroidi e antistaminici rappresenta solitamente il primo accorgimento, anche se spesso ci si dovrà accontentare di scarsa o nulla efficacia, come nel caso del prurito da colestasi; si potranno quindi testare farmaci quali paroxetina, colestiramina, ondansetron, rifampicina, buprenorfina ed anche antagonisti oppioidi come naloxone o similari. Ovviamente in caso di ittero colostatico su base ostruttiva andranno considerate le procedure di drenaggio biliare, salvo controindicazioni Tosse Si riscontra con una prevalenza dal 47-86% nei casi di tumore polmonare e del 23-37% nella restante popolazione oncologica, con intensità moderata severa in circa la metà dei casi. Con questi numeri non si dovrebbe parlare di sintomo orfano, ma tale dizione risulta appropriata per la scarsezza di certezze scientifiche relative soprattutto ai possibili trattamenti. I recettori polmonari per la tosse sono ampiamente distribuiti nelle alte e medie vie aeree; rispondono ad una varietà di stimoli meccanici (polvere, corpi estranei, in ed espirazione, ...) e chimici (fumo, gas nocivi, ...), oltre che a mediatori immunologici (acetilcolina, istamina, serotonina, prostaglandine, bradichinina, sostanza P). Quando stimolati possono indurre tosse, bronco costrizione, secrezione di muco, oltre ad un ampio spettro di riflessi respiratori. È in corso l’individuazione di una scala validata per una corretta valutazione del sintomo7. Tutti gli oppioidi hanno effetto antitussigeno, e la codeina ne è il prototipo (10-30 mg ogni 4-6 ore; o i suoi derivati diidrocodeina, 5-10 mg ogni 4 ore, o idrocodone); agiscono a livello dei centri nervosi encefalici della tosse coinvolgendo siti serotoninergici indipendenti dalla sedazione8,9. Anche il destrometorfano (15-30 mg ogni 6-8 ore) agisce a livello centrale, diversamente dalla levodropropizina (75 mg ogni 8 ore), che con la sua azione periferica è gravata da minore sonnolenza, come riportato in uno studio di confronto10. Il sodio cromoglicato (2 puff 2 volte al dì) ha ridotto la tosse in maniera significativa rispetto al placebo in un piccolo studio in doppio cieco su 20 pazienti affetti da neoplasia polmonare e tosse resistente ai comuni rimedi11.

Una revisione sistematica del 2010 ha considerato 17 studi su rimedi farmacologici (nove studi) e non farmacologici (otto studi), di qualità metodologica scarsa e perciò con risultati incerti. Indicazioni di efficacia sono osservate con morfina, codeina, diidrocodeina, levodropropizina, sodio cromoglicato e butamirato citrato. Tra le metodiche, la brachiterapia si è mostrata efficace in pazienti selezionati12,13. L’unico studio che contempla l’utilizzo di steroidi (per via inalatoria) riguarda una popolazione di pazienti (n: 20) sottoposti a pneumonectomia cui residuava tosse stizzosa intrattabile14. L’utilizzo di lidocaina in soluzione per aereosol) si è dimostrata efficace e ben tollerata nei casi intrattabili, ma anche qui mancano studi controllati a maggiore supporto. Viene suggerita al dosaggio di 5 ml di soluzione al 2% in 20’ circa, ripetibile secondo la durata dell’effetto, variabile da poche ore ad alcuni giorni. Nelle 2 ore precedenti e successive al trattamento è bene non alimentare il paziente per ridurre il rischio di inalazione15,16. L’associazione di più prodotti viene talora utilizzata nelle cure palliative, con razionale solo per farmaci con sito d’azione diverso (es. codeina e levopropirizina), ma in assenza di alcuna evidenza di letteratura. L’uso di coadiuvanti quali broncodilatatori andrà considerato di volta in volta (es. pazienti con preesistenti affezioni quali BPCO). Singhiozzo Di prevalenza imprecisata, nel paziente neoplastico è legato per lo più a fenomeni di irritazione vagale a livello cervicale, toracico o addominale (es distensione gastrica, infiltrazione diaframmatica). Va ricordato come il desametasone sia talora responsabile dell’insorgenza di singhiozzo. La stimolazione faringea (con abbassalingua, tampone o sondino) induce il riflesso glossofaringeo che spesso risulta efficace nelle forme episodiche, così come lo stimolo ipercapnico (es. far respirare il paziente in un sacchetto di carta). Nelle forme croniche, sicuramente più invalidanti, sono utilizzabili farmaci ad azione antidopaminergica come metoclopramide (che unisce anche l’azione procinetica) e aloperidolo, oppure clorpromazina (10-25 mg x 3/die), miorilassanti come nifedipina, e soprattutto il baclofene (da 5 mg ogni 6-8 ore), di cui va considerato l’effetto sedativo. Ancora segnalazioni circa l’efficacia di Lidocaina in infusione sottocutanea e gabapentina17-20. •

Bibliografia 1. Yosipovitch G, Greaves MW, Schmelz M. Itch. Lancet 2003; 361: 690-4. 2. Twycross R, Greaves MW, Handwerker H, et al. Itch: scratching more than the surface. QJM 2003; 96: 7-26. 3. Xander C, Meerpohl JJ, Galandi D, et al. Pharmacological interventions for pruritus in adult palliative care patients. The Cochrane Library 2013, Issue 6. 4. Santini D, Vincenzi B, Guida FM. Aprepitant for management of severe pruritus related to biological cancer treatments: a pilot study. Lancet Oncol 2012; 13: 1020-4. CASCO — Inverno 2015

