Il punto. La rivista dell'OMCeO Torino | Numero 04 – 2022

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Un progetto dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della Provincia di Torino

La sovradiagnosi tra eccessi e incertezze: un esito evitabile?

La ricerca come bene pubblico: da dove ripartire

La contenzione meccanica nei luoghi di cura

Il medico del territorio e la solitudine

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TrimestralePoste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale Aut. n°MIPA/CENTRO-SUD/192/2022 –Stampe Periodiche in Regime Libero –ISSN 2785-6240€ 15,00

ANNO I, NUMERO 4

OTTOBRE-DICEMBRE 2022

Direttore scientifico

Guido Giustetto

Direttore editoriale

Rosa Revellino

Comitato redazionale

Gianluigi D’Agostino, Venera Gagliano, Andrea Gatta, Guido Regis, Angelica Salvadori, Emanuele Stramignoni, Rosella Zerbi.

Laura Tonon e Celeste De Fiore (Il Pensiero Scientifico Editore)

Collaboratori: Giulia Annovi, Viola Bachini, Luciano De Fiore, Alessandro Magini

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Facciamo il punto sul progetto, sugli obiettivi e sui numeri Guido Giustetto

IL PUNTO SULLA SOVRADIAGNOSI

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Sovradiagnosi: esito non inatteso degli eccessi in medicina.

Dalla definizione del problema alla ricerca di soluzioni per il bene dei pazienti Camilla Alderighi Raffaele Rasoini

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Eccessi diagnostici nella prevenzione oncologica.

Un esito evitabile. Sui rischi e benefici degli screening Carlo Senore

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I costi della carie e il (non) diritto alla prevenzione pediatrica Giulia Annovi

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Insieme per la ricerca come bene pubblico comune: sottoscriviamolo Intervista a Massimo Florio

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Saper comunicare i risultati della ricerca Intervista a Steven Woloshin

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È lecito legare un malato? Rebecca De Fiore

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La contenzione meccanica nei luoghi di cura Vincenzo Villari

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Come viene percepita la contenzione chimica e meccanica?

Antonella Capellupo

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L’oblio oncologico per ricominciare Intervista a Libero Ciuffreda e Sara Bustreo

37

La solitudine epistemica del medico del territorio Giuseppe Belleri

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LETTURE

Il medico della mutua e il suo sapere sanitario Giuliano Bono

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LESSICO DI BIOETICA Competenza Elena Nave

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LESSICO DI BIOETICA Disabilità Mariella Immacolato

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LESSICO DI BIOETICA Infodemia Maria Teresa Busca

Comitato editoriale

Marco Bobbio, Michela Chiarlo, Giampaolo Collecchia, Lucia Craxì, Fabrizio Elia, Elena Gagliasso, Libero Ciuffreda, Giuseppe Gristina, Roberto Longhin, Giuseppe Naretto, Luciano Orsi, Elisabetta Pulice, Lorenzo Richiardi, Massimo Sartori, Vera Tripodi, Marco Vergano, Paolo Vineis Consiglio direttivo dell’OMCeO di Torino Guido Giustetto (presidente), Guido Regis (vicepresidente), Rosella Zerbi (segretaria), Emanuele Stramignoni (tesoriere), Domenico Bertero, Patrizia Biancucci, Tiziana Borsatti, Vincenzo Michele Crupi, Gianluigi

D’Agostino (presidente CAO), Riccardo Falcetta, Riccardo

Faletti, Gilberto Fiore, Ivana Garione, Aldo Mozzone, Fernando Muià, Angelica Salvadori, Renato Turra, Roberto Venesia

Sede e contatti

OMCeO Torino

Corso Francia 8 – 10143 Torino

email: info@ilpunto.it

Produzione e amministrazione

Il Pensiero Scientifico Editore

Via San Giovanni Valdarno 8, 00138 Roma tel. 06862821 | fax 0686282250 e-mail: pensiero@pensiero.it internet: www.pensiero.it c/c postale: 902015

Editore responsabile

Giovanni Luca De Fiore

Progetto grafico e impaginazione Typo85, Roma

Stampa Ti Printing, Roma

Autorizzazione Tribunale di Torino numero registro stampa 65/2021 del 29/12/2021 (già 793 del 12/01/1953).

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In copertina: “Torino” di Daniele Bertin. Nelle pagine interne le foto non firmate sono di iStock. Tutti i diritti sono riservati. Diritti d’autore

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Finito di stampare gennaio 2022 Abbonamenti 2023

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Per abbonamenti: Andrea De Fiore tel. 06 86282324 e-mail: andrea.defiore@pensiero.it

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Sommario
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Gli articoli raccolti in questo numero sono post pubblicati sul sito www.ilpunto.it @ilpunto OMCeO
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Siamo arrivati al quarto numero della rivista de ilpunto.it – confronti su medicina e sanità – che oggi inviamo a circa 800 indirizzi (tra richieste di colleghi che desiderano ricevere la copia cartacea e invii istituzionali), senza contare gli oltre 9000 utenti attivi sulla piattaforma digitale in poco più di 9 mesi di piena attività.

Ci sembra un buon risultato e lo vediamo anche dalla newsletter che inviamo ogni quindici giorni e che conta un forte numero di fidelizzati anche al di fuori dell’Ordine di Torino. ilpunto.it intercetta così un pubblico ampio, all’interno della Professione, ma anche all’interno e al di fuori delle Professioni. L’obiettivo che ci siamo posti è dunque in fase di avvicinamento? Questo progetto editoriale è stato pensato come strumento di approfondimento e confronto su temi delicati e talvolta non sufficientemente discussi in ambito sanitario. Siamo partiti dalla necessità di analizzare argomenti che riguardano l’etica della professione, la deontologia, la relazione di cura e la comunicazione con pazienti e cittadini, la metodologia della ricerca clinica e i rapporti tra scienza e politica. Vogliamo interrogarci su quello che riguarda il “vivere da medico”, dentro e fuori l’ambulatorio o l’ospedale, per chiarirci le idee e per indirizzare in modo più consapevole il nostro comportamento come professionisti sanitari.

Facciamo il punto sul progetto, sugli obiettivi e sui numeri

Ci siamo sforzati di trovare temi che possano interessare tutti i medici, aiutandoci a riscoprire la dimensione umana della professione e a contrastare la deriva che vorrebbe farci diventare solo dei tecnici. Per diventare un punto di riferimento e una risorsa culturale non solo per medici, odontoiatri e professionisti sanitari, ma anche per tutte le persone che abbiano il piacere di aggiornarsi e confrontarsi su temi controversi e per questo particolarmente coinvolgenti.

In particolare per dare l’occasione anche a lettori non medici di conoscere le questioni che tutti i giorni ci riguardano più da vicino, stiamo delineando un ambito editoriale forse un po’ ambizioso e complesso: riuscire a trattare argomenti e temi inerenti alla professione con una solidità concettuale, argomentativa e bibliografica che dia soddisfazione al nostro lettore e che gli restituisca una competenza reale. Sia all’interno della nostra professione per affrontare i problemi e le domande che quotidianamente ci si presentano, sia al di fuori di essa per consegnare anche a chi non “maneggia” le questioni mediche un’idea più definita e diretta di cosa voglia

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Ci siamo sforzati di trovare temi che possano interessare tutti i medici, aiutandoci a riscoprire la dimensione umana della professione e a contrastare la deriva che vorrebbe farci diventare solo dei tecnici
ilpunto.it

dire fare il medico e l’essere medico, fornendo un’informazione completa e affidabile.

In questi mesi di lavoro abbiamo messo a fuoco che accanto all’informazione è importante la formazione del lettore: questo significa innanzitutto cercare di conoscere le esigenze del nostro interlocutore, valorizzarne le caratteristiche, i bisogni culturali e il tempo a disposizione per leggere e aggiornarsi. Ma implica anche un dovere: porgere una sfida di conoscenza che sia reciproca. Per noi che vogliamo migliorare nell’offrire contenuti coinvolgenti, funzionali e solidi dal punto di vista scientifico e per il lettore che mette in gioco la disponibilità ad essere affiancato nell’analisi ed elaborazione di temi e contenuti articolati e complessi.

Sappiamo bene che nella comunicazione attuale, sempre più digitale, vince chi è più veloce a farsi leggere, ma la nostra scelta editoriale è consapevole. Anche se incalzati dalla dittatura delle breaking news, per certi temi scegliamo e proponiamo “un formato lento” che richiede un patto culturale con il lettore: ritrovare il tempo da dedicare alla qualità del contenuto che significa valore, acquisizione di competenza e affidabilità. Con effetti formativi e informativi efficaci a lento rilascio. y

ilpunto : il primo anno di attività

178 contenuti online

16 video

4 numeri della rivista trimestrale

I temi trattati

{ Etica e deontologia

{ Professione

{ Ricerca

{ Società e politica

Le rubriche

Il lessico di bioetica: 50 lemmi

Come leggere i numeri: 16 post

La newsletter

22 numeri inviati a

15.200 iscritti

all’OMCeO di Torino e

196 lettori che ne hanno fatto richiesta online

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La resistenza dei lettori. La Holland House Library di Londra dopo il bombardamento del 1940. I tre lettori testimoniano che, grazie alla cultura, la vita continua.

Sovradiagnosi: esito non inatteso degli eccessi in medicina.

Dalla definizione del problema alla ricerca di soluzioni per il bene dei pazienti

“Ti capita di sentirti stanco la mattina? Potresti soffrire della sindrome del testosterone basso.”

“Tuo figlio è molto attivo? Attenta, potrebbe trattarsi del disturbo da deficit di attenzione-iperattività.”

“È essenziale trattare sempre il prediabete per evitare complicanze.”

Ricevere una diagnosi, di solito, è il primo passo verso la cura. In alcuni casi, tuttavia, ricevere una diagnosi è solo l’inizio di una cascata di problemi. Per esempio, quando una persona riceve la diagnosi di una patologia che non avrà alcun effetto sulla durata o sulla qualità della sua vita, ci troviamo di fronte a un caso di sovradiagnosi.

Secondo una definizione1 condivisa, la sovradiagnosi è “l’attribuzione a una persona di un’etichetta di malattia o di anomalia che non avrebbe recato alcun danno a quella persona anche se non fosse stata

Raffaele Rasoini

Associazione

Alessandro Liberati

– Cochrane Affiliate Centre

scoperta, la creazione di nuove diagnosi attraverso la medicalizzazione di esperienze di vita ordinaria o l’espansione di diagnosi esistenti attraverso l’abbassamento delle soglie o dei criteri di malattia, senza evidenza di un miglioramento degli esiti. Gli individui non traggono alcun beneficio clinico dalla sovradiagnosi; d’altra parte, a causa di questa possono subire danni fisici, psicologici ed economici”. Le dimensioni di questo problema non sono trascurabili. Ad esempio, uno studio2 condotto in Australia che ha preso in considerazione 5 tipi di tumore (mammella, prostata, rene, tiroide, melanoma) ha stimato che tra il 18 per cento e 24 per cento di questi tumori potrebbe essere sovradiagnosticato. La sovradiagnosi però non riguarda solo i tumori ma interessa pato-

Quando tutta una società si organizza in funzione di una caccia preventiva alle malattie, la diagnosi assume i caratteri di un’epidemia

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› IL PUNTO SULLA SOVRADIAGNOSI

logie eterogenee per settore e per età come la sindrome dell’ovaio policistico, il prediabete, il deficit di attenzione-iperattività, gli aneurismi aortici ecc. Per comprendere rapidamente il concetto di sovradiagnosi è sufficiente recarsi a uno dei (rari) congressi medici che sono incentrati su quest’argomento e osservare le slide che presentano i relatori. Dopo poco, l’osservatore noterà che tende a ricorrere un certo tipo di grafico che assomiglia a una forbice (vedi figura) e in cui è rappresentato l’andamento nel tempo di due variabili: l’incidenza di una malattia e la mortalità per quella malattia. Quando si effettua per esempio uno screening per la ricerca di una neoplasia, osserviamo un impennarsi della curva di incidenza di quella neoplasia a partire dall’introduzione dello screening, come conseguenza attesa dell’aumentato riscontro; per coerenza, ci aspetteremmo che in parallelo all’aumentato riscontro della neoplasia, la curva della mortalità decrescesse come risultato di un trattamento più precoce. Tuttavia, questo può non accadere e la curva della mortalità, anziché decrescere come atteso, può rimanere analoga al periodo che ha preceduto lo screening. Quando presente

questo fenomeno è suggestivo della presenza di sovradiagnosi di una malattia. Purtroppo, fare più diagnosi non sempre significa aumentare la sopravvivenza o migliorare la vita delle persone. Curve simili vengono comunemente presentate riguardo al caso degli screening dei tumori tiroidei, mammari, di melanoma cutaneo o di tumore prostatico.

I due determinanti principali della sovradiagnosi sono:

{ la decisione di estendere i criteri per definire una malattia (sovra-definizione), { l’eccessiva facilità di rilevazione di una malattia (sovra-rilevamento).

Un esempio di sovra-definizione è abbassare la soglia da 140 a 130 mmHg per definire la presenza di ipertensione arteriosa,

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Figura. Rappresentazione generica di una patologia sovradiagnosticata dopo l’introduzione di un percorso di screening.
IL PUNTO SULLA SOVRADIAGNOSI

senza che vengano migliorate la qualità o la quantità di vita delle tante persone che hanno ricevuto questa diagnosi. Lo stesso può dirsi per numerosi altri fattori di rischio riguardo ai quali, negli ultimi anni, è stata osservata una graduale estensione dei criteri diagnostici, come i livelli di colesterolemia o di glicemia. Il sovra-rilevamento, invece, fa riferimento al comune riscontro di anomalie destinate a non progredire, a regredire, oppure a progredire così lentamente che non avrebbero mai determinato alcun problema per la persona anche se non fossero state diagnosticate. Il sovra-rilevamento è quindi correlabile con l’uso sempre più diffuso di tecnologie diagnostiche ad alta risoluzione in grado di documentare molteplici anomalie di incerto significato.

Per esempio, nei pazienti che vengono sottoposti ad angio-tac toracica per il sospetto di embolia polmonare, il riscontro di rilievi incidentali che richiedono un follow up è stato riportato3 come molto più probabile rispetto al rilievo degli emboli polmonari per i quali l’esame era stato richiesto. Non solo, ma l’angio-tac toracica è un esame così sensibile da documentare4 piccoli emboli polmonari sub-segmentali – anch’essi di incerto significato – che potrebbero non richiedere alcun trattamento. Quindi, la sovradiagnosi è una diagnosi reale, e non una diagnosi sbagliata, né tantomeno un risultato falsamente positivo di un test diagnostico. Si tratta di una diagnosi effettiva, come per esempio una lesione di un distretto, avvalorata dalla conferma istologica di neoplasia.

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Un fenomeno in crescita

In un recente saggio5 sulle origini del nome, Scott Podolsky, direttore del Center for the history of medicine ad Harvard, ricorda che una delle prime menzioni del concetto di sovradiagnosi risale al 1924, anno in cui, in occasione di una conferenza a Ottawa, un medico canadese, di nome James Douglas Adamson, tenne un discorso su come gli avanzamenti nella cura della tubercolosi avessero stimolato una corsa alla “diagnosi precoce, come conditio sine qua non di un trattamento adeguato”. Il problema, notò già allora Adamson, era il sottoprodotto della diagnosi precoce, cioè la sovradiagnosi di lesioni polmonari di incerto significato: “un male per i pazienti, psicologicamente, economicamente e fisicamente; un male per i medici mentalmente e moralmente; un male per il Paese, economicamente”.

Se già nel 1924 si affacciava alla comunità scientifica la consapevolezza della sovradiagnosi, ci sarebbero voluti ancora molti anni perché il termine cessasse di essere un concetto astratto. Dal 1924 al 2002, anno in cui ci siamo laureati, gli articoli indicizzati su PubMed contenenti il termine sovradiagnosi erano appena 639, mentre solo negli ultimi dieci anni ne sono stati pubblicati 3313.

Perché questo aumento? Il nodo che lega gli avanzamenti tecnologici e della ricerca farmaceutica con grandi interessi economici ha certamente avuto un ruolo di primo piano. Così come, negli anni Venti del secolo scorso, l’avvento dei sanatori fece accrescere la domanda di una diagnosi precoce (e quindi sanabile) di tubercolosi, così in epoca contemporanea il raffinamento tecnologico degli esami diagnostici e quello farmaceutico delle terapie hanno condotto ad un abbassamento della soglia di diagnosi di varie condizioni nonché alla comparsa di nuove diagnosi.

Negli anni Cinquanta, per esempio, l’ipertensione arteriosa veniva trattata con farmaci a elevata tossicità o addirittura con improbabili soluzioni chirurgiche; l’arrivo dei diuretici tiazidici, farmaci efficaci,

PER APPROFONDIRE

Quando gli screening sono inutili e dannosi

In un report* del gennaio 2021 che ha revisionato in modo sistematico gli studi randomizzati sullo screening cardiovascolare, l’Organizzazione mondiale della salute (Oms) si è pronunciata a sfavore dell’utilità di questo tipo di indagine nella popolazione generale. Gli autori del report hanno esaminato 22 studi randomizzati, di cui 14 sullo screening del profilo di rischio cardiovascolare, quattro sulla ricerca di aneurismi dell’aorta addominale, due sulla fibrillazione atriale e due sullo screening di condizioni cardiovascolari in combinazione. Nessuno degli studi esaminati ha rilevato una riduzione della mortalità o morbilità cardiovascolare né della mortalità totale nei soggetti sottoposti a screening rispetto ai soggetti non sottoposti. Sulla base dell’assenza di prove di un beneficio netto dello screening, l’Oms ha quindi ritenuto che ci siano elementi a sufficienza per controindicare programmi nazionali o regionali di screening cardiovascolare di popolazione.

