Archeologia nella Provincia di Salerno

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ANNO VI • N. 17 • 2004 • Ê 5,00

ITINERARI ALLA SCOPERTA DELLA REGIONE

CAMPANIA FELIX


La rilevanza strategica del turismo nel contesto delle dinamiche di sviluppo in provincia di Salerno è da tempo un dato acquisito sul quale si concentrano le attenzioni dei diversi soggetti che concorrono alla promozione delle risorse del territorio. La valorizzazione attiva del patrimonio storico-artistico è una delle direttrici primarie che ben si coniuga con le straordinarie attrattive paesaggistiche ed ambientali. La Provincia di Salerno ha elaborato intorno a tali presupposti un articolato disegno teso a recepire le istanze provenienti dal basso, dal variegato tessuto della micro-imprenditoria di settore, puntando a rafforzare una visione di più ampio respiro dell’offerta. La politica di promozione turistica ha consentito di individuare un terreno nuovo di sperimentazione, in piena consonanza con le forti vocazioni del Salernitano ed anzi esaltandole, nell’ottica dell’apertura al dialogo ed al confronto anche con altre esperienze del bacino del Mediterraneo. Alla luce di tali motivazioni risulta fondamentale definire meglio il pacchetto di offerte in considerazione della varietà dell’habitat territoriale, stimolando ulteriormente una maggiore capacità di interazione tra l’economia della costa e quella delle zone interne, favorendo le sinergie tra risorse ambientali, agricole ed artigianali, vera essenza di un prodotto turistico innovativo. In tale cornice politico-programmatica diventa meno astratto il connubio tra cultura, turismo e ambiente: è su questo terreno che il locale si integra da protagonista con il globale, con buone chances di dare vita ad una dimensione realmente in grado di attivare percorsi di crescita collettiva non effimeri e transitori.

Angelo Villani Presidente della Provincia di Salerno


Numero speciale Siti archeologici della Provincia di Salerno

Editore, direttore editoriale e artistico Mariano Grieco Coordinamento scientifico Teobaldo Fortunato Direttore responsabile Dario Coviello Relazioni esterne Ersilia Ambrosino Testi: Teobaldo Fortunato Foto: Alfio Giannotti Altre foto: pag. 19, Leonardo Vitola; pag. 31, Antonio Giordano; pagg. 34/35, Stefano Stompanato; pagg. 36/41, Mariano Grieco Progetto grafico Altrastampa Copertina Capaccio, Paestum Tempio di Cerere Foto: Alfio Giannotti Si ringraziano, per la gentile collaborazione offerta in occasione della realizzazione: Giuliana Tocco Sciarelli, Soprintendente Archeologo per le province di Salerno Avellino e Benevento gli ispettori della Soprintendenza Antonella Fiammenghi, Angela Iacoe, Maria Antonietta Iannelli, Adele Lagi, Laura Rota, Giovanna Scarano ed inoltre Giovanna Sacco Matilde Romito Direttore dei Musei Provinciali Salernitarni Marina Cipriani Direttore del Museo Archeologico di Paestum CAMPANIA FELIX® Direzione, redazione, amministrazione e pubblicità: corso V. Emanuele 391 • 80135 Napoli telefax +39.081.5573808 www.campaniafelixonline.it Periodico registrato presso il Tribunale di Napoli n. 5281 del 18.2.2002 R.O.C. iscrizione n. 4394 anno VI, n. 17/2004

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SommariO Sulle orme di Goethe Lungo il Sarno e verso il mare Sulle tracce della via Popilia La città di Parmenide

I SITI Soprintendenza per i Beni Archeologici di Salerno, Avellino e Benevento tel. 089.5647203/1 ASCEA •Parco Archeologico di Velia contrada Piano di Velia Ascea Marina ingresso E 2 dalle ore 9 ad un’ora prima del tramonto parzialmente accessibile BUCCINO •Parco Archeologico Urbano dell’Antica Volcei e mostra permanente centro storico visitabile su prenotazione tel. 0828.951491 ingresso gratuito parzialmente accessibile CAPACCIO •Museo Narrante del Santuario di Hera Argiva Area archeologica località Foce Sele Masseria Procuriale via Barizzo 29 ingresso gratuito

La piana di Paestum

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L’agro Sarnese Nocerino e le ville costiere Fratte, Pontecagnano, Eboli, Buccino, San Giovanni in Fonte

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Velia

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dal martedì al sabato ore 9/16 parzialmente accessibile •Museo ed Area Archeologica di Paestum via Nazionale ingresso museo E 4 ingresso area archeologica E 4 cumulativo E 6,20 museo ore 9/19.30 area archeologica dalle ore 9 ad un’ora prima del tramonto museo accessibile area archeologica parzialmente accessibile giorno di chiusura 1° e 3° lunedì del mese EBOLI •Museo Archeologico Nazionale di Eboli e della Media Valle del Sele via San Francesco (Castello San Francesco) ingresso gratuito dal martedì al sabato ore 9/14 parzialmente accessibile MINORI •Antiquarium e villa monumentale romana

Capo Di Piazza, 28 ingresso gratuito dalle ore 9 ad un’ora prima del tramonto parzialmente accessibile NOCERA SUPERIORE •Area Archeologica necropoli monumentale romana località Pizzone visitabile su prenotazione tel. 081.932052 ingresso gratuito parzialmente accessibile •Area Archeologica e teatro romano località Pareti visitabile su prenotazione tel. 081.932052 ingresso gratuito parzialmente accessibile •Battistero paleocristiano (La Rotonda) località Santa Maria Maggiore visitabile su prenotazione tel. 081.5169269 feriali 9/13-16/18 ingresso gratuito PONTECAGNANO •Area Archeologica

via Cavalleggeri info: Direzione Musei Provinciali tel. 089.225578 ingresso gratuito SALERNO •Area Archeologica Etrusco-Sannitica località Fratte info: Direzione Musei Provinciali tel. 089.225578 SARNO •Teatro Romano località Foce via Beniamino Pastore visitabile su prenotazione tel 081.941451 ingresso gratuito parzialmente accessibile SCAFATI •Area Archeologica di Villa Prete visitabile su prenotazione tel 081.932052 ingresso gratuito parzialmente accessibile •Battistero di San Giovanni in Fonte info: Certosa di Padula tel. 0975.77745


Sulle orme di Goethe La piana di Paestum

Frottage da: Tischbein e Joli. Pagina successiva. Capaccio, Paestum, Area Archeologica, Tempio di Cerere.

Ancor oggi, giungendo in corriera, in treno o in auto (certo, la moda dei viaggi a piedi di tanti intellettuali non solo inglesi è superata!), nella distesa pestana, la visione dei tre colossi templari, la Basilica, l’Athenaion (c.d. tempio di Cerere), e l’esastilo, ascritto a Nettuno, non è dissimile dall’impressione avuta da Johann Wolfgang Goethe, il 23 marzo del 1767. Puntualmente, il celebre poeta teutonico annotò nel Tagesbuch “i nostri occhi e attraverso di essi, tutta la nostra sensibilità si sono così abituati a un genere più delicato di architettura che questa moltitudine di tozze colonne coniche sembra offensiva se non addirittura spaventosa… solo camminando fra e intorno… si può entrare in sintonia con esse e vivere le emozioni che l’architettura desiderava suscitare”. Eppure, al pari di Johann Joachim Winckelmann, in quelle lande nel 1758, aveva sfidato le paludi malariche, pullulanti di

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fastidiosi insetti. Dal Medioevo, acque ristagnanti, malsane infestavano l’area, tanto da far ritenere a lungo veritiera la leggenda, secondo cui l’antica città di Poseidonia - siamo all’epoca dell’entusiastico risorgere di Ercolano e Pompei - obliata dalla cultura europea, fosse stata riscoperta, nel secolo dei Lumi, grazie ai rilievi del conte Felice Gazola, ufficiale delle artiglierie napoletane, determinandone dunque fortuna ed epopea: un’ulteriore tappa, più a sud di Napoli, alla scoperta delle bellezze italiche. La ricerca sul campo nell’ultimo secolo, appena trascorso, ha notevolmente ampliato le conoscenze sulle vicende e le dinamiche della fondazione di Poseidonia, a sud del Sele, da parte dei Sibariti, intorno al 600 a.C. ed ha chiarito che la presenza antropica nella zona, risale al Paleolitico Superiore. Ne sono testimonianze i manufatti di selce, recuperati nei pressi della Basilica. Prima dell’ar-

rivo dei coloni greci, già preesisteva un nucleo abitativo, nel corso del VII secolo a.C. che si serviva di ceramiche identiche, per forma e funzione, a quelle usate nella vicina Picentia (attuale Pontecagnano) dove è stato istituito un parco archeologico sull’area dell’antico abitato. Dal racconto del geografo greco Strabone di Amasea, sappiamo che il nome della colonia deriva da un tempio eretto, in onore di Poseidon, dai coloni provenienti da Sibari (posizionato, secondo taluni archeologi, nei pressi dell’attuale comune di Agropoli), nei cui dintorni avevano costruito un primo avamposto militare. Successivamente, presero possesso dell’intera pianura del fiume Sele. Sulla sponda orientale, sorse il santuario dedicato alla dea della fecondità, Hera Argiva, edificato, secondo Gaio Plinio Cecilio Secondo detto il Vecchio, dal mitico Giasone, eroe indiscusso degli Argonauti, nella


Capaccio, Paestum, Area Archeologica, Tempio cosiddetto di Nettuno. Pagina successiva. In alto: Tempio di Cerere, interno. In basso: anfiteatro, balteo e cavea.

conquista del vello d’oro. Se allo stato attuale, non è possibile più identificare il tempio monumentale, è giunta sino a noi la cospicua decorazione architettonica, costituita da circa 70 metope in arenaria che facevano parte di uno o più edifici sacri. Databili tra il 570 ed il 550 a.C., sono esposte nel Museo Archeologico di Paestum. Per la loro valenza artistica ed il grande impatto emozionale rappresentano tuttora un fondamentale apporto per la piena conoscenza della cultura figurativa dei Greci d’Occidente. I temi iconografici affrontati spaziano dalle leggende evinte dall’Iliade e dall’Odissea, episodi legati alle gesta di Eracle, la Centauromachia, la Silenomachia. Anche se le varie ipotesi di ricostruzione dell’intero impianto figurativo sono lontane da una soluzione che possa considerarsi esaustiva, la recentissima apertura del Museo Narrante del Santuario di Hera Argiva alla Foce del Sele ha fornito le diverse chiavi di lettura del santuario, in un modo tutto nuovo, essenzialmente didattico. Dedicato a Paola Zancani Montuoro e Umberto Zanotti Bianco, i due tenaci scopritori del grande complesso, il museo funge da raccordo ideale per la piena e

