ITINERARI ALLA SCOPERTA DELLA REGIONE
CAMPANIA FELIX
LA FERROVIA DEGLI ANTICHI SAPORI Con le sue ricchezze storiche, paesaggistiche ed ambientali l’Irpinia rappresenta un patrimonio unico, che vogliamo valorizzare attraverso una serie di interventi mirati: dal potenziamento delle infrastrutture, all’adeguamento dei servizi turistici, dalla riqualificazione degli insediamenti rurali, al rilancio dell’enogastronomia locale, fino a uno sfruttamento più intelligente degli attrattori già presenti. In coordinamento con i partner istituzionali locali, abbiamo, inoltre, avviato alcuni programmi di promozione del territorio e del ricchissimo paniere dei prodotti tipici irpini. È in questo contesto che si inserisce il progetto di rivitalizzazione, a fini turistici e gastronomici, dell’antica tratta ferroviaria Avellino-Rocchetta Sant’Antonio. Una ferrovia che attraversa un territorio straordinario, caratterizzato da secolari tradizioni agroalimentari e bellezze naturalistiche, unite a un ricco patrimonio storico-artistico che vogliamo riportare alla luce anche grazie a questo progetto. Un’iniziativa che permetterebbe di dar vita anche ad azioni di gemellaggio tra l’Irpinia e altri territori nazionali dalle caratteristiche simili come la Sila, le Crete Senesi o il Trentino. È sui tre assi del paesaggio, della natura e del gusto, dunque, che si gioca la partita del rilancio turistico dell’Irpinia e delle altre zone interne della Campania. Puntando sulla straordinaria offerta di questi territori, e allo stesso tempo potenziandola, riusciremo a farne ancora di più una delle principali attrattive della nostra regione, meta di un turismo alternativo e di qualità. Andrea Cozzolino Assessore Regionale all’Agricoltura e alle Attività Produttive
In questo numero parliamo di... prodotti tipici irpini
Edizione speciale Itinerario enogastronomico lungo la linea ferroviaria Avellino-Rocchetta Sant’Antonio
Editore, direttore editoriale e artistico Mariano Grieco Direttore responsabile Dario Coviello Relazioni esterne Ersilia Ambrosino Testi Patrizia Giordano Simona Mandato Foto Alfio Giannotti Archivio Altrastampa Archivio STAPA CePICA di Avellino Progetto grafico Altrastampa
Itinerario enogastronomico lungo la linea ferroviaria Avellino-Rocchetta Sant’Antonio
Si ringraziano Michele Bianco, Maria Passari, Maurizio Cinque, Raffaela Rizzo, Italo Santangelo con Antonio Ansanelli, Giorgio Franco, Ferdinando Gandolfi, Michele Manzo, Carlo Sardo e STAPA CePICA di Avellino, in particolare Luca Branca, Angelo Di Milia, Gabriele Marano, Alfonso Tartaglia e inoltre Ferrovie dello Stato Direzione Relazioni con i Media Nucleo Operativo Territoriale Campania Avvertenza Nei testi sono citate unicamente aziende che hanno aderito al sistema di certificazione del marchio regionale Sapore di Campania
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SommariO Montagna Viva Programma di sviluppo locale per i territori montani della Campania
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La ferrovia degli antichi sapori Itinerario slow nella terra irpina
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Terra di grandi vini
I buoni frutti della terra
L’oro bianco dei pascoli
Come dai forni antichi
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Montagna Viva Programma di sviluppo locale per i territori montani della Campania testo: Michele Bianco* e Italo Santangelo* • foto: Alfio Giannotti e Archivio Altrastampa
Invertire la tendenza che sta portando al declino socio-economico e allo spopolamento delle aree interne è uno degli impegni prioritari che l’Amministrazione regionale si è dato per la corrente legislatura. Attraverso i nuovi strumenti della programmazione integrata, dei fondi europei e delle politiche di coesione sono già stati posti in essere innumerevoli interventi nel campo dello sviluppo economico sostenibile. Tra questi, le iniziative che sicuramente più delle altre potranno fornire risultati strutturali e di ampio impatto sociale sono quelle che attengono alla valorizzazione delle produzioni tipiche locali e delle vocazioni naturali, soprattutto quelle che prevedono: • il rafforzamento delle logiche di cooperazione e di integrazione tra le imprese • la gestione sostenibile delle risorse • l’esaltazione a fini turistici delle emergenze ambientali e paesaggistiche. Anche l’Assessorato Regionale all’Agricoltura e alle Attività Produttive della Campania ha voluto investire le proprie migliori energie nel campo dello sviluppo locale integrato, atteso che proprio per i territori rurali i nuovi strumenti della programmazione hanno conseguito i migliori successi, come hanno dimostrato il POR 2000-2006 e i vari programmi LEADER che si sono succeduti nell’ultimo decennio. Nuove altre tipologie e strategie di intervento nel campo dello sviluppo rurale integrato sono andate affer-
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mandosi e nuove modalità organizzative sono state recepite, nell’obiettivo di avviare percorsi virtuosi che consentano di poter impiegare correttamente le risorse comunitarie e nazionali messe a disposizione. Nel campo della promozione e sperimentazione di nuovi modelli organizzativi e di nuove strategie, l’Assessorato, attraverso la struttura specialistica del SeSIRCA, ha voluto anticipare i tempi della riforma degli strumenti di programmazione integrata in ambito locale avviando alcuni progetti speciali, varati con riferimento a specifici territori, fermamente convinto della funzionalità di tale nuovo tipo di intervento e del ruolo fondamentale che anche i servizi di sviluppo agricolo regionali possono recitare. Costiera dei fiori è stato il primo programma che ha impegnato la struttura regionale in tale campo di attività ed oggi si può dire che abbia raggiunto livelli assoluti di notorietà e reputazione in tutti i territori litoranei della Campania. Anche Terre antiche del nocciolo, che si attua su un ampio territorio connotato dalla presenza caratterizzante di tale coltura, ha assunto una sua veste definitiva che fonda la sua mission nel porre “a sistema” imprese, istituzioni, produzioni agricole, giacimenti di cultura e tradizione rurale. Il programma Prodotti di pregio e sviluppo dei sistemi locali trova la sua principale caratterizzazione nell’aver definito e varato il sistema di certificazione del marchio regionale Sapore di Campania, già finora
adottato da centinaia di imprese agricole, botteghe ed osterie disseminate in tutte le aree rurali della regione. Nella consapevolezza di dover immaginare anche un intervento specifico per il territorio montano, l’area cioè che più necessita di interventi di sviluppo integrato, si è ritenuto utile promuovere un nuovo macrocontenitore programmatico, denominato Montagna viva, che nasce appunto da uno slogan che vuole affermare l’assoluta vitalità di tale territorio, in cui sussistono straordinarie potenzialità ancora inespresse. Il programma è anche la risultanza delle tante sollecitazioni espresse da enti locali, imprese ed altri attori sul territorio per porre in essere azioni a forte contenuto innovativo ma ad alto impatto operativo e strategico per conseguire risultati tangibili nel campo della valorizzazione delle risorse locali di pregio e del marketing territoriale. Al centro è posto il recupero funzionale del territorio montano, oggi fortemente minacciato da fenomeni come lo spopolamento e la desertificazione produttiva. Montagna viva non si candida certo a risolvere problematiche strutturali, in una situazione congiunturale complessiva peraltro di difficile contesto, ma può incentivare i soggetti pubblici e privati che insistono in tali aree a ricercare modelli di sviluppo locale a forte coesione ed integrazione. La strategia del programma si ispira infatti ad alcuni dei nuovi principi dell’intervento regionale a
sostegno dello sviluppo locale delle aree rurali, quali: • l’integrazione tra enti, strutture, risorse e settori produttivi • l’individuazione di temi strategici di sviluppo • la creazione di partenariati a cura dei vari soggetti interessati all’intervento comprese le istituzioni locali • la concertazione della programmazione e degli interventi su base locale. Tra gli obiettivi strategici del programma vi è anche quello di contribuire ad accrescere l’offerta turistica e gastronomica dei territori montani, esaltando i principali attrattori presenti: ambientali, paesaggistici, storici, archeologici e religiosi. Senza dimenticare la valorizzazione delle produzioni tipiche di montagna e delle altre risorse agricole del territorio, con un occhio attento alle forme di tutela della biodiversità locale ed allo sviluppo dell’utilizzazione di tecnologie volte alla produzione di energia rinnovabile. Le aree dove si concentreranno le prime azioni pilota sono: gli Alburni-Calore Salernitano, il Titerno-Alto Tammaro, il Terminio Cervialto-Alta Irpinia, l’Ufita, il Matese. In ciascuna delle aree si svilupperanno azioni e strategie diverse secondo un criterio d’ideazione delle singole proposte che terrà conto soprattutto delle preesistenze sul territorio che dovranno dar luogo a temi catalizzatori da sviluppare. La Regione pone solo alcuni vincoli in sede di progettazione delle azioni per la propria compartecipazione finanziaria. I principali sono:
• il carattere innovativo delle proposte • la compartecipazione di soggetti ed enti territoriali diversi • la prelazione di tematiche di grosso impatto per lo sviluppo e la promozione del territorio • il coinvolgimento delle imprese aderenti al marchio regionale Sapore di Campania. Le prime azioni pilota già programmate sono relative ai territori del Terminio Cervialto-Alta Irpinia e degli Alburni-Calore Salernitano. Nella prima area sarà sviluppato un progetto integrato di turismo rurale che ha come obiettivo di lungo periodo la rivitalizzazione dell’antica tratta ferroviaria Avellino-Rocchetta Sant’Antonio, che potrebbe, opportunamente ristrutturata, diventare elemento attrattore per lo sviluppo di un turismo alternativo per l’intera area irpina. Il progetto, che si attua di concerto con diversi partner (Trenitalia, GAL Verde Irpinia, Provincia di Avellino, Comunità Montane Terminio-Cervialto e Alta Irpinia nonché alcuni comuni locali) prevede la realizzazione di itinerari turistici per cittadini-consumatori presso le località servite dalla tratta ferroviaria. Percorsi guidati che partendo dal caratteristico viaggio in trenino condurranno i visitatori in antichi centri storici, in botteghe ed osterie tipiche, in imprese agricole certificate (spesa in fattoria), in antichi casali. Il tema della rivitalizzazione a fini turistici di alcune tratte ferroviarie potrà offrire spunti per nuovi pro-
getti anche per le aree interessate dalle linee cosiddette secondarie. Il progetto per gli Alburni, denominato La rivincita della Statale 19, punta alla sperimentazione applicativa di un convincente sistema integrato di sviluppo locale, al fine di migliorare l’offerta dei servizi locali di ristorazione, commercio ed accoglienza turistica in un’area che la contigua autostrada Salerno-Reggio Calabria ha col tempo declassato e marginalizzato economicamente. La ristrutturazione dell’autostrada A3 che prevederà svincoli più funzionali e adatti ad un turismo alternativo, costituisce un’occasione imperdibile per rivitalizzare le imprese locali, sempre che vi sia un convinto supporto degli enti territoriali presenti, creando così un processo di integrazione virtuoso tra servizi, imprese e territorio. Anche per l’area Titerno-Alto Tammaro è in via di elaborazione una proposta progettuale che punta al recupero dei vecchi casali agricoli, già ristrutturati, con l’obiettivo di offrire ad un target giovanile di consumatori la possibilità di fruire di forme di ristorazione e divertimento alternative a quelle ormai fortemente omologate composte dal binomio pub-discoteca. Il progetto, in particolare, sperimenta modelli organizzativi e gestionali per le imprese che troveranno applicazione nel nuovo PSR 2007-2013 (multifunzionalità delle imprese e diversificazione produttiva). *Regione Campania, Settore SIRCA, Napoli
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La ferrovia degli antichi sapori Itinerario slow nella terra irpina testo: Patrizia Giordano foto: Alfio Giannotti e Archivio Altrastampa
Sarà per quei terreni fertili, generosi, che in nessuna stagione dell’anno smettono di dare frutti di ogni colore e sapore. Sarà che qui le botti di vino sono sempre piene e continuano a regalare sorrisi con improvviso, profumato “brio”. Oppure, è per quell’inesauribile scorta di aneddoti e leggende che ruotano tutti attorno alle viscere infuocate della terra, ai suoi patimenti e capovolgimenti, e che animano ogni cena in buona compagnia. Ma ciò che rimane di un weekend in Alta Irpinia non è solo
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una sequenza di luoghi di straordinaria bellezza, piuttosto è anche un insieme di volti, storie, di usanze e fatiche quotidiane che si scompongono in mille rivoli e ti restituiscono di colpo la suggestione e la ruvida poesia dei paesi di là dai monti. Immagini dai tratti, a volte, frugali, incisivi, essenziali, i colori intensi, i profumi pregnanti, che appartengono ad un mondo ancora autentico, dalla robusta cultura contadina, in cui i gesti dell’uomo sono antichi come la terra che lavora.
Questa è terra di millenni, etrusca prima e greca poi, talmente ricca e gravida d’acqua da non lasciare indifferenti neppure i suoi primi abitanti: gli Hirpini, i Dauni, i Sanniti, gli Apuli. Un vasto territorio, incastonato nella parte nord orientale della regione, che dalla dorsale del Partenio e il Vallone Matrunolo, si protende verso est, al confine con la Puglia e la Lucania. Passaggio obbligato, un tempo, tra il Tirreno e l’Adriatico, percorso da tratturi e tratturelli lunghi centinaia di chilo-
metri (quelli per la Capitanata principalmente, dove andavano a svernare le greggi), vecchie vie consolari che favorirono gli incontri con i popoli dei due versanti, in un paesaggio dalla natura ancora aspra, selvaggia, a volte ritrosa, contesa com’è tra monti, valli e fiumi, superba di vigneti ed uliveti, di boschi di querce e castagni, temibile per le grotte e gli improvvisi calanchi provocati dall’erosione delle acque, battuta da una profonda temperie spirituale che trova le sue “cuspidi”
di pietra in monasteri e santuari della religiosità popolare, veri e propri gioielli d’architettura d’altri tempi. Un angolo di regione dai tanti volti e le innumerevoli sfumature, che sembra avere pochi vicini di casa, per quei confini densi, quasi “murati” dall’Alta Valle del Sabato, del Calore irpino ed i monti Picentini: il Tuoro, il Terminio, il Cervialto, le cime dell’Accellica, il Montagnone di Nusco, la piana carsica del Dragone, lo splendido altipiano del Laceno.
Spingendosi più ad oriente, le massicciate di verde di Querceta dell’Incoronata, i boschi di Guardia, Andretta e Castiglione, i cupi riflessi bluastri del lago artificiale di Conza, le anse dell’Osento con il glorioso celeste del lago San Pietro. Infine, a delimitare un confine che è solo un riferimento, un orizzonte, l’Alta Valle dell’Ofanto: l’antico Aufidus, navigabile in epoca storica al punto da rendere possibili porti fluviali come quello dell’antica Compsa, che è qualcosa di più di un sito archeolo-
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In alto, Castelfranci vista dal treno. In basso, il lago San Pietro presso Conza della Campania.
