Collaboratori: Giulia Annovi, Viola Bachini, Luciano De Fiore, Alessandro Magini
3
Il valore della lettura
Guido Giustetto, Rosa Revellino
IL PUNTO SULLE BIBLIOTECHE
6
Il senso della lettura e delle biblioteche
Luca De Fiore
8
La Biblioteca Digitale dell’OMCeO Torino tra innovazione e accessibilità
Intervista a Roberta Maoret, Leonardo Jon Scotta
12
Le biblioteche biomediche, dalla ricerca alla pratica
Patrizia Brigoni
16
La salute inizia con un abbraccio, un libro e la lettura
Intervista a Giovanna Malgaroli
20
L’aiuto medico a morire e il ruolo dei comitati per l’etica clinica
Intervista a Mariassunta Piccinni
22
Dialoghi aperti e costruttivi
sull’aiuto a morire
Intervista a Luciano Orsi
27
Il valore dei farmaci autorizzati, dall’Ema all’Aifa
Giuseppe Traversa
IL PUNTO SU GIOVANI E TECNOLOGIE DIGITALI
30
L’infanzia e il digitale, oltre le mitizzazioni e le demonizzazioni
Cosimo Di Bari
33
Il pediatra per una cultura digitale più consapevole
Laura Reali
Comitato editoriale
Marco Bobbio, Michela Chiarlo, Giampaolo Collecchia, Lucia Craxì, Fabrizio Elia, Elena Gagliasso, Libero Ciuffreda, Giuseppe Gristina, Roberto Longhin, Giuseppe Naretto, Luciano Orsi, Elisabetta Pulice, Lorenzo Richiardi, Massimo Sartori, Vera Tripodi, Marco Vergano, Paolo Vineis
36 I giovani, la neurodiversità e l’inclusione Intervista a Gianluca Lo Presti
38
La battaglia ai cellulari in classe Intervista a Enrico Ghidoni
40 Il corpo del creato Luca De Fiore
44
SCELTE CONSAPEVOLI La gestione dei rifiuti ospedalieri
45
LIBRI, CINEMA, ARTE Dove stiamo finendo?
Federico Russo
46
LESSICO DI BIOETICA Specismo Francesca Minerva
Progetto grafico e impaginazione Typo85, Roma Stampa Ti Printing, Roma Autorizzazione Tribunale di Torino numero registro stampa 65/2021 del 29/12/2021 (già 793 del 12/01/1953).
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4.0 Internazionale”. Può essere riprodotto a patto di citare ilpunto.it, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Finito di stampare dicembre 2024 Abbonamenti 2025 Per l’Italia privati € 40,00 (per gli iscritti OMCeO Torino ricompreso nell’iscrizione all’Ordine) enti, istituzioni, biblioteche € 50,00 Per l’Estero € 60,00 L’abbonamento decorre dal mese di gennaio a dicembre Per abbonamenti: Andrea De Fiore tel. 06 86282324 e-mail: andrea.defiore@pensiero.it
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Gli articoli raccolti in questo numero sono post pubblicati sul sito www.ilpunto.it
Il valore della lettura
Formazione per i medici e informazione per i pazienti
LGuido Giustetto
Presidente
OMCeO Torino
Direttore scientifico il punto
Rosa Revellino
Direttrice editoriale il punto
a lettura rappresenta un elemento fondante per la crescita personale e collettiva, soprattutto in ambito sanitario, dove medici e pazienti possono trarre benefici profondi dal contatto con il sapere scritto o narrato. Nel contesto della formazione medica, la lettura non si limita all’acquisizione di informazioni tecnico-scientifiche, ma si estende a un ambito più ampio, fatto di riflessioni filosofiche, esplorazioni narrative e approfondimenti etici. Per i pazienti, essa diventa un mezzo di consapevolezza e di cura, uno strumento che dà accesso alla conoscenza della propria condizione e può talvolta offrire un conforto emotivo. Le biblioteche, tradizionali o digitali, sono al centro di questo processo. Custodi del sapere, si configurano come luoghi dove scienza e cultura si incontrano, offrendo ai medici un’opportunità di aggiornamento continuo e ai pazienti un mezzo di empowerment (vedi pp. 6-7 ).
La relazione tra medico, paziente e lettura
Per i medici, la lettura è un elemento essenziale della loro formazione, non solo scientifica e clinica. Se da un lato il confronto con la letteratura scientifica è imprescindibile per mantenere una pratica clinica aggiornata e basata sull’evidenza, dall’altro la narrativa, la filosofia e la storia consentono di cogliere le sfumature del vissuto umano. Le medical humanities, infatti, offrono strumenti per approfondire il rapporto medico-paziente, migliorando la capacità di ascolto e la comprensione del contesto emotivo e sociale in cui si muove chi si trova a vivere la malattia. Leggere una storia che esplora la vulnerabilità o la resilienza, per esempio, aiuta a entrare in sintonia con le esperienze dei pazienti, favorendo un approccio sempre più umano alla cura.
La narrative medicine insegna che raccontare e leggere storie aiuta a elaborare il dolore, a dare un senso alla malattia e a ritrovare una connessione con sé stessi e con gli altri
Richard Smith, a lungo editor del BMJ, in un articolo dal titolo “Perché consiglio ai medici (o meglio a tutti) di leggere ogni giorno un bel libro”,1 suggerisce di iniziare la giornata con 90 minuti di lettura ininterrotta, 45 minuti di narrativa, 30 minuti di saggistica e 15 minuti di poesia. La narrativa deve essere profonda, trattare temi importanti (morte, amore, relazioni) e avere uno stile eccellente. Anche la saggistica deve essere idealmente ben scritta, perché uno stile eccellente stimola il cervello nel modo giusto. La poesia offre un ritmo che accompagna l’intera giornata. La lettura prepara in modo eccellente ad affrontare le assurdità, la fretta, le banalità, le richieste insensate e persino le difficoltà che inevitabilmente si presentano anche nelle giornate migliori. Anche per i pazienti, la lettura rappresenta una risorsa preziosa. Attraverso l’accesso a risorse informative affidabili e sicure, i pazienti possono acquisire maggiore consapevolezza della propria condizione, contribuendo attivamente al processo decisionale e all’alleanza terapeutica. La lettura non è solo strumento di conoscenza: è anche una forma di cura. La narrative medicine ci insegna che raccontare e leggere storie aiuta a elaborare il dolore, a dare un senso alla malattia e a ritrovare una connessione con sé stessi e con gli altri. I programmi di biblioterapia, implementati in diversi contesti ospedalieri, dimostrano come testi
accuratamente selezionati possano ridurre l’ansia, migliorare la qualità della vita e offrire momenti di sollievo. La narrazione diventa così una forma di libertà, capace di trascendere i limiti imposti dalla malattia e di restituire dignità e senso alla vita.
I luoghi di lettura, reali e virtuali
Le biblioteche, da sempre luoghi simbolo della conoscenza, si trovano oggi a confrontarsi con il potere del digitale. Le tecnologie moderne offrono un accesso rapido e globale a risorse che una volta erano confinate in spazi fisici (vedi pp 8-11 e pp. 12-15 ). Questa trasformazione, se da un lato facilita gli apprendimenti e la ricerca, dall’altro pone nuove sfide. Il rischio del sovraccarico informativo e la difficoltà nel discernere le fonti affidabili sono solo alcuni degli ostacoli che richiedono un approccio guidato e consapevole. L’intelligenza artificiale, in questo contesto, può svolgere un ruolo importante migliorando l’organizzazione e l’accessibilità delle risorse. Tuttavia, è fondamentale che l’innovazione tecnologica non si traduca in un allontanamento dalla dimensione umana: il digitale deve continuare a essere uno spazio di relazione e di scambio, un luogo dove il sapere non solo si accumula ma si condivide.
Il valore della scuola in questo scenario non può essere sottovalutato. Iniziative come Nati per Leggere dimostrano come la lettura precoce sia fondamentale per lo sviluppo cognitivo ed emotivo dei bambini, gettando le basi per una vita di apprendimento e curiosità (vedi pp 16-20). La scuola, in collaborazione con le biblioteche, può promuovere una cultura della lettura che accompagni i futuri cittadini nel loro percorso di crescita, educandoli alla conoscenza e anche alla consapevolezza critica.
Ribadire il valore della lettura significa altresì riconoscere il suo potere liberatorio. Leggere non è solo un atto individuale, ma una pratica che crea connessioni profonde con il mondo e con gli altri. La lettura è una forma di resistenza contro l’appiattimento del pensiero e contro l’omologazione; è uno spazio di libertà dove si coltiva il dialogo tra passato, presente e futuro. Per i medici significa immaginare una medicina che ascolta; per i pazienti significa trovare una voce in mezzo al rumore della malattia. Investire nella lettura e nelle biblioteche, sia tradizionali che digitali, è una scelta culturale e non da ultimo un atto di responsabilità verso una società che aspira a essere più consapevole, giusta e libera. Leggere è un modo per essere sempre più vicini all’umano.
Le tecnologie digitali e i giovani
L’integrazione delle tecnologie digitali nell’ambito educativo rappresenta inoltre un elemento essenziale per il supporto degli studenti con disturbi specifici dell’apprendimento (Dsa) e neurodiversità (vedi pp 36-37 ). Strumenti compensativi, quali software di sintesi vocale, programmi per la creazione di mappe concettuali e applicazioni specifiche consentono di ridurre le barriere all’apprendimento attraverso canali alternativi, favorendo così l’autonomia e una maggiore inclusione scolastica. Studi evidenziano come, grazie all’uso di tali strumenti, sia possibile migliorare significativamente le performance degli studenti con Dsa, aiutandoli a raggiungere obiettivi che sarebbero altrimenti difficilmente ottenibili, grazie anche a percorsi di tutoraggio didattico specializzato. Tuttavia, l’utilizzo non guidato delle tecnologie digitali può presentare significativi limiti e rischi. L’esposizione prolungata agli schermi, soprattutto in età precoce, è associata a effetti negativi sullo sviluppo cognitivo, emotivo e relazionale. Ad esempio, può compromettere la capacità di concentrazione, la qualità del sonno e la regolazione delle emozioni (vedi pp. 33-35 ). Pertanto, risulta imprescindibile un’educazione digitale consapevole e un coinvolgimento attivo degli adulti nella supervisione e nella regolamentazione dell’ uso di questi strumenti (vedi pp. 30-32). In tale contesto, è fondamentale formare sia i docenti sia le famiglie per un impiego appropriato e mirato della tecnologia (vedi pp. 38-39).
Mehmet Akif Gündüz / CC BY
Accanto al digitale, però, non va dimenticato il valore intrinseco della lettura quotidiana, che può includere anche l’ascolto di letteratura attraverso audiolibri o piattaforme dedicate. Questa modalità, resa possibile proprio anche dalle tecnologie, consente di avvicinare alla lettura anche coloro che presentano difficoltà specifiche o che preferiscono l ’apprendimento uditivo. Come sottolinea Richard Smith nel suo articolo “Perché leggere ogni giorno un bel libro”,2 la lettura offre benefici unici: stimola l’immaginazione, rafforza le competenze linguistiche, promuove la capacità di riflessione critica e favorisce un’esperienza di apprendimento lenta e profonda, in contrasto con la velocità superficiale dell ’informazione digitale. Integrare la lettura nella routine quotidiana rappresenta un elemento chiave per lo sviluppo armonioso dei giovani, arricchendo il loro bagaglio culturale e contribuendo a costruire una società più consapevole e preparata alle sfide future. E come non pensare al film The Reader – A voce alta, in cui la protagonista Hanna Schmitz, analfabeta per gran parte della sua vita, trova nella lettura un mezzo per costruire una nuova identità e affrontare il suo passato di guardiana in un campo di concentramento. Durante la detenzione, impara a leggere e scrivere da autodidatta, utilizzando cassette registrate da Michael, il giovane letterato di cui si era innamorata. La lettura diventa per lei una forma di libertà interiore, affrancandola dall’ignoranza e dalla vergogna che l’avevano intrappolata, e rappresenta un tentativo di riconciliazione con il peso morale delle sue azioni incoscienti e lontane dall’umano. y
La lettura è una forma di resistenza contro l’appiattimento del pensiero e contro l’omologazione. Per i medici, significa immaginare una medicina che ascolta; per i pazienti, significa trovare una voce in mezzo al rumore della malattia
Bibliografia
1 Smith R. How to start the day. Blogs. bmj.com 18 settembre 2012.
2 Smith R. Perché leggere ogni giorno un bel libro. ilpunto.it, 6 agosto 2023.
“In fondo, Amazon ha fornito qualcosa di meglio di una biblioteca locale senza utilizzare le tasse pagate dai contribuenti. Ecco perché Amazon dovrebbe sostituire le biblioteche locali. In un colpo solo, questa mossa farebbe risparmiare soldi ai cittadini e aumenterebbe il valore azionario di Amazon”. Così scriveva il 21 luglio 2018 su Forbes Pa nos Mourdoukoutas, docente di economia all’università privata della Long Island university negli Stati Uniti. Come alternativa migliore alle costosissime biblioteche pubbliche, Mourdoukoutas aggiungeva anche la catena di caffè statunitense Starbucks: “un posto comodissimo dove leggere, navigare in rete, vedere gli amici e bere qualcosa”. Furono talmente tante e arrabbiate le reazioni dei lettori online che Forbes fu costretto a rimuovere immediatamente il post provocatorio.1 Nonostante le proteste, resta il fatto che la situazione per le biblioteche pubbliche è critica. Negli Stati Uniti si sta assistendo a una generalizzata contrazione dei finanziamenti, taglio di personale e degli acquisti di risorse.2 Per di più, la polarizzazione delle posizioni politiche ha messo le biblioteche nel mirino della destra radicale statunitense che vede negli spazi dove libri e riviste sono condivisi dei pericolosi luoghi di diffusione di documentazione sui diritti delle minoranze.3 Nel Regno Unito, ben 800 biblioteche sono state chiuse dal 2010 al 2022.4 E in Italia? È difficile farsi un’idea: i dati diffusi annualmente fotografano una realtà che andrebbe però analizzata nel suo divenire. L’impressione, purtroppo, non è rassicurante. E cosa accade alle biblioteche delle aziende sanitarie o degli istituti di ricerca? Il ritorno dell’attenzione di questi mesi per le attività di health technology assessment potrebbe teoricamente rilanciare il ruolo delle risorse bibliografiche. Eppure, “ogni anno continuano a chiudere biblioteche scientifiche nelle istituzioni sanitarie italiane”, ha detto alla rivista CARE Chiara Bassi – documentalista della Biblioteca Corradini della Ausl Ircss di Reggio Emi-
Il senso della lettura e delle biblioteche
Dialoghi tra le righe e note a margine
lia – “forse perché lo spazio oggi è prezioso e una sala riunioni sembra poter essere più utile di una biblioteca”.5
Il libro come spazio di dialogo Evidentemente ci si dimentica che anche i libri possono essere spazi di dialogo, e lo sono persino con chi non c’è più ma che ha letto e vissuto vicino a quei libri. Se ne è parlato, a Reggio Emilia, durante un incontro organizzato per festeggiare la costituzione di un fondo librario intitolato ad Alessandro Liberati, medico e ricercatore, evento patrocinato anche dall’Associazione intitolata proprio a Liberati e affiliata alla rete internazionale Cochrane. Le collezioni di libri possono essere arricchite da sottolineature e commenti, dalle note a margine delle pagine o da dediche, come quella che Sir Iain Chalmers scrisse nella pagina di occhiello della copia regalata a Liberati di quello che resta uno dei libri più importanti nella storia della medicina basata sulle prove.6 Spesso le annotazioni che ritroviamo sui libri sono tracce per comprendere i percorsi di studio o di approfondimento di chi ha letto e conservato quel libro sui propri scaffali. Quando poi si ha l’occasione di sfogliare libri di una persona che abbiamo conosciuto e non c’è più, queste note diventano indizi utili per ridurre la distanza tra la vera personalità del proprietario del libro e il nostro ricordo che, col trascorrere del tempo, inevitabilmente dimentica qualcosa e aggiunge qualcos’altro, finendo
Luca De Fiore
Past president Associazione Alessandro Liberati Direttore de Il Pensiero Scientifico Editore
per avvicinare poco a poco ai nostri desideri il carattere di chi abbiamo perduto. Ma sfogliando libri appartenuti ad altre persone, ci si può domandare il perché dell’annotare le pagine che leggiamo: in fin dei conti, a vantaggio di chi lo facciamo? La risposta semplice è che lo facciamo per noi: soprattutto quando studiamo, sottolineare o sintetizzare alcuni passaggi a margine di un testo può aiutare a memorizzare o – per i più giovani – a ripassare prima di un esame o di un’interrogazione. Da adulti, però, annotiamo quel che leggiamo pur non dovendo render conto delle nostre letture. Né abbiamo il tempo, molto spesso, di tornare su libri già letti riprendendoli dallo scaffale. Il sospetto è dunque che un libro annotato possa essere una specie di messaggio nella bottiglia affidato a persone forse familiari – che un giorno si troveranno a dover decidere cosa fare dei nostri libri – o sconosciute – come nel caso degli utenti della biblioteca dell’azienda sanitaria di Reggio Emilia che avranno tra le mani i libri di Liberati. Le note a margine nelle pagine di un libro potremmo dunque avvicinarle a testi relazionali, capaci di trasformare un libro in uno spazio aperto e contribuendo a dare ragione a chi, come Michele Mari, scrive che “a casa mia niente era più carico di memoria e di anima che le cose”.7
Le biblioteche pubbliche in Italia
13.393
Le biblioteche censite
7.076
Le biblioteche di enti territoriali
1.225
Le biblioteche delle Università statali
1.199
Le biblioteche di enti ecclesiastici
46
Le biblioteche pubbliche statali del MIC
19.265
Gli indirizzi delle biblioteche presenti
Dati aggiornati al 20 giugno 2024
Fonte: Anagrafe delle biblioteche italiane.