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fruibile restituzione sensoriale di un sito archeologico di cui rimangono pochissimi elementi visivi. Al suo interno i racconti seguono un percorso attraverso ricostruzioni tridimensionali, filmati, effetti speciali che guidano i visitatori, facendogli rivivere le palpitanti esperienze della scoperta archeologica, gli eventi che l’hanno contrassegnata. Dal silenzio riemergono le voci accorate delle pie donne che invocano la presenza della dea, nello stesso tempo giovanevergine e donna matura-sposa di Zeus. È possibile udire il lamento di un centauro morente, le grida esaltanti degli eroi, effigiati per sempre nella pietra; assistere attoniti ed impotenti al drammatico suicidio di Aiace, al supplizio di Sisifo, senza scampo né tregua o all’uccisione di Alcioneo per mano di Eracle. Vediamo Hera-Giunone confluire e fondersi nella Madonna del Granato di Capaccio, in un parallelismo figurativo e sincretico che affascina per l’arcano e rinnovato mistero di una sacralità mai interrotta. Si intuisce pertanto che il grande santuario, quale importantissimo luogo di culto ebbe dal momento della sua fondazione, un notevole peso politico e religioso all’interno del centro antico di Poseidonia. Fu

però, il VI sec. a.C., il periodo determinante per la città, in quanto a tale epoca risale “…lo sviluppo urbanistico con il tracciato delle strade, la definizione della grande agorà, la costruzione delle case” (E. Greco), l’edificazione dei grandiosi edifici templari d’ordine dorico (di recente il tempio di Atena è stato sottoposto al restauro di protezione della pietra, grazie ai fondi F.I.O., e del gioco del Lotto, come ci informa la dottoressa Marina Cipriani, direttrice degli scavi e del Museo Archeologico di Paestum). Verso la fine del V secolo, i Poseidonati subirono l’occupazione da parte dei Lucani che diedero un’ulteriore svolta politica e sociale alla città. A questo periodo si data la serie di magnifiche tombe dipinte finora rinvenute, eccezion fatta per la stupefacente Tomba del Tuffatore, inquadrabile cronologicamente alcuni decenni prima, tra il 480/470 a.C. Quest’ultima, sin dal 1968, epoca della scoperta, ha acceso un vivace dibattito, non ancora del tutto esaurito, in merito al valore qualitativo della pittura ed alla lettura esegetica delle scene ivi rappresentate. Gli esperti d’arte classica la ritennero un eccezionale esempio, in cui individuare la bellezza sparita della pittura greca del V


Capaccio, Paestum. In alto: Museo Narrante di Hera Argiva, metopa raffigurante l’uccisione di Alcioneo per mano di Eracle. Al centro: ricostruzione di un antico telaio nella sala dell’edificio quadrato. In basso: resti del Tempio di Hera Argiva.

sec. Gli etruscologi, al contrario, hanno a lungo sostenuto la tesi di una derivazione da modelli pittorici etruschi precedenti, confrontandola con l’analoga scena, all’interno della Tomba della Caccia e della Pesca di Tarquinia. Bisogna convenire con l’archeologa Angela Pontrandolfo, quando afferma che “senza dubbio la Tomba del Tuffatore intriga lo spettatore con la forza suggestiva delle sue immagini, il cui significato, in apparenza evidente ma in sostanza ambiguamente sfuggente, continua a essere oggetto di interpretazioni diverse“. Sostanzialmente, per le sue pitture, si allontana dall’omogeneità dello schema iconografico di tutte le altre tombe lucane individuate fino ad oggi. Su tutte le quattro pareti che costituiscono la cassa funeraria, è raffigurata la scena di un banchetto, una sorta di simposio platonico, con ben dieci convitati, accoppiati o isolati sulle klinai, i letti su cui assaporano i piaceri del vino, dell’ars amandi, del canto, accompagnato dal suono delle lire e si trastullano, giocando a kottabos, ovvero lanciando vino, dalle coppe, verso un bersaglio fisso.

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Ancora problematica è l’esatta interpretazione del famosissimo “tuffo” raffigurato sulla copertura. Indubbiamente, la coincidenza della scoperta con i giochi olimpici proprio nel medesimo anno, contribuì ad alimentare, da parte dei mass media, la suggestiva ipotesi che il giovane nudo ed imberbe stesse per compiere, lanciandosi da un improbabile trampolino, un’ardita impresa sportiva. Forse, considerando il valore di tutto il contesto in cui il gesto si colloca, ha avuto ragione l’illustre storico dell’arte antica, Giovanni Becatti, quando ha ribadito che il pilone da cui il “tuffatore” si lancia, non è altro che la colonna d’Ercole, confine estremo del mondo noto, circondato dal fiume Oceano, oltre cui vi è il regno del silenzio, inaccessibile per gli umani, durante la vita. Pertanto, in quest’ottica, bisogna considerare tutto il ciclo figurativo della tomba: solo così si riuscirà a coglierne il fascino e la suggestione profonda, ogni qualvolta si rivedono le scene sulle sue lastre dipinte. All’interno del Museo Archeologico di Paestum, vi è un’intera sezione dedicata appunto a circa trecento lastre dipinte, afferenti ad un’ottantina di tombe, rinvenute, nel corso degli anni, sia nelle necropoli pestane che negli insediamenti vicini. Il museo, posizionato entro la città antica, è stato riallestito secondo il principio enunciato dalla dottoressa Giuliana Tocco Sciarelli, Soprintendente Archeologo di Salerno, per cui esso “…diventa così il luogo ideale della comunicazione, vale a dire la narrazione della storia dell’uomo così come è possibile ricostruirla attraverso i segni della cultura materiale”. Per lunghi decenni, dalle prime pioneristiche esplorazioni degli inizi del XIX sec., ha gravato sulle lastre dipinte - preziosi documenti iconografici antichi -, il peso e la vicinanza degli “affreschi pompeiani”. Per molti versi, le eleganti scene conservate nelle domus vesuviane meglio rispondevano al gusto di un’epoca non troppo remota. Soltanto all’indomani del secondo conflitto mondiale, si è cominciato ad esplorare sistematicamente e quindi a preservare tutte le testimonianze funerarie pestane che hanno riaperto il dibattito intorno al reale rapporto tra la pittura greca, e quella etrusca, che è ancora lungi dalla conclusione. È pur vero che la comune eredità visiva occidentale risulta troppo spesso genericamente ancorata ad un giudizio analitico, fondato su parametri stilistici che la critica d’arte ha da tempo superati.

Capaccio, Paestum. In alto: Museo Narrante di Hera Argiva, sala delle statuette votive. In basso: Area Archeologica, resti del Tempio Italico.

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Capaccio, Paestum, Museo Archeologico. In alto: tomba a camera, località Spinazzo, scena di incontro. In basso: tomba del Tuffatore, lastra di copertura.

Come si fa a rimanere insensibili di fronte alla freschezza compositiva - non ingenuità! - del racconto, palesemente esplicito, del rituale funerario e del conseguente viaggio verso l’oltretomba, enucleato tante volte ed in maniera mai identica, sulle lastre pestane? Emblematica è la tomba 47, databile verso la metà del IV sec. a.C., proveniente dalla necropoli di Andriuolo, ubicata a ridosso delle mura di Poseidonia. Nel piccolo timpano triangolare della lastra est, scrive ancora la Pontrandolfo, in un esemplare saggio dedicato alle tombe pestane, vediamo la minuta defunta, nel momento in cui si accinge “…a salire sulla barca infernale guidata da un genio alato. Questa figura ibrida, che mescola i tratti del Caronte greco e della Vanth etrusca appartiene al pantheon locale e assume la funzione di nocchiero degli Inferi. La composizione non ha confronti, pur essendo costruita attorno ad uno schema canonico, quello della nave resa di profilo nella sua metà di poppa e con la scala di accesso disegnata prospetticamente”. Verso la fine del IV sec., diminuisce in maniera considerevole il numero delle tombe dipinte, sotto la spinta di nuove

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istanze e tensioni politico-territoriali che investono in toto il mondo italiota, per cui, soprattutto nella necropoli di Spinazzo, le pitture testimoniano mutati riferimenti a modelli culturali ed iconografici diversificati. I personaggi sono raffigurati a grandezza naturale: esemplificativa è una tomba a camera, recuperata a Taranto dalla Guardia di Finanza, ma proveniente dall’area pestana. Sulla parete centrale vi è “…un personaggio anziano con barba e capelli bianchi, stante di tre quarti a sinistra mentre stringe con la destra la mano di un giovane uomo che gli è

di fronte. Quest’ultimo è seguito da un giovanetto che regge sulla spalla sinistra una lancia con trofeo e tiene con la destra le redini di un cavallo dipinto sulla parete laterale, dove è raffigurato un secondo destriero, carico di una soma su cui troneggia un piccolo cagnolino dal lungo pelo bianco e dal muso appuntito”. Un secondo corteo copre l’opposta lastra laterale: qui viene immortalato il ritorno di un cavaliere verso una matrona capite velato, seguita da una fanciulla hydrophora, ossia recante sulla testa un’hydria di bronzo, il vaso ricolmo di acqua. Il complesso rac-

conto figurato della tomba di Spinazzo, sottolinea il ruolo importante avuto dal personaggio, a noi ignoto, nella società poseidonate. Anche dopo il suo passaggio terreno, egli ha meritato, nell’aldilà, “onori e trionfi degni dei membri della sua stirpe e pertanto, da morto, con altrettanti onori può andare ad occupare il posto che gli compete tra gli avi rappresentati dal vecchio, il pater familias che lo accoglie tendendogli la mano nel tipico gesto di fides”. In questo universo, per molteplici aspetti tipicamente maschile - almeno dalla documentazione pittorica dopo la metà del IV sec., alle donne lucane sono riservati onori, rappresentati dai bona domestica, le attività tipiche della sfera femminile. La tomba 10, rinvenuta nella necropoli della località Laghetto, tra le altre, ci restituisce l’immagine di una matrona, seduta ed intenta nel lanificium, con accanto la devota ancella, stante, che le porge il canestro della lana. La vivacità cromatica e la semplice spontaneità del gesto, pur se rispondono a precise tipologie figurative, prestabilite e talora reiterate, hanno la capacità di conferire al quotidiano, quella serena dimensione del tempo che tra-

Capaccio, Paestum, Museo Archeologico. In alto: tomba di Andriuolo, lastra sud, Nike su biga e cavaliere. Al centro: tomba del Tuffatore, lastra ovest, flautista e corteo. In basso: tomba 10, località Laghetto, lastra ovest, particolare.