In questa pagina. Ponte Principe di Piemonte tra Lapio e Taurasi. Pagina successiva. In alto, paesaggio presso Bagnoli Irpino. Al centro, ritratto di Francesco De Sanctis. In basso, il fiume Calore.
gico, è un simbolo: quello della tenace volontà di un popolo di rimanere avvinghiato, finché fu possibile, alle proprie radici, al proprio mondo. Insomma, abbiamo davanti un tesoro immenso e nemmeno lo sappiamo, in cui la bellezza ha incontrato la storia, lasciandosi dietro i segni indelebili del suo passaggio tra aree naturalistiche, ambientali e monumentali dal fascino insospettato, tra antichi borghi e paesi che respirano ancora di memorie, di gesti e ritualità di vita agreste. Questa è l’Alta Irpinia, uno spazio aperto ai pensieri, fuori del tempo “ordinario”, un luogo dove si può ancora allenare la capacità di stupirsi, “esercizio” così raro ai nostri tempi. Come entrare in una “cattedrale”, che non ha eguali per l’intricato e misterioso disegno a mosaico del suo pavimento, che va assaporato a tutto tondo, a ritmo lento, consumando suole di scarpe e magari, qualche goccia di sudore in più, nel rispetto della natura e della gente, fiera e onesta, come poche volte se ne incontrano.
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Del resto Giustino Fortunato “tutta l’Irpinia girò pedestre”, forte della sua iscrizione all’appena fondata era il 1872 - sezione di Napoli del Club Alpino Italiano. Forse è così, a piedi o in bicicletta, sebbene all’auto nessuno rinuncia. Eppure l’ideale per un weekend o per un’eco-vacanza, sarebbe quello di voltare le spalle alle consuetudini, lasciare autostrade e percorsi consueti e adoperare un “mezzo” antico, quanto lanciato verso il futuro: il treno, che può ridarci perlomeno il senso e la lentezza del tragitto (anche suggestivo, visto che arriva là dove a volte le auto non possono). In Alta Irpinia, non c’è nulla di più leggendario ed insolito della storica ferrovia Avellino-Rocchetta Sant’Antonio (un tempo, Ponte Santa Venere, primitiva denominazione di questa stazioncina del foggiano), una delle più antiche linee ferroviarie della Campania, per conoscere i volti di questa terra e la storia dei suoi borghi compresi negli anelli ferroviari delle stazioni di Avellino,
Luogosano-San Mango sul Calore, Castelfranci, Montemarano, Cassano Irpino, Montella, Bagnoli Irpino, Nusco, Lioni, Morra De SanctisTeora, Conza-Andretta–Cairano, Calitri-Pescopagano, Rapone-RuvoSan Fele, infine Rocchetta Sant’Antonio-Lacedonia. Un percorso lungo circa 118 chilometri, che si macina in due ore e mezza, tra civiltà rurale e raffinatezze d’arte. Sin dalla sua costruzione, alla fine dell’Ottocento, la ferrovia ha svolto un ruolo primario nei collegamenti tra le zone più interne dell’Irpinia. Almeno sino a quando il trasporto su gomma non ha preso il sopravvento, riducendo a “rami secchi” molte linee minori del Meridione. Già il nome è una leggenda. Venne, infatti, soprannominata la “ferrovia del vino”: ci trasportavano grosse cisterne piene di quell’oro biondo e rosso che oggi sboccia nei calici di mezzo mondo e segna la fortuna di una regione. La linea ferroviaria s’inoltra in quella campagna dove crescono i vitigni
più preziosi del rosso, corposo e profumato “Taurasi” Docg e che si trovano tra l’omonimo comune, Paternopoli, Fontanarosa e Montemarano, o comunque in tutta quell’area di paesi e campagne “protetti” dalle pendici del Terminio. Ma non solo, questa è anche la “ferrovia dei presepi”, come raccontano i locali, con quel pizzico di orgoglio di chi appartiene all’osso “duro” dell’Appennino. D’inverno fa buio presto e quando le condizioni climatiche avverse isolano queste terre e la neve blocca le strade, il treno diventa, in realtà, l’unico mezzo per spostarsi e quello che si vede dai finestrini - facile immaginarlo - è uno spettacolo unico: il paesaggio innevato, i paesini arroccati sulle montagne, le luci che sembrano stelle filanti, il fumo che esce dai comignoli delle case. Si coglie tutto il fascino e la poesia della natura arcadica, che da queste parti ti inebria e ti blandisce con la “dovizia” dei suoi stimoli. Ecco perché il treno ha ispirato, per secoli, poeti, scritto-
ri, cantastorie e letterati, diventando l’inconfondibile protagonista della nostra storia. Il problema è che la linea AvellinoRocchetta Sant’Antonio, come tutte quelle a scarso traffico, non ha mai avuto vita facile; a battersi per la sua realizzazione, uno spirito indomito della nostra letteratura: Francesco De Sanctis, nativo di Morra, un “gentil” paesotto dell’entroterra irpino ”dove è bello stare”, come lo definiva lo scrittore al quale gli enti locali hanno dedicato nel 2000 l’omonimo “parco letterario”, una delle attrattive del territorio. Il progetto, varato alla fine del 1888 da una commissione parlamentare cui faceva parte lo stesso (neodeputato) De Sanctis, aveva lo scopo di collegare tra di loro - attraverso le valli del Sabato, del Calore e dell’Ofanto - le province di Avellino, Foggia e Potenza, agevolando così, in mancanza di viabilità interna, il traffico di viaggiatori e merci. Anche la scelta del capolinea nel foggiano - l’allora Ponte Santa Venere - in un luogo abbastanza isolato (l’odierna Rocchetta dista 14 chilometri dalla stazione) fu dettata dalla vicinanza all’alveo dell’Ofanto per il rifornimento delle locomotive a vapore. Un’unità geografica ed economica, dunque, costruita non dall’automobile e nemmeno dall’autostrada, bensì da una rete di ferro, incardinata con una rotaia, ancora oggi, a binario unico non elettrificato e che s’insinua come un serpentello in uno dei paesaggi rurali più suggestivi della Campania, in cui ogni paese, a volte ogni zona, si caratterizzano proprio per la tipicità dei prodotti. Veri “giacimenti” del gusto che introducono tanto il viaggiatore occasionale quanto il buongustaio in una dimensione che è anche conoscenza artistica e culturale del
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In questa pagina. Ponte ottocentesco nei pressi di Salza Irpina. Pagina successiva. Dall’alto, il treno nella stazione di Avellino, palazzo de Conciliis, la fontana di Bellerofonte, la statua di Carlo II, l’ara Zingarelli e la statua di Niobe nel Museo Irpino di Avellino.
territorio. Tra i primi tratti ferroviari ad essere messi in esercizio alla fine dell’Ottocento, ci fu quello, ad esempio, che collega i comuni di Castelfranci e Montemarano, già allora rinomate località per la produzione di vino pregiato e in seguito, i comuni di Montella, Nusco, Bagnoli Irpino e Lioni, dove il commercio di castagne, nocciole e legname - assieme al tartufo nero, sempre di Montella ed i funghi porcini di Bagnoli - sono tuttora uno dei fattori economici trainanti dell’intera area. Fu solo nell’ottobre del 1895 che la linea venne inaugurata in tutto il suo tragitto; una decina di anni dopo, passò sotto l’egida delle Ferrovie dello Stato. Una grande impresa, per una piccola “geografia” fatta di binari, di stazioni - molte ancora sprofondate nel cuore della campagna - di gallerie e ponti, il cui numero è impressionante. Ben trenta viadotti, lunghi più di duemila metri e una ventina di gallerie, mai più brevi di un chilometro. Ma l’Irpinia è così, ricca e mutevole, aspra e accogliente, intensa e profumata, proprio come il buon vino che produce. E nel rincorrere la storia lungo una strada ferrata, fu negli anni Trenta che sulla linea entrarono in servizio le prime “littorine”, le mitiche Aln56, che funzionavano a diesel, la prima vera soluzione italiana per gestire economicamente le linee minori a scarso traffico. Belle davvero le littorine, belle da guardare, tanto da entrare a pieno titolo nel paesaggio nazionale come la
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Topolino e la Cinquecento. Solo durante la guerra, per supplire alla carenza di carburante e far fronte alle sanzioni economiche, si tornò alla trazione a vapore. Il declino dell’Avellino-Rocchetta Sant’Antonio cominciò alla fine degli anni Settanta con la costruzione della diga artificiale di Conza della Campania che sostituì il tratto tortuoso lungo il fiume Ofanto - che toccava i paesini di Aquilonia e Monteverde - con un percorso più veloce e agevole, posizionato più a monte, verso il Potentino, tra Ruvo del Monte e San Fele. Nell’occasione venne inaugurata anche la nuova stazione ferroviaria di ConzaAndretta-Cairano (in sostituzione della vecchia stazione di ConzaAndretta e della fermata di Cairano ndr). Purtroppo già allora i viaggiatori scarseggiavano - avanzava il globale e intanto si prosciugavano le linee minori - così il numero di treni cominciò a diminuire (sino alla fine degli anni Settanta le corse erano ben 9 in ciascun senso). A fare il resto ci pensò il sisma dell’Ottanta, che causò danni ingenti a tantissime stazioni; un decennio dopo, la costruzione della statale Ofantina favorì ulteriormente i collegamenti tra le diverse province. In principio le stazioni o fermate del treno erano 31 più i due capolinea, oggi la ferrovia è attiva solo nei giorni feriali e viene chiusa nel periodo estivo. Riprende a pieno ritmo il 4 settembre con l’apertura delle scuole e va avanti sino al 29
giugno. I treni sono ridotti a tre, il primo diretto a Rocchetta Sant’Antonio è quello delle ore 6.42 con arrivo alle ore 9.14, gli altri due alle ore 12.05 e alle ore 16.06 si limitano al tratto Avellino-Lioni. Da più parti, dalle Amministrazioni locali e regionali alle associazioni ambientaliste, se ne auspica da tempo un rilancio; si parla anche dell’ipotesi di una destinazione d’uso di questo treno come “ferrovia turistica”, magari affidata ad associazioni ambientaliste, sull’esempio di quanto fatto per la Ferrovia di Val d’Orcia, ai piedi del monte Amiata, in Toscana, riaperta due anni fa, dopo un decennio di chiusura, ed il cui servizio è garantito da littorine d’epoca appositamente restaurate con volontari che illustrano le attrattive del territorio. Insomma le idee ci sono e anche i progetti. Nel frattempo pendolari e turisti si accontentano di ciò che ancora ruota attorno al mito e alla leggenda dell’Avellino-Rocchetta Sant’Antonio in attesa che qualcuno da lassù si accorga del problema. Del resto è troppo bello il luogo, troppo grande il patrimonio archeologico e culturale dell’Alta Irpinia che sarebbe un torto alla storia e alle umane “gesta” non poterlo vedere e conoscere riutilizzando proprio ferrovie cosiddette “minori” che percorrono zone non urbanizzate, rivestendo per questo un importante ruolo di recupero naturalistico ed ambientale. La partenza in treno è d’obbligo
dalla stazione di Avellino: vi consigliamo di dedicare un giorno alla visita di questa cittadina che negli ultimi anni ha riacquistato il suo antico splendore di borgo medievale. Accoccolata in una splendida conca verde, bagnata da due affluenti del Sabato e protetta dalle cime del Partenio, è erede di quell’antica Abellinum romana (II sec. a.C.–I sec. d.C.), che sorge a circa tre chilometri dall’abitato. L’omaggio alla città vi ripagherà con alcune “chicche” d’arte come il palazzo della Dogana, con facciata barocca di Cosimo Fanzago, molto attivo nel capoluogo irpino per volontà dei Caracciolo, autore anche dell’obelisco, con la statua in bronzo di Carlo II d’Asburgo, bambino di appena sette anni. La suggestiva torre dell’orologio, eseguita nel 1647, probabilmente su disegno del Fanzago, da Giovan Battista Nauclerio e che una volta suonava a martello in caso di pericolo ed era visibile da ogni punto della città. Altre testimonianze d’epoca sono il carcere borbonico, a pianta stellare, voluto da Ferdinando II nel 1824 e trasformato oggi in spazio espositivo della Pinacoteca Provinciale; i ruderi del castello medievale costruito dai Longobardi tra il IX ed il X secolo, come baluardo difensivo della città; la cattedrale dell’Assunta, risalente al XII secolo, che si staglia maestosa nel cuore del centro storico. A croce latina e tre navate, conserva all’interno numerose opere d’arte a partire da un coro ligneo della seconda metà del Cinquecento, realizzato da Clemente Bonavita, appartenente a quella cerchia di maestri intagliatori che produrranno in Irpinia - a partire dal XVI al XIX secolo - manufatti artistici di grande pregio. Elegante la torre campanaria, cui si accede da un cortile interno, il cui basamento è composto dal riutilizzo di marmi provenienti dall’antica Abellinum. Sotto la cattedrale, la chiesetta, di impianto romanico, di Santa Maria dei Sette Dolori ricavata nel Seicento da modifiche della primitiva cripta, che è quanto rimane della fabbrica del XII secolo. Meritano di essere visitate anche la chiesa-convento dei Cappuccini che vanta una Deposizione dipinta da Silvestro Buono alla metà del Cinquecento, la chiesa di San Generoso, delle Oblate e quella della Santissima Trinità in cui operò nel 1672 Angelo Solimena, allievo di Francesco Guarino, il più grande artista dell’Irpinia. Una visita al Museo Irpino nel quale sono conservati reperti preistorici, romani e medievali dell’intera provincia concluderà l’itinerario avellinese.
In alto, veduta di Sorbo Serpico e Salza Irpina. In basso, centro storico di Parolise.