Le biblioteche come luogo democratico di crescita
“In una cultura che sta venendo sempre più privatizzata, le biblioteche sono tra gli ultimi spazi liberi rimasti”, si legge nel lavoro di Robert Dawson8 che ha fotografato le biblioteche pubbliche, grandi e modeste, prima negli Stati Uniti e poi in altri Paesi, restituendone un’immagine di luoghi preziosi di incontro e di conoscenza, di studio, accessibili a tutti, che favoriscono la crescita di cittadini protagonisti di democrazia.9 La loro funzione è quella di “un sistema di centri non-commerciali che ci aiutano a definire a cosa diamo valore e cosa teniamo a condividere”.8 Le biblioteche “sono essenziali per il funzionamento della nostra società”, migliorano l’istruzione e l’alfabetizzazione e il coinvolgimento della comunità. Eppure a fronte dei loro benefici economici e sociali il loro futuro non è roseo, anche perché conviviamo con la convinzione che il valore di un libro sia nell’esser letto: occupare spazi pubblici – per esempio nelle aziende ospedaliere o nelle università – per conservare volumi poco o per nulla consultati sembrerebbe un lusso che non può essere giustificato.
Eppure c’è chi – come il matematico e filosofo Nicholas Taleb – è pronto a scommettere che i libri ancora da leggere sono più preziosi di quelli che già abbiamo conosciuto: “Umberto Eco appartiene a un raro genere di studiosi enciclopedici, perspicaci e per niente noiosi. Possiede un’ampia biblioteca personale (di trentamila volumi), e classifica i visitatori di tale biblioteca in due categorie: coloro che reagiscono dicendo: «Caspita, professor Eco, che biblioteca! Li ha letti tutti questi libri?», e una piccola minoranza che capisce che una biblioteca personale non è un’appendice del proprio Io ma uno strumento di ricerca. I libri non letti sono molto più preziosi di quelli letti. Una biblioteca dovrebbe contenere tutti i libri su argomenti sconosciuti che i nostri mezzi finanziari, le rate del mutuo e le difficoltà del mercato immobiliare ci consentono di acquistare. Via via
che avanziamo nell’età accumuliamo più conoscenze e più libri, e i libri non letti che ci guardano minacciosi dagli scaffali sono sempre più numerosi. Anzi, più si conosce e più si allungano gli scaffali dei libri non letti. Chiamiamo l’insieme di tali libri ‘antibiblioteca’”.10
Questa “antibiblioteca” potrebbe avere un significato fortemente simbolico in un centro di ricerca o in un ospedale, a sottolineare l’incertezza che caratterizza la conoscenza scientifica e l’indispensabile curiosità che muove la ricerca. Un’“antibiblioteca” fatta anche di libri ancora intonsi e mai aperti, di libri iniziati e poi abbandonati, di letture avviate e di ripensamenti. Dopo tutto, dovremmo essere consapevoli che anche i libri non letti sono capaci di farci un grande regalo: gli scaffali delle nostre case o sul posto di lavoro ci fanno apparire migliori di quel che siamo. E allora, è possibile che una biblioteca ricca – meglio se ancora non del tutto svelata – possa essere uno stimolo, un incoraggiamento a diventare migliore anche per un’azienda sanitaria? y
Bibliografia
1 Lyons L. “Twaddle’: librarians respond to suggestion Amazon should replace libraries. Guardian, 22 luglio 2018.
2 Khale B. The US library system, once the best in the world, faces death by a thousand cuts. Guardian, 9 ottobre 2023.
3 Cineas F. The rising Republican movement to defund public libraries. Vox, 8 maggio 2023.
4 Davidson K. The British Library doesn’t need £500m – but local libraries do. Guardian, 10 febbraio 2023.
5 Canaglie, idealisti e sognatori. La sanità sorretta da letture. CARE, 11 giugno 2024.
6 Chalmers I, Keirse MJNC. Effective care in pregnancy and childbirth. Oxford: Oxford UP, 1989.
7 Mari M. Locus desperatus. Torino: Einaudi, 2024.
8 Dawson R. The public library. A photographic essay. New York, NY: Princeton Architectural Press, 2014.
9 Ward C. Enriched by what we share: a green perspective on the public library as a cultural commons. In: Dawson R. The public library. A photographic essay. New York, NY: Princeton Architectural Press, 2014. Pag. 136-9.
10 Taleb N. Il cigno nero. Come l’improbabile governa la nostra vita. Milano: Il Saggiatore, 2014.
La Biblioteca Digitale dell’OMCeO Torino nasce nel marzo 2024 per offrire ai professionisti della salute un accesso centralizzato e gratuito a risorse biomediche di alta qualità. Grazie alla collaborazione con la Fondazione Biblioteca Biomedica Biellese (3Bi) e l’esperienza maturata con la Biblioteca Virtuale per la Salute – Piemonte, il progetto mira a creare un unico punto di accesso a risorse bibliografiche e multimediali open access, favorendo la diffusione del sapere e una maggiore equità nell’accesso alle informazioni
Come è nato questo progetto e quali sono stati i passaggi chiave che hanno portato alla sua realizzazione?
L«Biblioteca Digitale
dell’OMCeO Torino
a nostra ispirazione è derivata principalmente da più elementi. Il primo è stato la grande competenza della Fondazione Biblioteca Biomedica Biellese (3Bi) maturata a partire dal 1996 che, sinergicamente all’Azienda sanitaria locale di Biella, ha sviluppato un sistema di biblioteca medica digitale rivolto ai professionisti sanitari che risiedevano o operavano nel territorio biellese. Successivamente, dal 2017, alla Fondazione 3Bi è stata affidata la gestione delle attività organizzative e tecniche connesse al funzionamento della Biblioteca Virtuale per la Salute – Piemonte (BVS-P) collaborando su numerosi aspetti, per esempio quello di negoziazione con gli editori per l’acquisto delle risorse bibliografiche, quello di reperimento degli articoli scientifici attraverso l’attivazione di un servizio di document delivery oltre a prevedere un’attività di supporto alla ricerca bibliografica per gli utenti e all’organizzazione di corsi di formazione.
L’idea di creare il portale Biblioteca Digitale dell’OMCeO di Torino è nata proprio dall’incontro di questa expertise ma soprattutto considerando le necessità e le
La Biblioteca Digitale dell’OMCeO Torino tra innovazione e accessibilità
Intervista a Roberta Maoret Documentalista scientifica, bibliotecaria biomedica
Leonardo Jon Scotta Psicologo del Lavoro e dell’Organizzazione
difficoltà reali segnalate dagli utenti. Tutto ciò ci ha portato alla convinzione che fosse fortemente necessario sviluppare un sistema centralizzato dedicato, che fungesse da aggregatore e che fosse strutturato in modo da organizzare le risorse biomediche open access
Negli ultimi anni ci sono venute incontro le nuove regole su questo tipo di risorse che stanno diventando la principale modalità di pubblicazione prevista dai mandati di enti e istituzioni, finanziatori di progetti di ricerca nazionali ed europei. La Commis-
Uno spazio per la formazione e l’aggiornamento professionale
Formazione e aggiornamento continuo rappresentano un’esigenza imprescindibile per tutti i medici e odontoiatri, fondamentali per esercitare al meglio la professione. Allo stesso modo, formazione e aggiornamento continuo insieme al progresso culturale sono tra i compiti prioritari di un Ordine delle professioni sanitarie nei confronti dei propri iscritti. La legge 3/2018, che ha riorganizzato le professioni sanitarie, assegna infatti agli Ordini il compito di promuovere e garantire la qualità tecnico-professionale. Inoltre, l’articolo 19 del codice di deontologia medica sancisce che la formazione permanente e l’aggiornamento costante delle conoscenze e delle competenze sono doveri ineludibili del medico lungo l’intero arco della sua professione. Da anni l’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Torino offre ai propri iscritti l’accesso gratuito a banche dati evidencebased, riconoscendo l’importanza di strumenti affidabili per l’aggiornamento professionale. A fine 2023, l’Ordine ha deciso di ampliare l’offerta, che fino a quel momento includeva una sola banca dati, sviluppando un portale dedicato. Questo
sione europea infatti continua a sostenere la pubblicazione dei risultati di ricerche finanziate da enti governativi, favorendo linee guida per il deposito delle stesse negli archivi istituzionali ad accesso aperto. A nostro avviso, il progetto “Biblioteca Digitale” dell’OMCeO di Torino avrebbe fatto sì che gli operatori fossero sensibilizzati maggiormente alla ricerca, ma soprattutto avremmo permesso l’accesso alle risorse aperte anche a tutti quei professionisti che, nonostante fossero iscritti all’Ordine di Torino, non avevano diritto alla fruizione dei contenuti né attraverso la BVS-P né tramite altri sistemi che presupponessero comunque una sottoscrizione. Di questo dobbiamo ringraziare in particolare la direttrice di BVS-P, Patrizia Brigoni, che ha visto nelle risorse open access il futuro dell’accesso a informazioni di alta qualità per i professionisti sanitari.
portale consente un accesso immediato e centralizzato a numerose risorse tra cui, oltre a banche dati evidence-based, strumenti di point-of-care, podcast, riviste open source e sezioni tematiche su argomenti di ampio interesse, come intelligenza artificiale, medicina genere specifica, farmaci e bioetica. Per realizzare questo progetto, l’Ordine si è avvalsa della collaborazione della fondazione 3Bi, nota per la sua consolidata esperienza in materia.
Nella primavera del 2024 è decollato il progetto “Biblioteca Digitale” dell’OMCeO di Torino, con l’obiettivo di offrire un supporto formativo anche ai liberi professionisti e ai neolaureati che spesso non hanno accesso alle risorse messe a disposizione dalle aziende sanitarie o dalla Regione ai dipendenti e convenzionati. Pensato in una fase iniziale come progetto sperimentale, la Biblioteca Digitale si propone come punto di partenza, da arricchire e migliorare anche con il contributo degli iscritti per rispondere alle diverse esigenze professionali.
Angelica Salvadori
Consigliera OMCeO di Torino
Rosella Zerbi
Segretaria consigliera OMCeO di Torino
Quali sono i principali obiettivi della Biblioteca Digitale?
I principali obiettivi, come detto, sono quelli di fornire una collezione di risorse bibliografiche e multimediali utili ai professionisti attraverso un unico punto di accesso online a riviste, immagini, audio e video. In particolare con questo progetto ci impegniamo ad offrire servizi bibliografici dedicati e personalizzati per l’assistenza alla ricerca bibliografica esperta, alla ricerca di articoli e documenti e per la formazione alla ricerca bibliografica attraverso i principali strumenti messi a disposizione.
Attualmente quali sono i numeri della biblioteca in termini di utenti iscritti e consultazioni?
I numeri che emergono dai nostri report aggiornati all’inizio di ottobre ci dicono che gli iscritti sono 494, i quali hanno richiesto in media 25 articoli in full text, mentre gli accessi al portale sono stati 1365 da marzo (in media tre accessi a testa da marzo 2024). Riteniamo sia un ottimo debutto del servizio, pur consapevoli che ci sia ancora molto da fare e tanti aspetti da potenziare per poterlo consolidare. È importante ricordare che questi numeri sono condizionati dal fatto che per la maggior parte i medici aventi diritto a consultare il portale di Biblioteca Digitale di OMCeO sono comunque già utenti della BVS-P, in quanto afferenti alle aziende sanitarie regionali; attraverso la BVS-P hanno la possibilità di usufruire di servizi ulteriori come per esempio scaricare autonomamente o richiedere al sistema regionale documenti in full text. Per noi però rimaneva fondamentale riuscire a integrare il sistema con questa differente opportunità per offrire un portale che fungesse da collettore utile a garantire un unico punto di accesso a molte risorse altrimenti disseminate nel web.
Sappiamo che una delle sfide principali è garantire a tutti i professionisti della sanità l’accesso a risorse professionali di alta qualità. Come risponde questo progetto a
questa esigenza, rispetto alle risorse che invece sono disponibili solo per il personale dipendente o convenzionato?
Il progetto è nato proprio per affrontare la sfida dell’accesso equo a risorse professionali di alta qualità per tutti i professionisti, indipendentemente dal loro status lavorativo. Questo aiuterà a livellare il campo di gioco e rendere più omogenee le conoscenze.
Non solo, noi proponiamo contenuti personalizzati tramite risorse diversificate che rispondano alle esigenze specifiche, così che ciascun utente possa trovare materiale utile per il proprio ambito di competenza. In aggiunta, stiamo già offrendo mensilmente la traduzione in italiano di un abstract di un articolo pubblicato su riviste di rilevanza e rivolto a tematiche molto trasversali con link al testo completo. Inoltre, abbiamo avuto ottimi riscontri sia sulla possibilità di fruizione diretta di un core di riviste di valore, concertato con un gruppo di lavoro dell’Ordine di Torino, sia su contenuti multimediali di qualità (per esempio podcast) messi a disposizione. Un aspetto fondamentale del progetto comunque è l’offerta formativa, con corsi dedicati all’uso di database gratuiti come Pubmed o Tripdatabase. Poter raccontare
Ci impegniamo ad offrire servizi dedicati e personalizzati per l’assistenza alla ricerca bibliografica esperta e alla selezione di articoli e documenti, e per la formazione mirata alla ricerca bibliografica
all’utenza come consultare strategicamente banche dati specializzate e risorse elettroniche contribuisce a promuovere una cultura di condivisione delle conoscenze. Il valore aggiunto della nostra proposta resta sempre la possibilità di avvalersi dell’aiuto da parte di personale esperto.
Quali sono, più in generale, le sfide e le questioni che le biblioteche virtuali come la vostra devono affrontare, soprattutto in termini di accesso alle risorse e costi?
La sfida rimane quella di offrire all’utenza la possibilità di avere accesso alle migliori evidenze, che non vuol dire solo avere l’opportunità di consultare quanti più strumenti possibili. Il problema prioritario ovviamente rimane la copertura economica per gli acquisti e soprattutto per l’organizzazione. Gli editori portano quasi sempre aumenti incrementali di anno in
anno (3-5 per cento) mentre i finanziamenti, per lo più, rimangono uguali o addirittura diminuiscono.
Siamo convinti che la differenza la facciano i servizi bibliotecari rivolti all’utenza sia in presenza sia da remoto. L’assistenza mirata contribuisce infatti a fare interiorizzare una metodologia ai ricercatori rendendoli più consapevoli e maggiormente autonomi nella valutazione della letteratura scientifica internazionale e capaci di ottimizzare la scelta delle proprie letture con una conseguente ricaduta positiva sulla loro pratica clinica.
Quali sono le prospettive future per il portale? Ci sono già piani per ampliarne le funzionalità o introdurre nuove risorse? Un portale dedicato al mondo medicoscientifico richiede certamente una evoluzione continua. Prossimamente vorremo ampliare le funzionalità già presenti, ottimizzandole, introducendo per esempio nuove risorse (magari anche in lingua italiana), proponendo nuovi strumenti, mantenendo attivi gli aggiornamenti sulle normative e sulle nuove pratiche cliniche. Una possibilità di sviluppo potrebbe essere quella di sfruttare l’intelligenza artificiale e l’analisi dei dati per suggerire articoli pertinenti basati sugli interessi e sulle necessità degli utenti; questo sempre ovviamente sotto una supervisione umana per evitare le cosiddette allucinazioni da intelligenza artificiale.
Cercheremo sicuramente di contribuire a creare un sistema più integrato e accessibile: potrebbe essere utile proporre un sistema di networking, in grado di promuovere programmi di mentorship che permettano di condividere conoscenze ed esperienze utili a creare un ambiente di apprendimento collaborativo multidisciplinare.
La possibilità di raccogliere feedback dai partecipanti consentirà di migliorare continuamente le risorse offerte, assicurando che siano sempre adeguate e rilevanti per le esigenze di ogni singola specialità. y
La storia delle biblioteche biomediche è strettamente intrecciata con la storia più ampia delle biblioteche pubbliche che da sempre, offrono alla comunità riviste e libri disponibili per il prestito e la consultazione, ma anche spazi di incontro, studio e molto altro ancora. Le biblioteche biomediche sono anche luogo di innovazione e dunque non sono state colte di sorpresa dalla rivoluzione digitale.
Spesso sono collocate all’interno delle università, qualche volta sono presenti nel sistema sanitario.
Negli ultimi decenni nel nostro Servizio sanitario nazionale sono nate diverse biblioteche biomediche digitali. Non si tratta di scelte anacronistiche in amministrazioni che dovrebbero occuparsi d’altro. Realizzare una biblioteca nel sistema sanitario è certamente una idea coraggiosa e valida, nonostante i tempi difficili, caratterizzati da risorse limitate e dalla carenza di tempo che affligge gli operatori sanitari.
Occorre infatti ricordare che i medici e anche tutti gli altri professionisti sanitari non apprendono solo nei loro anni di formazione universitaria. Considerate le conoscenze sempre in evoluzione, l’importanza e i rischi connessi con il loro lavoro, imparano lungo l’intero corso della loro vita lavorativa, ancora più di quanto facciano altri professionisti. Imparano dalla loro esperienza, dai colleghi di reparto, dai convegni delle loro società scientifiche e dai corsi; vengono informati dall’industria del farmaco e apprendono continuamente anche da studi scientifici e documenti specialistici, rapporti di ricerca e linee guida. Gli studi scientifici riguardano non solo efficacia e costi, ma anche aspetti etici, organizzativi, sociali e giuridici, e dovrebbero orientare le decisioni degli operatori sanitari beneficiando sia i pazienti che la comunità.
Le biblioteche biomediche rendono disponibili le conoscenze cliniche e organizzative, supportano le attività di ricerca e di gestione dell’innovazione, organizza-
no programmi di formazione e coordinano le attività di negoziazione con editori e fornitori di risorse bibliografiche.
Le biblioteche del nostro sistema sanitario
In Italia la tradizione in tema di biblioteche biomediche del sistema sanitario è ricca di buoni esempi, anche fuori dal contesto accademico. Esistevano molte biblioteche mediche, negli ospedali medi e grandi, che però sono state in grande parte ridimensionate o chiuse negli ultimi anni. Sono in diminuzione soprattutto le biblioteche cartacee, e le riviste raccolte per tanti anni sono eliminate o riposte in soffitta, per recuperare locali utili alle attività di cura o sale di riunione. Molte biblioteche fisiche resistono, alcune fra queste conservano materiali antichi preziosi e interessanti per la storia della medicina, come la Biblioteca dell’Azienda ospedaliera universitaria di Alessandria. Le biblioteche digitali o virtuali sono nate con l’avvento delle riviste e dei libri elettronici, agli inizi degli anni duemila. La
Patrizia Brigoni Documentalista biomedica
Direttrice della Biblioteca Virtuale per la Salute-Piemonte
Le biblioteche biomediche, dalla ricerca alla pratica
L’esperienza della Biblioteca Virtuale per la Salute-Piemonte
transizione digitale ha portato una grande ricchezza, integrando nelle raccolte video, immagini, podcast e collegamenti ipertestuali. Nel campo delle banche dati su farmaci e trattamenti, un valore aggiunto consiste nel rendere disponibili aggiornamenti e correzioni più velocemente rispetto alle edizioni a stampa. La maggior parte delle biblioteche biomediche regionali non organizzate dalle università e rivolte al personale del Ssn si occupa anche della centralizzazione degli acquisti, valutando la qualità e la fruibilità dei prodotti da acquisire, e mette a disposizione online, previa autenticazione, articoli, libri, banche dati e materiali utili per la comunicazione con i cittadini, o per svolgere al meglio l’attività amministrativa. Altre biblioteche, come la Biblioteca Alessandro Liberati, sono piuttosto focalizzate sulla proposta di contenuti scientifici ad accesso aperto, e sono luoghi online di confronto, finalizzati ad approfondire l’approccio teorico e operativo della medicina, basandosi sulle evidenze scientifiche. Tutte hanno l’obiettivo di
Realizzare una biblioteca nel sistema sanitario è certamente una idea coraggiosa e valida, nonostante i tempi difficili
promuovere l’applicazione delle prove di efficacia nella pratica clinica e nella gestione dei servizi sanitari, anche attraverso progetti di formazione.