Capaccio, Paestum, Museo Archeologico. In alto: sezione romana. In basso: testa-ritratto di età flavio-traianea.

scendendo l’imponderabile vanità del tutto, lascia i viaggiatori d’un giorno e d’ogni latitudine, disarmati e sorpresi. In epoca romana, è probabile che furono i nuovi padroni a mutarle il nome in Paistom, poi Paestum. Alleata di Roma, nelle guerre contro Pirro, ottiene una colonia latina nel 273 a.C. e da allora inizia quel processo di trasformazione urbana che è ancora evidente negli scenografici monumenti che gravitano intorno al foro romano. Intorno al I sec. a.C. le sontuose domus, adorne di pavimenti musivi, ad occidente dell’area pubblica, all’interno del parco archeologico, costituiscono la testimonianza della ripresa economica e sociale. In tempi recenti, abbandonata la tesi secondo cui, un terzo della città, nella parte ad oriente della Regia Strada delle Calabrie, (l’attuale ss. 18), fosse stato edificato in ambito romano, “...si è costatato che i Romani hanno recepito la sostanza dell’impianto regolare greco risalente ad epoca arcaica”. In questo settore, l’indagine archeologica moderna ha posto l’attenzione. È stato ridefinito il quadro urbanistico e strutturale della colonia latina che per troppo tempo era stato offuscato dalla grandiosità architettonica ed iconografica della polis magno greca. È emerso pertanto che i Romani provvidero a “…cancellare in ma-

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niera radicale i segni politici del passato greco poseidonate, che nella fase lucana erano stati risparmiati o addirittura si era continuato ad adoperare”. L’esempio più eclatante è costituito dal cenotafio eroico del fondatore della colonia, l’ecista appunto, innalzato intorno alla fine del VI sec. a.C. e seppellito dai nuovi padroni romani, senza danneggiarlo, in modo da cancellare per sempre la memoria sacra e politica più alta dell’antica città greca. Intorno al 90 a.C., Paestum ottenne la municipalità. Le trasformazioni urbanistiche ed architettoniche di tutta l’area del foro mostrano il rinnovato benessere del piccolo centro. Permane il ricordo della munificenza privata persino di una donna, la ricchissima Mineia, moglie di Caio Cocceio Flacco, esponente del partito di Cesare. Ad essa infatti, vanno attribuiti i rifacimenti della Basilica, del c.d. Tempio Italico e forse del Tempio della Mens Bona ovvero il Tempio della Pace, adiacente il foro. L’evento fu storicizzato con l’emissione di monete recanti al dritto una divinità femminile, al rovescio il Tempio della Mens Bona con la legenda Mineia Marci filia. Altri edifici sorsero in piena epoca imperiale: ad esempio, le Piccole Terme, nell’area del Santuario Meridionale e l’Anfiteatro. Quest’ultimo, di poco anteriore, fu

ingrandito sotto il regno dei Flavi, dotandolo di un anello esterno con una serie di archi su poderosi pilastri in laterizi. Attualmente la vista è fortemente compromessa da una strada moderna che, attraversandolo, ne copre buona parte della superficie. Ma l’idea più completa della città imperiale è data dai materiali proposti nelle nuove sale espositive della sezione romana inaugurata da pochi anni, al primo piano del museo archeologico. Apre la pars romana l’emblematica statua bronzea del sileno Marsia, eretta nel Foro dai coloni latini, prevalentemente liberti ed ex schiavi, a testimonianza della ottenuta libertà. Suggestivo è l’allestimento di numerosi ritratti in marmi pregiati. È possibile riconoscere l’immagine ufficiale dell’imperatore Tiberio, di Livia, nelle vesti della Pax Augusta, capite velato sovrastato da una corona di olivo. Dal santuario extraurbano di Santa Venera, proviene un gruppo di statue di piccole dimensioni, risalenti alla metà del I sec. a.C.: un Hermes seduto, un’Afrodite Anadiomene oltre ad un’Artemide-Hekate. Interessante è la statua di un togato ed ancora una testa-ritratto femminile, caratterizzata dalla tipica altissima acconciatura a boccoli, databili entrambe all’età di Vespasiano, allorquando Pae-

stum, nel 71 d.C. accolse, per volere dell’imperatore, una colonia di veterani della flotta di Capo Miseno. Furono loro assegnate sia la cittadinanza romana che le terre incolte del territorio circostante. A quest’epoca, risalgono le epigrafi inerenti l’ascesa dei veterani alle massime cariche politiche della colonia. Significativo ed emblematico è il caso dei Tullii Cicerones che, dietro un nomen così prestigioso, palesavano una presunta quanto poco credibile discendenza dal famoso oratore latino. Il percorso espositivo, iniziato al pian terreno, seguendo un preciso e significativo iter diacronico e diatopico, si conclude, per il momento, con le ultime testimonianze del tardo antico che attestano anche a Paestum, la lacerante crisi dell’impero romano. È indubbio che la parte preponderante è costituita da eccezionali corredi di reperti greci e d’ambito lucano nonché dalle strabilianti sequenze delle metope dell’Heraion. Prossimamente, nel museo troveranno posto, grazie ai fondi P.O.R. Grandi Attrattori, anche reperti preistorici e protostorici, databili tra il IV ed il III millennio. Saranno la prima sezione dell’itinerario museale di indubbio valore per una più approfondita comprensione della città antica, patrimonio dell’umanità.

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Capaccio, Paestum, Museo Archeologico, ritratto dell’imperatore Tiberio e di Livia nelle vesti di Pax Augusta.


Lungo il Sarno e verso il mare L’agro Sarnese Nocerino e le ville costiere

Scafati, Villa Prete. In alto: in primo piano dolii interrati. In basso: vano 15, particolare di struttura circolare.

Un possibile itinerario archeologico, nel caos urbanistico delle terre solcate dal fiume Sarno, potrebbe avere inizio all’interno del tessuto abitativo del comune di Scafati dove la moderna indagine esplorativa ha riportato alla luce considerevoli evidenze strutturali, poste in antico ai limiti dei territori di Pompei e di Nuceria Alfaterna. Gli smisurati cantieri di scavo di Ercolano e Pompei, aperti nella prima metà del Settecento, tra meraviglia ed entusiasmi collettivi, hanno, agli occhi dei più, fatto ritenere a lungo che in una macro area vesuviana più ampia, non vi fosse, fino al fatidico anno 79 d.C., nient’altro che valesse la pena riportare in luce. Eppure, oggi siamo lontani dai tempi dei soprintendenti borbonici che annotavano, in maniera zelante, nei diari di scavo, “vasi e fabbriche di niun valore”! Il Novecento ha reso giustizia agli innumerevoli ritrovamenti ad oriente ed occidente di Pompei, contribuendo, in tal modo a definire, talora nei dettagli, la ripartizione del territorio e gli insediamenti collegati dalle grandi strade che li attraversavano. Nel caso specifico di Scafati, le campagne di scavo condotte negli ultimi anni, hanno finalmente acclarato che nell’antichità ricadeva nel suburbio orientale di Pompei. Il fiume Sarno costituiva inoltre un vero confine naturale. Due cippi, uno miliario e l’altro con iscrizio-

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ne, relativa ai quattruorviri edili, Marcus Antonius Marci filius e Caius Cornelius Caii filius Fuscus, rinvenuti in loco, testimoniano l’esistenza di un ponte sul fiume che segnava in quel punto il limite di pertinenza dei territori nocerini e pompeiani. Le due pietre indicano, rispettivamente la distanza di sette miglia da Nuceria, e la ricostruzione del ponte a spese degli ediles. Lungo la Nuceria-Pompeios, la grande arteria viaria, oggi ricalcata in parte dalla statale 18, furono edificati non solo imponenti monumenti funerari ma anche numerosissime domus extraurbane, spesso a scopo produttivo, appunto le ville rustiche. “Nel 1992, nei pressi di Via Torino, nel fondo di proprietà Prete, nel corso di normali controlli in occasione di sbancamenti per civili abitazioni, sono venute alla luce le strutture di una villa rustica romana seppellita dall’eruzione del 79 d.C. Già nel 1932 era stata identificata e nel 1934 in piccola parte esplorata da Matteo Della Corte”. Così Marisa de’ Spagnolis, in un ponderoso volume pubblicato di recente (cfr. la recensione in Campania Felix, n. 8, anno V), riporta la notizia della scoperta della villa. Un sigillo di bronzo ha restituito il nome dell’ultimo proprietario, N. Popidio Narcisso Maiore. Ciò che colpisce un perseverante turista che voglia tentare la non agevole visita al complesso, è la sua estensione: ben ventiquattro

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Scafati, Villa Prete. In alto: particolare del vano 13. In basso: vano 13, particolare della stufa.


ambienti ripartiti su 652 mq al piano terra e 56 mq al piano superiore. Lo schema architettonico seguito risulta estremamente preciso: di forma rettangolare, ma pratico e funzionale, vicino, per tipologia, alla celeberrima Villa della Pisanella di Boscoreale. In comune avevano la stessa vocazione: lo sfruttamento agricolo dei terreni di pertinenza, finalizzato alla produzione di vino. Fu edificata nel corso del I sec. a.C., verosimilmente seguendo un iniziale progetto, ultimato all’epoca della grande commercializzazione dei vini pompeiani e sorrentini, dopo i rivolgimenti sillani, quando tutta l’area vesuviana fu di nuovo al centro di grandi traffici commerciali. I bolli sulle tegole di copertura forniscono sicuri elementi di datazione in quanto recano impresso il marchio di fabbrica di Lucius Eumachius e Lucius Saginius Prodamus, personaggi noti ed attestati a Pompei, tra la fine della repubblica romana e la prima età augustea. La disposizione degli ambienti, nonostante la tecnica architettonica sia spesso imperfetta ed approssimativa, si presenta tuttavia organica e razionale. La pars abitativa ha subito rifacimenti durante il primo impero. A quest’ultimo periodo, risale il mosaico riferibile al III stile pompeiano del triclinio, la creazione del vano n. 5 e del laconicum, ricavato nell’atrio comunicante direttamente con la cucina. Qui, fu installato anche il forno in funzione probabilmente del limitrofo balneum, ossia la piccola terma privata della casa. L’acqua calda vi affluiva attraverso lo spessore della parete ed era raccolta, in un labrum murato, il contenitore in terracotta dove l’acqua veniva profumata versandovi essenze aromatiche, contenute in un vasetto vitreo, l’aryballos, poggiato sopra. L’ambiente termale, riscaldato da una stufa, è ridotto al solo calidarium, al cui interno troviamo la vasca di ridotte dimensioni, sufficiente appena per una persona. La disposizione del vano, a ridosso della cucina segue in pieno i dettami di Vitruvio, che nel De Architectura, ribadisce il concetto della necessità dei bagni in una villa rustica, per fare in modo che gli schiavi possano lavarsi nei giorni di festa. Secondo l’erudito, abluzioni troppo frequenti rendono debole e fiacco il corpo. Quanto lontane tali prescrizioni dai moderni concetti di igiene personale! Va ricordato che un secolo prima del grande architetto romano, Catone il Censore aveva