E adesso in carrozza! La linea ferroviaria (ci informano) parte dalla stazione di Avellino ad una quota che supera i trecento metri sul livello del mare, ma l’altitudine cambierà per tutto il tragitto per via dei diversi valichi che si dovranno attraversare. Il locomotore, un Aln688 1800, in servizio dagli anni Ottanta, si inoltra nella dolce e struggente campagna avellinese, avvolta dai dorati colori della terra, disseminata di borghi, frazioni e masserie che non hanno
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perso la loro vocazione agricola, ma che si caratterizzano sempre per una dimora, una chiesa, un palazzo da cui si dipartono storie antiche ed incredibili. Ad appena una decina di chilometri dal capoluogo, il treno supera la prima stazione, Salza Irpina; la fermata è stata soppressa un paio di anni fa, forse per la scarsa frequentazione. Il borgo, appollaiato su un colle degradante verso la vallata attraversata dal Salzola, sorse attor-
no ad un casino di campagna, circondato da torri, costruito, pare, da Troiano Caracciolo che l’usava per la caccia. Nel centro storico, ci sono diversi palazzi gentilizi, come palazzo Capozzi, posto all’ingresso del paese, un bell’esempio di casaforte con due cortili e due torri angolari da datare al XIV secolo, riattato nell’Ottocento. Interessante il polittico (attribuito al Tolentino) conservato nella chiesetta cinquecentesca di San Sebastiano, che affianca altre tavole coeve di scuola campana. A proposito di memorie antiche, ad un balzo di chilometri da qui, c’è il suggestivo borgo di San Potito Ultra. Sino al Medioevo il nome era “Radicozzo”, poco più di un casale della vicina Candida. Dopo l’Unità di Italia, nel 1860, venne aggiunto a San Potito (patrono del paese), quel “Ultra”, tanto per ricordare l’appartenenza al Principato Ulteriore (o “Ultra”). Incantevoli le stradine del centro storico, con i portali in pietra, i balconcini in ferro battuto, gli artistici porticati con il solaio a “travi”, il pittoresco lavatoio pubblico. Qui c’è il trionfo della pietra, sopravvissuta al cemento e che tiene per mano il visitatore accompagnandolo sino alla contrada Ramiera, dove si conserva intatto il segreto della lavorazione del rame, un’arte tanto antica quanto ormai perduta. Nelle botteghe, i mastri “ramari” lavorano ancora seduti al “muiale” con “maz-
zole” e martelli - alcuni ancora in legno di ulivo e fabbricati in proprio - ereditati da generazioni, battendo, riparando, creando, sia pur per pochi committenti, pentole, pentoloni, come l’antica “caurara” per la produzione del formaggio. Il treno ha superato anche la stazione di Parolise, la fermata è stata abolita negli anni Sessanta, a causa della sua infelice posizione che l’ha resa poco frequentata. È situata in una vallata fra due declivi: da un lato, c’è il comune di Candida, dall’altro, appunto, Parolise (dal termine napoletano ”padula”, foneticamente ”parula”, cioè campagna coltivata). Il borgo – che fu feudo dei Berio e dei Filangieri - è diventato uno dei quartieri residenziali della vicina Avellino, immerso in una folta vegetazione dove le vigne crescono dappertutto: nei campi, negli orti delle case, ai lati delle strade. E in autunno ogni famiglia fa la sua buona vendemmia. Battendo quindi i vigneti della zona e con un po’ di fortuna, potete portarvi a casa sempre un gran vino, di buon invecchiamento. Da Parolise, la linea comincia a salire lungo la dorsale del Partenio, superando un primo valico con la galleria di Montefalcione, la più lunga di tutte, quasi due chilometri e mezzo. Il paesaggio che si vede uscendo dal tunnel è un susseguirsi di colline prima dolci poi più aspre, in alto, boschi di castagni, querce e ginepri che si alternano a coltivazio-
ni di ulivi, viti ed alberi da frutto. Ed ecco la stazione di Montefalcione, ubicata fuori dal paesino, accoccolato a più di 500 metri di altezza su una collina-spartiacque tra il fiume Sabato e Calore. La sua forma a falce (volgarmente ”faucione”) giustifica il nome. Sino all’anno scorso la fermata risultava attiva, da quest’anno, cancellata. Eppure Montefalcione merita, per le sue antiche tradizioni popolari e le raffinatezze d’arte. Famosa la festa di metà Quaresima, “sega la vecchia”, un fantoccio esposto e fatto a pezzi dinanzi alle porte delle case. L’inverno è finito, si attende la primavera per la fioritura. Grande festa anche in onore del patrono Sant’Antonio (nell’ultima domenica di agosto) in una fantasmagoria di fuochi pirotecnici, esportati, un tempo, anche in Canada dove c’è una numerosa comunità di montefalcionesi. Il gioiello del paese è il santuario di Santa Maria del Loreto, fondato alla metà del Cinquecento dal marchese Giovanni Antonio Poderico e la moglie Lucrezia: all’interno, una sorta di piccolo museo del XVII e XVIII secolo: dalle colonne monolitiche, al fonte battesimale in marmo, al bel Sepolcro di Lucrezia di Poderico opera del lombardo Tommaso Malvito. Accanto al santuario, l’annesso convento dei Verginiani: interessante il chiostro con un pozzo del 1741 ed il refettorio con un seggio abbaziale scolpito
alla metà del Settecento. Il nostro trenino (la lunghezza massima del convoglio su questo percorso è di circa 270 metri per ragioni di sicurezza agli incroci) macina chilometri attraverso un paesaggio ora ricco, ora austero, ora di selvaggia e naturale bellezza. Dietro massicciate di verdi faggete, di secolari boschi di querce e castagni, fanno capolino le cime dei monti del Partenio (il monte sacro della greca Partenope,
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In alto a sinistra, centro storico di Parolise. A destra, santuario di Santa Maria del Loreto a Montefalcione. Sotto, veduta di Montefalcione. In basso, santuario di Sant’Antonio a Montefalcione.
“... un vecchio nido della gente Osca” come raccontava Giustino Fortunato), considerato da sempre “porta di accesso” a molti paesi della provincia. Passiamo davanti anche alla stazione di Montemiletto, posta fuori del paese, nella vallata sottostante. La fermata, è stata cancellata nel dicembre scorso: scarsi i viaggiatori ed il traffico merci. Un vero peccato perché Montemiletto (dal latino mons militum, monte dei soldati che fa pensare ad un luogo di difesa), è uno dei cento e più paesi dove si festeggiano i tradizionali carnevali irpini. Eventi collettivi, ritualizzati, rimasti antichi. Sono i carnevali delle “Zeze”, che rappresentano la figura di un anno passato che si rinnova, dei “pali d’amore”, delle “maschierate”, delle tarantelle forsennate e dei balli ad intreccio; della “glorificazione” ancora carica di simboli arcaici di un grasso e grosso carnevale che da tempo immemorabile si tramanda in questo paese nel periodo che precede la Quaresima. Animando le stradine acciottolate del borgo antico, con edifici dagli artistici portali ed esplodendo in una passione corale, di schietta allegria, nell’ampia piazza, dove, a dominio delle valli del Sabato e del Calore, c’è il poderoso castello dei principi di Tocco. Rimaneggiato in epoca tardo-rinascimentale, il castello, ormai palazzo residenziale, è una delle attrattive turistiche del paese assieme alla chiesetta di Sant’Anna (voluta dai di Tocco nel XVII), dalla volta incannucciata ed i preziosi affreschi, l’altare marmoreo del Settecento di Pietro Ghetti, la cantoria lignea ad intarsio ed il portale con lo stemma dell’illustre casata. Dalla dorsale del Partenio, la linea ferroviaria inizia a scendere, qui cambia l’altitudine, siamo in direzione di Lapio (in realtà la stazione ha sempre svolto un ruolo di semplice fermata del treno, per giunta soppressa nel 1987), ubicata fuori dal paese, nella vallata sottostante, attraversata dal Calore, dove sopravvivono ancora i ruderi di un antico ponte romano detto del “Diavolo” o di “Annibale”, attestanti le origini remote del paesino. Feudo dei Filangieri sin dall’epoca normanna. Dell’illustre casata, il castello, trasformato nel corso del Cinquecento, come molte altre difese militari della zona, in residenza signorile. Dell’originaria struttura, rimangono l’alta torre quadrangolare, il monumentale portale, sormontato dallo stemma in marmo della casata, che introduce in una corte lastricata con originali lastroni di pietra
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squadrata. All’interno, un bel pozzo rinascimentale decorato da stemmi e scudi. Infine lo sfarzoso salone delle feste con affreschi cinquecenteschi. Ma il cuore di Lapio è altrove, nella chiesa della Madonna della Neve, gioiello d’architettura d’altri tempi, che custodisce 85 statue di cartapesta di fine Settecento a grandezza naturale, raffiguranti “I misteri del Nuovo Testamento” e che vanno in scena, ogni anno, il Venerdì Santo, nel solco di una tradizione ultracentenaria, lungo le vie del paese. Una sorta di “teatro” a cielo aperto, con tanti che seguono il corteo vestiti del saio o dell’abito della Madonna. Una mappa per immagini sul tema arcaico della morte e della resurrezione. All’uscita dalla stazione, ecco che il treno dopo pochi chilometri attraversa uno dei ponti più belli e lunghi della linea AvellinoRocchetta Sant’Antonio: il ponte Lapio detto anche ponte “Principe” per la sua maestosità; il viadotto, lungo circa 300 metri, ha una travatura - raccontano gli esperti - che poggia su due arcate così che ogni luce è di circa 95 metri. Sospeso come d’incanto sulle sponde del Calore - la vallata sotto è a circa 40 metri - fu realizzato nel 1893 e rappresenta tuttora (nonostante i danni subiti durante la seconda guerra mondiale), una delle opere più avveniristiche ed importanti dell’ingegneria civile dell’epoca. Venne inaugurato in coincidenza con l’apertura
Lapio, i riti della Settimana Santa. Pagina precedente. Montemiletto, le “Zeze” di carnevale, il castello e il centro storico.
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In alto, vigneto a Taurasi. In basso, il castello di Taurasi. Pagina successiva. Cantine a Taurasi.
del primo tratto ferroviario fra Avellino e Paternopoli. Il treno continua la sua discesa sino ai 243 metri sul livello del mare. L’aria già spuma di buon vino, siamo nei pressi di Taurasi: la fermata in stazione è stata annullata una decina di anni fa in conseguenza dei danni del sisma dell’Ottanta. L’occhio se la gode lo stesso con gli immensi vigneti destinati a diventare il prezioso e profumato “Taurasi”, uno dei rossi più blasonati del mondo. Antichissime le origini della cittadina, pare che si tratti di quella “Taurasia” sannitica messa a ferro e fuoco dai Romani e sorta su un luogo abitato sin dalla preistoria. Due le tappe per la visita del paese: il borgo medievale che si raggiunge attraverso porta Maggiore da cui si diramano stradette lastricate, con numerosi edifici privati, seicenteschi e settecenteschi, con gli artistici portali in pietra. Da non perdere
palazzo de Angelis, palazzo Capano, palazzo Caracciolo e palazzo de’ Indaco. La seconda tappa è al castello medievale, di origine longobarda. Poderosa fortezza, trasformata nel Cinquecento in un bel palazzo signorile, con annessa cappella in stile barocco. Elementi architettonici ed opere d’arte ne fanno un vero museo, nonché prossima sede dell’Enoteca Regionale dei vini d’Irpinia. Un premio al paese ma anche a questa provincia che ha investito negli ultimi anni in un’agricoltura di grande ricchezza e qualità. Se amate il trekking e l’aria pura, vi consigliamo le vicine sorgenti naturali di “Fontana Lardo” e “Giardino” ricche di grotte ed anfratti e l’area fluviale del Calore dove faggi, lecci, olmi e castagni accompagnano il cammino. Il panorama vi ripagherà della fatica. Continua a pag. 20
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Terra di grandi vini Fiano di Avellino, Greco di Tufo, Taurasi, Irpinia testo: Simona Mandato foto: Archivio Altrastampa
Le produzioni vinicole hanno finora riservato all’Irpinia, senza ombra di dubbio, il maggior prestigio in campo enogastronomico. Alcuni viticoltori hanno avuto la grande capacità di valorizzare appieno i vitigni autoctoni, senza indugiare sull’opportunità di fare investimenti anche consistenti per disporre delle tecnologie più avanzate. In qualche decina d’anni i produttori di vini irpini sono riusciti a raggiungere la ragguardevole cifra di tre Docg e una Doc, punto di vanto non solo per la provincia, ma per la regione tutta. I maggiori enologi italiani hanno sottoposto queste uve dalle grandi potenzialità a diverse ricerche, dando il loro contributo al perfezionamento delle tecniche di vinificazione, e fondamentale è stato l’apporto della Scuola Enologica di Avellino, istituita da Francesco De Sanctis alla fine dell’Ottocento. Ulteriore impulso daranno all’enologia irpina, e più generalmente a quella campana, il corso di laurea in viticoltura ed enologia di Avellino e il centro di ricerca in vitienologia di Fontanarosa. Presto partirà anche il progetto dell’Enoteca Regionale, che avrà il compito di promuovere i prodotti enologici irpini e campani. Partendo da Avellino, attraversiamo un territorio baciato dal dio Bacco, dove dorati acini ovali luccicano dai filari dei vigneti, in un’area che si estende da Forino e Monteforte Irpino fino alla propaggine di Lapio: collante di questo territorio è il Fiano di Avellino, un vino che per le sue eccellenti qualità già dal 1978 era una Doc, e che nel 2003 ha ottenuto il più prestigioso dei riconoscimenti, la Denominazione d’Origine Controllata e Garantita. L’uva di cui si compone all’85% è l’Apiana: secondo Plinio e Columella il suo nome antico derivava dal fatto che fosse facil-
mente preda delle api; né sono riusciti gli ampelografi d’epoche più moderne a trovare un accordo sulla vera genesi del nome. Tutti però, sono sempre stati concordi nel ritenere che da questo vitigno si ricava un vino “dilicato e ricco di aroma”. Mela, banana, tiglio, rosa, menta, nocciola, mandorla, miele sono tra i profumi che uno studio ha di recente riconosciuto al Fiano: in realtà questo vino può averne molti di più, dipende dal tempo di invecchiamento. Ebbene sì, un bianco che migliora man mano che passa il tempo, dote generalmente riservata ai rossi, piacevolissima eccezione che conferma la regola. I migliori enologi ritengono inoltre, che il Fiano di Avellino abbia la rara capacità di accostarsi alle ostriche, proprio perché è un vino elegante e dalla singolare personalità. Ma la qualità, si sa, non è mai a buon mercato: quest’uva necessita per vinificare di una tecnica delicata e difficile, una fermentazione lenta, scevra da alterazioni termiche che ne comprometterebbero il complesso equilibrio aromatico. Mai come in questo caso, il produttore di Fiano deve riservare al suo vino, come ad un figlio, attenzione e amorevoli cure. Siamo solo alla prima perla enologica del trittico irpino. Dal gruppo delle viti Aminee importate dalla Tessaglia, che trovarono il loro migliore terroir alle falde del Vesuvio, deriva il Greco. Le cantò Virgilio, le descrissero Plinio e Columella; e nel Cinquecento il Greco era venduto in tutta l’Europa, sino a Costantinopoli. Agli inizi del XX secolo, però, i terreni coltivati a questo vitigno erano quasi scomparsi dalle pendici del vulcano pompeiano, e se ne ritrovavano in Irpinia.
