Itinerari del Gusto

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Anno V II• N. 18 • 2005 • Ê 5,00 • Spedizione in a.p.- 45% - art. 2 comma 20/b legge 662/96 - Direzione Commerciale Campana

ANNO VII • N. 18 • 2005

ITINERARI ALLA SCOPERTA DELLA REGIONE

CAMPANIA FELIX


Tipicamente campani L’agroalimentare rappresenta uno dei settori trainanti dell’economia campana. Si basa su produzioni d’eccellenza che costituiscono - insieme al turismo - l’asse portante del cosiddetto Made in Campania. In questi anni c’è stato un attento recupero dei prodotti tipici di qualità, non solo per il loro valore commerciale, ma anche per il legame che essi esprimono con il territorio. Un modo intelligente, a mio avviso, di conoscere e far conoscere gli aspetti più autentici della cultura e della tradizione rurale della nostra regione attraverso la conoscenza dei nostri prodotti. Su questo stiamo lavorando insieme all’Unione Europea. Grazie a questa collaborazione, crescono i marchi collettivi che l’UE ha previsto a tutela delle produzioni tipiche campane di eccellenza. Oggi sono 13 le DOP/IGP registrate, mentre sono 30 i vini DOC e IGT, di cui tre, il Taurasi, il Fiano e il Greco di Tufo, sono DOCG. La Campania è inoltre la terza regione italiana per numero di prodotti tipici riconosciuti, ben 305, dal Ministero delle Politiche Agricole. Tutto ciò costituisce un patrimonio che l’Amministrazione regionale è impegnata a valorizzare. Lo facciamo attraverso un uso intelligente e mirato dei Fondi comunitari, lo facciamo attraverso iniziative che promuovono i prodotti delle nostre cinque province. Non c’è aspetto della nostra programmazione che non riguardi il settore agricolo e, all’interno di esso, i prodotti tipici, proponendo ai consumatori campani, italiani ed esteri le nostre eccellenze enogastronomiche. Abbiamo puntato in modo strategico sulla promozione dei vini e dei sapori, coniugandoli all’offerta turistica e culturale a carattere locale. Questa iniziativa editoriale intende offrire ai turisti interessati alle bellezze artistiche e paesaggistiche della nostra regione anche una descrizione dei giacimenti di sapori che troveranno nelle osterie e nelle fattorie che incontreranno nei loro viaggi. E vuole far conoscere in particolar modo ai cittadini della nostra regione prodotti spesso poco noti, ma che costituiscono la parte più importante della migliore tradizione enogastronomica mediterranea. Tra i tanti prodotti esistenti in Campania, l’individuazione di quelli trattati nella pubblicazione e dei relativi itinerari deriva dalla volontà di raccontare, all’interno delle cinque province, territori meno noti, fuori dai percorsi turistici usuali, e conseguentemente eccellenze gastronomiche minori, che necessitano di maggiore promozione verso i consumatori. Andrea Cozzolino Assessore regionale all’agricoltura e alle attività produttive


Numero speciale 13 itinerari alla ricerca del gusto

In questo numero parliamo di... prodotti tipici campani

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Una Natura generosa

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L’oro rosso è nato qui I doni del vulcano Editore, direttore editoriale e artistico Mariano Grieco

La signora in rosso

Direttore responsabile Dario Coviello Relazioni esterne Ersilia Ambrosino Testi: Teobaldo Fortunato Patrizia Giordano Mariano Grieco Foto: Alfio Giannotti/Photowork Archivio Altrastampa Editing: Mariachiara de Martino Progetto grafico Altrastampa Copertina: Composizione da La fruttivendola di Vincenzo Campi Frottage: Altrastampa Si ringrazia per la collaborazione: Michele Bianco, Maria Passari, Italo Santangelo, Emiddio de Franciscis, Antonino Di Gennaro, Assunta Di Mauro, Tommaso Maglione, Michele Manzo, Maurizio Cinque e Maria Raffaela Rizzo e inoltre: Angelo Coletta, Pantaleo De Luca, Giosuè De Simone, Tommaso De Simone, Fabrizio Di Giacomo, Carmine Fasolino, Gennaro Giaccio, Pasquale Imperato, Rocco Messere, Raffaele Schettino e ancora: Diocesi di Nocera-Sarno Soprintendenza Archeologica per le province di Salerno, Avellino, Benevento Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Napoletano Soprintendenza per i Beni Architettonici e il Paesaggio di Napoli e provincia Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Salerno, Avellino, Benevento

Realizzato con il contributo della Regione Campania Assessorato all’Agricoltura e alle Attività Produttive CAMPANIA FELIX® Direzione, redazione, amministrazione e pubblicità: telefax +39.081.5573808 www.campaniafelixonline.it Periodico registrato presso il Tribunale di Napoli n. 5281 del 18.2.2002 R.O.C. iscrizione n. 4394 anno VII, n. 18/2005

Una copia Ê 5,00 Sped. in a.p. 45% art. 2 comma 20/b legge 662/96 Direzione Commerciale Campana

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Dolcezze cilentane Sapore d’autunno Dedicati agli intenditori Nel piatto di tutti Bontà di maiale Sapori del passato per nuovi gusti Una storia antica Passione per la qualità I prodotti tipici DOP, IGP, STG Campani

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Introduzione

Pomodoro San Marzano dell’agro sarnese-nocerino DOP Pomodorino del piennolo del Vesuvio Albicocca vesuviana Melannurca campana Fico bianco del Cilento Castagna di Montella IGP Fiordilatte appennino meridionale Provolone del monaco Salame di Napoli Salame Mugnano del Cardinale Carne di bufalo campana Olio extravergine di oliva Colline beneventane Olio extravergine di oliva Sannio Caudino Telesino I loghi e le aree di produzione


Una Natura generosa

I viaggiatori stranieri che, all’epoca del Grand Tour, visitavano le nostre contrade, sfidando fatiche e perigli di diversa natura, briganti compresi, oltre a restare abbagliati dalla bellezza mozzafiato dei luoghi, ricchi di tracce del passato, rimanevano sempre molto colpiti dal nostro non “affaticarci troppo”; vedevano ovunque gente ben poco indaffarata, spesso stesa tranquillamente a godersi il tenero sole primaverile o la fresca brezza estiva e, forse per invidia (visto che in genere provenivano tutti da lande fredde e desolate dove se non lavori come ti riscaldi e come passi la giornata?), ci “appiopparono” la nomea di popolo pigro e scansafatiche, insomma il classico paradiso abitato dai diavoli. Solo quelli più attenti e sensibili, non fermandosi alla superfice dell’evidenza, cercavano di capire il perché di questo nostro non “affaticarci troppo” e come facessimo ad accoppiare il pranzo con la cena e a “sbarcare il lunario”. Poi si guardavano intorno e la risposta veniva loro spontanea. Eravamo circondati da una natura che oltre a essere meravigliosamente bella era anche benedetta, ricca, rigogliosa, generosa all’inverosimile, che stagione dopo stagione ci regalava i suoi frutti abbondanti e saporosi. Bastava allungare una mano per soddisfare l’appetito di una giornata per un’intera famiglia; poco lavoro per trasformare prodotti già buoni in delizie per il palato; un pizzico di fantasia, e quella non ci mancava e non ci manca certamente, per mettere insieme ingredienti anche poveri e farne uscire pietanze sopraffine la cui memoria si tramanda nei secoli giungendo intatta fino a noi. Ovviamente, non era proprio così; se la natura produceva tanti frutti lo doveva essenzialmente al lavoro dell’uomo che per secoli aveva dissodato, drenato, coltivato con amore e fatica questa terra. Ma che la natura di questa Campania felix fosse eccezionalmente generosa ne abbiamo la conferma anche dall’arte che da sempre ha ritratto e immortalato i suoi frutti nella loro infinita gamma di colori

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e sfumature: dalle antiche e sobrie pitture delle tombe pestane, passando per gli eleganti encausti pompeiani ricchi di cromatismo, fino agli esuberanti e spudorati trionfi barocchi di un Ruoppolo o di un Recco, al cui confronto le opere di uguale argomento di artisti di altre contrade evidenziano una mensa tristemente povera o il ripiegamento su altri soggetti da ritrarre, come gli strumenti musicali del Baschenis; per giungere alle minimali, quasi intimiste ma non meno rigogliose, nature morte ottocentesche di un Toma o di un Palizzi. E questo solo per citarne alcuni. Una varietà infinita di prodotti, alcuni dei quali unici per qualità e sapore, che con i nuovi criteri di valutazione si sono facilmente guadagnati con merito i marchi più prestigiosi, DOC, DOCG, IGP, DOP, affermandosi sui mercati più selet-

tivi nazionali ed esteri. Altri che, solo per il caparbio attaccamento alla tradizione contadina di alcuni produttori, si sono salvati dalla damnatio memoriae, sopravvivendo agli attacchi della globalizzazione, trasformandosi in preziose rarità, e adesso si chiamano prodotti di nicchia, capaci di scavare nei nostri ricordi infantili sapori dimenticati. Ogni stagione aveva i suoi frutti, solo quelli che madrenatura produceva in quel momento e, per poterne godere anche oltre, si sono affinate tecniche tramandate da sempre, di generazione in generazione. L’esigenza della conservazione di frutta e verdura, in tempi in cui non esistevano tecnologie di surgelamento e colture fuori stagione, ha portato allo sviluppo di un numero pressoché infinito di “ricette”, spesso differenti nelle diverse aree

della regione anche se basate sullo stesso prodotto, che prevedevano sistemi differenti di conservazione: sott’olio, sott’aceto, “in conserva”, o sotto forma di marmellate, succhi e confetture. Gli ingredienti erano dettati dalla disponibilità della materia prima, e quindi dal susseguirsi nelle stagioni dei vari raccolti; i conservanti e gli additivi utilizzati sono sempre stati solo le spezie, le erbe spontanee, l’aglio e il peperoncino, il finocchietto. La conservazione, infatti, veniva assicurata da mezzi naturali quali la sterilizzazione per calore, o per elevata concentrazione di zuccheri, o per la presenza dell’olio, o ancora per l’elevata acidità dovuta a una certa quantità di aceto. Alcune preparazioni, proprie di aree molto circoscritte, sono delle vere e proprie prelibatezze da riscoprire, altre sono patrimonio comune di tutte le famiglie campane, che

le preparano usualmente o le impiegano come ingredienti nella preparazione di piatti della locale tradizione gastronomica. L’elenco che qui riportiamo, non esaustivo, dà un’idea della ricchezza varietale che la nostra regione, nella sua storia, ha saputo esprimere e di come l’uomo si è adoperato per conservarla nel tempo. Aglio dell’Ufita, albicocca vesuviana, amarene appassite dei colli di San Pietro, arancia di Pagani, arancia di Sorrento, broccolo del Vallo di Diano, caldarroste in sciroppo e rum, cappella carciofo bianco, carciofo capuanella, carciofo di Castellammare, carciofo di Montoro, carciofo di Paestum, carciofo di Pertosa, carciofo di Pietrelcina, carciofo di Procida, cardone, carlentina, carosella, castagna del monte Faito, castagna del prete, castagna di Acerno, castagna di Serino, castagna paccuta, castagna tempestiva del vulcano di Roccamonfina, cavolfiore gigante di Napoli, cece di Cicerale, ciambot-

tella, cicoria selvatica, cicoria verde di Napoli, ciliegia del monte, ciliegia della recca, ciliegia di Bracigliano, ciliegia di Siano, ciliegia maiatica, ciliegia melella, ciliegia San Pasquale, cipolla bianca di Pompei, cipolla ramata di Montoro, cipollotto nocerino, fagioli lardari, fagioli quarantini, fagioli tabacchini, fagiolo dell’occhio, fagiolo di Controne, fagiolo di Villaricca, fagiolo striato del Vallo di Diano, fagiolo tondino bianco del Vallo di Diano, fava di Miliscola, fichi secchi con miele, fico bianco del Cilento, fico di San Mango, finocchio bianco palettone, finocchio di Sarno, giallona di Siano, kaki vaniglia napoletano, lenticchia di Valle Agricola, limone di Procida, limone di Amalfi, lupino gigante di Vairano, marrone di Roccadaspide, marrone di Santa Cristina, marrone di Scalamarzellina, marzoccamela, capodiciuccio, mela chianella, mela chichedda, mela limoncella, mela San Giovanni, mela sergente, mela tubbiona, mela zitella, melannurca campana, melanzana cima di viola, melone di Altavilla, melone napoletano, nocciola camponica, nocciola di San Giovanni, nocciola mortarella, nocciola riccia di Talanico, noce di Sorrento, noce malizia, noce San Martino, oliva caiazzara, oliva masciatica, olive pisciottane, schiacciate sott’olio, papaccelle, pappola, patata novella, peperoncini ripieni al tonno, peperoncini verdi o di fiume, peperoni quagliettani, pera del rosario, pera mastantuono, pera pennata, pera Sant’Anna, pera sorba, pera spadona di Salerno, pera spina, percoca col pizzo, percoca puteolana, percoca terzarola, pesca bellella di Melito, pesca bianca napoletana, peschiole, piselli cornetti, pomodori secchi sott’olio, pomodorino campano, pomodorino corbarino, pomodorino vesuviano, pomodoro di Sorrento, pomodoro spuniello, prugna coglipiecuri, risciola, saragolla, scarola bianca, riccia, schiana, speuta, susina botta a muro, susina marmulegna, susina pappacona, susina pazza, susina scarrafona, susina turcona, tartufo di Colliano, tartufo nero di Bagnoli Irpino, uva catalanesca, uva cornicella, zucca napoletana. Un patrimonio di memoria, di storia, di natura: un patrimonio da recuperare, salvare e gustare. Mariano Grieco

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L’oro rosso è nato qui

Pomodorodell’agro Sansarnese-nocerino Marzano DOP

Il pomodoro San Marzano dell’agro sarnese-nocerino testo: Teobaldo Fortunato foto: Alfio Giannotti e Archivio Altrastampa

Descrizione del prodotto Il pomodoro San Marzano - questo carnoso e succoso frutto che il mondo ci invidia - si presenta ai nostri occhi e al nostro palato con un sapore tipicamente agrodolce, la forma allungata, buccia e polpa di colore rosso vivo e di facile pelabilità. Queste sue caratteristiche, insieme alle proprietà chimico-fisiche, lo rendono inconfondibile, sia allo stato fresco che trasformato in “pelato”. Fattori concomitanti, quali il clima mediterraneo, il suolo fertile e di ottima struttura su cui cresce, l’abilità e l’esperienza acquisita nel corso dei decenni dagli agricoltori delle aree di produzione, hanno fatto guadagnare a questo gustosissimo prodotto, nel 1996, il riconoscimento dell’Unione Europea come DOP. Va specificato che la Denominazione di Origine Protetta designa esclusivamente il prodotto “pelato” (all’Unione Europea è in istruttoria la proposta del Consorzio di tutela di ammettere nel disciplinare, oltre

al “pelato intero”, anche la tipologia “pelato a filetti”), proveniente dalla lavorazione dei frutti appartenenti all’ecotipo San Marzano o a linee migliorate di esso. Cenni storici Il pomodoro, come è noto, è originario dell’America Centrale. In Europa fu

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introdotto nel Seicento, inizialmente nella sola Spagna, dove gli venne attribuito un mero valore ornamentale. Che esso fosse anche uno squisito alimento lo si scoprì solo successivamente, probabilmente non prima del XVIII secolo, quando cominciò a essere diffuso nei diversi paesi del Mediterraneo. Testimonianze della tradizione orale vogliono che il primo seme di pomodoro sia giunto in Italia intorno al 1770, come dono del Regno del Perù al Regno di Napoli e che esso sarebbe stato piantato proprio nella zona che corrisponde al comune di San Marzano. Nel tempo, attraverso varie azioni di selezione, il pomodoro avrebbe poi acquisito le caratteristiche dell’ecotipo attuale. Secondo altre testimonianze, tuttavia, solo nel 1902 si hanno prove certe della presenza, tra Nocera, San Marzano e Sarno, del famoso ecotipo. Delizia dei buongustai, profumo delle domeniche e delle feste comandate, colo-

rate dal rosso sugo che ricopriva il bianco della pasta di Gragnano e di Torre Annunziata, il San Marzano cominciò a essere particolarmente apprezzato dal punto di vista gastronomico proprio verso l’inizio del secolo scorso, quando, a opera di Francesco Cirio, sorsero le prime industrie conserviere per la produzione

del famoso “pelato” da salsa. L’“oro rosso” - per il valore economico che rivestiva per gli agricoltori dell’agro sarnese-nocerino - ha assistito, negli anni Ottanta, a una drastica riduzione della sua coltura sia per motivi fitosanitari che economici (questi ultimi riguardanti principalmente le specifiche tecniche di allevamento). Tuttavia, l’azione di recupero, di conservazione delle linee genetiche pure e di miglioramento avviata dalla Regione Campania e oggi consolidata dal Consorzio di tutela, ne ha consentito la salvaguardia e il suo rilancio su base internazionale.

Infatti, il pomodoro San Marzano DOP sta vivendo una nuova stagione di rinascita e oggi viene richiesto non solo in Europa e in America, ma anche in altri continenti, grazie anche al crescente successo della “dieta mediterranea”, di cui è ingrediente fondamentale. Area di produzione Il pomodoro San Marzano oggi si coltiva soprattutto nell’agro sarnese-nocerino, in provincia di Salerno, nell’acerrano-nolano e nell’area pompeiana-stabiese, in provincia di Napoli, e nel montorese, in provincia di Avellino.

Sul frutto maturo del solanum lycopersicum, meglio noto come pomodoro, ha pesato per decenni, se non per qualche secolo, a partire dalla seconda metà del XVI secolo, il macabro spauracchio delle pietanze dei paesi dell’America Centrale da cui i soldati, al seguito di Francisco Pizarro, lo importarono. Immaginate quale impressione possa aver suscitato il tremendo pasto rituale degli Aztechi, fatto di spezzatino umano, condito con pepe, rossa polpa di pomodori e infine aromatizzato con gigli triturati? È normale, pertanto, che se illustri studiosi del Cinquecento come Dodoneus o Mattioli discorrano dei rossi pomi in maniera elogiativa (“Sono queste schiacciate come le mele rosse e fatte a spicchi di colore prima verdi e, come sono mature in alcune piante, rosse come sangue e in altre color d’oro”), altri, nei paesi nordeuropei, come lo Zwinger, ancora alla fine del XVII secolo, lo definiscano malsano, poma amoris, aurea poma. Una pianta di cui diffidare nonostante l’aspetto elegante dei tralci sinuosi su cui si innestano foglie verdissime dai margini dentati e i fiori gialli a cinque petali che, al sole cocente dell’estate, si tramutano in frutti verdi, poco dopo colorati d’un rosso acceso e vermiglio. Ritenuta dotata di potenti doti afrodisiache, malefica e velenosa, fu in alcuni paesi della civilissima Europa coltivata sui terrazzi e nei giardini aristocratici, mentre nelle terre assolate della Campania, specialmente nelle pianure sottostanti il Vesuvio, prestissimo la felice fusione con i prodotti del grano e l’olio d’oliva nostrano, soprattutto tra le classi meno agiate, fugò le ombre sinistre dei rituali d’oltreoceano, relegandole in ricordi ancestrali e remoti. Eppure, ancora nel 1820, nello stato di New York, dove il pomodoro era da poco comparso sul mercato, la diffidenza regnava sovrana: il signor Robert Johnson, sprezzante del pericolo, ne mangiò uno crudo, davanti al tribunale: naturalmente, fu ritenuto fuori di senno e suicida! Ma, torniamo a casa... o meglio, in quel felice angolo della Campania felix che è l’antico Ager Nucerinus, dove da millenni civiltà diverse e culture altre si sono coniugate, grazie alla feracità del suolo, arricchito dai ciclici effluvi del vicinissimo vulcano e al lento fluire del fiume che lo solca: il mitico Sarno, che i Sarrasti elevarono a rango divino. Qui, gli aurei frutti, le nostrane pummarole attecchirono in maniera splendida, certamente favorite dal clima dolce e dalla terra ricca di minerali di origine vulcanica. Un ecotipo, il pomodoro San Marzano dell’agro sarnese-nocerino particolarmente buono e adatto ad accompagnare molte ricette - prese il nome, appunto, da uno dei paesi lambiti

In alto: la pianta del pomodoro in un erbario del XVIII secolo. Al centro: l’agro nocerino sarnese visto dal castello di Sarno. In basso: l’agro nocerino sarnese visto dal valico di Chiunzi.

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dal Sarno da dove inizia il nostro breve itinerario archeologico-monumentale ancorché storico. Centro agricolo e commerciale, San Marzano ha origini molto antiche: il ritrovamento di un’estesa necropoli, contraddistinta dalla presenza di numerosissime deposizioni a semplice fossa terragna riferibili alla cosiddetta fossakultur, non lascia dubbi sulla frequentazione antropica della sua area già intorno alla metà del IX secolo a.C. Queste tombe, inquadrabili nell’età del Ferro, sono legate a quelle popolazioni autoctone che la tradizione definisce Sarrasthes, legate a un’economia essenzialmente agricola, di pastorizia e commerci, mediante la naturale via fluviale. La caratteristica peculia-

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re delle deposizioni più antiche databili fino al primo quarto dell’VIII secolo, è la presenza di corredi funerari omogenei sia per ciò che riguarda le tombe maschili che quelle femminili: accanto a ceramica di produzione locale e d’importazione greca, compaiono armi, fibule di bronzo, scodelle, olle fittili, tazze-attingitoi e oggetti ornamentali, quali collane composte da vaghi d’ambra, di pasta vitrea e fajence, oppure strumenti connessi alle attività peculiari del defunto. Tali elementi della cultura materiale, risalente alle epoche preclassiche, che interessarono il territorio cittadino, fino a qualche tempo fa erano esposte nelle vetrine di un Antiquarium, collocato nelle sale del Municipio, elegante edificio della seconda metà dell’Ottocento. Da San Marzano, spostandosi verso il monte Saro a nord, tra le montagne del subappennino Campano, si giunge a Sarno. La città prende il nome dal fiume omonimo che nasce da tre sorgenti differenti: rio Palazzo, Foce e Santa Marina. Anche il suo territorio fu popolato dai Sarrasti ricordati da Virgilio nell’Eneide e da Silio Italico. Accanto ai reperti protostorici, un posto di rilievo è occupato dal teatro ellenistico-romano, piccolo gioiello della fine del II secolo a.C., edificato in località Foce. Faceva sicuramente parte di un più antico santuario extraurbano, sorto sul declivio della collina, in evidente posizione scenografica, seguendo le tipologie costruttive tipiche dell’architettura ellenistica. Dal punto più alto della cavea dell’edificio scenico, la vista spazia sulla straordinaria pianura e sui raffinati sedili della proedria, dove prendevano posto i rappresentanti delle classi dominanti locali. Gli schienali, realizzati in tufo grigio nocerino, sono raccordati ai sedili mediante eleganti braccioli a zampa leonina o di sinuose sfingi. Di recente, sempre nel territorio di Sarno, in località Garitta, è venuta alla luce, al-

l’interno di una vasta necropoli antica, una stupenda tomba a cassa in lastre di tufo dipinte. Definita “del guerriero” dagli archeologi, in virtù del ciclo iconico raffigurato, è databile entro il IV secolo a.C. e raffigura, con accese varietà cromatiche, personaggi dell’aristocrazia sannitica e servi, tra numerose melagrane dal vivace colore rosso sanguigno. Il paese o piuttosto forse uno stanziamento, situato lungo la via Popilia (l’arteria viaria che in epoca antica congiungeva Capua con Reghion, l’attuale Reggio Calabria), prende una precisa configurazione urbanistica nell’alto Medioevo, intorno al castello

sulla collina dove si sviluppò il centro più antico documentato fino al 1400. Fu proprio la valle del Sarno, nel 533, il campo di battaglia dei Goti al comando di Teia, sconfitti definitivamente dalle truppe bizantine al seguito del generale Narsete; in questa pianura esiste un luogo chiamato Pozzo dei Goti perché qui furono gettati i molti cadaveri dei Goti caduti in combattimento. Successivamente, i Longobardi inglobarono il piccolo centro nel ducato beneventano; in seguito fu contea del principato di Salerno. Sia il castello che la città ebbero il periodo di massimo splendore

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Pagina precedente. In alto: Sarno, il teatro grecoromano. Al centro: Sarno, affreschi in Santa Maria della Foce. A sinistra: Sarno, ruderi della torre angioina. In basso: San Marzano, corredo funebre. In questa pagina. In alto: Sarno, lastra dipinta della “tomba del guerriero”. Al centro: Castel San Giorgio, resti del castello. In basso: Castel San Giorgio, Eremo di Santa Maria a Castello.


In alto: Castel San Giorgio, Congrega del Salvatore in località Aiello, Madonna di Loreto tra i Santi Sebastiano e Rocco, Leonardo Castellano. In basso: Siano, Chiesa dei Santi Sebastiano e Rocco, Madonna delle Grazie con le Anime Purganti, Costantino Desiderio. Pagina successiva. Etichette per confezioni di pelati, (da Pianeta Rosso, ed. Pacifico, 1997).

durante il XV secolo, grazie al conte Coppola che impiantò le prime “fabbriche” di carta e di lino lungo il corso del fiume, sfruttandone la forza idrica. L’uccisione del conte a causa del suo coinvolgimento nella Congiura dei Baroni, segnò una battuta d’arresto: il castello fu raso al suolo. Passò dunque la città di mano in mano, fino all’abolizione della feudalità, nel 1806. Risalgono alla prima metà del XIX secolo i grandi insediamenti industriali per la produzione tessile, promossi dai Borbone, finanziati da capitali stranieri, che daranno alla città un notevole impulso economico. Se del castello rimangono avanzi sia pur cospicui, quali la torre angioina (XIV secolo) e quella Orsini (XV secolo), integro è il Duomo di San Michele. Fondato nel 1066 a Episcopio, grande frazione di Sarno, fu la sede della diocesi, elevata da Alfano I. L’edificio fu più volte restaurato: il campanile risale al Medioevo, mentre la navata unica attuale è del 1627. Danneggiata dalla tremenda eruzione vesuviana del 1631, fu ricostruita alla fine del XVII secolo; il soffitto a cassettoni lignei e l’iconostasi videro l’inserimento di tele di Angelo Solimena. Da visitare sono altresì la Chiesa di Santa Maria della Foce, fondata, secondo la tradizione, da Guglielmo da Vercelli nel 1134. Frequenti eventi traumatici e naturali, eruzioni e terremoti, la danneggiarono più volte. L’aspetto attuale, nonostante i pesanti interventi di restauro del XX secolo, è databile intorno al Settecento. Interessanti sono gli affreschi rinvenuti durante gli anni Trenta negli ipogei, insieme alla presunta tomba di Gualtieri da Brienne, perito nel 1205 durante un assedio al castello. I cicli pittorici, ascrivibili al Trecento inoltrato, sono stati attribuiti a maestranze locali. Oltre ad altri interessanti edifici di culto, nel nucleo cittadino degne di nota sono alcune dimore storiche, oggi sedi di istituzioni pubbliche. Il barocco Palazzo Capua, un tempo Ungaro, ospiterà presto il Museo Archeologico della Valle del Sarno. La monumentale Villa Lanzara-Del Balzo, edificata alla fine dell’Ottocento, ospita da pochissimo tempo il Parco Regionale del Fiume Sarno. I due meravigliosi giardini, posti di fronte e sul retro del palazzo, sono impreziositi da essenze arboree mediterranee. La presenza, inoltre, di molti frammenti marmorei d’età imperiale e finte rovine architettoniche, conferisce a tutto il complesso una suggestiva aura romantica, sottolineata anche dagli insoliti pavimenti in tarsie marmoree con geroglifici egittizzanti in taluni ambienti del piano terra, provenienti da Palazzo Torlonia a Roma. Anche il Palazzo di Città merita una visita: costruito su progetto dell’architetto Curri, in stile neoclassico, fu ultimato nel 1889; nelle sue sale sono conservate una Natività di Angiolillo Arcuccio e una tela raffigurante la città di Sarno. In piazza Municipio svetta, inoltre, il monumento all’eroe Mariano Abignente, uno dei partecipanti alla vittoriosa disfida di Barletta, nativo di Sarno come anche lo scultore Giovanbattista Amendola che ultimò la scultura nel 1893.