definito la servitù, instrumentum vocalis, considerando la voce, quale unico elemento di differenziazione dall’instrumentum mutum, cioè un comune utensile... Gli ambienti di maggior interesse sono sicuramente il triclinio, il torcularium (vano per la premitura delle uve), la grandiosa cella vinaria, il laconicum e la stalla. Nel primo, vero centro della villa, le pareti erano rivestite di intonaco rosa, senza tracce di affreschi. Il pavimento, in cocciopesto, conserva una serie di quaranta quadrati di mosaico, delimitati da tessere bianche con al centro una rosetta bianca o nera. Il motivo decorativo molto raro in antico è attestato a Pompei nella Casa dell’Argenteria ed in una villa romana a Sant’Antonio Abate. Il torcular è invece l’ambiente più grande di tutto l’edificio ed è in diretto rapporto con la cella vinaria. Rinvenuto completamente sigillato dai lapilli e dalla cenere dell’eruzione pliniana del 79 d.C., è l’unico vano in cui né clandestini, né forse i suoi abitanti fecero ritorno, all’indomani del tremendo cataclisma, per recuperare suppellettili ed oggetti preziosi. Dotato di un soppalco, conserva tutti i bacini di premitura e gli attrezzi ad essi connessi, al contrario della cella, da cui furono asportati i dolii ovvero i grandi contenitori fittili atti a contenere il vino che costituiva il bene più importante della villa. Dalle impronte ancora evidenti dell’interro, si evince che vi fossero alloggiati sessantuno dolii, divelti, usando strumenti metallici. Molto interessanti sono gli incassi di pali lignei posti nel cortile per sostenere stuoie o qualche altro materiale che ombreggiasse i grandi vasi nelle giornate particolarmente calde, nonostante fossero dotati di opercula, i grandi coperchi. Il laconicum, in stretto rapporto con gli ambienti termali, è di ridotte dimensioni e conserva sul lato orientale, due pilastrini di eguale larghezza che sostenevano una panchina lignea; una nicchia nel muro, consentiva alle persone sedute sulla panca, di poggiare comodamente le braccia, durante la sudatio. L’ampia corte con il pozzo centrale fungeva da raccordo tra il blocco più propriamente abitativo della villa e la parte rustica. L’ambiente più impressionante dell’intero complesso è la stalla. Collocata nell’angolo sud orientale della struttura, in aderenza alla cucina, è stata rinvenuta come il torcular, interrata dal lapillo che ha restituito gli scheletri di un cavallo e di un cane, ada-

giati sulla nuda terra battuta. Entrambi avevano ancora al collo un anellino di ferro ed un campanello di bronzo. Uniche presenze di vita rimaste nella villa, senza possibilità alcuna di scampo e di fuga. La corda impedì loro la salvezza dall’immane tragedia che si stava consumando. In quel nefasto giorno d’agosto di duemila anni fa, anche dalla casa di Popidio Narcisso, forse riuscirono tutti a fuggire, trovando, ci piace pensare, riparo verso Nuceria, più lontana dal Vesuvio ma ospitale e sicura. Nessuno ebbe probabilmente il tempo necessario per liberare i fedeli amici domestici, che pur avranno avuto un nome, compagni di avventure e giorni più lieti. Rimasti sepolti sotto le tegole del tetto crollato, come altri simili in altrettante ville vesuviane, a Boscoreale e Stabia ad esempio, testimoniano tuttora il valore e la vicinanza agli umani dall’alba del mondo. Villa Prete, naturalmente non è la sola realtà archeologica presente a Scafati, ma forse è l’unica fruibile e visitabile nel contesto delle tante emergenze antiche sul suo territorio. Prima di dirigerci verso Nocera Superiore, dove nell’antichità furono innalzate le mura di Nuceria Alfaterna, è d’obbligo una deviazione a Sarno, per una sosta presso il teatro ellenistico-romano

di Foce. Nei primissimi anni Sessanta del XX secolo, nel corso di “traumatici sbancamenti edificatori” venne scoperto un teatro, piccolo gioiello dell’architettura ellenistica, nell’ager nucerinus. Lo scavo rese subito evidente la sovrapposizione tra l’edificio ed un centro di culto anteriore, inquadrabile cronologicamente tra il tardo IV sec. ed il III a.C. Il teatrino, in effetti, rappresenta uno dei monumenti del grande complesso architettonico-religioso di cui faceva parte. Per assetto tipologico e scala dimensionale trova riscontro nelle analoghe risoluzioni di Pietrabbondante in Molise e nel teatro piccolo di Pompei. È possibile datarlo, alla luce di evidenti adeguamenti funzionali, alla fine del II secolo a.C. Realizzato sul pendio degradante e dolce della collina - consuetudine costruttiva degli edifici scenici di tradizione greca - colpisce per l’alternanza cromatica dei materiali di cui è costituito: il calcare di Sarno, dalla tipica sfumatura giallo ambrata, alternato al tufo grigio dagli intensi riflessi di un blu brillate degli eleganti sedili dell’ima cavea, ovvero la parte bassa delle gradinate riservate al pubblico. Gli elementi che lo caratterizzano, sono i tre ordini di sedili della proedria, quella zona cioè dove prendevano posto i cittadini più illustri. Costituiti da un unico

blocco di pietra, con la spalliera che funge da balteo alla fila superiore, si concludono lateralmente, a destra e a sinistra, in raffinatissimi braccioli a guisa di zampa leonina, nei due ordini inferiori, e di sfingi, nell’ultimo filare. La summa cavea, la porzione più elevata dei gradini, destinata al semplice pubblico, è distinta da una fascia di delimitazione, detta diazoma. Delle gradinate superiori rimane l’impronta nell’emiciclo di terra del pendio su cui furono costruite. Oggi il declivio è ricoperto da un verdissimo prato, specialmente nelle giornate primaverili, assolate ed ancora cariche delle abbondanti piogge di marzo. I confronti stilistici con la vicinissima Pompei fanno ipotizzare la presenza di Telamoni, mitici semidei dalle umane sembianze, lungo gli analemmata, ovvero i muri di delimitazione della cavea con le parodoi, corridoi di accesso trionfale ai posti d’onore. L’orchestra ha un raggio di 6 metri circa e non conserva alcuna traccia di pavimentazione, al contrario del grandioso teatro della vicina Nuceria, adorno di preziosi marmi policromi africani ed orientali. La scena si presenta molto complessa invece, chiusa alle due estremità da due corpi trapezoidali, i parasceni obliqui. Conserva una scaenae frons rettilinea, su cui si innestavano cinque porte, tom-

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Pagina precedente. Scafati, Villa Prete. In alto: stalla con i resti di animali domestici. In basso: vano 15, cucina, particolare con vaso fittile entro una nicchia. In questa pagina. Sarno, località Foce, teatro ellenistico romano, veduta generale della summa cavea.


Sarno, località Foce. In alto: teatro ellenistico romano, ima cavea e proscenio in primo piano. In basso: bracciolo a guisa di zampa di sfinge.

pagnate, forse in piena epoca imperiale. Sotto il regno di Augusto, vi fu una trasformazione radicale: si ampliò aggiungendo un proscenio in muratura con al centro un’iscrizione oggi mutila della parte superiore. L’epigrafe ci attesta unicamente che qualcuno… D S P F C I “de sua pecunia faciendum curavit iterum”, …fece ricostruire a sue spese l’edificio. A ridosso dello spazio scenico per le rappresentazioni, rimane una grande area porticata, la porticus post scaenam, luogo d’incontro degli astanti, una sorta di foyer ante litteram, dove passeggiare e discutere, prima e dopo gli spettacoli, dall’alba al tramonto, secondo rituali antichissimi. Il famigerato terremoto avvenuto nelle None di Febbraio dell’anno 62 d.C., di cui Seneca ricorda i guasti prodotti ad Ercolano e a Nocera, lo danneggiò. L’eruzione dello “sterminator Vesevo” del 79 d.C. innescò il graduale ed irreversibile processo di utilizzo sempre più sporadico dell’edificio che tuttavia sopravvisse fino al III d.C. Oltre al teatro, del santuario faceva parte anche un tempio, non ancora individuato e forse da ricercare alle sue spalle, considerando che il complesso architettonico si atteneva a schemi struttivi sacri ben noti in ambito ellenistico-romano, ad esempio a Pale-

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strina, Tivoli, Gabii. Nel 1990 approfondite campagne di indagine archeologica, hanno permesso di individuare, nella zona a monte, a poca distanza dal teatro, un edificio pubblico, collegato al santuario, con un criptoportico cui si accedeva attraverso un ingresso dai cardini in bronzo e che conserva quattro rocchi di colonne equidistanti. La scoperta di una favissa, sorta di grande buca sacra, al centro dell’ambiente, ricolma di frammenti di terrecotte architettoniche decorate da delfini affrontati ed elementi fitomorfi, oltre a pesi da telaio; tali elementi appartengono ad una fase dell’impianto precedente che avvalora considerevol-

mente la tesi della sacralità di tutto il contesto territoriale, almeno fino alla fine dell’età repubblicana. Fu allora che sopravvenuti e repentini rivolgimenti politici ed economici stravolsero l’intera area, interessata successivamente da modifiche sostanziali. Si passò da una organica funzione pubblica ad un modesto utilizzo rustico, documentato da una piccola macina, da ampie tracce di bruciato su improvvisati piani di cottura, nei vani modesti ricavati dalla divisione dei grandi ambienti in angusti tuguri. Le eleganti statuine votive femminili e gli altri ex voto fittili, rinvenuti nell’area, caricano di arcani significati il luogo che vedeva nel

teatro e nelle acque lustrali della sorgente, un momento di comunione con la divinità. Qualche anno fa, a poca distanza dal luogo sacro, in località Garitta, è stata recuperata una tomba a cassa dalle lastre di tufo dipinte di incomparabile bellezza, sia per la vivacità della cromìa che per l’immediatezza compositiva. Definita del Guerriero, in considerazione del tema iconografico raffigurato, è stata datata al IV sec. a.C. dall’archeologa Laura Rota che l’ha portata alla luce. Da Sarno a Nocera Superiore; da un piccolo teatro ad un altro di dimensioni maggiori: quello scoperto tra le località di Pareti e di Pucciano. Edificato nel II a.C. rap-

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Sarno, località Garitta, tomba del Guerriero, lastre dipinte.