Ma non solo una sovradiagnosi può rivelarsi inutile; quello che è peggio è che può rivelarsi anche dannosa. I risultati di una revisione sistematica Cochrane** sullo screening mammografico sono un esempio rappresentativo. La revisione ha evidenziato che, ogni 2000 donne tra i 39 e i 74 anni invitate a uno screening mammografico annuale, solo una eviterà nei dieci anni successivi di morire per tumore mammario, al prezzo di 200 donne che subiranno le conseguenze fisiche e psicologiche di una falsa diagnosi (casi falsamente positivi) e di 10 donne con una sovradiagnosi di tumore mammario (ovvero un tumore sottoposto a interventi medici che, se fosse rimasto non diagnosticato, non avrebbe comunque diminuito la sopravvivenza).

* Eriksen CU, et al. What is the effectiveness of systematic populationlevel screening programmes for reducing the burden of cardiovascular diseases? Copenhagen: Who Regional office for Europe, 2021.

** Gøtzsche PC, Jørgensen K. Screening for breast cancer with mammography. Cochrane Database Syst Rev 2013;2013:CD001877.

relativamente sicuri e di facile impiego, permise ai medici di rendere il trattamento alla portata di un’ampia popolazione, ma – sostiene il clinico e storico Jeremy Greene – spianò anche la strada ai tentativi commerciali di ampliare progressivamente l’etichetta della diagnosi di ipertensione.

Un altro dei prodotti dell’alleanza tra progresso tecnologico e interessi economici è il cosiddetto fenomeno dell’over-selling, tangente alla sovra-definizione di malattia; ovvero la trasformazione in malattie di esperienze spiacevoli, spesso di lieve entità e in molti casi transitorie come attraversare un momento di tristezza, di difficoltà di concentrazione o di insonnia. Alla

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IL PUNTO SULLA SOVRADIAGNOSI

base dell’over-selling c’è un interesse nei confronti dello spostamento della linea di malattia verso la normalità. Se, fino a pochi anni fa, la tristezza veniva considerata in prima battuta un fenomeno reattivo e transitorio, oggi rischia invece di essere etichettata precocemente come sindrome depressiva. Etichetta che non giova al paziente, ma che può giovare certamente all’industria.

Che una diagnosi “in più” possa rappresentare una fonte di danno per la persona che la riceve è un concetto tanto pervasivo nella medicina contemporanea quanto poco intuitivo. Se una persona effettua un ecocolordoppler dei tronchi sovra-aortici per il rilievo di un soffio carotideo e nel corso dell’esame viene incidentalmente rilevato anche un nodulo tiroideo, questo riscontro “in più” può essere fonte di preoccupazione, ma difficilmente sarà considerato come una potenziale fonte di danno.

Secondo la strategia del “più è meglio” o del “prevenire è meglio che curare”, molte persone che non lamentano alcun problema di salute si sottopongono a check-up nella speranza che una diagnosi “precoce” possa migliorare la durata o la qualità delle loro vite. Tuttavia, riguardo a questo, i risultati della letteratura scientifica tendono ad andare in una direzione tanto inaspettata quanto controintuitiva.

Questo non significa che dovremmo avere un atteggiamento nichilistico verso interventi medici come lo screening; ma significa invece che dovremmo, caso per caso, informare i pazienti dei benefici e dei rischi degli interventi medici, siano questi farmaci o test diagnostici. Nel caso di alcuni screening, tra i rischi dovremmo riportare chiaramente anche la sovradiagnosi e le sue conseguenze.

Cosa possiamo fare per prevenire la sovradiagnosi

Per mitigare il fenomeno della sovradiagnosi o prevenirlo, una strategia è indirizzare gli screening verso gruppi di popolazione a più alto rischio di sviluppare una determinata neoplasia e verificare se, in queste persone, un approccio di screening possa dimostrare6 un beneficio netto su esiti importanti.

Un altro approccio riguarda lo studio delle lesioni anomale che vengono rilevate agli esami istologici. Esiste, infatti, una notevole variabilità tra osservatori nella diagnosi di preparati istopatologici con caratteristiche ambigue per neoplasia. Effettuare studi prospettici o di sorveglianza attiva sull’andamento di lesioni molto precoci, piccole o con caratteristiche ambigue potrebbe essere di aiuto per definire quali tra queste siano destinate o meno a evolvere sfavorevolmente.

Similmente, è importante osservare nel tempo l’evoluzione di incidentalomi,7 così da individuarne le caratteristiche che aumentano la probabilità di progressione sfavorevole nei vari distretti corporei e indirizzare di conseguenza le decisioni cliniche. Potremmo poi lavorare sulle parole – che sono sempre importanti. Sappiamo, ad esempio, che la prognosi dei pazienti con tumore tiroideo papillare a basso rischio è la stessa sia che si opti per una sorveglianza attiva che per un intervento chirurgico; lo stesso vale per il carcinoma mammario duttale in situ a basso rischio. Sulla base del basso rischio di progressione della maggior parte di lesioni di questo tipo, anche se non trattate, alcuni ricercatori

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› IL PUNTO SULLA SOVRADIAGNOSI
Ricevere un’etichetta di malattia sposta ognuno di noi, individui irripetibili, in un territorio impersonale e vulnerabile con specifiche regole da seguire oltre che una lunga scia di conseguenze

hanno proposto di non definirle più “tumore” o “cancro”, bensì “lesioni indolenti a basso potenziale di malignità”, alleggerendo in questo modo il peso di una diagnosi che diventa un’etichetta. Ricevere un’etichetta di malattia sposta ognuno di noi, individui irripetibili, in un territorio impersonale e vulnerabile che presenta specifiche regole da seguire oltre che una lunga scia di conseguenze:8 ricordarsi di dover assumere un trattamento a orari precisi, fissare appuntamenti, spostarsi per raggiungere l’ospedale o l’ambulatorio o la farmacia, subire eventuali effetti collaterali dei trattamenti e conseguenze psicologiche, economiche ecc. Altri tentativi di arginare la sovradiagnosi riguardano una diversa modalità di rimborso 9 degli interventi: nei distretti statunitensi e canadesi in cui le autorità avevano sospeso i rimborsi per alcune pratiche mediche ritenute di scarso valore sulla base delle prove scientifiche disponibili (per esempio lo screening del deficit di vitamina D), le sovradiagnosi legate a queste pratiche sono crollate insieme alla prescrizione delle pratiche stesse. Molto possiamo fare anche attraverso la ricerca scientifica: uno studio recente,10 per esempio, ha randomizzato un gruppo di donne in gravidanza ad una definizione standard oppure più ampia di diabete gestazionale e ha poi confrontato benefici e rischi di queste diverse definizioni di malattia. Nelle donne con una definizione più ampia – e quindi con una soglia diagnostica più bassa – di diabete gestazionale non sono stati rilevati benefici in termini di minore probabilità di macrosomia del neonato e in queste stesse donne sono stati riportati più rischi legati proprio alla cura (maggiore frequenza di induzione del parto, uso dei servizi sanitari e di farmaci, ipoglicemia neonatale).

Infine, possiamo prevenire la sovradiagnosi rendendone più consapevoli le persone, per esempio ponendola all’attenzione pubblica nella comunicazione della scienza da parte sia dei ricercatori sia dei media.

Per il bene del paziente Porre all’attenzione pubblica il concetto e i rischi della sovradiagnosi potrebbe anche illuminare il suo complementare e opposto, cioè la sottodiagnosi: a fronte di persone che vengono chiamate a effettuare esami non necessari o vengono curate per condizioni precliniche, ce ne sono altre che, pur essendo malate, faticano per esempio ad avere un appuntamento per un esame o una visita in tempi ragionevoli o a procurarsi le terapie di cui necessitano. Margaret McCartney, medico di medicina generale a Glasgow, definisce questo fenomeno il “patient paradox”, ovvero, “se sei malato, devi essere paziente e determinato nel chiedere aiuto; se invece stai bene, sei a rischio di ricevere esami di screening non richiesti, di assumere trattamenti preventivi per malattie che non svilupperai mai, o terapie non necessarie”. L’obiettivo di ogni medico è semplice: far star meglio i propri pazienti. La ricerca e le politiche sanitarie dovrebbero aiutarci quindi a rendere chiaro quando questo obiettivo, pur con tutte le buone intenzioni, viene disatteso. y

L’obiettivo di ogni medico è semplice: far star meglio i propri pazienti.

Bibliografia

1 Woloshin S, Kramer B. BMJ 2021;375:n2854.

2 Glasziou PP, et al. Med J Aust 2020;212:163-8.

3 Hall WB, et al. Arch Intern Med 2009;169: 1961-5.

4 Soylemez Wiener R, et al. BMJ 2013;347:f3368.

5 Podolsky S. BMJ 2022;378:o1679.

6 Esserman L, et al. Breast Cancer Res Treat 2021;189:593-8.

7 O’Sullivan JW, et al. BMJ 2018;361:k2387.

8 Korenstein D, et al. JAMA Intern Med 2018;178:1401-7.

9 Henderson J, et al. JAMA Intern Med 2020;180:524-31.

10 Crowther CA, et al. N Engl J Med 2022;387:587-8.

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La ricerca e le politiche sanitarie dovrebbero aiutarci quindi a rendere chiaro quando questo obiettivo, pur con tutte le buone intenzioni, viene disatteso
IL PUNTO SULLA SOVRADIAGNOSI

Eccessi diagnostici nella prevenzione oncologica. Un esito evitabile.

Sui rischi e benefici degli screening

La diagnosi precoce dei tumori, ma anche di altre malattie croniche, è vista con favore sia dalla popolazione sia dai medici, poiché l’idea che “curare prima significhi curare meglio” è non solo attraente ma intuitivamente convincente. Come evidenziato nel contributo dei colleghi Camilla Alderighi e Raffaele Rasoini (vedi pag. 5), due fenomeni hanno però messo in crisi questo modello, facendo emergere i rischi che possono derivare da un approccio diagnostico troppo aggressivo.

Gli sviluppi della tecnologia rendono disponibili metodiche diagnostiche ad alta risoluzione che permettono di individuare lesioni in una fase precoce del loro sviluppo, inclusi casi indolenti o a lenta evoluzione, di incerto significato clinico. L’utilizzo

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Ssd Epidemiologia e screening – Cpo Aou Città della salute
e della scienza , Torino

sempre più frequente di queste metodiche, anche in assenza di indicazioni specifiche, ha determinato inoltre un aumento dei casi in cui vengono riscontrate anomalie di cui non si conosce la storia naturale. A questo si è aggiunta la tendenza ad abbassare la soglia per l’indicazione al trattamento di diverse condizioni come il diabete o l’ipertensione, o a medicalizzare condizioni in precedenza considerate non patologiche, con un incremento della quota di popolazione etichettata come malata ed esposta quindi ai rischi associati ad accertamenti diagnostici e trattamenti di incerta utilità. Mentre questo secondo fenomeno determina un aumento, potenzialmente artificioso (diseases mongering), delle condizioni classificate come malattie,1 il primo comporta il rischio di esporre ad accertamenti e trattamenti inutili e potenzialmente dannosi una quota di persone portatrici di lesioni correttamente diagnosticate, che non avrebbero però causato disturbi nell’arco della vita. Questo fenomeno, definito dal concetto di sovradiagnosi, è noto da tempo nell’ambito degli screening oncologici. Anche una certa quota di casi diagnosticati a seguito della comparsa di sintomi si caratterizza per una progressione lenta,2

ma questa quota è più alta tra le lesioni diagnosticate in fase precoce a seguito della somministrazione di un test di screening. L’anticipazione della diagnosi rappresenta quindi una delle condizioni necessarie per l’efficacia di una strategia di screening, in quanto permette di individuare il tumore in una fase in cui la somministrazione di un trattamento efficace può modificare la prognosi, riducendo il rischio di morte, ma allo stesso tempo espone al rischio di diagnosticare lesioni di scarso significato clinico.

Lo screening tra costi e benefici: quali stime?

Il dibattito sul peso da attribuire alla sovradiagnosi nelle stime di costo-beneficio degli interventi di screening (in particolare per gli screening dei tumori della mammella e della prostata) resta aperto. Non è, almeno al momento, possibile individuare i tumori a lenta progressione (sovradiagnosticati) e l’entità della sovradiagnosi viene pertanto stimata sulla base di assunzioni relative alla storia naturale della malattia, agli effetti dello screening e all’andamento della patologia in assenza di screening. La variabilità di queste stime riflette le incertezze (non sempre riconosciute) relativamente alla validità di tali assunzioni3. Una recente revisione delle diverse metodologie utilizzate per la stima della sovradiagnosi ha evidenziato come ciascuna di esse presenti limiti, anche se alcune permettono di ricavare stime più affidabili.4

Per quanto riguarda lo screening mammografico, oltre alla revisione Cochrane5 citata da Alderighi e Rasoini, sono state pubblicate almeno altre tre analisi, condotte da un panel di esperti indipendenti inglesi,6 da un gruppo multidisciplinare di esperti della rete europea dei programmi di screening mammografico7 e dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro:8 tutte queste analisi derivano stime molto più basse della quota di sovradiagnosi e concludono che lo screening mammografico (condotto secondo i pro-

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IL PUNTO SULLA SOVRADIAGNOSI
L’anticipazione della diagnosi rappresenta una delle condizioni necessarie per l’efficacia di una strategia di screening. Ma allo stesso tempo espone al rischio di diagnosticare lesioni di scarso significato clinico

tocolli dei programmi organizzati di popolazione europei) riduce la mortalità per tumore della mammella e presenta un rapporto costi-benefici favorevole. Il confronto tra le diverse stime è reso più difficile anche dalla mancanza di una chiara definizione del quadro di riferimento. Vengono infatti analizzati sotto l’etichetta “screening” interventi che presentano caratteristiche molto diverse: dai programmi organizzati di popolazione, per lo screening dei tumori di colon-retto, cervice uterina e mammella, implementati in quasi tutti i Paesi europei e inclusi, in Italia, nei Lea, a iniziative di prevenzione attuate al di fuori di programma organizzati, che adottano protocolli spesso non in linea con le raccomandazioni delle linee guida più autorevoli (intervalli più ravvicinati e/o fasce di età più ampie), fino a campagne di promozione di test per la diagnosi precoce di tumori per cui non vi è evidenza di un effetto favorevole dell’anticipazione diagnostica. Una comunicazione di questo tipo non necessariamente contribuisce ad aumentare il livello di conoscenza e la consapevolezza dei cittadini sui rischi e sui benefici dello screening. Presentare come un esempio dei rischi dello “screening” l’assenza di un beneficio di salute associabile all’aumento delle diagnosi di tumori della tiroide o dei melanomi, quando i trend (e i danni) osservati sono il risultato di una diffusione incontrollata di interventi di diagnosi precoce per i quali non esistono prove di un effetto favorevole sulla mortalità (condizione necessaria per introdurre un intervento di screening), o richiamare l’attenzione sui potenziali rischi dello screening mammografico facendo riferimento alle stime di sovradiagnosi per un protocollo di screening annuale a partire dai 39 anni – che non è raccomandato né dalle linee guida né dai programmi di popolazione – rischia infatti di generare confusione, veicolando messaggi fuorvianti, o comunque non rilevanti per orientare la decisione rispetto all’adesione all’offerta di screening da parte del Servizio sanitario nazionale.

La corretta informazione ai cittadini

Pur con questi limiti, il dibattito sulla sovradiagnosi ha comunque contribuito a rafforzare la consapevolezza dell’importanza di garantire una corretta informazione alle persone invitate a sottoporsi ai test di screening. In particolare, per lo screening mammografico, il gruppo Euroscreen9 aveva elaborato un documento di supporto alla produzione di materiale disegnato per veicolare informazioni quantitative relative a rischi e benefici dello screening, esaustive, equilibrate, trasparenti e di facile comprensione.

Le iniziative italiane, coordinate dall’Osservatorio nazionale screening, sono state finalizzate in questi anni sia a sviluppare materiale informativo che possa favorire una scelta consapevole da parte delle persone invitate nei programmi di screening, sia a sensibilizzare e formare gli operatori che devono rispondere alle richieste degli utenti nelle diverse fasi del percorso di screening. Per superare alcuni dei limiti dell’informazione veicolata tramite materiale scritto, è stato anche proposto l’utilizzo di strumenti infor-

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Vengono analizzati sotto l’etichetta “screening” interventi che presentano caratteristiche molto diverse

PER APPROFONDIRE

Scrivere di screening per una scelta informata

L’Osservatorio nazionale screening (Ons) con il coinvolgimento degli operatori del Gruppo italiano screening del cervico-carcinoma, del Gruppo italiano screening mammografico e del Gruppo italiano screening colorettale e professionisti della comunicazione ha promosso l’elaborazione di documenti che raccolgono le risposte alle domande che più frequentemente vengono poste dagli utenti, elaborate con il contributo di operatori, utenti e associazioni di pazienti e cittadini attraverso interviste e focus group. Il gruppo di comunicazione inter-screening dell’Ons ha prodotto materiale che contiene suggerimenti teorici e strumenti pratici (griglie per la valutazione dei materiali usati nei programmi, modelli di lettere e opuscoli), per supportare i programmi italiani nella preparazione di strumenti informativi, da allegare all’invito, che presentino un quadro accurato ed equilibrato di benefici, rischi e incertezze relativamente agli interventi proposti.

mativi via web. Uno di questi strumenti (www.donnainformata-mammografia.it) è stato recentemente sviluppato per i programmi di screening mammografico in Italia da un gruppo multidisciplinare coordinato dall’Istituto Mario Negri di Milano ed è stato testato anche in due programmi piemontesi. Lo strumento raccoglie il meglio delle informazioni disponibili e ha dimostrato di essere facile da usare e di non spaventare le donne ma di aiutarle a scegliere. È invece ancora da definire l’influenza di questo tipo di strumenti sul piano dell’equità.