Attraverso il “passo dell’Orco” a oriente, seguendo un tratto della via Popilia, si giunge nel territorio di Castel San Giorgio dove, a mezza costa, nella frazione Cappella di Paterno, sono stati individuati i resti di ville rustiche d’età repubblicana. La vocazione agricola del paese è confermata dal palazzo barocco dei baroni de’ Conciliis, ancora lungi da essere restaurato, ma che mostra tuttora la sua struttura di masseria fortificata. Sulla vetta del monte Sant’Apollinare si intravedono i resti litici di un santuario extraurbano d’età ellenistica, accanto alla fortificazione di Santa Maria a Castello. Voluta dal principe Arechi intorno al 760, costituì per secoli un’autentica barriera difensiva contro le frequenti incursioni dei Saraceni. Successivamente, il complesso fu trasformato in eremo e la chiesa passò sotto la giurisdizione del Convento di Materdomini a Nocera Superiore. Sulla cima della collina di Montecastello, vi sono, invece, gli avanzi del mastio di Castel San Giorgio, appartenuto già nel 1087 a Roberto de Cripta, signore dei luoghi. La costruzione di una torre rotonda in epoca aragonese rappresentò l’adeguamento del castrum alle nuove esigenze militari e difensive. Alle pendici furono costruiti, tra il XVII e il XVIII secolo, numerosi palazzi nobiliari che sfruttarono il naturale declivio per impiantare agrumeti e giardini su piani terrazzati.

Nella frazione di Lanzara, un esempio illustre è costituito da Palazzo Calvanese, recentemente restaurato. Nonostante sia stato privato delle decorazioni barocche che sovrastavano balconi e finestre, conserva tuttavia intatto il disegno calligrafico e originario del giardino posteriore. Proseguendo ancora a oriente, sempre seguendo antiche strade, verso Siano, ci soffermiamo nella Chiesa del Salvatore, ad Aiello, altro nucleo di Castel San Giorgio. Ad attirare l’attenzione è un’imponente “macchina” lignea dipinta che contiene una stupenda e maestosa Madonna di Loreto tra San Rocco e San Sebastiano. Datata al 1588, è stata attribuita al pittore partenopeo Leonardo Castellano. Poco oltre, la valle di Siano “(...) si presenta allo sguardo con il fascino del verde intenso dei suoi folti castagneti e dei nocciuoli”. Una passeggiata nel bosco Borbone, tra roverelle e ginestre dei carbonai, felci e mirti, ad ammirare gli imponenti resti litici dei Regi Lagni, rinfranca dalla calura estiva. Nel centro storico, posto più a valle, nelle chiese dedicate ai Santi Sebastiano e Rocco e all’Annunziata troviamo autentiche opere d’arte. Nella prima, la cui facciata è di impronta neoclassica, sull’altare maggiore campeggia il dipinto della Vergine in gloria tra i due santi. L’opera, datata al 1794, è firmata dal pittore napoletano Michelangelo Iannacci. All’interno della chiesa, rimangono inol-

tre due dipinti di Costantino Desiderio, un pittore nativo di Angri: la Madonna delle Grazie e un Sant’Antonio da Padova con Madonna e Bambino; entrambe le tele sono del 1794. Più suggestivo resta, però, per la sua forza evocativa, l’affresco distaccato dalla cappellina ipogea dell’Annunziata e rimontato su tela, che raffigura Santa Maria della Consolazione tra San Rocco e San Sebastiano. Attualmente è stato sistemato nella Cappella del Battesimo, all’interno della moderna e omonima chiesa parrocchiale. Inquadrabile cronologicamente entro il XV secolo, l’affresco era parte integrante di un ciclo pittorico più ampio connotato da grande freschezza compositiva e cromatica. Di cromìa ben differente, meno raffinata forse ma certamente accattivante, risultano essere le tante etichette create da quando si è sviluppata l’industria di trasformazione, destinate a fasciare e decorare i barattoli metallici, le nostrane buatte, dei pomodori pelati. Destinati al consumo interno o esportati verso i mercati internazionali convertiti ormai alla dieta mediterranea in cui la pasta c’ ‘a pummarola non può mancare, il pomodoro pelato di San Marzano e la sua trasformazione, sono un pilastro dell’economia di questo territorio che, oltre a un giusto sviluppo sociale, meriterebbe di vedere meglio valorizzate le tante memorie storiche in esso esistenti.

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Albicocca vesuviana

del Vesuvio

Pomodorino del piennolo

Descrizione del prodotto Il pomodorino del piennolo, cioè del “pendolo”, è una caratteristica e pregiata varietà di pomodoro tutta nostrana Non dall’irrigazione, bensì dalla natura del terreno vulcanico e dal generoso sole partenopeo questo frutto trae i massimi benefici per nascere e crescere. Naturalmente, non vanno trascurati l’attento lavoro e le premurose cure degli

che le bacche non tocchino il suolo e i frutti, ricevendo i raggi del sole in maniera uniforme, possano colorarsi di quel rosso ardente che li contraddistingue. Il pomodorino si presenta di forma tondeggiante, leggermente pruniforme, con all’estremità inferiore un piccolo pizzo e, sull’altra estremità, alcune depressioni. La buccia è spessa, la polpa soda e compatta; il tipico sapore dolce-acidulo è

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dovuto alla concentrazione di zuccheri e sali minerali. I pomodorini si conservano, appunto, in piennoli: i grappoli, raccolti

sfumato o punteggiato sulla buccia giallo-aranciata. La maggior parte dei frutti è destinata al consumo fresco; una quota variabile viene, invece, trasformata in nettari (succo e polpa), una piccola parte viene utilizzata per la preparazione di confetture, marmellate, prodotti essicca-

cia spinosa e Portici. La coltivazione interessa tutta l’area vesuviana, data la particolare fertilità dei terreni che, essendo di natura vulcanica, sono naturalmente ricchi di minerali e, in particolare, di potassio, noto per la sua benevola influenza sulla qualità organolettica dei frutti e dei vegetali in genere e che, in questo caso, accentua il già gradevole e caratteristico sapore delle dorate albicocche. Pur nella loro varietà, la maggior parte di questi frutti è a maturazione precoce, e la raccolta si effettua verso la metà di giugno. Sono apprezzate su tutti i mercati italiani per la loro dolcezza e delicatezza e per il loro irresistibile profumo. Presentano spesso un sovracolore rosso

ti, canditi e, infine, una minima quantità viene trasformata in prodotti sciroppati o surgelati.

diffuso, dopo il fico, nel napoletano, in particolare nella zona vesuviana, “dove viene meglio che altrove e più maniere se ne contano, differenti nelle frutta (...)”.

Cenni storici Una delle prime testimonianze certe della presenza di albicocchi in Campania è data da Gian Battista Della Porta, scienziato e letterato napoletano che, nel Suae Villae Pomarium del 1583, distingue due tipi di albicocche: bericocche e crisommole. Quest’ultimo termine è ancora in uso e avrebbe dato origine alle crisomele alessandrine, tuttora presenti nella zona vesuviana. Nel Breve ragguaglio dell’agricoltura e pastorizia del Regno di Napoli, del 1845, si parla dell’albicocco come dell’albero più

Area di produzione La produzione di albicocche interessa diverse aree della provincia di Napoli, in particolare i comuni vesuviani di Boscoreale, Boscotrecase, Cercola, Ercolano, Massa di Somma, Ottaviano, Pollena Trocchia, Portici, Sant’Anastasia, San Giorgio a Cremano, San Sebastiano al Vesuvio, San Giuseppe Vesuviano, Somma Vesuviana, Terzigno, Trecase, Torre Annunziata, Torre del Greco e Nola.

prima della completa maturazione (solitamente tra luglio e agosto), vengono sistemati su un filo di canapa legato a cerchio, così da comporre un unico grande grappolo che va tenuto sospeso da terra in luogo asciutto e ventilato. Il pregio di questo pomodorino è anche il suo sapersi conservare in modo naturale per lungo tempo (quasi un anno), grazie proprio alla sua buccia spessa che limita molto la disidratazione dello stesso. Cenni storici Venuto dalle lontane Americhe, il pomodoro, nelle sue molteplici varietà, attecchì in maniera sorprendente nelle terre campane. Il nostrano pomodorino del piennolo in particolare, ha trovato nella zona del napoletano il suo habitat ideale, crescendo sui terreni più impervi delle pendici vesuviane. Complice il clima mite, il sole, la fertilità del suolo, questo prezioso dono della terra ha saputo, poi, ben allignare e prosperare. Protagonista indiscusso delle nostre tavole, il pomodorino del piennolo è ormai ingrediente essenziale di molti piatti tipici napoletani.

agricoltori. Le tecniche tradizionali di coltivazione prevedono l’ausilio di sostegni con paletti di legno e filo di ferro, così

Descrizione del prodotto Con il termine “albicocca vesuviana” si indica un insieme di oltre quaranta biotipi diversi tra loro ma originari della stessa zona. I più diffusi sono: ceccona, palummella, San Castrese, vitillo, fracasso, pellecchiella, boccuccia liscia, boccuc-

Area di produzione L’area di produzione del pomodorino del piennolo interessa la maggior parte dei comuni del napoletano posti ai piedi del Vesuvio.

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I doni del vulcano Il pomodorino del piennolo del Vesuvio L’albicocca vesuviana testo: Mariano Grieco foto: Alfio Giannotti e Archivio Altrastampa

In questa pagina e in quella successiva. Ercolano, zona archeologica.

Quando nel 79 d.C. Sterminator Vesevo coprì con la sua mortifera coltre tutto il territorio circostante, forse non sapeva di rendere preziosi servigi all’umanità. Nello scrigno indurito dei fanghi, un tempo infuocati, e della cenere pietrificata si celarono tesori storici unici al mondo: Pompei, Ercolano, Stabia, Oplonti. Una terribile e affascinante istantanea fotografica del mondo romano, con la sua vita e la sua quotidianità. Con i suoi immensi tesori artistici, testimonianza dei frutti di una vita ricca e operosa. Ma prima che queste antiche città fossero ritrovate e portate alla luce, altri benefici aveva apportato al territorio quella drammatica eruzione. Come spesso succede, in natura dalla morte nasce la vita; quella stessa materia che aveva distrutto floride città e il loro territorio, nel corso dei secoli si era trasformata in fertilissimo suolo, grembo propizio per frutti che si nutrono del suo antico ardore. La leggenda racconta che Nostro Signore Gesù Cristo, vedendo le distruzioni e il

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dolore che il Vesuvio aveva provocato con la sua furia annientatrice, proruppe in un pietoso pianto; alcune lacrime caddero sulla terra vesuviana e dettero vita a un vitigno prezioso da cui si trasse un nettare divino, il Lacryma Christi. Chissà se oltre a quelle dolorose lacrime non cadde, su quello stesso territorio, anche qualche goccia del Suo Preziosissimo Sangue; altrimenti come si spiegherebbe la presenza di quel purpureo frutto della terra che è il pomodorino del piennolo del Vesuvio? Ricco di colore e sapore, al tempo della sua maturazione tinge di rosso fuoco, misto al verde brillante della pianta, i campi distesi al sole ai piedi del vulcano, dai quali trae la forza della sua memoria ardente. Pennellate dello stesso rosso colorano non solo i casolari circostanti ma si spandono per tutta la regione e anche oltre quando i pomodorini, raggruppati in grappoli, i piennoli, golosa e preziosa riserva di sapore, fanno bella mostra di sé sotto ombrosi porticati o appesi a balconi e finestre a maturarsi al sole. Per godere appieno del particolare sapore del pomodorino del piennolo vesuviano, basta schiacciarne qualcuno su una semplice fetta di pane: cibo da re. Oppure, soavemente sposato al basilico e all’olio extravergine di oliva, su di uno spaghetto al dente, miracoloso connubio di semplicità e gusto dal cromatismo che riporta alla memoria echi risorgimentali. E i piennoli stanno lì, pigramente sospesi, quasi gioielli, con la loro forma di enormi pendenti di pregiato corallo ad adornare un’antica e nobile matrona, la terra campana; ogni momento dell’anno è buono per stendere una mano e carpire questi piccoli scrigni di intense emozioni, crudi o cotti, a Natale o a ferragosto. Con il tempo il loro sapore muta, quel leggero retrogusto aspro, memoria dell’arido fuoco, si trasforma e sprigiona tutto il benefico effetto del sole che li ha per così lungo tempo accarezzati e baciati. Solo da tempi relativamente recenti il pomodorino ha colonizzato questo territorio, che la mano dell’uomo ha trasformato da landa resa inospitale dal Vesuvio in terra di delizie. E mentre gli scopritori delle Americhe, quelli che per primi avevano portato nella vecchia Europa quella strana pianta dai frutti color oro, il pomodoro appunto, discutevano animatamente sul possesso delle nuove terre scoperte, alle pendici del nostro vulcano già soggiornava e prosperava un altro frutto delizioso: una pepita di oro puro dalla pelle vellutata, l’albicocca vesuviana, la cui pianta aveva imparato a suggere da quell’aspra terra sostanze preziose, l’alimento da trasformare in nettare profumato. Che questo territorio fosse un luogo di delizie lo comprese appieno anche Carlo di Borbone, allorché decise di farsi costruire una reggia ai piedi del Vesuvio; e, all’incirca nello stesso periodo, durante alcuni lavori agricoli, venne scoperto un pozzo che, esplorato, permise di ritrovare l’antica e dimenticata Ercolano, sepolta dalla terribile eruzione. Ora di questa città sappiamo quasi tutto, anche della tragica fine che fecero i suoi abitanti,


ammassatisi nel porto nella speranza di trovare una via di fuga alla forza distruttrice e, invece, sommersi e pietrificati dalla valanga dei fanghi infuocati. I tesori riportati alla luce ci parlano di una città ricca e popolosa che aveva saputo accumulare nelle sue case i segni del suo benessere e della sua civiltà: mosaici meravigliosi, pitture, sculture, manufatti di ogni genere giunti fino a noi quasi intatti a testimonianza di una vita prosperosa. I lavori di scavo, iniziati da Carlo di Borbone, che fortemente li volle e spesso seguì personalmente, si protraggono ancora oggi portando continuamente allo scoperto nuove e importanti testimonianze storiche e artistiche. Ma la costruzione della reggia vesuviana a Portici, eletta a soggiorno reale, significò anche che tutti i nobili della corte, per essere sempre vicini al loro re, fecero a gara per erigere dimore sempre più belle coinvolgendo i migliori architetti del tempo, compreso il Vanvitelli. Su tutta la fascia costiera fino alle pendici del Vesuvio fu un febbrile fiorire di ville, casini di delizie, palazzi maestosi circondati da giardini d’incanto. Una gara di bellezza così agguerrita da trasformare quel territorio caratterizzato dal colore nero della lava pietrificata in un immenso scenario ricco di colori, tanto da essere successivamente definito il “Miglio d’Oro”. Di questa gloria passata restano molte tracce, alcune decisamente sconfortanti nel loro triste abbandono e nello stato di degrado in cui la stupida avidità umana li ha gettati. Altre, per fortuna, hanno resistito o sono ritornate agli antichi splendori grazie ad attenti lavori di recupero e restauro, facendoci rivivere atmosfere incantate. Nell’area di Ercolano, anticamente chiamata Resina e famosa anche per il suo pittoresco mercato degli abiti usati, sor-

gono alcune delle più belle ville vesuviane, come Villa Campolieto, in cui si rintraccia inconfondibile la mano geniale del Vanvitelli, Villa Favorita, realizzata su progetto di Ferdinando Fuga, lo stesso che realizzò, per volere di Carlo, l’immenso Albergo dei Poveri a Napoli; inoltre, Villa Ruggiero, Villa Signorini e altre ancora non tutte, però, preservate dall’umana ignoranza. Sempre a Ercolano sorge l’antico Santuario della Madonna di Pugliano, le cui testimonianze più antiche risalgono al secolo XI. Su di una balza del Vesuvio sorge l’Osservatorio Vesuviano, voluto da Ferdinando II di Borbone, che tuttora monitorizza i palpiti del gigante dormiente. Come antichi viaggiatori del Grand Tour, incamminandoci lungo il nastro carrozzabile che circonda le pendici del vulcano, incontriamo San Sebastiano al Vesuvio, in origine piccolo borgo contadino ma con un panorama mozzafiato sul golfo di Napoli. Divenuto centro di notevole dimensioni in epoche recenti, conserva ancora alcune dimore settecentesche, tra le quali Villa Figliola, bell’esempio di dimora rustica vesuviana. Poco distante Pollena Trocchia, nata dalla fusione dei due piccoli centri di Pollena e Trocchia, quest’ultima chiamata anticamente Latrocla. Qui, negli anni della sua permanenza napoletana, anni di grandi successi, veniva a villeggiare, e forse a ispirarsi, Gaetano Donizetti, bergamasco, ma che amava talmente Napoli da non volersene allontanare troppo neanche nei momenti di maggiore calura. Veniva quindi ospite nell’imponente palazzo dei Capece Minutolo duchi di San Valentino, che tuttora troneggia nella silenziosa piazza della cittadina. Tra alcune altre ville suburbane, da citare anche Villa Caracciolo di Torchiarolo. Ancora pochi chilometri e lo scenario del nostro interesse cambia. A Sant’Anastasia è il culto della Madonna dell’Arco a disegnare la storia del luogo, da quando il 4 aprile 1450 la sacra effigie compì il primo prodigio. Da allora, il lunedì in Albis, una miriade di penitenti, provenendo da ogni luogo, invade il santuario e letteralmente si trascina ai piedi della Madonna col Bambino, “’A mamma ’e l’Arco”. La Vergine dispensatrice di grazie, consolatrice di afflitti, la mamma di coloro che soffrono. Un

Pagina precedente. In alto: La Reggia di Portici, Giovan Battista Lusieri. In basso: Carlo di Borbone. In questa pagina. In alto: Ercolano, Santuario della Madonna di Pugliano, stole ricamate con l’effigie del Santuario e una eruzione del Vesuvio. Al centro: Pollena Trocchia, la lapide che ricorda il soggiorno di Gaetano Donizetti. Sotto: Sant’Anastasia, Santuario della Madonna dell’Arco.

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tempo dipinta in un’edicola sul muro esterno di una casa, questa sacra immagine, colpita con ira da una palla scagliata da un giocatore perdente, poi impiccato per il suo gesto blasfemo, iniziò a sanguinare. Almeno così narra la leggenda; da allora innanzi a essa fu un susseguirsi di pellegrinaggi devoti, attratti anche dalla pietà per la triste fine del giovane iracondo. E innumerevoli furono gli eventi miracolosi attribuiti alla Madonna dell’Arco, a cui testimonianza restano migliaia di preziosi ex-voto, dipinti prevalentemente su tavola, in cui sono rappresentati i prodigiosi interventi della Vergine col Bambino. Verso la fine del Cinquecento si iniziò la costruzione del santuario; su disegno di Giovanni Cola di Franco, nel 1854, alla elegante struttura della chiesa, sormontata da una slanciata cupola, fu aggiunto il campanile. Nell’interno, oltre alla mirabile raccolta di ex-voto, si possono ammirare alcuni dipinti giordaneschi e le tele degli altari laterali, opera di Antonio Sarnelli; la sacra icona è custodita in un tempietto edificato su progetto del Picchiatti al di sopra di un bell’altare in marmi commessi. Ma il vero fulcro di attrazione sono i “fuienti”, i devoti così chiamati per la loro abitudine di portare a spalla, di corsa, gli altarini devozionali in processione. Uno spettacolo che, al di là di qualsiasi considerazione, non può non essere particolarmente coinvolgente e sconvolgente. L’ultima tappa di questo viaggio alla ricerca del rosso pomodorino e della dorata albicocca ci porta a Somma Vesuviana, affacciata sulla fertile pianura dell’agro acerrano nolano. Al centro del monte Somma, a 500 metri, sulla dorsale settentrionale della montagna, sorge il Santuario della Madonna di

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Castello, centro della “festa della montagna” che cade il sabato in Albis, il “sabato dei fuochi”. Da quel giorno, fino al 3 maggio, paranze tradizionali accendono grandi falò lungo gli alti costoni del monte e poi scendono a valle e sfilano per le strade ballando e cantando. Fu don Carlo Carafa a far costruire il santuario nel 1622, probabilmente sui resti del vecchio castello normanno risalente all’XI secolo, di cui oggi resta soltanto una torre e un lato perimetrale. Da quel momento Somma Vesuviana da semplice locus si trasforma in castrum, in luogo strategico. Per le stesse ragioni, evidentemente, fu edificata la cinta muraria che circonda il Casamale, uno dei tre quartieri antichi di Somma insieme ai quartieri Margherita e Prigliano. Andando verso il Casamale ci si imbatte in quello che resta del Castello d’Alagno, luogo dove si ritirò Lucrezia d’Alagno nel 1456 alla morte del suo amato, il re Alfonso d’Aragona. Percorrendo questo breve tratto ci si può rendere conto di quanto l’intervento umano non razionale abbia spezzato l’armonia di un territorio. Il Casamale, che prende il nome da una nobile famiglia che vi dimorava, i Causamale, è circoscritto nel tracciato murario aragonese fatto di grossi blocchi di pietra vesuviana, intervallati da torri semicilindriche. Quattro gli accessi: Porta Terra o Porta San Pietro a nord, Porta Formosi o Porta Marina a ovest, Porta della Montagna o Porta del Castello a sud e Porta Piccioli o Porta Tutti i Santi a est. Varcate le mura del borgo, troviamo l’ingresso del Seminario dei Padri Trinitari, con la Chiesa delle Alcantarine, riconoscibile dalla cupola massiccia e l’alto campanile, un convento dove per duecento anni

si insediarono le monache carmelitane. Un borgo fatto di stretti passaggi voltati, di piccole case dall’architettura spontanea, di palazzi gentilizi, di giardini pensili, di piccoli balconi con decorazioni floreali in ferro battuto, di ambienti disposti intorno a cortili dove si possono ravvisare gli elementi essenziali della vita contadina. Nel cuore del borgo sorge la collegiata, la chiesa madre, in stile romanico, con il suo portale in piperno grigio lavorato con rilievi barocchi. Sul sagrato della collegiata si apre il portale di Palazzo Colletta. Il Casamale è un piccolo centro vivo di tradizioni che i suoi abitanti conservano e tramandano, di feste legate alla vita contadina, come la “festa delle lucerne”, un rito di ringraziamento per i frutti della terra. Lasciando il quartiere, oltrepassiamo il centro cittadino, la linea dei suoi antichi palazzi nobiliari, cercando un’altra via, facendo un altro percorso verso le masserie. Ne vediamo alcune: la masseria della Starza della Regina, il cui ingresso regge ancora lo stemma reale; la masseria dei Pellegrini, che custodisce un gigantesco torchio di legno; la masseria del duca di Salza, con il classico impianto a corte, con la colombaia, i cortili, le coperture a tetto e le terrazze, i cellai, le cantine immense con l’intero percorso del vino. Circondata dai frutteti sorge Santa Maria del Pozzo, antologia di stratificazioni storico-artistiche che vanno dal XIII al XVI secolo, nei cui cellai del giardino fu allestito un interessante Museo della Civiltà Contadina che ci parlava del duro lavoro di quelle genti che, per secoli, hanno coltivato queste aspre pendici del Vesuvio, traendone frutti meravigliosi come il pomodorino e l’albicocca, veri tesori di questo territorio. (Cfr.CFn.11/Is.,CFn.18/Is.,CFn.5/IIs.)

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Pagina precedente. In alto: Sant’Anastasia, Santuario della Madonna dell’Arco, i fuienti. A sinistra: l’altare della Madonna dell’Arco. Al centro e in basso: antichi ex-voto dipinti. In questa pagina. Somma Vesuviana, Complesso monumentale di Santa Maria del Pozzo.


La signora in rosso La melannurca campana e il suo territorio

Melannurca campana

testo: Mariano Grieco foto: Alfio Giannotti e Archivio Altrastampa

Descrizione del prodotto Definita la “regina delle mele” per le sue proprietà, la melannurca si caratterizza per la polpa croccante e compatta, gradevolmente acidula e profumata. Da sempre, rivendica virtù salutari: altamente nutritiva, ricca di fibre, diuretica, particolarmente adatta ai bambini perché, oltre tutto, frena la diarrea.

Elemento di tipicità che ne caratterizza la coltura è l’arrossamento a terra dei frutti nei cosiddetti “melai”, un tempo realizzati con strati di canapa, oggi sostituiti da aghi di pino, trucioli di legna e altri materiali. Le indubbie caratteristiche organolettiche di questa mela, apprezzate in particolar modo dai consumatori campani e laziali, stanno progressivamente conquistando altri mercati, grazie anche all’immissione nei canali della grande distribuzione organizzata. I due ecotipi, l’annurca e la diretta discendente annurca rossa del Sud, dalle comuni caratteristiche pomologiche, sono stati unificati sotto il titolo di melannurca campana, sia pure con due distinte indicazioni varietali. Cenni storici A testimoniare dell’antichissimo legame tra la melannurca e la sua terra d’elezione, la Campania, è la raffigurazione di questo frutto in numerosi dipinti rinvenuti nella Casa dei Cervi a Ercolano. Ciò significa che già in tempi remoti questa mela era particolarmente apprezzata. La mala orcula di Plinio diventa, nel Cinquecento, con lo scienziato e letterato napoletano Gian Battista Della Porta, nel Suae Villae Pomarium, l’orcola, volendosi riferire con questo termine proprio alle mele che si producevano a Pozzuoli, terra d’origine del prodotto. Da qui i nomi di anorcola e annorcola, utilizzati fino al 1876, quando il nome annurca compare ufficialmente in un famoso Manuale di Arboricoltura del tempo. Area di produzione L’annurca si coltiva in tutte le province campane, anche se le zone tradizionalmente interessate e in cui si concentra gran parte della produzione sono la giuglianese-flegrea nel napoletano, la maddalonese, l’aversana, la teanese e l’alto casertano nella provincia di Caserta, le valli Caudina, Telesina e il Taburno nel beneventano.

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Chissà se il pomo che Paride donò a Venere, eleggendola prima reginetta di bellezza della storia, provocando in questo modo le ire della ben più matura Giunone, che, tanto per vendicarsi, scatenò la lunga guerra di Troia cantata da Omero, chissà dicevamo se quel pomo era un antenato ellenico della nostrana melannurca campana. Questo frutto dall’apparenza modesta, un po’ imperfetto, dal colore non particolarmente brillante, senza blasoni televisivi, che per arrivare alla pienezza del suo sapore ha bisogno di riposare pigramente per lungo tempo su un letto morbido di paglia, aspettando pazientemente che una mano gentile la rivolti ogni tanto in modo che la sua abbronzatura, pardon, la sua “arrossatura” risulti uniforme. È talmente buono che se ne parla ed è raffigurato fin dall’antichità; dobbiamo quindi presupporre che già in tempi remoti se ne conoscessero e apprezzassero le sue qualità e il suo sapore leggermente acidulo che si sprigiona dalla croccante polpa bianchissima. È una mela antica, di oltre duemila anni; Plinio il Vecchio la fa nascere nelle terre dell’Orco, i Campi Flegrei, l’ingresso degli Inferi, quasi a sottolineare il suo gusto non banalmente accattivate, piuttosto scontroso ma deciso e sottilmente fascinoso. E proprio da questa terra ribollente dei Campi Flegrei parte il nostro viaggio alla ricerca dei territori di produzione della melannurca sparsi nella regione; lasciandoci alle spalle le località costiere più note, ricche di antiche vestigia e moderni scempi, per addentrarci nell’entroterra non toccato dal turismo di massa (leggi invasivo) nel quale la realtà agricola è ancora determinante. Lungo l’antica via Campana, attraverso la Montagna Spaccata, incontriamo Quarto. La montagna la spaccarono, cioè la tagliarono, i Romani costruendo possenti muraglioni in opus reticulatum per mantenerne le sponde, per far passare una strada, anticamente detta via Consularis Puteolis Capuam, che congiungesse più rapidamente e più comodamente, con le merci o con le legioni, la zona costiera, dove aveva sede la flotta, con la pianura campana e la via Appia verso Roma. Il toponimo di Quarto indica il quarto miglio romano, luogo di sosta e riposo per la truppa, a partire da Pozzuoli. Attualmente è un quartiere residenziale in continua espansione, ma conserva ancora vaste aree agricole sulle pendici dei colli vicini. Del suo passato conserva un interessante gruppo di mausolei funerari, alcuni a colombario, sparsi lungo il cosiddetto Piano di Quarto. Lungo la strada che si snoda verso la pianura, estremità verso il mare di quel territorio un tempo definito Campania felix,

superati i resti del Castello Monteleone ci dirigiamo verso Villaricca, chiamata anticamente Panecuocolo dal nome della casa di un panettiere, ma divenuto nel tempo sinonimo di un luogo lontano da raggiungere. Durante il ducato napoletano vi fu eretto un castello che, distrutto dai Pisani, fu ricostruito da Ruggiero il Normanno; ne rimane, comunque, solo la memoria. È invece molto interessante un dipinto raffigurante la Vergine col Bambino, di epoca trecentesca, sito nella chiesa parrocchiale. Immediatamente dopo, ma unito e senza una reale soluzione di continuità, sorge

In alto: Quarto, sepolcro romano a colombario. Al centro: la Montagna Spaccata in via Campana. In basso: Villaricca, chiesa parrocchiale.