È proprio da qui che, dagli anni ’50 il Greco di Tufo ha cominciato a riscuotere successi e riconoscimenti, fino all’ultimo, il più prestigioso, la Docg attribuitagli a partire dalla vendemmia 2003, riportando in auge la fama del Greco. È un vitigno che predilige i terreni d’origine vulcanica, ricchi di sostanze azotate e fosforate e di sotterranee venature sulfuree: tutto questo il Greco lo ritrovò in Irpinia quando dové rinunciare al Vesuvio. Il nome Tufo è d’altronde chiara indicazione sull’origine geologica del terreno su cui sorge la cittadina, e se ne era già a conoscenza se nel 1860 furono ritrovati dei giacimeni di zolfo: dal treno - questa volta dalla linea che da Avellino arriva a Benevento - si vede l’entrata della miniera, monumentale testimonianza d’archeologia industriale. Il piccolissimo terroir del Greco, che da Altavilla Irpina arriva ai confini con la provincia di Benevento, è in gran parte definito dalle sue vigne. A chi vi si aggira, non risulterà difficile riconoscerne i grappoli, ognuno accompagnato dal suo doppio, fratellanza che fu all’origine dell’antico nome Aminea gemella. La composizione di questo vino ribelle, primitivo e incomparabile è ad assoluta prevalenza di Greco (almeno l’85%), con un assaggio di Coda di volpe bianca. L’abbondanza di tannino consente di accostarlo non solo al pesce, ma anche ai risotti, ai funghi porcini secchi e ai cannelloni al forno: ecco perché gli enologi lo definiscono “il più rosso dei bianchi”! Rientriamo da quest’altra irrinunciabile deviazione alla ricerca di Tufo e dei suoi vini per dirigerci verso Lapio, terra in cui s’intrecciano due delle nostre tre perle: siamo nel terroir del Fiano di Avellino (le tre api nello stemma della cittadina rimandano all’uva Apiana), ma anche in quello del mitico Taurasi, il primo rosso irpino ad essere stato insignito della Docg, già dieci anni prima dei due conterranei bianchi. Fra Lapio e Taurasi il nostro treno passa su un bellissimo ponte di metallo che risale alla costruzione della linea ferroviaria di fine Ottocento; tutto intorno sono dolci colline, culla che accoglie e protegge le preziosissime uve di Aglianico d’antichissima ascendenza. Molti ampelografi ritengono derivino dalla vitis hellenica: Aglianico sarebbe infatti una corruzione di hellenico, e anche in questo caso si tratterebbe di un vitigno importato dagli esuli d’Ellade. I Romani ne ricavavano il Falernum, di gran lunga il loro vino più amato: fu celebrato da Plinio, Orazio e Cicerone, ma pare che anche Cleopatra fosse a conoscenza del
suo influsso benefico, se fra le armi per sedurre Cesare usò quella di versargli “un Falerno puro e resistentissimo”. L’Aglianico non è coltivato soltanto in Irpinia, ma è qui che dà vita all’unica Docg rossa della Campania. L’Alta Valle del Calore è il terroir del Taurasi, che si sviluppa attorno all’omonimo comune, in un’area cinta da Mirabella Eclano, Montemarano, e a nord da Montefalcione e Pietradefusi. L’Aglianico necessita di enormi cure, tanto in vigna (l’uva deve essere raccolta alla sua piena maturazione) quanto in cantina, se si vuole che raggiunga il massimo risultato del Taurasi. L’invecchiamento dura almeno tre anni; per la Riserva sono previsti quattro anni minimo, in parte da trascorrere in botti di rovere o castagno. È uno dei rossi italiani più adatti ai lunghissimi invecchiamenti. L’intenso colore rubino tendente al granato richiama ancestrali riferimenti sanguigni; le narici s’inebriano di profumi intensi e speziati, di sentori di tabacco, chiodi di garofano, pepe nero e petali di rosa secchi. “All’assaggio mi esalto (...) per il sapore pieno, completo, autoritario; (...) per la stoffa piena ed elegante”: parola di Veronelli! Tutte le uve consigliate per la provincia irpina, ossia Aglianico, Coda di volpe, Falanghina, Fiano, Greco, Piedirosso e Sciascinoso, vengono impiegate per produrre l’Irpinia, un vino che, sia nella versione monovarietale che nelle tipologie bianco, rosso e rosato, è prodotto nell’intera provincia e che dal 2005 è una Doc. Terre Irpine a Sturno, la Cantina Giardino e Tre Colli ad Ariano Irpino, Manimurci a Paternopoli, Elmi a Montemarano, Colli di Castelfranci e la Cantina Castel dei Franci di Castelfranci sono i produttori di vini irpini che aderiscono al marchio Sapore di Campania.
Ma adesso riprendiamo il nostro viaggio: arriviamo a Luogosano-San Mango sul Calore, prima fermata del treno. La stazione è situata nella vallata fra i due paesini e ha sempre vissuto un discreto traffico di viaggiatori, non a caso i vagoni del treno si affollano di studenti e pendolari che percorrono il loro quotidiano avanti e dietro; il loro percorso non supera mai i cinquanta chilometri e il treno rimarrebbe ancora il mezzo più economico e sicuro rispetto all’auto. Il tiepido sole mattutino accompagna ed asseconda lo splendido panorama sull’Alta Valle del Calore che fa da sfondo all’area archeologica di Luogosano, lungo il corso del fiume, con reperti dell’età del bronzo, ma anche ad un “cordone” di paesini arroccati sulle alture, incastonati in “fazzoletti” di verde, che si possono raggiungere con un comodo servizio di autobus dal centro del paese. Dalla caratteristica Fontanarosa, dove ogni anno a Ferragosto, in onore della Madonna, un carro trainato da buoi porta in giro per tutte le frazioni del borgo un grosso obelisco rivestito di paglia lavorata dalle donne del posto. Si rinnovano così, riti agresti, a metà tra sacro e profano, celebrando la terra e la benevolenza mariana. Alla vicina Gesualdo, dominata dal castello medievale, possente, sontuoso con le sue torri cilindriche, appartenente a quel Carlo Gesualdo, principe di Venosa, passato alla storia per aver assassinato la moglie Maria d’Avalos ed il suo amante, Fabrizio Carafa Pignatelli, nelle stanze di palazzo Sansevero a Napoli. Ad espiazione della sua colpa (ma fu presto perdonato dalla legge), il principe-madrigalista, non solo si rintanò nel torvo maniero, diventato nel XVI secolo residenza principesca, ma fece costruire anche
la chiesa ed il convento dei Cappuccini facendosi ritrarre nel famoso quadro del perdono, commissionato al pittore di famiglia, Giovanni Balducci. Pittoresco il centro storico che, dopo il sisma dell’Ottanta, pietra dopo pietra, ha ripreso vita ad ogni angolo dell’abitato. Merita una visita il Cappellone, del XVII secolo, il monumento gesualdino di maggiore interesse architettonico e religioso, un tempo sedile della nobiltà, poi adibito dall’Ottocento a luogo di culto. Saltando epoche ed ambienti, ad una manciata di chilometri, c’è il parco archeologico di Mirabella Eclano, uno dei più singolari comuni della provincia dove ogni anno nella terza domenica di settembre si svolge la tradizionale “festa del carro”, un grosso obelisco di paglia, issato su un carro in onore della Santissima Addolorata e trasportato per le vie del paese. Apoteosi di riti contadini che esorcizzano paure legate al ciclo delle stagioni. Grande festa di sapore pagano, allegra, colorata, che attira ogni anno migliaia di visitatori. Nell’area archeologica, la suggestiva necropoli neolitica (simile a quella del Gaudo nei pressi di Paestum) in località Madonna delle Grazie e gli scavi di Aeclanum (città sannitica tra le più importanti, saccheggiata e distrutta da Silla nell’89 a.C.), presso il Passo Mirabella con i resti di Terme, del Foro, di botteghe ed abitazioni private, un lungo tratto di mura, i resti di una basilica paleocristiana che ci restituiscono un denso quadro di vita. Diversi reperti archeologici come arredi, affreschi e mosaici sono oggi raccolti nel Museo Irpino di Avellino. Nel cuore del paese, la collegiata di Santa Maria Maggiore conserva, tra le preziosissime opere restaurate, quel Crocefisso in legno intagliato e poli-
In alto a sinistra, ritratto di Carlo Gesualdo. A destra, Mirabella Eclano, il carro di grano e l’area archeologica. Pagina precedente. In alto, Fontanarosa, il carro di grano. In basso, Gesualdo, il volo dell’angelo e veduta del castello.
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Mirabella Eclano, collegiata di Santa Maria Maggiore, scena dei Misteri in cartapesta, antico fregio di carro del grano e il Cristo ligneo del XII secolo.
cromo, di circa 2.33 metri, opera di ignoto della metà del XII secolo, uno dei massimi esempi di scultura di quel periodo, molto vicino ad analoghi esempi di scultura romanica francese. Insomma un capolavoro. Ma i tesori non finiscono qui: l’emozione continua, si inerpica su per antiche strade, viottoli e chiassi, rimbalzando tra valli e colline con tanto di occhi sgranati dal finestrino di un treno. Ci lasciamo alle spalle la stazioncina di Paternopoli, noto borgo agricolo, il cui nome, nell’etimo latino-greco, significa la “città del padre”. Niente fermata, soppressa con l’orario di quest’anno. Pochi i viaggiatori ed il
transito merci. Alle antiche tradizioni contadine ed artigianali del paese, è dedicato il Museo Etnografico che, tra le testimonianze storiche raccolte (dagli antichi utensili per i lavori nei campi, agli oggetti adoperati per le faccende quotidiane), espone i pittoreschi costumi femminili che rievocano l’abbigliamento del Settecento e dell’Ottocento. Un modo per contribuire a mantenere vivo l’interesse verso una cultura semplice ma laboriosa che si nutriva del rapporto con il lavoro e con la terra. Il treno s’inoltra in una delle zone più belle dell’Alta Valle del Calore, ricca di acque sorgive: una sorta di terrazza naturale dalle mille chiazze di colori. Eccezionale l’Aglianico che si produce nelle contrade di Casale Sant’Andrea, di Matina e Pescocupo, di Fornaci e Chiarino che si prestano anche a visite ed escursioni. È un vino rosso, intenso, corposo, che, a detta degli enologi, meriterebbe ben più di un riconoscimento. Come ogni vino assomiglia a chi lo produce, al territorio da cui “sgorga”. Si comprende come la natura qui determini l’atmosfera dei luoghi e il carattere della gente. Fiera, volitiva che ha uno strano rapporto con il tempo, prende tutto con calma. Superiamo anche Castelvetere sul Calore, la stazione, in realtà, non ha mai avuto vita, vista la distanza dal paese, tant’è che la fermata è stata annullata alla fine degli anni Novanta. Ma il paesino, a 750 metri di altitudine, è bellissimo: splendidi i panorami, simpatica la passeggiata al centro storico seguendo il suggestivo itinerario del vicolo Santa Maria, attraverso antiche edicole votive, palazzi gentilizi e numerose chiese. Leggendaria la “festa del pane miracoloso” che si vive ogni anno, il 28 aprile, ad inizio di primavera e di raccolto. Le donne del paese preparano i “tortani”, pane a forma di ciambelle, messi in grandi ceste sull’altare della chiesa, in omaggio alla Madonna delle Grazie per la benedizione. Le ceste sono poi consegnate alle “sponsiatrici”, giovani fanciulle vestite di bianco, come da tradizione, che danno inizio alla processione per le vie del borgo. Ma non sono sole, ognuna è seguita da un parente, il “padrino”, armato di un bastone che le protegge da eventuali aggressioni. Le fanciulle portano indosso non solo i migliori gioielli di famiglia ma anche tutto l’oro del paese che è stato loro affidato, perciò vanno salvaguardate. Al termine del percorso, ognuna distribuisce il pane casa per casa, in segno di prosperità e protezione. Si viaggia fra leggenda e tradizione,
Castelvetere sul Calore, momenti della festa del pane miracoloso.
attraverso un paesaggio che pur verdissimo comincia a farsi solitario, immerso in una quiete idilliaca, illuminato da chiazze di luce brumosa, da cui affiorano qua e là viottoli che serpeggiano fra vecchi casali e masserie ed eccoci a Castelfranci, seconda fermata del treno: la stazione è situata alla periferia di questo borgo di origine Franca, da cui probabilmente il nome. Benché danneggiato dal terremoto dell’Ottanta, il centro storico ha recuperato l’aura di un tempo. Belli i portali di pietra, spesso riccamente decorati ed alcuni edifici privati come palazzo Celli, Juliani e palazzo Vittoli, dalla facciata in leggero stile liberty. Maestosa la chiesa parrocchiale di Santa Maria del Soccorso, nell’omonima piazza, le cui origini si fanno risalire ad una cappelletta del Trecento, dedicata alla Vergine del Soccorso, apparsa in sogno, pare, ad una donna del posto. All’interno, un quadro della “effigie” miracolosa databile al XIV secolo, quando da queste parti si aggirava la scuola francese. E ancora, un’acquasantiera del XIV-XV secolo ed alcune statue lignee dell’Ottocento. Di remote origini anche la chiesetta di San Nicola: sull’altare maggiore, sculture e fregi marmorei del Cinquecento ed un pregevole tabernacolo sormontato al centro da due angeli con la colomba. Ma il borgo di Castelfranci si racconta oltre le sue mura, nella suggestione della campagna, con il mormorio del Calore che fa da sottofondo. Tra le curiosità, le tre cappellette rurali di Sant’Antonio a Vallicelli, del Santissimo Salvatore a Braiole e dell’Angelo Custode a Baiano, mete di fedeli e turisti, e i tre antichi mulini, orgoglio di tutti i castellesi, che spuntano come d’incanto sulle rive del fiume, in un’oasi di verde.