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5. Duval A, Dubertret L. Aprepitant as an antipruritic agent? N Engl J Med 2009; 361: 1415-6. 6. Bergasa NV. Treatment of the Pruritus of Cholestasis. Curr Treat Options Gastroenterol 2004; 6: 501-508. 7. Molassiotis A, Ellis J, Wagland R, et al. The Manchester cough in lung cancer scale: the development and preliminary validation of a new assessment tool” J Pain Symptom Manage 2013; 2: 17990. 8. Cowcher K, Hanks GW. Long-term management of respiratory symptoms in advanced cancer. J Pain Sy Ma 1990; 5: 320-30. 9. Homsi J, Walsh D, Nelson KA, et al “A phase II study of hydrocodone for cough in advanced cancer” Am J Hosp Palliat Care 2002; 19: 49-56. 10. Luporini G. Efficacy and safety of levodropropizine and dihydrocodeina on non productive cough in primary and metastatic lung cancer. Eur Respir J 1998; 12: 97-101. 11. Moroni M, Porta C, Gualtieri G. Inhaled sodium cromoglycate to treat cough in advanced lung cancer patients. Br J Cancer 1996; 2: 309-11. 12. Molassiotis A, Bailey C, Caress A, et al. Interventions for cough in cancer. Cochrane Database Syst Rev 2010; 9: 1465-1858.

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13. Homsi J, Walsh D, Nelson KA. Important drugs for cough in advanced cancer. Support Care Cancer 2001; 8: 565-74. 14. Sawada S, Suehisa H, Yamashita M. Inhalation of corticosteroid and β-agonist for persistent cough following pulmonary resection. Gen Thorac Cardiovasc Surg 2012; 5: 285-8. 15. Truesdale K, Jurdi A. Nebulized lidocaine in the treatment of intractable cough. Am J Hosp Palliat Care 2013; 6: 587-9. 16. Louie K, Bertolino M, Fainsinger R. Management of intractable cough. J Palliat Care 1992; 4: 46-8. 17. Calsina-Berna A, García-Gómez G, González-Barboteo J. Treatment of chronic hiccups in cancer patients: a systematic review J. Palliat Med 2012; 10: 1142-50. 18. Seker MM, Aksoy S, Ozdemir NY. Successful treatment of chronic hiccup with baclofen in cancer patients. Med Oncol 2012; 2: 1369-70. 19. Kaneishi K, Kawabata M. Continuous subcutaneous infusion of lidocaine for persistent hiccup in advanced cancer. Palliat Med 2013; 3: 284-5. 20. Porzio G, Aielli F, Narducci F. Hiccup in patients with advanced cancer successfully treated with gabapentin: report of three cases. N Z Med J 2003; 116: U605.


Casi clinici

È clinicamente rilevante ritardare il primo evento scheletrico?

Enzo Ballatori Statistico medico, Spinetoli (AP)

Fausto Roila SC di Oncologia Medica Azienda Ospedaliera “S. Maria”, Terni

RIASSUNTO Nella valutazione degli studi clinici che hanno portato all’approvazione di denosumab come trattamento contro gli eventi scheletrici prodotti da metastasi ossee, ci si può accorgere che l’endpoint primario non appare quello più importante e che gli strumenti statistici usati sono complessi e inadeguati, e potrebbero nascondere la vera efficacia del farmaco. Parole chiave. Studi di non inferiorità, modello di Cox, log-rank test.

SUMMARY

Is clinically relevant to delay the first scheletal event? In assessing clinical studies produced for the approval of denosumab as treatment against scheletal events induced by bone metastases, not only the primary endpoint does not appear the most relevant, but also the used statistical methods are complex and inadequate, and may hide the true efficacy of the drug. Key words. non inferiority studies, Cox models, log-rank test.

Negli ultimi 4 anni sono stati pubblicati tre studi fotocopia sull’efficacia differenziale di denosumab (DEN) rispetto all’acido zoledronico (ZOL) nel ritardare il primo evento scheletrico correlato alla presenza di metastasi ossee. Quello presentato nella scheda riguarda pazienti con carcinoma prostatico resistente alla castrazione; gli altri riguardano pazienti con carcinoma della mammella metastatico1 e pazienti con carcinoma metastatico (esclusi il cancro della prostata e quello della mammella) o con mieloma multiplo2. Tali studi, tutti di ampia dimensione campionaria, sono stati accompagnati dalla pubblicazione di almeno altri tre lavori condotti considerando insieme i pazienti arruolati nei tre studi originali e/o valutando l’effetto differenziale di DEN rispetto a ZOL su altre caratteristiche non considerate negli studi originali. I tre studi adottano la stessa metodologia e pervengono a risultati similari. Così, la discussione è incentrata solo su quello riportato nella scheda, ma quanto sarà esposto si estende anche agli altri due. Le principali ragioni per discutere di tali studi (peraltro non recentissimi) in una rivista di terapia di supporto sono dovute