Giugliano, uno dei centri ortofrutticoli più importanti del territorio, fondato forse dai Cumani o dai Liternesi; secondo la leggenda deve il suo nome a una villa rustica che Giulio Cesare possedeva in zona. Conserva interessanti testimonianze del suo passato di fiorente centro agricolo, una bella tavola di Angelillo Arcuccio nella Chiesa dell’Annunciata e, sempre dello stesso autore, un dipinto nella chiesetta di Santa Maria delle

Grazie. Da vedere la torre campanaria di Santa Sofia e Palazzo Colonna di Stigliano, nel cui interno si trovano gradevoli ambienti e un salone finemente affrescato. Appartiene a questo comune anche il Lago Patria, con la torre comunemente detta Castello di Annibale, ma in realtà costruita nel 1421 da Ferrante d’Aragona. Nel territorio giuglianese, in località Monte di Cuma, si trova la Torre Sanseverino, anticamente detta Casagen-

ziana, molto ben conservata. Ma la nostra melannurca ha trovato anche altri territori in cui dimorare e prosperare, per esempio in tutta la provincia di Caserta. Se ci dirigiamo, in particolare verso l’alto casertano, nella pianura lungo le falde del vulcano di Roccamonfina, incontriamo Caianello, dove su di un poggio vi sono i resti di un antico castello con la sua torre; nei pressi sorge una chiesa settecentesca di buona fattura. Nel 1734, durante il viaggio verso Napoli dove andava a prendere possesso del suo nuovo regno, Carlo di Borbone fece acquartierare a Caianello le sue truppe prima di entrare trionfalmente in città. Risalendo le pendici del vulcano, tra boschi di castagni e querce, troveremo Marzano Appio, che fu feudo di importanti famiglie nobiliari, dai Marino ai Mormile, e ancora i Gaetani, i d’Ambrosio e i Del Balzo. La cittadina è dominata dal castello medievale del quale si può ammirare ancora il portale posteriore e una scala a chiocciola originali, mentre il resto della struttura è stata rimaneggiata nel secolo XVII. Poco dopo, sul versante nordorientale del vulcano, si giunge a Conca della Campania, i cui primi abitanti furono gli Ausoni. Il luogo, che probabilmente ha preso il nome dalla posizione in cui sorge, nel secolo XI apparteneva all’Abbazia di Montecassino, teatro di molte schermaglie per il suo possesso. Dalla fine del Settecento appartenne alla famiglia degli Invitti con il titolo di principi di Conca. All’ingresso della cittadina è il castello, edificato forse prima del X secolo ma trasformato in dimora gentilizia nel Cinquecento; a quest’epoca appartiene il bel portale e un ciclo di affreschi. Lungo il principale asse viario prospettano la Collegiata di San Pietro e i palazzi Saraceno e Serao; quest’ultimo con un interessante portale catalano. Ridiscendendo verso la pianura e percorrendo la Casilina verso nord, quasi ai confini con il Lazio, in un paesaggio di monti aspri e pietrosi, incontriamo Mignano Montelungo, luogo carico di storia recente perché qui avvenne la prima battaglia del ricostituito esercito italiano dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943. I bombardamenti del 1944 danneggiarono gravemente il quattrocentesco castello, poi restaurato, appartenuto anche a Ettore Fieramosca. Interessante e toccante è la visita al Sacrario che conserva i resti dei caduti e cimeli della dura battaglia svoltasi nel freddo inverno del 1943, in cui i soldati italiani dettero prova di coraggio e abnegazione. Anche in altri territori la rossa annurca ha ritrovato il suo habitat ideale. Ad esempio nel beneventano, lungo la Valle di Maddaloni. Qui, lasciandoci alle spalle il maestoso acquedotto carolino, lungo la Statale 256 arriviamo a Dugenta, il cui nome deriva probabilmente dal latino duae gentes, in memoria della fusione tra la popolazione di origine romana e quella sannita. Nel castello, parzialmente crollato, fu imprigionato nel 1648 il duca di Guisa, erede degli Angiò di Napoli, reduce dallo sfortunato tentativo di riprendersi il Regno, costituendo la Serenissima Real Repubblica di Napoli. Nel 1860 il territo-

Pagina precedente. A sinistra, in alto e al centro: Giugliano, Chiesa di Santa Sofia, soffitto affrescato e interno. A destra, in alto: la torre campanaria. Al centro: la cosiddetta tomba di Scipione. In basso: il Lago Patria. A sinistra: la statua della Madonna della Pace. In questa pagina. In alto: Caianello, resti del castello. Al centro: Marzano Appio. In basso: Conca della Campania, il castello.


In alto, a sinistra: l’acquedotto carolino nella Valle di Maddaloni. A destra: Mignano Montelungo, particolare di una porta laterale del castello. Al centro, a sinistra: Mignano Montelungo, torre del castello. A destra: Dugenta, Palazzo Marotta. Pagina successiva. In alto: Sant’Agata de’ Goti, panorama. Sotto, a sinistra: Chiesa dell’Annunziata. A destra: Chiostro di San Francesco. Al centro e in basso a destra: Cattedrale dell’Assunta. A sinistra: Chiesa di S. M. di Costantinopoli

rio di Dugenta fu teatro di duri scontri tra l’esercito borbonico, che si ritirava verso Capua, e i garibaldini che avevano preso Napoli e stavano dando il colpo di grazia al regno dei Borbone. Interessanti risultano il vanvitelliano Palazzo Marotta e la settecentesca Chiesa dell’Annunziata. Risalendo le verdi pendici della collina, la strada ci porta a Sant’Agata de’ Goti, piccolo scrigno di bellezze, che deve il suo nome a una colonia di Goti che vi si insediarono nel V secolo d.C. La cittadina, provenendo dall’altissimo ponte sul torrente Martorano, appare come una muraglia unica, quasi un baluardo a strapiombo sul ciglio del torrente. Dominata dai Longobardi e successivamente dai Nor-

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manni, il centro fu sede vescovile dal X secolo e le vestigia del suo glorioso passato sono tuttora predominanti nel panorama cittadino, con stratificazioni evidenti che vanno dal periodo romano fino al Settecento inoltrato. Di grande interesse la Cattedrale dell’Assunta costruita, forse, intorno al 970 e sulla cui facciata è un elegante portico sorretto da dodici colonne corinzie di spoglio. L’interno, a pianta basilicale, è stato rimaneggiato nel XVIII secolo, ma conserva forme maestose, il pavimento musivo è quello originale altomedievale. Nel presbiterio sopraelevato è un ciclo di affreschi trecenteschi di autore ignoto ma di grande fascino; la cripta, preziosa testimonianza di epoca romanica, è ricca di colonne di spoglio con capitelli tardo-antichi, medievali e romanici con bassorilievi e animali mostruosi che ci dicono della sovrapposizione degli interventi, mentre le pareti sono decorate con interessanti affreschi trecenteschi. La chiesa conserva anche notevoli tele di autori settecenteschi, tra cui il Giaquinto. Altra chicca d’arte, la Chiesa di San Menna, eremita del VI secolo, il cui portico che precede la facciata conserva il portale romanico originario; nell’interno molte colonne di spoglio e un pavimento musivo di gran pregio, forse uno dei più

antichi dell’Italia meridionale. L’itinerario artistico prosegue con la Chiesa dell’Annunziata, fondata nel 1238 e modificata con linee gotiche nel XIV secolo che, all’interno, sono chiaramente leggibili nell’abside a costoloni. Molte sono le opere pittoriche custodite nella chiesa, tra cui un affresco del Giudizio Universale sulla controfacciata e altri nell’abside databili al Trecento e Quattrocento; non trascuriamo una tavola con l’Annunciazione, parte di un polittico, di mano di Angelillo Arcuccio. C’è anche il castello, con possenti archi ogivali nel cortile e un interessante affresco di Corrado Giaquinto al piano superiore. Altre chiese e palazzetti adornano questa cittadina nelle cui strade sembra di respirare ancora un’aria di altri tempi. Per concludere degnamente questo itinerario alla ricerca della melannurca non ci resta che comprarne qualche chilo: in questa zona i produttori le vendono lungo la strada e sono buonissime. Avremmo altri luoghi da raccontare dove la rossa signora, la melannurca, caratterizza fortemente il territorio, l’economia e il paesaggio stesso, come la zona aversana, il teanese, la valle dell’Irno, i Picentini, le falde del Vesuvio. Ma... spazio tiranno! (Cfr. CF n. 1/Is.)


Dolcezze cilentane Il fico bianco del Cilento, territorio e sapore

Fico bianco del Cilento

testo: Mariano Grieco foto: Alfio Giannotti e Archivio Altrastampa

Descrizione del prodotto Il rinomato fico bianco del Cilento è un ecotipo derivato dalla cultivar madre “dottato”, presente in tutto il Mezzogiorno d’Italia. Dal fico bianco si ricava un prodotto essiccato unico nel suo genere, molto pregiato e la cui bontà è apprezzata anche all’estero. Esso si presenta con buccia di colore giallo chiaro uniforme, oppure marrone chiaro qualora venga sottoposto a cottura, polpa di consistenza pastosa gialla ambrata, con acheni vuoti. I fichi essiccati vengono poi tradizionalmente farciti con mandorle, noci, nocciole, semi di finocchietto, bucce di agrumi (ingredienti spesso provenienti dalla stessa area di produzione), o ricoperti di cioccolato. Ma il fico non è solo una delizia per il palato, una mera golosità: per le sue note proprietà terapeutiche, esso viene utilizzato anche per preparati erboristici e in dietologia. Cenni storici Originaria dell’Arabia meridionale, la pianta di fico venne introdotta nel Cilento in un’epoca forse antecedente al VI secolo a.C., quando alcuni coloni greci qui scelsero di insediarsi, fondandovi diverse città. E già allora il fico essiccato e gli altri prodotti del territorio cilentano erano famosi e apprezzati, diventando strettamente identificativi dell’area stessa. Da millenni, infatti, le piante di fico hanno caratterizzato indelebilmente il paesaggio rurale campano, in particolare quello cilentano. Catone e Varrone, nei loro scritti, ci documentano che i fichi costituivano sovente la dieta quotidiana della manodopera impiegata nei campi di quelle zone. Nel Quaterno doganale delle marine del Cilento, della metà del Quattrocento, si legge di una fiorente attività di produzione e commercializzazione dei fichi secchi sui principali mercati italiani del tempo come cibo di pregio, quando venivano considerati vere e proprie leccornie, ricercatissime per rifornire i mercati più ricchi. Da “pane dei poveri”, il fico andò dunque trasformandosi in alimento “speciale”, da consumarsi in determinate ricorrenze, ad esempio il Natale, o in occasioni partico-

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lari. Eppure, esso ha sempre rappresentato non solo una notevole fonte di reddito, ma anche l’alimento base per le genti locali in difficili periodi storici, grazie all’abbondanza degli stessi e alla possibilità di conservarli grazie all’essiccazione. Che il Cilento sia patria eletta di questa bontà lo si deve alla fertilità del suolo, all’ottimo regime pluviometrico, all’azio-

ne mitigatrice del mare, fattori che rappresentano le ideali condizioni pedoclimatiche per la diffusione di questa pianta. Non vanno trascurati la semplicità di coltivazione, il pieno adattamento e la resistenza della specie stessa ad avversità fitopatologiche. Area di produzione L’area maggiormente dedita alla coltivazione del fico è, dunque, il Cilento, dalle colline litoranee di Agropoli fino al fiume Bussento e ai limiti meridionali della Campania. In totale, sono sessantotto i comuni della provincia di Salerno - interamente o parzialmente interessati facenti parte dell’area di produzione della DOP. Non va dimenticato che, oltre alla coltivazione, anche le fasi di essiccazione e lavorazione del prodotto si svolgono interamente nell’area di produzione, presso strutture agricole, in un armonico processo di interazione tra prodotto, uomo e ambiente.

“Non me ne importa un fico secco”, nel senso che mi interessa poco o quasi niente; “mettere quattro fichi in mano”, ovvero dare una mercede miserissima; “fare le nozze con i fichi secchi”, cioè un matrimonio particolarmente povero. Questi alcuni dei detti popolari legati al fico, dove traspare, anzi è lampante, la scarsa considerazione in cui era tenuto questo piccolo frutto. Un tempo, infatti, era cibo dei poveri, in quanto la sua diffusione spontanea su tutto il territorio campano ne permetteva la fruizione gratuita, o quasi, a tutti - poveri compresi -, comunque ricercato per il suo valore nutritivo derivante dagli zuccheri. Giunto nei nostri territori insieme ai colonizzatori greci, il fico, nella sua qualità bianca, ha ritrovato il suo habitat originario nel Cilento, terra aspra che dal limpido mare della costa si stende verso l’interno a contendere spazi ai monti. In questi luoghi ha prosperato; a lungo ha conteso il campo vitale con un altro abitante della zona, l’olivo, pervenendo infine a una coesistenza pacifica che ha magi-

stralmente disegnato e connotato il paesaggio e l’ambiente sociale. Come con molti altri frutti della terra, il previdente uomo dei campi, che doveva sottostare alla continua alternanza delle stagioni con le sue grandi abbondanze e le tragiche penurie, imparò a conservarlo, nel modo più semplice possibile, facendolo cioè essiccare al caldo sole cilentano. Steso su graticci di altrettanto povere canne. Ne derivò una leccornia, povera sì, ma di incomparabile sapore, ricercata già nelle epoche passate, oltre che per il suo gusto squisito, per le virtù balsamiche che se ne potevano trarre con infusi o altro. Nei nostri tempi, il suo consumo è prevalentemente confinato al periodo natalizio, quando, insieme ad altra frutta secca, arriva, con il nome di ciocioleria, sulle tavole di commensali già satolli che tuttavia, per golosità o per devozione, non si sottraggono al rito del fico secco. Ma anche nel corso dell’anno, se capita l’occasione, a quel piccolo sacchetto dolce dall’aspetto dimesso, quasi misero, ma

ricco di denso e intenso sapore, pochi riescono a sottrarsi, magari facendo uno strappo alla dieta. Un fico bianco del Cilento è sempre un piacere, altro che “quattro fichi secchi”! Dicevamo di questa terra morbidamente adagiata tra mare e monti, che inizia geograficamente dal corso del fiume Alento, che ne traccia storicamente il confine a nord, da cui il toponimo Cilento. Cis Elentum la chiamavano i Romani, cioè terra al di qua dell’Elento, antico nome del fiume. Alla lunga, splendida, e d’estate frequentatissima, costa che si affaccia su uno dei mari più puliti d’Italia, fanno da contraltare, all’interno, una miriade di piccoli centri, a volte borghi, nascosti tra i fitti boschi di castagno dei monti o circondati da ampi spazi occupati dalla gigantesca mole degli olivi pisciottani, sulle pendici delle dolci colline. Presente e costante nel territorio, il fico mostra qui i suoi esemplari più belli e secolari, da cui si colgono quei frutti che diventeranno puro godimento per il palato. Come antichi predoni barbareschi, andia-

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mo alla ricerca di questo tesoro partendo dal mare, da quel piccolo gioiello che è Agropoli. Dagli spalti del castello, la vista spazia sull’ampio territorio circostante e lontano sul mare, e forse per questa sua posizione strategica fu oggetto, nella storia, di aspre contese. Fondata presumibilmente dai Bizantini, nell’882 fu conquistata e a lungo dominata dai Saraceni che la tennero come base per le loro frequenti scorrerie lungo la costa. Riconquistata da principi normanni, divenne feudo, in seguito, di alcune importanti famiglie nobiliari quali i Sanseverino, i d’Aragona e i Sanfelice, la cui ultima baronessa,

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Luisa, fu una dei martiri della Repubblica Napoletana del 1799. La sua posizione arroccata, da cui deriva il nome (città alta), ha anche determinato il disegno dell’abitato: le strade e le case seguono l’andamento sinuoso della costa, dominata dalla mole del castello detto anche saraceno, trasformato nella forma attuale dagli Aragonesi. Il centro antico conserva quasi inalterato il suo fascino medievale, con alcuni tratti delle mura ancora visibili; al borgo si accede attraverso una porta preceduta da una lunga gradinata. Nelle immediate vicinanze sorge la Chiesa di Santa Maria di Costantinopoli, di origine seicentesca

ma più volte rimaneggiata. Della stessa epoca la Chiesa di Santa Maria delle Grazie; non molto distante, la Chiesa dei Santi Pietro e Paolo riporta alla memoria la leggenda secondo la quale San Paolo, nel suo viaggio verso Pozzuoli, approdò brevemente anche qui. Altra leggenda narra che San Francesco parlasse con i pesci proprio dal promontorio ove sorge l’omonimo convento. Ma qui anche la natura dà spettacolo: seguendo un selvaggio sentiero verso sud-ovest, si giunge a Punta Tresino e... si resta senza parole. Ricalchiamo le orme degli antichi abitanti della costa, quelli che in fuga dalle frequenti incursioni dei pirati saraceni costruivano i loro paesi lontano dal mare, o poco visibili dalla costa, in posizioni elevate e difendibili. Ci dirigiamo, dunque, verso l’interno del territorio cilentano incontrando Ogliastro Cilento, fondata, appunto, da agropolesi scampati ai corsari. La prima citazione risale al 1059 con il nome di Oleastrum, forse in riferimento agli olivi che la circondavano; un tempo c’era anche un castello, del quale

Pagina precedente. In alto: veduta di Agropoli. In basso, a sinistra: Agropoli, la porta. A destra: il castello. In questa pagina. In alto: Agropoli, il centro storico. Al centro, a sinistra: veduta di Ogliastro Cilento. A destra: Palazzo de Stefano. In basso: il Convento di San Leonardo.


In alto e al centro: Prignano Cilento, Chiesa di San Nicola. Pagina successiva. In alto e al centro: Torchiara, centro storico. Sotto e in basso: Laureana Cilento, reliquiari lignei nella Chiesa di Santa Maria del Paradiso, Palazzo Cagnano e chiostro del Convento di San Francesco.

oggi resta solo un torrione: qui ebbero inizio i moti del Cilento del 1848, duramente repressi dai Borbone. Degni di menzione il Convento di San Leonardo, situato su di una collina in posizione dominante e panoramica, la Chiesa di Santa Croce e i palazzi nobiliari de Stefano e de Falco, del XVI secolo, e Siniscalchi del XVII secolo; quest’ultimo era un casino di caccia della corte reale. Interessante una puntata verso le due frazioni di Eredita e Finocchito. A Ogliastro Cilento la coltivazione e la lavorazione del fico è parte integrante del territorio e della tradizione locale affondando le sue

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radici nella storia più lontana. Una deviazione della Statale 18 ci conduce a Prignano Cilento, conosciuta in età tardo-romana con il nome di Plinianus o Prinianus, forse da una proprietà che Plinio aveva da queste parti; nell’alto Medioevo era denominata Periniano. Certo è che la sua posizione, posta quasi a controllo di un’antica via di comunicazione tra la costa e l’interno, la rese appetibile a vari feudatari che se la contesero anche a colpi di scudi: tra quelli più noti Bernardino Rota, poeta e letterato del Cinquecento. La cittadina non ha perso la memoria delle sue origini, che sono evi-

denziate dalla Chiesa di San Nicola, edificata nel 1100 e modificata nelle forme attuali nel XVI secolo, conservando il campanile nelle forme originali del TreQuattrocento. Da vedere anche la torre campanaria, il palazzo marchesale e le molte cappelle qui disseminate. Da non perdere una passeggiata alla diga sull’Alento, che riserva paesaggi di notevole suggestione. Proseguendo verso sud lungo la Statale 18, un’altra deviazione ci porta ad attraversare Torchiara che una recente ricerca, poetica e suggestiva in verità, dice così chiamarsi da una “torre sempre illuminata dal sole”. Anche i suoi fondatori dovettero lasciare la località costiera da cui provenivano, forse Agropoli, per sfuggire agli instancabili corsari saraceni. Della leggendaria muraglia con sette torri costruita con il contributo delle famiglie più danarose non restano tracce né resti se non, forse, nella chiesa, posta quasi a vedetta sul fiume Tesene, nella cui sagoma sembra ravvisarsi quasi una fortezza, affiancata com’è da due torri, una delle quali divenuta campanile. Di un certo interesse il centro storico con molti portali in pietra locale, il palazzo baronale e il Palazzo Torre. Un’occhiata merita anche la frazione Copersito, per il suo centro storico e la Chiesa di Santa Barbara. Frequenti anche le passolare, tipiche costruzioni di origine contadina con i forni per essiccare i fichi, vera bontà del luogo. Ancora un piccolo tratto di Statale e giungiamo a Laureana Cilento, dove secondo la leggenda San Paolo, nel suo viaggio da Reggio a Pozzuoli, si fermò e convertì due fanciulle del posto in località Santa Maria dell’Acqua Santa, dove poi sorse la chiesa omonima, nelle vicinanze del Pozzo Sacro, da cui sgorgava un’acqua miracolosa. È invece certo che San Bernardino da Siena fondò il Convento di San Francesco, ponendolo in una posizione splendidamente panoramica. Numerose sono, sul territorio, le tracce del passato degne di interesse, come la citata Chiesa di San Francesco, nel cui interno troviamo ricche testimonianze artistiche che vanno dal XV al XVIII secolo, la Cappella dell’Annunziata del XIII secolo con un’interessante decorazione lapidea sotto il timpano, con i simboli di arciconfraternita, la Chiesa di San Michele e l’antica Parrocchiale di Santa Maria del Paradiso, in cui sono conservati busti di santi in legno policromo di notevole impatto emotivo. E siccome ci troviamo nel Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano, dove la natura è protetta, non manchiamo di fare una visita anche al Museo di Storia Naturale del Cilento, sito nella frazione di Matonti, che documenta riccamente gli aspetti geologici insieme alla flora e la fauna del territorio. Qui termina, per motivi di spazio, il nostro breve itinerario intorno a quel concentrato di delizie che è il fico bianco del Cilento; in molti altri posti avremmo potuto rintracciare la sua presenza essendo diffuso in gran parte del territorio cilentano. Alla fine potremo dire che questo viaggio valeva davvero un... fico secco!

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Sapore d’autunno

Castagna di Montella IGP

La castagna di Montella, memorie e piaceri testo: Mariano Grieco foto: Alfio Giannotti e Archivio Altrastampa

Descrizione del prodotto La castagna di Montella appartiene alla varietà “palummina”, e si caratterizza per la pezzatura medio o medio-piccola e la forma rotondeggiante, con faccia inferiore piatta, base convessa e sommità ottusa mediamente pelosa. Il seme ha polpa bianca, croccante e dolce. Il pericarpo è sottile, di colore marrone e facilmente distaccabile. L’aspetto stesso di questa castagna basterebbe a giustificare l’etimologia del termine “palummina”, data

tutta la zona. Dopo essere state selezionate, le castagne vengono tostate e, prima di essere messe in commercio, vengono reidratate. Una volta sgusciate, esse si presentano di colore marrone scuro e con un caratteristico sapore di caramello. Cenni storici Il castagno è parte integrante del paesaggio irpino; grazie alla felice interazione tra suolo e clima, quest’albero dà vita a un frutto di altissima qualità e dai molti

decantarono virtù e qualità nei loro scritti. Da quei tempi lontani, la storia di Montella e quella del castagno sono diventate tutt’uno, contribuendo a caratterizzare il paesaggio e a distinguere la tradizione rurale di questo luogo. Area di produzione Nella provincia di Avellino si producono vari tipi di castagna, tutti ottimi, di cui però il più famoso è proprio la castagna di Montella, alla quale è stata riconosciuta la Denominazione di Origine Controllata e, successivamente, l’Indicazione Geografica Protetta. L’area di produzione della IGP è limitata ai territori dei comuni di Montella, Bagnoli Irpino, Cassano Irpino, Nusco, Volturara Irpina e a una parte del comune di Montemarano (contrada Bolifano).

la sua vaga somiglianza a una colomba. Date le notevoli proprietà, la castagna di Montella può essere consumata sia fresca che secca: la famosa “castagna del prete”, per esempio, ottenuta con castagne in guscio essiccate, tostate e idratate con acqua, rappresenta una tipologia commerciale che trova uso sulle nostre tavole soprattutto nel periodo natalizio. La preparazione prevede che le castagne fresche, una volta raccolte, vengano disposte, in strati alti non più di 40-50 cm, su graticci di legno - i “gratali” - al di sotto dei quali per quindici giorni vengono accesi dei fuochi utilizzando, naturalmente, legno di castagno che, del resto, abbonda in

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impieghi. Il castagno è certamente una pianta spontanea, ma in Irpinia e, in particolare nella zona di Montella, cominciò a essere coltivato già nel VI secolo a.C., quando i coloni greci scelsero di insediarsi nei territori dell’Italia meridionale. Essi ben conoscevano e apprezzavano i frutti eccellenti di quest’albero, la cui qualità andò migliorando sempre più, tanto che all’epoca della dominazione longobarda, nel 571 d.C. venne emanata la prima legge a tutela di questa coltivazione, considerata già al tempo una preziosissima riserva alimentare. Questo gustoso frutto fu molto amato anche dai Romani, se il poeta Marziale e il cuoco Apicio ne

“Te piace o presepe?”. Inevitabilmente questa frase ci riporta alla memoria quel capolavoro del grande Eduardo che è Natale in casa Cupiello. La grandezza di questa opera è nella rappresentazione delle piccole cose quotidiane così come esse sono, con tutta la loro drammatica comicità, raggiungendo picchi eccelsi, come quando Luca Cupiello, parlando con il genero il giorno precedente la vigilia di Natale, dice: “Oggi ci dobbiamo mantenere leggeri, perché domani è la vigilia e dobbiamo mangiare molto!”, quasi fosse un obbligo, alludendo alla tradizionale abbondanza e varietà del pranzo natalizio tipico. Ebbene, questo pranzo che si protraeva fino a sfociare in un anticipo di cena, pantagruelico anche nelle case più povere (almeno ’na vota all’anno s’adda campà) non poteva non concludersi che con le “ciociole”, la frutta secca, sulla quale spiccava regina la castagna del prete. Chi fosse questo prete poco importa; quello che invece è interessante è che, in una regione ricca di castagneti, la casta-

gna del prete, tradizionalmente, doveva venire - come gli zampognari che per la novena di Natale un tempo giravano per le case - dall’avellinese, preferibilmente dalla zona di Montella; perché erano più buone. Scaviamo ancora nella memoria. Vi ricordate quei personaggi, quasi sempre anziani se non vecchi, stretti in improbabili e striminzite giacchette, con il volto semicoperto da enormi sciarpe o avvolti in variopinti “scialletti”, fermi all’angolo delle strade cittadine dietro grandi fornacelle, nelle fredde sere invernali? Sì, proprio loro, i “castagnari”. Dispensatori di dolci, morbide e calde delizie consegnate in semplici scrigni di... carta di giornale: “’e cuppetielli”. Che spettacolo quando, sollevato il sacco di juta inumidito che le ricopriva, con acrobatico movimento, scagliavano in alto le castagne poste ad arrostire, per rivoltarle in modo da farle rosolare tutte perfettamente. Ebbene anche quelle dovevano provenire, di preferenza, da Montella, perché... le castagne di Montella erano

un’altra cosa! Come molti frutti entrati nella tradizione alimentare campana, la castagna è un cibo che nasce povero (quella selvatica la si dava ai maiali); eppure, dietro quel suo aspetto difensivo, con una corazza ispida e spinosa che la protegge, si cela un prodotto ricco di proprietà nutritive e, nel caso della castagna di Montella, anche dal sapore particolarmente gustoso. Andiamo quindi a cercare questo frutto in alcuni dei suoi luoghi di elezione, lungo un percorso che ci porterà alla scoperta di un territorio particolarmente rigoglioso: tra pascoli montani e boschi. Quando, in primavera inoltrata, il castagno si adorna della sua particolare infiorescenza, le pendici dei monti rivestite dai fitti castagneti si rivelano in un tripudio di sfumature di verde. Il nostro itinerario parte proprio da Montella, nel cui stemma campeggiano tre monti, oltre che tre stelle, simboleggiando il monte del Castello, il San Martino e il Toriello, e ci ricordano pure l’aspetto del paesaggio e la presenza dei

