La risorsa acqua in Campania

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ITINERARI ALLA SCOPERTA DELLA REGIONE

CAMPANIA FELIX


Pasta, pomodori, mozzarella, pizza. Ma anche vino, fiori, pesce, corallo, cantieristica navale. Le eccellenze produttive campane passano tutte per un unico elemento comune: l’acqua, con cui il nostro territorio ha da sempre avuto un rapporto speciale. Affacciata sul Mar Tirreno, attraversata da numerosi fiumi, ricca di falde acquifere, la Campania è, grazie all’acqua, una delle zone più verdi e floride d’Italia. Si tratta di una risorsa fondamentale del nostro territorio, che l’Assessorato Regionale all’Agricoltura e alle Attività Produttive è impegnato da tempo a salvaguardare. Da un lato, con il potenziamento della risorsa mare: a Castellammare di Stabia, a pochi chilometri da Napoli, nascerà a breve un polo di respiro nazionale, il primo del suo genere, che coniuga crescita e occupazione con il rispetto dell’ambiente, e che innesta attorno alla cantieristica navale pesante, tutto l’indotto delle attività portuali, della balneazione, della riqualificazione ambientale, con ricadute anche sul turismo e sulla filiera enogastronomica. Il Polo della Nautica ci permetterà di rafforzare le attività marittime e l’attività di costruzioni navali, di definire un piano di interventi per l’implementazione di infrastrutture e per la realizzazione di un bacino di carenaggio. Istituiremo, inoltre, un centro di ricerca di eccellenza per le costruzioni navali finalizzato alla ricerca su tecnologie e materiali, alla formazione delle maestranze e alla definizione di programmi di formazione manageriale. Ma al centro della nostra azione di governo resta la razionalizzazione dell’uso delle risorse idriche. I fondi regionali finora utilizzati, insieme a quelli nazionali, hanno permesso di ridurre sprechi, fornire agli agricoltori acqua già in pressione e promuovere impianti localizzati che favoriscono il risparmio. Altre risorse sono state stanziate per il recupero delle acque reflue per uso agricolo. In totale, nel periodo di programmazione 2000-2006 sono stati spesi oltre 150 milioni di euro, cui si aggiungeranno i 100 del prossimo PSR. Quanto all’ammodernamento delle reti idriche, la Campania è la prima regione d’Italia: l’80 per cento dei canali è coperto, il che permette di ridurre notevolmente gli sprechi legati all’assorbimento o all’evaporazione dell’acqua. Questa strategia ci ha permesso di passare indenni dai periodi di siccità che hanno colpito la nostra penisola negli ultimi anni. Ma la salvaguardia della risorse idriche rappresenta solo uno degli aspetti del piano di sviluppo sostenibile portato avanti dalla Regione Campania negli ultimi anni. Altrettanto importante, infatti, è lo sfruttamento di risorse naturali a impatto zero sull’ambiente per la produzione di energia. Oggi la Campania è la prima regione in Italia per impianti e produzione di energia rinnovabile. Entro il 2013, un terzo del fabbisogno energetico campano sarà prodotto dalle centrali eoliche, termiche, solari e a biomasse. Già da un anno abbiamo sospeso la concessione di licenze per la creazione di impianti termoelettrici: l’era del carbone in Campania è destinata a durare ancora per poco. I tempi per un cambiamento sostanziale nella produzione energetica e nell’uso dell’acqua sono maturi. Il petrolio e il carbone, le principali risorse energetiche attuali, oltre a essere limitate, producono ingenti danni all’ambiente. E le riserve idriche sono sempre più scarse. Non possiamo più aspettare: se vogliamo vivere meglio e garantire a tutti un mondo migliore dobbiamo cambiare. Andrea Cozzolino Assessore Regionale all’Agricoltura e alle Attività Produttive


In questo numero parliamo di Acqua. Fiumi, laghi e... il mare

Edizione speciale Campania Qualità Quotidiana

Paesaggi d’acqua natura cultura e attività produttive

Editore, direttore editoriale e artistico Mariano Grieco Direttore responsabile Dario Coviello Relazioni esterne Ersilia Ambrosino Testi Mariano Grieco e Archivio redazionale Campania Felix l’editore ringrazia: Carla Botta Manuela Calabrese Sandro Castronuovo Giovanna Fasanino Katia Fiorentino Teobaldo Fortunato Daria Grieco Simona Mandato Lello Mazzacane Erminia Pellecchia Rosa Pepe Manuel Romeo Renato Ruotolo Foto Alfio Giannotti, Archivio Altrastampa Archivio SeSIRCA e STAPA CePICA Napoli Progetto grafico Altrastampa Coordinamento del progetto Alberto Caronte e Maria Passari Si ringraziano Daniela Lombardo Maurizio Cinque, Amedeo D’Antonio, Carlo De Michele, Giovanni De Rosa, Antonio Di Donna, Veniero Adriano Fusco, Rosaria Galiano, Fulvio Iannucci, Vincenzo Luciano, Andrea Moro, Italo Santangelo, Giovanni Silvestro, Alberico Simioli, Linda Toderico, Francesco Vuolo

Som mariO L’uomo e l’acqua Una simbiosi storica, un rapporto da rivedere

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La Campania Una terra ricca d’acqua affacciata sul mare

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Un sogno fatto d’acqua La fontana della Reggia di Caserta

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Il Sebeto Il fiume che non c’è

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Acqua per il popolo Le fontane di Napoli

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Posillipo Promontorio del mito

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Principali bacini idrografici della Campania

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In copertina: Il Lago Matese foto: Archivio Altrastampa

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6 CAMPANIA FELIX® Direzione, redazione, amministrazione e pubblicità: Postiglione (SA) www.campaniafelixonline.it

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Periodico registrato presso il Tribunale di Napoli n. 5281 del 18.2.2002 R.O.C. iscrizione n. 4394

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anno X, n. 26/2008 Una copia Ê 8,00

12 © 2008 ALTRASTAMPA Edizioni s.r.l. 84026 Postiglione (SA) cell. 338.7133797 www.altrastampa.com www.campaniafelixonline.it altrastampa@libero.it

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1 - Liri e Garigliano 2 - Volturno e Calore 3 - Fortore 4 - Cervaro 5 - Regi Lagni 6 - Regi Lagni e Sarno 7 - Sarno 8 - Sarno e Sele 9 - Calaggio 10 - Ofanto 11 - Sele, Calore e Tanagro 12 - Sele e Alento 13 - Alento 14 - Alento e Mingardo 15 - Mingardo 16 - Bussento 17 - Mingardo e Bussento Fonte: dalla rete


L’uomo e l’acqua Una simbiosi storica, un rapporto da rivedere Da quando l’uomo ha iniziato a calcare il suolo di questo pianeta, ha avuto una priorità costante, l’acqua. Per dissetarsi, per cucinare, per lavarsi, per pescare; l’uomo è stato prima cacciatore poi pescatore, poi ha scoperto che se metteva un seme nella terra, questo, con l’acqua, germogliava e quindi l’ha usata per irrigare i campi della nascente agricoltura, e non ultimo per difendersi. La scelta dei luoghi per i suoi insediamenti doveva sempre rispondere a due caratteristiche basilari dettate dai bisogni fondamentali, l’approvvigionamento idrico, per tutte le esigenze di vita, e la difesa, all’inizio dagli animali predatori che potevano assalirlo e, successivamente, quando ha cominciato ad avere coscienza del concetto di possesso, tale principio difensivo si è esteso anche ai suoi simili che tendevano a depredarlo, e quindi diventati “nemici” (siamo all’invenzione della guerra). Spesso questi due bisogni trovavano soluzione sovrapponendosi come nel caso dei villaggi su palafitte, dei quali, in Campania, abbiamo testimonianze interessanti, sia con la relativamente recente scoperta nei pressi di Poggiomarino, piccolo centro ai piedi del Vesuvio, di reperti risalenti al II millennio a.C. che ci riconducono a tale tipologia abitativa, sia con quelle più anticamente documentate della piana del Sarno ad opera del popolo pelasgico dei Sarrasti primi abitatori di quei luoghi. Mari, fiumi, laghi, sorgenti sono diventati poli di attrazione per gli insediamenti umani, in alcuni casi determinando il nascere e lo sviluppo di grandiose civiltà, come quella egizia legata alle piene del Nilo che fertilizzava i territori circostanti, o cancellandone altre, come la mitica Atlantide inghiottita negli abbissi marini chissà dove. Non a caso dove c’è l’acqua, in tutte le sue forme, abbondante o centellinata, c’è la vita; la sua assenza genera deserti e desolazione. L’acqua, quindi, come risorsa di vita ma anche, nel caso dei fiumi, come confine, delimitazione di un territorio, o, come nel caso del mare, punto di approdo per altre genti venute da lontano alla ricerca di migliori condizioni di vita.

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In Campania l’acqua, sia nella sua veste di fiume che come mare, si è spesso intrecciata con la storia: dal mare sono giunti i primi semi della nostra attuale civiltà, quando gli intrepidi navigatori provenienti dalle aspre pietraie dell’Ellade sbarcarono sui nostri, ben più ameni ed ospitali, lidi per fondarvi colonie divenute nel tempo prospere e potenti, come Poseidonia, Elea faro di sapere, Cuma che a sua volta diede i natali a Neapolis. Ma dal mare, nel corso dei secoli, venivano anche terribili pericoli; nella memoria di molte comunità, specialmente lungo le coste salernitane, sono

ancora vive le tracce delle scorrerie dei pirati barbareschi che razziavano e uccidevano, costringendo le popolazioni a erigere alte mura difensive o scegliere luoghi più sicuri, a volte quasi inaccessibili, in cui rifugiarsi, disegnando così quel paesaggio tipicamente campano di presepi abbarbicati alle rocce. L’ultimo momento storico in ordine di tempo legato al mare, per questa regione, ma di tale portata da aver segnato i destini dell’intera Italia, è stata l’Operazione Avalanche, letteralmente “valanga” - anche se veniva dal mare - quando nel settembre del ‘43 gli Alleati sbarcarono in più

• testi: Mariano Grieco e archivio redazionale Campania Felix • foto: Alfio Giannotti e archivio Altrastampa

punti sulla costa salernitana tra Agropoli e Maiori. Non da meno i fiumi che come confini naturali sono spesso stati teatro di scontri, basti pensare alla Battaglia del Garigliano del 1503 che con la rotta dell’esercito francese aprì il lungo capitolo del viceregno spagnolo nel sud, e a quella del Volturno nel 1860, che, con la sconfitta delle pur valorose truppe di Franceschiello, segnò in maniera determinante, anche se non definitiva, le sorti del Regno Borbonico delle Due Sicilie, costringendo l’ultimo re, Francesco II, detto appunto Franceschiello, a rifugiarsi con i

resti del suo esercito nella fortezza di Gaeta, sempre sul mare, dove capitolò alla fine di circa quattro mesi di assedio piemontese chiudendo, dopo 130 anni, il libro della storia autonoma del sud. E da allora fu Italia. Pochi esempi ma significativi del legame indissolubile e continuo che da sempre si è stabilito tra l’uomo e l’acqua; come continuo e indissolubile è il ciclo naturale dell’acqua: dal mare al cielo con l’evaporazione, dal cielo alla terra con la condensazione e le piogge, dalla terra di nuovo al mare con fiumi, torrenti, canali, rivoli. E in mezzo a tutto

questo, l’uomo, che ha cercato e tuttora cerca di utilizzare, addomesticare, dirigere, sfruttare questo elemento e le forze che esso genera, come meglio può e crede, come ha fatto da secoli; nei tempi passati quasi sempre in armonia con la natura, senza violenze, ma con il progredire della “civiltà”, sempre con maggiore, e un po’ cieca, determinazione, incurante dei possibili guasti provocati, pur di alimentare il suo crescente e a volte, ma solo per pochi, smodato benessere. Da qualche tempo si incominciano a lanciare allarmi sulla carenza d’acqua: ma l’acqua non finisce e non finirà perché il ciclo naturale continuerà a generare quel miracolo che lega il mare al cielo, questo alla terra e quest’ultima di nuovo al mare; anzi con il paventato scioglimento dei ghiacciai ne avremo anche troppa. Ma l’uomo potrà utilizzarla sempre di meno perché il suo intervento è determinante nel mantenimento del delicato equilibrio che genera il continuo reiterarsi di questo ciclo; spesso, la sottrae agli usi naturali per immolarla sull’altare della produttività, cambia la geografia modificando paesaggi millenari prima fertili e ubertosi, impoverisce il mare con la pesca a strascico che sconvolge i fondali. Le piogge, acide per l’inquinamento atmosferico, non saranno più un ristoro per i campi assetati e penetrando nel suolo assorbiranno altri veleni sparsi dall’Homo faber che si riverseranno infine nel mare con conseguenze ancora sconosciute ma paventate. Insomma un avvenire incerto per le acque, per fortuna ancora molto lontano nel tempo; la maggiore o minore rapidità del suo avvicinarsi dipende esclusivamente dall’uomo e come, nel futuro, prossimo, ma molto prossimo, deciderà di comportarsi con l’acqua. A proposito, l’uomo è composto al 90% di acqua ... che stupido!

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In alto. Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, Narciso si specchia nelle acque.


La Campania Una terra ricca d’acqua affacciata sul mare Basta guardare la geografia di questa regione per capire perché essa sia stata sempre nella storia oggetto di desiderio e motivo di aspre contese. A nord un breve segmento del Fiume Garigliano segna un tratto del confine con il Lazio gettandosi poi nel mare lungo il litorale domizio. Una corona di monti la circonda da nord nord-est fino a sud disegnando i contorni di vaste aree pianeggianti; a nord la Pianura Campana, la decantata Campania felix dei romani, lungo la quale, arricchito dal contributo del Fiume Calore Beneventano e Irpino, scorre sinuoso il Fiume Volturno, il corso d’acqua più importante della Campania, che ha la sua foce in posizione baricentrica sull’arco di costa che delimita a mare la pianura campana. Al centro, stretta tra il Vesuvio e la catena dei Monti Lattari, la pianura del Fiume Sarno, l’agro sarnese nocerino forse uno dei più fertili della regione. A sud, circondata dai rilievi montuosi dei Picentini, degli Alburni e del Cilento, si stende la piana del Fiume Sele, il secondo fiume campano in ordine di importanza, forse il più pulito d’Europa, che vi scorre dopo aver raccolto le acque del Fiume Tanagro o Negro e del Calore Lucano, gettandosi poi nel Tirreno poco distante da Paestum. Ma questi sono solo i maggiori corsi d’acqua di questa regione che ha nel suo territorio una notevole ricchezza idrica, una ragnatela di fiumi, torrenti, rivi, laghi, canali in cui confluiscono le acque meteoriche e le sorgenti dei numerosi bacini idrografici della Campania. Se si esclude la provincia di Napoli, nel cui territorio non scorrono, a parte gli artificiali Regi Lagni, in cui si riversano anche le acque del Clanio, né sgorgano corsi d’acqua degni di rilievo o menzione, tutte le altre province possono vantare una abbondanza idrica di tutto rispetto. E poi c’è il mare, pescoso e generoso. Oltre 360 chilometri di coste tra le più belle e varie d’Italia, dai dorati litorali sabbiosi, alle alte costiere dove Eolo e Nettuno hanno fatto a gara per scolpire monumenti fantastici di violenta bellezza, alle scogliere a picco, bagnate da un mare che in alcuni tratti è da anni Bandiera Blu per la sua purezza.