Il contesto è piuttosto difficile: l’accesso alle risorse ha visto molti cambiamenti nell’ultimo decennio e l’open access – nato per rendere disponibili a tutti le risorse e ridurre il divario economico fra chi può acquistare abbonamenti e chi non può permetterselo, per fare crescere la circolazione degli studi e dei dati – non ha raggiunto pienamente i suoi obiettivi. I grandi editori internazionali propongono sempre più riviste e sempre più articoli, sempre più risorse ibride (fascicoli che contengono sia articoli open che a pagamento), e questo fa sì che non si possa rinunciare agli abbonamenti, che sono sempre più costo-
si. Per chi vuole approfondire il tema dell’editoria scientifica dei nostri giorni, consiglio il libro di Luca de Fiore1 che racconta molto bene tutti gli aspetti di un mondo che è cambiato e non sempre in meglio.
Inutile sottolineare quanto la presenza di personale qualificato sia un elemento fondamentale per la vitalità e la qualità delle biblioteche. Quando gli operatori sanitari hanno necessità di ricercare studi o documenti, o di approfondire una tematica di interesse, si rivolgono ai documentalisti. Nel mare della letteratura prodotta è importante impostare strategie di ricerca bibliografica efficaci, cercare con competenza e trovare quello che più si avvicina alla necessità. I documentalisti offrono una “intermediazione” efficace per l’utilizzo di database articolati, insieme ad una partecipazione competente alle attività di ricerca. Conoscono le fonti della letteratura e dell’informazione biomedica, supportano la conduzione di revisioni sistematiche e sono esperti nell’utilizzo di programmi di reference management come Zotero o Endnote. Anche la realizzazione di report di health technology assessment richiede il supporto di documentalisti.
I documentalisti offrono una “intermediazione” efficace per l’utilizzo di database articolati, insieme ad una partecipazione competente alle attività di ricerca
La Biblioteca Virtuale per la Salute – Piemonte (BVS-P)
Istituita nell’ottobre 2009 dalla Regione Piemonte, opera per fornire gratuitamente a tutti gli operatori del Servizio sanitario regionale l’accesso alle risorse bibliografiche necessarie e per supportare le attività di studio e ricerca. La BVS-P è responsabile dell’acquisizione centralizzata di periodici elettronici e banche dati per tutte le aziende sanitarie, dunque anche della negoziazione con gli editori nazionali e internazionali. Si occupa anche della formazione alla ricerca bibliografica, e i documentalisti assistono gli operatori nella realizzazione di progetti di ricerca. È affidata dal 2017 all’Asl di Biella. In Piemonte prima della BVS-P c’erano molteplici biblioteche, alcune erano presenti nelle aziende ospedaliere universitarie e organizzate dalle università, altre operavano in strutture grandi e medie della Regione. La creazione di una biblioteca virtuale o meglio digitale è importante per tutte le strutture sanitarie che non hanno una biblioteca, per i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta, per chi non riesce a far coincidere il proprio tempo di studio con i tempi di apertura di una biblioteca fisica. Partecipare alla progettazione della BVS-P e assumerne la direzione nel 2017 è stata una esperienza entusiasmante, vissuta insieme a funzionari regionali e colleghi.
Come gestire una nuova biblioteca virtuale che fosse di tutti? Come lavorare per la transizione dalle risorse a stampa a quelle elettroniche, come promuovere le biblioteche esistenti, come fornire servizi bibliografici agli operatori di tutta la Regione? È stata una lunga strada, che ha visto protagonisti i referenti nominati dalle aziende, il Comitato scientifico e i dirigenti responsabili della BVS-P presso l’Assessorato, le Asl che si sono succedute alla guida della BVS-P e la Fondazione 3BI che, dal 2017, si è assunta con entusiasmo e competenza la responsabilità della gestione dei servizi bibliografici.
Biblioteca Virtuale per la SalutePiemonte
I numeri della BVS-P
La BVS-P sostiene la cultura e l’aggiornamento professionale degli operatori sanitari piemontesi. Anche attraverso un percorso virtuoso di contenimento e razionalizzazione dei costi, ha consentito di ottimizzare le potenzialità dei servizi bibliotecari, inoltre ha ottenuto riscontri positivi da parte delle aziende sanitarie e delle categorie professionali che utilizzano la risorsa in modo intensivo per la loro pratica quotidiana. Durante la pandemia da covid-19, che ha determinato la necessità di accedere da remoto a documenti, letteratura e linee guida, è aumentato fortemente il radicamento alla biblioteca, che anche dopo il periodo di emergenza continua ad essere strumento di consultazione quotidiano per gli operatori sanitari piemontesi.
La negoziazione con gli editori internazionali è trasparente, rigorosa, attenta ai costi e alle opportunità offerte dai prodotti, rispettosa del budget assegnato dalla Regione e delle richieste degli operatori. Quando non è possibile acquisire una pubblicazione in quanto i costi non lo consentono, la biblioteca mette a disposizione un servizio di document delivery. La spesa complessiva della Regione per risorse bibliografiche, secondo i dati tratti dal bilancio regionale, era nel 2008 di 3.500.000 euro, oggi è di circa 1.600.000 euro, i titoli unici erano 566, ora sono 3332, le banche dati sono aumentate rispetto al passato e alcune di queste, farmacologiche e point of care, non erano presenti nel sistema sanitario regionale o erano presenti solo presso le università.
Il valore della nostra biblioteca è dato dalla cura che si offre alla comunità degli operatori. È un posto che costruisce fiducia, è luogo di uguaglianza nelle opportunità, perché la formazione continua sia il più possibile diffusa: anche da questo dipende la qualità non di un singolo ospedale, ma di tutto il Servizio sanitario regionale. Le risorse bibliografiche sono costosissime, molti operatori non possono permettersi di spendere tanto per il proprio
Il valore della nostra biblioteca è dato dalla cura che si offre alla comunità degli operatori. È un posto che costruisce fiducia,
è luogo di uguaglianza nelle opportunità
aggiornamento. Anche in questo senso le biblioteche biomediche superano le diseguaglianze. La BVS-P si può consultare per esempio a Domodossola e a Ceva, aree interne molto lontane da Torino dove sono presenti ospedali o presidi, esattamente come alla Città della Salute di Torino, tutti possono entrare e fruire delle risorse. Fra i destinatari i dipendenti e anche il personale afferente alle aziende sanitarie, i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta.
Ogni anno gli incontri di formazione organizzati con le aziende sanitarie o direttamente dalla BVS-P sono mediamente trenta, quasi tutti forniscono crediti ecm. Con gli operatori lavoriamo alla ricerca bibliografica complessa, alla conoscenza delle banche dati, alla valutazione degli studi. I corsi sono spesso organizzati in collaborazione con il personale delle aziende, si creano così gruppi di formatori inediti, si impara gli uni dagli altri.
Possiamo certamente dire che la BVS-P è divenuta una valida infrastruttura di supporto alla ricerca scientifica e al trasferimento delle conoscenze nella pratica clinica.
La BVS-P è il contributo delle biblioteche al mondo sanitario ed è un contributo efficiente, di qualità, economicamente sostenibile. Tutto bene? Quasi. Ci sono sempre cose da migliorare, progetti, organizzazione da mettere a punto. Data la potenzialità del suo supporto alla realizzazione degli obiettivi della sanità e ai progetti di ricerca è auspicabile che si possa un giorno integrare maggiormente la BVS-P nel sistema regionale. y
Bibliografia
1 Luca de Fiore. Sul pubblicare in medicina. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2024.
«Intervista a
Giovanna Malgaroli
Segreteria nazionale
Nati per Leggere
Centro per la Salute del Bambino onlus
Quest’anno Nati per Leggere ha compiuto 25 anni. Come è nato questo progetto e quali sono le potenziali ricadute a livello sociosanitario? Investire in questi progetti si traduce in un investimento anche per una sanità pubblica di qualità?
Il programma Nati per Leggere (NpL) è nato nel 1999 su iniziativa dell’Associazione culturale pediatri, dell’Associazione italiana biblioteche e del Centro per la salute del bambino onlus. Si tratta di un progetto condiviso fin dall’inizio sia dal settore sanitario, in particolare la pediatria di famiglia, sia dal mondo delle biblioteche, con il comune obiettivo di raggiungere le famiglie con bambini in età prescolare proponendo loro la lettura in famiglia, attività che ha un forte impatto sullo sviluppo a lungo termine delle bambine e dei bambini. Numerosi studi hanno
infatti dimostrato i benefici della lettura precoce in famiglia, la cui pratica necessita di essere sostenuta e promossa da volontari e operatori dei servizi sanitari, educativi e culturali per raggiungere il maggior numero di famiglie.
Con questo progetto riuscite a coprire tutte le classi sociali e a raggiungere famiglie emarginate o in periferia, sensibilizzando anche i genitori meno abituati alla lettura?
Questo è uno dei nostri obiettivi prioritari. Il nostro lavoro consiste nel coinvolgere nella rete territoriale tutti i servizi sanitari, educativi e culturali che hanno un contatto precoce e continuativo con le famiglie, già dai primi giorni di vita del bambino. Gli ambiti elettivi della nostra attività sono i contesti che si prendono cura della nascita e della cura delle bambine
La salute inizia con un abbraccio, un libro e la lettura
Il progetto Nati per Leggere per promuovere la lettura con le bambine e i bambini in età prescolare
e dei bambini: dai percorsi di accompagnamento alla nascita alle attività che si svolgono nei consultori famigliari, nei centri per le famiglie, nei punti nascita ospedalieri e nei centri vaccinali. Dopo le difficoltà causate dalla pandemia, abbiamo ripreso intensamente il lavoro nei centri vaccinali, che intercettano una popolazione più ampia rispetto ad altre strutture, come i consultori. Qui affianchiamo il personale sanitario, spesso con tempi limitati, attraverso i volontari NpL, che intrattengono i bambini e propongono la lettura come opportunità. Quindi per rispondere alla domanda, l’idea è di offrire il servizio non solo a chi già frequenta biblioteche o librerie, ma anche a chi non considera la lettura una parte della propria vita quotidiana. Per esempio, molti genitori non pensano di leggere insieme al loro
L’idea è di offrire il servizio non solo a chi già frequenta biblioteche o librerie, ma anche a chi non considera la lettura una parte della propria vita quotidiana
bambino un libro già a sei mesi. Il tipo di lettura che viene proposta, definita “dialogica” o “condivisa”, è ben rappresentata nel logo di Nati per Leggere, realizzato da Altan: raffigura un adulto che tiene in braccio un bambino e insieme osservano un libro. La lettura con i più piccoli è fatta di immagini che vengono osservate e commentate insieme grazie all’adulto e al suo abbraccio. Immagini e parole che acquisiranno senso e significato con l’esperienza riproposta nel corso del tempo. I libri per questa fascia d’età sono cartonati, di piccolo formato, con una sola immagine e la rispettiva parola per pagina. L’attività principale non è leggere consecutivamente, ma osservare, riconoscere gli oggetti e dar loro un nome: la lettura condivisa ri-
PER APPROFONDIRE
La rete territoriale di NpL
Nati per Leggere prevede una serie di attività formative a livello nazionale rivolta a operatori di tutti gli ambiti coinvolti allo scopo di facilitare la creazione di un linguaggio comune e il lavoro di rete interprofessionale sul territorio. Gli operatori e i diversi servizi sociosanitari, educativi e culturali che formano la rete intervengono in ogni contesto locale per raggiungere il maggior numero di famiglie con bambini e bambine in età prescolare e promuovere la lettura condivisa ad alta voce. Le attività hanno luogo nei presidi NpL, ossia in tutti quei luoghi gestiti da professionisti e volontari che hanno seguito un percorso formativo, che rappresentano i nodi delle reti locali dei programmi nazionali NpL. I presidi sono spazi educativi in cui la relazione tra i bambini, le bambine e gli adulti che si prendono cura di loro viene facilitata e rafforzata dalle buone pratiche condivise della lettura e i libri sono intesi come “ponte” per una comunicazione più profonda. Sono anche un luogo di incontro per le famiglie dove, oltre al sostegno allo sviluppo cognitivo, sociale ed emotivo del bambino, si dà molta importanza al sostegno alle competenze genitoriali.
Fonte: www.natiperleggere.it
chiede l’intervento attivo di un adulto e offre un’esperienza ricca e multimodale, visiva, uditiva e sensoriale. Questa pratica, se iniziata precocemente, ha un grande impatto sullo sviluppo cognitivo, linguistico e relazionale del bambino. Nati per Leggere, insieme al programma gemello Nati per la Musica (NpM), insiste sull’importanza dell’intervento precoce, poiché più l’esperienza è precoce, più è incisiva. La musica, ad esempio, è utilizzata già durante la gravidanza, poiché l’udito del feto si sviluppa presto, permettendo alle bambine e ai bambini di riconoscere voci e suoni già alla nascita. Entrambi i programmi mirano a costruire competenze nei bambini in età prescolare. Bambini che hanno avuto l’opportunità di avvicinarsi presto ai libri e alla musica mostrano competenze linguistiche e cognitive meglio sviluppate rispetto a chi non ha avuto queste opportunità.
Chissà se, paradossalmente, la persona adulta potrà essere sostituita da Alexa o un qualsiasi altro assistente vocale o robot... Oggi esistono app sempre più evolute che leggono a voce alta, offrendo un supporto interessante. La tecnologia può essere ed è a tutti gli effetti uno strumento utile, soprattutto per supportare chi ha difficoltà di apprendimento. Tuttavia, non può sostituire il ruolo dell’interazione umana, in particolare nei primi anni di vita, quando si pongono le basi per lo sviluppo emotivo e cognitivo. Vi è infatti una differenza sostanziale per l’apprendimento e la comunicazione, tra l’interazione mediata dalla tecnologia e quella che avviene tra persone. Gli studi condotti da esperti della salute dei bambini – inclusi pediatri, psicologi e neuroscienziati – sottolineano che un punto cruciale nella comunicazione con il bambino è la risposta contingente, ovvero una risposta puntuale e personalizzata che solo una persona fisicamente presente può dare. Ad esempio, i bambini che guardano la televisione o interagiscono con dispositivi digitali ricevono stimoli generici, con immagini veloci e suoni
Una macchina non può sostituire
l’esperienza che si crea grazie alla lettura condivisa che crea un legame unico, fatto di attenzione, sguardi e risposte personalizzate
spesso sovrastanti la loro capacità di prestare attenzione. Questi stimoli non sono adattivi né personalizzati. Invece, l’adulto presente, condividendo un libro, un gioco o anche un semplice commento sulla giornata, offre una risposta specifica al bambino, che tiene conto della sua esperienza e delle sue competenze. Questo tipo di comunicazione non è standardizzata ma unica, modellata sulle esigenze e le emozioni del bambino in quel momento. Ed è proprio su questo aspetto che gli esperti della salute mentale, specialmente nei primi anni di vita, insistono con forza.
Una macchina non può quindi sostituire l’esperienza che si crea grazie alla lettura condivisa che crea un legame unico, fatto di attenzione, sguardi e risposte personalizzate.
NpL opera anche all’interno degli ospedali? Come dicevamo NpL lavora prevalentemente con bambini in età prescolare nel territorio. Negli ospedali, le attività si concentrano spesso nei punti nascita e, in alcuni casi, nelle terapie intensive neonatali. Un progetto rilevante in questo contesto è stato “La cura della lettura”, curato dall’Associazione culturale pediatri insieme al Centro per la salute del bambino onlus e a NpL, finanziato dal Centro per il libro e la lettura. Questo progetto ha definito protocolli di attività su come iniziare e sostenere il programma di lettura in alcuni reparti ospedalieri, come la terapia intensiva neonatale o l’oncoematologia pediatrica, nel neonato pretermine o ad alto rischio neuro evolutivo e con disturbi del neurosviluppo. Ovviamente l’obiettivo
La scuola e i libri negli ospedali torinesi
Negli anni ’60-’70, la Fondazione Alberto Colonnetti, per iniziativa di Laura Colonnetti e in collaborazione con il Comitato Regionale “Gigi Ghirotti”, istituì a Torino alcune biblioteche ospedaliere che rappresentarono un supporto significativo per pazienti adulti e bambini, in particolare per i lungodegenti privati della possibilità di partecipare a incontri culturali o ricreativi. Un’attenzione particolare fu riservata ai piccoli degenti, grazie alla creazione di un’auletta didattica annessa alla biblioteca dell’Ospedale infantile Regina Margherita. Questo progetto ottenne l’autorizzazione del Ministero della pubblica istruzione per il distacco di insegnanti di scuola primaria, permettendo così lo svolgimento delle attività scolastiche in ospedale. L’attività prosegue ancora oggi con l’iniziativa “La Scuola in Ospedale”. Associazioni e volontari collaborano supportando la lettura, il gioco creativo e l’assistenza ai bambini allettati, impossibilitati a muoversi. Negli anni l’attività si è diversificata richiedendo competenze precise, stabilite da normative e requisiti professionali, per l’accesso ai reparti di chi affianca medici, infermieri e personale interno. Adeguati corsi per animatori, lettori, “clownery” ludico-terapeutica hanno permesso e
principale non è terapeutico, ma creare le condizioni per l’accesso universale alla lettura e mettere a disposizione uno strumento di prevenzione primaria. Ad esempio, come indicato nelle linee guida del progetto la lettura condivisa ad alta voce è la strategia di intervento linguistico e per lo sviluppo neurocomportamentale nel bambino nato pretermine: spiegare ai genitori quanto possa essere importate parlare con il loro neonato, nel rispetto dei suoi segnali comportamentali, dovrebbe essere fornita precocemente e continuativamente durante la degenza in reparto, e proseguire a casa. y
arricchito di proposte la vita dell’ospedale, anche grazie a una rete di collaborazioni da parte di vari enti e istituzioni che ha affiancato l’Unione genitori italiani e la Fondazione Ospedale Regina Margherita nell’impegno a promuovere eventi di sostegno e sensibilizzazione della cittadinanza. La biblioteca del Regina Margherita, chiusa durante la pandemia covid-19, non è ancora accessibile. Tuttavia, per non impoverire le attività di lettura, in particolare per i bambini lungodegenti, la Fondazione ha ideato con i partner culturali Muse Concertanti/IdeaCultura la collana “La Fiaba paziente” che è giunta alla quarta edizione grazie all’impegno di volontari e organizzazioni partner. L’idea è di ampliare ad altri reparti questa iniziativa, valutando con lo staff interno medico/psicoterapeutico le diverse esigenze a seconda dell’età e della gravità di diagnosi per una fruibilità adeguata. L’auspicio è che la biblioteca possa tornare presto accessibile. Come già avvenuto in passato, la Fondazione Colonnetti contribuirà alla sua crescita con dotazioni di libri. Questa iniziativa rientra tra le priorità della Fondazione, la cui missione è intrinsecamente legata alle esigenze giovanili, in particolare a quelle in condizioni di fragilità.