Modulare e personalizzare l’offerta

L’accresciuta consapevolezza della variabilità che caratterizza il comportamento delle lesioni neoplastiche e le risposte individuali ha anche contribuito a rendere più evidente l’importanza che le scelte di trattamento possono avere nel determinare il rapporto rischi-benefici dello screening e a stimolare l’avvio di ricerche sullo screening personalizzato. Se infatti risulta difficile identificare le lesioni a bassa (o nulla) probabilità di progressione, possiamo però mirare a ridurre l’impatto del trattamento, considerando approcci meno

invasivi, come gli interventi conservativi, o l’utilizzo della metodica del linfonodo sentinella per i tumori della mammella, o i protocolli di attesa vigile per i tumori della prostata.

Contenere il sovratrattamento appare quindi come un obiettivo da perseguire per mitigare gli effetti della sovradiagnosi, sia in ambito di screening che in ambito clinico. Ad esempio, l’introduzione in Italia dei programmi di screening organizzato per i tumori della mammella ha determinato una riduzione degli interventi invasivi.10

Parallelamente alla modulazione dell’intensità di trattamento in funzione delle caratteristiche della lesione, una modulazione dell’offerta di screening sulla base del livello di rischio delle persone invitate, definito da familiarità, profilo genetico, stile di vita e storia di screening, permetterebbe di minimizzare i rischi legati agli accertamenti indotti dallo screening per le persone che hanno meno probabilità di derivarne un beneficio, riducendo la frequenza dei test per sottogruppi di popolazione a basso rischio e riservando protocolli più intensivi per le persone a rischio più elevato.

L’indicazione ad adottare questo approccio è anche contenuta nella proposta della Commissione europea, pubblicata lo scorso settembre, di aggiornare le raccomandazioni del Consiglio europeo sugli screening oncologici del 2003. Oltre a raccomandare l’avvio di progetti pilota per l’introduzione di programmi di screening per il tumore della prostata e del polmone, nel documento si conferma l’indicazione a offrire lo screening per i tumori della cervice uterina, mammella e colon-retto nell’ambito di programmi organizzati, prevedendo, ove possibile, la sperimentazione di protocolli di screening modulati in base al rischio.

La recente scelta a livello nazionale di spostare l’età di inizio dello screening a 30 anni per le donne vaccinate contro hpv a 12 anni è uno dei primi esempi di applicazione nei programmi organizzati di mo-

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IL PUNTO SULLA SOVRADIAGNOSI

dulazione dei protocolli di screening sulla base di fattori di rischio, diversi da quello dell’età.

In sintesi

Nell’ambito della prevenzione oncologica la tutela del bene del paziente può quindi essere perseguita adottando criteri rigorosi nella scelta degli interventi, ponendo attenzione in particolare a contrastare iniziative di diagnosi precoce per le quali non vi sia evidenza di efficacia, scoraggiare l’adozione di protocolli che prevedano intervalli ravvicinati in assenza di una solida evidenza, evitare l’uso di metodiche diagnostiche o terapie aggressive, quando non sia chiaro il potenziale beneficio, secondo un approccio parsimonioso alla diagnosi precoce già suggerito anni fa.11

Considerazioni simili sono alla base della raccomandazione contenuta nel Codice europeo contro il cancro ad aderire ai programmi organizzati di screening per ridurre il proprio rischio di morire e/o ammalarsi di tumore della mammella, colon-retto e cervice uterina. L’adozione da parte di questi programmi di protocolli basati su solide prove di efficacia e il monitoraggio sistematico della qualità delle diverse fasi del percorso diagnostico terapeutico permettono di minimizzare i possibili rischi della diagnosi precoce, senza ridurne i potenziali benefici, tra i quali è anche documentata una riduzione delle diseguaglianze di mortalità per i tumori oggetto di screening.12,13 y

PER APPROFONDIRE

Protocolli di screening differenziati: cosa si sta facendo in Italia

Due programmi di screening italiani, tra cui quello di Torino, hanno già avviato una collaborazione con un progetto europeo di valutazione di un protocollo di screening per il tumore della mammella, che prevede intervalli personalizzati sulla base del rischio. Come nello studio europeo MyPebs, il livello rischio viene calcolato combinando l’informazione relativa a profilo genetico, caratteristiche del seno e familiarità. Il protocollo prevede intervalli annuali e controlli aggiuntivi per le donne classificate ad alto rischio e intervalli estesi a quattro per le donne a basso rischio. È inoltre in fase di avvio in Piemonte uno studio di valutazione di un protocollo per lo screening dei tumori colorettali che prevede intervalli di screening differenziati in base ad una stima del rischio derivata dall’analisi dei risultati degli esami precedenti.

Bibliografia

1 Doran E, et al. Intern Med J 2008;38:858-61.

2 Segnan N. Epidemiol Prev 1995;19:293-6.

3 Njor SH, et al. Int J Cancer 2018;143:1287-94.

4 Ripping TM, et al. J Natl Cancer Inst 2017;109(10).

5 Gøtzsche PC, et al. Cochrane Database Syst Rev 2013;2013(6).

6 Independent UK panel on breast cancer screening. Lancet 2012;380:1778-86.

7 Puliti D, et al; Euroscreen working group. J Med Screen 2012;19 suppl1:42-56.

8 Lauby-Secretan B, et al; International Agency for research on cancer handbook working group. Breast-cancer screening – viewpoint of the Iarc working group. N Engl J Med 2015;372:2353-8.

9 Giordano L, et al; Euroscreen working group. J Med Screen 2012;19 suppl 1:67-71.

10 Zorzi M, et al; Impact working group. Br J Cancer 2006;95:1265-8.

11 Segnan N, et al. Int J Cancer 2016;139:554-73.

12 Pacelli B, et al. Eur J Public Health 2014;24:280-5.

13 Puliti D, et al. Ann Oncol 2012;23:319-23.

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IL PUNTO SULLA SOVRADIAGNOSI
Nell’ambito della prevenzione oncologica la tutela del bene del paziente può essere perseguita adottando criteri rigorosi nella scelta degli interventi

I costi della carie e il (non) diritto alla prevenzione pediatrica

Le amare conseguenze dell’eccessiva privatizzazione delle cure odontoiatriche e della scarsa offerta pubblica.

Cosa fare?

La carie è una malattia che colpisce le persone di qualsiasi fascia di età, bambini compresi. In Italia, si stima che il problema delle carie riguardi il 3 per cento dei bambini sotto i 2 anni di età, il 6 per cento dei bambini di 3 anni, il 15 per cento dei bambini di 4-5 anni, fino al 44 per cento nei ragazzini di 12 anni. Sebbene i numeri siano in calo rispetto ad alcuni decenni fa, i dati divulgati nel 2019 dalla Società italiana di odontoiatria infantile (Sioi), parlano di un aumento esponenziale di malattia cariosa nei bambini di tutte le età.1 È un problema che riguarda la salute del bambino e dei futuri adulti. Ma è anche una questione che si collega a problemi economici e sociali e al diritto di accesso alle cure sanitarie di base, che includano le prestazioni odontoiatriche.

La carie e la salute

Nel bambino la carie non curata può generare complicazioni immediate, ma anche problemi a più lungo termine, come per esempio disturbi del sonno e difficoltà durante la masticazione e malocclusione dentale che generano malnutrizione e

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problematiche sociali di relazione. Inoltre, la carie costituisce una condizione poco favorevole all’eruzione di denti permanenti che saranno proni alla carie.2,3 La soluzione risiede soprattutto nella prevenzione: infatti, la diagnosi precoce della carie ne impedisce la progressione e gli sviluppi più indesiderati.

Ma quanti bambini si sottopongono a visite odontoiatriche di controllo? Secondo i dati più recenti, solo il 30 per cento dei bambini da 0 a 6 anni ha ricevuto una visita odontoiatrica. Tra i bambini di età superiore ai 2 anni, il 59,2 per cento non ha mai incontrato un dentista. Solo lo 0,7 per cento del campione di bambini considerato nello studio pubblicato su European Journal of Paediatric Dentistry ha ottenuto il consiglio di sottoporsi a una visita odontoiatrica da parte di un operatore sanitario.

Le famiglie a cui corrispondono i bambini con più carie e meno prevenzione appartengono alla classe socioeconomica medio alta. Sono quelle composte da genitori più giovani (età inferiore a 35 anni), spesso fumatori e con scarsa attenzione alla propria igiene orale e con più figli.

Solo il 30 per cento dei bambini da 0 a 6 anni ha ricevuto una visita odontoiatrica. Tra i bambini di età superiore ai 2 anni, il 59,2 per cento non ha mai incontrato un dentista

La carie e le disuguaglianze socioeconomiche

Oltre all’informazione e alla diffusione delle buone pratiche però c’è anche l’altra faccia della medaglia. Nel contesto italiano, in cui il 7,5 per cento delle famiglie è in una condizione di povertà assoluta, esistono anche persone che non si possono permettere cure odontoiatriche. Rispetto al 2005, quando il fenomeno coinvolgeva poco più di 800 mila famiglie, nel 2021 la povertà assoluta è più che raddoppiata, arrivando a interessare 1 milione 960 mila famiglie.4 La crisi economica e la pandemia covid-19 hanno dato il loro contributo alla riduzione delle visite specialistiche. Una ricerca svolta dalla Sioi sul territorio italiano ha fatto emergere una significativa correlazione tra il pil pro capite, il coefficiente di Gini (usato per calcolare le diseguaglianze di reddito), il tasso di disoccupazione e il numero di denti cariati e otturati nei ragazzi di 12 anni.5

Le disparità registrate trovano le proprie ragioni in un sistema odontoiatrico che può fare scarso affidamento sul servizio pubblico. Le famiglie sono ancora troppo spesso costrette a rivolgersi al privato per avere le cure odontoiatriche. “In un sistema odontoiatrico privatistico che caratterizza l’Italia, il peso economico delle cure è sostenuto direttamente e praticamente per intero dal cittadino”, spiega Luigi Paglia, direttore del Dipartimento di odontoiatria materno infantile presso l’Istituto stomatologico italiano e presidente della Fondazione Istituto stomatologico italiano.

La fotografia scattata evidenzia scarsa consapevolezza da parte dei genitori sulla necessità della prevenzione basata su controlli periodici e sull’igiene orale quotidiana, più che impossibilità economiche.

Vi è inoltre una correlazione tra alto consumo di zuccheri da parte dei bambini, soprattutto tramite bevande o latte zuccherato e numero di spuntini, e il numero di carie sviluppate.1

Le cure odontoiatriche e la sanità pubblica

Le cure odontoiatriche diventerebbero più accessibili se lo Stato si facesse carico della spesa odontoiatrica. È stato dimostrato che l’integrazione del dentista

nell’assistenza sanitaria di base può contribuire a diminuire le barriere che portano alla salute orale dei bambini.6 Sebbene un’odontoiatria clinico-operativa di buona qualità che si uniformi ai criteri scientifici sia proibitiva per le casse dello

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Stato, in Italia sono previste forme di sostegno attraverso i livelli essenziali di assistenza (Lea) odontoiatrici soprattutto per interventi di prevenzione rivolti ai bambini dalla nascita ai 14 anni o a soggetti con particolari fragilità di salute, sociali o economiche.

Tramite il sistema sanitario nazionale è possibile effettuare una diagnosi precoce delle patologie orali attraverso visite odontoiatriche, comprensive di esame radiologico, ablazione del tartaro, estrazioni, interventi chirurgici e trattamenti ortodontici. Tuttavia, da queste prestazioni ne sono escluse alcune che sono diffuse tra i bambini. Ad aggravare la situazione vi è la variabilità regionale nell’erogazione delle prestazioni, che sono peraltro spesso disattese.

“Le difficoltà legate all’applicabilità dei Lea sono dovute soprattutto a strutture pubbliche troppo poco numerose e sempre meno incentivate. In alcune Regioni si è assistito a una privatizzazione indiscriminata delle prestazioni odontoiatriche, che ovviamente non sono indirizzate verso la prevenzione ma piuttosto verso prestazioni con massimo valore aggiunto economico. La mancanza di un’offerta organizzata e articolata da parte delle strutture pubbliche, impedisce un reale aiuto al cittadino”, conferma Paglia. Eppure il nostro sistema sanitario potrebbe trarre vantaggio dall’organizzazione di interventi di prevenzione strutturata. Secondo una stima effettuata nella Regione Lombardia, la prevenzione della carie in età pediatrica con campagne informative, controlli e sigillature dei primi molari permanenti permetterebbe di ridurre la

spesa sanitaria nazionale di oltre un terzo rispetto a quella attuale.7

“Per organizzare una offerta di odontoiatria pubblica sostenibile ritengo che i nostri sforzi debbano essere indirizzati verso una ‘prevenzione personalizzata’, in cui l’intensità e la qualità degli interventi è principalmente rivolta verso quei soggetti che presentano un maggior rischio di sviluppare malattie odontoiatriche (come la malattia cariosa e quella parodontale). In tal modo è possibile orientare gli sforzi preventivi verso quelle categorie di persone che più ne possono trarre vantaggio in termini di rapporto costo/beneficio, tra cui vi sono i bambini” aggiunge Paglia. “Questi sono i temi che dovremo sviluppare in una, speriamo sempre più vicina, agenda della futura odontoiatria. Ed è anche, a mio avviso, la sfida per rendere sostenibili per la società i costi delle cure mediche e odontoiatriche”.

Prevenire e responsabilizzare

“Certo che, a fronte di uno Stato che contribuisce alla salute orale del cittadino, è necessario che lo stesso sia responsabilizzato a mantenere i risultati raggiunti con corretti stili di vita alimentari”. Così Paglia ribadisce quanto sia rilevante puntare su informazione ed educazione del paziente. Per diffondere la pratica della prevenzione alla carie sarebbe importante iniziare fin dalla gravidanza, suggerendo alla madre una corretta igiene orale e un’alimentazione sana. Infatti, il primo imprinting della salute orale avviene proprio durante la gestazione.8

Ma chi dovrebbe occuparsi di informare i genitori dell’importanza di tali pratiche?

“È necessario inserire questi concetti odontoiatrici nei corsi di preparazione al parto”, suggerisce Paglia. In tale contesto, sarebbe importante il supporto di neonatologi, consulenti per l’allattamento e pediatri che sono i primi a prendersi cura della salute del neonato. Il testo Salute orale di mamma e bambino nei primi 1000 giorni potrebbe essere utile per sensibilizzare e informare chi si occupa di gravidanza e

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Per organizzare un’offerta di odontoiatria pubblica sostenibile ritengo che i nostri sforzi debbano essere indirizzati verso una “prevenzione personalizzata”
Luigi Paglia

periodo neonatale. I dati riservati preliminari della ricerca ministeriale del Ccm 2019 stanno dimostrando l’utilità della diffusione del suddetto manuale.

“Tuttavia, la scelta della figura professionale che dovrebbe occuparsi di tali aspetti è secondaria. Di certo, sarebbe utile se ci fossero odontoiatri che lavorano a progetti preventivi in ambito pubblico”. Dopo la nascita, sarebbe corretto impostare una dieta povera di zuccheri impropri e abituare il bambino alle pratiche di igiene orale. La stessa madre dovrebbe eseguire la detersione delle gengive e dei primi dentini. È importante che la visita odontoiatrica sia sempre più precoce: le linee guida italiane la consigliano tra il 18esimo e il 24esimo mese.9

“Ritengo che la visita e la consulenza neonatale odontoiatrica debbano entrare di routine tra i controlli consigliati durante i primi mesi di vita del bambino. In questo modo possiamo spiegare ai genitori, mostrandoglielo direttamente sul bambino, come eseguire l’igiene orale domiciliare e quali comportamenti adottare per evitare di trasmettergli germi cariogeni. Avremo inoltre modo di intercettare eventuali problematiche del distretto oro-facciale”, commenta Paglia.

Vi è infatti la necessità di informare i genitori circa la natura della carie, la modalità di sviluppo e di trasmissione. Ed è stata dimostrata la scarsa preparazione delle neo-mamme: non sono abbastanza consapevoli riguardo l’importanza della prevenzione delle malattie odontostomatologiche, complici, per molte di loro, le scarse attitudini alle buone norme di igiene orale e la mancanza di formazione/informazione da parte dei professionisti e delle istituzioni. Occorre fornire una serie di istruzioni basilari, come modalità e frequenza di spazzolamento e corretto utilizzo dei dentifrici fluorati.