ai risultati conseguiti ed alla natura degli endpoint considerati. Infatti, nei suddetti studi sono state condotte analisi esplorative sulla sopravvivenza globale e sul tempo alla progressione e, in tutti e tre i casi, le curve di sopravvivenza (e del tempo alla progressione, ma questo è secondario) relative ai due bracci di trattamento sono sovrapponibili. Sebbene non sia chiara la ragione per cui tali analisi siano state considerate “esplorative”, la uguale sopravvivenza comporta automaticamente che il vantaggio di denosumab in termini di efficacia, ossia di effetto sul paziente, riguarda la sfera della qualità di vita, ma in tal caso non è chiaro il motivo per cui questo aspetto non sia stato direttamente valutato mediante appositi questionari psicometrici. Endpoint L’evento scheletrico correlato alla malattia può manifestarsi in vari modi, per cui avendo deciso che l’endpoint principale è il tempo al primo evento scheletrico correlato, la scelta di un endpoint composto sembra ragionevole (v. scheda). Al riguardo, però, resterebbe da chiarire perché siano state escluse fratture incorse in seguito a traumi severi, quando è noto che la presenza di metastasi ossee può determinare punti di minore resistenza, per cui anche in seguito a traumi severi è possibile che si sia verificata una frattura che non si sarebbe prodotta se in quel punto non fosse stata presente una metastasi. Per non parlare poi della definizione di “trauma severo” che, non essendo stata data, è lasciato all’arbitrio del ricercatore decidere quando un trauma è da considerarsi severo, con conseguente introduzione di elementi di soggettività. Comunque, il punto più controverso è proprio la scelta del “tempo al primo evento scheletrico correlato” come endpoint principale. Infatti, ci si sarebbe atteso che l’endpoint principale fosse stato l’incidenza degli eventi scheletrici e, nel gruppo dei pazienti che hanno avuto almeno un evento scheletrico, una misura della ripetitività del fenomeno avrebbe fornito un rilevante endpoint secondario. Disegno dello studio Lo studio sembra programmato come studio di non inferiorità, ma, una volta provata la non inferiorità di DEN rispetto a ZOL (in relazione all’endpoint considerato), si passa a testare la superiorità del farmaco in studio. Cosa pensiamo degli studi di non inferiorità è stato ampiamente esposto nel n. 3 di CASCO: salvo rari e motivati casi, gli studi di non inferiorità non dovrebbero essere accettati dalla comunità scientifica. Qui siamo di fronte ad uno studio che è al contempo di non inferiorità e di superiorità condiCASCO — Inverno 2015

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zionata e ci chiediamo fino a che punto sia corretto un tale modo di procedere, anche perché nell’articolo non sono state date informazioni dettagliate su tale scelta. Per utilità del Lettore, riportiamo una sintesi brevissima (e quindi necessariamente approssimativa) della storia dell’uso della statistica nelle applicazioni. L’uso dei test statistici nella ricerca scientifica si può far risalire alle scuole di Biometria (seconda metà del XIX secolo); l’ipotesi nulla (negli esperimenti comparativi, quella di uguale efficacia dei trattamenti) era sottoposta ad un test statistico per valutare se la differenza riscontrata tra i due gruppi poteva essere attribuita al caso o, invece, era così rilevante da indurre a propendere per la diversa efficacia dei trattamenti. In tal caso, il segno della differenza era dirimente per individuare il trattamento più efficace (non c’era bisogno di ipotesi alternativa). Gradualmente, però, nuovi campi di applicazione si aprono per la Statistica, ad esempio nell’industria, dove necessitano strumenti non tanto orientati ad investigare la natura, quanto finalizzati a prendere decisioni. Poiché nell’industria ogni decisione sbagliata ha un costo, si pone l’attenzione non solo alla probabilità di commettere un errore respingendo l’ipotesi nulla quando invece è vera (livello di significatività), ma anche alla probabilità di commettere un errore accettando l’ipotesi nulla quando invece i trattamenti sono diversamente efficaci. Il complemento a 1 di quest’ultima probabilità si chiama potenza del test che, a parità delle altre assunzioni (cioè: differenza minima rilevante, test statistico prescelto, livello di significatività), è funzione matematica della dimensione campionaria, nel senso che, fissata la potenza, è univocamente determinata la numerosità e, viceversa, fissata la numerosità, è univocamente determinata la potenza. Il Lettore avrà certamente notato, nelle applicazioni, l’asimmetria nel controllo dei due tipi di errore: per convenzioni internazionali ormai consolidate, il livello di significatività si pone (quasi) sempre al 5%, mentre la probabilità dell’errore che si commette accettando l’ipotesi nulla quando i trattamenti sono diversamente efficaci è (spesso) del 20% (= 1 – 0,8; potenza = 80%). In quest’ultimo caso, se si accetta l’ipotesi nulla si può avere comunque un 20% di probabilità di sbagliare e tale probabilità non può essere considerata bassa. Però, se volessimo aumentare la potenza, la dimensione campionaria crescerebbe rapidamente e se la portassimo al 95% molti studi sarebbero infattibili a causa dell’enorme numero di unità da osservare. Successivamente, dall’industria farmaceutica, furono introdotti studi di non inferiorità e di equivalenza, unicamente per rispondere ad istanze del marketing. Nella ricerca clinica, andrebbero distinti due tipi di studi: quelli con finalità regolatorie e quelli volti ad approfondire la relazione tra fenomeni (ad es., studi spontanei). Solo per i primi la Statistica come strumento decisionale appare giustificata: si tratta di decidere se autorizzare o meno il farmaco per la rimborsabilità e il protocollo garantisce che le regole andranno rispettate. I secondi do26