Rosy Alciati Fondazione Alberto Colonnetti onlus
«L’aiuto medico a morire e il ruolo dei comitati per l’etica clinica
Al convegno “La richiesta di aiuto medico a morire. Raccomandazioni sul ruolo dei comitati etici e delle strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale” che si è svolto a Palermo avete presentato il documento sull’aiuto medico morire del gruppo multidisciplinare “Un Diritto Gentile”. Come è nato questo documento?
Il nostro gruppo di lavoro “Un Diritto Gentile” ha prodotto questo documento dopo la sentenza Cappato della Corte costituzionale, che ha aperto la possibilità per un paziente di richiedere l’assistenza al suicidio a una struttura sanitaria. Questa possibilità, pur significativa, ha generato molti problemi pratici, perché non è stata istituita con una legge ma tramite una sentenza. Questa sentenza non riconosce un diritto esplicito, bensì introduce la non punibilità per il medico che dia risposta alla richiesta del paziente, quando ricorrano determinate condizioni. Ciò ha creato difficoltà sia per i pazienti e i familiari sia per il personale sanitario. Il dibattito sull’aiuto medico a morire genera spesso confusione rispetto alle varie opzioni a disposizione quando ci si trova alla fine della vita. Molti pazienti, ad esempio, non comprendono la differenza tra la possibilità di chiedere la sospensione dei trattamenti e quella di richiedere un’assistenza per morire. Per il personale sanitario, invece, la mancanza di una legge chiara rende tutto ancora più complesso, poiché non esistono indicazioni precise su chi debba svolgere quali ruoli.
Qual è stato il percorso che vi ha portato al documento?
Intervista a Mariassunta Piccinni
Università degli studi di Padova
Coordinatrice dell’Osservatorio di Diritto gentile di Padova “Per un diritto gentile nelle relazioni di cura” Comitato etico per la pratica clinica, Istituto oncologico veneto, Padova
In risposta a questa esigenza della cittadinanza, come gruppo “Un Diritto Gentile” abbiamo attivato un gruppo di lavoro composto principalmente da membri di comitati etici e di commissioni tecniche che si sono trovati coinvolti nei primi casi o che stanno cercando di prepararsi per eventuali future richieste. L’obiettivo era elaborare delle raccomandazioni utili sia per i responsabili delle strutture sanitarie pubbliche sia per i comitati etici, in modo da essere pronti a rispondere alle richieste dei pazienti. Uno dei problemi principali è la mancanza di una normativa nazionale: ogni struttura tende a organizzarsi autonomamente, e l’organizzazione sanitaria varia notevolmente da Regione a Regione, creando non poche difficoltà.
In che modo la sentenza della Corte costituzionale ha definito il ruolo dei medici e delle strutture sanitarie in questi casi?
Il documento del gruppo “Un Diritto Gentile”
La Corte costituzionale ha stabilito che il medico non è punibile se risponde alla richiesta di assistenza al suicidio di un paziente, a condizione che siano rispettati specifici requisiti: la persona deve essere tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, capace di prendere decisioni consapevoli, affetta da una patologia irreversibile e vivere una sofferenza fisica o psicologica intollerabile. La struttura sanitaria è incaricata di verificare questi requisiti e, vista la vulnerabilità del paziente, la Corte ha indicato che un comitato etico deve supervisionare la richiesta, assicurandosi che il paziente abbia considerato tutte le alternative, incluso un percorso di cure palliative adeguate. Esistono però difficoltà pratiche dovute alla scarsa presenza di comitati etici per la pratica clinica e alla disomogeneità territoriale: nel nord Italia questi comitati sono presenti solo in alcune Regioni, mentre al centro-sud sono assenti. La Corte costituzionale ha fatto riferimento ai comitati etici per la sperimentazione, presenti ovunque, ma con funzioni limitate alla valutazione degli studi
clinici. Noi, come gruppo, chiediamo che questi ruoli siano svolti da comitati etici per la pratica clinica, che possiedono le competenze adatte ad affrontare problematiche etiche nel contesto della cura. Il Comitato nazionale di bioetica si occupa di questi temi dagli anni ‘90: in origine, i comitati etici erano legati alla sperimentazione clinica, ma in alcune Regioni sono stati istituiti dei comitati ad hoc per la pratica clinica. Dove esistono dovrebbero essere valorizzati, e sarebbe utile istituirli laddove manchino dotandoli di funzioni ulteriori. Per competenza e struttura ci sembrano gli organismi più adeguati, poiché quelli per la sperimentazione non dispongono delle necessarie specializzazioni (nei comitati per la pratica clinica, infatti, oltre ai clinici, possono essere presenti anche bioeticisti, giuristi, psicologi e assistenti sociali, nonché rappresentanti dei pazienti). Essendo consultivi, i loro pareri non sono vincolanti, come prevede la sentenza della Corte: spetta comunque alla struttura sanitaria accertare i requisiti tecnico-scientifici e valutare le eventuali problematiche connesse alla vulnerabilità della persona. Nel documento abbiamo raccolto le raccomandazioni sull’aiuto medico a morire per supportare
Uno dei problemi principali è la mancanza di una normativa nazionale: ogni struttura tende a organizzarsi autonomamente, e l’organizzazione sanitaria varia notevolmente da Regione a Regione, creando non poche difficoltà
i comitati etici per la pratica clinica e le strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale fornendo alcune raccomandazioni sull’esercizio delle funzioni loro attribuite da parte della Corte costituzionale, quando la persona malata richieda un aiuto medico a morire.
Su quali aspetti particolari vi siete concentrati nel redigere le raccomandazioni? Abbiamo sottolineato l’importanza del coinvolgimento del Comitato etico per la pratica clinica, se presente, e del coordinamento con la Commissione tecnicoscientifica della struttura sanitaria, che verifica i requisiti. Nel nostro documento, abbiamo indicato che è essenziale coinvolgere il Comitato etico almeno contemporaneamente, se non addirittura prima, ri-
Matheus Bertelli / CC BY
spetto alla Commissione tecnico-scientifica. Il Comitato dovrebbe partecipare alla procedura anche nei casi in cui la Commissione tecnico-scientifica stabilisca che i requisiti non sono presenti, poiché chi fa questa richiesta potrebbe comunque necessitare di un supporto, anche se non rientra nei criteri previsti per l’aiuto medico a morire. In questo contesto, il Comitato etico può rappresentare anche una voce critica rispetto alle valutazioni della Commissione. Inoltre, ci siamo soffermati su cosa intendere per trattamento di sostegno vitale, un punto chiarito dalla recente sentenza della Corte costituzionale, la quale specifica che non è necessario rinunciare a un trattamento di sostegno vitale in corso per richiedere l’aiuto medico a morire: è sufficiente il rifiuto di esso. Abbiamo inoltre suggerito di considerare anche i trattamenti assistenziali come potenzialmente di sostegno vitale per pazienti alla fine della vita. Questi aspetti sono stati di recente confermati anche dalla Corte costituzionale (con la sentenza n. 135/2024).
Nel vostro documento, perché avete scelto di utilizzare l’espressione “aiuto medico a morire” anziché “suicidio medicalmente assistito”, come indicato nella sentenza?
Abbiamo scelto questa locuzione per ragioni culturali, perché il termine “suicidio” è spesso associato, sia giuridicamente che culturalmente, a un atto stigmatizzato e antisociale, rendendolo inadatto in un contesto di relazione di cura. Inoltre, il termine “suicidio” è inadeguato poiché implica un atto individuale, mentre qui un paziente chiede supporto a un’altra persona. Sarebbe auspicabile che i medici considerassero queste richieste come parte integrante del loro compito di cura. Una maggiore apertura della classe medica, insieme a una normativa che superi le interpretazioni delle sentenze, permetterebbe di affrontare queste domande con maggiore chiarezza e profondità, rispettando la complessità delle richieste dei pazienti e il ruolo dei medici. y
Dialoghi aperti e costruttivi sull’aiuto a morire
Intervista a Luciano Orsi
Medico rianimatore e palliativista
Membro della Consulta scientifica del “Cortile dei Gentili”
« »Al convegno di Palermo, lei ha presentato un altro documento – “Dialogo sul suicidio medicalmente assistito” – pubblicato dal “Cortile dei Gentili” che è una struttura del Dicastero per la cultura e l’educazione costituita per favorire l’incontro e il dialogo tra credenti e non credenti. Come si inserisce questa pubblicazione del “Cortile dei Gentili” nel dibattito attuale sul tema dell’aiuto a morire?
Questo documento si inserisce nel contesto delle due sentenze della Corte costituzionale – la n. 242 del 2019 e la n. 135 di quest’anno – e dell’ordinanza n. 207 del 2018. Rientra anche nella scia dei documenti del gruppo “Un Diritto Gentile” l’ultimo dei quali circoscritto al ruolo dei comitati etici delle strutture sanitarie nella gestione delle richieste di suicidio assistito. Inoltre, è allineato al documento della Pontificia accademia della vita “Piccolo lessico di fine vita”, pubblicato quest’estate. Negli ultimi due anni, diverse riflessioni hanno contribuito a evidenziare la necessità di una legge che regoli in modo specifico le richieste di suicidio assistito, come hanno sottolineato alla presentazione del documento sia il cardinal Ravasi che il presidente Amato, l’uno fondatore del “Cortile dei Gentili” e l’altro presidente della Consulta scientifica. Questo è il contesto in cui si presentano tanto il documento del “Cortile dei Gentili” che quello del gruppo “Un Diritto Gentile”.
Quali sono le principali di linee propositive e raccomandazioni etiche del documento?
Il documento del Cortile dei Gentili
Innanzitutto il documento sottolinea la possibilità di trovare un equilibrio tra due principi fondamentali della nostra Costituzione: il valore della vita e il rispetto dell’autonomia della persona (autodeterminazione). Questo implica che non vi è un’opposizione insormontabile per una normativa specifica sul suicidio medicalmente assistito, che dovrebbe tuttavia essere preceduta da un dialogo pluralista e interdisciplinare, centrato e guidato dalle evidenze scientifiche. È necessario evitare che il dibattito sia superficiale e retorico, ridotto a slogan, che rischiano di impoverirlo. Inoltre, il documento sottolinea la necessità di precisare meglio le quattro condizioni stabilite dalla Corte costituzionale per rendere legittima una richiesta di suicidio assistito. Ad esempio, non è sufficiente indicare solo l’irreversibilità della patologia (ci sono malattie come il diabete che, pur essendo irreversibili, non sono di portata sufficiente per una tale richiesta); pertanto servono criteri che considerino la gravità della malattia e l’onerosità delle terapie. Un’altra questione delicata è quella della sofferenza fisica o psichica. All’interno del “Cortile dei Gentili” erano presenti due visioni differenti. Tuttavia, poiché l’obiettivo del documento era raggiungere un punto di condivisione, abbiamo deciso di privilegiare la sofferenza fisica, che nei casi di patologie gravi comporta inevitabilmente anche sofferenza psichica, trovando così un equilibrio. La Corte costituzionale, in un’ottica più aperta, aveva invece considerato la sofferenza fisica o psichica. Sarà poi compito del legislatore chiarire meglio questo aspetto. Un altro punto importante riguarda la valutazione della capacità mentale e della libertà di decisione della persona. Come “Cortile dei Gentili”, abbiamo suggerito la valutazione di uno specialista esterno: non per complicare il processo, ma perché, essendo una valutazione che coinvolgerà sia una Commissione tecnica e clinica sia un Comitato etico, una valutazione terza rappresenta una garanzia ulteriore sia per il richiedente e i suoi familiari che per i va-
Non esiste, né probabilmente esisterà, una definizione univoca di trattamento di sostegno vitale, dato che l’assistenza sanitaria moderna si avvale di tecnologie varie e non facilmente classificabili
lutatori stessi. Sul tema dei trattamenti di sostegno vitale, il documento ha trovato un equilibrio considerando la complessità e l’onerosità del trattamento. Non esiste, né probabilmente esisterà, una definizione univoca di trattamento di sostegno vitale, dato che l’assistenza sanitaria moderna si avvale di tecnologie varie e non facilmente classificabili. Il suggerimento è di basare la valutazione non sulla natura del trattamento o sui dispositivi tecnologici, ma sulla complessità e i disagi che questo comporta per il paziente. Inoltre, la recente sentenza della Corte costituzionale n. 135, emessa a luglio, si muove proprio in questa direzione, allargando la categoria dei trattamenti in base all’esperienza e alla sofferenza del paziente, piuttosto che ad una categorizzazione legata alle apparecchiature impiegate per questi trattamenti.
Come si integrano le raccomandazioni del “Cortile dei Gentili” con quelle del documento del gruppo “Un Diritto Gentile”? La Corte costituzionale, nella sentenza n. 242 del 2019, aveva introdotto il ruolo di Comitati etici territoriali competenti, che di fatto corrispondono ai comitati per la sperimentazione su farmaci e dispositivi. Tuttavia, né il “Cortile dei Gentili” né il gruppo “Un Diritto Gentile” li ritengono adeguati alla valutazione di richieste di suicidio assistito. Queste, infatti, richiedono un contatto diretto con i pazienti e competenze etiche e cliniche specifiche sul fine vita, che includono un ascolto attivo e non giudicante. Per questo, entram-
bi i gruppi raccomandano l’istituzione di comitati etici per la pratica clinica, specificamente dedicati ai problemi di etica sul fine vita. Al momento, questi comitati sono presenti solo in alcune Regioni italiane, tra cui Friuli-Venezia Giulia, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, quando invece sarebbe necessario estenderli a livello nazionale. Inoltre, il “Cortile dei Gentili” ha evidenziato l’importanza di un dialogo diretto tra i valutatori del comitato etico, i membri della commissione clinica, il paziente e i suoi familiari, idealmente in ambiente protetto, perché una valutazione a distanza e basata solo su dati clinici non sarebbe sufficiente. Il documento sottolinea anche la necessità di offrire cure palliative in fase precoce ai pazienti che manifestano il desiderio di suicidio assistito, fornendo informazioni adeguate su questo percorso. L’obiettivo è distinguere le richieste legate a sofferenze trattabili in ambito palliativo da quelle che invece riflettono un autentico desiderio di anticipare la morte per sofferenze non alleviabili. Infine, viene ribadita l’importanza di un accesso equo e potenziato alle cure palliative su tutto il territorio nazionale, in linea con quanto sostenuto dalla Corte costituzionale nonché dal gruppo “Un Diritto Gentile” e dal “Cortile dei Gentili”.
Il “Cortile dei Gentili” ha raggiunto un punto di equilibrio sulla clausola di coscienza per il suicidio medicalmente assistito. Quali sono le raccomandazioni principali?
Il documento del “Cortile dei Gentili” riconosce la necessità di una clausola di coscienza, che consenta agli operatori sanitari di non essere coinvolti nell’attuazione pratica del suicidio medicalmente assistito qualora abbiano obiezioni personali o etiche. Tuttavia, il documento specifica che la valutazione e il dialogo con il paziente devono essere garantiti, essendo questi atti professionali che fanno parte del dovere sanitario. L’aiuto medico a morite richiede disponibilità individuali e sicuramente una clausola di coscienza va prevista. Personalmente, più che di clau-
sola di coscienza prenderei in considerazione una “disponibilità di coscienza” come alternativa all’obiezione, ma questo è un tema che richiederà un dibattito più ampio durante il processo legislativo. Infine, il “Cortile dei Gentili” raccomanda un investimento nella formazione degli operatori sanitari sulle cure nelle fasi terminali della malattia, nonché nell’ascolto e nella comunicazione. Suggerisce anche di prevedere un supporto psicologico per i professionisti coinvolti in queste pratiche e per i familiari, per affrontare l’elaborazione del lutto e le complesse sfide emotive che possono emergere.
Personalmente, più che di clausola di coscienza prenderei in considerazione una “disponibilità di coscienza” come alternativa all’obiezione.
Ma questo richiederà un dibattito più ampio durante il processo legislativo
Come “dialogano” le cure palliative con il suicidio medicalmente assistito? Qual è la posizione della Società italiana di cure palliative (Sicp) su questo tema?
La posizione della Sicp è chiara su due punti fondamentali. Primo, le cure palliative – inclusa la sedazione palliativa, che è l’approccio più intenso di palliazione – sono distinte dal suicidio medicalmente assistito. Le cure palliative si propongono di alleviare la sofferenza e migliorare la qualità della vita nelle fasi terminali, mentre il suicidio assistito mira ad aiutare il paziente sofferente che ne ha fatto richiesta di anticipare la propria morte in modo medicalmente assistito. Secondo, la Sicp sottolinea l’importanza di garantire a tutti i cittadini un accesso adeguato alle cure palliative, anche per ridurre le richieste improprie di suicidio assistito. Le cure palliative possono fare molto per alleviare le sofferenze dei pazienti, ma non sono in grado di annullare completamente tali ri-
chieste. Vi è una piccola quota di pazienti che, pur avendo accesso alle migliori cure palliative, continua a richiedere il suicidio assistito. Questo accade perché alcuni pazienti, nel tratto finale della loro vita, percepiscono una perdita di senso e coerenza con il sistema valoriale che li ha guidati per tutta la vita, spingendoli a desiderare un’anticipazione della morte. In questi casi, la risposta può trovarsi soltanto nella procedura di suicidio medicalmente assistito, poiché né la palliazione né la sedazione palliativa possono soddisfare queste specifiche richieste. In conclusione, la Sicp riconosce che, nonostante la diffusione e la qualità delle cure palliative, persiste una residua domanda di suicidio assistito che richiede un inquadramento normativo attento, prudente e graduale.