Tra frutteti, uliveti e campi incastonati fra i boschi, la prossima fermata è Ponteromito, frazione del comune di Montemarano, il paese del carnevale e della tarantella più travolgente dell’Irpinia. Qui il carnevale (un uomo fantoccio) lo celebrano pure da morto, nella domenica successiva alle Ceneri, con tanto di funerale e “conzuolo”, che si snoda dai vicoli e le stradine del paese, movendosi tra cortei in maschera, processioni guidate dal “caporaballo”, con il tradizionale lancio di confetti e biscotti, in segno di buon augurio per la primavera che si avvicina, “paranze” di suoni (castagnette, fisarmoniche, tamburi e clarinetti) in un crescendo di fuochi d’artificio, balli e danze frenetiche, al ritmo della “tarantella montemaranese”, la più originale e complessa che ci sia. Tanto da aver varcato per fama i confini della regione. Uno spettacolo che miscela, in un gioco di assonanze, divertimento ed affabulazione, teatro e scenografia, musica e tradizione, di questo paesino abbarbicato sulla cima di un poggio di monti che corrono veloci alla sinistra del Calore, sorto in epoca longobarda attorno al suo maniero, messo a guardia di un tratturo che menava da una parte a Benevento e dall’altra, alla piana del Dragone. Immancabile la cattedrale dell’Assunta che serba ancora le antiche colonne romaniche in pietra; all’interno, un pregevole reliquario del 1624, una tela del Reni e quel mobile (unico nel suo genere) che è la sedia pieghevole del Quattrocento; nella cripta medievale, recenti restauri hanno restituito al loro splendore colonne, capitelli e buona parte degli affreschi parietali, databili tra XI e XII secolo. E ancora, il Museo dei Parati Sacri, allestito nell’ex chiesa del Purgatorio (splendidi anche qui gli affreschi sulle pareti): un patrimonio raro di paramenti e vestiture realizzati in seta, damaschi e lampassi, con ricami in oro riccio ed argento, che vanno dal XVI al XIX secolo. Nelle botteghe del paese, potete fare incetta di formaggi e latticini, non dimenticate il miele d’acacia e se battete i vignaioli della zona, troverete sempre dei vini bianchi e rossi di tutto rispetto. Del resto sono i “sortilegi” palpabili di questa terra che “affattura” ad ogni angolo di paese, ad ogni curva, ad ogni scorcio di panorama. Il treno rulla, macina chilometri, percorre gallerie e qualche ponte su un torrente: gruppi di alberi da un lato, fitti boschi dall’altro, un grumo di case petrigne tra i pendii, una radura, qualche viottolo sterrato e si
arriva alla stazione di Cassano Irpino, alle pendici del Terminio e del Cervialto, dove c’è chi scende e c’è chi sale, soprattutto studenti diretti agli istituti superiori di Lioni. Qui siamo nella “terra delle acque”, per l’abbondanza di sorgenti presenti nel territorio (tra cui “Acqua del Prete”, Bagno, Pollentina e Peschiera) che, per mezzo di una lunga galleria, alimentano gli acquedotti dell’Alto Calore e quello Pugliese. Il centro storico della cittadina (in origine un castrum carissanum romano), mantiene la tipica struttura di borgo medievale con strette viuzze, quasi fossero tagliate dalla lama di un coltello, tetti di cotto, scale, scalette e portali in pietra. Segni di rispetto ed attenzione, anche nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, risalente al XV secolo; all’interno, nell’abside, una serie di affreschi quattrocenteschi, da cui emerge la magnifica figura di un Cristo Pantocrator, ed un pregevole trittico della prima metà del Cinquecento. Adesso saliamo verso le seduzioni della montagna, dove la vista spazia sulla vallata del Calore, su una serie di piccoli casali sparsi sulle pendici dei colli e sulla piana, su quinte boscose di faggi e castagni, aceri e pioppi che ondeggiano come un capriccioso mare verde spruzzato di rivoli dorati. L’aria profuma di caldarroste, di focacce farcite, di nocciole tostate, ma sì eccola Montella, (dal latino mons e munio, cioè colle fortificato), “perla” della profonda e verde Irpinia, aria buona e cibo genuino, coccolata dalle cime del Terminio, cinta dall’altopiano di Verteglia, fresca e odorosa radura, a 1230 metri, vestita di bianco in inverno e colorata d’estate. La stazione ferroviaria è ubicata nella parte bassa del paese, uno degli scali ferroviari più frequentati nella storia dell’Avellino-Rocchetta Sant’Antonio. Da qui partivano carichi di legname e castagne diretti in tutta la regione. Adesso è un’altra storia. Spesso schiva agli occhi del visitatore, altre volte solenne o solo opulenta, Montella va frugata in ogni angolo, assieme ai suoi panorami mozzafiato, la beltà dei suoi boschi (Costa del Caprio, Costa del Cervo, le aree del Sassetano, del Felascosa), i suoi scorci, le sue improvvise aperture pianeggianti, le sue “chicche” d’arte. In cima ad un colle, tra folti castagneti, ancora i ruderi dell’antica cittadella fortificata in epoca longobarda e quelli di una rocca detta “Rocca del Monte” di cui restano solo la cortina esterna ed il bastione centrale. Feudo dei di Capua, dei d’Aquino, dei Cavaniglia
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In alto, Montemarano, veduta e un momento del carnevale. Sotto, Cassano Irpino, la corte del castello e veduta del paese. Pagina precedente. Castelfranci, tratto del fiume Calore, antico mulino e un momento del carnevale.
e dei Doria, Montella si racconta attraverso la magnificenza dei portali dei suoi palazzi (Abiosi, Bruni, Coscia Capone), nei cospicui corredi artistici delle sue chiese. Nella collegiata di Santa Maria del Pianto, una pregevole porta lignea della fine del XVI secolo, uno dei capolavori dell’intaglio di quel periodo, riferita a maestri napoletani o al locale Giuseppe Iodi. Agli stessi anni, risalgono gli armadi ed il sediale della sacrestia che fanno pensare a lavori di altri intagliatori della zona o della vicina Bagnoli Irpino. Come il pulpito, denso di intagli barocchi e con due angeli al centro, della prima metà del Seicento. Modesta per dimensioni, semplice nell’impianto, ma non per questo meno bella, la
Montella, panorama, il complesso monumentale di San Francesco a Folloni, esterno ed il chiostro.
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chiesetta di Santa Maria del Monte, della metà del Cinquecento, che custodisce all’interno, una tavola della Madonna dell’Umiltà, delicata pittura trecentesca e poi i pannelli lignei con storie di Sant’Antonio da Padova e San Giacomo della Marca, scolpite a rilievo da un seguace di Giovanni da Nola. Tra i luoghi più cari ai montellesi, il santuario del Salvatore, che domina dall’alto dei suoi 950 metri la valle del Calore ed i monti Picentini. Qui c’era, dalla seconda metà del XV secolo, una cappellina dedicata alla Santissima Trinità che ospitò, quasi un secolo dopo, una miracolosa statua del Salvatore, cambiando perciò l’intitolazione e divenendo meta di pellegrinaggi da tutta la regione. Al Salvatore fu attribuita la fine della siccità del 1779 e da allora se ne ampliò la chiesa, corredandola di un magnifico altare maggiore. Ma una delle attrattive turistiche di Montella e di tutta la Comunità Montana del Terminio-Cervialto, è il complesso monumentale di San Francesco a Folloni, ad una manciata di chilometri dal centro del paese. Risalente al XIII secolo, fondato per tradizione dallo stesso San Francesco che nel 1221 vi pose la prima pietra, il complesso conta su un vasto corredo artistico che vede nel sepolcro di Diego Cavaniglia, conte
di Montella, opera di Jacopo della Pila, una delle migliori espressioni del secondo Quattrocento napoletano. Nell’interno della chiesa, altari marmorei, pavimenti maiolicati e stucchi del XVIII secolo (mirabili gli intarsi degli armadi della sacrestia, dei montellesi Giovanni e Costantino Moscariello). Mentre nei locali dell’antico monastero (refettorio e chiostri), un laboratorio di restauro (vera e propria fucina di giovani talenti) e un museo di opere d’arte provenienti da chiese ed edifici danneggiati dal sisma dell’Ottanta.
Montella, i ruderi del castello, la chiesa di Santa Maria della Libera e il santuario del Salvatore.
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I buoni frutti della terra
Funghi porcini, tartufi, castagne di Montella, nocciole, mele limoncelle, ciliegie maiatiche, olio extravergine di oliva
testo: Simona Mandato foto: Alfio Giannotti e Archivio STAPA CePICA di Avellino
Tutto ciò che la montagna offriva di commestibile o d’utile, è stato per millenni raccolto e sapientemente utilizzato, dalla legna per ardere ai prodotti silvicoli, perpetuando fino ad oggi quel rapporto con il bosco, radicato nella mente e nello spirito irpino. Un altro pregiato prodotto si forma in queste selve, creatura spontanea di madre terra che lascia all’uomo l’unica fatica di andarli a cercare. I tartufi genericamente identificati con l’area di Bagnoli Irpino, si formano in realtà in gran parte del territorio avellinese. Sulle radici di faggi e pini neri, nei periodi delle maggiori piogge, cresce il frutto di un fungo ipogeo: una scorza nera e rugosa ricopre il tartufo di Bagnoli e la sua polpa grigiastra, scrigno prezioso di tutti i profumi del bosco, quintessenza e prova dell’esistenza delle antiche divinità silvestri. Nei centri del bagnolese si grattugia fresco sulle pietanze, si conserva in acqua e sale o sott’olio, o ancora si riduce in meravigliosa pasta da spalmare.
Il Partenio è la dorsale montuosa che si sviluppa in direzione nord-ovest da Avellino partendo dalla vicina Punta di Mercogliano, a due passi dal venerato Monte Vergine. Le pendici settentrionali del gruppo montuoso sono ricoperte da verdi faggete e ombrosi querceti; ai loro piedi in estate crescono lamponi, fragole, more; in autunno, dopo le prime piogge della stagione, un intenso odore di terra bagnata pervade il sottobosco, nel suo prolifico ventre si svolgono le rituali passeggiate di chi va a caccia di funghi, ingredienti basilari di profumatissimi pranzi. Fra i tanti tipi, i porcini sono senza alcun dubbio i più ricercati, signori di infiniti piatti della cucina irpina. Accompagnano tagliatelle, lagane, maccheroni o zuppe, ma anche tanti secondi di carne, cui imprimono l’inconfondibile e ineguagliabile fragranza di quell’humus di foglie sul terreno che scricchiolano sotto i piedi.
Altri boschi lambiti dalla nostra linea ferroviaria sono quelli del Terminio-Cervialto. Passando per Montella e Bagnoli, il quadro in movimento del finestrino ci restituisce un paesaggio di fitti e ampi boschi: a formarli sono i castagni di una varietà che la gente qui ha sempre chiamato “Palummina” per la forma che il suo frutto rammenta, la colomba, immagine dalle implicite evocazioni, in dialetto ‘a palomma. Il nome di Montella è conosciuto ben oltre i confini dell’Irpinia e della Campania. Il piccolo centro, che dai margini del Parco Regionale dei Monti Picentini domina la valle del Calore, deve la fama alle sue castagne, che da diversi anni sono state insignite dell’Indicazione Geografica Protetta. Il riconoscimento di prestigio, d’altronde, non nasceva dal nulla. Il rapporto simbiotico fra Montella e i castagni risale a oltre 2500 anni fa: le genti di questo territorio si sono sempre servite del suo legno per costruire le loro case e per riscaldarsi; nel Medioevo la farina di castagna era considerata fondamentale per la capacità di conservarsi a lungo, alleato irrinunciabile in occasione di lunghi assedi a città e castelli, o per sopravvivere agli inverni più rigidi. Il clima e il tipo di terreno di quest’area sono particolarmente adatti alla cultivar, ma è anche grazie alla milllenaria sapienza, trasmessa di padre in figlio da immemorabili generazioni, se si è riusciti a individuare il modo più efficace per curare queste piante e ricavarne un frutto di qualità. Lo conferma l’ampia esportazione (il 75% del raccolto!) della castagna di Montella, che un sapore gradevolmente dolce, ma anche la pezzatura medio-piccola e la faciltà con cui si presta ad essere pelata, rendono particolarmente pregiata, ideale per la trasformazione in marrons glacés. Altri impieghi meno nobili le hanno viste per secoli protagoniste in cucina: la squisita minestra di fagioli e castagne forniva il giusto sostentamento a chi doveva affrontare rigidi inverni e duro lavoro nei campi; la pasta e il pane fatti con la farina di marroni sono molto aromatici, e ancora oggi apprezzati prodotti tipici delle aree della castanicoltura.
Quale tavola natalizia della Campania può fare a meno delle prelibate castagne del prete a conclusione del turbinìo di pietanze consumate, senza esitazione, per accogliere degnamente la venuta di Dio sulla terra? La migliore tradizione irpina conosce un metodo unico al mondo per conservare i suoi marroni, tant’è che è stato richiesto un riconoscimento di IGP specifico. Purtroppo, molte delle costruzioni rurali in pietra, un tempo specificamente adibite all’affumicatura delle castagne, sono andate distrutte con il terremoto del 1980; le moderne strutture sono state però modellate sulle antiche, prototipi insuperabili nella loro funzionalità. Una quindicina di giorni sono necessari per plasmare le castagne ai fumi, che solo dalla legna arsa del loro stesso albero, padre che ai suoi figli sacrifica una parte di sé, traggono l’aroma migliore. Dai fuochi che ardono al piano inferiore, salgono i fumi attraverso i graticci dove, pazienti, giacciono le castagne in attesa di assumere quel sapore che le renderà uniche e ricercate. Poi la tostatura e infine un bagno che le reidrata. Ne vengono fuori morbidi bocconi, cui la lunga affumicatura ha donato un gusto lievemente caramellato, piacevole conclusione dei pranzi più abbondanti. Le castagne del prete di Malerba o di Gigliola Perrotta a Montella, ma anche quelle del DAR a Lauro, sono prodotte da aziende aderenti al progetto regionale Sapore di Campania per la valorizzazione delle produzioni locali. Se da un lato in Irpinia è forte il legame con la cultura gastronomica tradizionale, dall’altro è pur vero che negli ultimi decenni molte aziende si sono adeguate alle moderne tecniche di produzione e trasformazione, raggiungendo in alcuni casi - è soprattutto quello dei produttori di vini e di alcuni ristoratori citati nelle più celebrate guide internazionali di cucina - risultati di grande successo, che premiano l’impegno sia economico che di lavoro e ricerca profuso.
Accanto ai grandi nomi, la Regione Campania promuove una serie di imprese di piccole dimensioni che stanno dimostrando notevoli capacità di adeguarsi ad un mercato estremamente esigente. Con il progetto Sapore di Campania, l’Assessorato all’Agricoltura e alle Attività Produttive intende valorizzare le imprese agricole che aderiscono ad un sistema certificato, strumento di garanzia di qualità al consumatore.
Gran parte del territorio intorno ad Avellino è piantata a noccioli; in estate, prima che i frutti siano maturi, i noccioleti assumono il loro aspetto più bello, con il terreno ai loro piedi rastrellato per facilitare la raccolta. In antichità, il sapore fresco e dolce portava ovunque la fama della nocciola abellana, che si produceva nell’area dell’odierna Avella. Il frutto avellinese si adatta in modo ideale alla tostatura, prestandosi così ad essere un ottimo ingrediente in pasticceria e nell’industria dolciaria. Nelle feste dell’autunno, gioia di grandi e piccini sono le ‘ndrite, collane di nocciole tostate, infilate a mo’ di perle. La tradizione irpina le ha sempre usate per produrre i suoi celebrati torroni, che oggi alimentano una delle principali industrie di trasformazione di prodotti agricoli della provincia. Laboriosi torronifici artigianali si trovano ancora in tutto l’avellinese, in particolare a Ospedaletto d’Alpinolo e a Dentecane. La ricetta tradizionale batte per almeno tre ore i bianchi d’uovo con il miele – oggi sostituito dallo sciroppo di glucosio – e vi aggiunge nocciole e spezie: qui in Irpinia il torrone è il dolce tipico delle feste natalizie, che mette alla prova la resistenza dei denti di chi ne assaggia. Le produzioni moderne ne hanno inventate numerose varianti,
fra cui forse la più apprezzata è il pantorrone, che invita con uno strato esterno di cioccolato, e seduce con il suo cuore di pandispagna bagnato nel liquore dolce. Nell’area del TerminioCervialto, territorio della castagna di Montella, si produce il torrone di castagne, variante che propone una farcia di castagne, candite o in pasta: un modo per valorizzare tanto i prodotti silvicoli di Montella quanto la più dolce tradizione del torrone irpino.