Nocera Superiore, località Pareti, teatro ellenistico romano, veduta.

presenta il più grandioso esempio, sia per dimensioni che per posizione scenografica, tra quelli documentati in Campania. Fu eretto nella parte più alta del centro antico, a ridosso della cortina interna delle mura meridionali, alle pendici del monte Albino. Nella sua fase originaria era largo 76 metri, raggiunse in piena età augustea i 96 metri, a seguito dell’ampliamento della cavea per adattarlo a nuove esigenze tecniche di rappresentazione. A boccascena, rimangono tre nicchioni entro cui erano collocate statue colossali di personaggi di rango imperiale. È ancora evidente parte del pavimento dell’orchestra, formata da tessere di marmi policromi, dal pavonazzetto al nero d’Africa, al giallo di Numidia, testimonianze sicure della grande ricchezza di materiali impiegati nella costruzione del monumento. L’edificio subì i danni del violento terremoto del 62 d.C., ricordato da Seneca; negli anni immediatamente successivi al cataclisma fu restaurato e sopravvisse, come del resto la città stessa, alla terrificante eruzione pliniana del 79 d.C. Si trattò con molta probabilità, dell’ultima sistemazione dell’impianto ludico, poiché dopo il IV d.C., fu letteralmente spoliato dei suoi materiali più preziosi. Non più in uso, seguì la sorte comune a tanti edifici del mondo greco-

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romano; non riconvertiti o adattati alle mutate esigenze della società medioevale, funsero da cave per strutture più nuove e diverse o furono travolti irrimediabilmente dal tempo e dal corso naturale degli eventi. Dal teatro l’escursione prosegue, percorrendo la strada statale 18 in direzione di Cava de’ Tirreni, stavolta alla scoperta di una necropoli monumentale. Cinque anni di esplorazione meticolosa su un’area archeologicamente ignota, ad oriente della cinta muraria di Nuceria Alfaterna, hanno portato l’archeologa Marisa de’ Spagnolis, a ridisegnare uno scenario nuovo della società nocerina dell’epoca tardo repubblicana. La grande necropoli prende il nome dal toponimo Pizzone, sul lato destro del torrente Cavaiola. Difficilmente si riesce ad immaginare che vi sia un’oasi archeologica, stretta in una morsa tra enormi capannoni dalle ciminiere sbuffanti, protetta dalla collinetta artificiale su cui la natura ha ripreso il suo regno. Una strada a triplice carreggiata e grandiosi monumenti funerari su entrambi i lati lasciano per qualche momento senza parole. Non è possibile credere che oltre il fastidio, il frastuono dei macchinari di produzione continua ed i miasmi del torrente vicino, passeri e merli nidifichino ancora sui virgulti e sui rovi novelli. Sette metri di terreno

alluvionale, al di sotto del piano attuale di campagna, hanno ricoperto una via cava, ossia una strada incassata, larga mediamente 10 metri, realizzata rimuovendo il terreno già in epoca romana. Lungo i due lati, svettano cinque grandi mausolei funerari su sette evidenziati finora. Dietro di essi numerosissime deposizioni successive: tombe in anfora, a cassa, a bauletto, alla cappuccina, inquadrabili cronologicamente dal I sec. a.C. fino al IV d.C., epoca dell’abbandono dell’area, secondo i dati raccolti durante la prima campagna di scavo archeologico. I monumenti, sin dalla loro originaria edificazione, furono progettati in modo da essere disposti in maniera scenografica, su due differenti livelli. Il primo monumento è del tipo a tumulo. Eretto su un podio circolare, è costruito in opus incertum di calcare locale, rivestito all’esterno di intonaci a finte crustae marmoree. L’accesso si apre lungo il muro di terrazzamento, direttamente sulla strada e consente di entrare, dopo un breve corridoio in ascesa, all’interno della piccola camera funeraria. Rotonda, come il monumento sovrastante, ha otto nicchie realizzate nelle pareti per alloggiarvi le urne cinerarie. Un altro tratto di corridoio, simmetrico al primo, termina con due columelle, ossia segnacoli funerari, la

cui “parte superiore è a forma di disco stilizzazione della testa umana”. L’iscrizione Numisia/AF, su una di esse, ovvero Numisia figlia di Aulo, indica l’appartenenza del sepolcro alla omonima gens, attestata a Nuceria Alfaterna, ad Ercolano e a Pompei, tra la fine dell’età repubblicana e l’età augustea. Un’iscrizione coeva, documentata ad Ercolano, ricorda P. Numisius, l’architetto che progettò, almeno nella fase iniziale, il teatro romano di Ercolano. Accanto al primo, un secondo edificio a podio, sopra un grandioso basamento pseudo quadrangolare, in blocchi di tufo e calcare, ha nella parte superiore una vera e propria tholos, una struttura cioè circolare dotata di cupola terminale. Due ante sporgenti sull’asse viario, sorreggevano leoni accovacciati e mansueti, a protezione eterna dei trapassati. La struttura trova un puntuale confronto architettonico ad Ostia, con il

mausoleo di Porta Marina databile intorno al 25 a.C. Era forse della gens Cornelia: ne fornisce l’indicazione un cippo funerario entro il recinto del monumento che ha tramandato il nome di una ignota Cornelia Anthis, liberta di Gnea. Il monumento indicato quale terzo, è collocato sul lato meridionale della strada a cui si raccorda mediante due simmetriche scalinate di accesso, divise da piccole panchine. È sicuramente il più ricco di suggestione. Databile alla metà del I sec. a.C., sulla parete frontale reca, inglobate, due epigrafi metriche in latino e in greco. La principale è la lamentazione in prima persona del proprietario del sepolcro: Quinto Lutazio Varo, un diciassettenne di nobile stirpe, morto nuotando, o come recita l’epigrafe, rapito dalle Naiadi, terribili divinità fluviali che lo strapparono ad un futuro radioso, egli, più bello di un dio.

La seconda invece dal medesimo tono, è l’accorato compianto funebre del padre per la perdita del figlio. Il commovente lamento, in ambedue le lingue, esorta il viandante alla sosta, alla riflessione sull’infausta sua sorte; forse, in ultima analisi, alla considerazione amara dell’eterna vanità della vita umana. Sulla platea, intorno al monumento, furono collocate trenta columelle e la stele funeraria di una giovinetta, tutte della gens Lutazia, spesso dai cognomina greci quali Sosicen, Agathemer, Hermes, Eros… Si segnala la columella indicata come dodicesima, in quanto raffigura un busto con una testa dai caratteri fisionomici maschili decisamente marcati. Risale certamente alla fase finale di utilizzazione del monumento al cui interno si accede mediante una piccolissima apertura, quasi nascosta alla vista di ospiti indesiderati che avrebbero potuto destare il sonno

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Nocera Superiore, località Pizzone, necropoli monumentale, monumento funerario della gens Lutatia.


Nocera Superiore, località Pizzone, necropoli monumentale. In alto: monumento funerario a podio della gens Cornelia. In basso: monumento funerario numero 1, particolare delle colonne.

eterno del fanciullo, o piuttosto violarne la sacralità. È questo un fenomeno comune e diffuso in ogni tempo e in ogni latitudine. Non sempre l’ipotetica o reale presenza di un sontuoso corredo ne giustifica il saccheggio. Infatti, talvolta le ragioni, nell’antichità erano più profonde: eventi di guerra, damnatio memoriae, volontà di sopraffazione totale di nuovi padroni, o semplice riutilizzazione di un’area, in altra epoca, per altre genti. A Nuceria, già nota dalle fonti letterarie, furono ambientate le peripezie di Abrocome, l’infelice amante di Anzia, eroina d’un romanzo di Senofonte Efesio, uno scrittore greco, vissuto tra il II ed il III sec. d.C. Il giovane durante la tenace ricerca di Anzia, rapita a Taranto, “...partito dalla Sicilia approdò a Nuceria. Sebbene, per la mancanza del più stretto necessario non sapesse cosa fare, si mise per prima cosa alla ricerca di Anzia, perché questa per lui era la ragione della vita… Poiché le sue ricerche erano del tutto vane (la ragazza era infatti a Taranto, presso il padrone del bordello), si occupò quale salariato presso alcuni lavoranti di pietre. Siccome il suo corpo non era abituato a sottoporsi a fatiche intense e gravi, il lavoro gli riuscì penoso…” (lib. V, cap. VIII). “...Questi, in un primo tempo, a Nuceria continuò il suo lavoro, ma alla fine non reggendo più alla fatica, decise di imbarcarsi e di tor-

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nare ad Efeso e in una notte scese al mare e fece in tempo ad imbarcarsi su una nave che stava salpando...” (lib. V, cap. X). Conclusa la visita a Pizzone, è d’obbligo una sosta ad un monumento paleocristiano: il Battistero di Santa Maria Maggiore. È al tramonto, nei pomeriggi di primavera, che la sua cupola taglia il cordone che la lega al tamburo sottostante, sopra gli archivolti, e comincia a librarsi in aria. Le quindici coppie di colonne d’alabastro egiziano, di breccia d’Aleppo, di marmo cipollino, s’illuminano, inondate dalla luce entrata con prepotenza da ogni finestra, dall’abside e da piccole fessure, nel tessuto connettivo e nell’ordito del possente muro perimetrale, prima che il crepuscolo ne allunghi le ombre. Edificato nei pressi di ciò che rimaneva in piedi del foro di Nuceria, verso la metà del VI sec. d.C., su progetto di un ignoto architetto bizantino, rappresenta l’ultimo, forse estremo tentativo di rivitalizzare intorno ad esso, una città che a lungo era stata alla ribalta sulla scena politica dell’impero romano. In epoca tardo antica, il grande centro dell’Ager Nucerinus fu travolto però da un rovinoso tracollo economico e sociale, fatale per tante città di provincia. Il Battistero, tramandato a noi con il nome popolare de La Rotonda, fu costruito su un grandioso complesso architettoni-

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Nocera Superiore, località Pizzone, necropoli monumentale. In alto: monumento funerario a podio della gens Numisia, corridoio interno. In basso: columelle.


co romano d’età imperiale. Di questo restano mosaici pavimentali policromi ed avanzi di muri, delimitanti ambienti che ne tagliano altri, più antichi, della fine della repubblica, sullo scorcio del I sec. a.C. L’impianto del monumento che evidenzia forti analogie con Santa Costanza a Roma, ruota intorno ad un grande cilindro alto 3 metri. Campeggia al centro una vasca battesimale ottagonale, seconda, per ordine di grandezza, in Italia, a quella di San Giovanni in Laterano. Capitelli, fusti di colonne, elementi architettonici e decorativi inglobati internamente, mensole, cornici, epigrafi funerarie, onorarie e celebrative, provengono, asportate in antico, da edifici augustei, adrianei o posteriori, già abbandonati ed in disuso nell’età dell’imperatore Giustiniano, allorquando probabilmente s’aprì il cantiere del monumento. Durante il Medioevo, l’edificio subì modifiche radicali: lo spostamento dell’ingresso e dell’abside, per motivi tuttora non chiariti, l’asportazione di tre delle otto colonnine collocate sulla vasca. Due di esse sono state di recente individuate una all’esterno del campanile (disegnato nel XVIII secolo da Francesco Solimena) della cattedrale di Nocera Inferiore, mentre l’altra nell’ampia corte interna della Caserma Tofano, splendido edificio d’epoca borbonica. La prima era stata

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Nocera Superiore, località Santa Maria Maggiore, Battistero paleocristiano. Pagina precedente. Interno. In questa pagina. In alto: interno. In basso: abside, particolare del pavimento musivo.


Nocera Superiore, località Santa Maria Maggiore, Battistero paleocristiano, cappella radiale. In questa pagina. Affresco della Natività, particolare. Pagina successiva. In alto: Cristo Pantocrator. In basso: Memento mori.

riutilizzata in funzione di paracarro, l’altra funge ancora da decorazione terminale di un monumento ai caduti. Entrando nella Rotonda, nel deambulatorio a sinistra, vi sono due piccole edicole, trasversali al muro esterno, decorate da affreschi con scene neotestamentarie, databili al tardo Trecento: riecheggiano i modi ed il taglio pittorico di artisti d’ambito giottesco. Gli storici dell’arte hanno di recente proposto il nome di Roberto d’Oderisio o un pittore della sua cerchia, scartando così la vecchia tesi che identificava nell’ignoto maestro, il senese Andrea Vanni, erede anch’egli della lezione di Giotto, negli ultimi anni del XIV sec. La lettura completa del ciclo pittorico è stata in parte alterata

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da pesanti interventi di restauro, effettuati nei secoli scorsi, che ne hanno attenuato la primitiva freschezza compositiva. La Madonna in trono con il Bambino ed il Cristo Pantocrator sono tuttavia carichi del fascino di una pittura attardata, talora ingenua, ma di sicura e coinvolgente presa emotiva. Anche la Strage degli Innocenti, conserva le medesime caratteristiche ambientata com’è fuori dalle mura di un castello turrito con pie donne affacciate ad entrambi i lati, costernate e sgomente; o ancora la Natività, dai toni caldi e pacati, altamente evocativi. Ci lascia altrettanto stupiti la pallida immagine - quasi una sinopia - di una Madonna con Bambino, entro la nicchia a destra della porta d’ingresso.