Ricco di porti turistici ben attrezzati, che sono in continua espansione anche nelle località cosiddette minori, per offrire ai diportisti approdi sicuri e confortevoli lungo tutta la fascia costiera campana e permettergli di scoprirne così le mille attrattive. Un mare che lungo le costiere sorrentina e amalfitana bacia la terra in maniera fascinosa, che circonda isole, il cui nome Ischia, Capri, Procida, evoca momenti di bellezza

conturbante; che si fa contenitore di storie e leggende lungo la frastagliata costa cilentana costellata di piccole spiagge nascoste, penetrata da anfratti e caverne ora maestose e accoglienti ora inaccessibili e misteriose. Tanta ricchezza di acque, dolci e salate, ha reso questa regione fertile, pregna di bellezze uniche, con un’abbondanza di prodotti tipici carichi di storie e tradizioni, frutto del lavoro dell’uomo che ha saputo, nei secoli, ampia-

mente e sapientemente utilizzare tali risorse, costruendo dighe, ponti, acquedotti, canali per irrigare i campi, deviandole, adattandole e piegandole ai suoi bisogni, o, quando ha sublimato l’acqua in rappresentazione fantastica, ai suoi sogni. C’e un posto in Campania dove la fantasia dell’uomo ha trasformato l’acqua in un grandioso spettacolo, quasi in un sogno, disegnandola in mille merletti, zampilli, cascate, laghetti, torrenti in piena che scor-

rono tra corpi di pietra morbidi e voluttuosi o contorti in spasimi di terrore, mostri e dee dalle languide forme: la fontana della Reggia di Caserta progettata dal grande Vanvitelli per allietare e abbellire, ma questo termine è certamente riduttivo, i soggiorni dei Borbone. Nell’attiguo “giardino inglese” ancora l’acqua è protagonista di favole arcaiche con Venere che pudicamente si bagna in uno stagno incantato. Dietro questo trion-

fo della bellezza c’è un trionfo dell’ingegno; per alimentare e dare vita alla fontana, il geniale architetto, in mancanza di sorgenti in loco, progettò e costruì un ardito acquedotto, per trasportare l’acqua dalle lontane sorgenti del Monte Taburno, che prevedeva nel suo percorso un tratto aereo per collegare due colline e che con la sua imponente, armonica e affascinante mole caratterizza la Valle di Maddaloni. Segue a pag. 10

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Un sogno fatto d’acqua La fontana della Reggia di Caserta

Immerso nel verde del parco della Reggia di Caserta, spicca il nastro d’argento del Bacino Grande, vanto dell’ingegneria settecentesca e capolavoro di Luigi Vanvitelli. Sin dal 1751, quando l’architetto incominciò a lavorare al progetto del palazzo reale, le idee illuministe di Millet e di Le Nôtre, eccellenti maestri giardinieri, ispirarono l’artista che concepì un giardino all’italiana con alcune soluzioni mutuate dalle esperienze francesi: da ciò derivò un parco in cui, all’interno del verde, predominavano fontane e specchi d’acqua. Per realizzare tale disegno, sin dal primo momento Vanvitelli cercò sorgenti che potessero rifornire d’acqua la reggia, permettendo, così, la realizzazione del

suo grande progetto. Risultate vane le ricerche, decise di approvvigionare il giardino con l’acqua proveniente dalle fonti del Taburno, distanti circa quaranta chilometri da Caserta. A tale scopo l’architetto progettò un lungo e ingegnoso acquedotto che, attraversando colline e valli, giungeva fino alla reggia. L’impresa bastò da sola a rendere famoso il nome di Vanvitelli in tutta l’Europa legando il committente, Carlo III di Borbone, a una delle progettazioni idrauliche più coraggiose del Settecento. L’acqua, quindi, nata dal Monte Taburno, scavalcava il Fiume Faenza, attraversava la collina di Prato, il Monte Ciesco e il Monte Croce con lunghe gallerie che andavano dai quattrocento metri ai due chilometri: valicava la valle di Durazzano, forava le colline di Longano, Garzano e Caserta Vecchia per poi giungere fino al parco. Ma la parte di questo acquedotto che per bellezza e tecnica eguagliava gli acquedotti romani, fu il viadotto dei Ponti della Valle: per coprire la lunghezza di più di mezzo chilometro l’architetto fece costruire un ponte di tre ordini, con diciannove arcate al primo, ventotto al secondo e quarantatrè al terzo. Il troppo denaro speso per la costruzione dell’acquedotto Carolino, fece ridimensionare il progetto iniziale della fontana. Infatti, delle diciannove vasche originarie, tutte ispirate alle narrazioni mitologiche di Ovidio e Pausania, ne furono realizzate soltanto sei. Alla morte di Luigi, fu affidato al figlio il compito di completare il progetto paterno con alcune modifiche che i sovrani imposero all’architetto soprattutto per motivi di ordine economico. Carlo Vanvitelli, quindi, poté realizzare soltanto in parte l’ambizioso

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progetto paterno, che aveva immaginato per quest’opera monumentale una narrazione con temi strettamente legati all’acqua: la Fontana delle Ninfe, quella Reale con i Tre Fiumi, Andromeda e il mostro marino, Aretusa cambiata in fonte ed Egeria mutata in fiume, Atteone che sorprende Diana mentre si bagna, Venere che nasce dalle onde del mare, ecc. diventando la parte più scenografica del giardino reale. Pur ridotta rispetto alla primigenia progettazione, la fontana della Reggia di Caserta resta una delle opere idrauliche di maggiore interesse sia sotto l’aspetto tecnico che sotto il profilo artistico, un’opera non di sola rappresentanza ma che ben raffigura il rapporto stretto, quasi sacrale, tra l’uomo e l’acqua. Sull’acquedotto Carolino, noto anche come “via dell’acqua vanvitelliana”, è in corso uno studio particolareggiato che si concretizzerà in un progetto volto a rendere fruibile e funzionale l’intero percorso, dalle falde del Taburno fino alla Reggia di Caserta.


Il Lago Matese.

Siamo ai confini orientali della pianura campana, all’orizzonte, verso nord, i primi rilievi dell’Appennino si alzano quasi all’improvviso sulla piana con alti profili, alle loro spalle si erge maestoso il massiccio del Matese. E proprio in questa zona troviamo in località Miralago lo specchio d’acqua dolce più grande e forse più bello della regione, il Lago Matese, disteso in una vallata a circa 1000 metri slm, con sullo sfondo il Monte Miletto e la Gallinola, dei quali raccoglie le acque derivanti dallo scioglimento delle nevi, in uno scenario di grande fascino. Tutt’intorno faggete secolari e vegetazione palustre, habitat ideale per una ricca avifauna, rendono questo luogo di un’amenità quasi innaturale dominato da un silenzio quasi assoluto; piccoli mercati, che si svolgono quasi

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ogni fine settimana lungo le vie di accesso, danno la possibilità di gustare i prodotti tipici locali, specialmente formaggi, caciocavalli e latticini e l’olio extravergine di

oliva Terre del Matese DOP, di produzione strettamente artigianale. Il Lago Matese è inserito nell’area del Parco Regionale del Matese, dello stesso parco fanno parte anche il

Lago di Letino e il Lago di Gallo, piccolo invaso artificiale realizzato per una centrale elettrica. Il primo è alimentato dal Fiume Lete, uno dei più suggestivi affluenti della sponda sinistra del Volturno, un tempo lungo venti chilometri nasce, per fenomeno carsico, a 1.028 metri nella pianura delle Secene, nel cuore del territorio di Letino e, dopo un percorso di 8 chilometri, si getta nel lago che prende il nome dal paese stesso. Ancora oggi le donne di Letino, nelle sue fresche acque, lavano i manti delle pecore appena tosate. Il particolare corso del fiume, che per un tratto diventa sotterraneo, risgorgando, poi, prepotentemente, per riprendere il suo cammino in superficie, ha fatto pensare agli antichi abitanti del luogo che l’acqua provenisse dagli Inferi e pertanto lo chiamarono come il fiume infernale citato da Omero, Platone e Virgilio. Le Grotte del Cauto, scavate dal corso sotterraneo del fiume presentano meandri di bellezza sconvolgente e offrono uno scenario fatto di stalattiti, stalagmiti e cascate e assicurano la compagnia di farfalle dagli occhi fosforescenti e di un particolare crostaceo acquatico bianco privo di occhi. Un meraviglioso spettacolo si affaccia alla vista, usciti dalle grotte: una veduta orizzontale, a trecentosessanta gradi, su una vegetazione che regna sopra ogni cosa, inglobando in colori, profumi e forme, tutto ciò che alita attorno a sé.

In alto. Lago di Letino. Al centro. Fiume Lete. In basso. Caciocavalli.


In alto. Fiume Volturno. Al centro. Il Volturno a Capua. In basso. Garibaldi alla Battaglia del Volturno.

Poco più a nord, il paesaggio è sottolineato dal lento scorrere del Fiume Volturno che entrando in Campania presso Capriati al Volturno segna un tratto di confine campano con il Lazio per poi distendersi nella lunga valle alifana alla cui fine accoglie le acque del Torrente Titerno. Dopo aver aggirato i rilievi del Caiatino, zona di produzione dell’olio extravergine di oliva delle Colline Caiatine DOP, riceve, nei pressi di Castel Campagnano, un ricco tributo di acque dal Calore Beneventano. È in queste fertili ed incantevoli colline casertane che si concentrano i “piccoli grandi vini della Campania”, riscoperti di recente e che stanno riscuotendo grandi consensi tra gli enologi e i consumatori: il Casavecchia e il Pallagrello. Proseguendo il suo viaggio verso la pianura campana, di cui caratterizza il paesaggio con ampie anse e giravolte, e forse a questa caratteristica deve il suo nome, il Volturno attraversa, in quest’area, l’antica città di Capua, che ne è quasi totalmente circondata tanto da essere sempre stata considerata inespugnabile; infatti nella sua fortezza si asserragliò parte dell’esercito borbonico dopo la sconfitta subita sul Volturno ad opera dei garibaldini, resistendovi fino alla capitolazione di Gaeta. La città anticamente era dotata di un porto fluviale che la metteva in comunicazione con il Mar Tirreno e le altre città della

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costa ed è ancora visibile il ponte romano fatto fortificare da Federico II di Svevia con le possenti torri difensive le cui tracce sono ancora

imponenti. Il Volturno nasce in Molise dai monti della Meta, e presso Castel San Vincenzo riceve le acque pro-

venienti dalla sorgente Capo Volturno (circa 500 metri di quota, considerata comunemente l’origine del fiume). Dopo il Ponte 25 Archi il fiume segna il confine tra il Molise e la Campania, attraversando la fertile piana di Pozzilli e di Venafro. Subito dopo la strettoia di Sesto Campano entra definitivamente in Campania. In territorio campano riceve da sinistra il Fiume Lete, il Torrente Aduento e il Torrente Titerno e da destra il Rivo Tella. Presso Limatola riceve da sinistra un altro tributario, il Fiume Isclero il quale proviene dalle famose forche caudine. Infine poco dopo Triflisco, in un territorio quasi totalmente pianeggiante e con scarsa pendenza, allarga il suo letto ed assume un’aspetto sinuoso, scorrendo lento e con andamento meandriforme fino allo sbocco nel Tirreno presso Castel Volturno. Le sue acque sono impiegate per la pesca, l’irrigazione, la nautica sportiva e la produzione di energia idroelettrica. Il paesaggio della piana del Volturno, specialmente nella parte alta, ha un’aspetto delicato ed arcadico, le sponde del fiume sono spesso coperte dalla folta vegetazione igrofila che costituisce richiamo e rifugio per molte specie avicole sia stanziali che migratorie. Non mancano all’orizzonte tracce degli antichi acquedotti costruiti dai romani che, grandi ingegneri, non si preoccupavano delle distanze quando si trattava di captare e trasportare acqua da un capo all’altro dell’impero. Ecco, questo è l’ager campanus, che suddiviso in centuriazioni fu dato in premio ai veterani delle guerre che avevano reso grande Roma, la Campania felix, la campagna felice citata nelle antiche mappe in cui anche i Borbone vollero avere una casa facendosi costruire la Tenuta di Carditello, piccola e deliziosa reggia per gli “sfizi” venatori e per le sperimentazioni agricole; la Terra di Lavoro, un territorio che come dice il suo nome è buono da lavorare perché fertile e generoso; infatti ricchi sono i suoi frutti. Questa è la zona della mozzarella di bufala campana DOP e degli altri prodotti derivati da questo caratteristico animale, la ricotta e la carne, prossimi anch’essi all’ambìto riconoscimento comunitario della denominazione protetta, senza dimenticare la saporitissima provola. Nella zona aversana il paesaggio è caratterizzato dalle viti maritate, filari di vigneti aerei stesi tra alti alberi di

In alto. Il Volturno presso Capua. Al centro. La famiglia di Ferdinando I alla mietitura a Carditello. In basso. Mozzarella di bufala.

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In alto. Il Lago di Carinola. Al centro. Viti maritate ad Aversa in un quadro. In basso. Il ponte di ferro sul Garigliano in un quadro.

pioppo da cui nasce l’Asprinio DOC un vino antico tipico di quest’area, il cui vitigno originale fu forse importato dagli Angioini, che sta riconquistando i palati più fini. Ai piedi del Massico, in un paesaggio caratterizzato da boschetti di salici bianchi, ontani neri e pioppi, c’è il piccolo Lago di Carinola detto anche Lago Falciano alimentato dal Rio Fontanelle, inserito nella Riserva Naturale Regionale luogo ideale per gli appassionati di birdwatching, e facente parte del Parco Regionale di Roccamonfina che comprende l’omonimo vulcano e la foce del Garigliano. Habitat differenti tra loro ma uniti da una ricchezza di avifauna migratoria e stanziale di grande interesse. Il Fiume Garigliano nasce dalla confluenza del Fiume Gari o Rapido nel Fiume Liri a sud della città di Cassino nei pressi di Sant’Apollinare. Quasi per tutto il corso segna il confine tra il Lazio e la Campania sebbene fino al 1927, quando i confini amministrativi furono modificati, appartenesse interamente alla Terra di Lavoro. Chiamato in latino Liris, nel medioevo era detto il Verde Fiume. Sfocia nel golfo di Gaeta, presso l’antica città romana di Minturnae sulla sponda nord e presso la località turistica di Baia Domizia sulla sponda sud. La valle del fiume ha costituito dai tempi più antichi una importante via di comunicazione tra la costa e l’interno. Nel corso della seconda

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guerra mondiale, fu teatro di accaniti combattimenti tra Alleati e Tedeschi, tracciava infatti lungo il suo corso una parte della Linea Gustav. Attualmente le acque del fiume sono impiegate per l’irrigazione agricola e per usi industriali; sono presenti anche centrali elettriche, tra cui quella elettronucleare di Sessa Aurunca, costruita nel 1964, chiusa nel 1978 e disattivata nel 1982. Nelle ubertose colline di Sessa Aurunca e su quelle contigue del vulcano di Roccamonfina sono diffusi alcuni prodotti di assoluta qualità e tipicità, come l’olio extravergine di oliva Terre Aurunche, la castagna di Roccamonfina, le pesche e il vino Galluccio DOC, oltre ad altri prodotti tradizionali rinomati come i funghi porcini di Roccamonfina, il formaggio Caso Peruto e le ciliegie di Carinola. La linea costiera campana inizia proprio alla foce del Garigliano, poco dopo il ponte borbonico Real Ferdinando, mirabile opera di ingegneria ottocentesca, il primo ponte sospeso in ferro costruito in Italia. La costa dicevamo, qui è bassa e sabbiosa e tale rimane per tutto il tratto casertano, incorniciata nella parte meridionale da una lussureggiante pineta costiera. E proprio lungo questo litorale il basso fondale sabbioso nasconde un piccolo tesoro, la tellina, gustosissimo e profumato frutto di mare, concorrente diretta della vongola, che a differenza di quest’ultima non si può far crescere in allevamento, qui si raccoglie ancora con l’antico sistema: camminando a ritroso nell’acqua bassa trascinando un rastrello munito di rete che “ara” la sabbia; lavoro duro.