Nelle radure ai margini dei boschi del Partenio e dei monti Picentini, il paesaggio è formato da coltivazioni di ulivi, viti, ciliegi e meli, alternati a pascoli e orti. Spesso qui l’arte agraria viene perpetuata in minuscoli appezzamenti, piccole realtà familiari legate ai vecchi metodi e poco inclini a grossi e veloci cambiamenti. Le mele limoncelle, un tempo diffusissime in tutto il Meridione e soprattutto in Campania, si trovano da queste parti in qualche singolo albero, per la sola gioia di chi le produce. Quel sapore antico e unico è oramai raro da trovare, una ghiottoneria ricercata dagli intenditori. Sotto la tipica buccia giallo-verde, si cela una polpa succosa, leggermente acidula e particolarmente aromatica, da cui un tempo si ricavava un buon sidro. Mala Orcula la chiamò Plinio nella sua Naturalis Historia; da allora, ha superato epoche di storia e storie, pervenendo indenne a noi, con il solo nome mutato nel dialettale annurca. E chi non le riconosce, distese ancora verdi su enormi letti di paglia ad arrossare! Dall’aspetto la mela annurca non è molto invitante, ma la sua consistenza croccante, il succo ricco e aromatico,
e anche la capacità di conservarsi per mesi pressoché inalterata ne hanno fatto uno dei prodotti ortofrutticoli di maggior vanto della Campania. Nell’agro di Taurasi il paesaggio dei pascoli è spesso punteggiato da isolati ciliegi, che talvolta si vedono emergere anche tra i vigneti: la ciliegia maiatica è tipica di questa ristretta area, la sua buccia rossa nasconde una polpa bianca, morbida e succosa. Le ciliegie maiatiche si trovano anche alla Cooperativa La Valle e da Tre Colli ad Ariano Irpino, che produce anche mele annurche, entrambe aderenti al marchio Sapore di Campania. Rispetto al nostro percorso su rotaie siamo di tanto in tanto costretti ad allontanarci brevemente, l’esigenza di andare a ritrovare i sapori più antichi e più intensi di questa terra ci induce a più o meno lunghe deviazioni. Come quella che facciamo alla ricerca del miglior olio extravergine d’oliva irpino. Arriviamo nella valle dell’Ufita che fra le sue coltivazioni ha da secoli quelle dedicate agli ulivi, regolari paesaggi che producono la Ravece, l’oliva più pregiata d’Irpinia. L’antica tradizione olivicola di queste contrade chiede oggi di essere equamente valorizzata: si attende la Denominazione d’Origine Protetta per l’olio extravergine di oliva IrpiniaColline dell’Ufita. Da un’oliva dalle caratteristiche organolettiche pregiate come la Ravece non può che sortire un prodotto elevato, il suo profumo fruttato si associa ad un gusto funambolo tra l’amaro e il piccante. I sistemi di coltura sono quelli della tradizione, ma s’ispirano, nel contempo, alle moderne tecniche, tutte concentrate ad evitare alti tassi di acidità nell’olio. L’area di produzione si estende, oltre che all’Ufita, anche all’Arianese e alla Media Valle del Calore. Tra le aziende produttrici di olio extravergine d’oliva, quelle aderenti al progetto regionale Sapore di Campania sono: Il vecchio uliveto di Grottaminarda, Minieri di Carife, Petrilli e Serra dei Lupi a Flumeri, FAM di Taurasi, Montuori di Villamaina, e l’Oleificio Fina di Montemiletto. Cosa si condisce con l’olio irpino? I sughi di coniglio paesano o i ragù di carne che, in occasione delle feste più importanti o quando ci sono ospiti a pranzo, inondano cicatielli, orecchie prevete, trofie, cavatielli, lagane, ma soprattutto fusilli, i più
amati. Con gesti veloci ma precisi, da secoli qui le donne forgiano lo stesso semplicissimo impasto, farina di grano duro e acqua, e a seconda delle forme impresse ai tocchetti di pasta, ne vengono fuori le diverse fogge. Per fare i fusilli, un abile movimento delle mani avvolge le brevi striscioline di pasta attorno ad un filo di ferro, senza aggiunta di ulteriore farina, trasformandole in una sottile spirale cava al centro. Sui pianori dell’Irpinia in primavera è tutto uno sbocciare di cardi, cicorie, borragine, biete. Probabilmente, a insegnare ai contadini a utilizzare le erbe di campo sono stati gli Irpini, il popolo d’origine sannitica che per primo abitò queste pendici, non stanziale e propenso più alla caccia e alla pastorizia che all’agricoltura. Ancora oggi gli occhi più esperti non mancano di riconoscerle, e chi le conosce non può rinunciare a farne raccolta da portare a casa per ricavarne una menesta: sagge nonne hanno insegnato a figlie e nipoti a prepararle carpendone tutta la fragranza della montagna più selvatica. Nelle occasioni di festa, poi, le zuppe si arricchivano dell’“odore di carne”, ossia degli umori rilasciati dall’osso di prosciutto o da qualche pezzo di cotica: “maritandosi” alla verdura, davano luogo alla menesta mmaretata, un piatto che alcuni preparano ancora, sebbene in una versione nobilitata, fatta di numerosi tipi di verdura e di parti di carne più pregiate, meraviglia dell’odierna opulenza. Ancora più povera è l’origine del pancotto dei foresi, il pane raffermo che i pastori irpini portavano con sé nei mesi di lunghi spostamenti: l’ammorbidivano nell’acqua cotta nel callarulo assieme a diverse verdure selvatiche. L’origine bucolica del panu cuotto r’ li furisi è tutta racchiusa nel suo nome: i furisi erano quelli che stanno fuori, all’aria aperta, ovvero i pastori transumanti.
Bagnoli Irpino, veduta della valle, particolare del coro ligneo ed esterno della collegiata dell’Assunta.
Riprendiamo il nostro viaggio, a meno di dieci minuti da Montella si arriva a Bagnoli Irpino, la stazione ferroviaria in passato ha sempre svolto un ruolo importante nel traffico di merci e viaggiatori, soprattutto perché qui siamo ad un tiro di schioppo dallo splendido altopiano del Laceno, gettonatissima stazione sciistica in inverno (con tanto di impianti di risalita sino ai 1700 metri del Cervialto) e pittoresco lago nel resto dell’anno, che si potrebbe raggiungere con un adeguato collegamento ferroviario che rappresenterebbe un’occasione di maggiore sviluppo turistico per una delle zone più belle della Campania, immersa nella vegetazione delle falde settentrionali dei monti Picentini, tra boschi, grotte naturali ed acque torrentizie. Un paesaggio che muta ad ogni stagione e che segna il trend turistico più che positivo di questa parte di regione. Tant’è che Bagnoli (dal latino baniolum, che sta a sottolineare la ricchezza delle acque), è conosciuto più fuori provincia - proprio per il turismo che ruota attorno al “lago” nutrito dalla sorgente Tronola - che nella stessa Irpinia. Il paesino si fa amare comunque per i suoi saporitissimi funghi, i ricercati tartufi neri, per la lavorazione della lana e soprattutto per la celebre fioritura di intagliatori, artisti che dal legno evocano ancora plasticità di forme e suggestioni di immagini. Come l’eccezionale coro ligneo nella collegiata dell’Assunta (XVIII secolo) dove lungo le pareti dell’abside si dispongono i nove stalli di quest’opera di intensa ricchezza decorativa,
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in cui l’arte irpina dell’intaglio, alla metà del Seicento, raggiunge risultati altissimi. Un fitto ricamo vegetale, nel quale convivono putti, uccelli, esseri fantastici; negli schienali, scene della vita di Cristo, mentre nelle colonnine che li separano, episodi del Vecchio Testamento. Grande pienezza decorativa che si deve ai maestri locali, Scipione Infante, Domenico Vecchia e Jacopo Bonavita, figlio di quel Clemente che operò nella cattedrale di Avellino. Suggestione anche per il coro ligneo intagliato della chiesa di San Domenico, ricostruita nel Seicento su un precedente impianto, con un porticato a quattro arcate, una torre campanaria ottagonale ed un civettuolo chiostro rinascimentale; nel soffitto a cassettoni della chiesa, una tavola del 1576, opera di Marco Pino, racchiusa da una originale cornice dorata, intagliata, della stessa epoca. Se amate camminare, vi consigliamo la passeggiata alla Grotta di Caliendo, sulla strada del piano di Laceno, zeppa di stalattiti, stalagmiti e piccole cascate sorgive. Torniamo al nostro trenino che senza tanti scossoni riprende a salire, attraversando un secondo valico, ci dirigiamo questa volta verso il Montagnone di Nusco, sulla sommità della catena appenninica che separa il versante Tirrenico da quello Adriatico. Due zone della stessa regione, in realtà diverse, via via che ci si avvicina al confine apulo-lucano, dove paeselli e borghi diventano più rari, più piccoli, caratterizzati per secoli dall’annoso isolamento e dalla forzata emigrazione che negli
anni Sessanta fu da esodo biblico. E siamo nella stazione di Nusco, a più di 670 metri di altezza, anche questo uno degli scali ferroviari più “rinomati” nella storia dell’AvellinoRocchetta Sant’Antonio. Almeno sino al sisma dell’Ottanta che fece crollare mezzo paese, compreso la stazione. Cittadina meglio nota come il “balcone dell’Irpinia”, è il comune più alto e panoramico della provincia avellinese. Andate sugli spalti del suo castello diruto (a 914 metri di altezza), sorto in epoca longobarda per opera di quel Sant’Amato - primo vescovo e patrono del paese - e vi godrete un panorama
mozzafiato che va dai Picentini, al Matese, al Taburno, alle acque dell’Ofanto. Una meraviglia perché qui la natura la trovi dietro il vicolo. Senza strappi né troppe lacerazioni, Nusco (che significa “muschio”) è risorta come una farfalla, dopo il disastro di 25 anni fa. Stradine pulitissime, portoncini e “merletti” di ringhiera tirati a lucido, che richiamano l’antica lavorazione del “ferro battuto”, palazzotti gentilizi (come palazzo Barbone, Ciciretti, Calabrese, D’Aversa, De Donatis), intonacati da vivaci pitture colorate che danno risalto a fregi, stemmi e portali. Piazze e slarghi che si aprono
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In alto, il lago Laceno. Sotto, Nusco, monumento dedicato a Sant’Amato.
d’incanto in un dedalo di viuzze lastricate. Un paese in cui la serenità è di casa e con una storia legata più alla Chiesa che al potere feudale. Ben 67 i presuli che si sono succeduti sulla sua cattedra episcopale. A testimoniarlo il settecentesco palazzo vescovile, enorme edificio con biblioteca ed archivio. Nella monumentale cattedrale, dedicata a Sant’Amato, dell’XI secolo e restaurata più volte, uno straordinario pergamo ligneo intagliato, un settecentesco trono vescovile e la cripta con volte a crociera che conserva ancora la struttura originaria. Quasi decentrata dal centro del paese, la chiesetta della Santissima Trinità, risa-
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lente al XIV secolo, con un affresco tardo medievale di scuola giottesca, raffigurante un Cristo benedicente ed un’Annunciazione. Da non perdere la visita all’abbazia di Santa Maria di Fontigliano, distante dal centro, ma notevole per l’architettura e l’annesso Antiquarium con diversi reperti archeologici di età romana. Si riprende il viaggio; dopo una fermata a Campo di Nusco, piccola frazione agricola, si prosegue verso Sant’Angelo dei Lombardi, la fermata è stata soppressa alla fine degli anni Novanta, la stazione era poco frequentata. Ma il paesino di origine longobarda, lo dice già il nome, a ridosso del torrente Fredane, merita una tappa; dopo i gravi danni del terremoto, ha ripreso l’aspetto di borgo medievale. Bello il castello, del X secolo, ampliato nei secoli successivi e trasformato in palazzo residenziale, dove i lavori di restauro hanno portato alla luce la pavimentazione di un cortile dell’XI secolo assieme ad un’antica chiesa dalla possente torre campanaria ed un loggiato seicentesco. Nelle piccole botteghe artigiane si continua a lavorare il legno: ninnoli di arredo, ornamenti, souvenir, ma soprattutto presepi, grandi, piccoli, mignon, vanto dell’antica tradizione artigia-
nale, esportata persino in Sol Levante. Dalla cittadina si possono raggiungere una serie di località come la sorgente Mefite, nella valle del fiume Ansanto, ricordata nell’Eneide da Virgilio, che vi pose l’entrata agli Inferi. In realtà la zona, ricca di verdi vallate e aree boschive, è soggetta ad un fenomeno di vulcanesimo con acque sulfuree in ebollizione ed esalazioni mefitiche; nell’antichità, era un luogo sacro alla dea Giunone Mefitide, a cui venne dedicato un tempio. Dell’antica struttura, rinvenuti diversi reperti come statuine di terracotta e in legno, per lo più ex voto, monete, collane di ambra con graffiti di volti umani, una scultura lignea dall’immagine asessuata, senza tempo, attualmente conservati nel Museo Irpino di Avellino. In età cristiana, il tempio divenne una chiesa dedicata a Santa Felicita, martire assieme ai suoi sette figli per aver rifiutato di venerare l’imperatore Antonino Pio. La chiesa, oggi santuario, dove è conservata l’effigie cinquecentesca della santa ripresa dinanzi al suo boia, è il gioiello del borgo di Rocca San Felice, uno dei pochi esempi di paesino medievale, strutturato a rampe che scendono dai resti del castello sino alla piazza. Dirigendosi verso il Vallone del Toppiello e delimitata a sud dalle acque dell’Ofanto, la cittadella monastica di San Gugliemo al Goleto, uno dei maggiori complessi religiosi
dell’Italia Meridionale, fondata da San Guglielmo da Vercelli intorno al 1135. Fu un gran monastero per sacre vergini, molte delle quali appartenenti alle famiglie della migliore aristocrazia campana, tra cui i Caracciolo, i Morra, i Gesualdo, i Balvano; per fede ed architettura l’abbazia riuscì persino ad eclissare (come racconta Giustino Fortunato) le badie benedettine di San Lorenzo in Tufara, fuori Pescopagano, Sant’Ippolito di Monticchio, sul Vulture. L’edificio domina superbo la valle dell’Ofanto e nonostante le razzie ed i numerosi terremoti ha preservato stili e conservato testimonianze. Come la mole architettonica intatta nella forma perimetrale. Bellissimo è il chiostro, splendido l’aspetto realizzato interamente in pietra, con archi e spazi interni, l’ingresso a tre archi, il portale della chiesa superiore, costruita nel 1255 da Melchiorre da Montalbano, architetto di Federico II, sormontato da un arco a sesto acuto ed un piccolo rosone a sei luci. Ed ancora, il giardino con l’alta torre Febronia, fatta erigere, a scopo difensivo, dall’omonima badessa nel 1152, a ridosso della primitiva chiesa del Salvatore (1180), utilizzando pietre, panoplie e iscrizioni provenienti dal mausoleo del centurione Marco Marcello. Il complesso, che ha tutta l’aria di un castello o di un “borgo” fortificato, decadde nel XV secolo perdendo importanza sino a scomparire del
tutto nel Cinquecento. Le suore tornarono due secoli dopo, affidando all’architetto Domenico Antonio Vaccaro la costruzione della chiesa grande (1735-1745), oggi priva della copertura. Ancora riconoscibile la pianta a croce greca. All’interno sono sopravvissuti alcuni stucchi ed il pavimento in tutta la sua bellezza. Dopo la soppressione fatta da Bonaparte nel 1807, il convento ha vissuto periodi di decadenza, trafugamenti e razzie. Recenti restauri e l’affido ad una piccola comunità Verginiana, fanno dell’ex abbazia uno dei poli turisticiculturali più interessanti ed inverosimili dell’Irpinia. Continua a pag. 42
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Il complesso monumentale di San Guglielmo al Goleto a Sant’Angelo dei Lombardi e la cripta. Pagina precedente. In senso orario, centro storico di Nusco, cripta della cattedrale, veduta di Rocca San Felice, la Mefite, cripta della cattedrale di Nusco.