Uno sguardo al futuro prossimo

Mentre la Sioi proponeva al Ministero della sanità di attivare programmi per la salute orale perinatale, si è frapposta la pan-

demia che ci ha insegnato quanto sia prioritaria la difesa della salute sia da parte dei singoli che della società. Verso la salute collettiva vi è un rinnovato interesse dimostrato anche dall’assegnazione dei fondi europei per la ripresa proprio a favore della sanità.

“Gli odontoiatri possono contribuire alla salute pubblica proprio con lo sviluppo di piani preventivi, che sono importanti opportunità tanto per i medici che per i pazienti. La gestione della salute nella nuova normalità avrà diverse facce che necessariamente dovranno integrarsi tra loro, e la mia speranza è che una di queste facce si chiami odontoiatria preventiva materno-infantile. Perché questo avvenga è necessario che una volta per tutte si metta mano all’organizzazione di una prevenzione odontoiatrica che deve stare alla base del lavoro di tutti gli operatori del nostro settore”, ha concluso Paglia. y

Bibliografia

1 Colombo S, et al. Eur J Paediatr Dent 2019;20:267-73.

2 Sheiham A. Br Dent J 2006;201:625-6.

3 Low W, et al. Pediatr Dent 1999;21:325-6.

4 Istat. Rapporto annuale 2022.

5 Campus G, et al. Indagine epidemiologica nazionale sui bambini di 12 anni. Sioi 2021.

6 Moraes RB, et al. J Public Health Dent 2021;81:57-64.

7 XX Congresso Sioi. Odontoiatria pediatrica oggi. E domani? Milano, 29-30 novembre 2019.

8 Paglia L. Eur J Paediatr Dent 2019;20:173.

9 Riggs E, et al. Cochrane Database Syst Rev 2019(11):CD012155.

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È necessario che una volta per tutte si metta mano all’organizzazione di una prevenzione odontoiatrica che deve stare alla base del lavoro di tutti gli operatori del nostro settore
Luigi Paglia

Insieme per la ricerca come bene pubblico comune: sottoscriviamolo

Il Forum Disuguaglianze e Diversità ha lanciato un appello: creare un ente pubblico sovranazionale europeo che liberi la ricerca e lo sviluppo di farmaci e vaccini dal monopolio delle multinazionali del farmaco. Gli investimenti pubblici non devono più servire per finanziare lo sviluppo di prodotti di mercato di proprietà di big pharma. Ne parliamo con Massimo Florio, professore di economia pubblica presso l’Università di Milano, autore di La privatizzazione della conoscenza. Tre proposte contro i nuovi oligopoli, che ha presentato al Parlamento europeo la proposta di una infrastruttura europea pubblica simile al Cern, all’Agenzia spaziale europea o allo European molecular biology laboratory.

Come è nata la vostra proposta al Parlamento europeo di un’infrastruttura europea pubblica a livello sovranazionale per la ricerca e l’innovazione biomedica?

La proposta è frutto di uno studio sui market failures nella ricerca e sviluppo, cioè ai fallimenti del mercato nel settore farmaceutico, che ci era stato commissionato dallo Science and technology panel (Stoa) del Parlamento europeo. Market failures che la pandemia ha ben evidenziato nel sistema di sviluppo, produzione e distribuzione dei vaccini. In Europa e, soprattutto, negli Stati Uniti si è cercato di porre rimedio a questi fallimenti sussidiando la ricerca delle aziende farmaceutiche. L’esempio più evidente sono i 20 miliardi circa di dollari che l’amministrazione di Trump ha messo a disposizione a diverse aziende farmaceutiche per lo sviluppo dei vaccini contro covid-19. Un recente rapporto dell’European court of auditors, la corte dei conti dell’Unione europea, documenta che la Commissione europea ha fir-

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La proposta di un’infrastruttura pubblica europea per la ricerca senza cedere i risultati raggiunti alle imprese private
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mato contratti per 71 miliardi di euro fino a dicembre 2021 per i vaccini covid-19. Il costo di produzione di un vaccino a mRna è stimato 1,5 dollari circa a dose e nell’Unione europea viene venduto a 20 dollari. Un recente articolo del JAMA Network Open evidenzia che il 73 per cento dei trial clinici su covid-19 è stato finanziato con soldi pubblici. Ma in questo modo oltre alla ricerca si finanziano anche i profitti delle imprese farmaceutiche perché di fatto tali fondi pubblici sono stati erogati senza condizioni stringenti: il frutto della ricerca finanziata dai governi si traduce per le aziende del farmaco in nuovi prodotti innovativi coperti da brevetto per una ventina d’anni e senza un controllo sui prezzi. Significa avere un monopolio legale sull’innovazione finanziata dal settore pubblico. Questa è una prima grande distorsione che nel caso dei vaccini a mRna è sotto gli occhi di tutti. La seconda ragione per cui questo sistema è inefficiente è che l’agenda della ricerca

delle aziende farmaceutiche non è sovrapponile a quella della ricerca della sanità pubblica. E solo marginalmente i soldi che big pharma riceve direttamente o indirettamente dagli Stati ne condizionano i programmi di ricerca. Quindi le sperimentazioni e gli studi clinici sull’ennesimo farmaco per patologie croniche, come la lipidemia o l’ipertensione arteriosa, avranno sempre la priorità rispetto a quelli su patologie meno remunerative in termini di ricavi e profitti per le imprese. Gli investimenti dei governi per un bene pubblico, qual è il farmaco o il vaccino, si traducono in benefici anche per chi non li sostiene.

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Gli investimenti dei governi per un bene pubblico, qual è il farmaco o il vaccino, si traducono in benefici anche per chi non li sostiene

L’idea di innovazione come “bene pubblico globale” è conciliabile con l’idea di una partnership con le aziende private quali fornitrici di expertise senza avere però l’esclusiva del brevetto dei vaccini e non solo? La grande differenza tra avere un meccanismo che si limita all’erogazione di sussidi (o di contratti di pre-acquisto) e un meccanismo che fa ricerca è che le partnership possono essere definite a condizioni quanto meno paritarie. Inoltre, va considerato che spesso l’esperienza in ricerca e sviluppo non è relegata alle big pharma. Molto spesso sono proprio le aziende su scala più piccola ad essere più innovative, basti pensare a BionTech e non da ultimo a Moderna che prima del vaccino anti covid-19, Spikevax, non aveva mai registrato un farmaco. In aggiunta, per la conduzione dei clinical trial le stesse case farmaceutiche di big pharm si appoggiano ad altre aziende specializzate nei processi di sperimentazione clinica. Quindi una infrastruttura pubblica potrebbe rivolgersi al privato facendo dei contratti e mantenendo però la proprietà dei progetti. Una situazione completamente diversa da quella attuale in cui sono stati erogati dei finanziamenti senza alcuna condizione

vi, ma in molti casi sarebbe anche essenziale coinvolgere in particolare le piccole e medie imprese o le organizzazioni intermediarie nello sviluppo, produzione e distribuzione di nuovi farmaci e vaccini.

Covid-19 ci ha insegnato che un altro elemento critico in un’ottica di bene pubblico globale è la ricerca di soluzioni per tutti, senza confini e senza lasciare indietro i Paesi in via di sviluppo, come si sta ripetendo ora con monkeypox.

Un’infrastruttura comune pubblica europea potrebbe interagire anche con Paesi terzi, anche del sud del mondo?

sulla proprietà intellettuale e sulla accessibilità del prodotto, con l’esito amaro che ora le aziende private che hanno avuto dei finanziamenti pubblici vendono all’Europa i propri vaccini coperti da brevetto quasi senza alcuna restrizione sui prezzi, sulle tempistiche e sulle modalità di distribuzione. Quindi la risposta alla sua domanda è affermativa: non solo sarebbe possibile perseguire entrambi gli obietti-

Allacciare i rapporti con partner internazionali – e non solo del mondo occidentale – sarebbe un’opportunità ulteriore e ci svincolerebbe dall’agenda delle grandi aziende farmaceutiche. Inoltre ci permetterebbe di affrancarsi da situazioni paradossali, come per esempio quella dell’Africa che non era nelle condizioni di soddisfare i requisiti della catena del freddo indispensabile per i vaccini a mRna e, allo stesso tempo, non era stata messa nella condizione di avere un bacino di produzione in loco. Fin dall’inizio della progettazione del vaccino si sarebbe dovuto tenere conto del contesto locale dei Paesi e accelerare il trasferimento tecnologico per la ricerca e sviluppo e produzione homemade di vaccini. Allacciare delle partnership con altri Paesi, come per esempio l’India e l’Africa, sarebbe auspicabile. Il nostro progetto propone un’infrastruttura intramurale che lavora per missioni in cui l’Unione europea figurerebbe come promotore ma aperto anche ad altri Stati che non ne fanno parte. Abbiamo già degli esempi concreti di centri per la ricerca europei sovranazionali aperti alla collaborazione con Paesi terzi, come l’Esa, l’Agenzia spaziale europea, il Cern o l’European molecular biology laboratory. Un organismo internazionale non potrebbe raggiungere gli stessi obiettivi. Lo vediamo con l’Oms che è un’istituzione debole e con gli accordi sul clima che difficilmente 200 Paesi riescono a condividere.

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La grande differenza tra avere un meccanismo che si limita all’erogazione di sussidi (o di contratti di pre-acquisto) e un meccanismo che fa ricerca è che le partnership possono essere definite a condizioni quanto meno paritarie

C’è la possibilità che l’Unione europea prenda in considerazione questo progetto? Non sarà facile, ma nemmeno impossibile. Il 28 settembre a Bruxelles ci sarà un evento organizzato dal Panel for the future of science and technology “Creation of a public European medicines infrastructure: purpose and feasibility” in cui presenteremo il nostro progetto e ci sarà una tavola rotonda a cui parteciperanno i rappresentanti anche dell’European molecular biology laboratory, dell’European public health alliance, dell’European federation of pharmaceutical industries and associations e del National institute of allergy and infectious diseases dei National institutes of health statunitensi.

L’Unione europea sta attraversando una fase di grandi trasformazioni: negli ultimi anni, azioni come l’emissione di titoli di debito comune e le agende per il cambiamento climatico e per la sovranità dei dati hanno avuto una forte accelerazione trasversale con una maggioranza della Commissione europea formata da partiti di centro-destra e partiti di centro-sinistra.

La tendenza a un’infrastruttura europea è un po’ nelle cose. Alcuni passi in questa direzione sono già stati fatti: pensiamo per esempio all’inserimento della salute nel programma europeo per la ricerca e l’innovazione Horizon Europe e al programma EU4Health, all’istituzione dell’Autorità per la preparazione e la risposta alle emergenze sanitarie (Hera) che si occupa di prevenire, individuare e rispondere rapidamente alle emergenze sanitarie, oltre al rafforzamento di Ema. Ma al momento quello che manca è un’organizzazione unitaria sovranazionale con una chiara missione pubblica sulla salute e con risorse adeguate.

Cosa può fare la comunità sanitaria per appoggiare questa iniziativa e contribuire alla sua realizzazione?

Il Forum Disuguaglianze e Diversità ha lanciato un appello alle istituzioni europee e ai governi. Abbiamo raccolto inizialmente le firme di 200 tra ricercatori e medici, politici, rappresentanti di associazio-

ni scientifiche e della cittadinanza attiva. Tra i primi firmatari: Silvio Garattini e Giuseppe Remuzzi, rispettivamente presidente e direttore scientifico dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano; Vittorio Agnoletto, coordinatore della campagna “No profit on pandemic”; Nicoletta Dentico, direttrice del Global health justice program della Society for international development; Roberto Romizi, presidente dell’Associazione medici per l’ambiente Isde Italia; e Giuseppe Masera, già direttore dell’Emato-oncologia pediatrica del l’Università Milano Bicocca. Per la comunità professionale dei medici, aderire a questo progetto è un’occasione per avere voce in capitolo. Lo scenario a cui andiamo incontro nei prossimi decenni è uno scenario in cui i sistemi sanitari rischiano di essere molto destabilizzati da un mercato dei farmaci “impazzito”. Come scegliere di prescrivere una terapia che costa 2 milioni di euro a trattamento per una malattia genetica? Questo pone la professione medica di fronte a problemi anche etici – completamente inediti. La scelta se prescrivere un farmaco o meno non dovrebbe dipendere dal budget a disposizione dell’ospedale, per esempio; né è corretto che la responsabilità venga scaricata sul singolo medico per un problema che nasce a monte per questioni di mero profitto. Questa situazione rischia in un futuro, soprattutto in una popolazione che invecchia, di destabilizzare del tutto il sistema salute. y

A cura della redazione ilpunto.it (intervista rilasciata il 30 agosto 2022)

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Al momento quello che manca è un’organizzazione unitaria sovranazionale con una chiara missione pubblica sulla salute e con risorse adeguate

Steven Woloshin, medico e ricercatore della Darmouth university negli Stati Uniti, è tra le persone che più hanno studiato una questione importante: come comunicare i risultati della ricerca scientifica. In occasione di un incontro svolto a Roma e promosso dal progetto Forward del Dipartimento di epidemiologia del Lazio, Woloshin ha risposto alle

Saper comunicare i risultati della ricerca

domande de ilpunto.it ricordando quanto sia importante che siano comunicati i “numeri” riguardanti il beneficio o il rischio assoluto (e non relativo) e che, riportando gli esiti di uno studio, siano sempre spiegati i limiti della ricerca, in termini di rappresentatività del campione di popolazione studiato o di rilevanza clinica dei benefici evidenziati.

Va da sé – spiega Woloshin – che in uno studio osservazionale sia fondamentale considerare i fattori di confondimento che possono aver alterato le conclusioni degli autori e che, allo stesso tempo, in uno studio controllato randomizzato sia valutata la congruità del “confronto” utilizzato per misurare l’efficacia o la sicurezza di una nuova terapia. Più in generale – sembra voler dire il ricercatore – la comunicazione della ricerca deve rispondere a criteri di onestà e indipendenza, per rispettare sia il destinatario dell’informazione sia i ricercatori stessi e la loro integrità. y

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Dai paper ai pazienti: intervista a Steven Woloshin, medico e ricercatore della Darmouth university negli Stati Uniti
Guarda l’intervista video Credits Ralf Steinberger / CC BY

È lecito legare un malato ?

“Io avrei un desiderio: poter stare accanto a qualcuno che sia in un letto di contenzione”. Con queste parole Gianvito Iannuzzi, volontario in un Centro di salute mentale (Csm) a Roma ed ex paziente psichiatrico, commentava la sua esperienza di contenzione, i suoi sogni, le difficoltà affrontate. La contenzione meccanica dei pazienti psichiatrici è ancora oggi una delle questioni più controverse e dibattute in Italia e nella comunità internazionale relativamente all’assistenza psichiatrica. Questa pratica, infatti, solleva una grande quantità di problemi di ordine etico, clinico, giuridico e medico-legale. Se esistono posizioni, in ambito giuridico e psichiatrico, che assimilano la contenzione meccanica a una pratica da poter utilizzare in stato di necessità, molto diffusa è la posizione alternativa che sostiene l’il-

legittimità etica e giuridico-costituzionale di questo strumento, che ne nega la valenza terapeutica. Lo stesso Gianvito Iannuzzi, che la contenzione l’ha subita, non negando in alcune occasioni la necessità di un simile strumento mostra quanto controversa sia la questione. “Adesso capisco che la contenzione forse è necessaria. Benissimo la forza, benissimo il rigore, ma accanto diamo una parvenza di umanità, perché in quella situazione di impotenza quello che resta è la parola. Facciamo che le parole siano vere, autentiche e in qualche modo calibrate. In quella situazione si è fecondi mentalmente, si ha bisogno di uno scambio, di un dialogo. Pensare che hai risolto tutto legando, chiudendo la porta e andando via, non dico buttando la chiave ma quasi, è la cosa più crudele e più assurda che sia stata concepita all’interno di una scienza”.1 Sicuramente la contenzione meccanica è una pratica molto diffusa, e non solo nei reparti psichiatrici. Secondo una ricerca condotta nel 2004 dall’Istituto superiore di sanità presso un campione di Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc) sull’intero territorio nazionale, nel 60 per cento dei casi le strutture fanno ricorso a pratiche di contenzione meccanica e in oltre il 70 per cento sono presenti gli strumenti idonei per farvi ricorso. In Italia avvengono in media 20 contenzioni ogni 100 ricoveri. Il motivo per cui parliamo di stime poco aggiornate è che nella maggior parte delle Regioni italiane non esiste alcun monitoraggio del fenomeno, né tanto meno indicazioni per come affrontare il problema. Nel 2015 il Comitato nazionale di bioetica scriveva: “A livello nazionale, non si conosce il numero dei pazienti su cui la contenzione meccanica sia stata applicata, né il numero delle contenzioni, né il numero totale di ore di contenzione nell’arco di un anno”.2 A oggi la situazione non è cambiata.