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vrebbero essere liberati da ogni struttura che li ingessi, come ad esempio prefissare (nel protocollo) gli strumenti statistici che saranno impiegati, in quanto l’analisi dei dati consiste proprio in una continua interazione tra ricercatore e risultati delle elaborazioni che via via vengono eseguite. Analisi dei risultati Essendo l’endpoint principale una variabile di tipo “time to failure”, gli autori hanno pensato bene di valutarla ricorrendo al modello di Cox, aggiustando i risultati relativi all’endpoint principale per tre fattori: precedenti eventi scheletrici (sì, no), PSA (inferiore o meno a 10ng/ml), trattamento chemioterapico nelle 6 settimane precedenti l’arruolamento (sì, no). I fattori con cui è stato aggiustato l’Hazard Ratio (HR, ricavato in base al modello di Cox) tra i due trattamenti sono gli stessi per cui è stata stratificata la randomizzazione. Qui si apre lo scenario per una discussione articolata. 1. La randomizzazione stratificata ha un’unica finalità: garantire un perfetto bilanciamento tra i due bracci sperimentali dei fattori di stratificazione (quelli ritenuti importantissimi nella valutazione della risposta al trattamento), in modo tale che la risposta (sintetizzata da una media) non risenta più del loro effetto. Ora, se i bracci sono bilanciati, ci si chiede quale sia la necessità di aggiustare per tali fattori. A nostro avviso sarebbe stato sufficiente un semplice log-rank test che, essendo un test non parametrico, contrariamente al modello semiparametrico di Cox, non ha bisogno di alcuna assunzione per essere valido. Nel lavoro sono riportati i tempi mediani al primo evento scheletrico correlato (20,7 mesi con DEN vs 17,1 con ZOL); quindi il ritardo mediano della comparsa del primo evento scheletrico correlato è di circa 3,6 mesi con l’uso di DEN rispetto a ZOL; in base alle analisi condotte, tale differenza risulta significativa. Però, gli intervalli di confidenza di tali stime (v. scheda) presentano regioni di sovrapposizione, il che lascerebbe pensare che il log-rank test non sarebbe risultato significativo. Si noti che, negli altri due lavori, gli intervalli di confidenza per il tempo mediano al primo evento scheletrico correlato non sono stati riportati. 2. L’assunzione alla base del modello di Cox è quella del rischio proporzionale (proportional hazard), per cui in tutti i sottogruppi definiti dalle combinazioni di modalità dei fattori di aggiustamento (nel nostro caso 2 x 2 x 2 = 8), il rapporto tra i rischi (HR) relativo ai due trattamenti deve rimanere costante. Esistono metodi statistici per la verifica del proportional hazard, ma nel lavoro in discussione non si fa cenno del loro impiego. Se il proportional hazard non è rispettato, il modello di Cox si riduce ad un puro esercizio matematico: formalmente lo si può sempre costruire (qualunque software statistico è in grado di farlo), ma i risultati che fornisce sono inattendibili. Le cose peggiorano quando si passa alle analisi “esplorative”: sopravvivenza globale e tempo alla progressione valutato dal medico sperimentatore. Qui l’aggiustamento è stato fatto, oltre che per i tre fattori di stratificazione, anche per altre 6 variabili valutate al basale (peraltro non è precisato


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SCHEDA

Fizozi K, Carducci M, Smith M, et al. Denosumab versus zoledronic acid for treatment of bone metastases in men with castration-resistant prostate cancer: a randomised, double blind study. Lancet 2011; 377: 813-23.

colonna vertebrale, torace, pelvi, braccia e gambe. Ogni radiografia fu valutata, indipendentemente ed in cieco, da due lettori ed un terzo valutò le immagini dove si erano riscontrate discordanze di risposta.

Nel periodo Maggio 2006 Ottobre 2009, 2516 pazienti furono screenati in 342 centri di 39 paesi; ne furono arruolati 1904 e valutati 1901 che vennero randomizzati a ricevere acido zoledronico (951, ZOL) e denosumab (950, DEN). La randomizzazione fu stratificata per precedenti eventi scheletrici (sì, no), PSA (< 10 vs ≥ 10) e trattamento chemioterapico nelle 6 settimane prima della randomizzazione (sì, no). Endpoint primario: tempo al primo evento scheletrico (correlato alla malattia) valutato per non inferiorità. Se si dimostrasse non inferiore, allora lo stesso endpoint sarebbe successivamente valutato per superiorità come endpoint secondario insieme ai tempi degli eventi scheletrici successivi al primo. Un’analisi esplorativa fu programmata per la valutazione della sopravvivenza globale e per il tempo alla progressione valutato dal medico sperimentatore. Un evento scheletrico correlato fu definito come a. frattura patologica (escluse quelle incorse in seguito a traumi severi) b. radioterapia dell’osso (incluso l’uso di radioisotopi) c. chirurgia dell’osso d. compressione della corda spinale. Un esame dello scheletro fu eseguito ogni 12 settimane ed incluse le radiografie del cranio,

Analisi statistica. L’analisi statistica degli endpoint primario e secondario fu condotta, in accordo al principio di intenzione a trattare, mediante l’Hazard Ratio (HR) di denosumab vs acido zoledronico, stimato mediante il modello di Cox, aggiustando per i fattori usati nella stratificazione della randomizzazione (precedenti eventi scheletrici, PSA, chemioterapia nelle precedenti 6 settimane). Nessuna analisi ad interim fu pianificata. Le analisi esplorative sulla sopravvivenza globale e sul tempo alla progressione di malattia furono condotte mediante il modello di Cox, aggiustando non solo per le variabili di stratificazione, ma anche per le caratteristiche basali del paziente (età, tempo trascorso dalla prima diagnosi di carcinoma prostatico alla malattia metastatica, tempo dalla diagnosi alle metastasi ossee, presenza di metastasi nelle viscere, score di Gleason, Ecog performance status). Risultati. La quasi totalità dei pazienti del gruppo DEN fu esposta al denosumab per una mediana di 11,9 mesi, mentre la quasi totalità di quelli del gruppo ZOL fu esposta all’acido zoledronico per una mediana di 10,2 mesi. Denosumab mostrò una maggiore efficacia dell’acido zoledronico nel ritardare la