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Gli zampognari e il castagnaro tratti da: Usi e costumi di Napoli e Contorni, De Bouchard.


boschi che per secoli assicurarono la sussistenza a un buon numero di montellesi. La struttura dell’antica cittadina era composta da una serie di piccoli casali, sparsi sulle pendici dei colli e nella piana. Questa conformazione era sicuramente già riscontrabile nel Medioevo, epoca in cui la zona era il centro di un gastaldato dei Longobardi che l’avevano conquistata verso il 571. Diversi edifici di un certo rilievo restano a testimonianza di un passato illustre, come la Collegiata di Santa Maria del Piano, la cui costruzione prese l’avvio nel 1550 ma che fu aperta al culto soltanto nel 1585. Qui non sono i dipinti ad attrarci, ma una serie di manufatti lignei. Subito ammiriamo i battenti dell’ingresso, coperti da una fitta decorazione con figure di santi; essi si pongono fra le più belle opere dell’intaglio meridionale del tardo Cinquecento. Di fattura raffinata, sono il Salvatore e San Rocco, statue in argento del XVIII secolo. Il colle del castello ci riconduce alle più antiche origini della cittadina; quassù, fin dal tempo dei Longobardi, erano state erette valide fortificazioni che i Normanni e gli Angioini, assidui frequentatori di questa zona per motivi venatori, migliorarono notevolmente. Ma nel XVI secolo il castello era già diruto. Adesso, tra folti castagneti immersi in una natura ancora poco contaminata, sopravvivono i resti della torre e della cinta muraria. Presso le mura si vede la Chiesa di Santa Maria, dal 1544 sede del Monte di Pietà; semplici il chiostro, il campanile e l’esterno. All’interno, una ricca coltre di stucchi settecenteschi ci fa immergere appieno nello spirito del rococò; da notare anche la tavola della Madonna dell’Umiltà e i pannelli lignei, opera di un seguace di Giovanni da Nola. Un terzo luogo riveste grande importanza per i montellesi: il Santuario del Salvatore, che domina dal-

l’alto dei suoi 954 metri la valle del Calore e i monti circostanti. Al Salvatore fu attribuita la fine della siccità del 1779 e, per gratitudine, l’anno seguente si iniziò la fabbrica della chiesa il cui bell’altare maggiore, del tardo Settecento, rappresenta l’arredo di maggior pregio. Un giro per i numerosi casali ci consentirà di scoprire che molte chiese conservano ancora stucchi rococò, sculture lignee e qualche bel mobile da sagrestia. San Francesco a Folloni è il complesso monumentale più importante della zona per arte e storia: la sua fondazione risale al XIII secolo ed è attribuita dalla tradizione allo stesso San Francesco. Il suo patrimonio artistico vede nel sepolcro di Diego Cavaniglia, conte di Montella, opera di Jacopo della Pila, un’importante testimonianza della scultura rinascimentale napoletana. Nell’interno della chiesa, gli stucchi, gli altari marmorei, i pavimenti maiolicati, mostrano uno degli ambienti più organici del XVIII secolo conservatisi in Irpinia. Nei locali dell’antico monastero sono ospitati dipinti, statue e oggetti d’arte provenienti da chiese del territorio, danneggiate dal terribile sisma del 1980. L’artigianato dell’intaglio ligneo raggiunse in Irpinia livelli eccelsi, ma se vogliamo veramente restare stupefatti dobbiamo recarci a Bagnoli Irpino dove, nella Collegiata dell’Assunta, lungo le pareti dell’abside, fanno bella mostra gli stalli

Pagina precedente. In alto: veduta di Montella. Sotto: Montella, Convento di San Francesco a Folloni. In questa pagina. In alto: Montella, Chiesa di Santa Maria della Libera. Al centro, a sinistra e in basso: Bagnoli Irpino, Collegiata dell’Assunta, esterno e coro ligneo.

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A sinistra: Bagnoli Irpino, Collegiata dell’Assunta, particolare del coro ligneo. A destra, in alto, al centro e in basso: Nusco, centro storico. Pagina successiva. In alto: veduta di Volturara Irpina. In basso: Volturara Irpina, il castello.

del coro, veri e propri racconti di legno, dove l’arte irpina dell’intaglio raggiunge uno dei risultati di maggior finezza tecnica e poetica. Furono realizzati nel 1651 da Scipione Infante, intagliatore di Bagnoli, con Giovan Domenico Vecchia e Giacomo Bonavita, di Lauro di Nola, che realizzò le scene del Vecchio Testamento e le colonnine istoriate. Nel 1656, l’anno della grande peste, persero la vita Bonavita, Infante e Vecchia, così il complesso restò incompiuto in alcune parti e fu adoperato senza che queste ultime fossero rifinite. Il coro si articola su un primo ordine di panche e un secondo di stalli, separati da leoni ed esseri fantastici; negli schienali sono narrate a rilievo scene della vita di Cristo e nelle colonnine che li separano episodi del Vecchio Testamento. Nel fregio, nelle testate, sui braccioli una fitta decorazione vegetale fra cui vivono putti, uccelli, e ancora esseri fantastici. In questa cittadina di origini longobarde alla fine del Quattrocento soggiornò Jacopo Sannazaro ospite dell’allora feudatario Troiano Cavaniglia. Da vedere anche la Chiesa di San Domenico, che conserva una pregevole tavola di Marco Pino raffigurante la Madonna del Rosario e Santi. Attraverso la strada provinciale raggiungiamo Nusco, meglio noto come il “balcone dell’Irpinia”. Dagli spalti del suo

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castello diruto e dai viali che costeggiano il paese lo sguardo spazia verso il massiccio del Vulture, le cime del Montagnone, il Terminio e il Partenio, il Matese e l’appennino Dauno e i corsi d’acqua dell’Ofanto e del Calore. Nusco è il comune più alto e più panoramico della provincia avellinese. Il centro storico sorge ai piedi di una collina con i resti del castello, intorno al quale, in epoca longobarda, Sant’Amato, primo vescovo e patrono di Nusco, raggruppò gli abitanti dei villaggi circostanti. Il borgo ha origine medievale anche se attualmente l’aspetto predominante è quello sei-settecentesco del seminario vescovile e dei palazzi nobiliari delle famiglie Ebreo, Natale, Astrominica, Ciciretti e Teta, tutti magistralmente recuperati dopo il disastroso terremoto del 1980. Esempio di come si possa, volendo, ben operare nel recupero dei centri storici senza cedere alle tentazioni del modernismo a tutti i costi o del rifacimento cartolinesco. La storia di Nusco è più legata alle vicende ecclesiastiche che a quelle feudali e, nonostante tra il XII e il XIX secolo nel possesso della cittadina si avvicendarono feudatari appartenenti alle più illustri famiglie del Regno, la presenza e l’influenza dei vescovi fu, infatti, sempre preponderante. La chiesa cattedrale, dedicata a Sant’Amato, è un imponente edificio dell’XI secolo il cui impianto attuale risale al 1600, con una torre campanaria bianca del 1891. All’interno, la cripta, di stile romanico con volte a crociera e arcate a sesto acuto su grosse colonne ricoperte di stucchi, è tra le opere d’arte più importanti che vi sono conservate. Da segnalare anche un pulpito ligneo del Seicento. Tra le altre numerose chiese, un po’ decentrata, nei pressi del castello, è la

chiesetta della Santa Trinità le cui strutture originarie risalgono al XIV secolo e dove di recente è stato scoperto un affresco tardo medievale, di scuola giottesca, raffigurante un Cristo benedicente e un’Annunciazione. Tra le tradizioni popolari, per la sua originalità si distingue l’usanza del “testamento di Carnevale”, una lunga composizione in versi, per lo più in dialetto, con la quale il martedì grasso si mettono alla berlina i personaggi cittadini più in vista e conosciuti. Ai piedi del monte Sant’Angelo, dominando la piana del Dragone, sorge Volturara Irpina, il cui toponimo deriverebbe da “veterale”, che stava a indicare un territorio coltivato già da lungo tempo. E proprio a questa storica propensione all’agricoltura, Volturara deve il suo sviluppo nei secoli, testimoniato anche dall’interessante Museo Etnografico della piana del Dragone, in cui si conserva la memoria materiale del territorio. Nel centro storico si trovano i palazzi Marino e Masucci, la parrocchiale di San Nicola e le chiese dell’Immacolata e di San Francesco, ma il complesso di maggior interesse è il Santuario di San Michele Arcangelo, culto di origine longobarda, che sorge tra i resti del castello medievale. I dintorni offrono più spunti per piacevoli escursioni naturalistiche, alle Bocche del Dragone, all’Acqua degli uccelli, in località Campolasanpietro, o all’Acqua delle logge sul Terminio. Ma ritorniamo al nostro tema principale, la castagna di Montella: in questo verde e ondulato territorio, la potremo trovare anche in altre amene località, basterà seguirne l’intenso profumo. (cfr. CF n.6/Is, CF n.9/Is , CF n.10/Is.)

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zione è quella adottata anche per la mozzarella vaccina, dalla quale il fiordilatte di distingue per forma e consistenza della pasta. Le fasi di lavorazione sono numerose e necessitano di grande maestria: anzitutto, il latte viene riscaldato e fatto coagulare mediante l’aggiunta di caglio

zona di produzione, il fiordilatte può assumere varie forme: tondeggiante, con o senza testina o nodino, a treccia o, ancora, a parallelepipedo. Il colore è bianco con sfumature paglierine; la pelle è tenera, liscia, lucente e omogenea. Il sapore è di latte fresco, delicatamente acidulo. La pasta, altrettanto bianca, a foglie sottili, di consistenza morbida ed elastica rilascia, al taglio o per leggera compressione, liquido lattiginoso.

di vitello. Durante la coagulazione si aggiunge del sieroinnesto, derivante dalla lavorazione del latte vaccino crudo. Una volta ottenuta la cagliata, questa viene rotta e messa a maturare. Successivamente, la massa viene messa a sgrondare, filata in acqua bollente, finché non assume il giusto colore e la giusta consistenza. La filatura è una fase cruciale della lavorazione: come per tutti i formaggi a pasta filata, infatti, solo l’esperienza e l’abilità del “casaro” possono stabilire quale sia il momento migliore per effettuarla. Si procede, dunque, alla mozzatura, che può essere effettuata a mano o meccanicamente. Il prodotto viene poi lasciato raffreddare in acqua, salato e, infine, confezionato. A seconda della

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Cenni storici Questo latticino vanta antiche tradizioni in Campania: il più conosciuto è, probabilmente, quello di Agerola, cittadina montana le cui origini si fanno risalire all’epoca pre-romana. Per la produzione del fiordilatte agerolese e sorrentino si è sempre utilizzato latte vaccino di prima qualità, tanto che esso è ormai fiore all’occhiello e parte integrante del patrimonio lattiero-caseario della Campania. Area di produzione La produzione di questo formaggio interessa l’intero territorio campano - in special modo la penisola sorrentina, l’alto casertano, il Sannio, l’Irpinia e il Vallo di Diano - e regioni quali il Molise (Campobasso), la Basilicata (Potenza), la Calabria (Cosenza), la Puglia (Bari, Foggia e Taranto) e il Lazio (Frosinone e Latina).

Descrizione del prodotto Il provolone del monaco si ottiene dalla lavorazione del latte crudo vaccino (tra cui quello di vacca di razza agerolese) di una singola mungitura o, al massimo, di due mungiture successive. Dopo la coagulazione del latte crudo si ottiene la cagliata - per la quale si utilizza caglio di vitello e capretto - che viene rotta fino a ottenere piccoli grani grazie all’utilizzo di un utensile di legno denominato “sassa”. Si passa, dunque, alle operazioni di scottatura e filatura. La filatura è un procedimento complicato e laborioso: in alcuni casi, per attorcigliare la cagliata, è necessario l’intervento di due persone. Quando la pasta ha raggiunto la consistenza desiderata, si effettua la formatura che può essere a pera o a cilindro. Segue la salamoia, l’asciugatura e la stagionatura che viene effettuata in cantine per un periodo di almeno sei mesi. Gradevolissimo e leggermente granuloso, il provolone del monaco ha una caratteristica: è un protagonista dell’appesa, le forme cioè vengono legate a coppia e appese ad asciugare. Alla fine si avrà un prodotto dalla crosta dura e rigata, di colore marroncino o rossiccio, dalla pasta compatta, pastosa, di colore biancocrema con rare fessurazioni lacrimanti e dall’intenso profumo di latte e fieno. Cenni storici Sull’origine della denominazione provolone “del monaco” sono state avanzate varie ipotesi: il monaco è un attrezzo di legno utilizzato per girare la pasta alla filatura, o forse il tutto è legato all’abitudine degli antichi “casari” - provenienti dalla penisola sorrentina - di proteggersi dal freddo con un mantello simile al saio dei monaci quando, nel XIX secolo, essi sbarcavano all’alba nel porto di Napoli per portare qui il loro goloso carico.

Area di produzione La produzione del provolone del monaco interessa la provincia di Napoli, in particolare le zone meridionali della penisola sorrentina e il territorio dei monti Lattari con il comune di Agerola.

Provolone del monaco

appenino meridionale

Fiordilatte

Descrizione del prodotto Il fiordilatte agerolese e sorrentino è un delizioso formaggio fresco a pasta filata, a fermentazione lattica, preparato con latte intero vaccino proveniente da una o più mungiture consecutive effettuate nell’arco di sedici ore al massimo. La lavora-


Dedicati agli intenditori Il fiordilatte nei territori agerolese e sorrentino Il provolone del monaco testo: Patrizia Giordano foto: Alfio Giannotti e Archivio Altrastampa

In alto, a sinistra: Agerola, tomba del generale Avitabile, Chiesa di San Martino in frazione Campora. A destra: un bell’esemplare di razza agerolese. Pagina successiva. In alto: veduta di Pimonte. Al centro: Agerola, panorama della penisola sorrentina dalla località Paipo. In basso: Agerola, panorama dal Sentiero degli Dei.

Difficile resistere perché sono tra i prodotti caseari più buoni della Campania. Veri “marcatori” di un territorio che - con la suggestione dei suoi paesaggi, le fonti incontaminate e le mandrie che vanno al pascolo - pretende l’utilizzo di latte fresco. Latte di vacca, ancor meglio se ricavato da razze autoctone, insostituibili per creare queste gemme di bontà. Eccole: il provolone del monaco e il fiordilatte appennino meridionale, prodotto nei territori agerolese e sorrentino, due DOP dell’artigianato caseario dei monti Lattari e della bassa penisola sorrentina, dove i sistemi di allevamento e le razze dei bovini rivestono un ruolo di primaria importanza, ma alla quale non sono estranei i segreti e l’abilità dei “mastri” casari: quali il caglio da utilizzare, le temperature giuste di filatura, le condizioni atmosferiche, i locali di stagionatura. Prodotti che hanno vinto la sfida di cibi ben più raffinati e pretenziosi. Il prodigio sta nella lavorazione del latte fresco vaccino, in particolare quello di razza agerolese che fa la differenza in questi due formaggi.

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Una razza forte, rustica, l’agerolese, che produce un latte di gran pregio, sia pur con quantità non elevate. Venne creata alla metà dell’Ottocento, nell’omonimo paese incastonato tra i boschi e i frutteti dei monti Lattari, Agerola, cittadina già nota ai tempi dei Romani. Furono i Borbone a voler migliorare le mandrie bovine di ceppo podolico esistenti in Campania, con l’importazione di animali di razze diverse (la bruna alpina, la pezzata nera olandese, la simmenthal). Miglioramenti, però, andati sempre a vuoto. Solo nei territori dei monti Lattari, forse a causa dell’isolamento dei luoghi, avvenne il miracolo genetico. Grazie soprattutto all’impegno del leggendario generale Paolo Avitabile. Figura quasi mitica, quella dell’agerolese Avitabile, ex generale del Regno delle due Sicilie, ex napoleonico, diventato poi militare di ventura al servizio del maharaja Sikh Ranjit Singh che lo inviò a Peshawar, nello stato del Punjab - l’attuale Pakistan - per tenere a bada le selvagge tribù afgane Pathan della frontiera. Messi da parte fucili e sciabole, Avitabile ricorse a metodi ben più convincenti: le corde e i pali per l’impiccagione. Si racconta che a Peshawar - dove era conosciuto come Abu Tabela - impiccasse ogni mattina decine di Pathan, lasciando che i cadaveri penzolassero per tutto il giorno dai minareti della Moschea di Mahabat Khan, tanto per dimostrare chi comandava. Presto le incursioni si ridussero, finché a governare Peshawar non rimase che lui, il temuto Abu Tabela. Il generale morì ad Agerola dove era tornato ricchissimo, nel 1850, giusto il tempo per creare quel miracolo genetico che è la razza bovina agerolese. Dal lungo lavoro di selezione e accoppiamento svolto da Avitabile, nacque la razza agerolese, da

cui si ricava un latte di qualità eccezionale, impiegato ancora oggi per la produzione sia del provolone del monaco che per il fiordilatte agerolese e sorrentino. Due prodotti che si portano dietro tutta la valenza antropica del formaggio legato alla tutela dell’ambiente rurale e alla salvaguardia di alcune razze di bovini minacciate di estinzione. Del resto, sono proprio le vacche da latte a fare la differenza nei formaggi, per gusto e qualità. Il provolone del monaco è un gustoso formaggio, una raffinatezza che solletica lingua e palato e che in poche altre occasioni è dato da vedere e provare, caso mai con salame tagliato a fette e un bicchiere di Aglianico. Entrambi sono il prodigio di un’arte che si tramanda da secoli per due prodotti di questa terra baciata dal sole e fecondata dalle ceneri di un vulcano, dove incamminarsi sui sentieri del latte e del caglio significa ripercorrere la propria storia. Chi si fa viandante per “caso” (volgarizzazione di caseus, il cacio degli antichi Romani, affumicato e non, speziato o solo aromatizzato) non può non entrare nei luoghi dove nascono queste bontà casearie, spostandosi tra strapiombi e terrazze, tra visioni e aureole di profumi. Un Eden che come per magia sembra immune dai peccati del nostro tempo, con paesi, borghi di flemmatica lentezza, abitati che - come spruzzi di vergine latte - si alternano a pascoli e orti. Così, agli esploratori del gusto, appaiono i monti Lattari, la cui origine è fin troppo evidente: latte nutriente, “salutare” sin dai temi degli antichi Romani, tanto buono da entusiasmare lo stesso Claudio Galeno, medico, filantropo e scienziato alla corte di Marco Aurelio e successori. I monti Lattari si raggiungono da Castellammare di Stabia, lasciando sulla

destra il bivio per la penisola sorrentina. La Statale sale, si inerpica attraverso ampi tornanti, rasenta il monte Pendolo e poi il vallone di Pimonte, un fascinoso borgo agricolo sempreverde, fra folti cipressi e vigorosi castagni, sparso nelle sue tante frazioni, con i resti della sua torre medievale, vigile sentinella di chi un tempo arrivava dalla costa. A Pimonte, immancabile la visita alla chiesetta di San Michele con all’interno una bella pala raffigurante una Madonna con Bambino e angeli di Protasio Crivelli. L’ascesa continua lungo le pendici di monte Cretaro, offrendo in un susseguirsi di panorami bellissimi colpi d’occhio: la gola di Pimonte, le cime dei Lattari, il Faito, il golfo di Napoli con il Vesuvio. Finalmente, sullo sfondo di rigogliosi frutteti e fitti boschi, i tetti di tegole rosse di Agerola, con le sue numerose e incantevoli frazioni disposte a “ferro di cavallo”. Tra le più note: Bomerano, San Lazzaro, Pianillo, Campora. Una terra generosa quella di Agerola, ingravidata dalle ceneri vulcaniche trasportate dal vento. Forse da qui il suo nome latino, ager, cioè campo, rigoglioso d’amore e di orgoglio dei suoi stessi abitanti. Un piccolo paradiso nel cuore dei monti Lattari, la cui storia è legata a doppio filo a quella del suo concittadino generale Avitabile che, una volta tornato nel suo paese natio, non solo creò una razza di bovini, ma si mise pure alla testa di un gruppo di cittadini per ottenere il distacco di Agerola dalla costiera amalfitana e l’entrata del paese nel territorio di Napoli. Bisognerà però aspettare ben oltre l’Unità d’Italia perché il sogno del compianto generale si avverasse, quando nel 1873 fu costruita la strada di collegamento con Castellammare di Stabia. Comunque già allora il paese era meta prediletta di vil-


leggiatura: dal musicista Francesco Cilea, a Salvatore di Giacomo e Benedetto Croce. La storia non è cambiata granché, con un borgo rimasto aggrappato ai suoi pascoli, ai suoi orticelli, a quel panorama mozzafiato che si può godere dalla Punta Bomerano su cui troneggia la stele dedicata a Fausto Coppi, che da queste parti ci passava tante volte, spesso vincendo, con la sua mitica bicicletta. E dall’incanto vergine dei monti Lattari, giù verso la costa, tornando sulla statale sorrentina, in direzione di Vico Equense, arroccata su uno sperone di roccia proteso verso il mare. L’antica Aequana, prima etrusca e poi romana, messa a ferro e fuoco dai Goti. Per trovare pace solo nel XIII secolo quando entrò a far parte dei beni di Carlo II d’Angio; successivamente, feudo di numerose famiglie e sede vescovile sino alla fine del Settecento. Oggi la cittadina è un crogiolo di spiaggette e mitici anfratti. All’interno, un intrecciarsi di viuzze che si infilano tra portici, chiese e palazzi. In realtà, questo centro è molto più grande di quello che sembra: i suoi confini comunali si inerpicano sino alla cima del monte Faito e tutta l’area territoriale, un tempo, era disseminata di piccoli villaggi in cui si producevano latte e formaggio. La tradizione è rimasta. Non a caso, a Vico Equense si produce un latticino che, il solo guardarlo, mette l’acquolina in bocca: la gustosissima treccia di fiordilatte. Di questi insediamenti ne sono sopravvissuti una decina, alcuni meritano veramente un’escursione. Nel centro storico di Vico, nella zona detta Vescovado, immancabile la sosta al Castello duecentesco di Carlo II

d’Angiò (ora denominato Castello Giusso). Rimaneggiato più volte nei secoli successivi, si erge a strapiombo sul mare ed è circondato da un parco con piante secolari, vialetti e fontane. Attraversando via Vescovado, l’ex Cattedrale o Chiesa dell’Annunziata, unico esempio di architettura gotica sopravvissuta in penisola sorrentina. Costruita nel XIV secolo, la chiesa ha subito nel tempo diversi rifacimenti perdendo la sua struttura originaria. All’interno, sono rimasti solo alcuni frammenti degli affreschi trecenteschi, mentre un recente restauro ha riportato alla luce le splendide capriate del tetto. Conservate in un sarcofago, le spoglie del vescovo Cimmino e alcune tele settecentesche di Giuseppe Bonito. Dal piazzale antistante l’ex cattedrale, a poca distanza, c’è la chiesetta di Santa Maria delle Grazie, detta di “Punta di Mare”, a picco sul mare. Eretta nel XV secolo, fu ricostruita tre secoli dopo. Abbandonando il centro storico, a pochi chilometri da Vico, c’è il Convento dei Padri Minimi di San Vito, che cela all’interno una stupefacente raccolta di arte sacra del complesso religioso. Tra le gemme in mostra: una tavola tardo quattrocentesca raffigurante una Madonna con il Bambino, proveniente dal Convento di Palermo, e un paliotto in corallo rosso, vero e proprio capolavoro della manifattura trapanese. Tante le escursioni attorno a Vico Equense che si possono rivelare itinerari di sogno: alla frazione di Montechiaro, un fazzoletto di verde, attorcigliato mollemente attorno alla chiesetta di Santa

Maria delle Grazie, da dove si può godere un bellissimo panorama. Il borgo di Seiano, che vanta un accorsato arsenale del Quattrocento, e il pittoresco Santuario della Madonna delle Grazie, detta Santa Maria la Vecchia, per via di un affresco risalente al Trecento. Migliaia gli ex-voto conservati in questo tempio tanto amato da marinai e pescatori. Una volta la gente di mare portava addirittura con sé l’olio della lampada che ardeva dinanzi alla Madonna e pietruzze che raccoglieva sul sagrato per poi gettarle in mare in segno di buon augurio. Infine Moiano, a 8 chilometri da Vico Equense, con i suoi torrenti, i suoi castagni secolari, i suoi formaggi freschi che sono la memoria di questo paesino assieme alla Chiesa di Santa Maria del Toro, che deve il nome a una leggenda: si racconta che un contadino dipinse in una grotta l’immagine di una Madonna e che, dopo la sua morte, fu coperta dagli alberi. Un giorno passò di lì un toro che cadde in ginocchio e sul luogo del miracolo sorse la chiesetta. Lasciando questo angolo di Paradiso il nostro pensiero va alle sirene che un tempo dimoravano tra questi lidi. E si capisce perché.

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Pagina precedente. Agerola, panorama della costiera amalfitana da Punta San Lazzaro. In questa pagina. Vico Equense. Al centro, a destra: Cappella di Massaquano. Sotto: Chiesa dell’Annunziata.


Nel piatto di tutti Il salame di Napoli

Salame di Napoli

testo: Patrizia Giordano foto: Alfio Giannotti e Archivio Altrastampa

Descrizione del prodotto Il salame di Napoli è un gustoso e pregiato salume prodotto in tutta la Campania, in particolare nelle zone rurali. Per la sua preparazione vengono utilizzati esclusivamente tagli di carne provenienti dal prosciutto di spalla, di coscia, coppa e

lombata, opportunamente mondati mediante l’asportazione del grasso di copertura, del tessuto adiposo e delle parti connettive di maggiori dimensioni. Il grasso utilizzato è quello duro di copertura e della pancetta. L’impasto così ottenuto, insaccato in un budello naturale di suino, è poi soggetto ad asciugatura e affumicatura - procedimento grazie al quale esso acquista un aroma e un sapore inconfondibile - e, infine, stagionato. La lavorazione e la stagionatura vengono effettuate con metodi tradizionali - che tecniche di produzione e moderna tecnologia non hanno cancellato - molto simili a quelli di altri salami prodotti nella nostra regione. La stagionatura, così come l’asciugatura, avviene in ambienti adeguatamente aerati, ad esempio le cantine. Il salame di Napoli si presenta con tipica forma cilindrica allungata, superficie esterna di colore rosso carico e con parti adipose in evidenza. La consistenza è compatta e non elastica, il sapore è dolce e caratteristico di affumicato o speziato. Cenni storici Storicamente, il salame di Napoli condivide l’area di origine con il salame di Mugnano del Cardinale, presentando del resto molte caratteristiche simili a quest’ultimo. Le antiche tecniche di produzione, affumicatura e stagionatura, tramandatesi di padre in figlio, hanno fatto sì che esso mantenesse inalterate nel tempo la bontà e la genuinità delle sue carni, preparate secondo metodi e sistemi che ancora affondano le loro radici nel passato, e che ne preservano in tal modo la tipicità. Area di produzione L’area di produzione interessa tutta la Campania. La carne utilizzata deve provenire da suini del peso minimo di 140 kg, allevati in Campania.