Eppure ci sono luoghi in Italia dove la contenzione è stata abbandonata e le porte sono aperte. Luoghi dove sono evidenti pratiche e organizzazioni dei servizi rispetto-

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La contenzione meccanica dei pazienti psichiatrici è una pratica che, ancora oggi, solleva questioni di ordine etico, clinico, giuridico e medico-legale

se della persona, della dignità e dei diritti di tutti, utenti e operatori. Dalla Regione Friuli Venezia Giulia, dove iniziò la rivoluzione psichiatrica basagliana, fino a buone pratiche sparse sul territorio nazionale. Esistono, infatti, circa 30 Spdc no restraint capaci, anche nelle situazioni più estreme, di assicurare dignità e diritti. Ciclicamente la questione della contenzione meccanica torna sui giornali, in seguito a eventi tragici. Solo per fare un esempio, recentemente nel giro di sei mesi (a novembre 2021 e a maggio 2022) due giovani uomini sono morti a Roma durante il ricovero in Spdc in circostanze poco chiare.3 In pochi, però, ne hanno parlato, facendo sospettare che la maggior parte di queste morti passi sotto silenzio. L’ultimo caso, invece, che ha destato clamore è quello di Elena Casetto, la ragazza diciannovenne bruciata viva all’interno del reparto psichiatrico dell’ospedale di Bergamo il 13 agosto del 2019. La ragazza era stata legata al letto qualche ora prima e la sua stanza era chiusa a chiave: una situazione molto distante da quella auspicata da Gianvito Iannuzzi. Una volta scoppiato l’incendio, le fiamme sono divampate e nessuno è riuscito a salvarla. Ancora, se facciamo un passo indietro fino al 4 agosto del 2009, nell’Spdc dell’ospedale di Vallo della Lucania è morto legato a un letto Franco Mastrogiovanni, vicenda poi raccontata dal film di Costanza Quatriglio, “87 Ore”,4 che ha portato alla condanna definitiva di sei medici e undici infermieri. In questo caso ha fatto scalpore l’affermazione inequivocabile della Cassazione: il ricorso al letto di contenzione non è mai una misura terapeutica.

Anche il già citato documento del Comitato nazionale di bioetica uscito nel 2015 e il rapporto del 2017 della Commissione diritti umani del Senato presieduta da Luigi Manconi hanno denunciato l’illegalità della contenzione, focalizzando il tema dal punto di vista del rispetto della dignità e dei diritti della persona. “Secondo la nostra Costituzione”, scrive Luigi Manconi nel rapporto, “i ricorsi a pratiche limitati-

ve della libertà personale nell’ambito di trattamenti sanitari dovrebbero rappresentare rare eccezioni tassativamente regolate, controllate, sottoposte a un sistema giurisdizionale di garanzie nei confronti dei pazienti. Mentre si continua dunque ad agire in maniera stridente con la migliore cultura giuridica e sanitaria affermatasi

PER APPROFONDIRE

Spdc no restraint, di cosa si tratta?

L’associazione Club Spdc no restraint è stata fondata nel settembre del 2006 e oggi comprende circa il 10 per cento dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura italiani (Spdc). Sono localizzati soprattutto al nord, nelle regioni Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Emilia-Romagna, Trentino Alto Adige, Piemonte e Toscana, ma non mancano esperienze virtuose nel Lazio, in Umbria, Puglia e Sicilia.

L’associazione si propone di svolgere attività di utilità sociale nel settore della salute mentale, con particolare riferimento ai reparti di psichiatria presenti negli ospedali per finalizzare l’operatività ai principi del “no restraint”, ovvero la pratica per giungere ad azzerare i mezzi di contenzione, al mantenimento delle porte dei Spdc aperte, nel rispetto della libertà e della dignità delle persone ricoverate, privilegiando tutti gli interventi relazionali e stimolando al massimo la responsabilità delle persone ricoverate nel proprio percorso di cura.

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Credits Astrid Westvang / CC BY

nel nostro Paese e, in particolare, con quella ‘legge Basaglia’ che ha riconosciuto in maniera piena la dignità e la titolarità dei diritti delle persone affette da disagio mentale. Nella stragrande maggioranza dei centri di diagnosi e cura i pazienti non hanno la possibilità di avere rapporti con i familiari, di muoversi liberamente (tantomeno di uscire) e tali strutture risultano spesso impermeabili a qualsiasi possibilità di monitoraggio e controllo dall’esterno e la pratica di misure di contenzione meccanica è una componente ricorrente, seppur nell’ombra. (...) La contenzione meccanica continua a rimanere pratica diffusa nel pressoché assoluto silenzio della politica, delle comunità professionali e dell’intero corpo sociale”.5

Diversi operatori sanitari giustificano l’utilizzo della contenzione per tutelare la propria sicurezza e, in alcuni casi, anche quella del paziente. Tra i motivi che portano gli operatori sanitari a utilizzarla, infatti, ci sono la prevenzione delle cadute, il trattamento dell’agitazione e dell’aggressività del soggetto, il controllo del com-

PER APPROFONDIRE

“... e tu slegalo subito”

La campagna “... e tu slegalo subito” (www.slegalosubito.com), promossa dal Forum salute mentale e da più di 20 associazioni, si costituisce nel dicembre 2015 con l’obiettivo di sostenere l’abolizione della pratica della contenzione meccanica nei servizi sociosanitari, a partire dai servizi della psichiatria. Negli anni, “... e tu slegalo subito” è intervenuta presso i governi locali e nazionali, le aziende sanitarie, i dipartimenti di salute mentale in occasione delle morti di persone con disturbi mentali legate ricoverate nei servizi di diagnosi e cura. Ha svolto attività di informazione, consulenza e supporto a familiari di persone contenute o alle persone che hanno subito la contenzione. Ha partecipato a seminari e convegni su tale tematica. Ha promosso aggregazioni di associazioni locali, eventi pubblici ed azioni verso l’obiettivo di città libere da contenzione. L’impegno di “... e tu slegalo subito” ha contribuito in maniera importante all’emanazione da parte del Ministero della salute, nel marzo 2021, del documento “Superamento della contenzione meccanica nei luoghi della cura del Dipartimento di salute mentale”, da giugno all’esame della Conferenza delle Regioni.

portamento, la somministrazione della terapia. Nonostante tutti conosciamo le difficoltà degli operatori costretti a lavorare in condizioni di carenza di organico, in ambienti inadeguati o sovraffollati, sappiamo anche che la contenzione non è frutto solo di queste carenze e difficoltà. Influiscono l’orientamento, la cultura degli operatori e dei dirigenti, il modello organizzativo dei servizi di salute mentale. Dunque, in questo senso, un passo in avanti andrebbe fatto. E se in alcuni casi sembra l’unica strada necessaria, che almeno resti la parola. y

Bibliografia

1 Contenzione in psichiatria: la testimonianza di un paziente. Canale YouTube “Il Pensiero Scientifico Editore”, 19 dicembre 2019.

2 La contenzione: problemi bioetici. Comitato nazionale di bioetica, 2015.

3 Giannichedda MG. Torna il sopravvento della psichiatria violenta. il manifesto, 24 maggio 2022.

4 “87 ore”, il film sulla morte di Mastrogiovanni. L’espresso, 15 dicembre 2015.

5 Senato della Repubblica, Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani. La contenzione meccanica, 2017.

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Secondo il Programma regionale per gestione del rischio clinico 20202022, approvato dall’Assessorato alla sanità della Regione Piemonte,1 la contenzione può essere definita come qualsiasi intervento che limita la libertà di movimento ovvero la normale accessibilità al proprio corpo.

Si distinguono le seguenti forme di contenzione:

{ psicologica, relazionale o emotiva (tecniche di de-escalation): ascolto e osservazione empatica del soggetto finalizzata a promuovere un miglior controllo del comportamento e di eventuali agiti violenti; { ambientale e tecnologica: consiste nell’attuare cambiamenti strutturali e organizzativi, anche con il ricorso a forme di sorveglianza (dispositivi tecnologici quali videocamere, allarmi alle porte, apertura delle porte con codice o con maniglie di difficile gestione per persone con problemi cognitivi, tag che innescano allarme all’avvicinarsi a una porta, ecc.);

La contenzione meccanica nei luoghi di cura

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Non è un atto terapeutico ma un provvedimento da attuare solo in casi eccezionali

{ fisica: in cui c’è il contatto fisico diretto con uno o più operatori;

{ meccanica: applicazione di presidi sulla persona che ne riducano o impediscano i movimenti;

{ chimica: somministrazione di farmaci (si precisa che la contenzione non coincide con qualsiasi tipo di sedazione e che la sedazione non rappresenta contenzione quando costituisce uno specifico trattamento ed è parte integrante della terapia). Le suddette forme di contenzione costituiscono un gruppo eterogeneo di interventi che vanno da quelli appropriati e raccomandati dalle buone pratiche (contenzione psicologica, relazionale o emotiva) alle forme più critiche e problematiche (contenzione chimica e meccanica). Queste ultime devono essere oggetto di raccomandazioni finalizzate a ridurne l’impatto negativo sui pazienti e virtualmente a non utilizzarle nella pratica assistenziale.

Alcune osservazioni

In particolare sulla contenzione meccanica si è focalizzata un’attenzione crescente da parte del Ministero della salute, degli assessorati regionali e dell’Ordine dei medici. Dovrebbe, quindi, essere considerata come un evento sentinella, motivo per cui appare irrinunciabile che venga affrontato per l’intera organizzazione dei servizi sanitari regionali e non solo per la salute mentale. Ciò consente di consolidare l’auspicabile orientamento finalizzato a evitare l’emanazione di leggi e norme speciali per la psichiatria e per la salute mentale.

Appare, quindi, molto importante che l’Assessorato alla sanità della Regione Piemonte, nel suddetto Programma regionale per la gestione del rischio clinico 2020-2022 articolato in 15 azioni, abbia incluso al punto 13: “Pratiche contenitive in ambito sanitario”. In questo documento sono contenute molte delle raccomandazioni proposte dal Ministero (“Superamento della contenzione meccanica nei luoghi di cura della salute mentale”) ma estese a tutto l’ambito sanitario e non so-

lo ai luoghi di cura della salute mentale. A tale proposito si possono formulare le seguenti osservazioni.

{ Non è utile emanare leggi speciali per la psichiatria, cosa che accresce lo stigma e il pregiudizio invece di combatterlo.

{ La contenzione meccanica non è un atto terapeutico, ma un provvedimento da attuare solo in casi eccezionali e in presenza dello stato di necessità, come sancito da una sentenza della Cassazione penale.2

{ In quanto evento critico deve essere oggetto di stretto monitoraggio nei luoghi di cura e a livello regionale da parte dei servizi che si occupano di qualità e gestione del rischio clinico.

{ È, quindi, auspicabile l’attivazione di un osservatorio regionale e nazionale.

{ È necessario evidenziare che per raggiungere l’irrinunciabile obiettivo del superamento delle forme più critiche e problematiche di contenzione, soprattutto quella meccanica, devono essere previsti idonei finanziamenti e risorse aggiuntive dedicate sia all’organizzazione dei servizi sia alla formazione continua del personale.

Rispetto agli aspetti organizzativi è indispensabile la disponibilità di risorse sufficienti in quanto è ampiamente considerato inaccettabile dalla letteratura scientifica sul tema che venga attuata la contenzione per ovviare alla scarsità di operatori in servizio, soprattutto nei turni più critici come le notti e i festivi.

Particolare importanza assume la formazione, che è uno strumento fondamentale per ampliare l’impiego di interventi appropriati, non traumatici e raccomandati dalle buone pratiche. I destinatari sono tutti gli operatori delle strutture sanitarie e sociosanitarie che prestano assistenza ai pazienti in condizioni sia acute sia croniche, quindi ospedali, strutture di riabilitazione e di lungodegenza, Rsa, comunità terapeutiche, ecc.

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Credits Steve p2008 / CC BY

Quando si ricorre alla contenzione meccanica

Dal punto di vista clinico si possono distinguere tre condizioni a cui è possibile ricondurre i casi che emergono dalla pratica assistenziale e terapeutica.

1. Paziente in condizioni acute, non collaborante, che non è in grado di esprimere né il consenso né il dissenso alle cure, come spesso accade in contesti di emergenza-urgenza, pronto soccorso, reparti di rianimazione, situazioni post-operatorie con pazienti in stato di alterazione di coscienza acuto e concomitante patologia organica grave che richiede un’assistenza ad alta intensità.

2. Paziente in condizioni croniche, non collaborante, che non è in grado di esprimere né il consenso né il dissenso alle cure, come spesso accade in contesti di riabilitazione e/o lungodegenza. Ciò si verifica soprattutto in ambienti extraospedalieri che assistono pazienti con disabilità intellettive e/o disturbi neurocognitivi. In tale ambito si verifica spesso un ulteriore specifico problema assistenziale costituito dal fenomeno del wandering, cioè un comportamento motorio erratico e poco organizzato che, tra gli altri rischi, comporta quello dell’allontanamento dalla struttura che, anche se non è intenzionale, può avere gravi conseguenze.

3. Paziente che rifiuta le cure e che, se vi sono le condizioni stabilite dalla legge 833/78, art. 34, può essere sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale il quale, sempre secondo la suddetta legge, può essere effettuato esclusivamente nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura degli ospedali generali. In ogni caso si tratta di persone in condizione di fragilità verso le quali i medici hanno uno specifico obbligo deontologico sancito da un articolo del Codice di deontologia medica:

Art. 32. Doveri del medico nei confronti dei soggetti fragili.

Il medico tutela il minore, la vittima di qualsiasi abuso o violenza e la persona in condizioni di vulnerabilità o fragilità psico-fisica, sociale o civile in particolare quando ritiene che l’ambiente in cui vive non sia idoneo a proteggere la sua salute, la dignità e la qualità di vita. Il medico segnala all’Autorità competente le condizioni di discriminazione, maltrattamento fisico o psichico, violenza o abuso sessuale.

Il medico, in caso di opposizione del rappresentante legale a interventi ritenuti appropriati e proporzionati, ricorre all’Autorità competente.

Il medico prescrive e attua misure e trattamenti coattivi fisici, farmacologici e ambientali nei soli casi e per la durata connessi a documentate necessità cliniche, nel rispetto della dignità e della sicurezza della persona.

Si ricorda, inoltre, che nei confronti delle persone in condizione di incapacità legale e/o naturale la legge stabilisce un obbligo specifico di custodia.3 Tale obbligo vale per tutti i cittadini e non ha una specificità sanitaria, ma si associa agli obblighi attribuiti agli operatori sanitari dalla posizione di garanzia.4 y

Bibliografia

1 Determinazione dirigenziale sanità e welfare. Atto DD 21 ottobre 2020, n. 1223.

2 Contenzione del paziente psichiatrico e sequestro di persona: l’antigiuridicità è esclusa (solo) entro i ristretti confini dello stato di necessità (caso Mastrogiovanni). Sentenza n. 50497 del 2018, della V Sezione penale della Corte di cassazione, che conclude il processo sulla morte di Francesco Mastrogiovanni.

3 Art. 591 del Codice penale: “Abbandono di persone minori o incapaci”, reato di pericolo e non di danno.

4 Art. 40 del Codice penale: “Rapporto di causalità”.

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Come viene percepita la contenzione chimica e meccanica ?

della contenzione meccanica nei luoghi di cura della salute mentale, nonché dalla Regione Piemonte attraverso il Programma regionale per la gestione del rischio clinico 2020-2022 (dd 21 ottobre 2020, n. 1223) che definisce la contenzione come qualsiasi intervento che limita la libertà di movimento ovvero la normale accessibilità al proprio corpo.

Le varie forme di contenzione costituiscono un gruppo eterogeneo di interventi che vanno da quelli appropriati e raccomandati dalle buone pratiche (contenzione psicologica, relazionale o emotiva) alle forme più critiche e problematiche (contenzione meccanica e chimica). Queste due ultime sono oggetto di raccomandazioni finalizzate a ridurre l’impatto negativo sui pazienti e, quando possibile, a non utilizzarle nella pratica assistenziale.

Antonella Capellupo Coordinatrice gruppo di lavoro sulla contenzione OMCeO Torino

Tra il 20 ottobre e il 20 novembre 2021 tutte le iscritte e gli iscritti all’OMCeO di Torino hanno ricevuto il questionario anonimo sulla contenzione realizzato dal gruppo di lavoro attivato dalla Presidenza dell’Ordine, composto da tre psichiatri, una geriatra, una collega con esperienza di direzione di Rsa, una medica di medicina generale, una medica che si occupa di risk management, una componente del Consiglio direttivo dell’Ordine, al fine di verificare la conoscenza, la pratica e le opinioni sull’argomento da parte delle mediche e dei medici dell’area metropolitana di Torino.

L’argomento “contenzione” sollecita implicazioni deontologiche, giuridiche e di risk management come peraltro di recente evidenziato anche dall’ex difensore civico della Regione Piemonte, l’avvocato Augusto Fierro, attraverso l’indagine sui dati delle contenzioni nelle Rsa e nelle case di cura, dal documento del Ministero della salute di giugno 2021 per il superamento

Il questionario proposto alle iscritte e agli iscritti ha riguardato queste ultime problematiche forme di contenzione al fine di indagare quanto e come la contenzione meccanica e quella chimica siano utilizzate nei diversi contesti organizzativi della sanità nella Provincia di Torino.

I risultati della survey

Dove lavori?

Il 46% presso Asl/Aso, il 22% come libero professionista, il 14% come convenzionato.

In quale disciplina eserciti?

Le specialità più rappresentate (46% del totale) sono: medicina generale, psichiatria, odontoiatria, anestesiologia, medicina e chirurgia d’accettazione e urgenza, ostetricia e ginecologia, chirurgia, geriatria.

Quanti anni hai?

25% meno di 39 anni

27% tra 40 e 55 anni

26% tra 55 e 65 anni

21,5% over 65

Genere maschile e femminile ugualmente rappresentati.

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L’indagine della OMCeO di Torino tra le iscritte e gli iscritti all’Ordine

Analisi delle risposte

Il questionario ha rappresentato 908 tra iscritte ed iscritti.