comparsa del 1° evento scheletrico correlato alla malattia; tempo mediano alla comparsa del 1° evento (95% CI) − con denosumab: 20,7 mesi (18,8-24,9) − con acido zoledronico: 17,1 mesi (15,0-19,4), con una differenza tra le mediane di 3,6 mesi ed un Hazard Ratio HR = 0,82 (CI 0,710,95), risultati significativi allo 0,001 per non inferiorità e allo 0,008 per superiorità. Il numero totale degli eventi confermati fu di 386 (41%) nel gruppo ZOL e di 341 (36%) nel gruppo DEN. Scendendo nel dettaglio, si osservarono i seguenti eventi scheletrici, rispettivamente nel braccio ZOL e nel braccio DEN − Radioterapia all’osso: 21% e 19% − Frattura patologica: 15% e 14% − Compressione spinale: 4% e 3% − Chirurgia dell’osso: < 1% e < 1%. Sia la sopravvivenza globale che il tempo alla progressione (analisi esplorative) risultarono sovrapponibili tra i due gruppi. L’incidenza di eventi avversi risultò paragonabile tra i due bracci. Ruolo della fonte di finanziamento. L’autore corrispondente ha collaborato con lo sponsor nel disegno dello studio. La raccolta e l’analisi dei dati fu eseguita dallo sponsor. Tutti gli autori hanno partecipato alla stesura dell’articolo con l’assistenza di un medical writer fornito dallo sponsor. L’autore corrispondente fu responsabile della decisione di sottoporre il lavoro per la pubblicazione. •

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Statistica per concetti

se tali variabili siano state considerate in quanto tali o, invece, trasformate in fattori, v. scheda), per un totale di 9 tra fattori e variabili considerati. Non solo in tale situazione il proportional hazard diventa arduo persino da ipotizzare, ma sarebbe stato sufficiente dare un’occhiata alle corrispondenti curve relative ai due trattamenti per vedere una quasi perfetta sovrapposizione che avrebbe esonerato da qualsiasi altra analisi. Conclusioni Nella programmazione degli studi clinici e nell’analisi dei risultati, talvolta la Statistica viene utilizzata in maniera esagerata, quasi per nascondere, con la complessità degli strumenti adottati, la povertà dei risultati conseguiti. Il lavoro sintetizzato nella scheda e gli altri due sullo stesso argomento ci sembrano di questo tipo. C’è una lunga catena che va dai medici ricercatori che accettano di firmare i protocolli proposti dall’industria, ai comitati etici che approvano i protocolli, alle riviste scientifiche che pubblicano i risultati, alle autorità regolatorie che approvano i farmaci, alle Consensus Conference che introducono i nuovi farmaci nelle linee guida, al medico che li prescrive; tutti i punti nodali di tale catena presentano problemi di varia natura. Dati gli scopi di questa rubrica, ci soffermeremo brevemente solo sul sistema di referaggio delle riviste. Essendo i tre lavori considerati tutti pubblicati su riviste assai importanti (Lancet e JCO), sapendo che ciascuna di loro fa valutare ogni manoscritto da tre referee, di cui uno statistico, desta meraviglia il fatto che di nove (o poco meno) referee diversi che hanno analizzato i tre studi nessuno abbia avanzato obiezioni sostanziali, o che comunque queste non siano state considerate dall’Editor nel prendere la decisione finale di pubblicare il lavoro. Il lettore non solo dovrebbe sapere chi ha approvato la pubblicazione (in particolare se è stata un’iniziativa del solo editor in chief o se anche tutti o in parte i referee erano d’accordo), ma soprattutto dovrebbe conoscere i contenuti delle revisioni dei referee per comprendere meglio i possibili limiti dello studio (e forse anche dei referee!), onde poterne dare una propria valutazione critica. Ma la pubblicazione di tali revisioni (magari solo on-line) non è la sola cosa che andrebbe cambiata nell’attuale politica editoriale delle riviste scientifiche, anche dato il ruolo, sempre più pesante, rivestito dallo sponsor nella ricerca clinica (v. scheda, ultime righe), per non parlare degli abbondanti conflitti di interessi degli autori (indicati nell’articolo, ma non riportati nella scheda). •

Test statistici per dati appaiati

Riassunto I test statistici per dati appaiati sono esposti in relazione alla scala in cui si colloca la risposta al trattamento. In particolare, sono descritti il test di Mc Nemar (scala nominale), il test di Wilcoxon per dati appaiati (scala ordinale) e il t-test per il confronto tra due medie nel caso di dati appaiati (scale di rapporti). Parole chiave. Disegno cross-over, dati appaiati, test di Mc Nemar, ranghi, test di Wilcoxon per dati appaiati, t-test per dati appaiati.

Summary

Statistical tests for paired data Statistical tests for paired data are described in relationship with the scale used to evaluate the response to the treatment. More precisely, we described Mc Nemar test (nominal scale), Wilcoxon matched pairs, signed ranks test (ordinal scale), t-test for paired data (ratio scale). Key words. Cross-over design, paired data, Mc Nemar test, Wilcoxon matched pairs signed ranks test, t-test for paired data.