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Un miliardo di maiali l’anno: tante sono le bestie allevate nel mondo, più di otto milioni in Italia, anche se poi ne consumiamo circa il doppio. Ecco perché il maiale - simbolo della civiltà rurale e delle sue necessità - è diventato nei luoghi di maggiore produzione e lavorazione dei salumi, “sua maestà, il maiale”. Lo abbiamo finalmente sdoganato in cucina e, a tavola, lo abbiamo tirato fuori da quel limbo “negletto” del gusto e del piacere dove era stato confinato, assieme alle infinite declinazioni della sua carne. Dopo anni all’insegna della nutrizione light (leggeri i cibi, leggeri pure i pensieri), sono sempre più quelli che confessano apertamente che un panino al salame, accompagnato da un piatto di olive e vino paesano, è più buono, voluttuoso e godurioso di un boccone di sushi. Di sicuro risveglia sapori antichi, gusti semplici, terrene armonie. Salame sì, va bene, ma quello buono, stagionato come centinaia di anni fa, prodotto dalle mani sapienti dei norcini, la cui arte è passione, tradizione, sacra liturgia che si tramanda di padre in figlio, soprattutto nelle zone più interne della Campania. Quelle immerse in una natura ancora incredibilmente intatta, dove gli animali - spesso allevati allo stato semibrado sono alimentati con prodotti vegetali tipici del luogo, e utilizzati non prima di aver superato l’anno di età, quando cioè

le carni sono sode, mature, e più facile è la frollatura. Da qui la bontà e la genuinità dei salumi campani, capaci di nobilitare anche gli ingredienti più poveri.

Nonché la fatica degli uomini. In particolare, il salame di Napoli. La bontà e la genuinità del prodotto nasce da un insieme di fattori legati prima di

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Servizio dell’oca, porcellana di Capodimonte. In alto: Reggia di Caserta. In basso: la lanterna del molo di Napoli.


tutto alla materia prima utilizzata e, poi, ai procedimenti di lavorazione. La magia sta ancora lì, racchiusa nella carnalità della “sfattura” dell’animale (o “pista” o “cavata” o in cento altri modi dialettali che si voglia), che rimane il vero grande rito della civiltà contadina. Nelle aree rurali, l’uccisione del maiale avveniva (e avviene ancora) in un particolare periodo dell’anno, coincidente con il Carnevale, quando la ciccia di questo animale - che gli antichi consideravano un dono degli dei - si trasformava in delizia assoluta per il palato e alimento per tutto l’anno. La necessità poi del contadino di conservare la carne e di utilizzarla completamente - in mancanza dei moderni sistemi di refrigerazione - ha sviluppato una vera cultura attorno agli insaccati, a partire dalla salagione, che risale a tradizioni antichissime, quando l’allevamento dei maiali era ormai diffuso in tutta la regione. Già i Greci, nel 1000 a.C., avevano l’abitudine di conservare la carne, dopo aver aggiunto del sale, insaccandola in budelli di capra, come ci tramanda lo stesso Omero nell’Odissea. Il termine “salume”, dal greco al-muris, indicava proprio le vivande conservate con il sale. Fu poi trasformato dai Latini in sal-muria (da qui la parola “salumi”, rimasta invariata nella gastronomia europea), per indicare i cibi in salamoia. I Romani, in particolare, erano dei maestri in questo campo, conoscevano bene tutte le tecniche di conservazione delle carni tramite essiccamento, salagione e affumicatura. Basta rileggere il De re coquinaria di Apicio - una sorta di capostipite dei nostri ricettari, di cui ci è pervenuta una rielaborazione del IV secolo a.C. - per scoprire quali e quante prelibatezze si facessero con la carne suina ai tempi dell’antica Roma: dalle salsicce all’aglio allo zampetto di maiale affumicato, alle polpette “pompeiane”, a base di carne tritata e pan bagnato nel vino cotto assieme a foglie di alloro, sino alla vile trippa. Dal gastronomo Apicio a Plinio il Vecchio, a Orazio, e poi su attraverso i secoli con il nostro Giovan Battista Del Tufo (che alla fine del Cinquecento ci parla di sanguinacci, casatielli e tortani che fanno venire in mente il dolce “sfrigolar dei ciccioli” nei focolari contadini), a Vincenzo Corrado, Giovanni Vilardi - cuoco prediletto di re Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II sino ad Artusi, a Escoffier. Insomma, tutta la nostra gastronomia ruota attorno alla grassa e tozza figura di un porco. Eppure, nell’alto Medioevo il panciuto quadrupede - immondo e fetido per metà dell’umanità, ma grasso e saporito per il resto - venne addirittura bandito, in quanto considerato la personificazione del diavolo. C’è una gustosa storiella su questa diceria, che riguarda Sant’Antonio Abate, protettore delle campagne e degli animali domestici, in onore del quale in epoca angioina sorsero una chiesa, un ospedale e un intero borgo di Napoli (“’O Buvaro ’e Sant’Antuono”). Il santo, con tanto di barba lunga, bastone e povera veste, era immancabilmente raf-

figurato con un porcellino accucciato ai piedi. Ma, in principio, l’iconografia lo ritraeva nell’atto di scacciare il demonio sotto forma di suino. Poi santo e animale fecero la pace e il maialino divenne il simbolo dei privilegi accordati ai monaci speziali antoniani che dal lardo dell’animale ricavavano una “sacra tintura” usata per lenire le sofferenze dell’herpes zoster, chiamato da sempre a Napoli “’o fuoco ’e Sant’Antuono”. Una pratica seguita sino alla fine dell’Ottocento, quando i monaci, ormai a corto di maiali e di offerte, si limitavano a offrire un simbolico pezzetto di lardo avvolto nell’immaginetta del santo che, naturalmente, non procurava nessun beneficio. Ma l’assenza durò poco: il maiale tornò a trionfare nei campi dei contadini, a grugnire tra cavoli, insalate e rifiuti di cucina, pronto a fine anno per essere “scannato”. Sin dai tempi più remoti, la macellazione - tra dicembre e febbraio - veniva definita dal contadino nei minimi particolari: la carne del maiale doveva sfamare tutta la famiglia per l’intero anno. Le garze del capo, i zoccolari, i piedi da vendere appaiati, i presutti che andavano tagliati nella prima giuntura vicino lo presutto, il fegato, i polmoni da impigliare tutti di cirbo o seu zeppa. La garza e il boccolare venivano utilizzati per confezionare i cotechini (oggi il guanciale è preferibile per un’ottima amatriciana). Ecco perché si diceva e si dice che del maiale non si butta via niente! Quanto

al sangue, le donne lo usavano per fare dolci, come il sanguinaccio (prima che fosse introdotta la più moderna e antisettica crema con cacao, zucchero, latte e amido), o il “sangue bollito” che, una volta solidificatosi, veniva tagliato a fette e arrostito o fritto in padella. Ce ne parla per la prima volta Vincenzo Corrado nel suo Cuoco galante, alla metà del Settecento, avvalorando la tesi (non confermata) che sia la Campania la culla di questo particolare dolce. Per la preparazione del salame, invece, alla carne magra venivano mescolati pezzi di grasso di suino. L’impasto ottenuto era condito con sale e pepe (ma c’era anche chi usava il peperoncino rosso, chi la finocchiella, chi il finocchio selvatico) e insaccato in un budello naturale legato con lo spago. Poi si forava il budello per far uscire le ultime bolle d’aria e lo si metteva a stagionare per almeno trenta giorni. I salami non erano mai consumati subito ma messi in cantina, al fresco e all’umido, o conservati in recipienti di terracotta o di vetro, affogati nell’olio o nel grasso di maiale fuso. I contadini più poveri - non avendo né cantina né olio in abbondanza - conservavano il prezioso alimento tra la cenere della legna o in mezzo al grano, all’orzo, all’avena di modo da conservarne il profumo intenso e penetrante. Era consuetudine, poi, ricorrere al salame quale merce pregiata in cambio di prestazioni professionali (l’intervento di un medico, un farmaci-

sta, un’ostetrica, ecc.) o tirarlo fuori dalla cantina e consumarlo in occasione di feste patronali e ricorrenze. Era il momento delle grandi abbuffate o maialate da vivere all’aria aperta, in allegria, dopo mesi di sacrifici e ristrettezze. Non è certo un mistero che, sino ai primi del Novecento, le popolazioni delle nostre campagne si trovassero in condizioni disagiate, con la fame che si faceva sentire a ogni raccolto. Così, il salame divenne per il contadino un bene ancora più prezioso, a cui dedicare particolare cura e attenzione. Le stesse precauzioni, attenzioni e cure impiegate oggi per mantenere intatta la bontà e la genuinità delle carni. Ogni provincia campana mantiene ancora la sua specialità, ogni paese o contrada ha il suo particolare modo di tagliare le carni, sminuzzarle, insaccarle, ogni vecchia famiglia la sua spezia o il suo aroma da aggiungere all’impasto, sul cui segreto, beh, una volta, si rompevano intere parentele. Ma campanilismi e orgogli locali troveranno presto una “sintesi” comune nel riconoscimento della Denominazione di Origine Protetta (DOP) per il salame di Napoli e quello di Mugnano del Cardinale, per i quali si attende solo il via libera degli organismi tecnici della Commissione Europea di Bruxelles. Un riconoscimento che premia la qualità e rende esclusiva una tradizione millenaria che ha fatto della carne di questo animale una delizia per il palato.

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Pagina precedente. Servizio dell’oca, porcellana di Capodimonte. In alto: antichità archeologiche a Benevento. Al centro: i templi di Paestum. In basso: eruzione del Vesuvio. In questa pagina. Il ritorno da Montevergine.


Bontà di maiale Il salame di Mugnano del Cardinale e il suo territorio

Salame Mugnano del Cardinale

testo: Patrizia Giordano foto: Alfio Giannotti e Archivio Altrastampa

Descrizione del prodotto Il salame di Mugnano del Cardinale è uno dei più antichi e saporiti insaccati della nostra vasta salumeria nazionale. Il suo particolarissimo aroma è il risultato di una serie di fattori legati al tipo di carne utilizzata e, naturalmente, alle particolari tecniche di lavorazione. Per la produzione di questo salame vengono impiegate le carni della spalla e del fiocco di prosciutto, macinate e miscelate con grasso suino duro, come quello della pancetta. Il budello utilizzato per l’insacco deve essere naturale: viene dunque usata la parte dell’intestino di maiale detta “crespone”, opportunamente forata e legata con spago naturale. Prima dell’insaccatura, la carne viene tritata, salata e aromatizzata con pepe. Il prodotto viene poi sottoposto ad affumicatura utilizzando legno stagionato di quercia, faggio, castagno, ontano, che abbondano nella

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zona. È proprio grazie a questo procedimento che il salame acquista quel leggero aroma affumicato in perfetto equilibrio con gli altri profumi prodotti durante la sua maturazione. Ai nostri occhi, il salame finito si presenta a grana grossa e con la sua caratteristica forma di un pugno chiuso. Cenni storici Le prime notizie storiche relative al salame di Mugnano del Cardinale vanno rintracciate proprio nelle origini di questo antico borgo, risalenti ai primi del Trecento. Successivamente, le fasi e gli elementi basilari delle sue tecniche di produzione si diffusero in tutta la Campania, assumendo - a seconda delle zone - precise caratteristiche distintive che, nel tempo, hanno contraddistinto salami entrati a far parte della tradizione di altri luoghi.

Area di produzione L’area di produzione interessa i comuni di Mugnano del Cardinale, Avella, Baiano, Sirignano, Sperone (in provincia di Avellino), Camposano, Casamarciano, Cicciano, Cimitile, Comiziano, Marigliano, Nola, San Vitaliano, Saviano, Scisciano, Tufino (in provincia di Napoli). In dette aree vengono tradizionalmente utilizzate, per questo tipo di salame, carni fresche di suini del peso minimo di 140 kg allevati in Campania.

Nella zona di confine tra la provincia di Napoli e la bassa Irpinia, nel regno del salame, suinamente odorando, fra distese di campi coltivati e isolate case coloniche, fra foreste di castagni, faggi e querce secolari. Attraverso paesi, borghi e contrade che costeggiano mollemente la Strada Statale 7 bis, l’antica via Regia delle Puglie. Un arabesco d’asfalto, che si insinua, abbraccia e segmenta l’intero complesso montuoso del Partenio, dominato dall’alto - come una vigile sentinella - dal Santuario di Montevergine. È qui, sprofondato in una valle dai dolci declivi, a poco più di 18 chilometri da Avellino, che si annuncia Mugnano del Cardinale, l’antico borgo noto in tutto il mondo per la produzione di quel salame dal gusto pieno, compatto, inconfondibile, che solo qui nasce e si stagiona come centinaia di anni fa. Col naso e la pazienza, l’amore e la cantina. Complice quell’aria fresca dei 300 metri di altezza che ventila e asciuga gli insaccati nella lenta stagionatura. È sempre stata una cittadina essenzialmente agricola, Mugnano del Cardinale, sin dai tempi della romanizzazione, fra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. Da qui l’eti-

In alto: veduta di Mugnano del Cardinale. In basso: altare di Santa Filomena con le spoglie della santa.


mologia - fundus Munianus, cioè fondo di Munio. Già nel Quattrocento non c’era famiglia di contadino che non avesse il suo bel maialino “pesante” da allevare, per ricavarne la sua riserva di cibo per tutto l’anno. Alla metà del Settecento, quando venne aperta dai Borbone la via Regia delle Puglie, il paesino - aggrappato alle pendici di quel monte sacro alla greca Partenope - divenne un importante crocevia commerciale tra il Tavoliere e Napoli. Da Mugnano venivano esportati salami in Puglia e da qui giungevano formaggi, olio e bovini. Merce preziosa anche per il contadino, che il suo buon salume lo tirava fuori solo in occasione di feste e ricorrenze, tra alleluia e rintocchi di campane. Oppure in segno di ospitalità. Come per la visita di papa Pio IX, alla fine dell’Ottocento, recatosi in pellegrinaggio a Mugnano presso il Santuario di Santa Filomena, fondato ai primi dell’Ottocento da don Francesco de Lucia. Al pontefice venne offerta una cesta di legno piena... di salami, adagiati voluttuosamente su un letto di paglia. Nel 1312, il feudo di Mugnano, di proprietà di Riccardo I Scillato, fu ceduto all’Abbazia di Montevergine che così poté gestire direttamente le lucrose entrate delle taverne, bettole e luoghi di ristoro, posti lungo la via che passava per la cittadina e andava all’antico santuario. Tra il 1466 ed il 1485, il cardinale Giovanni d’Aragona, figlio di re Ferdinando e commendatario di Mugnano, fece costruire il suo palazzo, di stile badiale: il “Palazzo del Cardinale”, che finì anche con l’indicare il rione che gli crebbe attorno e l’attuale nucleo urbano. La cittadina - immersa in

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uno scenario di straordinaria bellezza tra monti, valli e colline - conta su uno dei più celebri luoghi di culto della Campania: il Santuario di Santa Filomena, appunto, che custodisce le reliquie della giovane martire. Come la Madonna di Sant’Anastasia, anche Santa Filomena vanta i suoi bravi fuienti che giungono l’11 agosto al santuario vestiti con l’abito bianco e la fascia azzurra attorno al petto. I pellegrini, una volta entrati in chiesa, si avvicinano alla statua di cera raffigurante la santa e si abbandonano a pianti e invocazioni. L’origine del culto risale al 1802 quando nel cimitero di Priscilla, a Roma, venne rinvenuto un corpo, il cui sepolcro portava scritto su una delle tre lastre marmoree filumena. Le reliquie furono trasportate a Mugnano dal canonico Francesco de Lucia che scrisse anche un libro sulla vita (alquanto leggendaria) della martire. Negli anni Cinquanta del secolo scorso l’amore e l’affetto dei mugnanesi per Filomena si intensificò in relazione a una serie di eventi miracolosi attribuiti al suo intervento celeste. Presso il santuario sono in vendita oggetti di culto ai quali si riconoscono proprietà magico-protettive e terapeutiche. Il “pezzo” più ambito è il cordone di Santa Filomena che - a detta dei sostenitori del culto - serve a preservare la salute del corpo. Ci si rimette sulla Statale 7 bis, dove le orme del nostro maialino ci portano a Sirignano, alle falde dei monti d’Avella, un piccolo borgo immerso nella macchia mediterranea, dedito da sempre alla zootecnia, soprattutto nel settore suino, ma non mancano allevamenti colonici di

bovini da latte. Il toponimo pare derivi da un fundus Serenianus, luogo di villeggiatura della vicina Avella in epoca romana. Nel 1313 il feudo, di proprietà di Riccardo I Scillato, venne ceduto all’Abbazia di Montevergine; due secoli dopo, passò sotto la giurisdizione della Real Casa dell’Annunziata di Napoli. Interessato dai continui fenomeni di brigantaggio, alla fine del XIX secolo, Sirignano vide sorgere sulle rovine di una preesistente costruzione (da alcuni identificata con l’antico castello feudale dei Caracciolo della Gioiosa), il palazzo gentilizio dei principi Caravita. Il “castello del principe”, di cui si possono oggi vedere i resti, rappresenta la maggiore memoria storica del paese assieme alla cappella seicentesca dedicata a Maria Santissima del Rosario e alla Parrocchia di Sant’Andrea Apostolo, patrono del paese. Ancora più avanti, sempre lungo la Statale 7 bis, attorniata dai monti Avella e Arciano, la cittadina di Baiano, il cui nome deriverebbe da Badianium (villa di Badio), un notabile avellano vissuto in epoca romana. Anche in questo paese la qualità della vita è intimamente legata alla cultura rurale: in collina si coltiva l’olio e in pianura il nocciolo. Più su, il bosco di Arciano, ricco di castagni e faggi. Dappertutto piccoli allevamenti colonici di suini che dimostrano che quella del maiale in Irpinia è una questione tutta “di cuore”. Nei secoli passati la cittadina fu a lungo scenario di lotte e contese. Dai Longobardi passò ai Normanni, agli Svevi, poi agli Angioini con la regina Giovanna I, che concesse il feudo, assieme a quello della vicina Avella, a Nicola

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Pagina precedente. Mugnano del Cardinale, Santuario di Santa Filomena, il soffitto dipinto e la facciata. In questa pagina. Sirignano.


Gianvila, conte di Sant’Angelo dei Lombardi. Con la dinastia angioina, Baiano venne affidata da Giovanna II all’amante Sergianni Caracciolo che lo donò alla sorella Isabella, moglie di Raimondo Orsini. Fu il conte Orsini che vi creò, nel 1510, la bagliva. La cittadina conserva ancora la sua struttura medievale: splendido il santuario a tre navate dedicato a Santo Stefano protomartire, patrono di Baiano, ampliato e restaurato all’inizio del secolo scorso, e la Chiesa di Santa Croce, con una pregevole facciata in stile gotico. Spettacolare la “festa del majo” in onore del santo patrono. Il “majo” di Baiano è un grosso castagno che il 26 dicembre, festa di Santo Stefano, i segatori di legname, assieme a tutti i baianesi, tagliano nel bosco di Arciano e poi portano in processione lungo le vie della cittadina. L’albero, issato con funi, è piantato in una buca al centro della piazza di fronte alla chiesa del patrono. Attorno si raccolgono fascine per accendere un enorme falò (o focarone) in una sorta di tensione collettiva e ritualismo del fuoco. Un antico rito pagano, assimilato poi dalla Chiesa, forse di origine germanica, per allontanare il male e propiziare la fertilità, oppure frutto dell’usanza locale di andare a messa facendosi lume con un tizzone poi depositato sul sagrato della chiesa. Proseguendo lungo la Statale 7 bis, si arriva ad Avella, antica cittadina, aggrappata alle falde dei monti avellani, nel bacino superiore del fiume Clanis (Regi Lagni). Il nome rievoca la pregiata coltivazione della nux Abellana, cioè la noccio-

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la tanto apprezzata nell’antichità. Questo piccolo centro dista 24 chilometri da Avellino ed è un vero e proprio museo archeologico a cielo aperto. L’antica Abella fu prima dimora osca, poi etrusca e infine sannita. Nel 399 divenne colonia romana. Aveva sei porte di accesso, l’anfiteatro, il teatro, una piscina, la palestra, le terme, il ginnasio, il pretorio e un palazzo imperiale. Il nucleo originario della città, in epoca sannita e romana, coincideva con la parte orientale dell’attuale centro storico. Nel 410 a.C. fu saccheggiata da Alarico, cadde poi sotto il dominio dei Goti, in seguito del longobardo Siginolfo. Diede i natali a papa San Silverio (VI secolo d.C.), che vi fondò anche una basilica. Venne infine totalmente distrutta dagli Ungari nel X secolo d.C. Di questo glorioso e tormentato passato, tanti i reperti archeologici rinvenuti. Del periodo osco, il celeberrimo Cippus abellanus, un blocco di pietra recante incisa un’iscrizione osca, attestante un accordo fra Avella e Nola, databile al II secolo a.C. Numerose le testimonianze anche dell’epoca etrusca, in due necropoli scoperte nelle località San Paolino e San Nazaro. Al periodo romano risalgono invece l’Antiquarium e l’anfiteatro del I secolo a.C. - una struttura in opus reticolatum di cui è stata riportata alla luce anche l’arena - e poi resti di ville rustiche legate soprattutto alla coltivazione delle nocciole, statue, magnifici monumenti funerari posti lungo le vie che uscivano dalle porte dell’antica città. Il castello medievale e il palazzo baronale dei Colonna, feudatari di Avella sino alla metà del Cinquecento,

completano il patrimonio storico della cittadina al quale va aggiunta la visita alla Chiesa di San Giovanni, un’ampia costruzione della fine del Settecento, sorta sui resti dell’antica Basilica di papa San Silverio, e a quella di San Pietro, costruita invece sui resti dell’antico Vescovado di Avella. Per gli appassionati di natura e speleologia, uscendo a nord-est della cittadina, attraverso la carreggiata dei mulini municipali, si raggiungono l’amena vallata del Clanio e i monti Avella, ricchi di anfratti e grotte carsiche, tra cui quella degli Sportiglioni, istoriata di stalattiti e stalagmiti, e la grotta di San Michele Arcangelo, suggestiva chiesa rupestre, con affreschi di influsso copto-bizantino. Una natura da scoprire, da vedere, quella in cui è immerso questo territorio, alle

falde del monte Partenio, una delle porte di accesso alla verde Irpinia. Alle quote più basse si incontra il tipico ambiente mediterraneo dove i rami dei noccioli, degli olivi, dei castagni e dei faggi fanno ombra al cammino Salendo, il paesaggio assume gli aspetti tipici della montagna: pini, noci, ontani e aceri che si mescolano a tigli e querce secolari. Mentre il sottobosco sembra tratto da una fiaba di Andersen: tra edera, rose selvatiche e pungitopo, spuntano sprazzi di ginestre e molte specie di orchidee. Sono state censite, infatti, in questa

zona circa settecento specie di piante, anche officinali. Una natura che si presta a ogni tipo di escursione: trekking, passeggiate a piedi, pellegrinaggi religiosi, godendo di un’aria arricchita di aromi e mille fragranze, acquisiti anche dalla lavorazione dei salumi. Sulla sommità del Partenio, a 1.300 metri di altezza, c’è uno dei monasteri benedettini più antichi dell’Italia meridionale: l’Abbazia di Montevergine, che i più pigri possono raggiungere comodamente in sette minuti con una funicolare che, da Mercogliano, porta al santuario.

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Pagina precedente. Baiano. In questa pagina. In alto: Avella, area archeologica. In basso: l’anfiteatro.


Sapori del passato per nuovi gusti La carne di bufalo campana, una riscoperta alimentare

Carne di bufalo campana

testo: Patrizia Giordano foto: Alfio Giannotti e Archivio Altrastampa

Descrizione del prodotto La carne di bufalo è un alimento dalle ricche e insospettabili proprietà nutritive: rispetto a quella vaccina, contiene meno grasso di infiltrazione e, viceversa, una gran quantità di grasso di copertura facilmente separabile dal magro, e meno colesterolo (fino al 50%). Il contenuto di colesterolo del grasso intramuscolare bufalino è nettamente inferiore a quello di

diverse altre razze vaccine. Nonostante condivida con la carne vaccina caratteristiche nutrizionali e organolettiche molto simili, quella bufalina non solo si rivela molto più tenera al taglio, ma è anche molto più succosa per la maggiore capacità di ritenzione idrica e, soprattutto, presenta una minore presenza di grassi laddove è invece più ricca di ferro e proteine. Da essa si possono poi ottenere straordinari insaccati: il salame, per esempio, dal sapore robusto e speziato, o la salsiccia, che si distingue per l’utilizzo

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di budello naturale e la legatura a mano. Già dai primi anni Sessanta del secolo scorso, studi condotti da autorevoli istituti universitari e di ricerca sulla possibilità di produzione di carne di bufalo mediterraneo allevato in Italia, hanno dimostrato quanto essa sia un alimento affatto di ripiego o “seconda scelta”. Anzi, i risultati hanno posto l’accento sul fatto che il grasso di questo animale pre-

senta maggiori quantità di acido stearico e oleico, neutri nei riguardi della colesterolemia umana, nonché di acido linoleico che, in quanto polinsaturo, può agire efficacemente nella riduzione della colesterolemia stessa. Cenni storici Il bufalo è un bovino selvatico, originario delle paludi asiatiche e africane, giunto nei nostri territori verso il VI secolo con i Longobardi, diffondendosi poi nel Lazio, in Basilicata e in Puglia. Tuttavia, da noi

la carne di questo animale - per altro conosciuto e apprezzato sin dall’epoca romana, dove era di uso comune consumare insaccati bufalini - non ha mai riscosso un grande successo. A differenza di quanto avviene da tempo negli USA e in alcuni paesi europei, come la Francia, in Italia l’utilizzo di carne alternativa - tra cui quella bufalina - non ha mai incontrato le preferenze dei consumatori. Questione di gusti, tradizioni e abitudini, nonostante la forte presenza di allevamenti nelle aree del Volturno e della piana del Sele. Tra le cause di questo disinteresse, la scarsa attenzione sia verso la produzione che verso la valorizzazione del prodotto carne di bufalo. Tuttavia, oggi si sta assistendo a una sorta di inversione di tendenza nei confronti dell’allevamento bufalino, che prevede sia animali destinati alla macellazione sia quelli destinati alla vendita per allevamento. Area di produzione L’area di produzione coincide con quella della DOP “mozzarella di bufala campana” interessando, dunque, anzitutto la Campania, poi il basso Lazio, la Puglia e il Molise. Attualmente si contano circa duecentomila capi allevati per la produzione di latte, laddove il settore carne sta mostrando buone potenzialità produttive.