La disciplina più rappresentata è stata la medicina generale, a seguire la psichiatria, l’odontoiatria, la rianimazione e la medicina d’urgenza, dato che conferma che la contenzione è argomento di interesse non solo per chi lavora in psichiatria o nelle Rsa ma anche per chi lavora sul territorio, nei reparti sub intensivi, nei pronto soccorso e nelle degenze di medicina e chirurgia.

La contenzione meccanica sembra essere più rappresentata di quella chimica, informazione che, incrociata con le discipline mediche più rappresentate nel questionario, conferma il frequente ricorso a mezzi di contenzione quali le sponde specie per evitare il rischio caduta.

Le motivazioni prevalenti indicate sono: paziente agitato, auto o etero aggressivo

Nel tuo ambito lavorativo viene utilizzata la contenzione meccanica?

(applicazione di presidi sulla persona che ne riducono o impediscono i movimenti)

Se sì, quale?

(51,43%); paziente confuso, a rischio caduta (36,67%); poco personale (9,36%).

Le contenzioni sono state disposte molto spesso in presenza di uno stato di necessità (71,26%).

Tali dati evidenziano due elementi che potrebbero indicare un alto rischio di inappropriatezza e quindi meritevoli di ulteriori riflessioni: in circa un terzo dei casi la contenzione è stata attuata senza che fosse chiaramente indicata la presenza dello stato di necessità, in un caso su 10 viene correlata alla mancanza di personale.

Le risposte alla domanda sulla presenza di procedure di monitoraggio scritte degli eventi di contenzione meccanica nei luoghi di lavoro mette in evidenza una criticità di risk management in quanto solo un terzo di chi ha partecipato al questionario è a conoscenza dell’esistenza di tali procedure. Quando presenti, le procedure non sem-

Ritieni ci siano dei contesti/situazioni nei quali sia indispensabile ricorrere alla contenzione meccanica o chimica?

Sei a conoscenza di procedure operative e di monitoraggio scritte inerenti la contenzione meccanica nel tuo luogo di lavoro?

Nel tuo ambito lavorativo viene utilizzata la contenzione chimica?

(somministrazione di farmaci)

Se sì, e solo se in ambito ospedaliero, le procedure sono aziendali, validate per tutti i reparti?

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brano inoltre sempre validate dalla direzione aziendale, dato che fa supporre che le procedure di monitoraggio siano diverse da reparto a reparto e non condivise con la direzione d’azienda.

Le ultime domande del questionario a proposito delle strategie alternative alla contenzione mettono invece in risalto delle necessità formative, dato di particolare importanza tenuto conto della trasversalità e della multidisciplinarità dei luoghi di lavoro dove viene disposta la contenzione meccanica e chimica.

Conclusioni

La contenzione non è un atto terapeutico e deve rimanere circoscritta a circostanze eccezionali.

Quasi tre quarti degli intervistati dichiara che essa può rappresentare un problema per l’operatore coinvolto e/o per il pazien-

te che la subisce. Per essere attuata in modo sicuro e lecito deve essere accompagnata da strategie che ne minimizzano gli effetti e che riguardano ambiti di risk management, giuridici, deontologici, organizzativi e formativi (dall’indagine emerge che tre colleghi su quattro non sono a conoscenza di strategie alternative).

Occorrono dunque momenti di condivisione, approfondimento e formazione di cui oltre la metà dei medici e odontoiatri di Torino sente la necessità.

I risultati dell’indagine sono stati condivisi durante un convegno sulla contenzione che si è tenuto lo scorso autunno per aprire un confronto sugli aspetti clinici, bioetici e giuridici. Il gruppo di lavoro che ha elaborato il questionario intende inoltre farsi carico delle esigenze formative sollevate dalle iscritte e dagli iscritti attraverso proposte ad hoc. y

Ti è mai successo di vedere disposta una contenzione meccanica o chimica su un tuo paziente senza che tale decisione fosse stata assunta da te o almeno condivisa dall’équipe?

Nella tua esperienza professionale il paziente, i familiari o il rappresentante legale vengono informati della contenzione disposta?

Credi che il ricorso alla contenzione possa rappresentare un problema per l’operatore coinvolto e/o per il paziente che la subisce?

Per l’operatrice/ operatore coinvolta/o il problema può essere di tipo:

Sei a conoscenza di strategie alternative alla contenzione?

Se sì, quali?

La maggior parte di coloro che hanno risposto di esserne a conoscenza considerano che delle alternative potrebbe essere delle modifiche organizzative, un incremento delle risorse umane, le tecniche di de-escalation e i corsi di formazione.

Saresti interessato ad un corso di formazione sull’argomento contenzione?

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L’oblio oncologico per ricominciare

rigione giuridica. Parlare di oblio vuol dire far sì che il paziente guarito sia riabilitato completamente, cioè che abbia gli stessi diritti e le stesse possibilità delle persone che non si sono mai ammalate. Penso che riconoscere a livello giuridico l’oblio oncologico valorizzi e dia dignità al percorso umano che il paziente compie affrontando la malattia e dunque alla sua storia di guarigione.

Il disegno di legge 2548 sul diritto all’oblio oncologico permetterebbe alle persone guarite da un tumore di non fornire informazioni sulla loro malattia pregressa in circostanze in cui attualmente è richiesto. Come spiegano Libero Ciuffreda e Sara Bustreo, specialisti in oncologia, la guarigione clinica deve trovare il corrispettivo in una guarigione giuridica, a partire dalla ricerca di nuove parole.

Perché è importante, per i pazienti e per gli operatori sanitari, parlare di diritto all’oblio oncologico e di ciò che potrebbe rappresentare all’interno dei percorsi di cura?

Sara Bustreo. Innanzitutto occorre collocare il tema in una cornice più ampia che racchiuda, da una parte, il percorso di riabilitazione del paziente oncologico e dall’altra un rinnovamento del processo comunicativo e della medicina narrativa su cui oggi sempre più si incardina l’oncologia contemporanea. Parlare di oblio ha un significato anche metaforico: significa avere l’opportunità, sia per il paziente sia per l’operatore sanitario, di valorizzare ciò che è stato positivo nel percorso di cura della patologia oncologica che ha portato alla guarigione. La guarigione clinica deve quindi trovare il corrispettivo in una gua-

Libero Ciuffreda. Sensibilizzare la società su questi temi è fondamentale per allontanare lo stigma della patologia oncologia, ma è necessario che avvenga anche un cambiamento sul piano giuridico. La legge sull’oblio consentirebbe alla persona guarita di riappropriarsi completamente della propria vita, allontanando un’esperienza, quella della malattia oncologica, che dovrebbe costituire semplicemente una parentesi nella sua vita. Credo che, in quanto medici, dobbiamo impegnarci per tutelare le biografie di queste persone perché la malattia non limiti le loro prospettive future. Il nostro obiettivo è ridare alla persona che ha vissuto la malattia oncologica una vita dove il senso profondo dell’essere si manifesta attraverso la reintegrazione sociale e lavorativa, e all’interno delle relazioni familiari e più intime.

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A colloquio con Libero Ciuffreda e Sara Bustreo Credits Pseudoplacebo / CC BY
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A partire dalla ricerca di parole nuove

Adottare una legge per il diritto all’oblio oncologico significa anche cambiare la prospettiva comune riguardo la malattia oncologica. Come e perché deve avvenire questo ripensamento?

Sara Bustreo. Impegnarsi per cambiare prospettiva sulla malattia riguarda quella parte meno “tecnica” del nostro lavoro, ma più vicina alle storie personali dei pazienti. La malattia è una fase della vita in cui non ci si deve sentire soli e ci si deve sentire aiutati; ed è dovere di noi medici essere presenti non solo attraverso i farmaci e le nostre capacità cliniche, diagnostiche e terapeutiche, ma anche attraverso la parola che è altrettanto curativa. La relazione tra paziente e medico dovrebbe essere basata su un rinnovamento sempre più forte dell’uso delle parole in modo che esse possano accompagnare i pazienti durante i percorsi di cura e riabilitazione. Libero Ciuffreda. Sì, l’uso delle parole è un tema centrale: la parola “cancro” rimanda a significati nefasti ed esperienze negative, inoltre non tiene conto di quella che è l’arte medica in generale. Dovremmo innanzitutto ripartire dal significato della parola “cancro” e avere il coraggio di depotenziarla. Il che implica un cambiamento culturale e una riflessione semantica per cercare nuove definizioni per questa malattia ancora troppo legata a un vecchio e ormai tramontato modo di concepirla. La malattia oncologica non è più come pensavano gli antichi medici da Ippocrate a Galeno un qualcosa di morfologico, che cresce e si infiltra. Oggi è sempre più facile capire la malattia e tenerla sotto controllo se non sconfiggerla. Potremmo

PER APPROFONDIRE Il disegno di legge

Il 29 marzo 2022, nel corso di una conferenza stampa tenutasi a Roma, nella Sala Nassirya del Senato, la senatrice Paola Boldrini, vicepresidente della Commissione sanità in Senato, dopo confronti con le associazioni scientifiche e di pazienti e raccolti attorno a sé i principali interlocutori istituzionali, ha illustrato il disegno di legge 2548 sul diritto all’oblio oncologico, che riguarda i malati di tumore ormai guariti. Il disegno di legge sul diritto all’oblio oncologico si pone all’interno di una variegata situazione normativa in Europa: ad oggi soltanto cinque Paesi dell’Unione europea (Francia, Lussemburgo, Belgio, Olanda e Portogallo) hanno già approvato una legge che fornisce questa tutela ai malati oncologici. Il disegno di legge affronta una questione molto delicata e sempre più avvertita nella coscienza civile e nel dibattito pubblico: il diritto di coloro che sono guariti da patologie oncologiche a non subire discriminazioni a causa del loro stato di salute, in particolare per ciò che riguarda l’accesso ai servizi bancari e assicurativi e alle procedure di adozione. In entrambi i casi, infatti, la legislazione vigente e le prassi contrattuali contemplano la possibilità di svolgere indagini sullo stato di salute dei contraenti e dei richiedenti; nel caso della stipula di contratti bancari e assicurativi, al consumatore vengono richieste informazioni sullo stato di salute e, in caso di pregresse patologie oncologiche, la storia medica del consumatore può giustificare l’imposizione di oneri ulteriori rispetto a quelli normalmente e normativamente previsti, oltre a incidere in modo specifico sulla valutazione del rischio dell’operazione e della stessa solvibilità del consumatore.

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quindi abbandonare la parola “cancro” in quanto da esso, oggi sempre più spesso, si può rimanere in una condizione di cronicità gestibile oppure guarire. Quindi il primo messaggio che si lega all’oblio è proprio quello di acquisire una nuova definizione di questa malattia. A questo si deve aggiunge un cambio di prospettiva che metta a fuoco il paziente e non solo le caratteristiche biologiche della malattia che sono sì fondamentali ma non devono farci dimenticare che non è l’organo che si ammala ma la persona. Questo è quello che l’oncologica contemporanea – ovvero il nostro modo di concepire questa disciplina della medicina sempre più importante – ci porta a dare come contributo per aprire una prospettiva diversa in oncologia così come in altri ambiti di patologie.

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Il cambiamento deve essere trasversale all’interno della società per modificare la visione eccessivamente negativa della malattia oncologica e di trovare parole nuove
Libero Ciuffreda

Cosa si potrebbe fare per diffondere una nuova prospettiva: su cosa bisognerebbe investire, ad esempio, a livello universitario e istituzionale?

Libero Ciuffreda. Il primo passo sarebbe rivedere il modello didattico e di formazione in modo da insegnare agli operatori sanitari nuove modalità di comunicazione con il paziente e nuove modalità di gestione della comunicazione tra équipe sanitaria e paziente. Ma non sarebbe sufficiente: il cambiamento deve essere trasversale all’interno della società per modificare la visione eccessivamente negativa della malattia oncologica e, sottolineo nuovamente, di trovare parole nuove. Faccio l’esempio del giornale che titola la pagina con “Un brutto male ci ha portato via un angelo”. Questo brutto male sicuramente lo è stato per quel paziente, per quel ragazzo, ma non può essere generalizzato. È una malattia che può essere vinta grazie agli strumenti che abbiamo, strumenti che anche il linguaggio e la cultura possono mettere a disposizione di tutti noi. Una comunicazione più sincera con il paziente, i familiari e con i cittadini tutti può rappresentare un elemento straordinario e prezioso. Per questo ci sarebbe bisogno dei linguisti, dei filosofi, dei bioeticisti, dei giornalisti, degli insegnanti e di chi si occupa di comunicazione.

Sara Bustreo. Credo che vi sia una responsabilità sociale. I media e i decisori politici hanno una forte responsabilità nel poter rivoluzionare la percezione e il vissuto normativo delle patologie oncologiche. Allo stesso modo è anche fondamentale un cambiamento all’interno dei percorsi formativi, a partire dall’università, e anche dei corsi di aggiornamento di tutte le figure professionali coinvolte nell’arte della cura: la stessa attenzione che viene riservata agli insegnamenti scientifici dovrebbe essere riposta nell’insegnare l’importanza della comunicazione e dell’incontro tra medico e paziente. L’attenzione si dovrebbe spostare dalla cura al prendersi cura per concentrarsi sull’incontro tra l’operatore e il paziente, ciascuno con il proprio

vissuto e la propria esperienza. Insegnare quindi gli strumenti per comunicare e per coltivare la relazione di cura con il paziente affinché non dipenda esclusivamente dal talento e dalla sensibilità del singolo operatore sanitario. Certamente si sta iniziando a parlare di più di questi aspetti ma resta tanto su cui lavorare. Bisogna capire che ogni volta in cui non riusciamo a comunicare con il paziente stiamo venendo un po’ meno all’arte della cura. Inoltre, servirebbe recuperare il valore del lavoro in équipe per il paziente: lavorando insieme, in modo continuativo, si può trovare una rinascita della nostra ars medica che richiede oggi la somministrazione corretta non solo di farmaci ma anche di parole affinché i nostri pazienti possono sentirsi assistiti, aiutati e maggiormente riabilitati a quella che è la vita.

Per concludere... Libero Ciuffreda. Concluderei con una sorta di appello. Sostenere questa campagna di sensibilizzazione per allontanare lo stigma dalla malattia oncologica è fondamentale perché consente, alla persona che è guarita, di riappropriarsi pienamente della propria vita. Riprendendo lo slogan della campagna per il diritto all’oblio oncologico “Io non sono il mio tumore”, quella persona è sé stessa e ha una propria biografia che trascende la malattia. E lo sguardo deve essere rivolto al futuro. Un futuro pieno e riabilitato sotto tutti i punti di vista. y

L’intervista è stata rilasciata a luglio del 2022 quando Libero Ciuffreda , oncologo medico ora in pensione, era direttore dell’Oncologia medica presso il Centro oncologico ematologico Subalpino, dell’Aou Città della salute e della scienza di Torino. Nella stessa struttura Sara Bustreo esercita come oncologa medica dedicandosi all’attività oncologica assistenziale e di ricerca clinica nell’ambito delle neoplasie solide, in particolare del tratto gastroenterico.

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Lavorando insieme, in modo continuativo, si può trovare una rinascita della nostra ars medica che richiede oggi la somministrazione corretta non solo di farmaci ma anche di parole
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La solitudine epistemica del medico del territorio

Le componenti tacite e situate della solitudine invisibile della medicina generale, dalla conoscenza alla pratica

L’ultracentenaria storia sociale del medico del territorio è centrata sulla relazione diadica medicopaziente, in un’aura libero-professionale individualistica, con una debole identità culturale e una posizione marginale nell’organizzazione sanitaria ed estranea alle istituzioni accademiche.

Nell’ultima decade si è avviata una nuova fase riformatrice a partire della legge Bal-

duzzi del 2012 che si proponeva di favorire tra i medici di medicina generale nuovi legami organizzativi, di tipo monoprofessionale e dal basso con le Aft – aggregazione funzionale territoriale, e multiprofessionali dall’esterno con le Uccp – Unità complesse di cure primarie. La pandemia ha fatto emergere annosi ritardi e inadempienze in questo processo, che ora la “Missione 6” del Pnrr dovrebbe compensare con le case e gli ospedali di comunità che promettono un cambio di paradigma promuovendo lo sviluppo della comunità di pratica del territorio e la sua piena integrazione nella rete sociosanitaria. Potremmo dunque essere alla vigilia di un cambiamento antropologico e organizzativo che spezzerà la solitudine individualistica e l’isolamento culturale del medico di medicina generale che ha radici lontane nel tempo e nei luoghi in cui ha esercitato la professione. Le premesse ci sarebbero anche se un mix tra concreti problemi logistici, errori di programmazione, deficit di risorse professionali e resistenze di categoria non renderanno agevole lo sviluppo e la gestione delle nuove strutture. Ma se l’isolamento fisico e relazionale sembra avviato a soluzione, c’è un’altra faccia della solitudine del medico del territorio non meno problematica, quella “epistemica”.

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Medico di medicina generale

I due piani della solitudine

La solitudine epistemica, ovvero in senso lato cognitiva, si colloca su due piani:

{ quello individuale e interno alla categoria, relativo agli strumenti di conoscenza che il medico di medicina generale ha a disposizione nella pratica professione quotidiana, ovvero la sua cassetta di attrezzi metodologici per definire e risolvere i problemi,

{ quello collettivo e verso l’esterno, per la difficoltà di rappresentare e far comprende a chi non ha esperienza sul campo le caratteristiche dei processi sociocognitivi di cui sopra.