In alto, a sinistra. Raccolta di olive. In alto, a destra. La foce del Volturno. Al centro. Castagne di Roccamonfina. In basso. Telline.

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In alto. Melannurche. In basso. Il Fiume Tammaro presso San Giorgio La Molara.

Riprendiamo il nostro Volturno, risalendo il suo corso fino alla biforcazione dove accoglie le acque del Fiume Calore del tratto beneventano; da qui, ai piedi del Parco del Taburno ricco di foreste, si stende una delle aree di produzione della melannurca campana IGP, delizia per intenditori, dal bel colore rosso e dal sapore gradevolmente acidulo. Proseguendo la risalita ci immettiamo nell’ampia valle telesina che verso est si restringe ad imbuto incuneandosi tra i monti. Tutta l’area beneventana è ricca di corsi d’acqua molti dei quali vanno ad ingrossare il Calore che nel suo lungo percorso, nasce infatti sui Monti Picentini ai confini del salernitano in località Croci di Acerno a circa 900 metri slm, attraversa buona parte del territorio irpino e il Sannio beneventano ricevendo acque dal Fiume Ufita, dal Tammaro, dal Sabato, più da una serie di corsi minori quasi sempre a carattere torrentizio. Caratterizzato da un bacino di raccolta assai ampio il Calore ha una notevole portata d’acqua pur risentendo in maniera pesante di una certa irregolarità di regime e di un intenso utilizzo delle sue acque. In autunno e inverno a causa delle precipitazioni, sono frequenti e imponenti le piene, talvolta disastrose come accaduto nell’ottobre del 1949 quando venne alluvionata per gran parte la città di Benevento; al contrario in estate il fiume rimane a tratti impoverito della sua portata a causa delle forti captazioni per usi agricoli. Una particolarità di questo fiume è data dalla temperatura delle sue acque che, poco prima di entrare nella provincia di Benevento, si presenta più elevata rispetto a quella degli affluenti Tammaro e Sabato. Per questa sua caratteristica anticamente nei mesi estivi ci si bagnava nel fiume con la convinzione che fornisse benefici effetti termali, curando persino i dolori reumatici. Da questa particolarità si è ritenuto che derivasse il nome del fiume. La Valle del Calore, nel tratto compreso tra la piana di Apice e quella di Telese, in conseguenza del suo antico ruolo di sbocco di gran parte delle vie di comunicazione tra la Puglia, la Campania, l’Irpinia e il Molise, fu in passato teatro di importanti eventi bellici e accadimenti particolari. Una cronaca del ‘500 racconta un episodio relativo al fiume: le acque erano divenute torbide e i pesci risalivano alla superficie facendosi facilmente catturare dalla popolazione di

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Benevento. In quel periodo il fiume aveva una notevole portata d’acqua, tanto da permettere alle zattere e barche il transito sino al Volturno. Benevento infatti, antico e nobile capoluogo, capitale dell’omonimo

ducato longobardo e poi territorio pontificio fino al 1860 quando fu annessa al neo Regno d’Italia, a valle, è quasi circondata dai fiumi, qui si incrociano il Calore e il Sabato e numerosi in città sono i ponti tra i quali quello romano

detto Leproso che scavalca il Sabato. Terra ondulata il beneventano, in cui lo spazio si fa materia sensibile ed emozionante, terra di pastori e di transiti, qui passavano infatti molti degli antichi tratturi, le vie di migrazione delle greggi transumanti che dai pascoli montani estivi dell’Abruzzo viaggiavano fino a quelli pianeggianti e invernali della Puglia. Le antiche tradizioni pastorizie continuano nella produzione di ottimi formaggi. Tutta la vasta area collinare di questa zona produce oli extravergini di oliva di grande qualità che recano le denominazioni Sannio Caudino Telesino e Colline Beneventane, tipici, questi ultimi, delle valli del Fiume Fortore, del Tammaro e del Calore, importanti anche le produzioni di pecorino di laticauda sannita e del vitellone bianco dell’Appenino centrale IGP. Senza dimenticare i vini pregiati che fanno del beneventano la provincia campana più importante per la viticoltura: Solopaca, Guardiolo, Aglianico del Taburno, Sant’Agata de’ Goti, Falanghina del Sannio. Insomma una natura che dà il suo meglio in termini di bellezza e di qualità. Ancora due corsi d’acqua il Sabato e il Calore, qui nella sua veste di fiume irpino, quasi segnano i confini di quell’area avellinese epicentro

In alto. Il Ponte Leproso a Benevento. Al centro. Pascolo. In basso. Oliveto.

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In alto. Il Calore Irpino presso Castelfranci. Al centro. Vigneto. Sotto. Tartufi e pecorino di Bagnoli Irpino.

della produzione di vini di pregio: siamo nelle terre dei DOCG Fiano di Avellino, Greco di Tufo, Taurasi e del DOC Irpinia. Perle preziose di uno scrigno che lentamente si sta dischiudendo per offrire i suoi tesori agli amanti del gusto. Ma molteplici sono i prodotti di pregio della provincia avellinese, l’IGP castagna di Montella, i tartufi di Bagnoli Irpino, il pecorino bagnolese, e il pecorino Carmasciano, vera chicca per intenditori,

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e ancora il caciocavallo podolico, il caciocavallo silano DOP, la ricotta e i latticini. Di indiscussa qualità le carni di vitellone bianco dell’Appenino centrale IGP proveniente dai pascoli montani e gli insaccati tipici come la soppressata irpina. E un prodotto, antico come l’uomo, ma che trovarlo ora di qualità è quasi una scommessa, qui è una specialità: il pane di grano duro, come quello di Calitri o di Montecalvo Irpino.

E in questa zona, segnata dalla presenza del Fiume Ofanto, che nasce a Torella dei Lombardi e corre rapidamente verso l’Adriatico, siamo quasi ai confini con la Basilicata e con la Puglia, troviamo altri due specchi di acqua dolce di una certa importanza: il Lago di Conza, formato da una diga sull’Ofanto, circondato da flora igrofila e da pascoli rappresenta la più estesa area umida della Campania e proprio per questa sua caratteristica

risulta importante stazione di ristoro e riposo delle specie ornitiche lungo la rotta migratoria tra Tirreno ed Adriatico; tutta l’area è compresa nell’omonima Riserva Regionale, dove di recente è stata segnalata la presenza di una coppia di gru. Ed infine il Lago San Pietro ai piedi di Aquilonia, di un colore celeste intenso, disteso lungo la vallata scavata dal Torrente Osento, area attrezzata per la pesca sportiva ed i picnic. Insomma una miniera di bontà in un territorio dall’orografia movimentata, con mille rivoli che discendono dai suoi fianchi alimentando i fiumi e le tante fontane poste a ristoro dei viaggiatori lungo l’antica strada regia per le Puglie; ricco di foreste, altipiani, pascoli montani e morbide vallate, campi alacremente coltivati e aree incontaminate dove la storia dell’uomo con le sue opere e la natura fanno a gara nel sorpassarsi in bellezza. Lasciamo la provincia di Avellino seguendo le tracce dell’antico acquedotto Claudio che per secoli ha dissetato Napoli. Da Serino ai piedi del versante occidentale della

catena dei Picentini, famosa anche per le sue castagne di Serino DOP, infatti partiva questa mirabile opera, un ramo si dirigeva verso Benevento, l’altro attraversava l’agro nolano, per raggiungere la città partenopea; se ne vedono ancora le

tracce in città nella zona denominata Ponti Rossi proprio per la presenza residua di arcate dell’acquedotto. Per anni la parola “serino” a Napoli è stata sinonimo di acqua, anzi era “l’acqua”, leggera, digeribile, gustosa, perfetta in cucina.

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In alto. Il Lago San Pietro ad Aquilonia. Sotto. Il Lago di Conza.


La provincia di Napoli, come abbiamo già detto, non ha sorgenti o corsi d’acqua degni di nota; nei tempi antichi c’era il Fiume Sebeto che sfociava a mare nei pressi del Ponte della Maddalena, dopo aver alimentato lungo il suo corso una zona ricca di mulini, ma non era un gran ché tanto da meritarsi la dicitura “ricco d’onor povero d’acque” per la gran mole di testi e trattati a lui dedicati. A dire il vero a Napoli, in città, c’erano alcune sorgenti, ma erano di acqua sulfurea, la cosiddetta “acqua ferrata” venduta nelle mummarelle i piccoli orci di terracotta, dal sapore forte che ben si accompagnava ai taralli sugna e pepe, “sfizio” napoletano nelle passeggiate sul lungomare. Napoli povera di acque poteva però vantare una serie di acquedotti sotterranei che alimentavano tutta la città, tra quelli più funzionali e in parte ancora in servizio almeno come percorso, quello del Carmignano del XVII secolo, così detto dal nome del suo geniale realizzatore. Anche negli acquedotti napoletani la storia c’ha messo il suo zampino, infatti fu calandosi in un pozzo, nei pressi della chiesa di Santa Sofia e inoltrandosi nei cunicoli sotterranei che l’esercito bizantino guidato dal generale Belisario nel 536 d.C. riuscì a conquistare Napoli e il ducato napoletano dopo un lungo e, fino allora inutile, assedio. La stessa strada fecero le truppe di Alfonso di Aragona nel 1442 entrando dallo stesso pozzo, nello stesso luogo, e cogliendo di sorpresa alle spalle gli angioini asserragliati in quelle che credevano mura inespugnabili. Alfonso, per prudenza fece poi murare quel pozzo! Ma torniamo a queste vie d’acqua sotterranea che, insieme alle cave del tufo, resero il sottosuolo di Napoli simile ad una gruviera; una città ipogea fatta di gallerie, pozzi, cisterne, cunicoli a volte talmente stretti da poterli percorrere solo procedendo di lato, alcuni sono ancora visitabili ed è un tragitto tenebroso ma di grande fascino. Tre sono gli acquedotti a pelo libero della antica città di Neapolis, che l’hanno servita fino al 1885, anno in cui fu inaugurato l’attuale acquedotto intubato. L’acquedotto della Bolla, di origine greca, raccoglieva le acque sorgive della piana di Volla (nel settore sud-orientale di Napoli) per alimentare la zona urbana di Neapolis ed i mulini della valle del Sebeto. Segue a pag. 24

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Il Sebeto, il fiume che non c’è Il Sebeto era il simbolo della città prima greca e poi romana, ed era rappresentato nelle monete di Neapolis quattro secoli prima della nascita di Cristo, ma aveva già perduto la sua identità quando Boccaccio viveva all’ombra del Vesuvio. Ma il nome l’avrebbe riconquistato ben presto, insieme alla fama. Furono gli Umanisti a rilanciare la sua immagine, e questa da allora è rimasta ben salda nella memoria collettiva. Gioviano Pontano celebrava le sue placide acque che scorrevano tra filari di

salici e Jacopo Sannazaro lo ricordava teneramente come “il mio napoletano Tevere”. Per risalire alle origini, bisogna immaginare un corso d’acqua che scorre placidamente dalle pendici del Monte Somma, presso Tavernanova, verso il mare. Ad alimentarlo erano le sorgenti della Bolla e, successivamente, quelle del Lufrano. Nelle zone più lontane dalla città, un po’ d’acqua continua ad affiorare. Il fiume dopo aver azionato una serie di mulini, concludeva il suo viaggio nella zona orientale di Napoli, al

Ponte della Maddalena, teatro di aspri scontri nel 1799 tra le truppe sanfediste del cardinale Ruffo, venuto alla riconquista del Regno di Napoli e gli strenui difensori della Repubblica Partenopea. Sullo stesso ponte, nel ‘600 si dice che San Gennaro abbia fermato un’altro fiume, quello della lava eruttata dal Vesuvio che con il suo corso minacciava la città. In questo punto nel 1555 fu costruito il ponte, recentemente restaurato, sulle fondamenta di un’antica struttura che, già danneggiata

dalle intemperie e da eventi bellici, aveva ricevuto il colpo di grazia da un’alluvione. Bastava poco per sistemare la foce di un corso d’acqua tanto modesto da apparire in più punti stagnante, ma si innalzò un monumento, senza badare ai costi. Opera talmente sproporzionata alle effettive necessità che un generale moscovita venuto a sostenere i borbonici, osservate le poderose arcate presso la chiesa della Maddalena, aveva esclamato: “Napoletani, o più acqua o

meno ponte”. In sua imperitura gloria e memoria il viceré conte di Monterey fece erigere in suo onore una grandiosa fontana, appunto quella del Sebeto, realizzata nella prima metà del Seicento da Fanzago junior posta ora al largo Sermoneta, a Mergellina, dove il mitico fiume è rappresentato come un vecchio con la barba fluente disteso su un fianco, un po’ accigliato, forse pensando al fiume che non c’è più; iconografia abbastanza consueta, questa, per la rappresentazione dei fiumi.

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In alto, a sinistra. La Fontana del Sebeto. In alto, a destra. Mulini nella campagna napoletana alimentati dal Sebeto. In basso, a sinistra. Il Sebeto rappresentato nel cartiglio della pianta di Napoli del duca di Noja. In basso, a destra. Il Ponte della Maddalena.