Per pranzo che ne dite di un bufalotto al latte con composta di peperoni e gnocchetti di pane, oppure, dei rudi, ma squisitissimi bocconcini di bufalo in umido? Due piatti sostanziosi, due gioielli della gastronomia dell’alto casertano che puntano su un alimento versatile, di grande qualità e piacevolezza: la carne di bufalo campana appunto che, dopo anni di oblio, torna sulla nostra tavola, sia pur collocandosi sul versante degli “estimatori raffinati”. Complice, l’estro di chef di talento che hanno contribuito alla diffusione di questo alimento. Annoverato tra quei prodotti di “nicchia” che, nella stragrande maggioranza dei casi, vengono ottenuti con lavorazioni artigianali, talvolta secolari, ma che andrebbero maggiormente conosciuti e apprezzati dal grande pubblico. Magari, con un minimo di marketing in grado di toglierli dall’ombra in cui sono relegati. È una carne che “fa bene”, almeno più di quella vaccina, solo che non gode della popolarità che meriterebbe. I bufali sono animali forti, massicci, dal pelame corto, abituati a vivere in zone umide e acquitrinose, benché oggi l’allevamento moderno abbia modificato molti dei loro comportamenti primitivi. Tra il XII e il XIII secolo, l’allevamento dei bufali si sviluppò soprattutto all’interno degli ordini monastici che impiegavano l’animale per i duri lavori nei campi. A testimoniarlo, alcuni documenti rinvenuti nell’Archivio Episcopale del XII secolo e riportati nello scritto di monsignor Alicandri della Chiesa Metropolitana di Capua (l’attuale duomo), intitolato Il mazzone nell’antichità e nei tempi moderni dove si scopre, ad esempio, che già all’epoca il consumo dei formaggi con latte di bufala - il casicaballus (il caciocavallo), il butyrus (il burro), la recocta (la ricotta), il provaturo (la provola) - era entrato nel costume alimentare di religiosi e laici. È comunque a partire dal XIV secolo che l’allevamento diventa una realtà economica ben radicata nel Sud Italia, specie in Campania, con la bufala, regina incontrastata delle zone paludose dove il dissesto idrogeologico e la malaria provocavano lo spopolamento progressivo di molti territori. Nel basso Volturno - in particolare nella zona dei Regi Lagni che si estendeva da Nola ad Aversa - e nella piana del Sele, i bufali si diffusero con una rapidità eccezionale, sfruttando pascoli abbandonati per le continue inondazioni dei due fiumi. Il latte che questi animali producono tuttora, si lavorava e si trasformava in formaggi direttamente sul luogo della mungitura. Poi, a partire dal Seicento, le prime lavorazioni nelle “bufalare”, costruzioni murarie di forma circolare, con all’interno un camino che permette-

va di riscaldare il latte per la cagliatura. Ma non solo latte e formaggio: spuntano fuori anche i primi registri di macellazione e vendita della carne, in verità non molto apprezzata, perché si macellavano animali in età avanzata, per cui la carne risultava troppo dura. Quello che si vendeva bene era la pelle di bufalo, che aveva trovato buon mercato sulle coste dell’Africa e a Costantinopoli dove erano sorte diverse industrie conciarie. Agli inizi dell’Ottocento, l’allevamento dei bufali era ancora legato a sistemi “semiselvatici” e “itineranti”. Le prime

Da allora, è andato sempre più migliorando l’allevamento moderno della bufala, dove tecniche, macchinari, controlli morfologici e microbiologici a tutela del consumatore, ne fanno oggi un settore all’avanguardia non solo nella produzione casearia, ma anche nel campo della produzione della carne, per la quale gli enti locali hanno avanzato la richiesta della Denominazione di Origine Protetta. Un nuovo marchio di qualità, di grande tradizione, almeno per chi se ne intende. Per gustare questa carne tracciamo un itinerario sconsigliabile agli impazienti, a

innovazioni nel settore si ebbero solo nel secolo scorso con l’avanzare delle opere di bonifica integrale e la riforma agraria del dopoguerra, che ridussero notevolmente le aree destinate agli allevamenti. È in quest’epoca che l’allevamento iniziò a passare dalla tradizionale forma “semiselvatica” e “itinerante”, a una più compatibile con il nuovo riassetto territoriale. Alla metà degli anni Quaranta, grazie soprattutto alle scoperte portate avanti nel campo sperimentale della zootecnica, si dimostrò che la trasformazione dell’allevamento bufalino era possibile senza troppe difficoltà e soprattutto senza che l’animale, insofferente al caldo, si immergesse in stagni e acquitrini durante la stagione estiva. Bastava ripararlo dai raggi solari e dalle punture di insetti adeguando così locali e strutture.

chi vuole vedere tutto e subito. Perché visitare l’alto casertano con le sue città di pietra, i suoi borghi ricchi di storia e arte, significa abbandonarsi languidamente al gusto delle cose piane, entrare in una terra favorita da un clima dolcissimo e da una straordinaria fertilità, tanto straordinaria che basta solo seminare per raccogliere, anche più volte l’anno. Una terra fortunata, accarezzata da un vento scapricciatiello che rendeva felici e indolenti i suoi abitanti e chiunque vi approdava. Terra antichissima e di ozi leggendari che ci portano a Capua, l’antica Capys che si trovava nel territorio oggi corrispondente a Santa Maria Capua Vetere, tanto bella e splendente da essere definita da Cicerone “altera Roma”. L’antica cittadina fu veramente fiorente e fertile sotto il dominio romano, così come lo era stata prima con

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gli Etruschi e poi i Sanniti. Famosa per la sua posizione a guardia del ponte dell’Appia, o meglio degli Aurunci, che valica il fiume Volturno, per la Scuola dei Gladiatori di Lenulo, a cui apparteneva il tracio Spartacus, per il suo anfiteatro a quattro piani, secondo solo al Colosseo. Ma, ancora di più, per il suo vino, i suoi banchetti, i piaceri “smodati” della carne. La Capua di oggi ti viene incontro placida, solenne, con le sue cupole, le sue chiese, i suoi palazzi nobiliari, ricca di un inestimabile patrimonio storico-artistico che ha sempre dovuto difendere con solide mura e fortezze. Perché tanti sono gli assedi subiti nel corso dei secoli. Il più sanguinoso e memorabile fu quello condotto da Cesare Borgia nel 1501 che la saccheggiò con inaudita violenza. Tra il Settecento e l’Ottocento visse continue occupazioni da parte degli Austriaci, degli Spagnoli, dei Francesi e, infine, dei Piemontesi dopo la battaglia sul Volturno, nel 1860. Ma il colpo decisivo alla sua supremazia lo aveva già avuto nel 1818 quando i Borbone, per punirla del suo sostegno a Gioacchino Murat, le tolsero il ruolo di capoluogo di provincia, passato a Caserta. Durante la Seconda Guerra Mondiale, Capua venne semidistrutta da un bombardamento aereo nel settembre del 1943. Ricostruita nel dopoguerra, meritò il nome di “regina del Volturno”, quel fiume dallo strano richiamo “totemico”, Vultur, avvoltoio, che ha scritto vorticosamente il suo passato. La cittadina è un vero scrigno di pietra, racchiuso da un’imponente cinta muraria, realizzata nel Cinquecento dagli Spagnoli e ampliata due secoli dopo dagli Austriaci. Inserito nel tessuto delle fortificazioni vicereali, il Castello di Carlo V (o cittadella spagnola) costruito dal 1542 al 1552, è il gioiello dell’intero sistema difensivo, uno degli esempi più significativi di architettura militare. Entrando nel centro storico dal ponte romano sul Volturno, ricostruito dopo i bombardamenti del 1943 e considerato simbolicamente porta di accesso a tutto il Regno delle due Sicilie, si possono ammirare i resti delle torri federiciane, che facevano parte della celebre “porta con due torri”,

voluta dall’imperatore Federico II. Dalla sponda del fiume, si innalzano due basi poligonali. Tra le basi e le torri in tufo, le merlature un tempo erano coronate da sedici statue, splendidi esempi della scultura italiana del Duecento, ora custodite nella Sala Federiciana del Museo Campano. Percorrendo la strada principale, il corso Appio, che segue il tracciato dell’antica via Appia, si incontra la Chiesa medievale di Sant’Eligio, dalla facciata barocca mentre l’omonimo arco, sormontato da una loggia, risale al Quattrocento. All’interno, la chiesa conserva un pregiatissimo organo ligneo seicentesco e una Madonna sempre lignea, opera di Pietro Alemanno. Poco più lontano, la veneranda Cattedrale, dedicata ai santi Stefano e Agata - fondata dal vescovo capuano Landulfo nell’856 - che custodisce alcune testimonianze dell’arte romanica: la torre campanaria e il candelabro marmoreo del cero pasquale. L’ingresso è preceduto da un atrio quadrilatero sostenuto da venti colonne con capitelli corinzi del III secolo d.C. Antichi bassorilievi provengono dall’Anfiteatro Campano di Santa Maria Capua Vetere. Di lato, la torre campanaria, a pianta quadrata, eretta nell’861 e che rappresenta un episodio di spicco del periodo longobardo. All’interno, la chiesa è divisa in tre navate da diciotto colonne monolitiche di granito. Custodisce, tra l’altro, una tela raffigurante l’Assunta di Francesco Solimena e una splendida statua lignea policroma di Bartolomeo da Capua. Scendendo nella cripta, nella cella che simula il Santo Sepolcro, si cela una delle sculture più straordinarie del primo Settecento, il Cristo morto, scolpito da Matteo Bot-

tiglieri su disegni del Solimena e che esprime tutta la morbidezza plastica del Barocco. Nella sacrestia invece è raccolto un tesoro d’arte incredibile: arredi sacri, statue d’argento, oggetti in oro, libri antichi e pergamene tra cui un rarissimo exulet dell’XI secolo. Uscendo dal duomo, attraverso il vicolo di San Giovanni a Corte, ci si può dirigere verso l’area dei palazzi gentilizi, ricca di chiese di fondazione longobarda che raccontano degli anni di grande floridezza che la cittadina visse durante il principato. Come la chiesetta di San Giovanni a Corte, databile intorno alla fine del IX secolo, dove sono ancora visibili la cripta e alcuni resti di

Pagina precedente. In alto, a sinistra: Capua, piazza dei Giudici. A destra: interno della cattedrale. Al centro: portale di Palazzo Antignano. Sotto: cortile del Museo Campano. In questa pagina. In alto: Chiesa dell’Annunziata. Sotto: testa del Dio Volturno. In basso: Mater matuta.

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affreschi, la Chiesa di San Michele e quella di San Salvatore a Corte, col suo elegante campanile a due piani di bifore e le cappelle ad curtim con tracce longobarde nelle colonne e nei capitelli. Infine, San Marcello Maggiore, con un portale il cui montante destro è decorato con scene dell’Antico Testamento, mentre l’altro, a sinistra - con scene di caccia e cavalieri costituisce uno dei maggiori esempi di scultura romanica. Si chiude il percorso medievale con il Castello delle Pietre, fatto costruire nel 1058 da Riccardo I, principe normanno di Capua. Dalla cinquecentesca Porta Napoli, molto simile alla Porta Capuana di Napoli, si può godere una splendida vista della cinta bastionata. Da lì si apre un percorso che conduce a opere rinascimentali: il duecentesco Palazzo Fieramosca, che conserva ancora un bel portale ogivale ornato con fiordalisi angioini. Infine, la Chiesa dell’Annunziata, fondata alla fine del XIII secolo e completata in epoca barocca, con una elegante cupola disegnata da Domenico Fontana e che caratterizza da lontano il profilo di questa cittadina di pietra disgiunta, bianca e nera con tanta storia ancora da raccontare. Per chi ha il gusto delle cose belle, una visita al Museo Campano di Capua e alla Basilica di Sant’Angelo in Formis - custodi di culture primordiali, opere d’arte di pittura e scultura di ogni epoca - giustificano da soli un viaggio nell’alto casertano. Il Museo Campano, fondato nel 1857, ha sede nel quattrocentesco Palazzo Antignano, mirabile sintesi del gusto architettonico catalano e toscano rinascimentale che si esprime nel bel portale, nel

Pagina precedente. Capua, Castello delle Pietre. In questa pagina. Basilica di Sant’Angelo in Formis. Pagina 60. In alto, a sinistra: Vitulazio, cappella votiva. A destra: Chiesa di Santa Maria dell’Agnena. Al centro e in basso: Bellona. Pagina 61. Pontelatone, bifora medievale, torre del castello, Chiesa di San Pietro e Paolo.


cortile a pianta quadrata, nell’ampia scala. Il museo si articola in trentadue sale espositive, divise in tre sezioni: archeologica, medievale e moderna. Nella sezione archeologica si può ammirare il Lapidarium di Teodoro Mommsen - il famoso archeologo e filologo tedesco giunto in Italia nel 1844 per le sue ricerche - che costituisce la più ricca raccolta di epigrafi dell’agro campano, dopo quella del Museo Nazionale di Napoli. Nella sezione medievale, tra frammenti e sculture, anche le statue duecentesche della demolita porta federiciana, tra cui la testa acefala di Federico II in trono e i busti dei suoi consiglieri, Taddeo da Sessa e il capuano Pier delle Vigne. Ma le vere padrone di casa sono senz’altro loro: le Matres Matutae, più di duecento statue in tufo grigio, “tozze gravi e possenti sui seggi” - scriveva Amedeo Maiuri - a simboleggiare il mito della dea Madre Terra, venerata dal VII secolo sino ai primi anni del Cristianesimo. Le statue furono rinvenute nel 1845 nel fondo Patturelli presso

Santa Maria Capua Vetere, dove sorgeva il tempio dedicato alla dea Madre che faceva da contrappunto a un altro tempio, ancora più imponente, eretto ai piedi del monte Tifata, quello dedicato alla dea Diana. Con l’arrivo del Cristianesimo, entrambi i sacri luoghi vennero abbandonati, ma sui resti del tempio dedicato alla dea cacciatrice, sorgerà alla fine del VI secolo la Basilica benedettina di Sant’Angelo in Formis, così chiamata in o ad formas, per via degli acquedotti che portavano l’acqua a Capua. Per raggiungerla, bisogna passare sotto la porta detta “Arco di Diana” e attraversare l’abitato del piccolo borgo: una serie di case con tanto di orto e giardino, in fila l’una dietro l’altra, lungo la strada che si sdoppia salendo verso le pendici del monte Tifata. La basilica venne ampliata e riedificata dai Benedettini di Montecassino nel 1072-82 per volere dell’abate Desiderio, uomo di cultura e fine diplomatico che, per la decorazione della chiesa - gli affreschi sono il vero tesoro di questo complesso medievale - chiamò artisti bizantini da molte parti d’Italia. La facciata è preceduta da un portico a cinque arcate sostenuto da quattro colonne corinzie. In fondo all’arcata si apre il portale di marmo bianco, sovrastato, nella lunetta, da un affresco raffigurante San Michele dell’XI secolo e che rimanda alla remota sacralità del luogo, quando, alla fine del VI secolo, in queste zone si erano stanziati i Longobardi che vollero dedicare la basilica al loro santo guerriero. Accanto al portico, il possente campanile. Nell’interno, a pianta basilicale a due ordini di colonne, sono ancora visibili nel pavimento le tracce del mosaico che ornava l’antico Tempio di Diana, come attesta una lapide del 79 a.C. Se dopo la visita a Capua avete tempo per una deviazione, vi consigliamo di inoltrarvi verso l’interno delle valli, per scoprire paesaggi ancora agresti e sapori che sono rimasti quelli di altri tempi. Percorrendo la via Appia, a tre chilometri da Capua, si incontra il rivolo dell’Agnena e da qui si apre una strada che, attraverso una campagna rigogliosa, si

insinua nel passo del Triflisco. Dopo pochi chilometri siete a Vitulazio, anzi Vitulaccio, un tempo casale della vicina Capua con cui ha condiviso per molto tempo sorti e vita amministrativa. Il toponimo designerebbe un luogo adatto all’allevamento di vitelli. Ma, a parte capre e vitelli, quest’ultimo raffigurato pure sul gonfalone municipale, l’aria è impregnata del profumo della terra che punge le narici e invita a respirare a pieni polmoni. Dappertutto filari di olivi per la produzione dell’olio locale e vigneti, da cui provengono le uve del famoso “Greco Terre del Volturno”, un vino giovane, equilibrato, dalla bella struttura floreale, da bere tutto d’un fiato, come fanno i cacciatori che, qui, si vedono di frequente. Botte “indignata” botte da finire, chiaramente con affettati e mozzarella di bufala che, a Vitulazio, si trovano in due rustiche trattorie. Visita veloce alla Chiesa di Santa Maria dell’Agnena, costruita alla fine del Settecento sui resti di una precedente chiesetta. All’interno, pregevoli dipinti come l’Ultima Cena di Gaetano Gigante, autore tra l’altro di una Santa Maria dell’Agnena con Santo Stefano e San Giovanni Battista. A un chilometro dall’abitato, il bel palazzotto ottocentesco dei conti Capece Galeota, sprofondato in un ampio parco e che conserva tutti i caratteri della tipica casa padronale contadina. Nelle vicinanze, appollaiato alle falde delle colline del Triflisco, il casino di caccia frequentato dai Borbone per i loro svaghi venatori, ancora in ottime condizioni e adatto a chi ama passeggiate e frescura. Si prosegue con deviazione per Pastorano, antichissimo borgo adagiato in una conca agreste, circondato da boschi di castagni, faggi e olivi, tanto che a molti sembrerà di ritornare in piena Arcadia: un invito, quindi, a camminare a piedi e respirare a pieni polmoni, dopo aver fatto scorta di salumi bufalini e ottimo formaggio pecorino. Si prosegue per pochi chilometri e si è a Bellona, conosciuta per le sue cave di tufo da cui venne fuori il miglior travertino per la costruzione della Reggia di Caserta. Deve il nome alla mitica dea della guerra,

Bellona, il cui tempio, esistente dal IV secolo a.C., si trovava fuori la cittadina, presso la Porta Collina. Cittadina onusta di storia, ricca di bei monumenti, come il Santuario di Santa Maria Jerusalem, sul colle Rogeto, fondato nell’XI secolo da Riccardo II il Normanno. Campi rigogliosi e vigne vecchie per la produzione di bianchi e di un rosato di tutto rispetto. Qui coltivano la vite e vinificano ancora all’antica. Anche l’olio è buono: è vergine di frantoio. Qui, nell’ottobre del 1943, vennero trucidate dai nazisti per rappresaglia ben cinquanta cittadini bellonesi. Sul luogo dell’eccidio, le ex cave di tufo, situate poco fuori l’abitato, nel 1945 è stata eretta una stele commemorativa con i nomi dei fucilati e un’epigrafe dettata da Benedetto Croce. Da Bellona, tornando sulla Statale 264, l’ultimo borgo, ma è un’eccezione da non perdere. È lo splendido e intatto cuore medievale di Pontelatone, racchiuso in una piana tra i rilievi del monte Maggiore, conosciuto per la sua mozzarella e la carne di bufalo, due piatti tipici su cui ruota gran parte dell’economia agricola di tutto il territorio. Un grappolo di case attorcigliate attorno all’unica piazzetta del paese e alla chiesa parrocchiale, che conserva sulla facciata ancora un bel rosone e un portale con arco ogivale. Sulle case, splendide e incredibili decorazioni in pietra che impreziosiscono cornici, portali, mensole, finestre, regalando alle forme semplici e lineari di queste abitazioni un’aura di antico splendore. La cittadina fu feudo di potenti famiglie, dei Marzano, dei della Ratta e dei Carafa. Durante l’epoca angioina, nel XIV secolo, il luogo fu circondato con mura e torri di difesa e a nord-est venne edificato un castello trasformato in torre campanaria, che domina le case in un gioco di orti, giardini, davanzali fioriti. La gente del posto è orgogliosa del suo piccolo mondo antico, i vicoli affacciati sulla valle, i fiori, i silenzi. Qualche bottega artigiana e qualche trattoria dove mangiare la carne di bufalo è ancora un rito, l’unica concessione mondana.


Una storia antica L’olio extravergine di oliva delle colline beneventane

Olio extravergine di oliva

Colline beneventane

testo: Patrizia Giordano foto: Archivio Altrastampa

Descrizione del prodotto Da giovane, l’olio extravergine d’oliva colline beneventane si presenta di colore giallo, con intense sfumature verdi. All’olfatto sono individuabili note erbacee, con netti sentori di pomodoro maturo che si percepiscono distintamente anche al gusto. Armonico all’assaggio, può talora rivelarsi leggermente amaro e piccante, ciò dovuto all’alta percentuale di polifenoli in esso contenuti. Il pregio e la bontà di questo olio sono da attribuirsi, in gran parte, alla perfetta armonia tra l’ambiente e le varietà locali - prima tra tutte l’Ortice consolidatasi nei secoli. L’Ortice è, dun-

con strumenti meccanici, entro il 31 dicembre di ogni anno e, una volta trasportate con grande cura al frantoio, vanno conservate in cassette forate, in condizioni di bassa umidità e basse temperature, e molite entro due giorni dalla raccolta. Le operazioni di oleificazione avvengono nella stessa zona di produzione delle olive. La tradizionalità di questa coltura, unitamente alle sue indiscusse qualità, certificate di recente da numerosi premi ottenuti, sono state riconosciute con il conferimento della Denominazione di Origine Protetta all’olio extravergine d’oliva colline beneventane.

tutta la regione e, soprattutto, in provincia di Benevento; così, questa pianta, già presente nel Sannio, si estese rapidamente in tutte le aree a vocazione olivicola.

que, la protagonista di questa produzione: il disciplinare di produzione riconosce, infatti, come DOP solo gli oliveti in cui tale varietà è presente per almeno il 70%. Altre varietà - Frantoio, Leccino, Ortolana, Moraiolo e Racioppella - possono anch’esse partecipare in percentuali minori. Solo così si avrà un olio che rispecchia a pieno le sue caratteristiche di tipicità. Le olive si raccolgono, a mano o

Cenni storici In Campania, l’introduzione della coltivazione dell’olivo risale ai Greci e ai Fenici. Quello che Omero definì “oro liquido”, ha ricoperto nei secoli svariate funzioni, se si considera che esso veniva utilizzato non solo come alimento, ma anche come ingrediente base per la preparazione di unguenti e profumi. Furono, tuttavia, i Romani a estenderne la coltivazione in

Area di produzione L’area di produzione dell’olio extravergine di oliva colline beneventane si estende in quarantaquattro comuni, tutti nella zona che comprende i rilievi intorno alla città di Benevento, le alte colline che costeggiano i fiumi Tammaro e Fortore, attraverso la piana del Calore, fino ai primi contrafforti del Taburno e del Partenio.

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Lavorato a freddo, con fruttato più o meno intenso, con sentori di pomodoro o di mela: comunque sia, mai come adesso l’olio extravergine d’oliva sta conquistando i palati più esigenti. È di moda, fa bella mostra di sé sulle tavole, in cucina e nei ristoranti, con i produttori che fanno festa spalancando le porte ai gourmet di mezzo mondo, mentre la Food & Drug Administration, l’ente americano di controllo sui farmaci e alimenti, ha autorizzato persino un’etichetta da apporre sulle bottiglie per segnalare le “proprietà incredibilmente salutari” del prodotto mediterraneo per eccellenza. Simbolo incontrastato della nostra civiltà rurale e delle sue infinite necessità. Perché l’olivo, assieme alla vite e al grano, è tutt’oggi la nostra radice, il nostro mito, il sacro patto che i contadini da millenni hanno stretto con la terra, ungendola di fatica e di sudore. Nei rami possenti dell’olivo si riassume la potenza straordinaria della natura, capace di rinascere nelle condizioni più avverse e nei luoghi più accidentati; nei suoi frutti ovali - verdi o neri, amarognoli o dolci - si racchiude la prodigalità di un albero che porge all’uomo un nutrimento completo, perfetto, attraverso quell’aureola argentata che da secoli disegna i profili delle colline. E se c’è una terra fra tutte dove questa pianta, maestosa e tenace, contraddistingue il forte binomio tra il paesaggio e il

duro lavoro nei campi, bene, quella è la Campania. Quarta regione olivicola italiana, che vanta una tradizione che affonda le radici nella notte dei tempi: a partire dai Fenici e poi i Greci che portarono l’olivo in tutti i territori colonizzati. A donarlo, del resto, al mondo degli uomini, fu la casta Pallade Atena, dea della vegetazione e dei lavori agricoli, che creò questa pianta dalla natura un po’ riottosa, dopo una sfida con Poseidone per il possesso dell’Attica. Quando il dio barbuto delle acque e dei mari scagliò il suo tridente facendo scuotere la terra, scaturì una sorgente dove Pallade fece nascere in segno di pace e armonia il primo albero d’olivo. Lo stesso dal quale, qualche secolo dopo, una colomba solcando i mari porterà all’arca di Noè un ramoscello. Con l’arrivo dei Romani la coltivazione dell’olivo si estese in tutta la regione e qui, nella Campania felix, in cui tutto irride al sole, con i terreni gravidi delle ceneri di un vulcano, la pianta trovò il suo habitat ideale per allungare i suoi rami frondosi, crescere, garantendo olio abbondante e sempre di buona qualità. Tant’è che la rete commerciale che avevano messo su gli antichi Romani, vide l’olio come uno dei prodotti più trasportati e venduti, e ai popoli conquistati addirittura lo imponevano come tributo. Alla fine non è ben chiaro se si preferiva come alimento o

come cosmetico. Ma è Plinio il Vecchio a fornirci una ricetta della buona salute che in sintesi consigliava “vino dentro lo stomaco, olio fuori per proteggere la pelle”. Tre secoli prima Catone illustrava già ampiamente due tipologie di prodotto: l’olio normale, detto “maturo” e preparato a gennaio, e l’altro, il “verde”, di fine novembre o dicembre. Il migliore era proprio quest’ultimo e di prezzo chiaramente più sostenuto: ecco perché bisognava produrne poco, per non lasciarlo invenduto. Due secoli dopo ed è Columella nel De re rustica (I secolo d.C.), a parlare di quattro tipi di olio, tra cui l’olio maturo, ormai destinato anche al “cibario”, cioè alla cucina. L’olivo diventa, così, attraverso i secoli il protagonista assoluto del paesaggio campano e fonte di reddito delle popolazioni rurali: dalle fasce costiere, costeggiando sinuose colline, lungo la sponda dei fiumi per addentrarsi sempre più verso le zone interne e fare tappa nella provincia di Benevento sino ai contrafforti del Partenio e del Taburno, proprio quel monte che Virgilio nelle Georgiche consigliava di ricoprire di un manto di oliveti (“Iuvat olea magnum vestire Taburnum”). Già presente nel Sannio dal VI secolo a.C., la pianta si diffuse rapidamente, s’iniziò ad addomesticarla, a coltivarla assieme alle noci e alle castagne. E fu facile, in una terra da sempre generosa di frutti, con gli

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In alto: Benevento, l’anfiteatro. In basso: Ponte Leporoso. Pagina successiva. Benevento, l’arco di Traiano, particolari.

olivi che impararono in fretta a resistere anche al gelo, a penetrare con le loro radici nel terreno, a proteggere le colline perché sennò franavano, a siglare quella alleanza fra l’uomo e la natura. Tutto, per quelle gocce preziose che arrivavano alla fine di ogni anno a far girare i frantoi di pietra, a riempire gli orci delle cantine. Solitario e longevo, tanto da attraversare i millenni, anche quando sembra che stia per morire, quell’albero lo si vede rinascere di nuovo. Nel Medioevo furono gli ordini monastici a mantenere alta la tradizione della sua coltura, grazie al vescovo di Benevento,