Carico di suggestione è il rilevo policromo della Madonna di Santa Maria Maggiore dai bellissimi occhi vitrei, in alto a sinistra, guardando l’altare, databile al XV sec. I recenti lavori di sistemazione e di consolidamento hanno evidenziato le molteplici trasformazioni subite dal monumento; hanno consentito, inoltre, di individuare le cappelle laterali dedicate a San Nicola e all’Annunziata, addossate alla struttura portante tra il Cinquecento ed il Seicento. Furono eliminate nei secoli successivi, tant’è che ancor oggi La Rotonda si distingue per la sua simmetrica volumetria. È in ogni caso, parte integrante di un più vasto complesso che ingloba una cappella oratorio e l’antico Ospedale di Santa Caterina di cui resta

un’ampia sala ipogea (la Terrasanta) ed un affresco, su una parete del giardino retrostante il Battistero, con la raffigurazione di uno scheletro con falce e clessidra tra le falangi. Esposto oggi alle intemperie, il pannello voleva essere un imperituro memento mori d’epoca barocca e dal vago sapore contadino o forse testimoniava, nella presumibile sala mortuaria dell’Ospedale, che, oltre al battesimo, atto primo della vita e del neofita, anche il trapasso costituiva una tappa inderogabile dell’uomo e del cristiano in un tempo di pestilenze e di traversie collettive. Sul muro di contenimento esterno, sul sagrato antistante, la caduta accidentale di intonaco ha messo in luce tracce di decorazioni ad affresco, dai

colori molto vividi, con motivi decorativi a transenna, al di sotto di un drappeggio più scuro. Forse si tratta della parte sottostante di una parete interamente affrescata, collegata alle cappelle radiali del Battistero o verosimilmente agli ambienti del più vasto complesso architettonico di Santa Maria Maggiore. Poco sappiamo dai documenti e dalle epigrafi lapidee, parche e scarne, delle funzioni e delle cerimonie celebrate nella Rotonda, nel corso del secondo millennio. Restano i laconici accenni nei Voyages en Italie degli intellettuali stranieri che tra il Settecento ed il secolo successivo lo visitarono, mediandone in Europa iconografia e notizie, annotate nei loro diari del Grand Tour, dall’abate di Saint Non ad

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Minori, villa marittima. In alto: viridarium con piscina. In basso: portico del viridarium. Pagina successiva. In basso: triclinio-ninfeo con letti triclinari.

Henry Swinburne, o Paul de Musset. Va sottolineato però che, in alcuni casi, il loro giudizio fu negativo o quanto meno poco felice. In realtà, rimasero abbastanza delusi dallo stato d’abbandono in cui l’edificio versava negli ultimi decenni del secolo XVIII e la prima metà dell’Ottocento, e, sia pur ammirati dalla sua antichità, avanzarono riserve sul suo valore artistico, poiché lontano dai canoni classici di quella architettura greca, armonica nelle linee e rigorosa nelle proporzioni, che in piena temperie neoclassica stava rivivendo una nuova e più duratura stagione. Anche Luigi Vanvitelli, nell’aprile del 1758, effettuò un sopralluogo al Battistero, ma per uno scopo che oggi definiremmo scellerato: si stava pensando di smontare le colonne per riutilizzarle nell’edificando Palazzo Reale di Caserta. Il pericolo fu scampato a causa della loro precarietà. Nel terzo decennio dell’Ottocento, Crawford Tait Ramage annotò, in maniera distratta e superficiale, nel suo Viaggio nel Regno delle due Sicilie, che il monumento “…s’innalza sulle rovine d’un tempio romano che ricorda in miniatura il Pantheon di Roma“ e che si possono vedere, all’interno, delle bellissime colonne di marmo striato. Negli anni tra il 1803 e il 1805, a causa di un terremoto e di una eruzione, il Battistero fu chiuso definitivamente, scivolando nel declino e nella desolazione dell’abbandono, senza più voce e storia memorabile. Una pia visita di Ferdinando II di Borbone nel 1856, inaugurò l’inizio di restauri sistematici e di tentativi di ripristino, protratti fino ai primi decenni del Novecento. Nel 1944 vi fu il crollo della parte terminale della cupola, sotto i proietti piroclastici del Vesuvio. Il danno, presto riparato, fu lieve, al confronto dell’incuria, cui si è posto rimedio negli ultimi anni, con una sapiente rilettura complessiva, per consegnarlo all’attonita emozione del nostro tempo. Un ultimo sguardo va al Lapidarium, attiguo alla Rotonda, inaugurato di recente grazie all’impegno di vari Enti ed Istituzioni. Hanno trovato una degna collocazione i frustuli di colonne, i frammenti di iscrizioni, i riccioli di capitelli, sospesi da tiranti metallici o poggiati su banchi speculari d’acciaio, citazione e rimando poetico alla trasparenza dell’acqua lustrale. Si riparte dalla Valle, risalendo il massiccio dei monti Lattari attraverso il valico di Chiunzi, l’antica, l’unica strada fino ai tempi moder-

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ni, per raggiungere le villae maritimae d’età imperiale, sulla costa d’Amalfi. A Polvica, un piccolo borgo al centro di Tramonti, è stata riportata alla luce una fattoria databile intorno alla seconda metà del I sec. a.C. forse impiantata su una precedente struttura sannitica o ellenistica. Era dotata di impianto termale e di ambienti

colonnati, nonché di celle vinarie o olearie che documentano una economia essenzialmente agricola, basata soprattutto sulla viticoltura. Ricostruita tra il II-III sec. d.C. rimase in uso fino al VI. Fu allora che sulla parte abbandonata fu impiantata una chiesa con il cimitero annesso. Tra le ville marittime

che è possibile visitare bisogna annoverare la sontuosa residenza estiva di Minori, situata nella stretta valle del Reginna Minor. Se le recenti indagini archeologiche non hanno consentito di identificare né il proprietario originario né la probabile provenienza da Neapolis, Nuceria o Salernum, ci hanno permesso invece di ascrive-

re l’imponente complesso come afferente al territorio costiero di pertinenza nocerina. Posizionata al livello del mare, la costruzione offriva un indubbio effetto scenografico, soprattutto al piano inferiore preceduto da un portico che racchiude il viridarium, un vero e proprio giardino interno con al centro una vasca.

L’ambiente più ricco di fascino e suggestione è l’enorme triclinioninfeo, fulcro architettonico della dimora, intorno a cui si sviluppa l’intero pianterreno. La ricca decorazione musiva del pavimento, grandiosa ed allusiva, con una scena venatoria ed un’altra di tiaso marino all’ingresso, è uno scoperto segno del rango sociale degli abitanti. Il corteo marino si differenzia dalla paratassi figurativa della scena di caccia che vede allineate le fiere; la figura di un cacciatore con cani al guinzaglio conferisce una certa profondità di campo all’insieme. Mostri degli abissi recano in groppa o affiancano Nereidi adorne del velo gonfiato dal vento in modo da conferire alla raffigurazione l’idea di spazialità e di moto repentino, tra cavallucci marini, pesci e delfini. La presenza di un apparato iconografico parietale complesso ed articolato e dei letti triclinari in muratura denota al contempo una trasformazione della villa, un uso ed una frequentazione ininterrotti almeno fino al VII sec. d.C. L’estensione originaria doveva

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Pagina successiva. Minori, villa marittima. In alto: triclinio-ninfeo, pavimento musivo con tiaso marino. In basso, a sinistra: particolare di Nereide. A destra: particolare di decorazione a fresco. Pagina 31. Positano, villa marittima. In alto: affresco III stile pompeiano. In basso: aquila su globo.


essere ben più ampia di quanto fino ad ora sia stato recuperato. Del piano superiore restano pochi elementi: una sala riscaldata, frammenti di mosaici riconducibili a pavimenti. Rifacimenti posteriori hanno mutato la destinazione degli ambienti sovrastanti. Oggi alcuni vani ospitano un piccolo Antiquarium. Anfore da trasporto e da stivaggio, testine marmoree, piccoli arpioni di bronzo, piatti di ceramica raffinata, coperchi e tegami da fuoco sono gli ultimi relitti di una residenza patrizia, dove a lungo forse l’esercizio del negotium ha ceduto il passo agli agi del piacere e dell’ozio. Altre ville si incontrano nelle anse della costiera: ad Amalfi, un triclinio-ninfeo estivo rinfrescato ed animato da giochi d’acqua è adornato da letti triclinari, ai lati di una mensa circolare. L’amena residenza occupava forse l’intera insenatura ed era in corso di completamento in epoca giulioclaudia, quando sopraggiunsero i proietti piroclastici del Vesuvio che ne decretarono l’abbandono. Lucerne ed anfore, oggetti legati alla sfera femminile, specchi d’argento ed unguentari vitrei sono riemersi intatti da quel medesimo lapillo che ancora bollente, collassò il monte sopra Positano, travolgendo un’altra villa sontuosa. Il

recentissimo scavo, condotto dall’archeologa Maria Antonietta Iannelli, tra l’altro inedito e non ultimato, ha restituito, in un ambiente sotto la cattedrale, un considerevole apparato figurativo della fase finale del III stile pompeiano. Pochi dei pur numerosi turisti d’un giorno o d’una stagione, protetti dai variopinti ombrelloni, persi nel ritmo della vacanza, riescono ad immaginare che oltre il buio ed il silenzio della cripta e forse sotto la sabbia rovente si celino resti umani carbonizzati. Muoviamo, contrari alle correnti cui sfuggì Ulisse, verso l’approdo di Marina di Vietri, prima di inoltrarci alla ricerca di altre mete più a sud di Salerno. Un ambiente termale, databile alla prima età imperiale, è stato integrato all’interno di un locale pubblico, sulla riva a ponente del fiume Bonea. Fu presto trasformato in frigidarium occludendo il passaggio dell’aria calda ed utilizzato quale vasca per i bagni. Di grande suggestione, era parte di un impianto più vasto forse pertinente ad un’ulteriore villa marittima, di cui non rimangono più tracce, o di un edificio pubblico legato al ruolo portuale che Vietri ha avuto dall’antichità fino ai giorni nostri.


Sulle tracce della via Popilia Fratte, Pontecagnano, Eboli, Buccino, San Giovanni in Fonte

Salerno, Fratte, Area Archeologica Etrusco Sannitica, veduta di insieme. Pagina successiva. In basso: rilievo con Eracle e il leone Nemeo.