Acqua per il popolo Le fontane di Napoli

Descritte e celebrate da scrittori e poeti, abbellite da leoni e da satiri, da orridi mostri marini e da splendide sirene, le fontane di Napoli, spostate dai loro luoghi d’origine, trasformate, rivelano la storia della loro città. Esse furono volute a decine dai tanti viceré spagnoli che si contesero il potere, ma anche dai sovrani borbonici che li imitarono e decorarono ogni angolo di Napoli come sontuosi gioielli pregni di fantasia popolare e custodi essi stessi di leggende misteriose. Retaggio della cultura araba amante della decorazione o di quella spagnola tesa allo scenografico, forse per il popolo napoletano, popolo di mare, le fontane erano solo una sorta di rassicurazione: l’acqua dolce che sgorga fresca dalla bocca di un pesce o di una sirena è pur sempre il sogno di ogni marinaio troppo a lungo forzato, durante la navigazione, a centellinarla! Ognuna di esse ci racconta la sua storia,

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unica e particolare, ed ognuna porta con sé il suo carico di creature marine o mitologiche, reali o immaginarie, ma, comunque, nate tutte dalla fantasia di artisti di rara abilità, manieristi, barocchi o neoclassici che fossero. Nella Villa Comunale, nascosta dagli alberi, si trova, oggi, la bella Fontana di Santa Lucia che un tempo si trovava nell’omonimo quartiere ed era l’orgoglio di tutti i suoi abitanti. Il conte di Benavente, viceré di Napoli, la volle costruire, chiamando, per questo, famosi scultori e marmorai molto attivi in quegli anni a Napoli, primo fra tutti Michelangelo Naccherino che insieme agli altri ideò questo particolarissimo gioiello. La vasca, sorretta da due delfini, è sovrastata da un arco ai cui lati sono due pilastri scolpiti a bassorilievo con ogni sorta di crostaceo, pesce o animale marino. Ai lati Nettuno e Anfitrite circondata da Tritoni ed Anfitrite conte-

sa dalle divinità marine sovrastano due piccole lapidi e due vaschette a conchiglia. Fu suppergiù negli stessi anni che per volere del viceré Olivares fu costruita anche la Fontana di Nettuno, forse la più itinerante di tutte, che dopo aver girovagato in città, oggi è in via Medina, anch’essa ideata ed eseguita dal Naccherino, autore certo del bel Nettuno che la sovrasta, ma, questa volta, aiutato da un altro toscano, Pietro Bernini, padre del ben più famoso Gian Lorenzo che, con ogni probabilità, ne scolpì i putti ed i mostri marini. La Fontana dell’Immacolatella, poi, costruita, sempre nello stesso periodo, alla salita del Gigante, nei pressi dell’attuale piazza del Plebiscito, e trasferita presso l’antica stazione marittima, di fronte alla costruzione da cui prese il nome, dopo varie vicissitudini è oggi sul lungomare, in via Nazario Sauro, e scandisce con i suoi tre archi la veduta del paesaggio retrostante. Tra le rare fontane che nei secoli hanno mantenuto il loro sito originario è, per esempio, la Fontana di Monteoliveto o di Carlo II a cui è legata la famosa leggenda del re che volge lo sguardo verso un luogo

misterioso in cui è sepolto un tesoro. Fu fatta erigere per l’ultimo esponente spagnolo della dinastia degli Asburgo. La scultura che sovrasta la bella vasca polilobata decorata da leoni, raffigura Carlo II quasi bambino, ma quando fu fusa il re ormai aveva raggiunto già l’età di diciotto anni. Più avanti negli anni, in un’epoca storica molto diversa, furono progettate poi le belle fontane del Real Passeggio di Chiaia prima fra tutte quella che oggi identifichiamo col nome di Fontana delle Paparelle, ma che in origine, ideata da Giuseppe Sammartino, doveva recare, al centro, un gruppo con la Sirena Partenope ed il Sebeto e poi, addirittura il mastodontico Toro Farnese. Fu Ferdinando IV a pensare di prelevarlo dal deposito in cui da anni era custodito per portarlo in Villa Comunale, non senza suscitare, tuttavia, dubbi e perplessità. Nel 1826 esso fu spostato nel Real Museo Borbonico ed al suo posto è ora la bella vasca di porfido, scavata a Paestum, sor-

retta da quattro leoni neoclassici. Tante altre sono le fontane di Napoli, quelle della Selleria, quella del Mandracchio, del Formello, di Spina Corona detta anche ‘a funtana ‘re zizze (dei seni) dalla sirena discinta che la adorna, della Scapigliata, del Capone, della Marinella al Carmine o di Mezzocannone, senza contare quelle nascoste nelle sontuose ville o nei cortili dei palazzi antichi della città; molte le loro storie, frammenti di una realtà antica che è poi la nostra realtà, e tutte ci rimandano al nostro eterno dipendere, anche esteticamente, dall’acqua.

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In alto, a sinistra. La Fontana di Santa Lucia. Sotto. Particolare della Fontana di Monteoliveto. In alto, a destra. La Fontana dell’Immacolatella. In basso, a sinistra. La sirena della Fontana di Spina Corona. In basso, a destra. La Fontana delle Paparelle con il Toro Farnese in una gouache.


Il già citato acquedotto Claudio, costruito in età augustea serviva per convogliare le acque sorgive del territorio di Serino fino alle ville di Posillipo e Bagnoli, nonché al centro militare marittimo di Bacoli e Miseno porto della flotta imperiale. Infine, agli inizi del 1600 risale l’importante acquedotto, anch’esso già citato, detto del Carmignano dal nome del suo progettista Cesare

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Carmignano, che era alimentato dalle acque del Fiume Isclero, sull’altopiano caudino. Questi acquedotti, erano ancora interamente percorribili anche dopo la loro dismissione e fino all’inizio dell’ultimo conflitto mondiale quando furono ancora esplorati per ricavarne ricoveri antiaerei. È incredibile pensare a quanta maestria ci sia voluta da parte dei “poz-

zari”, umili artefici di questa meraviglia negli oscuri meandri sotterranei, per realizzare il gioco mirabile di pendenze, sifoni, cascatelle, in grado di sfidare le leggi della fisica e portare l’acqua sotto le case di tutta la città. Più essa si allargava più le gallerie si allungavano inseguendo sotto terra la fame abitativa dei partenopei. Insomma una ragnatela d’acqua

invisibile, come le vene di un corpo, che serviva a dissetare la città ma anche ad alimentare le innumerevoli fontane monumentali pubbliche e quelle dei giardini nobiliari, nonché a irrigare orti e frutteti cittadini. L’acquedotto Claudio che portava l’acqua fino a Baia, sul litorale flegreo, confluiva in una cisterna enorme, tuttora in perfetto stato di

conservazione, la cosiddetta Piscina Mirabile, che serviva per l’approvvigionamento idrico della flotta imperiale ancorata a Miseno, un’opera di grandissima genialità, il suo interno, con la luce che piove dall’alto dalle strette grate di protezione, assume quasi l’aspetto di un luogo sacro, e misteriosamente magico. Ed alimentava anche le Cento Camerelle, dette volgarmen-

te prigioni di Nerone, altro serbatoio che serviva a rifornire una delle tante ville patrizie della zona, costituito da una serie di cunicoli disposti ortogonalmente in origine voltati e rivestiti di cocciopesto idraulico; anche questi visitabili con grande emozione. Nessun golfo al mondo risplende più dell’amena Baia. Così diceva Orazio. Siamo nei Campi Flegrei, i campi

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La Piscina Mirabile.


L’acquacoltura in Campania L’acquacoltura rappresenta un’ importante opportunità di riconversione per la pesca tirrenica e campana ed è certamente una delle attività che si intende potenziare con la futura programmazione regionale del Fondo Europeo Pesca. Un elemento caratterizzante l’acquacoltura regionale è la mitilicoltura. Essa è molto diffusa e affonda le sue radici in antichissime tradizioni. L’introduzione della cozza sulle tavole dei napoletani risale al VIV secolo a.C., tant’è che divenne simbolo di Cuma, la prima colonia creata dai greci nella penisola, ma come per mistero scomparve dalla gastronomia antica tanto che non ne è stata ritrovata traccia negli scavi di Pompei che invece hanno restituito un vasto repertorio alimentare - per

In alto. Il Lago Fusaro, sullo sfondo Procida e Ischia. Sotto. Il Mare Morto a Bacoli.

ardenti, e qui la magia è di casa. Questa è la terra della Sibilla, ma anche della Falanghina DOC i cui vigneti coprono i dolci pendii delle colline che si protendono verso il mare. Pochissimo lontano dalla costa il piccolo Lago di Lucrino, luogo di delizie per gli antichi

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romani che nei suoi dintorni fecero erigere lussuose dimore, Cicerone amava soggiornarvi. Diviso dal mare solo da una sottile striscia di terra il Lago Fusaro, meta preferita di Ferdinando di Borbone che vi fece costruire una deliziosa casina per la caccia alle

folaghe, è ricco di cefali spigole e anguille, e un tempo famoso per le ostriche, ma ancor più per le “cozze del Fusaro” i gustosissimi mitili, il cui uso alimentare risale alla notte dei tempi, tanto da essere raffigurati anche su di una dracma coniata a Cuma nel V secolo a.C., e che

ora si allevano lungo tutta la fascia costiera puteolana in impianti supercontrollati e garantiti. Infine il Lago d’Averno, la porta dell’Ade, dove si diceva un tempo non volassero neanche gli uccelli. Impossibile sottrarsi al fascino di questi specchi d’acqua non grandi ma carichi di storie, miti e leggende. Artisti di tutte le nazionalità,

poi ricomparire a Napoli solo nel 1888. Da allora è molto apprezzata sulle nostre tavole evocando tradizioni, sapori e cultura della cucina partenopea. Oltre al consolidamento della molluschicoltura si punta al potenziamento delle filiere ittiche, prima fra tutte quella del tonno rosso, che vanta in Campania la più grande flotta nazionale, che necessita però di una strutturazione ed integrazione nei diversi elementi produttivi per ridurre i prelievi e gli impatti negativi sull’ambiente, ma anche per valorizzare questa pregiatissima produzione. Infatti, in Campania il tonno rosso viene lavorato e trasformato in prodotti di qualità spesso ignoti al grande pubblico quali la bottarga di tonno, la ventresca di tonno, il tonno sotto sale e sott’olio, il capicollo di tonno e il tonno affumicato. specialmente tra il Settecento e l’Ottocento, furono attratti da quest’area che sprigionava una bellezza misteriosa, ricca di fascinazione e l’hanno ritratta in opere di alto valore documentario ma anche idilliache, languide e ammalianti, oggetti di culto per i collezionisti. Il suolo reso fertile dalle eruzioni vulcaniche e il mare che lambisce

questa costa hanno creato le condizioni ideali per lo svilupparsi di ecotipi particolari. Questa è l’area di nascita e di elezione della melannurca campana IGP, che poi si è diffusa in altre zone della regione. Se fino a questo punto, partendo da nord, la costa è stata una dolce e poco movimentata striscia di sabbia dorata, e sostanzialmente poco antropizzata, da qui, esattamente dal promontorio di Capo Miseno, non molto distante da quella piccola collinetta tufacea di Cuma dove i nostri antenati ellenici provenienti da Kimi, nella penisola calcidica, decisero di gettare le ancore e fondare una città, Cuma appunto, da qui, dicevamo, il mare diventa protagonista di uno spettacolo che non ha pari; la costa si innalza a picco,

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In alto. Mitilicoltura. Sotto. Ferdinando I a caccia di folaghe sul Lago del Fusaro, sulla destra la casina di caccia.


In alto. Il Lago d’Averno. Sotto. Il Lago d’Averno in una gouache. A destra. Melannurche e un gozzo in costruzione.

si frastaglia in mille insenature, anfratti, grotte, spiaggette, scogliere, isolotti formati da uno scoglio e piccole penisole che improvvise si tuffano nel cobalto. Tutto un susseguirsi di piccoli e grandi porti in cui ferve il lavoro di marinai, pescatori, che da questo mare traggono prodotti guizzanti e saporitissimi, non a caso quello di Pozzuoli è uno dei mercati ittici più importanti e forniti, oltre a essere un palcoscenico

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su cui Nettuno, con l’aiuto di brillanti attori, espone le sue merci migliori in uno spettacolo fatto di suoni, voci e colori guizzanti. In tutta l’area flegrea, ma presenti anche in altre zone della regione, numerosi sono anche i cantieri navali che dalla antica saggezza e abilità e da una tradizione che affonda le radici lontane nel tempo, traggono ispirazione per varare quei piccoli gioielli che sono i gozzi

e i pescherecci o per realizzare barche da diporto all’avanguardia, importante settore produttivo campano, quest’ultimo, in continua espansione, memore di grandi e storiche capacità costruttive testimoniate tra l’altro dagli importanti cantieri navali di Castellammare di Stabia. Una curiosità: il primo battello a vapore varato in Italia era il borbonico “Ferdinando I” costruito nei cantieri campani.

Da qualche tempo alla loro tradizionale attività, i pescatori di quest’area, ma non solo di questa, riuniti in cooperative hanno affiancato il pescaturismo, con cui rendono partecipi i non “addetti ai lavori”, i turisti appunto, di piacevoli esperienze marinare che normalmente si concludono con estemporanee mangiate a bordo dei pescherecci a base di pesce appena pescato; che c’è di più fresco?

Il pescaturismo in Campania Il pescaturismo, l’ittiturismo, l’agriturismo e tutte le forme di turismo sostenibile rappresentano, oggi, un efficace strumento di sviluppo locale e di valorizzazione dei territori e dei paesaggi marittimi e rurali. Il pescaturismo e l’ittiturismo offrono un’opportunità unica per scoprire, in un modo non usuale, le bellezze del mare e usufruire, secondo principi di sostenibilità e di rispetto degli ambienti naturali, delle risorse in esso presenti. In tale contesto, la Campania riveste certamente un ruolo privilegiato per le proprie bellezze naturali e per la diversità negli usi, costumi e tradizioni di pesca rinvenibili lungo tutta la sua costa. Si passa dalle nasse di giunco, per la pesca dei gamberi, alle reti di “menaica” per la pesca delle alici, la cui prelibatezza è diventata oramai celebre, fino alla valorizzazione delle aree costiere che, a vario titolo sono oggetto di tutela e protezione ambientale. Il pescaturismo e l’ittiturismo possono rappresentare una valida integrazione del reddito del ceto peschereccio a compensazione delle maggiori limitazioni che le norme di salvaguardia pongono alle ordinarie attività dei pescatori. L’esperienza del pescaturismo in Campania è particolarmente vitale

in quanto i servizi offerti dai pescatori sono integrati con la politica di tutela delle aree a mare che ha interessato tra gli altri anche posti come Sorrento, Procida, Ischia, tutta la costa del Cilento, famosi in tutto il mondo per le loro bellezze naturali. Il pescaturismo campano intende uscire dai ristretti ambiti regionali per far emergere tali attività dall’ ambito locale a cui oggi sono destinate con l’avvicinamento dell’utenza turistica nazionale e internazionale alla pesca professionale campana in un quadro caratterizzato, così, dall’esaltazione dei valori posti a fondamento della reciproca conoscenza.

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E in mezzo a questo miracolo della natura i segni antichi della presenza dell’uomo sbucano improvvisi, testimonianze stratificate nei secoli, mausolei, templi, mercati, terme, castelli, chiese sono lì a ricordarci che questo fu un lembo di terra amato dagli antichi per la sua bellezza e per la magnetica forza endogena che emanava. Ma lo spettacolo non è solo sopra il mare ma anche sotto. Celati ai più, altri segni dell’uomo giacciono sul fondo marino, mura sommerse e quasi intatte, porti, strade percorse ora solo dai pesci, colonne e capitelli sono il tesoro del Parco Sommerso di Baia. Con parsimonia il buon Nettuno concede di tanto in tanto qualche ritrovamento eccezionale, ed allora una Venere, o un fauno o un cavaliere rivedono la luce del sole. Ancora l’acqua, il mare, è protagonista a Pozzuoli di uno spettacolo lento ma continuo, invadendo o ritraendosi dai resti dell’antico mercato romano, comunemente chiamato Tempio di Serapide, a causa di quel fenomeno che si chiama bradisismo, perché qui anche la terra respira e solleva o abbassa il suo petto con un ritmo quasi invisibile, secolare.