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Landulfo, capo di tutte le chiese del suo principato che, a partire dal 969, impose che città e paesi tutti ricadenti nella sua giurisdizione religiosa diventassero centri olivicoli e vinicoli per eccellenza. Furono i vescovi, in poche parole, a riportare i contadini nei campi, a spingerli a rimpiantare olivi e vigne, a migliorare o bonificare i terreni. La terra con i suoi frutti meravigliosi, come l’olio e il vino, divenne così il campo d’azione del monachesimo. Da allora, un costante processo di sensibilizzazione ha portato gli olivicoltori sanniti a dare sempre più lustro e dignità a un prodotto di grande tradizione, attorno

al quale ruota l’economia locale. Un prodotto che ha meritato la certificazione con il marchio a Denominazione di Origine Protetta: la DOP olio extravergine di oliva Colline beneventane. Un marchio che attesta soprattutto la presenza di varietà locali di olive di grande interesse dal punto di vista organolettico, peraltro già apprezzate e riconosciute dalle guide del settore. In terra sannita, la “terra che piace a Dio” e che conserva ancora lo stesso sapore “barbarico”, mistico di un tempo, dove camminare a piedi è il miglior mezzo per vivere il fascino della campagna, che da queste parti si distende e si riposa. Case coloniche sparse, fattorie dimesse, dolci valli, monti e colline accarezzabili come tanti buoi al pascolo. Siamo in quella parte della Campania felix che penetra nella pianura per poi risalire verso la valle Caudina, stabilendo quasi un contatto orografico con la Puglia verso cui, dopo le famose Forche Caudine, si dirigerà l’antica via Appia. Un Eden che riserva l’emozione dell’essere, dove tutto - natura, arte e storia - s’impregna di grande temperie spirituale. Con un unico faro a illuminare il cammino, all’interno di una provincia che conta settantotto comuni: Benevento, “i cui raggi - scriveva Domenico Rea - rassomigliano ad un ostensorio, riassunto del Sannio, lo contiene e lo conclude come un globo con in cima un diadema risplendente”. E Benevento appare proprio come un diadema di pietra, arroccato su un colle della valle a cui dà il suo nome, bagnata dai fiumi Sabato e Calore, sferzata da un vento che spira dall’entroterra. Antichissima città, la cui origine si vuole far risalire addirittura a Diomede, nipote di Meleagro, eroe della guerra di Troia: da qui il nome primigenio di Maloenton, che

più che far pensare a una città battuta dal vento o colpita dalla malasorte, evoca (per l’impronta del dialetto etolico) greggi di pecore di ritorno dal pascolo e abbandonate all’epoca sulle sponde dei due fiumi. Comunque sia, questa è città dei fieri e bellicosi Sanniti che la seppero rendere florida e ridente, a tal punto da attirare le mire dei Romani che se ne impossessarono dopo aver sconfitto Pirro nel 275 a.C. E pensare che qualche anno prima gli stessi Sanniti avevano fatto tremare le aquile romane alle famose Forche Caudine (o “sella di Arpaia” che apre l’adito verso la valle Caudina). Così sotto il giogo romano, Maloenton fu ribattezzata Beneventum, da bonum eventum, buona sorte che in questo periodo arride alla città, attraversata dalla via Traiana che portava in Puglia e in Oriente e frequentata da imperatori, consoli e generali. È l’epoca della costruzione di grandi edifici: l’anfiteatro, l’Arco di Trionfo di Traiano, il ponte Leproso che rappresentava il tratto di accesso in città attraverso la via Appia che conduceva a Brindisi, e ancora, il Tempio di Iside, fondato nell’88 a.C., di cui oggi si può ammirare il Bue Apis, una scultura egizia, eco di una religione arcana penetrata dall’Oriente. Testimonianze di una storia illustre che Beneventum vive anche nel Medioevo, durante la dominazione Longobarda, prima con Zotone I, e poi con Arechi II che ne fece la capitale “illuminata” del ducato meridionale. Fu ingrandita e assunse l’aspetto moderno, ancora vivo nel centro storico. Di epoca longobarda è la Chiesa di Santa Sofia, metà stellare, metà circolare, la chiesetta di Sant’Ilario, la cattedrale, l’allargamento della cinta muraria. Ma è sopraggiunto anche il tempo delle janare, le streghe di Benevento, leggenda nata evidentemente proprio quando i Longobardi celebravano i loro riti magici e danze del sabba in onore del dio Wotan - una vipera ammantata di oro - attorno a un albero di noce, situato lungo il greto del fiume Sabato. “Lo noce di Benevento”, che divenne presto teatro dei riti satanici di tutte le streghe del contado, appunto le janare (dal latino janua, porta), donne che possedevano poteri magici e conoscevano tutte le virtù delle erbe e che bussavano alle porte delle case dei contadini per rubare loro l’anima e venderla al diavolo. Quel luogo alchemico, magico, infernale entrò presto nella fantasia popolare facendo di Benevento la “città delle streghe”. Quando i Longobardi del duca Romualdo vennero convertiti al cattolicesimo dal vescovo Barbato, nell’anno 682, si decise l’abbattimento del noce, decretando così la vittoria del bene sulle potenze infernali, con le streghe che fuggirono lontano in groppa a una scopa. Ma Benevento rimase a lungo legata alla tradizione assieme ai suoi misteri e ai suoi peccati. Alla fine dell’XI secolo, la città passò alla chiesa (la occuparono le truppe di Leone IX) e il dominio pontificio durò sino al 1860. Ma non furono certo secoli tranquilli, se è vero che la cittadina fu saccheggiata più volte da Federico II, e qui vide morire Manfredi ucciso in battaglia da Carlo d’Angiò, alle pendici di monte San Vitale, sul fiume Calore. E a tanta cattiva sorte si

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aggiunsero carestie, pestilenze e terremoti: i più tragici, quelli del 1688 e del 1702. Venne occupata da Ferdinando IV di Borbone e nel 1799 aderì alla Repubblica Napoletana. Napoleone ne prese possesso nel 1806. Dopo il Congresso di Vienna, Benevento ritornò allo stato pontificio sino al 1860 quando poi fu annessa al Regno d’Italia. Il resto è storia, fierezza, orgoglio di una città che resta un mosaico di mistero, il crogiolo di tre civiltà - sannita, romana e longobarda - che stanno ancora lì, all’interno delle sue mura, a confrontarsi e convivere. Tappa d’obbligo di questo museo in itinere che è Benevento, l’anfiteatro romano, eretto ai tempi di Adriano e ampliato da Caracalla tra il 200 e il 210 a.C. Uno dei più grandi teatri antichi giunti sino a noi. Oggi il teatro viene utilizzato per gli spettacoli estivi e rappresenta uno dei maggiori attrattori culturali e artistici della città. Immergendosi nelle viuzze dell’antico rione Triggio, cuore storico beneventano, tra portici e palazzi che recenti restauri hanno restituito al loro prestigio, la cattedrale di età longobarda, consacrata nel 780 a.C. dal vescovo Davide. Ampliata nel XII secolo è stata semidistrutta dai bombardamenti bellici. Della chiesa primitiva, oggi restano la facciata romanica, il massiccio campanile del 1280, dove di particolare interesse è un fregio di cippi figurati romani. All’interno, la cripta impreziosita da importanti affreschi e le porte bronzee medievali, tutta una “formella”, creature di monsignor Giovanni Giordano. Fuori del duomo, a fare da sfondo alla via, il maestoso Arco di Traiano, eretto tra il 114 ed il 117 d.C. dal Senato e dal popolo romano a segnare l’inizio della

nuova via Traiana che andava da Benevento a Brindisi. È il più importante esempio dell’arte traiana pervenuto fino a noi. A un solo fornice, è arricchito di sculture e bassorilievi che illustrano le benemerenze dell’imperatore verso Roma, le province e Benevento. In epoca medievale, i Longobardi non toccarono il monumento, lasciandolo incastonato nel giro delle mura cittadine; fu così che l’arco divenne porta di accesso alla città e chiamato, per giocoforza, Porta Aurea. Restaurato sotto papa Urbano VIII, l’opera di Traiano fu poi isolata nel 1856, per volere di papa Pio IX; purtroppo i lavori non vennero completati, bisognerà aspettare il 1890 per la restaurazione della parte superiore e i nostri tempi per il totale isolamento. Rientrando sul corso Garibaldi, principale arteria viaria della città, un’altra magia è la Chiesa di Santa Sofia, nella omonima piazza, vero gioiello architettonico, a pianta a poligoni concentrici escogitata da un anonimo architetto della corte longobarda. Sulla facciata, ristrutturata nel Seicento, alcuni elementi del primigenio pronao e il bel portale del XIII secolo. All’interno della chiesa, uno stupendo chiostro costruito tra il 1142 e il 1176 con un porticato composto di quindici quadriforme e di una trifora. La chiesa è adiacente al Museo del Sannio, in cui è conservato il più grosso nucleo di sculture egizie mai trovato in terra europea: “corredo” sacro di un tempio dedicato alla dea Iside, maga osannata per aver ridato vita allo sposo Osiride e, quindi, un po’ l’antenata di tutte le streghe. Il museo, istituito nel 1873, fu ampliato dall’archeologo tedesco Teodoro Mommsen e si rivela una perfetta cerniera tra passato e presente. Ultima tappa di questo museo in itinere, la Rocca dei Rettori, situata nel punto più alto della città, sui resti di un antico fortilizio longobardo, eretto a sua volta su tracce di un edificio romano. La rocca, che ha quattro porte - due sul lato affacciato sulla città, due sul lato opposto - venne eretta nel 1321, come sede dei rettori pontifici, da papa Giovanni XXII e l’esecuzione fu affidata al frate Arnaldo de Brusacco. Il complesso ricalca le costruzioni delle fortezze di Carcassonne e Avignone. Restaurata recentemente, si articola su tre livelli. All’interno sono conservate le pergamene vergate nell’antica scrittura “beneventana”, quando la città nel XII secolo era sede dello scriptorium per la trascrizione dei testi classici. Frasi e testi miniati che fanno da pendant alla rocambolesca storia della rocca, oggetto di ripetuti assalti e teatro di aspre lotte tra Angioini e Aragonesi, finché non fu infeudata ai Borgia. Nel Settecento, nel corso di una ristrutturazione voluta da papa Clemente XI, venne aggiunta un’ulteriore ala alla struttura riducendo il corpo di fabbrica tardo medievale. Tra gli illustri prigionieri delle sue segrete: Muzio Attendolo Sforza, il re Alfonso d’Aragona, che qui studiò l’assedio di Napoli, Traiano Boccalini, Gioacchino Pecci, poi papa Leone XIII. Ma questo è solo il prologo di una città che resta ancora un mosaico di mistero. Una puntata nel cuore del Fortore. Un percorso tortuoso, lavorato di gomiti e di

piedi almeno per chi guida, ma che vale la pena di fare. È la valle del Fortore, un ritorno nel passato tra orgogli di popolo e santità terrene. Da Benevento si imbocca la Statale 212. La strada si inerpica verso le brulle ondulazioni dei monti del Sannio, con vista sulla destra di frazioncine sparse su per vicoli e supportici di pietra, mentre a sinistra si profila il massiccio del Taburno, e poi il monte Pentime, dalla strana forma a “cono” pettinato di verde. Ed ecco Pietrelcina, il paese natale di San Pio, arroccato su uno sperone di roccia, che chiamano la “Morgia”. Qui tutto parla del frate cappuccino. Un paese-santuario dove però continua a permanere un clima georgico e di lavoro nei campi. Calura meridiana, pasti frugali ai piedi di un olivo, frinire di cicale, donne chine dinanzi al focolare. Il nome Pietrelcina? La tradizione popolare racconta di un grosso masso rinvenuto negli scavi della chiesetta medievale di Sant’Anna con su inciso una gallina con i

Pagina precedente. In alto: Benevento, la volta della cupola di Santa Sofia. Al centro e in basso: la Rocca dei Rettori. In questa pagina. Pietrelcina, la casa natale di San Pio.

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suoi pulcini. Ma documenti dell’anno 1133 attestano, invece, la presenza di un tal milite Bartolomeo da Pretapolcina. Ci si addentra nel centro storico detto “il castello”, attraverso la Porta Madonnella, tre formelle maiolicate con San Michele, l’Incoronata e Sant’Antonio, simbolo di una religiosità semplice, popolare che piega anche le anime più ribelli. Dentro, un borgo trasognato, soffuso di sapori antichi, consunto di passi in cerca di pace: un pellegrinaggio mentale tra case petrigne addossate le une alle altre, terrazzini e orti fioriti, portoni con fregi e archi, e ancora, vicoli che sembrano tagliati dalla lama di un coltello. Un po’ ovunque, all’ingresso delle case, ricordi, immaginette, murales con la faccia bonaria del santo cappuccino. La sua casa natale si trova in vico Storto Valle, in un ambiente angusto, in cima a una scaletta ammantata di verde: un solo vano, un letto, una stalla e un crocifisso. Cose semplici, dal profumo di fieno, di lavanda e che sono i contrafforti della fede sannita. Aggrappata alla rupe, la chiesetta di Sant’Anna, del Trecento, distrutta dal terremoto del 1688 e poi ricostruita con i soldi dei fedeli e dei concittadini americani. Nell’interno, sotto l’altare maggiore, le reliquie di un altro San Pio, martire cristiano, provenienti dalle Catacombe di Priscilla a Roma e donate al paese nel 1801 dal feudatario Carafa principe di Roccella. Scendendo giù dal castello: Santa Maria degli Angeli, del Settecento, ristrutturata e rimaneggiata sino a tempi recenti, con il suo bel campanile, l’orologio e in alto il gallo di Pietrelcina che scandisce i tempi della natura e guarda a oriente dove nasce il

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sole delle messi. Sull’altare maggiore della chiesa, la statua lignea seicentesca della Madonna della Libera, “Madonnella nostra”, ripeteva devoto San Pio. La statua ricorda la liberazione nel 663 del ducato longobardo dai Goti; la cittadina la festeggia tre volte l’anno. Si ritorna sulla Statale 212, si prosegue per San Marco dei Cavoti, un angolo di Provenza nel cuore sannita, tra boschi di querce e uliveti, sulla cima di una collina, a poco più di 690 metri di altezza. Paesaggio idilliaco e aria leggera anche nei mesi caldi, anche quando altrove c’è l’afa. Ma con un profumo inconfondibile, quello di torrone. Siamo, infatti, nella patria di una delle migliori produzioni dolciarie della regione. Ce ne sono per tutti i gusti: al cioccolato, alla mandorla, alle nocciole, glassato, e in tutte le forme. Ogni maestro pasticciere ha la sua ricetta, il suo segreto che si tramanda da generazioni. La cittadina fu fondata dai Francesi del Delfinato di Gap venuti al servizio degli Angioni. Poi divenne feudo dei Gaetani d’Aragona, dei Colonna, quindi della famiglia spagnola dei Cavaniglia a cui si deve la costruzione della Chiesa di Santa Maria del Carmine (un tempo Santissima Annunziata). Un borgo lillipuziano, coccolato dalle sue mura turrite, in parte ancora in piedi e intervallate da quattro porte, la principale è Porta Grande con un bell’arco ogivale, i cardini del portale di legno che una volta a sera si chiudeva. La strada conserva l’antica pavimentazione a lastroni irregolari di pietra locale. Stradine che si snodano tutte attorno al palazzo marchesale, a dimore di illustri famiglie sanmarchesi - i Zurlo, i Jelardi.

Storie di palazzi e di chiese: San Marco Evangelista, che cela un bellissimo crocifisso ligneo medievale, mentre altari in marmi policromi, un coro ligneo e un pulpito intagliato, sono nella chiesetta di Santa Maria del Carmine. Botteghe artigiane sparse a ogni angolo del paese dove, accanto al torrone, si trovano anche splendidi oggetti in legno, opera di un esiguo gruppo di artigiani locali che continua una tradizione che nell’Ottocento rese famosa San Marco dei Cavoti, come il restauro di orologi da torre e da campanile. E per i buongustai, trattorie rustiche: a partire dal pecorino ottenuto dal latte della pecora detta “pagliarola”, visto che mangia in prevalenza paglia. Un formaggio di rara piacevolezza, dal sapore delicato, insomma da portarsi a casa. Si ritorna sulla Statale 212, verso un altro luogo ricco di suggestioni storiche e artistiche: San Bartolomeo in Galdo, un promontorio romantico e arcano che domina dall’alto il letto del fiume Fortore. Qui è giocoforza puntare lo sguardo sulla cupola della cattedrale ornata di maioliche gialle e verdi, come, del resto, sono i colori del paesaggio, spolverato di boschi di cerri, pioppi e olmi. Qua e là, olivi e vigne a costituire una linea di saldatura tra la valle e i monti. La cittadina è di origine longobarda, venne distrutta nel 1253 dalle truppe pontificie, un secolo dopo l’abate del vicino Monastero di Santa Maria del Galdo, nella contrada Mazzocca, concesse franchigie e privilegi ai coloni per favorire l’insediamento dell’odierna San Bartolomeo. Allora c’era un fitto bosco (il wald longobardo) che ricopriva le alture a ridosso del fiume e lì sorgeva, isolata, un’edicola votiva dedicata, appunto, a San Bartolomeo. Attraverso i secoli il centro - feudo anche dei Guevara, dei Carafa e dei Caracciolo divenne un considerevole insediamento e oggi è capoluogo dell’alta valle del Fortore, importante nodo stradale tra il Sannio e la Puglia. Anche qui piccoli tesori d’arte di una comunità che ha dovuto sempre difendersi da guerre, assalti e calamità naturali: torrette e bastioni, strettoie ripide, un tempo serrate con porte di legno, una torre campanaria con un guerriero scolpito, e ancora, palazzi baronali ornati da portali di bugne e impreziositi

da fregi. Come il palazzo vescovile, che si erge tra la cattedrale e la Chiesa dell’Annunziata: sull’ingresso ad arco, un’iscrizione latina che sollecita chiunque ad annunciarsi al vescovo. Elementi di pregio anche nella Cattedrale di San Bartolomeo, con pianta a croce greca: oltre all’insieme della struttura, il bel rosone sulla facciata in cui spicca lo stemma dei Carafa scolpito nella pietra mentre, all’interno, un coro ligneo avvolge l’altare maggiore. In due nicchie, i busti reliquari d’argento di San Bartolomeo e del Beato Giovanni da Tufara, amatissimo dalla popolazione locale per la sua intercessione durante una epidemia di peste che colpì il paese nel Seicento, tanto che un secolo dopo gli venne intitolata l’Abbazia medievale di Santa Maria a Mazzocca. Ma il vero gioiello della cattedrale rimane la cripta, aperta ogni sera per l’adorazione del Santissimo Sacramento: luogo di sepoltura, ha restituito un incredibile tesoro in ori e abiti che arricchivano le spoglie mortali dei vescovi. Per gli amanti del trekking, San Bartolomeo in Galdo è il luogo ideale per le escursioni: al vicino bosco del Morrone, tra i più estesi, oppure a quello delle “Streghe” (immancabile topos per chi viaggia in terra sannita). In alternativa, la sorgente e il lago di San Giovanni a Mazzocca, poco distante dall’antica abbazia medievale. A questo punto si rientra con la Statale 212 a Benevento e, attraverso la strada a scorrimento veloce Fondovalle-Tammaro, si imbocca la Statale 7, uscita Morcone, uno dei più bei luoghi della regione. Situato a 550 metri sul livello del mare con un clima temperato, secco, difeso com’è dal monte Mucre (da cui Mucrone e poi Morcone). Una cascata di case coi tetti di cotto che scivola giù verso la valle del Tammaro, la più suggestiva, la più discreta di tutto il Sannio. Ricca di acque e di sorgenti, di boschi di castagni e querce secolari, con la gazza ladra e la ghiandaia che rendono felici i passi del viandante. Morcone è una culla di serenità. Non a caso, assieme a Pietrelcina, è una “creatura” di San Pio, che qui fece noviziato dal 1903. Tutto è incredibilmente intatto, aureolato di pietra bianca, a partire dal Convento dei Cappuccini di inizio Seicento. Ma è la ristrutturazione che si è

Pagina precedente. In alto: San Marco dei Cavoti, centro storico. In questa pagina. San Bartolomeo in Galdo, centro storico.


fatta di questo borgo, dopo i danni del terremoto degli anni Ottanta, che affascina chiunque vi metta piede. Oggi Morcone, un tempo gastaldato longobardo e poi feudo aragonese, è una sintesi perfetta tra le strutture medievali sviluppatesi all’interno delle sue mura e le “trasparenze” moderne, marcatamente liberty, dai colori delicati e gli arricchimenti floreali. Un luogo che sembra una serra a cielo aperto: piante e fiori di collina invadono e delineano il fitto labirinto di scale e scalette, fontane e piazze. Un progetto in toto che si deve a un’équipe di architetti e artisti che qualche anno fa ha “ritoccato” felicemente alcuni edifici e chiese più rappresentative del luogo, dove il nuovo si inserisce perfettamente nella storia locale. Così per il palazzo municipale nel cuore del centro storico: un gran coperchio di vetro e acciaio ha colmato danni e usura, terminando in alto con un belvedere trasparente che domina tutta la valle. Rispetto totale della storia, anche nel recupero della Casa Sannia, dimora della illustre famiglia Sannia fino agli anni Cinquanta, oggi biblioteca e museo civico. Ma l’innesto più straordinario è quello praticato sulla chiesa patronale del paese, San Bernardino, edificata tra il 1515 e il 1608 e poi distrutta da un incendio nel 1917. Suggestiva la finestra sul pavimento che rivela le catacombe dei frati; la facciata ariosa e pulita, impreziosita di eleganti piastrelle di manifattura cerrese che incorniciano le vetrate. Un altro gioiello, poco distante, è la chiesetta dedicata a Sant’Onofrio: un trionfo del legno e della semplicità con evidenti similitudini con le chiese latino-americane. Salendo verso il punto più alto del paese, i resti del castello medievale che guarda alle cime del Matese. Un panorama idilliaco che da queste parti ispira pittori e viaggiatori alla ricerca del tempo perduto. Da Morcone si ritorna sulla strada a scorrimento veloce, questa volta in direzione del borgo di San Lupo che si raggiunge uscendo a Pontelandolfo e poi lungo la Statale 87. Dopo una serie di tornanti, tra filari di vite e olivi e panorami da arcadia

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felice, ecco San Lupo, cuore di pietra sannita, arroccato su un colle della valle del fiume Titerno, dove la terra è ancora intatta, non solo nei suoi frutti ormai maturi, ma soprattutto nei sentimenti, nelle tradizioni della gente. Il borgo è racchiuso dolcemente dalle cime del Matese e i dorsali di monte Crivello e Petroso (o Croce, per un bel crocifisso in ferro che svetta in alto) e della montagna del Ciesco. La più suggestiva, per via dei numerosi torrenti che hanno creato, tra le rocce calcaree, gole e orridi dirupi. Come lo “speco della corda tagliata”, una grotta sotterranea cui si accede attraverso un antro e poi un budello strettissimo. Lo cavalca un maestoso ponte a una sola arcata, il ponte delle janare che, qui, un tempo si davano convegno giocandosi a dadi l’anima degli indifesi. Un luogo forse esito di un terremoto risalente al X secolo, quando sorse il paesino - che rimane una bizzarria della natura, non solo per il nome. Poco male, perché la veduta che si gode da lì dà il senso della terra sannita, in cui è possibile ancora vedere uomini e donne salire su asini e muli o su qualsiasi altra “cavalcatura” che non sia un’auto. Nell’antica piazzetta del paese, la Chiesa di San Giovanni Battista con il suo superbo campanile. Sul lato sinistro della facciata, un bassorilievo bronzeo raffigurante il vescovo Lupo (o Luppolo) e l’unno Attila che si fronteggiano in una scena quasi michelangiolesca e che evoca alla mente l’evento prodigioso dell’anno 441, quando Lupo salvò la cittadina di Troyes, in Francia, dal “flagello di Dio”. Le spoglie del vescovo vennero allora raccolte dai monaci benedettini e trasportate nell’837

a Benevento dove sorse un monastero; altri resti del santo finirono in un convento benedettino attorno al quale sorse il primo nucleo abitativo di San Lupo, in contrada Corte Santa, ai piedi della collina. Poi, un terremoto nel 1456 distrusse tutto, monastero compreso, costringendo gli abitanti a rifugiarsi sulla cima del colle, su cui sorse l’attuale abitato. All’interno della chiesa si conserva una pregevole statua lignea a mezzo busto di San Lupo, eseguita nel Settecento da Giacomo Colombo. Numerosi i restauri operati nel corso dei secoli, ma il volto del santo non è mai stato toccato, conservando intatta l’espressione originale voluta dall’artista. Alla base della statua, un reliquario con alcuni frammenti di ossa, mentre parte del capo del santo vescovo è conservata nella Cattedrale di Benevento. Il cuore dell’antico borgo è integro, quasi un’arcana magia avesse fermato lo scorrere del tempo: stradine lastricate di pietra e vicoletti ridenti e nascosti. Nella chiesetta della Congregazione, altari di marmi policromi e dipinti di ottima scuola, tra cui un’Assunzione di Maria del XVIII secolo. Pietra vergine locale anche per le fontane, che qui a San Lupo sono una meraviglia; tra tutte fontana Capodacqua, nella contrada Corte Santa, risalente al primo Settecento con i suoi meravigliosi sette getti d’acqua ancora attivi. Un esempio di come, in questo borgo, la pietra sia un segno forte, dai caratteri femminili, che unisce e raccoglie. Incombente e massiccio il Palazzo Jacobelli, antica dimora nobiliare situata ad angolo sulla piazza del paese. Fu qui che nel 1852 dimorarono Ferdinando II di Borbone e Maria

Teresa d’Austria in giro per il Regno delle Due Sicilie. Si racconta che il cavaliere Achille Jacobelli offrì ai due reali prodotti della sua terra, tra i quali, olio di frantoio (ancora oggi una bontà) e fagioli. Quando la regina gli chiese come si chiamassero i fagioli, dolci come una castagna e tanto piaciuti a sua maestà, Jacobelli non se lo fece ripetere due volte: “i fagioli della regina”. Da allora, l’olio e i fagioli di San Lupo hanno fatto il giro delle tavole di mezzo mondo.

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Pagina precedente. Morcone, centro storico. In questa pagina. San Lupo, centro storico.


Passione per la qualità

Olio extravergine di oliva

Sannio Caudino Telesino

L’olio extravergine di oliva del Sannio Caudino Telesino testo: Patrizia Giordano foto: Archivio Altrastampa

Descrizione del prodotto L’olio extravergine di oliva Sannio Caudino Telesino si presenta, da giovane, di colore giallo con sfumature verdi. Le piacevoli note erbacee, già percepibili all’olfatto, con evidenti sentori di mela matura, sono riscontrabili anche al gusto. Altrettanto riconoscibile, anche se in misura minore, un leggero sentore di pomodoro. All’assaggio si rivela armonico e delicato, con note di amaro e piccante che ne esaltano il già gustosissimo sapore. Le caratteristiche organolettiche di questo olio sono fortemente influenzate dalla varietà di olive utilizzate: qui, le protagoniste sono ben tre. Anzitutto la cultivar Ortolana, detta anche “Melella” proprio per quelle note di mela che trasferisce nell’olio, poi la Sprina e la Racioppella, quest’ultima molto diffusa in tutto il territorio beneventano. Anche

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altre varietà possono, da sole o insieme, essere presenti in questo olio: tra esse, la Femminella o Curatora, l’Ortice, la Pampagliosa, la Frantoio, la Leccino e la Moraiolo. Le olive vanno raccolte, a mano o con mezzi meccanici, entro e non oltre il 31 dicembre di ogni anno e molite entro il secondo giorno della raccolta. Le operazioni di oleificazione devono avvenire nella stessa zona di produzione delle olive. Cenni storici Nella zona del Sannio Caudino Telesino l’olivicoltura ha origini molto antiche. Del resto, questa pianta - unitamente alla vite - ha, da secoli, caratterizzato e contribuito ad abbellire il paesaggio rurale di tutte le regioni centro-meridionali e campane in modo particolare. Non va, inoltre, trascurato un dato economicamente

importante: la coltivazione delle olive ha da sempre costituito, ieri come oggi, la principale fonte di reddito per gli abitanti di questo territorio. Area di produzione L’area di produzione dell’olio extravergine di oliva Sannio Caudino Telesino interessa trentacinque comuni della provincia di Benevento, tutti situati sulle verdi colline della valle Telesina, della valle Caudina e del monte Taburno.

Una gran calma. Ecco, questa è la sensazione più immediata che suscita il paesaggio della valle Caudina, limitato a nord dalle acque del Calore, mentre a meridione, la gola profonda del fiume Isclero - in cui la valle si incunea come una trivella -, avvolta dalla ragnatela di boschi di querce e castagni del Partenio, ne completa l’incanto. Del resto, siamo sempre in quella parte della Comunità Montana del Taburno che, per ricchezze architettoniche, tradizioni e umanità, è stata inserita tra i parchi regionali istituiti nel 1995. Ci si arriva venendo dal casello autostradale di Caserta sud e poi proseguendo per Maddaloni, lungo la Statale 265, ma anche per l’antica via Appia in direzione di Benevento. Tra gli angoli più autentici della valle, un posto di diritto spetta a Melizzano e alla sua campagna, dalle fantasie cromatiche giallo ocra e verde. Intima, sobria, mai sfacciata, tanto che neanche la ricostruzione post-terremoto degli anni Ottanta è riuscita a sconvolgerne la fisionomia. La cittadina si adagia mollemente ai piedi di monte Sant’Angelo, con il suo presepe soleggiato di contrade e frazioni: Starza, Rimembranza, Tiglio, Valle Corrado e poi Torello, a circa 2 chilometri dall’entrata al paese, sede di uno dei centri turistici equestri più attrezzati della zona. La frazione - il cui toponimo deriva da torus, cioè altura - si caratterizza per il suo bel palazzo ducale, sprofondato nel verde delle colline, con due torrette di avvistamento messe a guardia della strada che sale verso il Taburno. Ed è proprio il massiccio montuoso, ricoperto di olivi, con le sue grotte, che pare fossero abitate sin dai tempi della Preistoria, a essere la cartina di tornasole della storia di Melizzano: un borgo di poco meno duemila abitanti, sorto sulle ceneri della mitica Melae, uno degli oppidum del Sannio Caudino, espugnato dai Romani nel 215 a.C. durante la seconda guerra punica contro Annibale. Dopo la distruzione, il centro venne ricostruito più a valle, ma di esso si è persa ogni traccia storica. Colpa forse di un terremoto o di una frana della montagna che spazzò via tutto, determinando però nel tempo lo spostamento della popolazione sempre più a valle. Al nucleo dell’antica Melae e di Melizzano Vetere, vanno comunque riferiti diversi reperti archeologici, riportati alla luce nel secolo scorso lungo quella via detta “delle Potechelle o le Potechelle stesse”, le grotte del Taburno, così chiamate perché sugli antichi ruderi, attorno alla montagna, si sistemavano le bancarelle degli ambulanti. Oltre ai resti di ville romane sparse per il territorio, di vasi di terracotta per la produzione e il consumo di vino e di olio, e di antichi frantoi - che già esprimono la grande vitalità contadina del luogo - il rinvenimento più interessante è un tempietto dedicato al culto dell’acqua e del serpente, poi trasformato nel periodo altomedievale nel culto di San Michele, incorporato attualmente nella Chiesa settecentesca di Santa Maria della Libera. Un santuario mariano, oggetto di grande devozione da parte dei

In alto: Melizzano, il soffitto dipinto di Palazzo Bellucci. Al centro e a destra: il cortile e una sala del castello. In basso: sbandieratori del Palio della Quintana.