L’oro bianco dei pascoli
Pecorino bagnolese, pecorino Carmasciano, ricotta, caciocavallo irpino, caciocavallo podolico, caciocavallo silano Dop, manteca e ... le carni
testo: Simona Mandato foto: Alfio Giannotti e Archivio STAPA CePICA di Avellino
La cultura pastorale degli antichi Irpini è radicata su questi monti, gli zoccoli delle pecore ne hanno modellato le rocce, nei secoli mandrie di mucche hanno macinato, alimentandole, le erbe e i foraggi di pianori e creste montane; frattanto gli uomini vivevano del loro latte e del formaggio che ne ricavavano, e ai dì di festa consacravano le loro carni. La tradizione casearia è ancora oggi molto forte in questa regione, i modi di lavorare il latte sono in verità spesso simili fra loro, la differenza è piuttosto nell’origine del latte, nei luoghi in cui si sono alimentati gli animali, nella pazienza dei pastori di condurli per mesi su per i monti alla ricerca dei pascoli più profumati. Il nostro treno attraversa la boscosa valle del Calore, accompagnando il fiume per un lungo tratto in direzione della sua sorgente, fino a Bagnoli Irpino: un nome che evoca raccolte di tartufi e di castagne, ma anche nobili formaggi, tanto vaccini quanto ovini. La pecora bagnolese, ‘a malevizza come si chiama in dialetto, è una razza autoctona ancora presente in un migliaio di capi nel territorio che circonda la valle del Calore: è piuttosto grande di taglia e porta il suo segno di riconoscimento sul muso, alcune macchie nere che gradevolmente contrastano con il vello bianco. Grandi sono anche le forme del pecorino bagnolese, che si modellano nelle fuscelle - un tempo di ginestra - dal diametro di circa mezzo metro! In realtà sono piccoli allevamenti a conduzione familiare ad assicurare ancora la produzione del bagnolese, a dedicarsi alla sua cura fin già dall’alimentazione delle pecore portandole a brucare sul pianoro del Laceno, un pascolo che in primavera ha i mille profumi della stagione più odorosa. Persistenti, le essenze s’intrufolano fra gli atomi del latte, per poi riemergere in tutta la loro potenza dal pecorino e dalla ricotta. Gli antichi insegnamenti dei pastori casari indicavano che la lavorazione avvenisse in un caccavo di rame stagnato, di quelli provenienti dalla contrada Ramiera di San Potito Ultra; oggi le norme sanitarie impongono strumenti di lavoro d’altro tipo, certamente più sicuri dal punto di vista della profilassi, ma, ahimé, meno “tipici”. Al latte riscaldato viene aggiunto il caglio naturale, ossia lo stomaco dell’agnello con il latte materno parzialmente elaborato, che viene essiccato e ridotto in polvere. Da questo momento in poi ci si rimette al paziente lavoro degli enzimi che trasformano il latte in meraviglia della natura, incantevole mistero per l’uomo, che ogni volta rinnova il suo stupore, segna una croce sulla cagliata e ringrazia. È de l’Italia in mezzo / e de’ suoi monti una famosa valle, / che
d’Amsanto si dice. Ha quinci e quindi / oscure selve, e tra le selve un fiume / che per gran sassi rumoreggia e cade, / e sí rode le ripe e le scoscende, / che fa spelonca orribile e vorago, / onde spira Acheronte, e Dite esala. Il paesaggio della valle d’Ansanto è in parte ancora boscoso come lo descrisse Virgilio nell’Eneide, in parte è oggi agricolo. Vi s’intravede una ferita bianca nel terreno, al centro un laghetto di fango grigio in cui ribollono soffioni dall’olezzo forte di zolfo; nei pressi del laghetto, in un letto di rocce annerite dall’acqua sulfurea, scorre un ruscello che al termine della vallata affonda nel terreno: nel coesistere in poche centinaia di metri di tanti elementi naturali densi di mistero, prima ancora che Virgilio vi ambientasse il fiume che conduce all’aldilà, gli Irpini videro il varco aperto sugli Inferi. Qui venivano per interrogare e propiziarsi Mefite, dea della salute ma anche della sorgente, delle pecore, dei campi e della fecondità.
Le esalazioni sulfuree che promanano da quella vallata sono all’origine del particolare aroma del pecorino Carmasciano: l’erba e l’acqua di quest’area prossima alla “Mefite” - come è chiamata per estensione la zona dei fenomeni vulcanici - trasferiscono nel latte fragranze uniche. Il formaggio profuma di erba e latte ed ha un lieve “retrodore” (il corrispettivo olfattivo del retrogusto!) difficilmente individuabile in qualsiasi altro pecorino. Il territorio del Carmasciano è molto circoscritto, rac-
chiuso com’è fra le valli dell’Ufita, dell’Ofanto e d’Ansanto, ed è la località omonima, situata fra Rocca San Felice e Guardia dei Lombardi, ad attribuirgli il nome. La sua lavorazione è del tutto simile a quella del bagnolese, segno della croce inclusa. Entrambi sono ottimi formaggi da tavola dopo una breve stagionatura che, se viene prolungata nei classici locali freschi e ventilati, regala un sapore piccante di cui sono avidi i sughi tradizionali irpini e campani! Sia nella produzione di bagnolese che del Carmasciano non si butta via il siero, che ancora nasconde potenzialità straordinarie: i casari sanno che, riscaldandolo ad alte temperature, vedranno affiorare i fiocchi di ricotta. Altre fuscelle ospitano questa delizia che sarà spalmata fresca sul pane per approdare in bocca dolce e leggera, oppure verrà salata ed essiccata, ottima assieme ai salumi irpini dall’intenso sapore. I casu r’ pecura e la ricotta, garantiti dal marchio Sapore di Campania, si trovano da D’Apolito a Sant’Angelo dei Lombardi, da Raduazzo a Flumeri e da Carmine Nigro a Bagnoli Irpino.
noscono le Podoliche: agili come capre anche perché vengono allevate allo stato semibrado. Il particolare sapore deriva a questo caciocavallo “di razza” in buona parte dall’esser pregno degli aromi di arbusti del sottobosco, sulla, avena, trifoglio, strappati nei pascoli erbosi su cui le Podoliche si nutrono per molti mesi all’anno. Questi pendii hanno visto per secoli viavai di uomini che in estate conducevano i loro animali sui monti, alla ricerca di zone fresche, ricche di pianori verdeggianti e abbondanti di erbe aromatiche: si spostavano per centinaia di chilometri, arrivando dalla Puglia fino in Abruzzo, per poi transumare nuovamente al primo freddo verso valle, a caccia di temperature più calde. I lunghissimi spostamenti avvenivano lungo i cosiddetti tratturi, i sentieri che solcavano valli e montagne, attraversavano campi, incrociavano chiesette rurali e borghi; di tanto in tanto una stazione di posta offriva ristoro ai transumanti, una vita adattata alle esigenze degli animali, nomade e solitaria. Qualche allevatore irpino di Podoliche ancora mette in atto l’impegnativo trasferimento: anche per questo, oltre che per il pregio insito nel latte di questa razza bovina, i formaggi hanno un sapore particolare. Oltre all’allevamento ovino e caprino, anche quello dei bovini ha una lunga tradizione in Irpinia, testimone ne è la consolidata produzione di formaggi a pasta filata. Le mandrie della provincia avellinese sono composte in prevalenza da vacche Frisone e Brune: dal loro latte misto si produce, soprattutto nella zona
dell’Alta Irpinia e dell’Ufita, il caciocavallo Irpino. Dalle più rare mucche Podoliche si ricava invece un caciocavallo “speciale”, fatto esclusivamente con il latte di questa razza bovina autoctona dell’Appennino meridionale. Ai piedi dei monti Picentini, fra Montella e Bagnoli Irpino, e oltre fino all’altopiano di Laceno, le mandrie sparpagliate al pascolo fanno parte dello scenario del pianoro, in inverno rinomata stazione sciistica, e in estate meta di gite fuori porta. Facilmente si rico-
Sapienti mani e forti braccia sono quelle che forgiano il caciocavallo podolico: quando la cagliata si è fatta elastica nel suo stesso siero riscaldato, il “cordone” di pasta è lavorato e avvolto più volte su se stesso. Il casaro s’arresta nel faticoso plasmare quando l’esterno rimane liscio, privo di pericolose pieghe, e l’interno libero da vuoti. Dopo la salamoia, gli ovali di formaggio vengono legati a coppie con un cordoncino e appesi a cavallo di una pertica di legno, laddove finalmente acquisiscono il nome di “cacio-cavallo”. Chi apre, con l’aiuto di un coltello, un podolico stagionato alcuni mesi, lo fa nell’attesa che le sue narici siano invase da quell’odore intenso di latte e fieno, con la gioia di ammirarne le occhiature all’interno e l’euforia di assaporarne la pasta, leggermente granulosa e piccante (se si è usato caglio di agnello o capretto), che i contadini sagacemente accompagnano con le castagne arrostite o i funghi porcini. Il caciocavallo silano Dop si differenzia dal podolico essenzialmente nel latte utilizzato per produrlo – tra cui è anche quello di Podolica! -, e ben poco nel procedimento. Questa è la versione di caciocavallo più diffusa in Irpinia, ma anche nelle altre
mantequilla, burro appunto. La lavorazione, antica e complessa, parte dalla prima ricotta che affiora - il cosiddetto “fiore” - che viene raccolta in un panno di cotone. Dopo essere rimasta un giorno e una notte a spurgare, la manipolazione in acqua fredda consente di separare il grasso: è questo il cuore, il burro che era necessario conservare al riparo di un involucro di pasta filata. All’aspetto esterno si direbbe un piccolo caciocavallo, ma aprendo la manteca viene fuori il nucleo di pasta cremosa, un sapore dolce e aromatico che, spalmato su fette di pane tostato, sprigiona tutto il suo profumo! Con il marchio Sapore di Campania i caciocavalli di Mariconda a Vallata, Caputo a Villamaina, La Follonella a Montella e la manteca della Cooperativa Mon. Latte a Montella e di Del Sordi a Vallata.
province della Campania e in gran parte delle regioni meridionali. Il nome “silano” è mutuato, infatti, dall’altopiano della Sila, da cui proviene l’antica tradizione. Il disciplinare della Dop caciocavallo silano prevede una stagionatura che arriva fino ai 18 mesi. Alcuni produttori la protraggono ancor più per qualche singolo esemplare destinato al consumo in famiglia, scrigno di segreti che solo in pochi avranno il piacere di scoprire. Nelle aree anticamente dedite alla transumanza, dal latte bovino si produce ancora oggi un particolare tipo di formaggio, nato in tempi lontani dall’esigenza di conservare il burro: il suo nome manteca, detta anche palla di burro, pare derivi dallo spagnolo
Le carni A chi ramingo procede per i centri irpini, in particolar modo di domenica, non sfugge ad un angolo di strada l’aroma dolciastro di bistecche alla griglia, o in un vicolo un meraviglioso profumo di spezzatino di vitello con i funghi o le papaine, i tradizionali peperoni sottaceto. Molto probabilmente, le esperte cuoche irpine stanno preparando, ognuna a proprio modo, carne di vitellone bianco. Quello allevato nei pascoli dell’Irpinia appartiene alla razza Marchigiana, che deriva dall’incrocio fra la Chianina e la Romagnola di cui condivide il patrimonio genetico di ascendenza Podolica. Per le caratteristiche somatiche comuni, le tre specie vengono ricondotte ad un’unica denominazione di vitellone bianco dell’Appennino Centrale, che nel 1998 è stato insignito del riconoscimento di Igp. La qualità della carne è indiscutibile. Le bistecche di vitellone bianco alla brace arrivano sotto i denti con tutta la loro consistenza soda e al tempo stesso elastica; cucinata in padella la carne è sempre tenera e gustosa e ricca di contenuti nutritivi. Antonio Corso di Casalbore è, tra gli allevatori di vitellone bianco dell’Appennino Centrale, quello che aderisce al marchio Sapore di Campania. Quella dell’affumicatura è una tecnica molto antica, saggezza delle popolazioni montane che l’utilizzavano per conservare i prodotti alimentari. I contadini irpini non l’applicavano soltanto alle castagne: nei solai o in soffitte ben areate appendevano soppressate, salsicce e pancette, e per 4 o 5 giorni le esponeva-
no a fumi, in quel simbiotico convivere di uomini, animali e conserve, tutti insieme a riscaldarsi l’un l’altro. In questo modo però, i salumi duravano tutto l’inverno, e acquisivano al tempo stesso un particolare aroma, la legna bruciata lasciava negli insaccati un’indelebile impronta profumata. Ancora oggi, seguendo gli arcaici dettami della tradizione, si produce artigianalmente la soppressata irpina: il nome, ma anche la sua peculiare forma schiacciata, sono conseguenza della fase in cui l’insaccato viene tenuto sotto il peso di grosse pietre; il sapore deciso invece, è frutto delle carni scelte, dell’affumicatura al fuoco di legna di quercia e della successiva stagionatura. Tra le aziende che producono le soppressate secondo l’antico procedimento locale, Biancaniello a Torella dei Lombardi aderisce al marchio Sapore di Campania. All’affumicatura viene sottoposta anche la ‘nnoglia, prodotta con gli scarti del maiale, stomaco e intestino: la tradizione irpina non consentiva che mancasse sulle tavole pasquali, aggiunta a pezzi nella minestra di cicoria selvatica. Non si creda però, che solo “del maiale non si buttava via niente”. I mugliatielli sono involtini di budelline d’agnello farciti con animelle, fegato, aglio, prezzemolo e menta e legati con la zeppa, la rete che avvolge il fegato: inventati per sfamarsi con la miseria, oggi sono una ricercata leccornia. Proprio alle erbe si era spesso costretti a ricorrere per immettere profumo e sapore nelle pietanze povere: menta puleggio, finocchietto, ortica, prezzemolo, aglio, sedano, erano tutte usate per illudersi di mangiare un piatto importante. Così come povere erano le zuppe a base di erbe spontanee, ancora oggi pietre miliari della cucina avellinese.
In alto, Lioni, chiesa di Santa Maria Assunta, statue lignee seicentesche. Sotto, lapide commemorativa di Francesco De Sanctis a Morra De Sanctis.