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In alto. Mercato del pesce a Pozzuoli. A destra. Panorama di Miseno. Sotto. Il golfo di Pozzuoli in una gouache. In basso, a sinistra. Il Tempio di Serapide. In basso, a destra. Il porto di Pozzuoli.


In alto. Il borgo di Sant’Angelo ad Ischia. Sotto. La spiaggia della Chiaiolella a Procida.

Se poi volgiamo il nostro sguardo verso il mare, quasi a portata di mano nel blu sorgono due gioielli, la verde Ischia di origine vulcanica, turistica e mondana con le sue spiagge e i suoi vini pregiati come il famoso per’ e’ palummo, e Procida, una roccia a picco nell’acqua, ritrosa e quasi gelosa delle sue bellezze come il porticciolo di pescatori della Chiaiolella o il piccolo isolotto di Vivara, oasi incontaminata e

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contenitore di importanti ritrovamenti archeologici condotti da equipe internazionali. Superando l’isolotto di Nisida con il suo minuscolo Porto Paone, l’alta e corrosa costa di Posillipo ci appare in tutto il suo splendore. Un susseguirsi di macchia mediterranea, giardini lussureggianti, ville, grotte, e ancora testimonianze archeologiche che ci dicono quanto fosse ambito questo piccolo lembo

di paradiso. Anche qui la tutela ambientale opera, attraverso il Parco Sommerso della Gaiola. Ammirando dal mare o da terra la collina che già i Romani chiamarono Pausilypon, dal greco pausilupos, che acquieta il dolore, è impossibile non farsi ritornare alla mente le mille canzoni che ne hanno raccontato la languida bellezza e gli amori sbocciati in questi luoghi. Segue a pag. 35

Posillipo, promontorio del mito Lungo l’affascinante costa del golfo di Napoli un posto d’onore, per esclusività e bellezza naturale, è riservato al promontorio che divide, nell’estremità occidentale, l’insenatura naturale di Napoli da quella di Pozzuoli. Dai tempi in cui se ne conosce la storia, la verde collina che si immerge nelle acque, formando graziosissime insenature verdeggianti di giardini sino ai margini della costa, porta il nome di Posillipo. Numerose sono le tele che ritraggono le amene anse che il capriccio della natura e delle eruzioni vulcaniche hanno voluto per quella zona, in particolare quelle dei pittori della cosiddetta Scuola di Posillipo che, nell’Ottocento, vollero intitolare a questo luogo la propria dedizione all’arte. La collina, si è conservata sino ai nostri giorni quasi intatta nelle sue caratteristiche originali. Il luogo si presenta ancora, come una zona di estrema quiete e tranquillità, cosa che la rende quasi un unicum all’interno del perimetro cittadino: è ricca di verde ma, soprattutto, custodisce ancora angoli segreti e poco frequentati, il cui difficile accesso da un lato ne preserva la conservazione, dall’altro contribuisce ad alimentarne il fascino. Tra questi, l’angolo più prezioso, il più significativo sotto l’aspetto storico, estremamente interessante dal punto di vista botanico e sicuramente unico per le presenze archeologiche, è quello oggi identificabile con il Parco Archeologico del Pausilypon. Sull’estrema punta della collina, in corrispondenza del-

l’insenatura denominata la Gaiola, si estende l’ameno sito, un tempo sede dell’elegante villa romana. Le stesse caratteristiche di oggi probabilmente colpirono il ricco Publio Vedio Pollione, appartenente alla classe dei cavalieri, ormai al culmine della sua carriera iniziata al seguito di Augusto. Di lui si narra che possedesse una raccolta di ritratti di alcune tra le più nobili matrone romane con le quali aveva avuto evidenti legami extraconiugali. La villa, possedeva tutte le caratteristiche più alla moda dell’epoca: grandi e numerose piscine per l’allevamento dei pesci, un ampio approdo via mare con locali di accoglienza e poi lo sfruttamento dell’andamento in salita della costa per la costruzione di numerose terrazze, adorne di portici a colonne dalle quali era possibile godere del panorama che si estendeva su buona parte del golfo. Almeno due dovevano essere gli accessi alla villa, uno dal mare e l’altro dalla strada la cosiddetta Grotta di Seiano, un profondo corridoio di circa 770 metri che perfora la collina di Posillipo collegando la discesa di Coroglio alla zona alta della villa, costituisce oggi l’imponente e magico tragitto, gioiello dell’ingegneria romana. Avanzando tra la vegetazione selvatica, tipicamente mediterranea, di pioppi, olmi e ginestre, si giunge allo slargo pianeggiante su cui si ergono quasi frontalmente il teatro e l’odeon; lo sfondo azzurro del cielo e il blu del mare, che incorniciano le rovine accecano di meraviglia anche per il contrasto con il percorso buio della

grotta. Il potere evocativo del luogo legato alla tradizione filosofica epicurea e alla poesia di Virgilio, con lo stretto connubio terra-mare, fa del Parco del Pausilypon uno dei gioielli più preziosi del patrimonio culturale e ambientale della città di Napoli.

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In alto. La costa del Capo di Posillipo. Sotto. Il teatro romano del Parco Archeologico. In basso. L’isolotto della Gaiola.


Poi basta doppiare idealmente l’ormai scomparso Scoglio di Frisio che appare la Sirena: Napoli balcone sul mare. Da qualsiasi punto ci si pone, sul crinale della collina che digrada verso il mare, lo sguardo non resterà mai deluso: l’arco del golfo, con la penisoletta di Castel dell’Ovo protesa nell’acqua quasi a volerla amorevolmente penetrare... le parole diventano insufficienti; visione unica che si dispiega dinanzi ai nostri occhi e si capisce perché questa città non ha smesso mai di far parlare di se, ispirando e costringendo gli artefici di tutte le muse a raccontare della sua malìa. Città di mare, anche dove “il mare non bagna Napoli”, perché anche lì esso fa sentire la sua presenza con i mille frutti del suo grembo entrati prepotentemente nella gastronomia napoletana popolare, spaghetti a vongole, zuppa di pesce, ‘o broro

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In alto. Il golfo di Napoli. Sotto, a sinistra. Il golfo di Napoli in una gouache. A destra. Pescatori in un quadro ottocentesco.

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‘e purpo (brodo di polipo); nei mitici mercati del pesce di Porta Nolana e Porta Capuana, distanti dal mare, dove tra una folla vociante, si riversa il meglio dell’immensa varietà del regno di Nettuno. Incredibile varietà descritta e cantata anche nella settecentesca canzone del Guarracino, quasi una sorta di enciclopedia della fauna marina in forma di filastrocca, dove si narrano le gesta di questo pesce, il Guarracino appunto, che volendosi sposare importuna una Vavosa innescando una specie di vespri siciliani sottomarina. C’era un pittore napoletano del ‘600, Giuseppe Recco, forse non uno dei maggiori, che però più di tutti seppe interpretare l’amore del suo popolo per i prodotti del mare; alcune sue opere, nature morte, sono veri e propri cataloghi, o monumenti, delle specie ittiche dei nostri mari, quelle che più frequentemente finivano sulle tavole imbandite di tutti i ceti, trasformate in ricette tipiche passate alla storia culinaria. Saraghi, cefali, tonni, alici, aguglie, triglie di scoglio, totani, calamari, gamberi, cozze, telline, vongole, polipi, dal “povero” pesce bandiera, fino alle aristocratiche aragoste, un’apoteosi delle profondità marine da sublimare in prelibate fritture di paranza, zuppe profumate e nelle mille altre ricette dettate dalla fantasia alimentare dei campani. Un documento visivo della varietà e la ricchezza del mare campano che nella pesca vede uno dei settori trainanti del suo sviluppo. Ma Napoli ha anche un museo vivente delle specie marine, la Stazione Zoologica Anton Dohrn fondata nel 1872 dall’omonimo biologo tedesco. Laboratori superattrezzati per la sperimentazione,

In alto. Nature morte con pesci di Giuseppe Recco. Sotto. Zuppa di pesce. In basso. Frittura di pesce. Pagina precedente. Pesci al mercato.


una biblioteca scientifica fornitissima e aggiornata - ora consultabile anche on line - un ospedale per le tartarughe marine gestito col WWF, unitamente ad attività nel campo della valorizzazione della risorsa mare e della tutela dell’ambiente, come nel caso del monitoraggio delle praterie sottomarine di Posidonia, alghe regine dei nostri mari, che hanno una rilevante importanza nell’ecosistema marino, esercitando una notevole azione nella protezione della linea di costa dall’erosione, al suo interno vivono molti organismi animali e vegetali che nella prateria trovano nutrimento e protezione, per questo il posidonieto è considerato un buon bioindicatore della qualità delle acque marine costiere. Tutte queste attività ne fanno un centro di eccellenza all’avanguardia nel campo della ricerca scientifica. Ma non solo. Per la gente comune la meraviglia rimane l’Acquario progettato dall’ingegnere inglese Alford Lloyd e inaugurato il 12 gennaio del 1874. Ventitrè vasche d’esposizione, la cui capacità varia da 250 a 69.000 litri, sono allestite con pietre vulcaniche e illuminate in gran parte dall’alto da luce naturale. L’universo marino, pesci, vegetali, vermi, molluschi, crostacei, conchi-

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glie, stelle marine e ippocampi, il tenero e ormai raro “occhio di Santa Lucia”, utilizzato come amuleto dai pescatori, proviene tutto

dal golfo di Napoli che continua a essere una delle aree del Mediterraneo più ricca di forme viventi.

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In alto. Panorama notturno di Posillipo. A sinistra. Una vasca dell’acquario. A destra. L’acquario, cartolina inizi ‘900.


In alto. Napoli dal mare. Sotto. Il Vesuvio dal mare in una cartolina di inizi ‘900. A destra. Le Reggia di Portici in una gouache.

Napoli e il mare, un’incredibile cartolina che da secoli ha come sfondo immutabile il nero cono del Vesuvio, con pennacchio o senza, ai cui piedi la costa ritorna bassa punteggiata dalle amene e lussuose dimore del Miglio d’Oro, luogo di delizie per la nobiltà napoletana sette-ottocentesca, su cui primeggia la Reggia di Portici con il suo piccolo approdo reale; animata da mille traffici tutti dediti al mare o che dal mare traggono quello di cui vivere e industriarsi. Anche lungo questa riva, maestri d’ascia, in artigianali cantieri, riparano o costruiscono i gozzi e i pescherecci con cui i pescatori andranno all’avventura.


Il florovivaismo La Campania non è soltanto una regione ricca di storia, di archeologia, di arte e di tanti buoni prodotti, ma è anche una “terra di fiori” e, soprattutto, di produttori capaci ed appassionati, che da oltre un secolo, tramandando di generazione in generazione tecnica ed arte, e che hanno saputo dare vita ad un settore che ricopre un ruolo importante nell’economia regionale. La floricoltura, che era un mestiere e che oggi è diventata una vera e propria attività d’impresa, nasce grazie all’opera di giardinieri e vivaisti che, senza andare molto indietro nel tempo, ancora ad inizio secolo scorso provvedevano alla cura e al mantenimento di giardini e parchi annessi alle regge borboniche, alle numerose ville vesuviane, ai castelli e ai

palazzi di pregevole architettura presenti lungo la fascia costiera napoletana e in quel paradiso di territorio rappresentato dalla penisola sorrentina e amalfitana. Le prime coltivazioni introdotte nell’area vesuviana furono i garofani, coltivati sotto rudimentali serre coperte con le cosiddette “pagliarelle”, cioè stuoie di canne di bambù, che ancora oggi possiamo vedere a protezione degli agrumeti della penisola sorrentina e amalfitana. La Campania è la prima regione produttrice di fiori recisi. In circa 3.000 aziende, gran parte delle quali tecnologicamente avanzate, si producono garofani, gerbere, crisantemi, rose, gladioli, lilium, iris, anthurium, tulipani, verde ornamentale tra cui aralia, aspidistra, asparagus e molte altre specie. Per difendere e valorizzare questo grandissimo patrimonio, la Regione Campania, già da tempo, ha messo in campo una serie di attività e progetti per lo sviluppo del florovivaismo: l’ammodernamento delle aziende per renderle competitive sul mercato attraverso aiuti finanziari, sia comunitari che regionali; il

sostegno alla ricerca e alla sperimentazione per venire sempre di più incontro al gusto dei consumatori e alle tendenze del mercato (in Campania sono attivi tre Centri florovivaistici per orientare le scelte delle imprese); entro fine anno la posa in opera della prima pietra per la realizzazione alle porte di Napoli di una Città del florovivaismo a beneficio di tutta la filiera regionale e meridionale. Un’attenzione particolare, inoltre, è riservata ai processi di produzione affinché risultino compatibili con l’ambiente, principalmente attraverso il risparmio delle risorse idriche, l’utilizzo, quando strettamente necessario nella difesa delle coltivazioni, di molecole chimiche “intelligenti” che non alterano gli equilibri ambientali, e il ricorso alle fonti energetiche rinnovabili. Infine, importanti risorse sono destinate a certificare la qualità delle produzioni, attraverso il marchio Standard garantito fiori della Campania, e a rafforzare l’identità territoriale delle produzioni campane, attraverso il programma regionale Costiera dei fiori.

Qui è lo scrigno dell’oro rosso, il prezioso corallo carpito, da secoli, alle profondità marine e trasformato, specialmente a Torre del Greco, in mille oggetti di raffinata bellezza da mani sapienti e geniali. Un altro oro rosso matura sulle pendici del vulcano dormiente, il

In alto, a sinistra. Una “corallina” torrese. Sotto. Albicocche vesuviane. A destra e al centro. Ornamenti in corallo delle collezioni Liverino e Ascione. A destra. Rami di corallo. In basso. Lavorazione del corallo. Pagina precedente. I piennoli.

pomodorino del piennolo del Vesuvio DOP una intensa riserva di

sapore che, sistemato a grappolo, il piennolo, decora i balconi di molte case come festoni di una sagra popolare. Di colore giallo, quasi una petita d’oro, è invece l’albicocca vesuviana IGP, altro regalo di questa terra che ha dentro il fuoco e che vede col florovivaismo, molto dinamico in questa zona, tingere le sue coste dai mille colori dei fiori, specialmente garofani.

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In alto. Pescatori sulla costa sorrentina. Sotto. Limoni e fiordilatte. Pagina seguente. In alto. La costa sorrentina in una gouache. Sotto. L’approdo di Alimuri a Sorrento in una gouache. Al centro. Provolone del monaco. A destra. Processione a mare a Piano di Sorrento. In basso. Tavoletta votiva.