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In alto: Faicchio, il castello. Sotto: il Ponte di Annibale. Pagina successiva. In alto: Cerreto Sannita, il centro storico. In basso: antica ceramica.

melizzanesi, edificato in una sporgenza pianeggiante del pizzo del Piano (a 400 metri di altezza), fuori quindi l’abitato e motivo di pellegrinaggi periodici, soprattutto quando la statua della Madonna - che pare salvò la popolazione di Melizzano da un’epidemia di peste nel Seicento - viene fatta scendere dalla montagna la seconda domenica di maggio, per essere posta all’interno della Chiesa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, la chiesa madre del paese, di rifacimento settecentesco, dalle linee sinuose e sobrie, affacciata bellamente su piazzetta Tiglio con i suoi giardini odorosi e le panchine in pietra locale. La Madonna tornerà sui monti solo a settembre con l’inizio della vendemmia e l’arrivo dell’autunno. Nel Medioevo, Melizzano con i suoi casali fu feudo dei Gambacorta, dei De Curtis, passò di mano in mano, sino ai duchi Caracciolo d’Aquara, oggi, forse, gli unici custodi della storia gloriosa del paesino. Il loro castello, nel centro dell’abitato, ne è il segno più tangibile; tra gli elementi di spicco, la splendida scala di pietra e tufo con una balaustra traforata a motivi floreali che porta ai piani superiori i cui soffitti sono mirabilmente affre-

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scati. Un gioiello dell’arte cinquecentesca che si affianca ad altre costruzioni nobiliari, come Palazzo Bellucci, con i suoi balconcini in ferro battuto e una fontana della fine del XVIII secolo, situata nella piccola corte. Nella parte più antica, il borgo conserva la sua atmosfera di “vecchio Sannio”, indissolubilmente legata alle sue tradizioni e alla magia del folclore contadino che qui si ritrova ogni anno, a luglio, nel “Palio della Quintana”, una “giostra” di origine medievale nella quale i cavalieri delle cinque contrade si fronteggiano e si sfidano per l’assegnazione del palio. Una gran festa, con sfilata in costumi d’epoca, archibugieri, canti e balli e anche la possibilità di visitare il bel maniero dei Caracciolo d’Aquara, aperto per l’occasione ai turisti, insieme alla degustazione dei piatti tipici del luogo conditi con l’olio buono e innaffiati dal vino migliore di Melizzano. Si lascia il paesino e si ritorna sulla Statale 265 in direzione della Comunità Montana del Titerno che raggruppa tutte le località dell’arco settentrionale sannita, bagnate dalle stesse acque e contraddistinte dalla stessa mentalità, dove parlare di streghe non suscita la solita ilarità, dove nei discorsi c’è ancora posto per quella cultura popolare che racconta di lupi mannari, janare e munacielli. Come nella suggestiva Faicchio, l’antica Faifola, che salutò Quinto Fabio Massimo, vincitore di Annibale, residenza vescovile, e poi, nel Quattrocento, illustre sede ducale. Un luogo noto ai più per il suo bel castello, abbarbicato a un pugno di roccia tufacea. L’antico maniero, realizzato nella prima metà del XV secolo, con quattro torri cilindriche angolari e una finestra durazzesca, oggi perfettamente ristrutturato, ha cambiato spesso “pelle” nel corso dei secoli: di proprietà della famiglia Carafa (signori di Cerreto Sannita) e degli Zona-Sanniti, da circa quaranta anni è della famiglia Fragola che ne ha fatto un elegante e sobrio albergoristorante. E visitare il Castello di Faicchio l’armeria, la splendida scala a chiocciola, la

raccolta di armi bianche, la cappelletta - è il modo più simpatico per conoscere questo luogo di provincia, riservato e un po’ schivo come la sua gente, ricchissimo di chiese e attraversato dalla strada, tutta lastricata, che porta al Convento di San Pasquale e che, non a caso, si chiama via Crucis. All’interno della chiesa del convento - situato ai piedi del monte Erbano - un soffitto interamente decorato e le dodici ceramiche laterali della scuola settecentesca di San LorenzelloCerreto, oltre a un insolito organo a trasmissione meccanica già restaurato nella prima metà dell’Ottocento. Lungo la via Crucis del paese, fanno capolino chiese come la Collegiata di Santa Maria Assunta del 1446, recentemente restaurata, quella di San Giovanni Battista, ricostruita dopo i terremoti degli anni Sessanta, quella di Santa Lucia, posta all’estremità della cittadina, ricca di splendidi dipinti. Non solo chiese, ma anche fontane, una per tutte, quella che fu realizzata a inizio secolo col nome di “fontana del Popolo”. Ai piedi del monte Acero, la grotta delle “Fate” e quella del bandito Giordano, nascondiglio nell’Ottocento dei rivoluzionari liberali del luogo. E, ancora, i resti dell’acquedotto romano del III secolo a.C. e del ponte Fabio Massimo, altri due segni di straordinaria ricchezza storica da scoprire. Da Faicchio, pochi chilometri lungo la provinciale che attraversa una zona ridente, ubertosa, verso un altro centro della Comunità Montana del Titerno, che ci viene incontro come una piccola rivelazione, un’epifania inaspettata che regala l’euforica emozione dell’ennesima scoperta: Cerreto Sannita, che porta nel nome e nel cuore la sua origine medievale. Ce ne parla addirittura Tito Livio negli scritti sulla seconda guerra punica: Comizio Cerito. Bella, ariosa e soleggiata, quasi un sogno di primavera, esaltata dalla pietra bianca e rosata dei palazzi, dall’impronta del barocco delle chiese e dei conventi. Non più stradine a spirale o a gomito, non più stratificazioni, ma una straordinaria

pianta a scacchiera in cui la storia si esalta, si trasfigura per diventare “utopia”. Fu contea della potente famiglia Sanframondi, poi, nel 1438, Cerreto passò sotto il dominio dei Carafa di Maddaloni che la tennero sino all’eversione della feudalità, nel 1806. Fu proprio sotto i Carafa che nel giugno del 1688 un violento terremoto rase al suolo la vecchia città medievale. Venne ricostruita, per volontà del duca Marzio Carafa, più a valle, con un progetto che segue il tipico impianto ippodameo a scacchiera. Isolati a “spina”, a “corte” e a “blocco”, compongono l’andamento di una cittadina che ancora oggi conserva la pulizia urbanistica del Settecento, priva di mura di difesa e di scale e che ne fanno una vera delizia, dove camminare, guardare, respirare non basta mai. Un grande amore dovette animare le mani di ceramisti, riggiolari, muratori e scalpellini che nel Settecento, dal Regno di Napoli, arrivarono a frotte ad arricchire e abbellire la città: i pavimenti, le cappelle delle chiese, gli archi, i portici, i palazzi. Ogni angolo o scorcio, ammantati dei colori della vita. Artisti del calibro di Scarano, di Marchitto, e il mitico Niccolò Giustiniani che qui portò l’esperienza della Scuola di Ceramica di Capodimonte. Da dove iniziare quando si arriva a Cerreto? Basta solo guardarsi intorno: in corso Umberto, l’episcopio e la Chiesa di Santa Maria di Costantinopoli, la Cattedrale della Santissima Trinità, Santa Maria Assunta (dove gli altari sono in marmo di Pietraroja) e ancora la Chiesa di San Martino che ci accoglie con la sua imponente scalinata a rampe “curve”. All’interno, nella navata centrale, un pulpito ligneo stupefacente, un organo del Settecento che è un abbaglio e dipinti della Madonna delle Grazie e della Madonna del Rosario, opera del solimenesco Paolo De Falco. Continuando, nello snodo detto a “cartnera”, luogo in cui lavoravano i cosiddetti “panni-lana” - i tessuti militari di cui Cerreto era la principale produttrice nel Regno di Napoli - la chiesetta di San Gennaro con la sua cupola maiolicata e i colora-

tissimi pavimenti, sempre in maiolica, della pedana dell’altare maggiore. Esplosione di colori, schemi compositivi aulici e barocchi i blu, i verdi brillanti, i gialli canarino che raccontano un’antica tradizione che nella cittadina continua nelle numerose botteghe e laboratori artigianali, ma soprattutto con l’Istituto Statale d’Arte, il più importante della provincia, con cattedre in ceramica, tessitura e legno. Da poco meno di due anni poi, è aperto anche il Museo Civico della Ceramica, situato nel Convento monumentale di Sant’Antonio, che ha fatto delle sue cantine le migliori sale che questi oggetti, dalle forme classiche o solamente curiose o fantasiose, potessero avere per stare al riparo della luce e della polvere. Tornando al cuore di Cerreto, non solo chiese; l’attenzione si rivolge anche all’edilizia minore: Palazzo Altieri, Palazzo Patente, Palazzo de Nicola, sono solo alcuni esempi della bellezza e della semplicità dei portali, dei balconi in stile barocco, questi ultimi con le ringhiere in ferro battuto. Fuori del perimetro urbano, ci attende un paradiso naturalistico: interessante, lungo la via Telesina, la visita ai resti di quella che era la tintoria ducale, e ancora, verso la collina, il Santuario di Santa Maria delle Grazie con annesso il convento, dove si può ammirare una bellissima statua lignea del XVIII secolo. Andando poi in direzione di Cusano Mutri, attraverso il torrente Turio, si entra in una “forra” chiusa tra il monte Cigno e il monte Erbano, in cui appare la gola scavata nel tempo dal fiume Titerno, che si restringe in prossimità dell’antico ponticello, detto “ponte di Annibale”, perché pare fosse stato attraversato dal valoroso condottiero. Dopo Cerreto Sannita, si ritorna sulla provinciale per un’altra tappa in terra sannita. Questa volta in direzione di Guardia Sanframondi, vera e propria vedetta tra il territorio beneventano e quello molisano, dove su tutto domina quel maestoso e imponente castello di pietre squadrate, che sembra un guerriero assopito su un letto di roc-

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In alto, a sinistra: Guardia Sanframondi, il centro storico. A destra, in alto: il castello. Sotto: Chiesa dell’Assunta. Al centro: penitenti dei riti dell’Assunta.

cia, la stessa roccia su cui si erge la cittadina, situata a circa 428 metri di altezza, famosa per i riti settennali in onore dell’Assunta. Sta lì Guardia, quasi a sbirciarti da lontano, con le sue case scure, petrigne, dai bellissimi portali, le scalinate lillipuziane, abbarbicate ai muri ricoperti di edera, le stradine acciottolate di pietra locale, cui è interdetto il passaggio di ogni auto che superi la misura di un carretto o, sino agli anni Sessanta, quella di un “Lambro”, mezzo comune ed economico di tanti contadini quando lo sostituirono all’amico somaro. Ogni angolo o scorcio di questo borgo medievale avvitato a emiciclo intorno al suo maniero, racconta ancora oggi di una cittadina che anche nella concia delle pelli aveva trovato nel Cinquecento e nel Seicento la sua ricchezza tanto da essere chiamata “Guardia delle sòle”. Il nome Sanframondi lo eredita dall’antica famiglia normanna che nell’XI secolo la ebbe in

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feudo, per poi passare ai Carafa Maddaloni, alla quale appartenne fino al 1806, anno in cui fu proclamata l’abolizione della feudalità. Mentre il castello fu edificato con la sola funzione di custodia e di difesa, al tempo di Zotone, duca di Benevento (571-591), ma l’ipotesi più accreditata lo vuole realizzato nel 1139 da Raone, capostipite della famiglia normanna dei Sanframondo. Pare certo comunque che venne trasformato in fortezza vera e propria solamente verso l’inizio del XII secolo. Costruito in posizione strategica - da qui infatti si può ammirare un panorama mozzafiato su tutta la valle del Calore sino alle cime del Matese e del Taburno - il castello andò più volte in rovina: terremoti, assalti, calamità naturali. Oggi, consolidato e restaurato, conserva all’interno un bel teatro all’aperto con circa mille posti a sedere, l’enoteca provinciale, una sala per convegni e mostre, la biblioteca comunale e infine una straordinaria collezione di farfalle del musicologo e letterato Pascasio Parente con oltre mille esemplari, divisi in cinquanta bacheche, provenienti da tutto il mondo. Ma ciò che incanta e intriga è il cuore antico del borgo, delimitato da quattro porte di accesso corrispondenti ai quattro punti cardinali (Porta Francesca, Di Salvo, Ratello, dell’Olmo), in una posizione arroccata su un picco calcareo dell’omonimo monte Guardia. Un frammento d’antico, rimasto indenne nel tempo, dove si respira l’atmosfera del passato, in ogni gesto e negli occhi della gente, sulle pietre tonde, ovali, squadrate, che trattengono ognuna ricordi e memorie. Ecco il leone di epoca longobarda della Chiesa di Ave Gratia Plena o dell’Annunziata, che osserva consun-

to e discreto il passaggio dei turisti. A croce latina con tre navate, la chiesa si presenta con un bel cappellone a volta, con tre altari in marmo disposti simmetricamente, e col soffitto ligneo a riquadri intagliati e dorati. Al centro dell’abside, l’altare maggiore dove campeggia il quadro dell’Annunciazione di Paolo De Matteis, mentre in una nicchia, dietro l’altare, la statua policroma dell’Assunta, una pregevole opera risalente al primo millennio e che, per quegli strani fenomeni di trasformazione, da Madonna seduta con Bambino è diventata, una volta vestita di stoffa dorata, una Madonna eretta che tiene tra le braccia il suo Bambino. Per questa statua, i Guardiesi hanno una particolare devozione che culmina nelle famose processioni di penitenza rivissute ogni sette anni ad agosto, tra momenti di tensione collettiva ed estasi divina, pur di avere un posto accanto al trono della Vergine. L’incanto del centro storico si rinnova nella chiesetta di San Rocco, nel rione Croce, così chiamato per l’esistenza di un antico cimitero con tre croci a ricordo dei morti della peste del 1500. La chiesa, di forma ortogonale, si erge al di sopra di tutte le abitazioni circostanti e le domina con la sua bella mole. Sorta nel 1575 in onore di San Rocco, protettore della peste e delle epidemie, presenta all’interno tre altari e tutti con una splendida tela di Palo De Matteis, discepolo di Luca Giordano, che firma anche i dipinti conservati nella Basilica di San Sebastiano Martire, edificata dai conciatori di Guardia Sanframondi su una cappelletta del 1515, al centro di un’area dove erano ubicati gli opifici agli inizi del XVIII secolo. Austera nel profilo architettonico, la chiesa internamente presenta stucchi e decorazioni marmoree, opera di Domenico Antonio Vaccaro, mentre Paolo De Matteis firma tra tutti uno splendido San Sebastiano curato e una Gloria dell’Assunta nel riquadro centrale della volta. Da Guardia Sanframondi, lungo la provinciale, per immettersi sulla Statale 372 verso le colline della valle Telesina, dove, in località San Pietro, c’è la deviazione per Torrecuso, altra area a vocazione viticola. Anche qui un borgo che conserva le inconfondibili caratteristiche della tipologia castrense, a controllo della valle. Sorge infatti a 420 metri d’altezza, su uno sperone di roccia del monte San Michele. Chi si avventura per le stradine del centro storico si accorgerà subito di trovarsi in un luogo ideato e progettato - era un anti-

co castrum longobardo - solo in funzione della difesa e della rappresaglia bellica. Strette vie, che sbucano in pittoreschi angoli delimitati da archi, casette in pietra locale ornate da scale e scalette che si avvitano attorno all’imponente costruzione del castello marchesale, con due torri fatte rinforzare nell’871 dal longobardo Adalgisio, duca di Benevento, il quale si occupò anche di rendere più solide le mura del paese per garantirgli una maggiore difesa. Nel 1700, a opera dell’ingegnere Barba, il castello fu trasformato e più volte rimaneggiato, pare, ma non è confermato, dalla famiglia Mellusi che lo acquistò a inizio Ottocento. Nel cuore del paesino, la bella chiesetta dell’Annunziata costruita durante la signoria dei della Leonessa e tenuta sempre in gran considerazione dai successori, i marchesi Caracciolo Rosso, che la arricchirono tra l’altro di stupendi e pregevoli paramenti sacri. Divisa in tre navate, la chiesa presenta sull’altare maggiore una preziosa tavola raffigurante la Beata Vergine che riceve il saluto e l’annunzio dell’arcangelo Gabriele, opera della scuola toscana del Quattrocento e impreziosita da una cornice ricca di fregi e intagli che le donano un particolare splendore. In questa chiesetta sono, inoltre, conservate e venerate le reliquie dell’intero corpo di San Vincenzo da Saragozza, arrivato qui dalla Spagna per volere di Carlo Andrea Caracciolo, Grande di Spagna e marchese di Torrecuso. Da non perdere, infine, una visita alla Chiesa parrocchiale di Sant’Erasmo: dentro si cela una delicata tela che raffigura il martirio del santo e un’altra dedicata a San Filippo Neri. Ma Torrecuso è soprattutto terra di olio buono e vino dei migliori, caso mai, assaporando dei fegatelli al finocchio che qui fanno divinamente. Dopo qualche chilometro di curve e tornanti, siamo a Foglianise, ultima tappa di questo viaggio “ideale” in terra sannita, dove da sempre la sua gente ha dedicato la vita alla coltivazione del grano, della vite, dell’olivo, in perenne lotta con l’avarizia del suolo o con le bizze e gli inganni di madre natura. Foglianise sta aggrappata alle pendici del Taburno, a 330 metri di altezza, sormontata dal monte San Michele che gli fa da corona (conosciuto anche con il nome di monte Caruso) e sulla cui sommità sorge l’omonimo santuario, risalente all’VIII-IX secolo. Mentre, verso la valle, la cittadina è bagnata dal torrente Jenca e dal fiume Calore. Secondo la tradizione Foglianise ha origine dalla dea Fortuna Folianensis, come attesta un’antica lapide di epoca romana rinvenuta nel territorio e, oggi, custodita gelosamente all’interno della Chiesa di San Pietro a Vitulano, un centro poco distante dalla cittadina. L’appellativo Folianensis, attribuito alla dea, è probabile che derivi da Folius, antico nome gentilizio. Il culto per la dea Fortuna e tutta la sua tradizione, farebbe pensare a una popolazione pagana, addirittura profana per certi aspetti. E invece, in questa terra che non finisce mai di stupire, c’è un misticismo diffuso che si coglie a ogni angolo o anfratto del paese. Basta entrare nel centro storico di Foglianise, disseminato di edicole votive e chiese: tra tutte, la Chiesa di Santa Maria Costantinopoli, le cui pareti hanno conservato intatte le linee architettoniche risalenti al XV secolo. All’interno, due tele che raffigurano la prima, la dormitio della Madonna con in alto la Santissima Trinità, realizzata dal pittore Johannes de Presbiterio nel 1630, l’altra, è invece di un autore ignoto del

Cinquecento e rappresenta l’Ascensione in Cielo della Vergine circondata da una frotta di angeli. Particolarmente antica, la chiesetta di San Ciriaco - martire cristiano ai tempi di Diocleziano - costruita sui resti del tempio dedicato alla dea Fortuna; originariamente era un’aula, poi nel 1576 venne ampliata e trasformata in un corpo centrale con due navate. All’interno, ben sette altari, il più importante - l’altare maggiore - conserva l’immagine di Maria con Gesù Bambino in braccio. Sempre nel cuore antico di Foglianise, il Convento della Santissima Annunziata, fondato da San Bernardino da Siena nel 1440. Splendido l’antico portale della chiesa con una settecentesca lunetta raffigurante l’Annunziata. Di grande effetto, all’interno, l’affresco con la Madonna con Bambino e Santi risalente al Quattrocento, rinvenuto sotto l’intonaco dopo un restauro della chiesa nel 1930. Spostandoci fuori del paese, immancabile la visita all’Eremo di San Michele, sull’omonimo monte, con l’antica grotta o “laura”, prima chiesa del luogo, e un affresco. La leggenda racconta che infilando il viso nella stretta fenditoia della grotta, pare di sentire il rumore delle onde del mare. È in questo santuario che si conserva la statua di San Rocco, il santo liberatore della peste e

patrono di Foglianise, a cui è dedicata il 16 agosto, la trionfale “sagra del grano”. Solenne e sentita processione religiosa che negli anni non ha perso i suoi motivi folcloristici legati alla cultura contadina. Una lunga sfilata di carri grandi e piccoli (a seconda della stazza dei camion che li fanno muovere), realizzati esclusivamente con metri e metri di paglia che rappresentano i soggetti più svariati - cattedrali, monumenti famosi, scene religiose - si snoda lungo le stradine di Foglianise addobbate a festa, pullulanti di una folla colorata. L’altezza dell’addobbo non può superare i sei metri per una ragione molto pratica: i fili dell’illuminazione pubblica stesi da un lato all’altro delle vie del paese. Durante la sfilata si raccoglie il tradizionale obolo per il tempietto di San Rocco. Il giorno dopo, il carro viene smontato, il grano recuperato, macinato e venduto, il ricavato andrà sempre alla cappella del santo protettore. Mentre la paglia servirà agli animali, quella paglia povera e umile per antonomasia, che accoglie nella mangiatoia il Bambino Gesù ed è qui trasfigurata, in una processione che ripercorre la storia dell’uomo e di una terra che invita ogni volta a vivere intensamente, a festeggiare nuovi giorni che verranno.

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In alto: veduta di Torrecuso. Sotto: Foglianise, un momento della festa del grano.


I loghi e le aree di produzione

I prodotti tipici DOP, IGP, STG della Campania

DENOMINAZIONE DI ORIGINE PROTETTA (DOP) Produzione

OLIO EXTRAVERGINE DI OLIVA PENISOLA SORRENTINA

ed elaborazione del prodotto devono aver luogo in un’area geografica limitata e definita

DENOMINAZIONI RICONOSCIUTE DALLA U.E.

Area di produzione Penisola sorrentina e Monti Lattari, isola di Capri

CACIOCAVALLO SILANO

DENOMINAZIONI IN CORSO DI REGISTRAZIONE

OLIO EXTRAVERGINE DI OLIVA TERRE AURUNCHE

POMODORINO DEL PIENNOLO DEL VESUVIO

Area di produzione Sessana-teanese, alto casertano

Area di produzione Vesuviana

OLIO EXTRAVERGINE DI OLIVA TERRE DEL CLANIS

Area di produzione Intera area montana regionale MOZZARELLA DI BUFALA CAMPANA

Area di produzione Intero territorio regionale

OLIO EXTRAVERGINE DI OLIVA COLLINE CAIATINE

POMODORO SAN MARZANO DELL’AGRO SARNESE-NOCERINO

Area di produzione Agro sarnese-nocerino, area acerrana-nolana, area pompeiana-stabiese, montorese OLIO EXTRAVERGINE DI OLIVA COLLINE SALERNITANE

Area di produzione Gran parte del territorio del Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano OLIO EXTRAVERGINE DI OLIVA IRPINIA-COLLINE DELL’UFITA

Area di produzione Province di Caserta e Salerno per intero, area flegrea-acerrana, Telesino (parte)

OLIO EXTRAVERGINE DI OLIVA CILENTO

Area di produzione Gran parte del territorio del Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano

Area di produzione Colline beneventane, del Tammaro e del Fortore, Calore beneventano

800-881017

Area di produzione Intero territorio delle province di Avellino e Benevento

CASTAGNA DI SERINO

*ALBICOCCA VESUVIANA

Area di produzione Intero territorio regionale

Area di produzione Serinese-solofrana, Monti Picentini

Area di produzione Vesuviana

Area di produzione Baianese e nolano CILIEGIA NAPOLETANA

DENOMINAZIONI IN CORSO DI REGISTRAZIONE Area di produzione Zona Napoli-nord, flegrea, sessana-teanese POMODORO DI SORRENTO

Area di produzione Penisola sorrentina, Monti Lattari

INDICAZIONE GEOGRAFICA PROTETTA (IGP) Il legame del prodotto con la zona geografica si riferisce ad almeno uno degli stadi della produzione, della trasformazione o della elaborazione

DENOMINAZIONI REGISTRATE DALLA U.E.

*MELANNURCA CAMPANA Area di produzione Penisola sorrentina Area di produzione Zona flegrea-giuglianese, agro aversano, maddalonese, acerrana-vesuviana, piano casertano, teanese-sessana, alto casertano, valle Telesina e Caudina, Taburno, montorese, valle dell’Irno, Picentini, piana del Sele

*MARRONE DI ROCCADASPIDE Area di produzione Aree montane delle province di Avellino, Benevento e Caserta KAKI NAPOLETANO

Area di produzione Zona flegrea, acerrana-nolana, vesuviana, maddalonese, agro nocerino-paganese

Area di produzione Matesina-casertana

SPECIALITÀ TRADIZIONALE GARANTITA (STG) È di fatto l’ottenimento di un prodotto in un qualsiasi paese della U.E. nel pieno rispetto di una ricetta tipica del Paese di origine

DENOMINAZIONI REGISTRATE DALLA U.E. MOZZARELLA

Area di produzione Piana del Sele CASTAGNA DI MONTELLA

Area di produzione Parte del Terminio-Cervialto

Area di produzione Calore salernitano, Alburni e buona parte del territorio del Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano CARNE DI BUFALO CAMPANA

Area di produzione Intero territorio comunitario DENOMINAZIONI IN CORSO DI REGISTRAZIONE PIZZA NAPOLETANA

LIMONE DI SORRENTO

OLIO EXTRAVERGINE DI OLIVA TERRE DEL MATESE

Se.SIRCA

SALAME MUGNANO DEL CARDINALE

*CIPOLLOTTO NOCERINO

CARCIOFO DI PAESTUM

OLIO EXTRAVERGINE DI OLIVA COLLINE BENEVENTANE

VITELLONE BIANCO DELL’APPENNINO CENTRALE

SALAME DI NAPOLI

Area di produzione Zona dell’Ufita e della media valle del Calore irpino

Area di produzione Valle Telesina e Caudina, Taburno

Area di produzione Monti Picentini e valle dell’Irno

Area di produzione Caiatina, Monte Maggiore

PECORINO DI LATICAUDA SANNITA

Area di produzione Costiera amalfitana, valle del Calore, Picentini, Alburni, alto e medio Sele, colline del Tanagro e parte del Vallo di Diano

Area di produzione Penisola sorrentina, agro acerrano-nolano, flegrea-giuglianese, vesuviana, agro aversano, maddalonese, Vallo di Lauro-baianese, Taburno, valle Caudina, piano casertano, alto casertano, nocerino, valle dell’Irno, Picentini, piana del Sele

Area di produzione Agro sarnese-nocerino, agro pompeiano

PROVOLONE DEL MONACO

OLIO EXTRAVERGINE DI OLIVA SANNIO CAUDINO TELESINO

Area di produzione Costiera amalfitana NOCCIOLA DI GIFFONI

*FICO BIANCO DEL CILENTO Area di produzione Province di Caserta e Salerno per intero, area flegrea-acerrana, e telesino (parte)

NOCE DI SORRENTO

RICOTTA DI BUFALA CAMPANA

*FIORDILATTE APPENNINO MERIDIONALE Area di produzione Baianese, Vallo di Lauro, Montedonico-Tribucco

LIMONE COSTA D’AMALFI

Area di produzione Penisola sorrentina e isola di Capri

Area di produzione Province di Caserta e Salerno per intero, area flegrea-acerrana, Telesino (parte)

Area di produzione Intero territorio comunitario

*Denominazioni con protezione transitoria nazionale



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