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Notte fonda

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Crepuscolo

Crepuscolo

Il mese di aprile è stato quello più difficile. Dopo la frenesia iniziale da parte di chi, in qualche modo, si era attivato, la chiusura forzata in casa ha iniziato a farsi sentire. Anche i più propositivi tra noi erano scarichi. Un po’ per la situazione generale, in bilico tra emergenza sanitaria e crisi economica. Ma, soprattutto, pesava la fatica a rimanere connessi, a trovare modi per raggiungere i ragazzi, che erano a loro volta stanchi e forse anche un po’ impauriti.

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In quel frangente ci siamo resi conto che la forza della proposta educativa dell’oratorio era nel tipo di esperienza che metteva in atto: un’esperienza educativa di tipo relazionale e non prestazionale.

La logica prestazionale è quella che crede che i contenuti, gli insegnamenti, che noi consegniamo ai ragazzi siano validi in quanto tali. Quella relazionale che sono validi proprio perché noi consegniamo qualcosa e, nel farlo, ci giochiamo entrando in relazione, con la nostra umanità, con coloro a cui pensiamo. Secondo questa logica l’incontro di formazione non è mai simile a se stesso e l’insegnamento che si vuole consegnare a un ragazzo risentirà sempre del tipo di relazione che c’è tra noi e lui. In quelle settimane, alcuni di noi hanno provato a consegnare ai ragazzi video o lettere con indicazioni su come vivere quei mesi difficili. Per quanto costellati di ottime intenzioni, questi tentativi si sono rilevati completamente inefficaci, per non dire inopportuni: perché, se è vero che i ragazzi hanno bisogno di educatori per scoprire il mondo, per aprirsi a esso, è altrettanto vero che non è solo un insieme di indicazioni che cercano da questi educatori, ma qualcosa di più. Per quello internet funziona anche meglio. I ragazzi vogliono essere visti, riconosciuti, e aiutati a

scoprire cosa aiuta a crescere, cosa conta davvero, per cosa vale la pena far fatica. Facendola, questa fatica, insieme a loro.

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Il lockdown ha messo in crisi un certo modo di pensare e soprattutto praticare l’educazione in oratorio. Una modalità che già prima mostrava lacune, che erano però coperte dalla dinamica di gruppo che la presenza rendeva possibile. Venuta meno la dinamica di gruppo, le certezze di contenuto che pensavamo di avere si sono rivelate vuote. Ci siamo accorti davvero quanto sia difficile educare. E non solo perché in quei mesi fosse arduo inventare nuove strade per farsi prossimi ai ragazzi, ma perché il difficile era rimanere davvero prossimi. In una situazione di incertezza, senza sapere quando sarebbe finita e soprattutto come, di abisso.

Le settimane di lockdown ci hanno mostrato quanto sia difficile “stare”. Come educatori. Ma ancora prima come uomini e

donne. In una società caratterizzata dal movimento continuo, dal correre da un impegno all’altro, abituati a muoverci a nostro piacimento, il divieto di uscire dalle nostre case, a rimanere lì dove eravamo, ci ha fatto vedere quanto sia difficile stare. Non solo fisicamente, fermi. Ma stare nelle situazioni della vita. Soprattutto in quelle più difficili. Dove non sai come andrà a finire. Eppure: «quale altro modo potrà renderci altrimenti credibili, e meritevoli d’esser creduti, se stiamo, per scelta, accompagnando come educatori un altro uomo, un’altra donna, a stare al cospetto, di fronte e non al retro, dell’abisso suo stesso? Perché ogni

obiettivo educativo, che si declina in comportamenti buoni e azioni morali, ha prima di tutto un vaglio, un travaglio necessario, pena la perdita di umano: lo stare coraggiosi dentro l’in-

ferno che ci è spettato. Cosa è questo inferno se non il dolore profondo, profondissimo, che coincide col caos, il limite, lo strazio, la ferita profondissima fino al sangue, che ognuno, ognuno, ognuno di noi ha incontrato e incontra nella sua storia di umano, incarnato? […]» 2 Ci era chiesto di stare. Come uomini e donne, e ancora di più come educatori. Di essere a fianco dei ragazzi (e delle loro famiglie). Di trovare insieme un senso a quella situazione. Standoci dentro.

2 Scardicchio A.C., Dell’amore e del merito. Grovigli e sgrovigli dell’educatore pastorale, La Meridiana, Bari

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«E allora restare al fianco, anche muto, non per dare risposte ma contagiare la spinta più potente della vita: che è lo scatto di schiena che ti porta fuori dall’inferno. […] Dopo il fascino precario di una tecnica o di un carisma, cosa resta, osservando all’indietro, senza fragore, il tempo della nostra vita scandito tra bisogno di protezione e desiderio di esplorazione? Resta l’umano, l’autentico: l’adulto ricercatore. L’adulto che ha conosciuto il vuoto della notte, del bosco oscuro: e lì ha scelto di non abbassare lo sguardo ma di addrizzare la schiena e alzare gli occhi, per scorgere la Stella.»3 Ma è proprio nelle situazioni in cui perdiamo le nostre finite o finte certezze che ci disponiamo a riconoscere ciò che davvero importante. È nella notte più scura che possiamo vedere meglio le stelle. I desideri che portiamo nel cuore. È stata nell’incapacità di raggiungere e accompagnare i ragazzi che abbiamo riscoperto l’essenza stessa del nostro essere educatori in oratorio. Di essere educatori che desiderano incontrare i ragazzi lì dove sono. E, quindi, promotori di un certo modo di fare oratorio. Uscendo dai nostri schemi mentali e rimodulando le nostre pratiche educative. La pandemia ha mostrato quanto in ogni oratorio fosse presente il desiderio di educare le giovani generazioni. Nella notte fonda del lockdown, ci ha fatto chiedere cosa è essenziale per un oratorio: feste ben organizzate e partecipate? Centinaia di iscritti all’oratorio estivo? Grandi adunate per il Carnevale? Oppure stare vicino ai ragazzi per aiutarli a crescere? E aiutarli a scoprire i loro desideri più veri e autentici?

3 Scardicchio A.C., Dell’amore e del merito. Grovigli e sgrovigli dell’educatore pastorale, La Meridiana, Bari

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