Ancora l’acqua, su questo tratto di costa, quella di un canale proveniente dal Sarno realizzato nel ‘500, alimentava i mulini per la produzione di farina che rese famosa la zona di Torre Annunziata per l’ottima pasta che vi si lavorava. Ma già all’orizzonte si staglia l’alta costa della penisola sorrentina che si protende nel blu quasi a voler toccare le dorate rocce di Capri. E il sogno ricomincia, dove i Monti Lattari si tuffano a mare, dove si confondono i confini della provincia di Napoli e quella di Salerno, ha inizio la costiera sorrentina che prosegue con quella amalfitana in un unicum di incanto; dove le parole spesso sono state e sono incapaci di raccontare ciò che si ammira, le canzoni hanno saputo trasmettere l’emozione profonda che sprigiona da questi luoghi che, la leggenda vuole, rapissero anche Ulisse, fascinato dal canto delle mitiche sirene. Ma non è solo la bellezza marina la caratteristica di questo miracolo del creato, altri doni concede questa terra quasi nascosta dai tanti aranceti e limoneti, strappata lembo a lembo dai fianchi dei monti. Il limone di Sorrento IGP da cui si trae il famoso liquore, il pomodoro di Sorrento IGP, carnoso e quasi dolce per l’assenza di acidità che qui si accompagna con il

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fiordilatte Appenino meridionale DOP nella freschissima “caprese”.

Con il latte generoso delle mucche Agerolesi dei Monti Lattari, si produce anche il provolone del monaco DOP, stagionato ad arte è una vera delizia. Ed ancora la noce di Sorrento IGP famosa in tutto il mondo per la sua qualità ed infine, frutto di uliveti esposti al sole con la complicità della frizzante aria marina, l’olio extravergine di oliva Penisola Sorrentina DOP dal sapore fruttato e intenso. In un posto così intimamente legato al mare, anche la spiritualità cerca rifugio in esso ed ecco che qui si svolgono

sull’acqua alcune suggestive manifestazioni di devozione popolare, come la processione a mare della Madonna delle Grazie a Piano di Sorrento o quella che, sbarcando al piccolo porto di Crapolla, raggiunge il santuario di San Costanzo posto sulla vetta dell’omonimo monte. Lo stretto rapporto devozionale uomo-mare, mare come grembo vitale ma nel contempo fonte di pericoli mortali, è testimoniato anche dalle numerosissime tavolette votive conservate nei santuari della Campania che hanno per tema salvataggi miracolosi da immani burrasche.

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In alto. Punta della Campanella. In basso. La Baia di Ieranto. Pagina seguente. Capri. In basso. La Grotta Azzurra in una cartolina di inizi ‘900.

L’intera zona di Punta della Campanella, con le sue interessanti emergenze archeologiche, e della Baia di Ieranto sono Aree Protette come anche la Bocca Piccola di Capri. Già, Capri, come parlare di mare senza parlare di Capri, dove l’imperatore Tiberio costruì la sua villa a picco sul blu più inteso del mondo,

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dove questo mare cristallino dà uno degli spettacoli più affascinanti quando penetra nell’antro scuro della Grotta Azzurra dipingendola di turchino e di mille bagliori o quando si insinua come un tenero abbraccio tra i Faraglioni. Un’isola così vicina alla terraferma che la guarda e quasi la tocca, ma talmente differente da essa da aver

sviluppato, alcuni esempi di una sua flora esclusiva, che spadroneggia e vive solo in questi luoghi. Miraggio sull’acqua, Capri, meta romantica e raffinata, dove anche le canzoni si sono arrese, incapaci a fermare nelle parole il tumultuoso accavallarsi delle emozioni, dolci, intense, profumate, che da secoli trasmette.

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In alto. Limoneto ad Amalfi. In basso. Positano. A destra. Pasta di Gragnano. Pagina seguente. In alto. Belvedere di Villa Cimbrone a Ravello. In basso. La Valle delle Ferriere.

La meraviglia continua se ritorniamo lungo la costa che adesso prende il nome di amalfitana, costellata dai piccoli gioielli incastonati tra le rocce, Positano, Praiano, ed Amalfi, l’antica e potente Repubblica Marinara, terra del limone costa d’Amalfi IGP che trova qui il suo habitat ideale rubando spazi vitali alle rocce protese sul mare. In questo piccolo paradiso che si incunea nei monti retrostanti, l’acqua del piccolo Torrente Canneto, ha dato vita secoli or sono a fiorenti attività artigianali. Infatti lungo la Valle dei Mulini che si insinua profondamente, quasi una fessura, tra le

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alture, si impiantarono molte cartiere dove, sfruttando ingegnosamente la forza motrice dell’acqua torrentizia attraverso una serie di vasche e caditoie, si produceva, e si produce ancora, la pregiata carta di Amalfi. Numerosi anche gli opifici dediti alla lavorazione del minerale ferroso estratto dai fianchi del monte la cui presenza è diventato il

toponimo di parte di questa stretta gola. Se ci inoltriamo ancora sugli antichi sentieri che si inerpicano fino a Pontone, scopriremo uno spettacolo che ci lascerà senza fiato; nella Valle delle Ferriere l’omonima Riserva Naturale Orientata tutela un patrimonio ambientale unico nel suo genere, frutto di un microclima umido generato dai

mille rivoli di acqua e dalla limitata ventilazione che ha prodotto una natura assolutamente insolita: con un’inversione vegetazionale, nella valle si è formato un bosco misto, mentre sui versanti si sviluppa la macchia mediterranea. Inoltre, l’elevato tasso di umidità crea il giusto ambiente per le specie igrofile. La Lingua cervina è una felce dalle foglie lunghe e lisce, che ricordano la lingua di un cervo; maggior meraviglia desta la Woodwardia radicans, una felce che si sviluppò nell’Italia meridionale alla fine del Terziario, e che oggi sopravvive in pochi angoli, qui per esempio, con rari esemplari. Ma l’attore principale della rappresentazione è l’acqua: merletti liquidi, trasparenti e delicati si alternano a salti, fiumicelli e cascatelle dall’aspetto quasi subtropicale, sembra di essere in Amazzonia, tale è lo splendore di questo luogo dove il sole gioca a nascondino tra la lussureggiante vegetazione creando effetti e arcobaleni fantasmagorici. In cima a questi monti c’è Ravello, dal belvedere di Villa Cimbrone, il punto più alto del paese, lo sguardo spazia su di uno spettacolo stupefacente; il luogo migliore, forse, per

comprendere quanto intimo, profondo e totalizzante sia il rapporto di questa regione con il mare e come da esso tragga le mille ragioni della sua bellezza. Bellezza che ha ispirato folle di artisti, molti dei quali stranieri, che in ogni epoca si sono misurati con la natura nel riprodurne, interpretarne, sublimarne gli incomparabili scenari con opere memorabili. Nelle insenature di questa frastagliata costa, si nascondono piccoli paradisi dove la tradizione della pesca continua ad essere fonte di vita, come a Cetara, importantissimo centro campano per la pesca e lavorazione del tonno, ha la flotta tonniera più grande d’Italia, e per la produzione della colatura di alici, il garum di cui i romani erano tanto ghiotti. Altra acqua scorre invece alle spalle della catena montuosa dei Monti Lattari, ai cui piedi sorge Gragnano resa famosa per la produzione di una pasta sopraffina che lì veniva lavorata nei pastifici che, spesso, erano muniti anche di mulini artigianali alimentati da piccoli corsi d’acqua che sgorgavano dai fianchi dei monti; se ci affacciamo dalle terrazze del Valico di Chiunzi ai


In alto. Tonnara. In basso. Il porticciolo dei pescatori a Cetara.

nostri piedi vedremo adagiata e incredibilmente popolata la pianura dell’agro sarnese-nocerino. Qui scorre il Fiume Sarno un tempo considerato un dio e adorato come tale tanto da dedicargli anche una piccola fontana, ricavata da una antica vasca romana. Il Sarno ha certamente un primato quello della

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sorgente più bassa, anzi delle sorgenti, tre per l’esattezza Foce, San Marino, Palazzo, poste nei pressi dell’omonima cittadina ad appena 30 metri slm. E la scarsa pendenza con cui il fiume scorre verso il mare con la relativa e rapida accumulazione dei sedimenti è una delle cause, unitamente alla sconsiderata mano dell’uomo, degli attuali problemi che presenta questo corso d’acqua a cui sta cercando di dare risposte l’Autorità di Bacino appositamente costituita. Nello scorrere dei secoli questo fiume ha determinato la geografia umana di tutta la piana rendendola una delle più fertili in assoluto, complici anche le ceneri vulcaniche sparse dal Vesuvio; qui sorgeva l’antica e prospera Pompei, e Nuceria, posta quasi al centro dell’ampia distesa pianeggiante e le tante ville agricole che continuano ad affiorare, casualmente o frutto di studiate campagne di scavo archeologico, dandoci testimonianza di una intensa attività legata all’agricoltura, capace di produrre molta ricchezza, tanto da permettere ai suoi abitanti di costruire templi, teatri e anfiteatri, terme, segni di un benessere acquisito e consolidato e anche molto diffuso. Molte sono state le opere tese ad addomesticare questo fiume, un tempo navigabile e sulle cui sponde sorsero, agli albori della nostra era industriale, diversi insediamenti manifatturieri.

In alto. Il Fiume Sarno. In basso. Le sorgenti del Sarno.

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Nel 1855 Ferdinando II di Borbone decise di rendere nuovamente navigabile il Sarno dalla foce, vicino Castellammare di Stabia di fronte allo scoglio di Rovigliano, fino a Scafati sede del Polverificio militare; il progetto prevedeva l’eliminazione di numerose anse che rendevano tortuoso il percorso del fiume riducendone la lunghezza da 12 a soli 5 chilometri. Ma se diciamo agro sarnese diciamo pomodoro San Marzano dell’agro sarnese-nocerino DOP, un frutto senza il quale buona parte della gastronomia, non solo campana, non sarebbe esistita. Questa è la sua zona di elezione, insieme al pomodorino Corbarino, la piccola perla rossa con il pizzo, che fa bella mostra di se appesa a grappoli a

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formare il piennolo, che cresce esclusivamente a Corbara sulle prime pendici dei monti; e ancora del cipollotto nocerino DOP e del kaki napoletano DOP, tutti prodotti tipici e storici dell’agricoltura di quest’area, attualmente coltivati con metodi moderni ma con antica sapienza e amore. Attraverso la stretta Valle Metelliana, oltrepassando Cava de’ Tirreni, ci portiamo di nuovo verso il mare; già dalla prima curva sopra Vietri sul Mare, ci appare il golfo di Salerno in tutta la sua ampiezza su cui si affaccia la pianura del Fiume Sele, la vasta distesa un tempo malsana, paludosa, malarica e infestata dai briganti tanto che chi doveva necessariamente transitarvi ... faceva prima testamento. Per for-

tuna i tempi sono cambiati, e ora la “Piana”, così la chiamano da queste parti, bonificata negli anni Trenta del secolo scorso, è una terra intensamente coltivata in maniera industriale ma anche in piccoli appezzamenti la cui conduzione è a carattere familiare. L’ampia distesa pianeggiante, un tempo ricca di acquitrini determinò lo stanziamento in quest’area di mandrie di bufale, notoriamente amanti dell’acqua, dando vita, anche in questa zona, a uno dei prodotti tipici più gustosi e ricercati, la mozzarella di bufala campana DOP. Ma nella “Piana” sono numerose anche le aree dedicate alla coltivazione degli ottimi carciofi di Paestum IGP, dal colore verde chiaro e particolarmente teneri. Inoltre, dai numerosissimi oliveti sparsi sulle morbide alture collinari e pedemontane che la circondano si trae il sopraffino olio extravergine di Salernitane DOP.

oliva

Colline

In alto. Il golfo di Salerno. Al centro e in basso. La Piana del Sele in gouaches ottocentesche. Pagina precedente. In alto e a sinistra. Lavorazione del pomodoro San Marzano. Al centro. La rettifica del Sarno in un quadro ottocentesco.

Questa grande pianura è delimitata a nord dalla massiccia catena dei Monti Picentini, Parco Naturale, grande bacino idrografico del sud Italia. Da questi monti hanno origine diversi fiumi, alcuni dei quali percorrono anche territori di altre province; tra quelli del versante salernitano troviamo i due corsi d’acqua che determinano i confini naturali del massiccio, l’Irno, con le sue tracce di archeologia industriale, il Sele ed infine il Tusciano e il Picentino. E non mancano le cavità

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In alto. Mozzarella di bufala. Sotto e in basso. Carciofi di Paestum e nocciole di Giffoni. Al centro. La chiena a Campagna. Pagina successiva. Il Sele nell’Oasi WWF.

naturali, create dall’azione erosiva delle acque che s’infiltrano nel terreno, per poi congiungersi alle sorgenti. Dal laghetto della Grotta dello Scalandrone, nel comune di Giffoni Valle Piana, un tempo anche rifugio di briganti, si forma la

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sorgente principale del Fiume Picentino. Nel suo tratto più alto, alcuni dislivelli creano precipitosi salti d’acqua, accompagnati da una vegetazione spontanea di faggi, ontani, carpini, frassini e aceri. Le sue acque, un tempo ricche di anguille, oggi sono conosciute per l’abbondante presenza di trote fario: ciò è possibile grazie al fatto che nella zona non sono presenti industrie che, altrimenti, comprometterebbero l’equilibrio biologico del fiume. L’economia di questo territorio è, infatti, soprattutto agricola: la nocciola di Giffoni IGP è il fiore all’occhiello di questa zona. In un paese posto alle pendici di questa catena montuosa, Campagna, troviamo forse il più singolare e inusuale utilizzo dell’acqua: in alcuni weekend estivi diventa protagonista di una tradizionale festa ... bagnata detta la chiena, la piena; infatti viene deviato il corso del Torrente Tenza in modo da alla-

gare le vie del paese, a quel punto i più volenterosi e resistenti, ma vengono coinvolti tutti anche i turisti, si danno battaglia a colpi di secchiate colme d’acqua fino a tarda notte o fino ai primi sintomi di raffreddore. Grandi viaggiatori del passato raccontarono nei loro scritti del Fiume Siler, quello che i Greci prima di loro chiamavano Silaros, da Plinio a Strabone, passando per Silio Italico e Virgilio che ci parla addirittura di un portus Alburnus forse ubicato presso la foce a testimonianza della sua antica e probabile navigabilità, considerato alla stregua di una divinità perché le acque del Fiume Sele erano linfa vitale per un ampio territorio, dai Monti Picentini fino alla sua foce nei pressi di Paestum dove, al suo tuffarsi in mare, qui l’acqua si ricongiunge all’acqua, i Greci avevano costruito uno dei santuari più frequentati, un altare a Hera Argiva, la dea che proteggeva

il parto e i figli, ma anche i giardini e i raccolti. Oggi il contributo di questo fiume non riguarda solo le comunità distribuite intorno al suo bacino idrografico e la costa cilentana, ma anche la Puglia, alimentata da un acquedotto che capta le sue acque poco dopo la sorgente, nei pressi di Caposele, e le trasporta nella vicina regione. Per la limpidezza delle sue acque e per la fauna che, in conseguenza, ne popola le rive o l’alveo stesso, il bacino del Sele è considerato un ecosistema complesso e di elevato valore naturalistico, ed ha avuto importanti riconoscimenti che mirano alla sua salvaguardia: l’alta valle e la foce del Fiume Sele sono stati inseriti nella lista italiana dei Siti di Importanza Comunitaria (SIC), in attuazione di quanto previsto dal programma europeo Natura 2000, mentre la Regione Campania ha ritenuto opportuno tutelare l’area istituendovi, nel 1993, la Riserva Naturale Foce Sele Tanagro. La purezza di queste acque è talmente rinomata, che in pittura una particolare tonalità è definita “verde Sele”, con riferimento al colore smeraldino del loro fondale. La porzione di fiume più interessante dal punto di vista naturalistico è certamente quella sita in corrispondenza di Persano, antica riserva di caccia dei Borbone, oggi trasformata nel Parco Naturale Oasi di Persano gestito dal WWF. L’antica natura paludosa dell’area ne aveva da sempre determinato la naturale destinazione a luogo di accoglienza per migliaia di uccelli durante la loro migrazione. Oggi la