Questa forma di solitudine è difficile da descrivere, sia a sé stessi in chiave riflessiva sia verso l’ambiente “esterno”, ovvero gli altri professionisti, specialistici e accademici, e poi via via verso l’“alto” fino ai vertici della piramide gerarchica: è un’impresa comunicare la specificità del lavoro sul territorio agli esperti di politica sanitaria, ai responsabili politici, ai decisori politici nazionali e regionali, e alle burocrazie amministrative e ministeriali. Nelle alte sfere allignano radicati pregiudizi e bias cognitivi difficili da sfatare, come per esempio il ruolo del generalista quale mero esecutore di “ordini” superiori oppure passivo terminale delle istruzioni contenute in documenti “tecnici” come linee guida, percorsi, protocolli, procedure ecc. Due sono i tratti che rendono “ineffabile” e “incomunicabile” ad altri la solitudine epistemica del medico di medicina generale: la dimensione situata e quella tacita che caratterizzano il sapere pratico del generalista oltre alle componenti riflessive ed esperienziali, distribuite e mediate della competenza e della conoscenza.1

L’attività situata

Il carattere situato è legato alla posizione di confine occupata dal medico di medicina generale, stretto tra il sistema di riferimento profano di carattere sociale e culturale, da un lato, e il sistema di riferimento professionale, formale e istituzionale dall’altro.2 Su di esso pesano alcune richieste improprie di carattere non sanitario attinenti ai risvolti economici delle decisioni mediche di opposto significato: ad esempio, in positivo il rilascio di certificazioni compiacenti per questioni assicurative o per ottenere benefici economici come l’invalidità, oppure in negativo la richiesta esplicita di non applicare le limitazioni delle note dei farmaci o degli accertamenti che costringerebbero il paziente a pagare interamente la medicina o l’esame diagnostico “non mutuabili”.

Questi ultimi “incidenti” sono dovuti al “patologico” disallineamento tra le norme e le routine prescrittive ospedaliere e quelle vigenti sul territorio: ad esempio non tutti i farmaci utilizzati in ospedale sono prescrivibili fuori dal nosocomio per cui il paziente deve pagare di tasca propria la stessa pillola somministrata durante la degenza. E purtroppo raramente i medici ospedalieri informano adeguatamente il

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L’isolamento fisico e relazionale del medico del territorio sembra avviato a soluzione. Ma c’è un’altra faccia della solitudine del medico del territorio non meno problematica, quella “epistemica”

paziente di queste differenze, nonostante siano tenuti a farlo da una norma di legge ad hoc. La mancata accondiscendenza verso i desiderata dei pazienti provoca spesso logoranti tensioni e conflitti, accentuate dalla pandemia e dalla crisi economica, fino alla revoca del medico non “compliante”, vera spada di Damocle e arma di “ricatto” subita dal medico, specie in contesti sociali difficili, e sconosciuta nell’ambiente ospedaliero.

La competenza e il sapere pratico del medico di medicina generale sono situati, ovvero contestualizzati, a diversi livelli:

{ nelle relazioni con la rete di attori profani e professionali che ruotano attorno allo studio medico,

{ nei vincoli, nelle regole e nelle norme, nelle routine formali e informali dell’organizzazione sanitaria,

{ nella cultura, nelle tradizioni e nelle caratteristiche socioeconomiche locali,

{ nelle risorse, negli strumenti e nelle tecnologie che mediano le decisioni, la gestione dei problemi e le relazioni con gli attori del network.

Va da sé che le caratteristiche socioculturali e tecno-organizzative hanno un impatto rilevante sulle decisioni cliniche e rendono problematica la meccanica trasfe-

ribilità delle indicazioni generali alla pratica, in base al presunto carattere “generico” e aspecifico del lavoro sul campo. L’approccio centrato sulla situazione, nel senso delle pratiche attuate in questo particolare ambiente, si focalizza non sulle strutture generali di una conoscenza astratta e decontestualizzata bensì sulle abilità di “una mente all’opera su problemi quotidiani, portando in primo piano l’analisi del legame imprescindibile tra cognizione e azione dentro specifici contesti organizzati culturalmente e in cui sono coinvolti più attori sociali”.3 Lo strumento elettivo per la formazione professionale è l’esperienza di full immersion nella dimensione sociale della comunità di pratica.

Un esempio dell’importanza della contestualizzazione è la differente incidenza delle malattie tra l’ambiente generalista e quello selettivo specialistico. In un pronto soccorso con un bacino di decine o centinaia di migliaia di utenti afferiscono con maggiore frequenza patologie gravi o complesse come embolie polmonari, meningiti, crisi tireotossiche, ischemie coronariche e cerebrali atipiche, eccetera: il medico dell’urgenza/emergenza è avvantaggiato nel riconoscimento diagnostico dal repertorio di casi collezionati con l’esperienza, specie quelli con sintomi iniziali, sfumati o aspecifici, rispetto al generalista che incappa in queste patologie nell’arco di anni se non decenni. Le caratteristiche clinicoepidemiologiche del contesto sono dunque rilevanti per acquisire “la capacità di formulare un giudizio situato in base alle circostanze”, come ad esempio la definizione di un problema o la formulazione di una diagnosi, che dipendono dalla trasmissione di abilità e capacità di giudizio di una formazione centrata sull’esperienza pratica in laboratorio o in corsia.4

Un’indiretta dimostrazione dell’influenza che il contesto locale “macro” ha sui comportamenti professionali si ricava dalle scelte prescrittive. Lo testimoniano, ad esempio, le medie di spesa e di consumi registrati nel Rapporto Osmed dell’Aifa, che dimostrano una rilevante variabilità

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Credits Maxelio / CC BY

interregionale nelle prescrizioni di alcuni farmaci, quali antidepressivi, ansiolitici e antibiotici, per certi versi sorprendente e difficilmente correlabile con l’epidemiologia.5 Ricondurre tale variabilità entro rigidi standard prescrittivi medi appare impresa improba, vista la pervasiva influenza della componente culturale e socioeconomica, che evidentemente prevale su canoni di scientificità e appropriatezza clinico-prescrittiva astrattamente definiti a priori.

umani poggia “in larga parte su saperi localizzati a un livello epistemico inarticolato, non specificabile, appreso operando nel mondo piuttosto che acquisendo regole per farlo o strutturando quadri semantici per rappresentarlo”.6

La dimensione tacita

L’altra faccia della medaglia della solitudine epistemica del generalista è legata al carattere tacito che accomuna conoscenza, formazione e abilità. Al contrario, un radicato pregiudizio gioca a favore del carattere prevalentemente mentale, ad esempio della formazione, descrivibile in termini logico-linguistici, tali da consentire una fedele rappresentazione della realtà clinica e la trasmissione della relativa competenza; secondo questa posizione le abilità professionali sarebbero trasferibili in forma esplicita e codificata da un esperto a un novizio in modo “istruttivo” e decontestualizzato, ad esempio con la lezione frontale. In realtà, come scrive l’antropologo Francesco Ronzon, esiste una vasta area di compiti “frutto di una patrimonio di conoscenze che la mente possiede e usa per guidare azioni e comportamenti, ma che non è in grado di esplicitare, oppure può esplicitare con grande sforzo in occasioni molto particolari, e comunque in modo nebuloso e parziale”.6 Secondo questo filone di pensiero la vita mentale degli esseri

Alcuni esempi rendono l’idea della dimensione tacita della conoscenza e delle abilità: i bambini imparano la loro lingua madre ascoltando i discorsi dei genitori e assorbendo inconsapevolmente le regole linguistiche e non imparando una grammatica e le regole formali come fanno gli adulti quando studiano una nuova lingua; non riusciamo a esplicitare i comandi con i quali la nostra mente mette in atto e coordina comportamenti complessi come andare in bicicletta, riparare un orologio, eseguire un gesto atletico o un pezzo musicale; infine, sono inconsapevoli le abilità “che permettono ad un individuo di adattarsi ad una vasta gamma di situazioni specifiche, adottando i comportamenti, verbali e non, più consoni alle convenzioni, alle aspettative di ruolo e più confacenti ai suoi obiettivi ed interessi”.7

Quest’ultima annotazione ci porta alle abilità relazionali necessarie per svolgere in modo efficace una professione in un contesto sociosanitario, come quello territoriale, che si differenzia in misura variabile dagli ambienti sociotecnici. Il carattere tacito di tale competenza prevede sia la conoscenza esplicita delle regole formali vigenti sul territorio sia la possibilità di acquisire con l’esperienza sul campo le componenti non descrivibili e non verbalizzabili della professione, grazie all’apprendistato esperienziale full immersion del tirocinio. Come sottolinea il sociologo delle professioni Freidson la “conoscenza

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Come scrive l’antropologo Francesco
Ronzon, esiste una vasta area di compiti “frutto di una patrimonio di conoscenze che la mente possiede e usa per guidare azioni e comportamenti, ma che non è in grado di esplicitare”

tacita delle circostanze concrete in cui si dovrebbe poter svolgere qualsiasi tipo di lavoro risulta essenziale alla realizzazione dello stesso al pari delle competenze tacite impiegate per farne uso”.1

Le differenze rispetto alle altre discipline mediche riguardano la correlazione tra la dimensione tacita con il carattere situato della professionalità e delle pratiche, condizionate da vincoli normativi, carenze organizzative e di risorse tecnologiche che distinguono la sanità territoriale da quella ospedaliera; la logica della situazione spiega come lo stesso problema venga gestito in modo diverso in funzione delle opportunità offerte dal contesto. Per esempio, lo stesso sintomo deve essere affrontato “a mani nude” nello studio del medico di medicina generale – con i relativi rischi di sottovalutazione e sottodiagnosi – mentre in pronto soccorso il collega dispone di risorse tecnologiche e consulenze specialistiche che riducono in modo significativo l’incertezza e il rischio di errore, pur con l’effetto collaterale di favorire tendenze difensive. Emblematica

è la critica verso i medici di medicina generale che invierebbero in modo inappropriato i pazienti con codice bianco in pronto soccorso: questa posizione non tiene conto del fatto che il collega del pronto soccorso applica l’etichetta cromatica a

posteriori, cioè dopo aver escluso patologie a rischio grazie alla tecnologia prontamente disponibile, ovvero giudicando le scelte altrui in forza di un bias cognitivo, quello del proverbiale “senno di poi”. Ma, citando Michel Crozier, “l’ascolto è insostituibile, perché soltanto attraverso di esso si può conoscere il reale funzionamento di un sistema di interrelazioni umane” in quanto “ciò che conta di più sono i comportamenti concreti di persone prese nelle strette di un meccanismo complesso, nel quale hanno responsabilità, ma non controllano (...). Non si può comprendere una situazione se non analizzando ciò che dicono le persone che la vivono realmente. Mettendosi al loro posto, si coglie la razionalità del loro comportamento (...) e cosi (il dirigente) sarà finalmente in grado di elaborare una strategia ragionevole”.8

Quel surplus dell’incertezza

La solitudine epistemica del medico di medicina generale single è fonte di grande incertezza, difficile da rendere a chi non ha esperienza diretta dell’ambiente territoriale.9 L’incertezza è legata ai limiti cognitivi individuali e di risorse con cui fanno quotidianamente i conti i singoli nella presa delle decisioni, per il concorso di diversi fattori: conoscenze non specialistiche del generalista e difficoltà di aggiornamento, deficit di informazioni per mancanza di tecnologie diagnostiche, difficoltà di interpretare e valutare le informazioni e gli esiti degli accertamenti, necessità di applicare in modo personalizzato le indicazioni generali di linee guida, protocolli, criteri, standardizzazioni, discrepanza tra la dimensione collettiva e quella individuale, aleatorietà intrinseca della prognosi e della risposta terapeutica nel singolo caso, difficoltà di monitoraggio del paziente ambulatoriale, rischi medico-legali per sottovalutazioni e ritardi diagnostici che alimentano atteggiamenti difensivi, aspettative di ruolo ed efficacia, spesso irrealistiche, coltivate dagli assistiti ecc.

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La solitudine epistemica del medico di medicina generale single è fonte di grande incertezza, difficile da rendere a chi non ha esperienza diretta dell’ambiente territoriale

PER APPROFONDIRE

Cosa sono i sintomi medicalmente inspiegabili

I sintomi vaghi e aspecifici riguardano praticamente tutta la gamma dei sintomi lamentati dai pazienti, in particolare quelli soggettivi, che sono difficili da verificare con l’esame obiettivo e quantificare in modo oggettivo con accertamenti diagnostici strumentali. Per esempio: il dolore in generale, articolare, addominale e lombare, la febbre, l’astenia e il malessere generale, il prurito e le alterazioni della sensibilità come le parestesie, le sindromi vertiginose, l’ansia e l’insonnia e tutti i disturbi cosiddetti funzionali, dalla dispepsia alla stipsi/diarrea, dal cardiopalmo alla cefalea, dai disturbi minzionali alla dispnea, eccetera. Purtroppo in Italia i medically unexplaned symptoms non sono molto noti, in quanto oggetto di rimozione per la loro natura frustrante per medici e pazienti, ma all’estero sono molto studiati da un decennio a questa parte e occasione di formazione e produzione di svariate linee guida sulla loro gestione.

Un esempio paradigmatico di incertezza irriducibile viene dai cosiddetti medically unexplaned symptoms, sintomi vaghi e aspecifici, ovvero quel 20 per cento circa di consultazioni ambulatoriali per un’ampia gamma di sintomi che non riescono a superare la soglia diagnostica, restando “idiopatici” come venivano descritti un tempo a dispetto di svariati accertamenti diagnostici e consulenze specialistiche. In mancanza di una diagnosi certa anche la terapia resta indefinita e sospesa con frustrazione per entrambi gli attori della scena clinica.

Per ovviare all’incertezza cognitiva correlata a disturbi orfani di una codifica nosografica, confinati in una sorta di limbo clinico, il medico ricorre alle risorse meta-cognitive descritte dal cognitivista Donald Schön, nella cornice del procedimento per tentativi ed errori: la riflessione durante e dopo l’azione, la conversazione riflessiva con la situazione problematica e una certa abilità artistica nel trovare soluzioni improvvisate a situazioni indeterminate ed enigmatiche, come sintomi aspecifici e atipici che mettono in crisi schemi, routine e protocolli ispirati ad un approccio prescrittivo lineare. Il gap tra razionalità tecnica decontestualizzata e attività tacita e situata viene descritto in modo metaforico da Schön:10

“Nella variegata topografia della pratica professionale vi è un terreno stabile, a livello elevato, ove i professionisti possono fare un uso efficace di teorie e tecniche fondate sulla ricerca, e vi è una pianura paludosa ove le situazioni sono ‘grovigli’ fuorvianti che non si prestano a soluzioni tecniche. La difficoltà sta nella circostanza che i problemi di livello elevato, per quanto grande sia il loro interesse tecnico, sono spesso relativamente poco importanti per i clienti o per la più vasta società, mentre nella palude vi sono i problemi di maggiore interesse umano.”

Dall’interazione tra fattori di contesto nasce la solitudine epistemica del medico pratico, per la difficoltà di rappresentare verso l’esterno la dimensione tacita e situata della competenza e per il surplus di incertezza non riducibile connaturata alla cosiddetta ‘ecologia’ della medicina generale, vale a dire le risorse tecno-organizzative e l’ambiente socioculturale in cui la professione si esplica. y

Bibliografia

1 Vino A. Sapere Pratico. Milano: Guerini, 2000.

2 Freidson E. Professionalismo. La terza logica. Bari: Dedalo, 2002.

3 Zucchermaglio C, Alby F, Fatigante M, Saglietti M. Fare ricerca situata in psicologia sociale. Bologna: Il Mulino, 2013.

4 Belleri G. Servizi sociosanitari e presa in carico della cronicità in Lombardia tra lealtà, fiducia e defezione. Politiche Sociali, Il Mulino, numero 1/ anno 2022.

5 Le differenze riguardano sia la spesa lorda pro capite (+76 per cento in Campania rispetto alla provincia di Bolzano) sia alcune categorie come gli antidepressivi in Toscana (66 prescrizioni su mille abitanti contro una media nazionale di 44) gli ansiolitici in Liguria (83 consumatori su mille contro la media di 54) e gli antibiotici in Campania, con 19 dosi ogni mille abitanti contro una media nazionale di 13. Il divario rispetto alla media nazionale si accentua se si considera il confronto tra Regioni: ad esempio la spesa per antibiotici nel Trentino Alto Adige è la metà di quella registrata in Campania.

6 Ronzon F. Conoscenza tacita – Alcune riflessioni tra estetica, filosofia della scienza e antropologia cognitiva. DiPAV quaderni, numero 12/13, anno 2005.