Si generano dati appaiati (paired data) quando uno stesso carattere (qualitativo o quantitativo) è rilevato due (o più) volte sulle stesse unità. Il vantaggio di operare con dati appaiati consiste nel tenere costanti tutti i fattori (prognostici, predittivi, di rischio) che possono interferire con l’effetto del trattamento sulla risposta. Nella ricerca clinica si ha spesso a che fare con dati appaiati, quando, ad esempio, si valuta la riproducibilità di un nuovo test diagnostico, per cui gli stessi pazienti sono esaminati da due osservatori indipendenti usando lo stesso strumento, o quando un test psicometrico viene somministrato due volte agli stessi soggetti per valutarne la riproducibilità. Ma l’esempio di dati appaiati più comune è in relazione al disegno crossover, che pertanto è assunto come applicazione di riferimento nell’esposizione che segue.

Bibliografia 1. Stopek AT, Lipton A, Body JJ, et al. Denosumab compared with zoledronic acid for the treatment of bone metastases in patients with advanced breast cancer: a randomized, double-blind study. JCO 2010; 28: 5132-9. 2. Henry DH, Costa L, Goldwasser F, et al. Randomized, double-blind study of denosumab versus zoledronic acid in the treatment of bone metastases in patients with advanced cancer (excluding breast and prostate cancer) or multiple myeloma. JCO 2011; 29: 1125-32. 28

CASCO — Inverno 2015

Disegno cross-over Siano A e B i due trattamenti a confronto (ma quanto esposto è generalizzabile al caso di più di due trattamenti). Il disegno cross-over consiste nel somministrare, in tempi diversi, entrambi i trattamenti agli stessi pazienti, valutando così due risposte in ogni paziente: una dopo la somministrazione di A, l’altra dopo quella di B.


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Scopo del disegno dello studio è cercare di annullare (o ridurre) l’effetto dei fattori diversi dal trattamento sulla risposta (v. CASCO 9, Statistica per concetti 1), in modo tale che il confronto finale dipenda solo dalla diversa efficacia dei trattamenti (e dal caso, che però può essere controllato mediante gli strumenti dell’inferenza statistica, come il test o gli intervalli di confidenza). Quando siano verificate alcune assunzioni, il disegno crossover è il più efficiente perché il confronto tra l’efficacia dei due trattamenti può essere eseguito nello stesso paziente (tenendo, quindi, costanti tutti i fattori che, oltre al trattamento, possono influenzare la risposta). Tale maggior efficienza si traduce, a parità delle altre condizioni, in una potenza più elevata che consente di ottenere i risultati programmati con un minor numero di pazienti (tanto per fissare le idee con dati inventati: se per ottenere un certo risultato con uno studio parallelo randomizzato occorressero 360 pazienti, con un disegno cross-over potremmo arruolarne molti meno, ad es., solo 140). Vi è un non trascurabile secondo vantaggio nel disegno cross-over: è l’unico modo per stabilire quale dei due trattamenti sia più gradito al paziente. Tecnicamente, alla metà dei pazienti si somministra prima il trattamento A e poi, dopo un certo periodo in cui il paziente viene lasciato privo di trattamento, il trattamento B (l’intervallo di tempo tra i due trattamenti è noto come periodo di wash out, importante per impedire, almeno in parte, che l’effetto del primo trattamento si trascini fino a modificare l’effetto del secondo). All’altra metà dei pazienti si somministra la sequenza BA, randomizzando i pazienti a ricevere AB o BA, per evitare che l’effetto “primo trattamento” possa essere sbilanciato a favore di uno dei due trattamenti. Ovviamente, vi sono dei casi di impossibilità dell’uso del disegno cross-over, come nelle malattie acute o

quando la risposta è in termini di sopravvivenza. Il tipo di test per dati appaiati dipende, ovviamente, dalla scala di misura usata per valutare la risposta (v. CASCO 9, Statistica per concetti 2). a. Scale nominali, carattere dicotomico. La risposta è valutata in termini di successo (+) e insuccesso (–) terapeutico. Indicando con A e B i due trattamenti a confronto, i risultati dello studio possono essere rappresentati nella seguente tabella: A↓ B→ + – Tot.

+ a c m1

– b d m2

Tot. n1 n2 N

dove “a” indica il numero di pazienti in cui si è osservato un successo in seguito alla somministrazione di entrambi i trattamenti (+, +), “d” il numero di pazienti che hanno avuto un insuccesso con entrambi i trattamenti (–, –), “b” il numero di pazienti in cui si è registrato un successo con A e un insuccesso con B (+, –), “c” il numero di pazienti che hanno presentato un insuccesso con A e un successo con B (–, +). Esempio 1: controllo del vomito acuto in due successivi cicli di chemioterapia. Siano A e B i trattamenti antiemetici a confronto. Al termine dello studio i risultati sono i seguenti A↓ B→ + – Tot.