Il Piano Regionale di Consulenza all’Irrigazione Pensando al territorio, non si può parlare di acqua senza pensare ai suoi utilizzi in campo agricolo; infatti l’irrigazione delle colture è sempre stato un fattore determinante nello sviluppo dell’agricoltura. In tale ottica l’Assessorato all’Agricoltura e alle Attività Produttive della Regione Campania, con la collaborazione tra la Facoltà di Agraria dell’Università di Napoli Federico II e dello spin-off accademico “Ariespace”, è da tempo impegnato in iniziative finalizzate ad ottimizzare la gestione dei mezzi tecnici utilizzati dalle aziende agricole allo scopo di migliorarne l’efficienza economica, nel rispetto dell’ambiente e della salubrità dei prodotti agroalimentari. In tale ottica, è stato predisposto il Piano Regionale di Consulenza all’Irrigazione (PRCI) il cui obiettivo è la gestione razionale ed efficiente della risorsa idrica nelle aziende agricole. Tra i servizi offerti agli imprenditori agricoli, quello in grado di fornire, via SMS o MMS, indicazioni sui volumi irrigui e la durata dell’irrigazione, “Il consiglio irriguo”, insieme alla immagine satellitare dell’azienda elaborata in falsi colori, i quali ricevono così un “consiglio irriguo” personalizzato in tempo reale. In qualsiasi istante, ciascuno di essi potrà poi “osservare” la propria azienda sull’immagine satellitare dis-

ponendo di un personal computer o di un telefono cellulare di nuova generazione. Nasce così uno strumento innovativo, attivo nella Piana del Sele e del Volturno per l’assistenza irrigua, realizzato mettendo insieme le informazioni ottenute dai satelliti ed i nuovi mezzi di comunicazione telematica. Il monitoraggio di numerose aziende aderenti al piano di consulenza ha permesso di stabilire che la gran parte di esse somministrano alle colture molta più acqua di quella necessaria e correttamente stimata dal sistema. Inoltre, tutte le aziende che hanno seguito i consigli irrigui inviati dal sistema non hanno riscontrato alcuna riduzione della produzione ottenendo, invece, un risparmio energetico ed economico. È stato così stimato che l´applicazione del piano consente di realizzare un risparmio di circa il 32% di acqua irrigua. Considerando un costo medio dell’acqua di 10,00 cent. di euro al metrocubo, il risparmio medio delle aziende campane, per colture come il mais, sarebbe di circa 200 euro ad ettaro.

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In alto. Il Fiume Tanagro presso Caggiano. Sotto. Il Battistero di San Giovanni in Fonte presso Padula.

zona è bonificata, ma una barriera crea un lago artificiale, e queste anse continuano a svolgere quell’importante ruolo di stazione di sosta dell’avifauna proveniente da tutta Europa. I detriti di natura ghiaiosa e sabbiosa trasportati dall’acqua si depositano a ridosso della diga, formando strisce di terre emerse: su queste si forma una vegetazione, fatta dapprima di giunchi e canneti, che a loro volta determinano un ulteriore compattamento dei detriti, preparando il terreno al bosco igrofilo, fatto di

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salici, ontani e pioppi. Prima di raggiungere la “Piana” il Sele accoglie le acque del Fiume Tanagro, un tempo detto anche Fiume Negro, provenienti dal Vallo di Diano, in una confluenza posta nel territorio di Contursi. Una confluenza che non era naturale, ma che è stata voluta e realizzata dall’uomo, più precisamente da un ingegnoso e ottimo ingegnere idraulico dell’epoca latina. A lungo il Vallo di Diano aveva costituito una barriera insormontabile, anche il toponimo lo ricorda, poiché il nome latino da cui deriva vallo significa “trincea”, nel senso di limite invalicabile. Il Fiume Tanagro, che l’attraversava, trovava lungo il suo percorso la valle sbarrata all’altezza di Polla, e riusciva a trovare sfogo solo in alcuni inghiottitoi, per poi ricomparire in diversi punti del massiccio degli Alburni: la sua risorgiva più conosciuta è quella ipogea di Pertosa. Spesso, però, quelle vie sotterranee si ostruivano, e il fiume invadeva la valle, trasformandola in un acquitrino inaccessibile e paludoso. Nell’ambito della costruzione della via Popilia che da Capua portava fino a Reggio Calabria - una strada che doveva consentire il controllo militare e la penetrazione economica nell’Italia meridionale - i Romani intrapresero un’impegnativa opera di bonifica del vallo. A nord tagliarono le rocce per dare al Tanagro un nuovo e più comodo letto, che ne

faceva confluire le acque nel Sele. Da allora, il Vallo di Diano (Diano era il nome antico di Teggiano) fu trasformato in una florida valle coltivata, quale è rimasta fino a oggi. Poco distante dalla Certosa di San Lorenzo a Padula, sulla sponda orientale del fiume, una sorgente divenne luogo di culto fin dall’epoca greca, in epoca cristiana al culto pagano fu sovrapposto il rituale del battesimo: al IV secolo risale il suggestivo Battistero di San Giovanni in Fonte, la cui particolarità è di essere circondato dall’acqua, che fluisce al suo interno tramite delle aperture andando ad alimentare la piscina quadrata. Quasi tutta la vasta area a sud della Piana, fino agli estremi confini meridionali della regione, dove la simbiosi tra l’uomo e il suo ambiente mantiene ancora un rapporto pressoché intatto, sono compresi nel Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano, inseriti nel Programma MAB (Man and Biosphere) dell’UNESCO e nella prestigiosa rete di Riserve della Biosfera. Se ciò non fosse bastato, il parco è inserito, insieme ai siti archeologici di Paestum e Velia, nella lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO, nella particolare definizione di Bene Misto, sia naturale che culturale. Due importanti riconoscimenti a quest’area per la sua natura viva e da proteggere, ma anche per il fondamentale ruolo sostenuto attraverso i secoli, di ter-

ritorio-cerniera fra popoli e civiltà. Ma torniamo ancora all’acqua che è protagonista sui Monti Alburni dove si nascondono gelosamente non poche meraviglie da offrire in dono a chi ha deciso di esplorarne le pendici. Sono le cavità, gli anfratti e gli inghiottitoi frutto del carsismo: in milioni di anni, l’acqua in abbondanza ha perforato e segnato la roccia calcarea. I più noti, appariscenti e interessanti fenomeni carsici degli Alburni sono le monumentali Grotte di Castelcivita e i laghi ipogei delle Grotte di Pertosa, paese nella cui area matura il tenero carciofo bianco di Pertosa (presidio Slow Food);

in questi due antri si può dire che la ninfa Egeria, quella trasformata in fonte da Minerva, davvero si è divertita, sbizzarrendosi in mille giochi, creando colonne calcaree, sculture, concrezioni dalle forme più strane, laghetti, preziosi merletti traforati che sembrano fatti all’uncinetto, insomma una meraviglia da restare allibiti. Ma vi sono altre cavità, meno famose ma altrettanto interessanti, nei pressi di Polla o a Sant’Angelo a Fasanella, e poi le grave del Serrone, quella dei Gatti e numerose altre. La maggior parte è stata per millenni ricovero delle popolazioni preistoriche che salivano su

questi monti per cacciare e, più tardi, per condurre le loro greggi in transumanza. L’uomo ha però saputo sfruttare con intelligenza l’abbondanza d’acqua che c’è da queste parti: nella zona di Corleto Monforte e di Castelcivita si scorgono, a volte ancora riconoscibili, altre profondamente trasformati, i mulini ad acqua. Nei pressi di ruscelli e torrenti si costruivano delle torri in cui l’acqua, attraverso canali di pietra, veniva convogliata per alimentare poi il mulino. Se ne può vedere un imponente rudere in località Preta Tonna, ma anche nei pressi di Postiglione, nelle frazioni di Moliniello e Aquara, dove le arcate delle condotte e i torrini sono in ottimo stato. Poco dopo essere uscito dal territorio dell’Oasi di Persano, il Sele incontra il suo secondo grande affluente: il Fiume Calore definito impropriamente Lucano per distinguerlo da quello Irpino. Per secoli offuscato dal fratello maggiore Sele, maggiore in realtà solo per fama, ma non per abbondanza di acqua, vegetazione e fauna, è stato per lungo tempo ignorato dalle cronache di storici e dagli studi di botanici. Per contro, la sua particolare natura lo rende uno dei più interessanti sia da un punto di vista geomorfologico che naturalistico. Il fatto di essere rimasto sempre ai margini, consente, però, a noi oggi di conoscerlo nel suo aspetto inalterato, un percorso in un paesaggio

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In alto, a sinistra. Grotte di Castelcivita. A destra. Grotte di Pertosa. Sotto. Coltivazioni di carciofo bianco di Pertosa.


e in una natura di selvaggia e sorprendente bellezza. Dopo la sua sorgente dal Monte Cervati, il fiume attraversa una prima gola nei pressi di Piaggine, le pareti calcaree che, alte, ne accolgono l’alveo, creano un effetto mozzafiato, mentre sullo sfondo si staglia imponente la cima da cui nasce. Ma questo è appena un saggio. Dopo essersi arricchito delle acque di alcune sorgenti, percorre un’altra gola nei pressi di Laurino: qui è un tripudio di salici e ontani neri lungo il suo letto di roccia, che cedono il posto a fasce di carpini e, infine, al verde cupo della lecceta. Poco dopo, il Calore costeggia il Bosco di Campora, una primordiale foresta di latifoglie che non ha conosciuto l’uomo: querce dalle dimensioni gigantesche contano qualche secolo di vita. Ai piedi di Magliano Nuovo è il passo della “Preta perciata”, dove un tempo si era sottoposti al pagamento di un pedaggio per accedere alla Valle del Calore. Poco dopo, un ponte medievale, detto “a sella d’asino” per la forma del suo fornice, permette un salto indietro nel passato: si è conservato praticamente intatto, e, vedendolo combinato alla natura spontanea d’intorno, il visitatore ha l’impressione di camminare tra le irte vie del medioevo. Poi una stretta gola, una cascata e il ponte naturale detto “Preta tetta”. Un’acqua cristallina scorre nell’alveo dal fondo chiaro di pietra levigata, tutt’intorno alte e candide rocce arrotondate da millenni di acqua che scivola sulla loro superficie, e poi il verde dei salici, degli ontani neri, dei carpini e dei lecci a creare un colpo d’occhio davvero sublime. Sono le Gole del Calore, Oasi del WWF, che si estendono tra Felitto e Magliano Nuovo, nel cuore del Cilento. La natura è selvaggia, eppure addolcita della levigatezza delle rocce, la vegetazione folta, alimentata da quest’acqua che scorre senza tempo, e tutti gli animali dall’una e dall’altra traggono nutrimento e riparo. Sulle rupi che, alte, sovrastano le gole, nidificano i rapaci; di queste acque cristalline non poteva non approfittare la lontra, uno dei mammiferi più rari in tutta Italia a causa della scarsità di acque pure, qui va a pesca di trote, anguille, carpe e quanto di meglio offra il fiume. Sceso a valle il suo corso si fa più quieto e alcuni tratti offrono la possibilità di fare canoa in uno scenario davvero notevole; dopo aver dipanato il suo lento percorso creando spiagette e piccole casca-

telle, nei pressi di Ponte Barizzo, il Calore si immette nel corso del Sele, per percorrere insieme pochi, ultimi chilometri. Molti dei corsi d’acqua di questa provincia hanno la loro origine sui monti del Cilento e forse, rispetto ad altri bacini idrografici della Campania, qui fiumi e torrenti nascono e percorrono il territorio nella maniera più teatrale e intatta che altrove, dando vita a sorgenti spettacolari, gole, cascate, percorsi sinuosi e affascinanti, fiumi che scompaiono nella terra per risorgere chilometri più a valle e tanti altri fenomeni che non trovano paragone nelle altre province campane; complice la natura calcarea e i secoli di isolamento dovuto anche alla difficoltà delle comunicazioni a causa dell’orografia tormentata, non dimentichiamo che “Cristo si è fermato a Eboli”, in cui questa terra è rimasta e che forse ha contribuito a salvaguardarne l’ambiente. Un interessantissimo fenomeno carsico è la Grava di Vesalo, un inghiottitoio in cui sprofondano le acque del Torrente Milenzio, per poi ricomparire, dopo circa ventiquattro ore di percorrenza ipogea, nella gola sotto Laurino e immettersi nel Calore. Non da meno le sorgenti del Fiume Sammaro per scoprire le quali, nei periodi di piena, è indispensabile un’attrezzatura anfibia, ma lo spettacolo è assicurato. Un altro accidente carsico nel cuore di questo massiccio sono le sorgenti del Torrente Auso, si trovano a valle di Ottati, ma sono più facilmente raggiungibili da Sant’Angelo a Fasanella; ci sono i resti di un’antica centrale idroelettrica, di cui si notano ancora le strutture in ferro, e i ruderi di un mulino con i suoi geniali marchingegni per aumentare la forza dell’acqua, a valle di questi le vasche create dall’uomo per raccogliere l’acqua, forse lavatoi; risalire il letto del torrente è un’avventura, ci si deve inerpicare tra la vegetazione selvaggia e i massi, rocce candide e levigate. Il percorso termina con una pozza dal colore smeraldino, contenuta tra alte pareti dolomitiche, splendidi ontani fanno dall’alto corona a questo angolo di paradiso. Gli alti pascoli di questi rilievi alimentano mandrie bovine e ovine dal cui latte si traggono ottimi caciocavalli e pecorini; nel territorio di Roccadaspide trova la sua origine, ma è molto diffuso in buona parte del Cilento, il marrone di Roccadaspide IGP, castagna di notevoli dimensioni ricercatissima