Lasciata alle spalle la Costiera Amalfitana, prima di inoltrarci verso l’interno della provincia, per raggiungere Buccino, una sosta è d’obbligo all’Area Archeologica Etrusco Sannitica di Fratte. Rappresenta infatti, un sito di primaria importanza storica ed

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un’oasi verde di grande impatto ambientale. Costituisce, secondo la definizione di Matilde Romito, direttore dei Musei Provinciali Salernitani, ”…la prima tappa di un itinerario culturale che approda, in seconda istanza, al Museo Archeologico in via San Benedetto

per vedere i reperti rinvenuti durante le varie fasi dell’indagine archeologica”. Anche se fino ad oggi, non si conosce con esattezza quale sia stato il nome originario dell’insediamento, le campagne di scavo iniziate a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, hanno evi-


Pontecagnano, Museo Nazionale dell’Agro Picentino. In alto: urna a capanna. In basso: kotyle “del lupo cattivo”. Pagina successiva. In alto, a sinistra: oinochoe in argento. In basso: particolare dorato dell’attacco dell’ansa. In alto, a destra: protome equina, particolare.

denziato livelli di frequentazione dall’età Eneolitica, al III sec. a.C. Furono le conquiste romane verso le terre meridionali d’Italia a decretarne la fine repentina, in concomitanza forse della fondazione della colonia di Salerno, nei primi decenni del II sec. a.C. Dell’antico centro sono evidenti ruderi di strutture, un’arteria viaria basolata su cui fu rinvenuto un rilievo architettonico fittile con la lotta tra Eracle e il leone Nemeo, di grande effetto plastico. Interessanti sono le tombe sannitiche di fine IV sec. a.C. Due delle otto visibili, all’interno dell’area, conservano i letti funebri dotati di un cuscino in tufo grigio. Da Fratte, è possibile raggiungere in un tempo breve il vicino Parco

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Archeologico di Pontecagnano, situato tra la strada statale 18 e l’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Attualmente, le aree messe in luce non sono vaste, in quanto le esplorazioni sono in corso. La parte visibile è relativa alla colonia romana di Picentia, fondata nel 268 a.C., deportando esponenti della tribù adriatica dei Picentini, nelle terre tra Salerno ed il Sele. La città si innestò sul precedente abitato etrusco-campano che dal IX al IV sec. a.C. non aveva avuto soluzioni di continuità. Nonostante i contrasti con Roma e fenomeni naturali abbiano, in varie epoche, provocato danni ingenti, Picentia resistette fino al tardo antico, quando fu abbandonata definitivamente. Lungo il nostro itinerario verso sud, si incontra il recentissimo Museo Archeologico di Eboli dove sono esposti ricchi corredi funera-


Buccino, Parco Archeologico Urbano dell’Antica Volcei. In alto: complesso rupestre di via Egito. In basso: edificio pubblico di via Canali, pavimento musivo. Pagina successiva. In alto: complesso rupestre di via Egito, interno. In basso: tempio di via Santo Spirito, particolare del podio basamentale.

ri relativi alle necropoli scoperte nel territorio ebolitano. Queste ultime attestano che l’insediamento stabilitosi tra l’VIII ed il IV sec. a.C. ebbe un ruolo cruciale nei contatti e nelle influenze tra culture ed etnie diverse. Finalmente dopo un percorso tra il verde intenso dei monti Picentini lungo l’antico tracciato della via Popilia, ci inoltriamo nella valle del Tanagro per raggiungere Buccino. Qui, è stato inaugurato, pochi anni fa, dopo lunghe ed approfondite ricerche, ancora in corso, dell’archeologa Adele Lagi, l’interessante Parco Archeologico Urbano dell’Antica Volcei, comprendente la cinta difensiva in opera isodomica di blocchi di calcare locale. L’opera muraria realizzata verso la fine del IV sec., condizionò l’anda-

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mento dell’asse viario interno che non subì alcuna variazione durante tutte le fasi urbanistiche successive. Nonostante le prime testimonianze di cultura materiale siano ascrivibili all’età del Ferro, è dalla fine dell’VIII sec. che la documentazione archeologica è presente sulla rocca, nucleo stabile e definitivo della Volcei romana. Tito Livio ricorda che la colonia fu dedotta all’epoca della guerra annibalica, nel 209 a.C., anno in cui gli Irpini, i Lucani ed i Volceienti si arresero al console Quinto Fulvio. Il passaggio a valle della via Popilia - trait d’union tra Capua a Reggio - ebbe un ruolo di primaria importanza. Lungo il suo percorso, furono impiantate alcune ville rustiche correlate alla centuriazione opera-

ta, forse, all’epoca dei Gracchi. Nell’edilizia urbana si avverte il processo di romanizzazione, testimoniato ad esempio, da una enorme platea in opera cementizia databile al II sec. a.C. e che si impone quasi come una quinta architettonica su cui poggiavano edifici sacri. Divenuta municipium nel I sec. a.C., fu retta da quattuorviri ed assegnata alla tribù Pomptina. Volcei fu ridisegnata con un reticolo viario disposto a spina di pesce, ai lati di un asse est-ovest. Un evento tellurico di grande portata, testimoniato da un dato epigrafico (II sec. d.C.), segnò un nuovo riassetto della città riscontrabile nelle nuove costruzioni che variarono le funzioni e l’orientamento delle insulae preesistenti. Poco dopo la metà

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Buccino, Parco Archeologico Urbano dell’Antica Volcei. In alto: botteghe romane. In basso: isolato del tempio, particolare di una pietra basamentale. Pagina successiva. In alto: area sacra di Santo Stefano, terrazza inferiore. Al centro: tratto di mura lucane. In basso: veduta del castello.

del secolo, nel 162 Bruttia Crispina, la figlia di un senatore d’origine volceiana, sposò Lucio Commodo che diventerà imperatore nel 180. Ulteriori iscrizioni costantiniane relative a documenti catastali testimoniano che in pieno IV sec. d.C., Volcei, nonostante la profonda crisi di tutta la penisola italiana, controllava un territorio ad economia agricola entro cui gravitavano molti insediamenti. Tra il V ed il VII sec. si nota invece una contrazione del nucleo cittadino. Le attività si concentravano intorno al decumano ed agli edifici pubblici. In generale è evidente una riutilizzazione degli ambienti, ridotti e adibiti a nuove funzioni. Anche le estese fattorie a valle documentano una

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minore capacità produttiva. Nel corso del XII sec., ”…con la costruzione del mastio del castello, si avvia una nuova organizzazione dello spazio urbano con edifici che impiantandosi su fondazioni e sostruzioni antiche ne conservano, generalmente, gli orientamenti” (A. Lagi). Dopo queste rapide ma necessarie premesse, il nostro percorso, a piedi, inizia da via Egito, in direzione dell’attuale Porta San Mauro, dove è possibile scorgere un tratto della cinta muraria d’età Lucana realizzata, per motivi strategici, tramite due paramenti riempiti da terreno e pietre. Sul circuito delle mura antiche, si innesta quello medievale che ne ricalca il percorso, aggiungendo due torri circolari. Al limite estre-

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Buccino, Parco Archeologico Urbano dell’Antica Volcei. In alto: area sacra di Santo Stefano, sala del banchetto, mosaico. In basso: ambre figurate. Pagina successiva. Corredo della tomba degli Ori.

mo è ubicata Porta Sant’Elia che sembra protetta da una torre, non più visibile in quanto inglobata nelle costruzioni più recenti. Percorrendo via Egito incontriamo un complesso rupestre ed i resti di altri edifici antichi, individuati sulla scorta di indicazioni fornite dall’erudito Bartolomeo Bardaro. Nel 1589 annotava: ”...Ruine de’ terremoti che furono al tempo del nostro papa Callisto”. Qui era collocato tra l’altro il teatro romano. Un terrazzamento su tre livelli, tra il VI e VII sec., divenne, mediante lo scavo di grotte al suo interno, ricovero di uomini ed animali, del tutto simile ai Sassi di Matera. È molto probabile che le spelonche abbiano ospitato monaci orientali e bizantini, se teniamo conto della presenza documentata dalle fonti, sul medesimo versante della collina, della chiesa di Santo Spirito e di San Giovanni d’Egitto. Sul decumano sono state individuate strutture relative a tabernae, mentre a via Vona alcuni ambienti terranei hanno restituito i pavimenti musivi di un monumento pubblico d’epoca tardo repubblicana. Un imponente edificio, strutturato in tre navate e databile tra il I ed il II sec. d.C. con ampie tracce di rifacimenti posteriori, è visibile in via Canali. Interessante risulta l’esedra dalle pareti rivestite con lastre marmoree, mentre l’aula centrale evidenzia nel mosaico policromo del pavimento, la figura di Eracle

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stante, in mezzo ad un prato, munito di leontè (la pelle del leone) e di clava. Il confronto dell’impianto con uno simile in Calabria, rende plausibile l’ipotesi relativa alla funzione curiale. Sull’area della attuale piazza Amendola, individuata quale foro di Volcei, la ricerca ha messo in luce ambienti afferenti ad un’insula del I sec. d.C. con rifacimenti attestati entro la prima metà del IV. All’età tardo repubblicana si data invece, il piccolo tempio a podio, in via Santo Spirito di cui rimane in vista il basamento litico, innestato su una cornice fortemente aggettante. Un’iscrizione del II sec. d.C., vergata su un architrave oggi nel chiostro del convento degli Eremitani di Sant’Agostino, allude a lavori di restauro nel Caesareum che potrebbe essere identificato con il tempietto di via Santo Spirito. Su di esso, si innesta, nel Medioevo, una chiesa con un piano pavimentale in cocciopesto, che conserva l’impronta di una vasca circolare forse pertinente ad un fonte battesimale per il rito ad immersione. L’area archeologica di Santo Stefano è invece situata lungo le pendici nord-orientali della collina. Intorno al IV sec. a.C. viene eretto un enorme complesso architettonico, distrutto verso la metà del secolo successivo. Tra le notevoli evidenze in vista, interessante risulta la sala da banchetto sul


In questa pagina e in quella successiva. Battistero di San Giovanni in Fonte.

terrazzo superiore, per il piano pavimentale dal ricco mosaico con il motivo centrale della stella a sei punte in opus signinum (cocciopesto) e quattro delfini angolari. La presenza dei letti triclinari avvalora l’ipotesi di una funzione rituale dell’ambiente su cui si impianterà, in seguito, una villa rustica. Sulla terrazza inferiore pozzi e fosse entro un temenos (recinto sacro), unitamente ad altri elementi, fanno ipotizzare che questa parte del santuario potesse in qualche modo essere legata al culto di Mefite, la dea dell’acqua, ”…la