E siamo nella stazione ferroviaria di Lioni, che costituisce uno degli scali più battuti dell’intera linea AvellinoRocchetta Sant’Antonio, non solo perché è nel centro del paese, ma anche perché qui ci sono gran parte degli istituti scolastici superiori frequentati dagli studenti dei paesini toccati dalla ferrovia. Dopo il sisma dell’Ottanta, la cittadina è stata restaurata e abbellita. Accogliente, pittoresca, aggrappata ad un colle lambito dalle acque dell’Ofanto, strade pulite e traffico ordinato. Anticamente era denominata terra leonum e proprio due leoni rampanti compaiono sullo stemma comunale. Interessante la parte archeologica, in località Oppido Vetere, con resti di mura ciclopiche (che fanno pensare ai tipici villaggi-fortezza sannitici) e il vicino santuario di Santa Maria del Pianto, costruito nel XIV secolo su un antico tempio pagano. Nel centro storico, la chiesa parrocchiale di Santa Maria Assunta, con una bella torre campanaria del Quattrocento; all’interno, un San Michele Arcangelo della bottega di Giovanni da Nola, della prima metà del Cinquecento. Destano ammirazione, le statue di mano di Pietro Nittoli, scultore settecentesco, nativo di Lioni, tra cui, un San Michele Arcangelo, ritenuto il suo
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capolavoro. Immancabile la visita al famoso santuario di San Gerardo Maiella, a Materdomini, una delle mete del turismo religioso in Alta Irpinia, distante dal paese una decina di chilometri, ma raggiungibile con un comodo servizio di bus. Ci lasciamo alle spalle questo tesoro d’arte e cultura. Direzione? Morra De Sanctis-Teora, una delle stazioni ferroviarie più importanti nella storia dell’AvellinoRocchetta Sant’Antonio. Fu sede di partenza di quel “Viaggio elettorale”
(propaganda diventata poi libro) che Francesco De Sanctis effettuò nel 1875 nei paesi del suo comprensorio elettorale. Quel viaggio ha regalato ai suoi compaesani una coscienza civile molto forte tant’è da mutare persino la denominazione del paese (in origine, Morra Irpino, da mor/mur che significa cumulo di pietre). Chi viene da questa parti lo fa per vedere la casa natale dell’illustre letterato – un palazzotto del XVII secolo rimaneggiato nell’Ottocento che si presenta con un bel
portale in pietra e una corte interna trasformata in patio - il castello medievale, sorto in epoca longobarda, detto anche dei principi BiondiMorra. Ma anche per comprare un ottimo olio extravergine d’oliva, formaggi freschi e stagionati, per mangiare carne saporita e sana e farsi coccolare dalla gente del posto che non nega mai un sorriso. Ecco perché bisogna arrivare qui leggeri per poi ripartire con le sporte piene. Il posto poi - situato nei pressi della sorgente dell’Ofanto, il Sele e il Calore - si presta a passeggiate ed escursioni. Nelle vicinanze, due laghetti artificiali, le acque dell’Isca, del Sant’Angelo e del Bocca Nuova, circondati da faggete e rigogliosi boschi di querce e castagni. Un panorama sulla natura che il paese ha imparato da tempo a valorizzare. Il treno segue dolcemente il corso delle acque del fiume Ofanto per avviarsi a percorrere la cosiddetta “variante” di Conza, quasi otto chilometri su sette viadotti e tre gallerie (da batticuore), un’opera colossale, che ha permesso lo spostamento più a monte della linea ferroviaria, nel tratto che lambiva il lago artificiale di Conza. Una grossa diga artificiale, costruita alla fine degli anni Settanta, non solo per ragioni energetiche - ci spiegano - ma soprattutto per sbarrare il flusso delle acque del fiume che, in caso di innalzamento, avrebbero potuto tra-
volgere la ferrovia. Ci si inoltra in una delle zone più belle dell’Alta Irpinia, grazie alle sei aree naturalistiche ed ambientali (l’Alta Valle dell’Ofanto, i Boschi di Guardia, Andretta e Castiglione, il lago di Conza, Querceta dell’Incoronata, il Lago San Pietro) che ne fanno una delle realtà più vivaci in Campania dal punto di vista del “turismo verde”. Qui è facile perdersi a contatto con una natura fortunatamente ancora intatta dove nidificano gli aironi rosa, le gru, i falchi pellegrini, le poiane. Ma la variante di Conza
ha significato anche tagliar fuori dal percorso della ferrovia un “rosario” di paesini aggrappati alle alture dell’Alta Valle dell’Ofanto, dove potrà accadervi (se ci andate) di restare stupiti. Perché questa è la sorte di chi si imbatte in questi luoghi, come Aquilonia (lo scalo ferroviario è stato soppresso alla metà degli anni Novanta), arroccata su un’altura della valle dell’Osento che guarda solitaria al Tavoliere; ricostruita dopo il tragico terremoto del 1930. I resti dell’originario abitato detto Aquilonia vecchia si trovano a
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In alto, il lago San Pietro presso Aquilonia. Sotto, Aquilonia vecchia. Pagina seguente. In alto, veduta di Monteverde. Al centro, area archeologica di Compsa. Sotto, veduta di Andretta. Pagina successiva. Il lago di Conza, il Museo Etnografico di Aquilonia e veduta di Cairano.
un paio di chilometri dal paese e costituiscono uno dei tesori della cittadina. L’altro è il Museo Etnografico, forse uno dei più vasti dell’Alta Irpinia: 50 stand su 1500 metri quadri di percorso per riprodurre e custodire i gusti, gli aspetti, le quotidianità della vita di un tempo. Non da meno la vicina Monteverde (la fermata? cancellata una decina di anni fa), su un colle che segna il confine con la Basilicata, nota per il glorioso celeste del lago artificiale di San Pietro, lungo la vallata scavata dall’Osento, area attrezzata per la pesca sportiva ed i picnic. È il doppio spettacolo che offre questo borgo dal caratteristico impianto medievale, a pianta triangolare, con le case petrigne disposte a gradoni che cedono il passo solo alla quiete della natura, dell’acqua e del vento. E arriviamo nella stazione di ConzaAndretta-Cairano, una delle fermate più affollate, al servizio di tre cittadine, di antichissime origini, tutte meritevoli di una visita. A partire dal Parco Archeologico di Conza, a 600 metri di altezza, su un poggio affacciato su un’ansa dell’Ofanto (l’odierno abitato è più a valle, a Piano delle Briglie), dove ci sono i resti dell’antica Compsa, conquistata da Annibale nel 216 a.C., riconquistata, dopo due anni, da Fabio Massimo, contesa tra Romani e Cartaginesi, per soccombere poi sotto la spada dei Longobardi. Tra i reperti, un sarcofago riutilizzato come vasca di una fontana monumentale, fatto risalire al IV secolo a.C., i resti di domus del III-II secolo, i locali di un anfiteatro, parte di un impianto termale. Ma non solo: anche un lastricato calcareo con canaletta per il deflusso delle acque, una vera “chicca” dell’ingegneria idraulica dei Romani. Nel parco, presenti anche le rovine di Conza vecchia, mirabile esempio di struttura medievale con parte dei ruderi del castello, situati al margine nord delle mura, nella zona detta Giardino, e della cattedrale di Santa Maria Assunta, del X secolo, distrutta da diversi terremoti e oggetto di lavori di restauro; nella cripta (non ancora fruibile per i lavori) erano conservate le reliquie di San Erberto, patrono di Conza. Oggi custodite nella cattedrale “provvisoria” dell’odierna cittadina, assieme alle “Virtù” a rilievo, opera marmorea della prima metà del XVI secolo, poste nell’altare maggiore ed uno splendido sarcofago di San Erberto, del IX-X secolo. Se vi recate poi nella vicina Andretta, caratteristico borgo medievale (in origine, un “castello” di Conza), sprofondato tra
boschi e valloncelli, non perdetevi le passeggiate ai torrenti Sarda, Mulino e Orata, sino alla zona boschiva di “Ripaspaccata”. Immancabile la visita al santuario della Stella Mattutina, ad un chilo-
metro dal paese, un complesso religioso cistercense, meta plurigettonata della “festa della mattinella” che si tiene nell’ultimo sabato e domenica di maggio. Continua a pag. 48
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Come dai forni antichi
Il pane, le pizze
testo: Simona Mandato foto: Alfio Giannotti e Archivio STAPA CePICA di Avellino
Passando per Fontanarosa e Mirabella Eclano, vedremo i loro campi dorati che in estate ondulano al vento insieme alle infinte spighe di grano. Sul tramontare della bella stagione gli stessi campi, da poco rasati, sono punteggiati di balle di paglia: molte saranno aperte e utilizzate per costruire i carri che possenti buoi traineranno per le contrade campestri. 25 metri e oltre di archi, colonne tortili e capitelli saranno il risultato di interminabili intrecci di paglia, creati da mani esperte per la “festa del carro”, il ringraziamento per il raccolto, in origine rivolto a Cerere, dea delle messi, trasfigurato in cristianissima festa in onore dell’Addolorata. Lasciata Bagnoli Irpino, il treno si avvia verso la valle dell’Ofanto, e nella piana di Lioni comincia a seguirne il corso. I ricordi di Francesco De Sanctis, critico letterario ma anche impegnato uomo politico, toccarono fra gli altri il suo paese natìo, Morra, che dal treno si vede, un po’ a distanza, poco dopo Lioni: “Morra di sera è un bello vedere, massime chi lo guardi da lungi e dall’alto, come fec’io venendo da Guardia.(…) Dunque una costa in pendio avvallata è Morra (…) Non ci è quasi casa, che non abbia il suo bello sguardo, e non c’è quasi alcun morrese, che non possa dire: io posseggo con l’occhio vasti spazii di terra”. Si passa davanti allo splendido lago di Conza e agli infiniti campi di grano, cereali e foraggio. In autunno, la terra dissodata dopo il raccolto, assume al sole e all’ombra delle nuvole, le mille sfumature del marrone e del beige. La terra argillosa di Cairano, Calitri e fin su a Monteverde, è quella che ha originato l’antichissima tradizione della ceramica: fogge semplici, ciascuna con una sua funzione specifica legata alle attività rustiche di questo popolo. Cairano prima, e successivamente Calitri compaiono sotto la nebbia mattutina, la punta dei loro campanili e i tetti dei borghi svettano e la perforano descrivendo un’atmosfera surreale. “Calitri la nebbiosa” l’aveva soprannominata Francesco De Sanctis nel suo “Viaggio elettorale”. Dalle ampie colture di grano adiacenti, la tradizione gastronomica di questo piccolo centro si è specializzata nei prodotti del forno. Il pane di Calitri ha superato di fama i confini di queste montagne: le sue forme tonde sono enormi, le cosiddette “ruote di carro” arrivano anche a sei chili. Segreto svelato della lavorazione è ancora oggi il criscento. Un residuo dell’impasto viene avvolto in panni di lana e lasciato a fermentare: tradizionalmente si riponeva in particolari vasetti di ceramica, quelli di Calitri dalle forme e i colori di agreste sobrietà, decorati con un pesciolino stilizzato, simbolo che rimandava al Cristo di cui si invocava la benedizione sul pane quotidiano. Il giorno dopo ecco trasformato quel residuo in lievito naturale,
che aggiunto all’impasto di farina di grano duro - o tenero farà crescere il nuovo amalgama nella maniera più genuina ed equilibrata. L’aroma del pane di Calitri appena sfornato è un invito irresistibile, con quella sua crosta scura e croccante inimitabile opera del forno a legna, e la mollica consistente e morbida, frutto del prezioso criscento. Lo stesso sistema di lievitazione viene adoperato per il pane di iurmano, che però ha nell’impasto un terzo di farina di segale (il dialettale iurmano è il nome del cereale): alla necessità di conservare più a lungo il pane nell’Alta Valle del Calore si era data questa soluzione, anche perché i campi del Laceno e i pianori adiacenti ben si prestavano alla coltivazione della segale, più capace di altri di resistere al clima invernale. I forni irpini racchiudono, oltre a quelli del pane, anche i segre-
ti di più ricche pietanze tradizionali: per la preparazione della pizza chiena si usa l’impasto del pane casereccio e lo si imbottisce di ogni bendiddio: salsiccia piccante, scamorza, scamorzone e altro formaggio bovino, e poi pezzi di lardo che aggiungono morbidezza e condimento all’impasto, come tradizione comanda. La pizza con le biete si tramanda nei pressi dei pianori abbondanti di erbe selvatiche; mentre la versione di pizza imbottita elaborata nei luoghi della ricotta di pecora e di vacca, è la pizza di ricotta: l’ingrediente principale viene raccolto, assieme a uova e pezzi di salsiccia o prosciutto, nell’impasto fatto di farina e sugna. SPAM a Montella, che le produce ancora oggi nel forno a legna, aderisce al progetto Sapore di Campania, insieme al Molino De Furia di Montecalvo Irpino, produttore di farine.
In alto, veduta di Calitri. Sotto, ceramica calitrese, antico contenitore per il criscento e il treno nella stazione di Rocchetta Sant’Antonio.
Il treno si avvia verso le ultime stazioni, conserviamo negli occhi il blu del cielo che bacia l’azzurro ceruleo delle acque della diga di Conza e lungo la valle dell’Ofanto (anticamente chiamata “piana della battaglia” visti gli scontri di armi e di coltelli che ci son stati) si giunge alla stazione di Calitri-Pescopagano, una delle ultime fermate del treno, ubicata in una frazione del paese, nei pressi della statale Ofantina. Geograficamente le due cittadine tracciano insieme a Sant’Andrea di Conza, Cairano, Andretta, Bisaccia e poi San Fele, Ruvo del Monte e Rapone, una sorta di “ottagono” irregolare conteso tra l’Alta Irpinia, la Lucania ed il salernitano. Punto fisso è proprio Calitri che Francesco De Sanctis si divertì a definire la “nebbiosa” nel corso del suo “Viaggio elettorale”. In verità il paesino è bello da togliere il fiato senza nulla togliere ai dintorni: dal Bosco
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di Castiglione al suggestivo laghetto delle Canne. Antichissime le origini del borgo, risalenti addirittura al Neolitico con diversi utensili in selce levigata rinvenuti ed oggi nel Museo Irpino di Avellino. Altri ritrovamenti, dalle tombe alle sepolture, ai frammenti di vasellame in argilla del IVIII secolo, confermano insediamenti dall’Età del Ferro al periodo della Magna Grecia. Da percorrere, palmo a palmo, il centro storico, dal caratteristico impianto medievale a pianta triangolare, costellato di dimore nobiliari con simpatiche loggette e portali in pietra, quasi tutti del XVIII secolo. Nella chiesa dell’Annunziata, di architettura cinquecentesca, un bel portale rinascimentale; all’interno, nell’abside, è conservata una pala dell’Annunciazione in cui si fondono elementi fiamminghi e ispanomoreschi ed una Deposizione di Cristo eseguita probabilmente da
Paolo De Matteis. L’eco di tanta arte lo si ritrova nel Museo della Ceramica (da cui si gode uno straordinario panorama sulla valle sottostante); un luogo della memoria sull’antica civiltà della ceramica di Calitri: dalla preistoria al Medioevo, all’Ottocento sino alle splendide ceramiche contemporanee (che troverete nei tanti laboratori) in cui il bianco ed il blu, il rosso ed il verde sono i colori dominanti. I colori di questa terra che vale la pena di conoscere, almeno una volta. Un’esperienza unica per gli occhi e ... se ne vorrete una per il gusto, tra qualche tempo potrete fare una tappa anche alla Formaggioteca Regionale, di prossima istituzione, vera e propria sancta sanctorum dell’arte casearia campana. Il treno corre verso il Tavoliere. Ultima fermata, e siamo in terra di Puglia: Rocchetta Sant’Antonio, con il sole già alto in cielo.