+ 60 10 70

– 34 20 54

Tot. 94 30 124

in 60 pazienti, entrambi i trattamenti sono stati in grado di prevenire il vomito e in 20 pazienti entrambi i trattamenti hanno fallito. In 34 pazienti si è osservato un successo

con A e un insuccesso con B e in 10 pazienti è accaduto il contrario (successo con B, insuccesso con A). Il test di Mc Nemar (1947) è lo strumento per provare se i due trattamenti hanno una diversa efficacia. Mc Nemar ritenne non informativi sull’efficacia differenziale dei due trattamenti i pazienti con segno uguale [(+, +) o (–, –)] che pertanto vanno esclusi. Restano così da considerare s = b + c pazienti con risultato discordante fra i due trattamenti [cioè, (+, –) o (–, +)]. L’ipotesi nulla (H0) è quella di uguale efficacia dei trattamenti; pertanto, se è vera l’ipotesi nulla, la probabilità che uno degli s pazienti che presentano segni discordanti (i soli ad essere informativi ai fini della valutazione di efficacia differenziale fra i trattamenti) cada nella casella “b” è la stessa che cada in “c”. In altre parole, sotto l’ipotesi nulla, un soggetto con segni discordanti ha probabilità pari a ½ di cadere in “b” e pari a ½ di cadere in “c”. Il problema si riduce allora a valutare (tra gli s soggetti con segni discordanti) se lo squilibrio tra “b” e “c” possa ritenersi dovuto al caso o se, invece, è dovuto, con alta probabilità, alla diversa efficacia dei trattamenti (nell’esempio 1, occorre decidere se la differenza tra 34 e 10 possa essere attribuita al caso, o se, invece, è dovuta alla maggior efficacia di A). Per rispondere a tale quesito è sufficiente usare il test sul valore di una frequenza, cioè il test binomiale, o, nel caso dei grandi campioni, anche la sua approssimazione con la normale. b. Scale ordinali Le scale ordinali sono costituite da attributi (aggettivi) ordinabili in cui viene classificata la risposta osservata su ciascun paziente (per il concetto di rango, v. Statistica per concetti 2, CASCO 9). Quando la risposta è collocabile su una scala ordinale, l’analisi dei risultati di uno studio cross-over viene condotta mediante il CASCO — Inverno 2015

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“test di Wilcoxon per dati appaiati” (Wilcoxon matched-pairs signed ranks test), che è un test basato sui ranghi (v. Statistica per concetti, CASCO 10) e prova l’uguaglianza delle mediane nelle popolazioni target. Come si ricorderà, “rango” indica il posto occupato dall’attributo considerato nella graduatoria, cioè nella distribuzione ordinata, ad es. in senso crescente. Esempio 2: misura della severità della nausea. L’intensità della nausea può essere misurata in vari modi, ma il più semplice è una scala di Likert che consente di ancorare alla realtà la percezione del paziente: 0 = no nausea, L = nausea lieve (consente al paziente di svolgere tutte le sue attività quotidiane), M = nausea moderata (non permette al paziente di svolgere alcune delle sue abituali attività, S = nausea severa (il paziente è costretto a letto per la nausea). La severità della nausea percepita dal paziente esplora una dimensione diversa dalla protezione dalla nausea e non può che riferirsi ai soli pazienti che hanno avuto nausea. Come esempio didattico consideriamo uno studio con disegno cross-over in cui i pazienti, sottoposti a due cicli consecutivi di chemioterapia, hanno ricevuto in sequenza due diverse profilassi antiemetiche: A in un ciclo e B nell’altro. Si vuole valutare se negli 8 pazienti che hanno sofferto di nausea, questa sia stata più severa tra coloro che hanno ricevuto A o in quelli sottoposti a B. Le risposte ai trattamenti osservati negli 8 pazienti che hanno sofferto di nausea sono state le seguenti Paziente 1 2 3 4 5 6 7 8

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A L M L M M M L L

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B M L S S S M S S

Il primo passo nella costruzione del test consiste nel trasformare gli attributi in ranghi (si tratta di assegnare in tutto 16 ranghi). Considerando che, in totale, gli attributi “L” (i più piccoli) sono 5, a ciascuno di essi si attribuisce lo stesso rango, pari alla media dei ranghi che avremmo dovuto assegnare (da 1 a 5: media 3). Gli “M” sono 6 cui avremmo dovuto attribuire i ranghi da 6 (i primi 5 li abbiamo assegnati a “L”) a 11; quindi a ciascun M si assegna il rango medio 8,5 [=(6+7+8+9+10+11)/6]. Gli “S” sono 5; ad essi dobbiamo attribuire i ranghi da 12 a 16, media: 14. Pertanto la tabella con i ranghi al posto degli attributi è la seguente: Paziente 1 2 3 4 5 6 7 8

A 3 8,5 3 8,5 8,5 8,5 3 3

B 8,5 3 14 14 14 8,5 14 14

Il test di Wilcoxon per dati appaiati inizia con l’escludere le unità che presentano la stessa coppia di ranghi in quanto non informative sull’efficacia differenziale dei trattamenti (nell’esempio, il paziente 6 viene escluso; restano così 7 pazienti per ciascuno dei quali si calcola la differenza tra i ranghi, d (calcolando, ad es., la differenza tra il rango che compare nella colonna B e quello che compare in A: B – A).

Si determina quindi il rango di tali differenze, D = rango di d (indipendentemente dal segno), riattribuendogli poi il segno della differenza (da cui il nome di signed ranks). Si invita il lettore a seguire le operazioni descritte nella tabella riportata nel seguente esempio. Esempio 2, prosec. Nella tabella successiva, relativa ai 7 “pazienti informativi“ dell’efficacia differenziale dei trattamenti, sono riportate le differenze (con segno) dei ranghi, d (= B – A). L’ultima colonna (D = rango di d) si ottiene dalla colonna “d”, attribuendo i ranghi alle quantità che compaiono in “d”: le quantità più piccole (5,5) sono in numero di 4; pertanto attribuiamo a ciascun valore “5,5” lo stesso rango, pari alla media dei ranghi che avremmo dovuto attribuire se fossero stati diversi: (1+2+3+4)/4 = 2,5. Di “11” ce ne sono 3, che occupano nella graduatoria il 5°, il 6° e il 7° posto (i primi 4 sono occupati da “5,5”); quindi assegnamo ad essi lo stesso rango pari alla media dei ranghi che avremmo attribuito se fossero stati diversi: (5+6+7)/3 = 6. Infine, ai ranghi riportati nella colonna “D” riassegnamo i segni dei valori che compaiono nella colonna “d”. Si calcola, infine, la somma dei ranghi di d (riportati in D), negativi (–2,5) e positivi (25,5). La minore delle due costituisce la statistica-test necessaria per eseguire il test di Wilcoxon per dati appaiati.