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mediatrice tra il cielo, la terra e il mondo sotterraneo… presente nell’area sacra di Buccino come in vicini santuari, quale quello di Macchia di Rossano di Vaglio” (A. Lagi). All’interno del muro del temenos, tra la fine del IV ed i primi anni del III sec. a.C. fu edificata una tomba a camera che ha restituito un corredo ricchissimo per qualità e quantità degli oggetti tanto preziosi da farla definire tomba degli Ori: vasi in bronzo e d’argento, orecchini, un bracciale e un anello in oro con una corniola incisa, ceramica a vernice nera

sovradipinta, nonché oggetti per la cura personale. Riprendendo l’autostrada in direzione di Reggio Calabria, una piccola pausa al Battistero di San Giovanni in Fonte, nei pressi della Certosa di Padula, consente di rivivere l’esperienza dello storico Flavio Cassiodoro. In una missiva all’imperatore Teodorico, accennando alla fonte Leucothea, identificata in seguito con il locus del battistero, affermò che le acque sorgive erano talmente trasparenti da farla apparire vuota. Il complesso fu fondato probabilmente

su un sacello preesistente, da papa Marcello I nel corso del IV sec. Il fonte battesimale di forma quadrangolare ha uno sviluppo ottagonale in elevato su cui in origine si innestava una volta a vela. L’acqua affluisce dalla sorgente alla vasca mediante una apertura ricavata entro una parete bassa che conferisce all’ambiente un’aura di grande suggestione. Altre due aperture consentono alle acque lustrali di defluire verso l’esterno in un piccolo canale che racchiude - quasi una sorta di isola felice tutto il monumento. Frammenti di

affreschi dei secoli XI e XII, ora staccati (per ragioni di sicurezza), hanno resistito sulle pareti, all’ombra di quella vegetazione selvatica resa florida dall’umidità costante del luogo. Concordiamo con la giornalista Erminia Pellecchia: le rovine conservano ”…quell’aspetto romantico, pittorescamente decadente che incantò i viaggiatori del Grand Tour”. Noi novelli curiosi abbiamo un tempo altro che a tratti si ferma e ci meraviglia: la captatio dell’arte o piuttosto la fervida coniugazione tra naturale ed umano?


La città di Parmenide Velia

Per buona parte dell’Ottocento, gli esponenti dell’Europa colta ed aristocratica, nel loro viaggio romantico in Italia, alla ricerca di paesaggi pittoreschi e di visioni suggestive, giunti in Campania, non proseguivano oltre Paestum. A quel tempo, la Sicilia si raggiungeva più comodamente via mare, salpando da Napoli. Le motivazioni addotte dagli studiosi sono sostanzialmente due: la presenza delle paludi malariche ed i briganti. Possono essere state queste le uniche ragioni a far scivolare nelle nebbie dell’oblio, Elea/Velia, dove aveva soggiornato Cicerone presso l’amico Trebazio o luogo di riposo di Bruto che vi possedeva una villa? È pur vero che gli unici avanzi ancora in vista, non altrettanto grandiosi, furono riconosciuti solo nei primi anni del XIX sec. A metà del Settecento Winckelmann, si era spinto fino alla piana di Poseidonia, al contrario dell’anonima viaggiatrice inglese che intorno alla metà del secolo successivo, immaginerà di vedere, dalle propaggini dei monti di Vietri “le colonne venerande” dei templi pestani, rosseggiare al tramonto. La storia e la fama di Elea però, erano ben note alla cultura erudita e classica del vecchio continente… I viaggiatori pertanto fino alle soglie di tempi recenti non hanno ammirato “...le rovine della città

antica che si presentano come gemme incastonate sui pendii verdeggianti della collina che, posta sul margine settentrionale dell’attuale comune di Ascea attrasse, a metà del VI secolo a.C… i Greci che provenivano da Focea città dell’Asia Minore” (G. Tocco). Erodoto di Alicarnasso ci narra di quei Focei che abbandonata la loro terra per sfuggire ai Persiani dopo varie peripezie “…acquistarono una città della terra Enotria, questa che ora si chiama Yele”. Nel V sec., attivò contatti culturali e politici con Atene. Era l’epoca in cui il filosofo Parmenide, nativo di Elea, aveva fondato la celebre scuola filosofica di cui parlano le fonti antiche e che ebbe un peso determinante sulla genesi del pensiero moderno. Elea è citata dai letterati quale stazione di cura: Plinio loda le virtù terapeutiche di un’erba, l’elleboro, che poteva essere raccolta all’ombra dei suoi ulivi. Se gli archeologi non concordano ancora circa la presenza di una vera scuola medica eleatica, tuttavia, in loco è ben attestato il culto ad Asclepio, il dio della medicina ed inoltre va sottolineato il ritrovamento di numerose statue con iscrizioni allusive alla professione medica dei personaggi ritratti. Del resto, non bisogna dimenticare che, secoli dopo, nel Medioevo, a Salerno, fu fondata la

celeberrima Scuola Medica Salernitana, forse retaggio di quella più antica. La colonia focea, nel corso della sua storia fu città di primo piano non solo in ambito magno greco, ma anche mediterraneo. Municipium nell’88 a.C. conservò il diritto di coniare la propria moneta e di usare la lingua greca durante le cerimonie ufficiali. Alcune concause naturali ed economiche quali il lento insabbiamento del porto e l’arrivo di prodotti da altri empori coloniali dell’esteso impero romano, segnarono l’irreversibile declino di Velia. A fasi alterne, durante il Medioevo, l’insediamento si arroccherà sul promontorio dell’acropoli, dal momento che la fertile pianura sottostante, al pari della distesa di Poseidonia, era divenuta paludosa e malsana. La nostra escursione può seguire percorsi diversificati: salire prima sulla torre angioina posta sull’acropoli e godere lo spettacolo del paesaggio fruendo di una visione panoramica del territorio sottostante, oppure iniziare da Porta Marina Sud, dove un tempo era l’ingresso della città, dotato di mura fortificate e di una torre difensiva quadrangolare. L’accesso consentiva alle mercanzie di entrare o uscire dal centro diretti verso il porto, percorrendo via di Porta Marina Sud, un’ampia strada

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Ascea, Velia, Area Archeologica. Pagina precedente. Veduta dell’area archeologica. In questa pagina. In alto, a sinistra: cinta muraria a scacchiera. A destra: torre angioina con in primo piano il basamento del tempio.


Ascea, Velia, Area Archeologica. In alto: edificio termale. In basso: particolare del mosaico dell’edificio termale. Pagina successiva. L’arco di Porta Rosa.

lastricata, dotata di marciapiedi. A sinistra, vi sono abitazioni private; a destra, si fiancheggia un grande edificio augusteo in cui furono rinvenuti ritratti della famiglia imperiale. In base alle caratteristiche generali, l’edificio è stato ritenuto un Caesareum, dove si venerava l’imperatore ed era ospitato il collegio degli Augustali. Imboccando invece la via del Porto, si cammina lungo un tratto di mura databile al III sec. a.C. per la tecnica definita “a scacchiera”. Interessante è una domus ellenistica, dagli ambienti strutturati intorno alla vasca centrale per la raccolta delle acque pluviali. Risalendo via di Porta Rosa si intravedono le terme romane costruite nel II sec. d.C. Conservano il laconicum, l’ambiente ad alta temperatura, il frigidarium con la vasca sulla parete di fondo ed il pavimento in mosaico bicromo, campeggiato da delfini e tritoni. Lungo la ripida salita della strada che “...è una delle tante opere pubbliche di notevole impegno tecnico ed economico realizzate in città tra il IV ed il III secolo a.C.“ (G. Greco), sul lato destro, vi è una grande piazza circondata in antico da un porticato su tre lati. Ritenuta per molto tempo, l’agorà del centro greco, presenta sul lato meridionale una fontana monumentale. Quest’ultima si raccorda con tutto il sistema di canalizzazione e di

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Ascea, Velia, Antiquarium nella cappella palatina.

vaschette che raccogliendo l’acqua da una sorgente più alta, riforniva tutti quartieri più bassi della città. È molto probabile che il grandioso complesso interessasse tutte e tre le terrazze del vallone e la centralità dell’acqua sia da collegare verosimilmente a funzioni idroterapiche, caratteristiche tipiche di un Asklepeion, ovvero una struttura sacra legata ad Asclepio, il dio della medicina nell’Olimpo greco. Lo storico Plutarco ci riferisce che essendo Lucio Emilio Paolo (il conquistatore romano della Grecia) affetto da un malanno difficile da debellare, gli fu consigliato un soggiorno a Velia. Pare vi abbia trascorso un lungo periodo di riposo in una villa sulle sponde del Tirreno. In alto, alla fine della strada, la vista è attratta da un superbo arco dai conci in arenaria, disposti a secco a formare una volta a tutto sesto. È l’arco di Porta Rosa, preceduto dai “...ruderi di una porta che, nel punto più stretto della gola, chiude il transito tra i due quartieri, quello settentrionale a Nord del valico e quello meridionale, a Sud” (G. Greco). Siamo di fronte ad un capolavoro di ingegneria, realizzato nella seconda metà del IV sec.

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a.C., grazie ad un ingente sforzo umano e tecnico, sventrando la collina, e sistemando a terrazzamenti le pareti laterali mediante poderosi muri di contenimento. La sua funzione, in realtà era di collegare tra loro i due quartieri della città. Anche la strada sopra l’arco funge da raccordo tra l’acropoli ed i santuari. Nella scarpata meridionale dell’acropoli, si intravedono le abitazioni più antiche di tutta l’area. Risalgono alla fine del VI sec. a.C. sia per le caratteristiche edilizie che per la forma stessa delle case dotate di due o tre vani in tutto. Verosimilmente furono i primi Focei ad edificarle, organizzando sin dalla fondazione della città, una ripartizione razionale del territorio e del promontorio su cui impiantarono l’acropoli, il centro propulsore della vita pubblica e della sacralità. Il teatro che in generale, nel mondo greco era afferente all’aspetto divino, a Velia si presenta nella fase del rifacimento romano: la cavea a semicerchio, dotata di venti gradinate poggia su un terrapieno e sul declivio della collina. Poteva ospitare circa 2000 spettatori; fu utilizzato fino al V sec. d.C. Oltre il teatro, sulla terrazza superiore vi è l’area sacra da cui si rag-

giungeva il tempio del quale rimane il basamento e parte della cella inserita nella torre medioevale. La datazione del complesso oscilla tra il V sec. a.C. e l’età ellenistica. La divinità cui era dedicato è ancora ignota: l’ipotesi più accreditata rimanda ad Atena la cui effige è presente anche sulle monete della città. Su quanto rimaneva in piedi del tempio, nel Medioevo si innesta il castello, costruito con materiale degli edifici antichi, ormai in disuso. Tornando indietro verso il teatro, si può costeggiare la cinta muraria fortificata, costruita agli inizi del V sec. a.C. Scandita da torri d’età ellenistica si raccorda nel Castelluccio, una grande torre a pianta rettangolare, in posizione arretrata per la difesa delle retrovie. Percorrendo il sentiero di via Velia, accanto al bastione del Castelluccio, si incontrano altri quartieri abitativi ed un ulteriore edificio termale d’epoca tardo repubblicana, attivo fino al IV sec. d.C.; Velia divenuta modesto centro della compagine romana era stata tagliata fuori dalle grandi rotte marine e terrestri che avevano già da tempo destinazioni più esotiche e lontane.


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