7 Marradi A. La conoscenza: i problemi. Milano: Franco Angeli, 2022.

8 Crozier M. La crisi dell’intelligenza: saggio sull’incapacità delle élites a riformarsi. Roma: Edizioni Lavoro, 1996.

9 Rossi LR. Zona d’ombra. Roma: Il Pensiero Scientifico, 2022.

10 Schön D. Il professionista riflessivo. Bari: Dedalo, 1993.

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Il medico della mutua e il suo sapere sanitario

Dopo aver pubblicato nel 2019 Medici e Medicina durante il Fascismo, Giorgio Cosmacini ha dato ora alle stampe la storia della medicina mutualistica, quella della riforma durata dal 1943 (creazione della mutua) al 1978 (istituzione del Ssn), trentacinque anni di una nuova forma di medicina sul territorio. E già nel titolo Il medico della mutua. Storia di una istituzione e di un mestiere definisce il contesto in cui si è svolta questa riforma: in quanto istituzione la sua attività è stata condizionata dal susseguirsi di interventi legislativi e normativi; in quanto mestiere del medico si è realizzata non solo coi progressi scientifici e tecnologici, ma anche per il mutamento epidemiologico e demografico, dello sviluppo economico e dei consumi, delle modificazioni dei comportamenti e delle condizioni di vita della popolazione. La storia di una professione diventa storia economica, politica, culturale e sociale. Cosmacini ne è consapevole e già nella Premessa dichiara di seguire una metodologia storiografica precisa, al di fuori della medicina. Si comporta come uno storico, nella ricerca dei fatti e dei documenti, e quindi i suoi giudizi, le sue valutazioni non sono dovuti alla passione del medico, ma come conseguenza dei dati enunciati.

Cosmacini inizia con uno sguardo retrospettivo, ricordando che dalle lotte operaie di fine Ottocento era partita la richiesta di protezione della salute: già nel 1919, in un momento di rivolta dei lavoratori,

alcuni medici avevano redatto una “Richiesta di assicurazione contro le Malattie” affermando: “Perché questa opera gigantesca e mirabile possa essere compiuta, occorre che le classi lavoratrici vedano in essa una conquista che è nata dalla loro forza politica. Occorre che la difendano da ogni inquinamento burocratico. Devono vedervi soprattutto uno strumento di difesa della loro salute, uno strumento di rivendicazione del più solenne dei diritti, il diritto alla vita, una leva formidabile per cancellare dal mondo la più odiosa delle ingiustizie, la inferiorità del lavoratore dinanzi alla malattia e alla morte.”

Cosmacini ricorda che all’indomani della rivoluzione d’ottobre in Russia del 1917, il Governo dei Soviet varò il primo modello al mondo di copertura sanitaria universale, che venne poi ripreso in Gran Bretagna nel 1942 col modello universalistico di Beveridge: un sistema sanitario che copra l’intera popolazione, finanziato dalla fiscalità generale, ugualitario nella erogazione gratuita delle prestazioni sanitarie. Che sono poi i principi del nostro Servizio sanitario nazionale, varato nel 1978.

Durante il fascismo, la sanità era “nelle pieghe di una organizzazione inefficiente, farraginosa, condizionata da interessi di autoconservazione e contaminata da affari talora non leciti” (tutto documentato nel primo libro). Condizione che aveva prodotto un diffuso malessere nella popolazione, ma anche nella categoria dei medici. Ed è così che nel gennaio del 1943, con un

governo ormai agonizzante, viene istituita la riforma “Ente mutualità fascista”, continuata dopo la fine della guerra nell’Inam, l’Istituto nazionale per l’assicurazione contro le malattie.

Il medico della mutua doveva essere un cardine del nuovo sistema, perché la medicina territoriale costituisce la prima porta di accesso della cura del malato: nel territorio si curano le persone, negli ospedali solo alcune malattie. La riforma trovò l’opposizione della medicina accademica, di quella medicina di vertice gelosa dei propri privilegi. Gli investimenti maggiori seguirono una visione ospedalocentrica, che collocava l’ospedale al centro di aggiornamenti scientifici e tecnici. Il medico del territorio venne ridotto a una sottospecie dello specialista, detentore della vera scienza medica. La medicina generale fu degradata a generica, il medico della mutua a un medico di seria B. Così anche nella percezione popolare il mutualista veniva visto come un compilatore di ricette, dispensatore di prescrizioni ipertrofiche e a caccia di assistiti.

Il medico della mutua doveva essere un cardine del nuovo sistema, perché la medicina territoriale costituisce la prima porta di accesso della cura del malato: nel territorio si curano le persone, negli ospedali solo alcune malattie.

Nell’ultimo capitolo “A proposito della riforma sanitaria” (istituzione nel 1978-1980 del Ssn ): “la riforma fu un fatto positivo, ma il suo spirito informatore, che rispondeva a criteri di razionalità economica e di equità sociale venne spesso tradito negli anni seguenti in seguito al cattivo funzionamento di molte Usl e agli episodi di lottizzazione verificatisi all’interno di questi organismi, divenuti spesso centri di potere clientelare”.

il punto | 4 | 2022 43 z LETTURE

In questo libro Cosmacini indaga una funzione e un processo, carichi di aspettative deluse, compie una critica, da medico e da storico, e lascia intravvedere una prognosi orientata al futuro:

“Il medico del Servizio sanitario nazionale, operoso in ambulatorio e nel territorio, ha ereditato, suo malgrado, la disattenzione e la disaffezione per il proprio sapere sanitario pressoché costantemente dimostrate da parte delle istituzioni detentrici del potere politico. Oggi sono numerose le perorazioni da parte dei detentori di quello stesso potere (o di loro emuli portavoce e portaborse) che propongono riforme della sanità pubblica ambulatoriale e territoriale da essi stessi disattese in passato. Nell’ascoltarli, senza udire mai un cenno di autocritica e tanto meno di mea culpa, l’autore di questo libro, in cui si ripensa il passato, mette in guardia pensando al futuro.”

LESSICO DI BIOETICA

Competenza

Termine proprio della letteratura sul consenso informato, esso indica uno dei requisiti richiesti per rendere il consenso una pratica di valore legale in un dato contesto culturale, quello occidentale, e corrisponde al bisogno di scriminare chi può essere coinvolto in questa pratica e chi no, da chi il consenso va ricercato e per chi, invece, serve individuare un vicario. L’attestazione del possesso di “competenza” conferisce il diritto di autodeterminarsi compiendo scelte volontarie e rende il consenso “efficace”.

Termine polisemico a cui è attribuita una moltitudine di significati, e dunque rispetto al quale regna una certa confusione semantica, anche dovuta all’uso interdisciplinare che del termine si fa. Nella lingua italiana la sua comprensione è resa più difficoltosa dalla doppia traduzione che di norma riceve il termine inglese “competence”: in alcuni casi esso e tradotto con “capacità”, in altri con “competenza”, a volte significando la stessa cosa, a volte significando cose diverse. Nei contesti sanitari il termine “competence” significa “capacità”, il suo significato coincide con quello di “competenza”, ma la capacità a cui si fa riferimento non è la generale capacità giuridica contemplata nel Codice civile italiano, ossia l’attitudine di ogni persona fisica a essere titolare di diritti e doveri che ne fa un soggetto giuridico (art. 1). Né è la capacità indicata dal Codice penale italiano quale prima condizione per la valutazione di imputabilità di un soggetto e di colpevolezza di un’azione (o di un’omissione), ossia la capacità di intendere e volere (art. 85). Non è nemmeno la più generale capacità di azione umana, alla quale si riferiscono le

attribuzioni morale e giuridica di responsabilità, ma un’altra, più specifica e task-oriented, richiesta nei vari setting sanitari. Se in tutti i contesti in cui il termine “capacità” è usato adeguatamente significa “abilità a eseguire un compito”, la capacità a cui qui si fa riferimento, quale requisito del consenso informato come pratica, è specificamente quella “decisionale” (decision-making capacity), definita come la capacità dei pazienti di prendere le proprie decisioni sanitarie, in particolare le decisioni di autorizzare o rifiutare trattamenti sanitari.

La competenza è quindi l’attributo individuale usato come parametro per discriminare chi è titolare del diritto di dare il consenso e chi non lo è, e che si ritiene debba quindi essere tutelato dalle possibili conseguenze nocive delle sue scelte, attribuendo a un decisore sostitutivo la facoltà di autorizzare trattamenti sanitari sul suo corpo. Si è giudicati capaci di fornire tale autorizzazione rispetto a un metro di misura di natura legale/ psichiatrica, il quale determina quali siano le caratteristiche o le abilità individuali che concorrono a definire la competenza umana, caratteristiche o abilità che l’individuo sottoposto a valutazione deve dare prova di possedere. La determinazione di competenza può essere fattuale o presuntiva. La prima comprende una sorta di esame, esplicito o implicito, del paziente rispetto ad alcuni standard prestabiliti. In questo caso, affinché si possa decidere per sé, bisogna dimostrare di possedere determinate abilità individuali (alcune capacità cognitive e logiche). La seconda, invece, è una convenzione che assume le vesti di postulato morale. Essa stabilisce una norma che consente ad alcuni individui, gli adulti – e non ad altri, i minori d’età – di essere ritenuti competenti per legge, a meno che non diano prova del contrario.

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La competenza è l’attributo individuale usato come parametro per discriminare chi è titolare del diritto di dare il consenso e chi non lo è, e che si ritiene debba quindi essere tutelato dalle possibili conseguenze nocive delle sue scelte.

Nella pratica clinica attuale l’applicazione del criterio presuntivo della maggiore età fa sì che ogni adulto, ove non diversamente certificato da professionisti della psichiatria, sia considerato capace di dare o negare il consenso informato fino a quando non si ravvedano ragioni per mettere in discussione la capacità che, a priori, si assume egli possieda. L’onere della prova grava, allora, su coloro che ritengono che il paziente non possieda la capacità di decidere per sé. Va menzionato il fatto che gli accertamenti in merito alla competenza del paziente avvengono quasi esclusivamente quando egli rifiuti la proposta terapeutica suggerita dal medico. In pratica la questione della competenza viene spesso sollevata quando la scelta del paziente differisce da quanto indicato dal team clinico. La capacità di coloro che accettano il consiglio medico viene raramente considerata. Ciò confligge con l’indicazione contenuta in alcuni standard per la valutazione della competenza, ossia che essa non debba dipendere dal risultato, dall’esito della decisione, e che sia mantenuto un alto livello di imparzialità.

Elena Nave

Comitato etico interaziendale, Aou Città della salute e della scienza di Torino

Ao Ordine Mauriziano –Asl Città di Torino Consulta di bioetica onlus

Disabilità

In ambito medico la parola “disabilità” indica la limitazione, rispetto a parametri considerati normali, che una persona ha nello svolgimento di un’attività a causa della menomazione di cui è portatrice. Si differenzia dalla menomazione (fisica, psichica o sensoriale) che di quella condizione di disabilità costituisce il presupposto o la causa efficiente, e dall’handicap, che per definizione di legge (L. 104/92) è la condizione di “colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale e di emarginazione”.

La disabilità, secondo la classificazione dell’International classification of impairments, disabilities and handicaps (Icidh) del 1980, va interpretata come perdita di capacità operative subentrate nella persona a causa di menomazioni intese come danno organico o funzionale. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) dichiara l’importanza di utilizzare l’International classification of diseases (Icd), la prima classificazione internazionale delle malattie (in Italia si fa riferimento alla versione 10 del 1992), e, in modo complementare, di fare riferimento all’Icidh, favorendo l’analisi e la comprensione delle condizioni di salute dell’individuo in una prospettiva più ampia, in quanto i dati eziologici vengono integrati dall’analisi dell’impatto che quella patologia può avere sull’individuo e sul contesto ambientale in cui è inserito. Il cambio di prospettiva dell’Icidh è grande perché sposta il focus dall’aspetto esclusivamente medico (biologico) della disabilità, volto a

individuare la causa della patologia, all’importanza e all’influenza che il contesto ambientale esercita sullo stato di salute delle popolazioni. Con l’Icidh non si parte più dal concetto di malattia inteso come mera menomazione, ma da quello di salute, inteso come benessere fisico, mentale, relazionale e sociale che riguarda l’individuo, la sua globalità e l’interazione con l’ambiente. Questo concetto viene ulteriormente allargato dalla Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilita e della salute (Icf), approvata dalla 54esima World health assembly il 22 maggio 2001, per la quale la “disabilità non è più appannaggio di alcune specifiche categorie di individui, ma diventa esperienza umana che può interessare ognuno di noi nell’arco della vita”. Per l’Icf la disabilita è la somma di più fattori e può modificarsi nel tempo, a seconda di come questi variano; non riguarda la persona nel suo insieme, bensì alcuni aspetti ed è strettamente correlata alla partecipazione sociale e al benessere biologico e psicologico.

Il disabile, non raramente, invece di ricevere una maggiore tutela dei suoi diritti per sopperire alla sua condizione di svantaggio e di debolezza, ne riceve una minore.

L’evoluzione e l’allargamento di prospettiva sulla disabilità sono avvenuti a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, quando il dibattito bioetico ha cominciato a essere più pervasivo e a portare alla ribalta la centralità della tutela dei diritti fondamentali dell’uomo. Sono gli anni in cui il concetto di salute, formulato dall’Oms nel 1948 come “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”, riceve nuovo impulso anche grazie alla bioetica che, ponendo al centro il diritto all’autodeterminazione del paziente, evidenzia la contraddizione con lo specialismo esasperato della medicina del

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Ventesimo secolo, che identifica l’assistito con la sua malattia o, addirittura, con una sola parte del suo corpo, con un organo, con una fisiopatologia, negando così l’individuo come persona e come soggetto morale.

pandemia è sempre seguita da un rapido afflusso di ricerche e da una libera condivisione di informazioni, allo scopo di accelerare le scoperte e le nozioni sul virus. La pratica di pubblicare relazioni che non sono state sottoposte a revisione scientifica può avere i suoi vantaggi per la rapidità dell’informazione.

DInfodemia

Dall’inglese infodemic, info[rmation] (informazione) e [epi]demic (epidemia).

L’infodemia è la circolazione eccessiva di informazioni contraddittorie, spesso non vagliate con precisione, non verificate, che rendono complicato al fruitore orientarsi su un determinato tema per la difficoltà di individuare le fonti non soltanto affidabili, ma anche certe. Questa rapida diffusione di notizie non accurate o incomplete o false è in grado di amplificare gli effetti di un problema.

Questo si manifesta soprattutto quando si verificano eventi particolari che interessano molte persone, proprio quando la comunicazione raggiunge un ruolo cruciale nel dibattito pubblico. La complessità degli argomenti e i tempi della ricerca sono spesso incompatibili con l’informazione frenetica dei nostri giorni. Uno degli esempi più significativi può essere quello di una pandemia: un’epidemia causata da un virus che si diffonde in tutto il mondo. Una

C’è anche il rovescio della medaglia: la disinformazione è un altro aspetto caratteristico della pandemia, e gli studi pubblicati online prima del confronto con altri esperti hanno il loro ruolo nell’alimentare la diffusione mediatica di dichiarazioni non comprovate, incluse quelle sulla mutazione del virus in forme più letali, sulla sua origine o sul fatto che sia meno mortale di quello che effettivamente è. Può diventare molto difficile districarsi tra le notizie vere e quelle che non lo sono, inoltre alcuni articoli revisionati e confermati possono riportare errori, nella fretta della pubblicazione. Questo mix di errori, magari fatti anche in buona fede, e di disinformazione è indicativo di una diffusa tendenza che caratterizza le pubblicazioni durante una crisi in rapida evoluzione.

Nonostante le obiezioni degli esperti, i casi di disinformazione prendono piede sui social media perché fanno leva sull’emotività umana. E le emozioni alimentano la diffusione virale delle notizie infondate. Ricerche molto accreditate rilevano che le cattive notizie si diffondono di più e più rapidamente, con maggiore profondità e in modo più ampio

rispetto alla verità, in ogni categoria di informazione, a volte in misura esponenziale. C’è molto di più in discussione della semplice novità: il modo in cui le persone reagiscono alle storie di carattere emotivo sui social media è intenso e prevedibile; le risposte sono piene di sarcasmo e le false notizie hanno il 70 per cento di probabilità in più di essere ritwittate rispetto alla verità. Entra dunque in gioco una complessa combinazione di fattori psicologici quando un lettore decide di condividere una notizia, e anche persone intelligenti possono finire per contribuire al ciclo della disinformazione.

La mente umana è incline al cosiddetto “bias di conferma”, ovvero un modo di interpretare le nuove informazioni in modo da confermare le proprie convinzioni. Si attiva anche il ragionamento motivato: il cervello cerca di mettere insieme il puzzle delle nuove informazioni, facendo collegamenti anche forzati. Ma il fattore più potente che distorce il pensiero critico è quello chiamato “effetto della verità illusoria”, che si può spiegare in questo modo: quando si sente qualcosa due volte, è più probabile pensare che sia vero, rispetto al sentirlo una volta sola. Quindi la ripetizione evidenzia e favorisce le false notizie e le camere di risonanza le trasformano poi in turbini di fraudolente credenze che si autoalimentano.

Gruppo di ricerca bioetica, Università degli studi di Torino

Scuola superiore di bioetica della Consulta di bioetica onlus

II lemmi sono tratti dal libro Le parole della bioetica , a cura di Maria Teresa Busca e Elena Nave (Roma: Il Pensiero Scientifico Editore). Per gentile concessione dell’editore.

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Gli studi di equivalenza e di non inferiorità

Curve di Kaplan-Meier e hazard ratio

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Vengono analizzati sotto l’etichetta “screening” interventi che presentano caratteristiche molto diverse.

Al momento quello che manca è un’organizzazione unitaria sovranazionale con una chiara missione pubblica sulla salute e con risorse adeguate.

La comunicazione della ricerca deve rispondere a criteri di onestà e indipendenza, per rispettare sia il destinatario dell’informazione sia i ricercatori stessi e la loro integrità.

Lavorando insieme, in modo continuativo, si può trovare una rinascita della nostra ars medica che richiede oggi la somministrazione corretta non solo di farmaci ma anche di parole.

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