È possibile trovare un terreno di dialogo tra prospettive diverse e distanti, religiose e laiche, su un tema così delicato e complesso? Il documento del “Cortile dei Gentili” rappresenta un buon esempio di come possano coesistere e dialogare due culture di-
verse, credenti e non credenti, nonché visioni religiose e laiche sul tema dell’anticipazione della morte. Questo dialogo è possibile solo se si parte dal rispetto reciproco delle opinioni e da un ascolto sincero del pensiero altrui, unito alla volontà di trovare punti di consenso comune. Abbiamo definito questo approccio come “consenso per intersezione”, in cui nessuna delle due parti perde la propria specificità, ma vengono valorizzati i punti in comune. Già con le linee propositive del documento precedente del “Cortile dei Gentili” (“Linee propositive per un diritto della relazione di cura e delle decisioni di fine vita”, 2015), che abbiamo incluso come appendice, siamo riusciti a identificare aree significative di convergenza, dimostrando che anche in un ambito delicato come la piena valorizzazione delle volontà anticipate del malato e la limitazione terapeutica è possibile trovare un terreno comune, a patto di rispettare i punti di partenza di ciascuno.
Come viene affrontata la tensione tra l’autonomia personale del paziente e il ruolo
Pixabay / CC BY
delle istituzioni mediche e religiose nel contesto del suicidio assistito?
Se si rispettano le visioni reciproche e si cerca un consenso condiviso, si può trovare una via intermedia tra il rispetto per la vita e il diritto all’autodeterminazione del paziente. È importante notare che il dibattito sul suicidio medicalmente assistito è complesso: mentre la Chiesa cattolica si oppone a questa pratica, una sentenza della Corte costituzionale ha aperto a possibilità legislative future. Per i cattolici è essenziale partecipare attivamente a questo dialogo pubblico, come suggerito dalla Pontificia accademia per la vita. Qui, visioni diverse possono collaborare per affrontare problematiche sociali senza perdere le specificità culturali o religiose di ciascuno. È fondamentale percorrere insieme questa strada per risolvere un problema attuale, cercando un equilibrio tra le diverse esigenze e valori.
Come si conciliano le raccomandazioni proposte nel documento con i principi fondamentali del Codice di deontologia medica riguardo al dovere del medico di tutelare la vita e la salute del paziente?
L’articolo 17 del Codice di deontologia medica è stato modificato in seguito alla sentenza n. 242, che ha introdotto una nuova dizione. In precedenza, il Codice impediva al medico di effettuare o favorire atti finalizzati a provocare la morte del paziente anche in caso di sua richiesta, ma ora specifica che chi rispetta determinate condizioni per aiutare non è penalmente perseguibile. Questo cambiamento implica che il Codice dovrà evolversi in linea con la sentenza della Corte costituzionale e dovrà adeguarsi alle innovazioni che la società e il progresso tecnico-scientifico di fatto impongono. Il Codice deontologico delle professioni infermieristiche, che è stato aggiornato nel 2019, si è già mosso in questa direzione e non include più il divieto di partecipare a queste manovre, segnalando un ulteriore cambiamento nei valori etici del settore sanitario.
Ognuno dovrà fare i conti con sé stesso e scegliere quale prezzo pagare: un prezzo esiste, sia per chi decide di entrare moralmente e attivamente nell’ambito dell’aiuto al suicidio, sia per chi sceglie di restarne fuori
Per concludere?
L’introduzione dell’anticipazione della morte con l’aiuto del sistema sanitario rappresenta un significativo salto antropologico: c’è una differenza fondamentale tra “indurre la morte” e “lasciar morire” evitando trattamenti inappropriati, futili, sproporzionati o rifiutati dalla persona malata. Questa questione richiede una profonda riflessione sulle concezioni della vita e della morte da parte della società, della medicina e delle norme deontologiche e giuridiche. L’evoluzione dei diritti e dei vissuti sociali, insieme ai progressi scientifici, rendono essenziale affrontare le richieste delle persone che desiderano scegliere come affrontare la fase finale della vita. Rifiutare tali richieste non è meno gravoso dal punto di vista psicologico ed emotivo rispetto ad accettarle: se è difficile aprirsi alla possibilità di anticipare la morte di un malato e concepire il proprio diretto intervento, è altrettanto difficile chiudersi a tale possibilità, sapendo che ci sono persone che soffrono profondamente per questo. Ognuno, quindi, dovrà fare i conti con sé stesso e scegliere quale prezzo pagare: un prezzo esiste, sia per chi decide di entrare moralmente e attivamente nell’ambito dell’aiuto al suicidio, sia per chi sceglie di restarne fuori. Entrambi i punti di vista sono legittimi a livello individuale, e chiudersi a questa evoluzione presenta sfide significative e ci porterebbe a ignorare le esigenze e i bisogni di una parte della cittadinanza che meritano un’attenta considerazione. y
Dal momento che i farmaci hanno indicazioni autorizzate dall’Ema, e in presenza di linee guida prodotte dalle società scientifiche, quale ruolo possono avere le Note e le raccomandazioni dell’Aifa?
Per rispondere a questa domanda bisogna tener conto che l’autorizzazione di un farmaco da parte dell’Ema richiede che il farmaco sia efficace, e cioè che il rapporto fra benefici e rischi sia positivo, ma non chiarisce l’entità del cosiddetto “place in therapy”, cioè del valore aggiunto rispetto allo standard di cura, rappresentato dalle alternative terapeutiche o dall’assenza di trattamenti quando mancano trattamenti efficaci. Avviene poi frequentemente che l’autorizzazione di un farmaco comprenda un’indicazione più ampia rispetto al tipo di pazienti effettivamente inclusi negli studi clinici, ad esempio per fattori prognostici quali gravità/stadio di malattia, fasce di età, comorbidità. In rapporto alla numerosità dei pazienti con i diversi fatto-
Il valore dei farmaci autorizzati, dall’Ema all’Aifa
Note di appropriatezza prescrittiva e raccomandazioni
Giuseppe Traversa Epidemiologo
ri prognostici ci possono essere stime di efficacia con margini di incertezza più o meno ampi. Inoltre, il profilo beneficio-rischio si può modificare in rapporto alle caratteristiche dei pazienti: l’efficacia può essere ampia e ben documentata in alcuni gruppi di pazienti ed essere trascurabile e incerta in altri.
Tutti questi aspetti devono essere soppesati nelle decisioni di rimborsabilità e nella definizione del prezzo. Le Note Aifa, insieme ai piani terapeutici e ai registri, sono uno strumento per favorire l’uso appropriato dei farmaci, e cioè l’uso nelle condizioni nelle quali i benefici attesi siano clinicamente rilevanti. Non si tratta di una novità: già al momento in cui sono stati introdotti nel Servizio sanitario nazionale (Ssn) i livelli essenziali di assistenza (Lea), si è riconosciuto che non poteva esserci appropriatezza in assenza di evidenze scientifiche solide e di un’applicazione corretta a livello di singolo paziente. L’esclusione dai Lea non riguardava solo quegli interventi “la cui efficacia non è dimostrabile in base alle evidenze scientifiche disponibili”, ma includeva anche i casi nei quali gli interventi “sono relativi a soggetti le cui condizioni cliniche non corrispondono alle indicazioni raccomandate”.1,2
Quando l’efficacia del farmaco
è di lieve entità e i margini di incertezza delle prove disponibili sono più ampi, non devono sorprendere differenze fra il contenuto delle linee guida e le decisioni di rimborso
Si consideri l’esempio dei farmaci a base di vitamina D, indicati nella prevenzione e trattamento della carenza di vitamina D. L’indicazione autorizzata non precisa i livelli sierici di vitamina D al di sotto dei quali è raccomandato il trattamento, e neppure come comportarsi in presenza di fattori di rischio aggiuntivi e patologie concomitanti. Le evidenze scientifiche che si sono accumulate nel tempo hanno mostrato che, in assenza di condizioni concomitanti, la supplementazione di vitamina D non comporta alcun beneficio nella riduzione delle fratture, anche con livelli sierici di vitamina D di 10-12 ng/ml (nano grammi/millilitro). La Nota Aifa 96 ha quindi previsto che siano esclusi dalla rimborsabilità a carico del Ssn i soggetti sani con livelli sierici di vitamina D uguali o superiori a 12 ng/ml. La prescrizione a carico del Ssn è invece consentita, anche indipendentemente dalla determinazione plasmatica della vitamina D, ad esempio nelle persone istituzionalizzate o nelle donne in gravidanza o allattamento. La Nota 96 fornisce anche raccomandazioni su quando eseguire o meno il dosaggio della vitamina D, ricordando che non deve essere considerato un esame di routine indipendente da una valutazione delle condizioni di rischio del paziente.3 È stato anche osservato che, in presenza di linee guida curate dalle società medico-scientifiche, non sarebbero necessari né utili interventi ulteriori dell’Aifa. Anche in questo caso, la mancanza di una completa sovrapposizione fra il contenuto delle linee guida da un lato e quello delle Note Aifa e delle decisioni di rimborsabilità dall’altro può essere del tutto coerente
con il diverso ruolo di questi strumenti. In presenza di benefici ampi, messi in evidenza in studi di buona qualità, è atteso che siano sovrapponibili le raccomandazioni delle linee guida e le decisioni di rimborsabilità dell’Aifa. Quando invece l’efficacia è di lieve entità e i margini di incertezza delle prove disponibili sono più ampi, non devono sorprendere differenze fra il contenuto delle linee guida e le decisioni di rimborso.
Un esempio è rappresentato dal caso dell’olaparib nel trattamento dell’adenocarcinoma del pancreas metastatico in pazienti con mutazione brca1-2. Nei pazienti trattati con olaparib si è osservata una mediana di sopravvivenza globale pressoché identica, e punteggi simili di qualità della vita, rispetto al gruppo placebo, nonostante un quasi raddoppio della sopravvivenza libera da progressione. Di fronte a questi risultati, si è osservata una divergenza fra le decisioni del gruppo di lavoro che ha aggiornato le linee guida di trattamento del carcinoma del pancreas4 e quelle dell’Aifa, che ha valutato la rimborsabilità dell’olaparib. Nelle linee guida è stata inserita una raccomandazione “condizionata a favore” dell’utilizzo di olaparib, mentre la Commissione tecnico-scientifica dell’Aifa ha espresso un parere negativo alla rimborsabilità. Nel primo caso si è evidentemente privilegiato, in una condizione clinica particolarmente grave, il valore di un esito surrogato (la progressione della malattia).4 Nel secondo si è ritenuto che, in assenza di un beneficio in termini di durata e/o di qualità della vita, il valore terapeutico del farmaco non fosse sufficientemente dimostrato.
Mentre una linea-guida esprime valutazioni che, nel caso dei trattamenti farmacologici, sono specifiche di un singolo farmaco in una singola condizione clinica, le decisioni dell’Aifa devono considerare le ricadute di ciascuna decisione sull’insieme dei farmaci e sull’insieme dei pazienti. Se il valore aggiunto è clinicamente poco rilevante o assente, non ci sono ragioni per porre a carico del bilancio pubblico il rim-
borso di un farmaco, anche in assenza di altre opzioni terapeutiche. Se si dovesse considerare normale il rimborso anche di farmaci poco efficaci, questo dovrebbe valere per tutti i farmaci (addirittura per tutti gli interventi sanitari) e si sancirebbe un precedente pericoloso per la salute dei cittadini e la tenuta del Ssn. Per un’istituzione come l’Aifa che, oltre a partecipare alle decisioni autorizzative europee dell’Ema, deve decidere sulla rimborsabilità e sul prezzo dei farmaci, è normale che si intervenga anche per promuovere un uso appropriato dei farmaci. Un esempio di questo ruolo si è visto nel corso della pandemia covid-19, con le raccomandazioni sull’utilizzo dei farmaci nel trattamento dell’infezione, che l’Aifa ha costantemente aggiornato sulla base dei pareri della Commissione tecnico-scientifica per tenere conto dell’accumularsi dei risultati degli studi.5,6 Questo tipo di attività si presta a critiche ogni volta che le raccomandazioni sono in contrasto con le posizioni di associazioni di pazienti o società medico-scientifiche o aziende farmaceutiche. La caratteristica di queste contrapposizioni è che mentre per istituzioni come l’Aifa, l’Istituto superiore di sanità, il Ministero della salute, le raccomandazioni devono tenere conto delle nuove evidenze disponibili, pena la perdita di credibilità, le critiche sono più spesso impermeabili ai nuovi risultati acquisiti.
Restando nell’ambito del covid-19, nella prima fase della pandemia, in presenza di una malattia potenzialmente grave e senza terapie di dimostrata efficacia, è stato ragionevole rendere disponibili opzioni di trattamento sulla base della plausibilità biologica e di studi condotti anche su pochi pazienti. Successivamente, con l’accumularsi delle evidenze degli studi condotti, le principali istituzioni internazionali nel campo delle malattie infettive hanno attivamente sconsigliato l’uso dei farmaci per i quali era stata dimostrata l’inefficacia. Ciononostante, e sebbene con una frequenza più ridotta, le prescrizioni di azi-
tromicina per una supposta “copertura” al momento dei primi sintomi dell’infezione non sono cessate, e gruppi di medici hanno continuato nel tempo a rivendicare l’efficacia di idrossiclorochina e ivermectina, anche dopo che si erano accumulate forti evidenze del contrario.
Quello appena descritto non è un aspetto problematico solo italiano, e non riguarda solo gruppi periferici. Negli Stati Uniti, ad esempio, a settembre 2023 una corte d’appello ha accolto il ricorso di alcuni medici che avevano citato la Fda per aver emanato raccomandazioni contro l’uso di ivermectina per il trattamento del covid-19.7 Secondo la corte d’appello, la Fda “ has authority to inform, announce, and apprise – but not to endorse, denounce, or advise”. Nonostante l’inefficacia dell’ivermectina nel covid-19, ben documentata in numerosi studi clinici, la Fda non sarebbe autorizzata a sconsigliarne l’uso, anche se le affermazioni della Fda sono vere e utili ai cittadini, per non ledere la libertà di espressione dei medici prescrittori e la libertà di mercato. y
Bibliografia
1 Balduzzi R. Le nuove frontiere dell’appropriatezza clinica e organizzativa, tra individualizzazione del trattamento e superamento dei modelli tralatizi. In: Rescigno F, Giorgini Pignatiello G (a cura di). One Earth – One Health. La costruzione giuridica del Terzo Millennio. Milano: Giappichelli Editore, 2023.
2 Taroni F. Politiche sanitarie in Italia. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2011.
3 Aifa. Nota 96 per la prescrizione di farmaci a base di vitamina D. Aggiornamento del 21 febbraio 2023.
4 Aiom. Linee-guida carcinoma del pancreas esocrino – Addendum 2022. AIOM, 30 gennaio 2023.
5 Magrini N, Belfiglio M, Cangini A, et al. Ruoli dell’AIFA: valutazione del place in therapy, innovatività, uso ottimale dei farmaci e ricerca indipendente. In: Rossi F, Cuomo V, Riccardi C (a cura di). Farmacologia. Principi di base e applicazioni terapeutiche. Torino: Edizioni Minerva Medica, 2023.
6 Aifa. Farmaci utilizzabili per il trattamento della malattia covid-19. Raccomandazioni Aifa sui farmaci per la gestione domiciliare di covid-19 (Vers. 10 – Aggiornamento 10/03/2023).
7 Watson T, Robertson C. Silencing the FDA’s voice – drug information on trial. N Engl J Med 2023; 389: 2312-4.
L’infanzia e il digitale, oltre le mitizzazioni e le demonizzazioni
La capillare diffusione delle tecnologie digitali nella vita dei soggetti ha riguardato e sta riguardando sempre più l’infanzia e anche la prima infanzia. Se la domanda su quando poter avere il primo smartphone si affaccia in molte famiglie (e sta facendo irruzione anche all’interno del dibattito pubblico e politico), sarebbe auspicabile però riflettere sulla necessità che il tema del digitale venga affrontato già nei primi anni di vita del bambino, dato che, fin da quando utilizza il dispositivo del genitore, egli può sviluppare abitudini inadeguate. Lo smartphone, per esempio, tende ad essere spesso presente durante l’allattamento: sul fenomeno del brexting (l’abitudine delle madri ad allattare utilizzando contemporaneamente lo smartphone) alcune ricerche scientifiche testimoniano come si riduca la capacità di cogliere i segnali comunicativi del figlio. Anche i genitori che non consentono ai figli di utilizzare gli schermi ammettono comunque che i dispositivi sono presenti in casa e che vengono usati davanti ai bambini. E non solo: nella società contemporanea sono frequenti i casi in cui i figli sono messi in competizione con gli schermi per conquistare l’attenzione dei genitori (si parla a riguardo di phubbing, traducibile proprio come l’attitudine a “snobbare” i figli per concentrare l’attenzione sullo smartphone).
Altre statistiche, nazionali e internazionali, testimoniano come sia consistente il numero di genitori che consentono ai figli l’utilizzo degli schermi già prima dell’età
individuata dalle raccomandazioni pediatriche. A riguardo, le linee guida formulate dall’Accademia americana dei pediatri (Aap) sono il punto di riferimento internazionale più condiviso: queste sconsigliano l’esposizione agli schermi prima del compimento dei due anni, notando come a partire da questa età si possa favorire un graduale incontro, a patto che si contengano i tempi e che si garantisca la
Cosimo Di Bari
Professore associato di Pedagogia generale e sociale
Università degli studi di Firenze
Confondere una confidenza con una competenza è un potenziale errore pedagogico, che può portare a sottovalutare la necessità di adoperarsi per un uso attivo, consapevole, critico e creativo
presenza di un adulto. La stessa Aap, nel post-covid, ha abbassato il limite minimo per l’esposizione agli schermi a 18 mesi nei casi in cui lo schermo è utilizzato per effettuare videochiamate.