per farne marron glaces. Cambiamo zona, nel Cilento più antico e vero, sul Monte Cervati incontriamo il Fiume Bussento, la cui sorgente tra le faggete è quella posta alla quota più alta della regione; dopo aver percorso i boschi di ontani napoletani e di lecci, nei pressi di Caselle in Pittari, il fiume si inabissa in una cavità carsica: un’enorme apertura creata dall’acqua, tra pareti di roccia a strapiombo. Più di mezzo chilometro della grotta è percorribile, suggestive concrezioni ne decorano le pareti e il soffitto. Poi si arriva ad un laghetto che crea un sifone, per cui non è più possibile avanzare. Ci si può però spostare, e andare a cercare quella stessa acqua nel punto in cui riemerge alla luce del sole, a monte di Morigerati. Il luogo in cui questo fiume rispunta in superficie è da alcuni anni l’Oasi Protetta di Morigerati del WWF, una fenditura entra nel cuore della terra, e un passaggio creato per le persone, con un ponte sospeso sul fiume e degli scalini scavati nella pietra, consentono di arrivare nella cavità, dove lo scrosciare dell’acqua è amplificato dalla roccia tutto intorno, e i minerali hanno creato forme dai colori più vari. Una suggestiva cascata accoglie il riemergere del-

l’acqua dalle viscere: una visione che dà il senso dell’appartenenza dell’uomo al tutt’uno della natura. L’Oasi di Morigerati si estende per più di 200 ettari, in un percorso contorto che, in parte, segue l’andamento del Bussento, in una gola in cui l’umidità crea meraviglie botaniche tipiche delle aree ripariali; in queste acque nuotano e proliferano trote, gamberi e granchi di fiume; sulle rive si ritrovano periodicamente escrementi di mammifero dall’aroma di muschio o qualche lisca di pesce, il pasto dello stesso mammifero: sono i segni inconfondibili del passaggio di una lontra! Quale indice più chiaro della limpidezza dell’acqua? In tutta l’area cilentana, a dispetto dell’abbondanza di acque, è diffusissima una coltura, il più delle volte spontanea, che invece dell’acqua non ha troppo bisogno, il fico che qui trova il suo grembo naturale producendo una dolcissima specialità il fico bianco del Cilento DOP presenza indiscussa dei pranzi natalizi e non solo. Ma su questa terra prosperano anche l’ulivo e la vite dai cui frutti si traggono l’olio extravergine di oliva Cilento DOP, fragrante e particolarmente saporito e i generosi vini del Cilento DOC, bianchi, rossi e rosati, ottimi com-

pagni di viaggio per la sostanziosa cucina cilentana. Senza dimenticare, tra i formaggi tradizionali, la mozzarella nella mortella, il cacioricotta caprino cilentano e la manteca cilentana e tra le paste artigianali i mitici fusilli di Gioi e di Felitto. Sospingendoci più a sud, ai piedi del Monte della Stella, non lontano da Velia, l’antica Elea greca, città dai due porti, un luogo e una civiltà che hanno dato un forte apporto allo sviluppo della cultura occidentale, soprattutto al pensiero filosofico e scientifico, troviamo un’altra foce, quella del Fiume Alento, il cui nome ha probabilmente originato il toponimo di questo enorme territorio: Cis Alentum, al di là dell’Alento, il Cilento. Dagli anni Novanta, una barriera artificiale costruita per il rifornimento d’acqua dell’area cilentana, ha creato un invaso tra i paesi Perito e Cicerale (famosa per la coltivazione dei ceci): dalla trasformazione del paesaggio si sono originati insoliti ma piacevoli scorci di ulivi affacciati sul letto del fiume. Questo nuovo lago attira già alcune specie di uccelli, cormorani in inverno, svassi maggiori in primavera e aironi cenerini durante la migrazione; ma, certo, negli anni prossimi il bacino è candidato a

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In alto, a sinistra. Fichi bianhi del Cilento posti ad essiccare. A destra. Caciocavalli silani e fusilli di Felitto. Pagina precedente. In alto. Ponte medievale sul Fiume Calore. In basso. Le sorgenti del Sammaro.


In alto. La costa presso Agropoli. Sotto. Uliveti sull’Alento. Pagina successiva. Costa cilentana e pesca alle alici con la menaica.

trasformarsi in un attrattore per numerose altre specie ornitologiche, così come è stato per l’invaso di Persano. Ancora più a sud tra Palinuro e Marina di Camerota troviamo la foce del Fiume Mingardo la cui sponda orientale è ricoperta da splendidi boschi di pini d’Aleppo, una conifera tipica del Mediterraneo, che si accontenta di poco per vivere, di rupi inospitali e terreni calcarei, in cambio, come in questo caso, di un posto privilegiato in prima fila davanti a uno splendido mare. Dalla strettissima gola del Diavolo, fra alte e ripide pareti calcaree in cui l’acqua comincia a scendere veloce verso il mare, si accede alla valle interna del fiume. Passiamo attraverso un tunnel scavato nella pietra, e subito scorgiamo, lungo il profilo di uno sperone

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roccioso, molti ruderi, un castello e un piccolo centro, completamente costruito in pietra ed evidentemente abbandonato, San Severino di Centola. Un tempo controllava la gola del Mingardo, facile via di penetrazione dalla costa, affinché la sua popolazione potesse difendersi dalle incursioni saracene e, al tempo stesso, garantirsi il controllo dello sbocco a mare. Affacciarsi sull’ultimo tratto di costa della Campania è come attraversare le porte del tempo. Le spiagge, ora profonde, pietrose e candide, ora di sabbia sottile e dorata, le coste scure e frastagliate, l’entroterra con il verde della macchia mediterranea, aprono uno squarcio su una parte del territorio campano in gran parte scevro da invadenti modernità. Tutto conserva la semplicità della vita di anni ormai lontani. Molto spesso, quello

che si è sviluppato vicino al mare è il borgo dei pescatori, mentre il paese è arroccato, a qualche decina di metri d’altezza, sul crinale di un monte o su un costone impervio. La miscellanea di colori, odori e suoni che ne viene fuori scava prepotentemente un posto nell’animo di chi, anche solo per caso, si affaccia in questo angolo della regione. Nella sua immobilità, nel tempo che scorre quasi in una maniera diversa, la costa cilentana si fa scoprire un poco alla volta e ogni volta per un aspetto diverso che impone uno sguardo al passato, una ripassata della storia più antica (ma non solo), una rivisitazione di narrazioni mitologiche straordinariamente evocative di questi luoghi. Le più gettonate località di questa costa sono collegate a Napoli e ad altri centri costieri campani, isole comprese, dal Metrò del Mare, geniale servizio di trasporti effettuato prevalentemente con aliscafi veloci, promosso dalla Regione Campania, teso a snellire il traffico autoveicolare ma soprattutto ad offrire un servizio al turismo di qualità; la vista dal mare di questi litorali è un’esperienza che non si dimentica. Lungo poco meno di cento chilometri, infatti, il profilo marino racconta la storia e l’amore per il mare e la terra, elementi inscindibili dalla vita. L’inizio di questa costa è ad Agropoli, che i Bizantini chiamarono Acropolis, “città posta in alto”, quando, quasi improvvisamente essa si innalza alta sul mare lasciando alle sue spalle la sabbia dorata dei lidi. Oltre il promontorio le lunghe spiagge di Santa Maria e San Marco, frazioni marittime del comune di Castellabate, sembrano in piena estate sopportare a malapena le sdraio e le orme di bagnanti che si contano numerosi. Di grande interesse scientifico e polo di attrazione per sub di tutto il mondo, il Parco Marino di Castellabate con le sue pianure sommerse ricoperte di posidonie e anemoni di mare, regno incontrastato e protetto di una ricca fauna acquatica. Dal mare, appena superate le prime scogliere prossime al porticciolo, proseguendo verso sudest, si scorge poco per volta l’incantevole Punta Licosa. Il piccolo capo, con l’omonima isola, deve il nome, di chiara etimologia greca, al bianco delle scogliere e dei ciottoli che ancora oggi custodiscono l’antica leggenda della sirena Leucosìa. Cercando tra i radi cespugli e i piccoli nascondigli offerti dalle pietre, ci si può imbattere in qualche

esemplare di lucertola azzurra, detta anche di Licosa, il piccolo rettile che ha trovato, difeso tutt’intorno dall’acqua, l’ultimo rifugio lontano dall’uomo. Ma non è tutto qui. Già gli antichi amanti del suggestivo isolotto, da Aristotele, Strabone e Plinio, sostenevano che fosse proprio Licosa l’ambientazione di alcuni canti omerici. Doppiata Punta Licosa, si perde anche quell’ultimo contatto visivo col golfo di Salerno che nelle giornate più terse permette di distinguere a nordovest la costa d’Amalfi sulla linea dell’orizzonte. Da qui e fino a Capo Palinuro è veramente facile ritrovarsi da soli con il mare, il sole, il vento, fiancheggiando i lunghi tratti di scogliere che separano le spiagge e gli approdi. Proseguendo si giunge nell’insenatura di Ogliastro Marina, con la caratteristica spiaggia di alghe, e alle belle e limpide acque di Pioppi, frazione marina di Pollica, segnalate, ormai da anni, con la Bandiera Blu per la bellezza e assoluta assenza di inquinamento. Qui c’è anche un delizioso acquario nelle cui grandi vasche fanno bella mostra di se molte specie marine tipiche della zona. Questo angolo di paradiso ha incantato anche lo scrittore americano Ernest Hemingway che tra Pioppi ed Acciaroli ha ambientato “Il vecchio e il mare”. Dopo Pioppi e prima di arrivare alla foce dell’Alento, troviamo la Marina di Casal Velino. Tutto l’abi-


In alto. La costa presso Palinuro. Sotto. La costa presso Punta degli Infreschi.

tato si sviluppa lungo il basso corso del fiume. Superata la Punta del Telegrafo, si entra nel territorio del comune di Pisciotta, caratterizzato dalla gradevole marina dei pescatori, a completamento del porticciolo e il suggestivo capoluogo, situato a 170 metri slm sul dorso di un piccolo altopiano. Di nuovo sul mare, ci si accorge subito che lo scenario è diverso rispetto al resto delle coste visitate: il verde argenteo degli ulivi marca il distacco tra le colline e le spiagge, alcune delle quali raggiungibili solo via mare. In questi mari cilentani i pescatori, sono tuttora dediti ad un antico sistema di pesca alle alici che utilizza una particolare rete chiamata menaica, che incastrando il pesce ne favorisce il dissanguamento stesso a mare rendendo così le carni più delicate e saporite; subito dopo la pesca, si procede alla salatura delle alici, ancora oggi realizzata come un tempo. Come gran parte della costa campana compresa nei golfi di Napoli e Salerno, anche questa è caratterizzata da una grande abbondanza di fauna ittica, specialmente il pesce azzurro, prezioso per il suo potere nutritivo; ma non mancano specie più pregiate, e gamberi ancora pescati con le nasse come una volta, polipi, molluschi, aragoste tutti concorrono ad arricchire e rendere unica la cucina di questa regione. Procedendo a sud, tra una scogliera e l’altra fino a Capo Palinuro, le “agliaredde” le spiagge di ciottoli, lasciano il posto ad una sabbia bianca e sottile, come quella dei fondali. La loro conformazione favorisce un particolare tipo di onde, molto caro ai surfisti da tavola per la loro regolarità. Su queste rocce, e solo su queste, cresce la Primula di Palinuro, un fiore unico al mondo tanto da essere stato preso a emblema rappresentativo dell’unicità del Parco Nazionale del Cilento. Da maggio ad ottobre, il mare lascia ammirare i suoi fondali, caratterizzati da secche, scogli e sabbia. La bellezza del posto, con una spiaggia molto estesa, si coniuga perfettamente con la suggestione del mito che a questo luogo sarebbe legato. Secondo la leggenda, qui sarebbe stato sepolto il nocchiero di Enea, Palinuro, appunto, caduto in mare e ricomposto pietosamente dai Lucani, secondo la predizione della Sibilla. Palinuro, consacrata perla della costiera cilentana già negli anni Cinquanta, deve la sua fama al mare limpidissimo, alla immensità

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delle spiagge, alle 32 grotte, misteriose e ricche di selvaggio fascino, disseminate lungo il litorale, alle tantissime baie accessibili solo dal mare, alla scogliera semplicemente meravigliosa. Qui il matrimonio tra la terra e il mare celebra la sua cerimonia più commovente. Continuando il percorso lungo le coste del Cilento, si giunge alla stupenda Marina di Camerota, che contende, di anno in anno il primato della limpidezza delle acque alle vicine Palinuro e Pollica; tipico borgo marinaro, dove la vita è scandita dai racconti dei pescatori in piazzetta. Quattro le grotte memorabili dove l’acqua del mare gioca a rimpiattino con le ruvide rocce: Grotta della Serratura, del Noglio, Cala e Sepolcrale, ma sono tantissimi gli anfratti e le cale da scoprire, soprattutto via mare, la Cala Bianca e la Cala dei Monti di Luna. In una delle ultime grotte di Marina di Camerota, quella detta di Lenticelle, è custodito il famosissimo “Leone di Caprera”, la barca a

vela italiana che, proveniente da Montevideo, nel 1879 solcò le acque dello Stretto di Gibilterra dopo la traversata dell’Atlantico. A quanto pare, il Leone deve il suo nome al fatto che venne usata per trasportare un dono a Garibaldi: una spada d’oro, omaggio degli emigrati italiani in Uruguay. Oltrepassata Marina di Camerota, vi è un naturale spartiacque con il Golfo di Policastro, ultimo tratto delle coste del Cilento e della provincia di Salerno. Punta degli Infreschi è l’angolo più suggestivo e assolutamente non contaminato dalla mano dell’uomo dell’intero Cilento costiero, nel bel mezzo del quale si apre un approdo naturale, protetto da banchi di roccia; le acque sono così limpide che, numerosi, i delfini vi fanno meta, soprattutto grazie alla straordinaria presenza di pesce azzurro. Superando Punta degli Infreschi, l’approdo di Scario, frazione del comune di San Giovanni a Piro, è quanto di più suggestivo possa tro-

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varsi lungo queste coste, inaspettatamente incastonato ai piedi di altissimi speroni rocciosi. Oltre Scario ci attendono spiagge e paesaggi diversi: si arriva a Policastro Bussentino che deve la sua importanza, il nome e parte delle sue fortune alle acque che la lambiscono. Non solo quelle dell’azzurro mare che le sta di fronte, ma soprattutto quelle del cheto Fiume Bussento che nei suoi territori si dirige alla foce. Dalla sua presenza dipende

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anche il diverso aspetto della costa, all’opposto di quella che abbiamo incontrato a Scario o a Camerota. Il panorama è quello di una piana fluviale, colorata da fiori e piante che segnano il passaggio definitivo nel golfo di Policastro. Fitti canneti si alternano a cedri, glicini, pini marittimi, bouganville. I chilometri di costa cilentana stanno per finire, l’ultima tappa conduce a Sapri legata ad una pagina importante della storia del nostro Risorgimento, racchiusa in maniera esemplare

nei versi de “La spigolatrice di Sapri” di Luigi Mercantini, e alla figura e al coraggio di Carlo Pisacane e dei suoi 300 valorosi uomini qui sbarcati per promuovere con le armi l’unità del popolo italiano. L’ampio golfo di Sapri, coronato da monti che digradano dolcemente, chiude in bellezza l’incantato connubio tra terra e acqua, tra costa e mare, che caratterizza indissolubilmente tutta la regione. Qui termina la provincia di Salerno, meglio ancora, l’intera Campania.


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