Paziente

A

B

d

D = rango di d

1

3

8,5

5,5

2,5

2

8,5

3

-5,5

-2,5

3

3

14

11

6

4

8,5

14

5,5

2,5

5

8,5

14

5,5

2,5

7

3

14

11

6

8

3

14

11

6


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Sotto l’ipotesi nulla di uguale efficacia dei trattamenti ci si attende che la somma dei ranghi positivi sia all’incirca pari a quella dei ranghi negativi (nell’esempio, come si vede, vi è un forte squilibrio, ma non sappiamo se possa comunque essere attribuito al caso o, invece, dipenda dalla differente efficacia dei trattamenti). Si procede, quindi, al calcolo del test di Wilcoxon per dati appaiati e alla conseguente individuazione del livello di significatività. Il calcolo del test è alquanto noioso ed va oltre gli scopi della presente nota, per cui si suggerisce di procedere in uno dei modi seguenti: a. nel caso di piccoli campioni, si possono utilizzare le tavole che sono riportate in tutti i libri che trattano di test non parametrici (ad es., Sidney Siegel, Nonparametric statistics, Mc Graw Hill-Kogakusha, 1956). Entrando in tale tavola con la statistica test (–2,5) calcolata come sopra esposto, malgrado sia piccolo il numero di pazienti considerati (N = 7) nell’es. 2 il trattamento B può essere considerato più efficace di A nel ridurre la severità della nausea nei pazienti che ne hanno sofferto ad un livello di significatività del 5%. b. nel caso di grandi campioni si può utilizzare l’opportuna approssimazione con la distribuzione normale di semplicissimo calcolo (v., ad es., Siegel 1956); c. avvalersi di un software statistico (quasi tutti i packages statistici calcolano il test di Wilcoxon per dati appaiati e forniscono in automatico il livello di significatività).

c. Scale di rapporti (caratteri quantitativi). In ogni paziente si rileva una coppia di risposte espresse da intensità. Esempio 3. Consideriamo uno studio cross-over condotto su 8 pazienti ipertesi sottoposti a due trattamenti anti-ipertensivi, A e B. La risposta è misurata in termini di riduzione della pressione diastolica (mmHg) dopo 2 settimane di trattamento. I risultati dello studio, con le differenze, d, tra la risposta ad A e quella a B osservate in ciascun paziente siano i seguenti: Paziente 1 2 3 4 5 6 7 8

A 18 4 8 14 26 18 10 11

B 12 4 10 2 10 6 10 -1

d 6 0 -2 12 16 12 0 12

Il paziente 1 ha avuto una riduzione di 18 mmHg con il trattamento A e di 12 con B. In tale paziente A si è dimostrato più efficace di B perché ha indotto una diminuzione della pressione diastolica superiore di 6 mmHg, e così via per gli altri pazienti. La differenza di efficacia a favore di A è risultata, in media, di 7 mmHg. L’ipotesi nulla (H0) è quella di uguale efficacia dei trattamenti. Quindi, se i trattamenti sono ugualmente efficaci, nelle due popolazioni target (definite dai pazienti presenti e futuri che verranno trattati con A e con B), le due

medie sono uguali e, pertanto, la loro differenza è pari a 0. La media di d costituisce la migliore stima della differenza tra le medie nelle due popolazioni target. Se è vera H0, ci si attende che la media di d sia prossima allo 0. Con i dati sopra riportati vale 7; occorre quindi provare se tale differenza possa essere attribuita al caso o se, invece, è dovuta al fatto che A è più efficace di B. Il test più potente da usare in tale situazione è il test t di Student (t-test) per dati appaiati. Il t-test è un test parametrico perché si basa sull’assunzione di normalità dell’errore (v. CASCO 9, Statistica per concetti), ma resta valido anche per moderate violazioni di essa. Pertanto si può usare il t-test per dati appaiati solo quando si sia provato che il carattere si distribuisca normalmente mediante un test di normalità, oppure sia noto da fonti esterne che il carattere (nell’esempio, diminuzione della pressione diastolica) è distribuito all’incirca normalmente (quasi tutte le variabili biometriche lo sono). In tutti gli altri casi occorre ricorrere al test di Wilcoxon per dati appaiati (test non-parametrico) costruendolo esattamente come esposto nell’esempio 2. In casi dubbi è sempre opportuno scegliere il Wilcoxon matched-pairs signed ranks test perché la sua potenza-efficienza (v. CASCO 10, Statistica per concetti) rispetto al t-test per dati appaiati è di circa il 95% (cioè, ove ricorrano le condizioni per l’uso del test parametrico, se usando il t-test per dati appaiati per provare una certa ipotesi occorrono 95 unità, con l’uso del test di Wilcoxon per dati appaiati ne occorrono 100: solo 5 di più). Enzo Ballatori

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