Come utilizzare lo schermo?
Rispetto alle ricerche scientifiche che studiano gli effetti degli schermi, ad oggi sono presenti vari studi interessanti, dai quali emergono talvolta anche risultati piuttosto contrastanti tra loro. Da un lato si sottolinea una correzione tra l’esposizione precoce agli schermi e il ritardo nello sviluppo del linguaggio, dall’altro si nota come un proficuo utilizzo dei dispositivi digitali possa incoraggiare l’apprendimento e possa risultare stimolante per bambini con disturbi specifici dell’apprendimento.
Dalle più recenti revisioni sistematiche della letteratura traspare soprattutto un dato: oltre a un focus sui tempi (cioè, l’invito a contenere l’esposizione), risulta determinante la modalità con la quale lo schermo viene proposto, così come rilevanti sono le scelte dei contenuti che vengono proposti.
Si può dunque distinguere nettamente tra l’utilizzo del digitale per permettere all’adulto di fare altro (durante il quale il bambino rimane da solo con lo schermo, spesso per intervalli di tempo molto lunghi) e l’utilizzo relazionale, in cui per esempio il genitore guarda col figlio sul dispositivo (o, meglio ancora, su uno schermo più grande) le fotografie o i video di esperienze vissute insieme. Al tempo stesso, le ricerche notano che, rispetto alla fruizione dello schermo con una postura passiva (come avviene durante la visione di un video, sia esso un cartoon o un contenuto
musicale), sono da preferire interazioni che assegnano al fruitore un ruolo attivo, per esempio attraverso app esplorative. Pensare che i cosiddetti “nativi digitali” (formula che, pur essendo circolata molto a partire dal 2001 è stata smentita dallo stesso autore che l’aveva coniata, Marc Prensky) abbiano competenze maggiori rispetto ai cosiddetti “immigrati” produce un pericoloso equivoco: può infatti indurre l’adulto a pensare che l’infanzia sia già competente rispetto al digitale, senza bisogno di essere formata. Quella dimestichezza che spesso i bambini evidenziano, dettata dalla loro curiosità che li porta ad essere esplorativi attivi degli strumenti, è soltanto superficiale: confondere una confidenza con una competenza è un potenziale errore pedagogico, che può portare a sottovalutare la necessità di adoperarsi (scuola e famiglia, in primis) per alfabetizzare e promuovere un uso attivo, consapevole, critico e creativo.
Le risposte educative alla presenza del digitale nella vita dell’infanzia dovrebbero evitare due estremi riconducibili alle posizioni che, nel lontano 1964, Umberto Eco aveva individuato tra gli studiosi dei media: al tempo il semiologo alessandrino aveva parlato degli “apocalittici” (coloro che riconoscevano ai media un ruolo omologante e potenzialmente dannoso per la vita dei soggetti) e degli “integrati” (coloro che notavano soprattutto le risorse offerte dai media). A sessant’anni da quell’invito a non produrre polarizzazioni, oggi si possono riconoscere posizioni analoghe in risposta alla crescente presenza degli schermi nella vita dei bambini: da un lato l’invito a vietare, dall’altro la ricorrenza di abusi contrassegnati da fruizioni passive e non problematizzanti (si pensi a chi usa lo schermo per “anestetizzare” il bambino o a chi delega al dispositivo funzioni che dovrebbero essere umane).
Come educare alla schermo?
Una risposta educativa rilevante, oggi, è quella della media education: questo approccio, diffusosi a partire dagli anni ’80
per l’età scolare e in riferimento ai media elettronici (alla televizione, in particolare), nell’epoca contemporanea è di estrema attualità, anche oltre i confini iniziali. Anziché demonizzare o mitizzare, la media education invita a comprendere e ad accompagnare gradualmente all’acquisizione delle competenze per riuscire a usare i media in modo più consapevole, più critico e più creativo. Educare ai media può essere possibile fin dalla primissima infanzia se si informa l’adulto di rischi e potenzialità degli schermi, aiutandolo a diventare un modello positivo per i suoi comportamenti mediatici. A partire dai 2-3 anni, quando le linee guida pediatriche ammettono che può iniziare l’incontro con gli schermi, è necessario che, nei casi in cui si favorisce la fruizione, questa sia mediata dall’adulto. Senza sostituire le esperienze dirette, ma integrandole. Pensare quindi al digitale come uno strumento non inibisce ma anzi stimola il pensiero. Il compito di promuovere la media education in età prescolare può passare principalmente da tre attori: la famiglia, i servizi educativi e gli studi pediatrici. Questi ultimi due attori dovrebbero agire in prima linea per far sì che tutte le famiglie riescano a problematizzare il rapporto che i figli hanno con gli schermi: in prima istanza l’ambito sanitario (fin dai corsi preparto, ma poi in modo più costante attraverso le informazioni dei pediatri) può fornire una prima sensibilizzazione e può diffondere indicazioni chiare rispetto a ciò che suggeriscono le ricerche scientifiche. Successivamente (e parallelamente) un ruolo importante spetta a nidi e scuole dell’infanzia, contesti che – ad oggi – sono in prima linea per l’educazione alla genitorialità: in questi contesti il digitale può entrare, a patto che ne venga promosso un utilizzo attivo, esplorativo e non sostitutivo rispetto ai principali bisogni dei bambini (che sono quelli di formare i propri riferimenti spaziali e temporali, di sporcarsi, di entrare in relazione con altri esseri umani, di sperimentare attraverso i sensi, di far finta di..., ecc.). Anziché col-
Costruire la competenza digitale (non a caso, definita come una delle competenze chiave del nuovo millennio) può diventare un fondamentale compito di educazione alla cittadinanza
pevolizzare il genitore, educatrici, insegnanti e pediatri avrebbero il compito di informare, di sostenere e di incoraggiarlo perché si faccia attore protagonista del processo.
Un suggerimento interessante per educare agli schermi e dunque promuovere l’acquisizione di competenza digitale fin dall’infanzia arriva dallo psichiatra francese Serge Tisseron, che nel suo volume 3-6-9-12 individua le cosiddette “3A”, cioè tre azioni che l’adulto dovrebbe cercare di promuovere. La prima è l’autoregolazione, per la quale occorre far in modo che non soltanto arrivino regole chiare al bambino, rispetto ai tempi, ai contenuti e ai luoghi: risulta importante anche fare in modo che tali regole vengano condivise e introiettate dal bambino, affinché egli possa farle sue anche quando diventerà autonomo nella fruizione.
La seconda azione è l’alternanza: gli studi notano come il vero problema nella diffusione degli schermi non sia il digitale in sé, ma la mancanza di esperienze non mediate. Anche laddove si decida di proporre uno schermo, è importante che esso sia solo una delle varie possibilità all’interno di tante altre esperienze a disposizione del bambino. Se la visione di un contenuto sullo schermo sostituisce la lettura (e soprattutto la lettura condivisa), allora i potenziali effetti negativi diventano concreti. Se, invece, lo schermo è l’occasione per rielaborare e arricchire le esperienze corporee, allora esso può diventare uno strumento capace di stimolare il pensiero.
La terza “A” richiama all’accompagnamento: si è già fatto riferimento all’importanza che le ricerche sugli effetti dei media assegnano alla presenza dell’adulto
I riferimenti bibliografici sono disponibili nell’articolo online
accanto al bambino durante la fruizione degli schermi. Essere “accanto” non significa fare altro mentre l’infanzia interagisce con lo schermo: significa piuttosto capire cosa sta guardando e cosa sta facendo. Pur senza risultare invadenti, gli adulti dovrebbero incoraggiare fruizioni più attive, più consapevoli e più problematiche. Accompagnare significa dunque fare in modo che il digitale non sia il fine, ma il “pre-testo” per poter svolgere anche altre attività, per incoraggiare la curiosità e la propensione ludica dell’infanzia. Queste tre azioni ricordano dunque la necessità per l’adulto di esser-ci (per usare un termine caro a Heidegger). Senza essere distratto lui stesso dagli schermi. Senza pensare che accendere un dispositivo sia l’unica soluzione per “tenere calma” l’infanzia o per portarla a comportarsi come ci si aspetta da lei. Ma anche senza farsi prendere da forme di panico morale, che risulterebbero “apocalittiche” e anacronistiche. Se ci si adopera fin dall’infanzia per una graduale costruzione della competenza digitale, allora l’arrivo del primo smartphone può essere gestito con maggiore serenità, visto che l’adulto avrà sensibilizzato il bambino (poi ragazzo) rispetto a rischi e opportunità. E potrà assumere un atteggiamento non tanto di sorveglianza (che produce tendenzialmente desiderio di evasione) ma di osservazione, per esser-ci quando il figlio ne avrà bisogno.
Alla luce di queste riflessioni, costruire la competenza digitale (che, non a caso, è stata definita come una delle competenze chiave del nuovo millennio) può diventare un fondamentale compito di educazione alla cittadinanza. y
Il pediatra per una cultura digitale più consapevole
Laura Reali
Pediatra di famiglia
Associazione culturale pediatri
Comitato scientifico di Fondazione Irene Ets
Il decreto Valditara riguardante le restrizioni sull’uso di cellulari e tablet mira a limitare il loro utilizzo durante l’orario scolastico al fine di migliorare la concentrazione degli studenti, evitando distrazioni dovute al loro uso per scopi non didattici. Il provvedimento include tre disposizioni principali: il divieto di utilizzo dei telefoni cellulari durante l’orario scolastico, la regolamentazione del loro uso a livello scolastico e la promozione di un’educazione all’uso responsabile della tecnologia. A un primo esame, sembra rappresentare un passo avanti per migliorare l’attenzione degli alunni in classe e l’efficacia dei programmi educativi, cercando allo stesso tempo di affrontare le criticità legate all’eccessivo uso dei cellulari tra gli studenti. Tuttavia, sono state sollevate numerose critiche, soprattutto per la mancanza di chiarezza su come applicare concretamente queste nuove regole. Inoltre, vi è preoccupazione per la potenziale complicazione delle pratiche didattiche che, fino ad oggi, si sono basate sull’uso dei cellulari in classe. L’applicazione delle nuove re-
Il dilagante utilizzo degli strumenti digitali è spesso solo la punta dell’iceberg di un problema più profondo: la crisi della genitorialità
gole potrebbe risultare complicata per gli insegnanti, e la gestione del divieto potrebbe rappresentare un ulteriore onere per loro. Infine, alcuni educatori ritengono che, piuttosto che vietare l’uso dei dispositivi, andrebbe promosso un uso responsabile della tecnologia.
I pro e i contro dell’uso dei dispositivi
Prescindendo dai rischi derivanti dall’esposizione alle onde elettromagnetiche emesse dai cellulari, possiamo sintetizzare il dibattito sui punti di forza e i rischi derivanti dall’uso e dall’abuso dei dispositivi digitali sin dalla primissima infanzia.
{ Pro: i dispositivi digitali forniscono ai bambini l’accesso a informazioni e risorse educative, stimolando la curiosità e l’apprendimento. Guardare contenuti educativi su cellulari, computer o tablet può essere associato a migliori abilità linguistiche, ma solo se avviene sotto la guida di un genitore o insegnante. Alcuni credono che esporre i bambini alla tecnologia fin dalla giovane età aiuti a sviluppare competenze digitali essenziali per il futuro.
{ Contro: l’esposizione ai dispositivi digitali, soprattutto nella primissima infanzia e in adolescenza, durante le finestre di maggiore sensibilità per lo sviluppo neuro-cognitivo del bambino, potrebbe avere effetti negativi sullo sviluppo cerebrale. Tra questi vi sono: ritardo del linguaggio, anomalie nelle relazioni sociali, disturbi della coordinazione motoria grossolana e fine, iperattività, deficit di concentrazione, tratti autistici e miopia, difficoltà nel comprendere le emozioni. L’esposizione prolungata favorisce anche obesità, altera il sonno, agisce sulla regolazione dopaminergica cerebrale con effetti simili a quelli delle sostanze da abuso, e può indurre ansia e depressione. Questi fattori negativi influenzano lo sviluppo cognitivo e sociale del bambino, compromettono lo sviluppo emotivo e psicologico e possono portare alla dipendenza. Inoltre, l’uso eccessivo di cellulari e tablet può causare problemi di vista e postura.
PER APPROFONDIRE
L’uso e l’abuso del digitale in Italia
La diffusione esponenziale del digitale ha comportato profondi cambiamenti culturali, con un impatto significativo soprattutto sui più giovani. Tra gli adolescenti italiani (11-17 anni), l’uso di smartphone e internet è ormai ampiamente diffuso: il 72 per cento accede regolarmente a internet tramite smartphone. Dopo la pandemia, questa percentuale è salita al 95 per cento e il 25 per cento dei ragazzi che manifesta segnali di un uso problematico, tra cui tolleranza (necessità di aumentare il tempo trascorso online), irritabilità, abbandono di altre attività e difficoltà nel controllo. Oltre il 60 per cento degli adolescenti ha un profilo sui social network e il 6 per cento dichiara di aver subito molestie online. Anche tra i bambini più piccoli (6-10 anni) la pandemia ha portato a un aumento considerevole nell’uso dei dispositivi digitali.
Tutte queste considerazioni assumono valori molto diversi in relazione all’età del bambino e alla presenza-interazione-supervisione dell’adulto di riferimento.
Cosa dicono le linee guida
Le raccomandazioni internazionali sull’uso degli schermi nei bambini sono chiare nel sottolineare la necessità di un approccio prudente e consapevole. L’Organizzazione mondiale della sanità sconsiglia del tutto l’uso degli schermi per i bambini da 0 a 2 anni, mentre da 2 a 4 anni di età è consentita una esposizione non passiva per non più di un’ora. Le linee guida dell’American academy of pediatrics si limitano a consigliare di limitare il tempo davanti allo schermo e l’uso dei media nei bambini sotto i 2 anni, raccomandando ai genitori di stabilire dei limiti e monitorare il tempo trascorso davanti allo schermo. Questo gruppo di età, infatti, impara e socializza esplorando il mondo e giocando con gli altri, meglio ancora se all’aperto e in maniera libera. Pertanto, i genitori dovrebbero incoraggiare i loro figli a stabilire dei limiti e monitorare il tempo che trascorrono davanti agli schermi.
Cosa può fare il pediatra
Nonostante la diffusione capillare della tecnologia, l’Italia si colloca solo al quarto posto in Europa per competenze digitali
tra i giovani di 16-19 anni. Questo dato mette in evidenza la necessità di interventi mirati per affrontare la povertà educativa digitale. I genitori stessi dichiarano di aver bisogno di supporto nella gestione del rapporto dei figli con il digitale. Il ruolo di un pediatra di famiglia formato nell’educazione digitale è cruciale, soprattutto per l’impatto dell’esposizione agli schermi sullo sviluppo dei bambini, in particolare nella fascia di età 0-6 anni. Attraverso strumenti come la valutazione della salute digitale (ad esempio, i bilanci di salute al digitale e il progetto “Custodi digitali”), il pediatra dovrebbe fornire raccomandazioni per un uso degli schermi giudizioso, consapevole, condiviso e adeguato all’età. Ad esempio: fino ai 6 mesi, limitare l’uso degli smartphone a quando il bambino sta dormendo, evitando l’esposizione durante l’allattamento; dopo i 6 mesi, evitare l’uso del cellulare a tavola, privilegiare il movimento fisico e includere la lettura di libri nella routine della buonanotte; dopo i 6 anni, informare genitori e figli sui corretti comportamenti digitali e sui rischi connessi all’uso eccessivo degli schermi.
Un miglior equilibrio familiare e sociale potrebbe ridurre la dipendenza dai dispositivi digitali sia nei bambini sia nei genitori, migliorando complessivamente il benessere di entrambi
Quali politiche servono
Il dilagante utilizzo degli strumenti digitali è spesso solo la punta dell’iceberg di un problema più profondo: la crisi della genitorialità. Molti bambini trascorrono troppo tempo davanti agli schermi perché i genitori, sovraccarichi di lavoro o poco presenti, utilizzano i dispositivi digitali come un “ciuccio” per tenerli tranquilli. Inoltre, gli stessi genitori sono spesso sempre connessi, non solo per motivi di lavoro. È fondamentale che comprendano il ruolo di modello che rivestono per i loro figli. La mancanza di asili nido accoglienti, spazi verdi e città a misura di bambino rende sempre più difficile ottemperare i bisogni relazionali dei più piccoli. Il pediatra dovrebbe essere in grado di consigliare le famiglie, intervenire in situazioni problematiche e, se necessario, inviare i casi più gravi a livelli di assistenza appropriati. Allo stesso tempo, è necessaria una sinergia tra il Ministero dell’istruzione e il Ministero della famiglia per attuare politiche che permettano ai genitori di dedicare tempo e attenzione ai propri figli. Queste politiche dovrebbero includere: maggiore supporto alle famiglie, con lavori meglio retribuiti e orari più flessibili, per consentire ai genitori di tornare a casa con le energie necessarie a occuparsi dei propri figli, e strutture scolastiche e cittadine adeguate, con spazi verdi e opportunità per i bambini di muoversi, giocare e socializzare all’aria aperta.
Un miglior equilibrio familiare e sociale potrebbe ridurre la dipendenza dai dispositivi digitali sia nei bambini sia nei genitori, migliorando complessivamente il benessere di entrambi. y
Secondo lei perché i mezzi di comunicazione non sono ancora pronti a parlare di neurodiversità e disturbi specifici dell’apprendimento (Dsa) in modo chiaro e corretto?
Intendendo per mezzi di comunicazione giornali, riviste divulgative, programmi televisivi radiofonici, il motivo è molto semplice: i giornalisti non sanno cosa siano i Dsa. Non è una critica né una colpa perché non possono conoscere tutto, ma è un dato di fatto. Non sono rari i casi in cui i giornali o altre emittenti utilizzano termini come “malato”, “soffre di”, “curare”: tutti i termini che riguardano disturbi evolutivi. Servirebbe una vera e propria azione da parte di ordini professionali oppure di associazioni del settore per dialogare con l’Ordine dei giornalisti e avviare una campagna di informazione su cosa siano realmente i disturbi evolutivi e quali termini utilizzare per divulgarli in modo corretto.
Che impatto hanno i Dsa sulla qualità della vita degli adolescenti?
L’impatto dipende dal singolo soggetto, da come vive le difficoltà, da come viene aiutato sino ad oggi. Poniamo due estremi. Possiamo avere un bambino o adolescente in cui il disturbo specifico dell’apprendimento viene identificato precocemente, che riceve supporto sia a scuola sia a casa ed è consapevole delle sue difficoltà, ma anche dei modi per superarle. In questo caso la qualità della vita sarà sicuramente alta (al netto di altre variabili). All’estremo opposto, potremmo avere un bambino le cui difficoltà non vengono identificate precocemente, con una scuola o una famiglia che non si attivano per aiutarlo. Questo bambino, una volta diventato adolescente, potrebbe manifestare comportamenti oppositivi, bassa autostima, scarsa motivazione e atteggiamenti negativi verso la scuola e le proprie capacità. Un quadro del genere, chiaramente, aumenta la probabilità di una qualità di vita più bassa.
I giovani, la neurodiversità e l’inclusione
L’uso dei dispositivi digitali peggiora realmente le potenzialità di apprendimento?
Cosa ne pensa del provvedimento ministeriale di vietare l’uso dei cellulari nelle scuole?
L’uso di dispositivi digitali deve essere sempre contestualizzato. Le linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità vanno prese alla lettera sui tempi di esposizione dei minori nei confronti dei dispositivi digitali. Premesso questo, se un dispositivo digitale viene utilizzato con cautela e in modo didattico allora possiamo anche averne dei benefici. Ma questa mia ultima affermazione non è possibile generalizzarla. Infatti se potenziano o meno le abilità di apprendimento dipende dal singolo utilizzo, e quindi non vi potrà mai essere una risposta univoca. Motivo per cui ci sono pareri discordanti. Penso che possiamo essere tutti d’accordo sul vietare i dispositivi digitali a scuola. Tranne che per due eccezioni. La prima riguarda gli studenti con Dsa, per i quali la normativa già prevede, in caso di programmi didattici personalizzati, l’utilizzo di strumenti digitali. La seconda eccezione si applica quando gli strumenti digitali vengono usati per l’apprendimento; tuttavia, in questo caso, tutto è ancora una volta alla mercé della competenza, della bravura e anche della motivazione del singolo docente. Dico “ancora una volta” perché, alla fine, sono loro che stanno in classe. E non tutti possiedono quelle competenze e motivazione per poter agire in modo adeguato e corretto.
Intervista a Gianluca Lo Presti
Psicologo, esperto di disturbi specifici dell’apprendimento, Comitato scientifico di Fondazione Irene Ets
A cura di Rosa Revellino Direttrice editoriale il punto
Alcuni possono sviluppare una dipendenza dal cellulare, mentre altri no. Esistono fattori protettivi come la famiglia, l’ambiente e il livello socioculturale
Sarà vero che i ragazzi hanno una vera e propria dipendenza dai cellulari? Non tutti gli esperti ne sono convinti. Alimentando lo spettro della dipendenza tecnologica, applicando a cellulari e social media le categorie usate per la cocaina, non si rischia di generalizzare un comportamento che ha delle specificità?
La vera domanda è: “Tutti i ragazzi hanno una vera e propria dipendenza dai cellulari?”. La risposta è ovviamente no. Tuttavia, è vero che alcuni possono svilupparla. Non si tratta di essere d’accordo o meno: anche se nei manuali diagnostici internazionali non esiste ancora una diagnosi di Internet addiction disorder, gli studi in merito confermano l’esistenza di questa forma di dipendenza. È probabile, quindi, che tra non molto venga inserita nei manuali diagnostici. Anche in questo caso, come per qual-
siasi altro disturbo, alcuni possono sviluppare questa dipendenza, mentre altri no. Ed esistono fattori protettivi, come la famiglia, l’ambiente e il livello socioculturale.
La tecnologia, secondo lei, è integrabile in un piano di apprendimento innovativo? Che cosa non funziona nella visione didattica attuale?
La tecnologia è assolutamente parte integrante di un piano di apprendimento innovativo. Ad esempio, gli studenti discalculici apprendono meglio utilizzando la calcolatrice rispetto a quando non la usano. Può sembrare un paradosso, ma è così. Allo stesso modo, può sembrare un paradosso l’espressione: “È così intelligente, eppure non riesce”. Che cosa non funziona nella didattica attuale? Un corpo docente selezionato principalmente in base al punteggio, senza una valutazione approfondita delle competenze e della formazione. Una direzione del Ministero dell’istruzione e del merito che, come accade da anni, ha delegato sempre più responsabilità alle scuole senza attuare un piano a lungo termine per affrontare il problema principale: il grande numero di alunni per classe. Specialisti nella diagnosi dei Dsa che raramente seguono percorsi diagnostici conformi alle linee guida, preferendo spesso prassi basate sulla filosofia del “abbiamo sempre fatto così” piuttosto che basate sulle evidenze scientifiche. Operatori nel campo dei Dsa, che spesso attribuiscono il risultato positivo dei loro interventi esclusivamente al proprio lavoro, mentre invece nei Dsa, essendo presente l’intelligenza, molti migliorano con quello che si definisce “evoluzione spontanea”, quindi aldilà dell’intervento – e se invece lavorassero con procedure basate sull’evidenze scientifiche i bambini migliorerebbero molto ma molto di più. Insomma, non basterebbe un libro per descrivere tutto. Nel mio lavoro, però, preferisco focalizzarmi su ciò che funziona, incentivandolo e replicandolo. Come i tanti docenti, operatori e specialisti che, ogni giorno, lavorano in modo mirato e competente. y
«La battaglia ai cellulari in classe
Intervista a
Enrico Ghidoni
Neurologo
Centro di neuroscienze Anemos, Reggio Emilia
A cura di
Rosa Revellino
Direttrice editoriale il punto
Professor Ghidoni, con il provvedimento del ministro Valditara si vuole vietare l’uso dei cellulari a scuola. C’è davvero una correlazione diretta tra tecnologia e disturbi di tipo psicologico e psichiatrico?
Questo è un problema complesso a cui purtroppo si danno delle risposte ad una sola dimensione. Certo sì, il problema esiste. Viviamo in un mondo in cui non si può più fare a meno di questi strumenti che sicuramente sono molto utili ed efficaci per alcune funzioni, ma indubbiamente possono creare dipendenza e, anzi, in alcuni casi sono progettati appositamente per monopolizzare l’attenzione della persona, inducendola a rimanere agganciata alla piattaforma di riferimento. Per esempio, le microgratificazioni dei “mi piace” sui social determinano una piccola scarica nel nostro cervello di dopamina, il neurotrasmettitore che ci fa sentire appagati e gratificati. Ma un solo “like” non basta, ne vogliamo sempre di più: è lo stesso meccanismo alla base delle assuefazioni alle sostanze stupefacenti ed è purtroppo lo stesso delle dipendenze. Capisco quindi il fatto che si debba regolamentare un uso potenzialmente nocivo, ma non condivido il modo in cui è stato fatto. Credo che innanzitutto bisognerebbe distinguere tra uso a scopo didattico degli strumenti digitali e uso ludico, ricreativo o altro. Per esempio, noi sappiamo che ci sono degli studenti – come il caso di
studenti con disturbi specifici dell’apprendimento – che traggono un notevole vantaggio dall’uso degli strumenti digitali. Esistono diverse app e software specifici che permettono loro di raggiungere livelli di apprendimento che altrimenti non riuscirebbero a ottenere con strumenti tradizionali o senza alcun supporto. Non credo che una semplice proibizione tout court sia né la via più efficace né la più attenta ai reali bisogni di questi giovani; in alcuni casi può essere decisamente dannosa.
Quali pensa siano le conseguenze più evidenti di questo uso diffuso della tecnologia, soprattutto sui giovani?
Certamente è innegabile che la tecnologia abbia favorito un isolamento sociale facendo in modo che ognuno, chiuso in una bolla, possa comunicare solo con chi la pensa come lui; inoltre ci sono ricadute negative, scientificamente attestate, sul funzionamento cognitivo. Pensiamo al livello di attenzione che si è ridotto drasticamente negli ultimi anni (non solo tra i più giovani), così come alla capacità di mantenere la concentrazione su una determinata attività o compito preciso. Ormai siamo abituati a informazioni volatili. Le vediamo, leggiamo per un attimo e, prima di finirne una, ne appare subito un’altra che si impo-
Viviamo pienamente la contraddizione tra un modo di fruire delle notizie più tradizionale –riflessivo, pacato e ragionevole – e un mondo veloce e fluido, in cui le informazioni rimangono ad un livello superficiale
Il
declino intellettuale fa sì che le conoscenze approfondite di questo mondo digitale siano appannaggio di pochi. Spesso la massa viene volutamente ridotta a semplice utilizzatore
ne come importante. È un modo di funzionare completamente nuovo, da cui tutti siamo bombardati e invasi. La specie umana ha sempre avuto delle grandissime capacità di adattamento e potrebbe adattarsi anche a questo nuovo modo di funzionare. Viviamo pienamente la contraddizione tra un modo di fruire delle notizie più tradizionale – riflessivo, pacato e ragionevole –e un mondo veloce e fluido, in cui le informazioni rimangono ad un livello superficiale. Però non è vero che la tecnologia sia solo potenzialmente dannosa: pensiamo, per esempio, all’intelligenza artificiale che in certi contesti è diventata imprescindibile. Anche in medicina è largamente
utilizzata ed è fondamentale per una serie di decisioni e interventi. Ma il rischio è passare dalla fase in cui uno strumento è utile per orientarsi, mettere insieme dati, operare delle scelte, ad una fase in cui l’intelligenza artificiale guida i nostri comportamenti e noi finiamo per fare cosa ci dice un algoritmo. La questione è molto complessa e tocca aspetti etici, deontologici e politici. Tuttavia credo che la solitudine dei nuovi adolescenti – sebbene supportata e consolidata dalla tecnologia – non sia solo legata a questi aspetti. Il problema è di tipo culturale, in un Paese in cui domina spesso una visione populista che offre ampio spazio al pregiudizio e allo stigma, favorendo una visione polarizzante e semplicistica della realtà. Questa visione tende a ridurre la complessità dei fenomeni sociali e culturali, facendo leva su emozioni negative come la paura o la rabbia o il desiderio di omologazione, consolidando così stereotipi e discriminazioni.
Potrebbe darci qualche spunto pratico su come integrare in modo costruttivo tecnologia e i modelli di apprendimento? Penso che innanzitutto ci sia bisogno di una classe di insegnanti formati in maniera approfondita sulle tecnologie; oggi infatti – anche solo per età anagrafica del corpo docente – spesso i ragazzi hanno di fronte dei migranti digitali, e la tecnologia è ancora vista con sospetto o diffidenza. L’unica strada per utilizzare la tecnologia in modo intelligente e critico è quello di averne una buona conoscenza, di capire tutte le sue potenzialità e i possibili rischi e pericoli. Avere cioè una visione critica di questi strumenti, senza procedere continuamente ad un sistema di delega che appalta alla tecnologia una serie di attività mentali che un tempo erano svolte dal soggetto. Devo dire però che il declino intellettuale in cui viviamo fa sì che le conoscenze specifiche e approfondite di questo mondo digitale siano appannaggio di pochi, di una élite. Spesso la massa viene volutamente ridotta a semplice utilizzatore. y
Il corpo del creato
“Sin dalla nascita della fotografia, il corpo si è subito imposto come uno dei soggetti principali del nuovo mezzo. Il corpo da scoprire, da denudare, da osservare. Il luogo dei piaceri ma anche dei dolori, vulnerabile e potentissimo.” Con queste parole, il direttore artistico del festival fotografico Cortona on the move (Cotm) – Paolo Woods – ha introdotto l’edizione 2024, intitolata “Body of evidence”. Il tema del corpo è davvero culturalmente seducente e le molte mostre del festival lo confermano. Descrivono spazi da ridisegnare (per esempio attraverso il tatuaggio, soggetto di una mostra che ha raccolto opere di diversi autori), un luogo di libertà o da liberare, uno strumento da rendere sempre più efficiente, un’ultima frontiera prima della fine o qualcosa di insondabile, incomprensibile e fugace presenza assente dopo la morte.
Appunti dal festival di fotografia
Cortona on the move 2024
Luca De Fiore
Il Pensiero Scientifico Editore
Una delle mostre più interessanti è “American mirror”, di Philip Montgomery, giovane ma già affermato fotografo statunitense (è nato nel 1988). Le sue fotografie testimoniano un’America ancorata alle stesse contraddizioni che segnarono la sua storia negli anni sessanta, con gli omicidi di leader come Malcom X o Martin Luther King e con la discriminazione razziale nei confronti delle persone di colore o provenienti da diverse nazioni povere. L’attenzione di Montgomery si concentra sempre sulle persone e la delicatezza del suo sguardo anche in circostanze violente contrasta con l’evidenza che – privato dei diritti, dalla libertà e dall’identità – qualsiasi individuo si trasforma “semplicemente” in un corpo, del quale la violenza istituzionale o le tragedie legate all’emergenza climatica possono fare scempio. Gli istanti fissati da Montgomery – ha scritto Jelani Cobb sul New Yorker – “non sono episodi isolati uniti insieme dalla prospettiva di un singolo artista, ma sono punti fermi nel melting pot americano”.
La mostra antologica su Larry Fink, in occasione dell’edizione 2019 del festival Fotografia europea di Reggio Emilia, si apriva con la fotografia di un braccio disteso ma tutta l’attenzione si concentrava su una mano: era una sorta di simbolo del tema del festival dedicato a “Legami: intimità, relazioni, nuovi mondi”. Anche nella ricca panoramica dell’opera di Montgomery colpisce la presenza delle mani dei “corpi” fotografati. La mano è l’elemento che innesca la relazione e rende vivo un corpo altrimenti immobile. “Le mani hanno una storia, una cultura, una particolare bellezza”, scriveva Rainer Maria Rilke – citato da Geoff Dyer in uno dei più intriganti libri di storia critica della fotografia – e la fotografia può venire in soccorso del disegno e della pittura che sempre hanno sofferto la difficoltà di fermare “l’infinito istante” del movimento di una mano. L’espressività di una mano è anche nell’eloquenza della sua posizione: in un palmo aperto rivolto verso chi osserva a chiedere di fermarsi, in un pugno serrato a mani-
festare forza o dolore, nelle dita affondate sulla schiena di una persona abbracciata, fino alle mille posizioni delle mani di una persona innamorata: “L’amore ha care le mani più di ogni altra cosa – ha scritto il critico John Berger – per tutto ciò che hanno preso, fatto, dato, piantato, raccolto, nutrito, rubato, carezzato, sistemato, addormentato, offerto”. A questo punto, camminando nella Fortezza del Girifalco che si affaccia su Cortona e sulla piana della Val di Chiana, vengono in mente le parole di Abraham Verghese in un’intervista a Npr: “L’innovazione più importante del prossimo decennio sarà il riconoscimento del potere della mano umana. Non solo per diagnosticare, ma anche per confortare, rassicurare e dire: «Percorrerò questo cammino con voi fino alla fine del percorso. Sarò con voi»”. Come ha detto Salvatore Mangione, che per molti temi toccati sembra rimandare al pensiero del medico statunitense della Stanford University, “nonostante (le) differenze culturali e individuali, le persone desiderano essere toccate, soprattutto nei momenti di difficoltà”.
L’edizione 2024 del festival di fotografia di Cortona ha affidato a Nicola Lagioia e Chiara Tagliaferri la cura di una delle mostre più importanti – “Corpi celesti” – co-
struita scavando (rovistando?) negli archivi sterminati degli Alinari. La selezione dei due autori – entrambi scrittori, il primo anche conduttore del programma radiofonico Pagina 3 e già direttore del Salone del libro di Torino, e la seconda autrice con Michela Murgia del podcast Morgana – si apre proprio con una serie di immagini di autori diversi, legate l’una alle altre dalla presenza delle mani: “Le mani non sono quello che sembrano”, commentano Lagioia e Tagliaferri. “Quando Pablo Picasso visitò le grotte di Lascaux, poco dopo la loro scoperta avvenuta nel 1940, si dice che ne venne fuori esclamando: «Non abbiamo inventato niente!». L’arte parietale risalente al paleolitico – dove tutto è presumibilmente cominciato – è piena di mani. Molte di queste mani appartengono a bambini, lo si capisce dalle dimensioni. Si trovano però, queste impronte, ad altezze dove quei bambini di 20.000 anni fa, da soli, non sarebbero potuti arrivare. Gli adulti li prendevano in braccio. Questo significa che quelle mani colorate con pigmenti minerali (e anche con guano – Piero Manzoni, pure, non ha inventato niente) non erano messe lì per caso, ma obbedendo a un rituale magico-religioso. Nel buddismo, nell’induismo, ma anche nella cultura mediorientale, nel palmo della mano
Cortona on the move 2024
mentazione o celebrazione – o il progetto di Walter Schels e Beate Lakotta, intitolato “Life before death” e prodotto trascorrendo oltre un anno negli hospice della Germania del nord per realizzare ritratti di persone che hanno dato il loro consenso a farsi fotografare prima e dopo la propria morte. È vero, come ha scritto Veronica Vituzzi su Doppiozero, che “nella rappresentazione del corpo c’è sempre, alla radice, una scelta ben precisa su ciò che noi, l’artista o la cultura vogliamo esporre del corpo, ed è una scelta che agisce su una molteplicità di ipotesi individuandone di volta in volta una e una soltanto che mette a tacere tutte le altre potenzialmente presenti”.
“Cosplay” spiegato da Wikipedia
può aprirsi un occhio, un fiore. Sulla mano scorrono le linee della vita e dell’amore, della saggezza e del destino. La guerra comincia serrando i pugni. La pace, con una stretta di mano. La mano che distrugge, la mano che guarisce. Prendersi per mano. Toccarsi. Tenersi la mano nel sonno. Con logica controintuitiva, è solo con la comparsa del pollice opponibile che la mano ha acquistato un potente valore simbolico. In nessuna parte del corpo come nella mano, mondo sacro e mondo pratico sono la stessa cosa”.
Le immagini di grande formato esposte sul prato della Fortezza sembrano davvero prendere per mano il visitatore per incoraggiarlo a entrare, insieme ai curatori e agli autori, nel mood di una manifestazione culturale – come Cotm di quest’anno –che ha voluto intelligentemente alternare raccolte spensierate ad altre che impegnano emotivamente il visitatore, come “This is the end” – che documenta alcune delle modalità in cui la morte è stata affrontata da tutti i tipi di fotografia a scopo di docu-
Tornando ai progetti più leggeri esposti al festival, “They don’t look like me”, in cui Niccolò Rastrelli viaggia in Italia, Kenya e Giappone per ritrarre cosplayer insieme alle loro famiglie, creando spesso cortocircuiti ironici tra la normalità piccolo borghese e la straordinarietà di una vita sognata. Legittimo non sapere di cosa stiamo parlando e allora – anche se Wikipedia è sempre una nostra alleata – il fenomeno dei cosplayer è quello che vede persone travestirsi nei modi più stravaganti e accurati per somigliare il più possibile a personaggi dei fumetti o del cinema. Ecco che sembra davvero che Rastrelli abbia voluto dar forma a quanto approfondito in un libro recente da Francesca M. Esposito, Ultracorpi. La ricerca utopica di una nuova perfezione, a proposito della ricerca della perfezione del corpo: “se la liberazione del corpo rimane tuttora un atto culturale ambiguo probabilmente impossibile da realizzare pienamente, l’unico dato che può cambiare davvero le cose è mettere in primo piano l’umanità che vi si cela. Dietro un corpo c’è sempre una persona, ed è nella misura in cui gli individui non scompaiono dietro l’immagine, ma riescono anzi a fare di questa una consapevole espressione di sé, che possiamo sognare corpi veramente autodeterminati”.
Anche quest’anno il festival di Cortona è stato capace di dare una quantità di sugge-
stioni all’interno delle quali è complicato mettere ordine se si considerano i possibili rimandi, le indicazioni per approfondimenti, i suggerimenti a conoscere meglio il lavoro degli autori esposti (anche se – come sosteneva un genio del ritratto del corpo come Diane Arbus – “una fotografia è un segreto intorno a un segreto: quanto più ti dice, tanto meno ne sai”). E l’occhio – e il vissuto – di chi svolge lavoro di cura è probabilmente tra i più adatti a cogliere il valore e i limiti di queste suggestioni. C’è poco da fare: il corpo resta la mappa della cura. La saggezza del curante – medico, infermiere, psicologo – è nel non trascurare il territorio – la mente della persona e il contesto di vita – che alla mappa stessa dà significato e profondità. Alla fine, la chiave per la consapevolezza della complessità della persona è nella capacità di leggere questa dialettica complessa in cui, però, il corpo manifesta sempre la propria presenza. Se in letteratura vale la convinzione del critico George Steiner – se lo scrittore descrive un cap-
pello, lo fa perché c’è un uomo che lo porta – è significativo che anche nella fotografia molte delle tante immagini in cui le persone non sono presenti traggano il proprio senso nelle domande che quell’assenza ci suggerisce; in altre parole, anche di fronte a un paesaggio deserto è proprio quella mancanza che porta chi osserva a chiedersi come sarebbe quel luogo – o cosa accadrebbe in quel tempo – se fossero presenti delle persone. O dei corpi. y
Berger J. Lillà e Bandiera. Torino: Bollati Boringhieri, 2006.
Dyer G. L’infinito istante. Saggio sulla fotografia. Torino: Einaudi, 2007 e Milano: Il Saggiatore, 2022.
Esposito FM. Ultracorpi. La ricerca utopica di una nuova perfezione. Roma: Minimum Fax, 2024.
Mangione S, Salvadori A. Il buon medico e la cura del contatto. ilpunto.it, 20 settembre 2024.
Raz G. Is the human hand our best technology? NPR, 26 febbraio 2013.
Vituzzi V. La rivolta del corpo. Doppiozero, 30 agosto 2024.
La gestione dei rifiuti ospedalieri
Come ridurre l’impatto ambientale e migliorarne la gestione
I rifiuti ospedalieri sono un aspetto cruciale della gestione dei rifiuti speciali, non solo per la loro quantità, ma anche per l’impatto che possono avere sull’ambiente. Tuttavia, esistono margini di miglioramento. Con un approccio più sostenibile e consapevole, è possibile non solo diminuire la quantità di rifiuti prodotti, ma anche ottimizzare il loro smaltimento.
L’impatto ambientale
Cosa indicano le leggi. In Italia, la gestione dei rifiuti ospedalieri è regolata principalmente dal Decreto del Presidente della Repubblica (Dpr) 254/2003, che stabilisce le linee guida per il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti sanitari, in conformità con le direttive europee. La normativa distingue i rifiuti in due categorie principali: pericolosi e non pericolosi, con un’ulteriore suddivisione per i rifiuti a rischio infettivo. Il Decreto legislativo n. 152 del 3 aprile 2006 ha poi integrato e rafforzato le disposizioni del Dpr imponendo agli enti e alle aziende sanitarie obblighi stringenti per ridurre al minimo l’impatto ambientale, promuovere la corretta separazione dei rifiuti e garantire un trattamento adeguato attraverso impianti autorizzati. Per una corretta gestione dei rifiuti sanitari è fondamentale sapere la differenza che viene fatta tra rifiuti pericolosi e non: i rifiuti pericolosi sono quelli che contengono o possono contenere agenti patogeni o sostanze chimiche pericolose, quindi richiedono un trattamento speciale, in essi sono compresi anche i rifiuti taglienti. I rifiuti non pericolosi sono invece quelli assimilabili agli urbani non presentando rischi di contaminazione o infezione.
Quanti ne produciamo. Secondo il “Rapporto rifiuti speciali” dell’Istituto superiore per la
protezione e la ricerca ambientale (Ispra) pubblicato nel luglio 2024 con i dati del 2022 i rifiuti sanitari prodotti in un anno sono circa 258 mila tonnellate, di cui circa 231 mila classificati come pericolosi. Bisogna chiarire, però, che all’interno di questa categoria sono compresi tutti i rifiuti “derivanti dal settore sanitario e veterinario o da attività di ricerca collegate” quindi oltre ai rifiuti ospedalieri sono inclusi anche quelli prodotti da altre strutture, ad esempio dai laboratori di analisi. Stabilire con precisione quanti rifiuti siano effettivamente prodotti dalle strutture sanitarie non è semplice, poiché mancano dati recenti che distinguano e analizzino in dettaglio la loro provenienza. Tuttavia, un rapporto tecnico del 2008 dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici (ora Ispra) evidenzia chiaramente come le principali fonti di produzione siano rappresentate dalle strutture pubbliche e private di ricovero e cura.1
Ricicliamo abbastanza? Questi numeri riflettono non solo la complessità della gestione, ma anche l’urgenza di trovare soluzioni che possano ridurre la produzione, specialmente dei rifiuti pericolosi che richiedono trattamenti più onerosi e impattanti. Infatti alcuni studi mostrano come negli ospedali si perdano molte occasioni di riciclo, ad esempio, in un reparto operatorio australiano, il 41% dei rifiuti era potenzialmente riciclabile, ma solo il 55% di questi finiva nei contenitori appositi. Nella stessa struttura, un audit nella terapia intensiva ha riscontrato che, pur essendo il 29% dei rifiuti riciclabile, meno della metà veniva correttamente differenziato. Un’analisi simile in un pronto soccorso negli Stati Uniti ha confermato questa tendenza.2 Oltre
ad avere un impatto ambientale significativo questi comportamenti, spesso adottati dai professionisti per praticità, hanno una rilevante conseguenza sugli aumenti dei costi delle strutture per le operazioni di gestione e smaltimento. Anche l’Organizzazione mondiale della sanità lo dice: l’85% dei rifiuti ospedalieri è assimilabile ai rifiuti urbani e quindi potenzialmente riciclabile, sempre se differenziato e raccolto in maniera adeguata.
L’uso della plastica. Sappiamo che la plastica è altamente impattante durante tutto il suo ciclo di vita, dall’estrazione della materia prima fino allo smaltimento. In ambito sanitario è un materiale ampiamente utilizzato, soprattutto per quanto riguarda i prodotti medici monouso e gli imballaggi, generando per cui una grande quantità di rifiuti. L’associazione Health care without harm pone attenzione sul massiccio e diffuso uso della plastica, nel 2021 ha pubblicato un report per indagare proprio questo tema. Dall’indagine condotta dall’associazione emerge come la plastica costituisca una consistente percentuale del totale dei rifiuti ospedalieri, tra il 20% e il 25% dei rifiuti prodotti quotidianamente, numeri che aumentano notevolmente nelle sale operatorie e nei dipartimenti di emergenza e urgenza. Ciò che emerge con ancora più chiarezza dal report è che oltre il 50% della plastica gettata è potenzialmente riciclabile, solamente non viene differenziata correttamente.3
Cosa si può fare in pratica
Quando si parla di gestione dei rifiuti sostenibile i tre principi fondamentali sono quelli del ridurre, riutilizzare e riciclare. Anche se a prima vista può sembrare difficile, anche nel settore sanitario si possono seguire queste tre direttive per minimizzare l’impatto dei servizi di cura.
Formazione. Ciò che salta all’occhio leggendo i dati degli studi in merito alla gestione dei rifiuti ospedalieri è la mancata differenziazione. I professionisti del settore sanitario non sono
correttamente formati, bisogna iniziare da qui in modo tale che i rifiuti sanitari siano gestiti correttamente, in modo più sicuro e sostenibile. Implementare le procedure ospedaliere in materia di gestione dei rifiuti con un’attenzione alla sostenibilità può supportare l’operato di chi lavora. Più cestini. Una delle maggiori cause per il mancato riciclo dei materiali è la mancanza parziale o totale dei cestini per il riciclo.2 Fare in modo che nelle strutture sanitarie non siano presenti in gran numero solo i contenitori rigidi per i rifiuti pericolosi ma anche i cestini per differenziare i materiali, permette a chi lavora di riciclare più facilmente e ridurre la quantità di rifiuti indifferenziati.
Prodotti non monouso. Molte strutture ospedaliere durante la pandemia da covid-19 e la conseguente difficoltà a reperire i prodotti monouso hanno
zLIBRI, CINEMA, ARTE
reintrodotto prodotti riutilizzabili. I camici riutilizzabili, sia quelli operatori sia quelli da isolamento, sono un prodotto sicuro e pratico tanto quanto l’alternativa monouso, ma molto meno impattante.3
Ridurre. Per ridurre la produzione dei rifiuti è bene considerare diverse strategie. È importante evitare gli sprechi utilizzando dispositivi e farmaci prima della data di scadenza, con controlli periodici e un corretto stoccaggio è possibile ottimizzare l’utilizzo delle risorse. Per quanto riguarda gli sprechi nelle sale operatorie, abbiamo scritto un articolo specifico.
Ridurre gli sprechi e migliorare la gestione dei rifiuti significa non solo abbattere i costi di smaltimento, ma anche contribuire attivamente alla tutela dell’ambiente. Anche in un contesto complesso come quello sanitario è possibile avere un approccio orientato alla sostenibilità, grazie ad una
Dove stiamo finendo?
Federico Russo racconta “Palazzina Laf” di Michele Riondino
In una atmosfera da “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, la pellicola di Elio Petri della fine degli anni sessanta, dove la verità e il delirio si sfidano, il potere e la miseria si confondono, il film “Palazzina Laf” mette sullo schermo il Lavoro, e il suo naturale simbolo, tutto italiano: la Ilva di Taranto. Il regista (nonché attore) Michele Riondino sceglie uno sguardo che allude, insospettisce, sorprende, senza mai svelare, fino alla fine, cosa succede, cosa stiamo davvero vedendo.
Che siano intrighi di potere tra poveracci lo si capisce da subito. Ma cosa realmente rappresenti la palazzina è lasciato a noi. Ognuno cerchi la propria, quella in cui, illudendosi di avere un privilegio, si è ritirato, chiuso in un ufficio ingombro di carte, di polvere e caos.
La palazzina Laf somiglia al reparto psichiatrico di “Tutto chiede salvezza”, di Daniele Mencarelli, dove la follia è confusa tra i pazienti e il sistema. Forse un modo per dire: dove stiamo finendo? Forse per dire: qui va tutto a rotoli. Forse soltanto un tentativo per scavare
maggiore consapevolezza e un impegno collettivo.
La rubrica “Scelte consapevoli. Per una sanità ecosostenibile” è realizzata da il punto in collaborazione con Isde Italia –Associazione medici per l’ambiente
Bibliografia
1 Apat. Valutazioni quali-quantitative sulla produzione e gestione dei rifiuti speciali sanitari, 2008.
2 Jungbluth L, et al. Barriers and facilitators to recycling waste in hospitals: a mixed methods systematic review. Resources Conservation & Recycling Advances 2024; 21: 200209.
3 Hcwh Europe. Measuring and reducing plastics in the healthcare sector, 2021.
Le tre azioni pratiche per una sanità ecosostenbile: leggi la scheda
nella miseria dell’uomo, solo, spaventato della sua stessa vita, incapace di comprendere che forse ha ancora una possibilità. Un film amaro, recitato bene, che salva lo spettatore mettendo il racconto fuori dal tempo presente, per non turbarlo troppo. E che si spegne sui titoli di coda tra le parole di velluto sbiadito di Diodato, nato e cresciuto a Taranto, dove bisogna andare, per vedere con i propri occhi.
Per essere un’opera prima risulta decisamente matura come regia e la recitazione di Riondino tiene bene, anche se ha necessariamente gli occhi avanti e dietro la macchina da presa. Di Elio Germano si possono soltanto ripetere le lodi che accompagnano ogni sua interpretazione. Bello anche il gioco dei caratteristi, in perfetto stile neorealista.
Di cosa veramente parli il film, oltre alle apparenze, non è facile parlare.
Sappiamo di certo che è tratto da una storia vera, quella del reparto dove venivano confinati i lavoratori che non accettavano il demansionamento. Riesce difficile restare agganciati alla storia, che Riondino decide di trattare in maniera allusiva, simbolica, direi quasi onirica. Eppure il Laminatoio a Freddo, da cui deriva l’acronimo del reparto utilizzato per mettere a bagnomaria i lavoratori che non si piegavano alle esigenze della proprietà, esisteva davvero e con il film si è riaperto un caso che la giustizia ha impiegato una quindicina di anni per decretare come un abuso, condannando undici persone della classe dirigente dell’Ilva a pene, nel complesso non
LESSICO DI BIOETICA
Specismo
Il termine “specismo” si riferisce alla discriminazione basata sull’appartenenza alla specie, per cui si tendono a privilegiare i membri appartenenti a una certa specie (solitamente quella Homo sapiens) a scapito dei membri delle altre. Il termine, coniato da Richard Ryder nel 1970 in un pamphlet privato e poi usato per la prima volta in una pubblicazione nel 1971, ha la funzione di sottolineare il parallelismo con altre forme di discriminazione come razzismo e sessismo. Ha poi trovato larga diffusione nella letteratura sui diritti animali, ad esempio negli scritti di Peter Singer, che ha fermamente condannato l’approccio specista e le pratiche speciste in vari ambiti. Nel suo argomento antispecista, Singer riprende le considerazioni di Jeremy Bentham per cui la domanda fondamentale da porsi per capire come rapportarsi con le altre specie “non è ‘Possono ragionare?’, né ‘Possono parlare?’, ma ‘Possono soffrire’?”. La capacità di provare piacere e dolore, cioè l’essere senzienti, è secondo Bentham e Singer la condizione necessaria e sufficiente perché a un individuo venga garantito il diritto di non provare dolore, a prescindere dalla sua specie di appartenenza. Da
particolarmente severe, ma esemplari. Di quel finale però non c’è traccia nel film. Riondino ci lascia soli con il suo alter ego Caterino, nel suo ufficio a fumare e a pensare a quanto accaduto, forse nel tentativo di comprendere il proprio ruolo, la funzione di spia che si è fatto tagliare addosso e che alla fine lo ha tagliato fuori dai giochi, vittima del suo stesso male. Un film riconosciuto dal pubblico e dalla critica e che vale la pena di essere visto, e come i film buoni va rivisto e commentato in gruppo.
Federico Russo
Psichiatra, Dipartimento di salute mentale, Asl Roma1 Direttore scientifico dello Spiraglio Filmfestival
un punto di vista morale, secondo questo argomento anti-specista, piacere e dolore provati dagli animali contano quanto quelli provati dagli umani, e quindi, così come in generale abbiamo il dovere di prevenire o ridurre il dolore negli umani, abbiamo lo stesso dovere di prevenire o ridurre il dolore negli animali. La differenza di specie non è moralmente rilevante. Altri argomenti anti-specisti si basano o su un’applicazione del contrattualismo di John Rawls, per cui dietro “un velo di ignoranza” è ragionevole attribuire dei diritti di base a tutti gli esseri senzienti, o su un approccio deontologico per cui l’imperativo categorico kantiano deve essere applicato a tutti gli esseri senzienti.
Un altro argomento per refutare lo specismo si basa sull’idea che abbiamo un pregiudizio irrazionale che ci porta ad attribuire un ruolo moralmente rilevante alle capacità che consideriamo tipicamente umane, appunto perché siamo implicitamente specisti. Ovviamente, da un rifiuto dello specismo e dell’antropocentrismo non consegue necessariamente che tutte le specie debbano essere trattate in modo esattamente uguale, ma che anche le altre specie abbiano dei diritti, tra cui quello di non soffrire. Consegue dal rifiuto dello specismo e dell’antropocentrismo, ad esempio, che gli animali non possano essere uccisi in modo non indolore o cresciuti in allevamenti
dove non sia garantito un certo standard di qualità della vita, ma non consegue necessariamente che umani e non umani abbiano esattamente lo stesso diritto all’accesso a trattamenti salva-vita in caso di scarsità di risorse. La questione del trattamento diversificato degli individui in base alla semplice appartenenza alla specie è rilevante non solo in funzione del rapporto tra umani e non umani in generale, ma anche in funzione del rapporto fra umani e singole specie animali. Gli umani tendono a trattare in modo diverso animali di specie diverse per ragioni che non sono moralmente rilevanti: non ci sono, ad esempio, ragioni moralmente rilevanti che spieghino il perché l’uccisione di centinaia di migliaia di maiali ogni anno non provochi nessuna reazione pubblica, mentre l’uccisione di una giraffa nello zoo di Copenaghen nel 2014 provocò reazioni molto forti. Le diverse reazioni suscitate dai due tipi di eventi sembrano essere chiari esempi di specismo. Lo stesso dicasi della differenza di trattamento riservata agli animali domestici e a quelli utilizzati nell’industria alimentare.
Francesca Minerva Dipartimento di filosofia
Università degli studi di Milano La Statale
Tratto dal libro Le parole della bioetica, a cura di Maria Teresa Busca e Elena Nave (Roma: Il Pensiero Scientifico Editore). Per gentile concessione dell’editore.
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