Aree rurali a Napoli

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www.economiacampania.it ITINERARI ALLA SCOPERTA DELLA REGIONE

CAMPANIA FELIX


Da qualunque parte si affronti il tema dello sviluppo nella nostra regione, il punto di arrivo è sempre il territorio. Anche la produzione industriale più seriale e robotizzata, ormai, non può prescindere da un rapporto positivo con il contesto che circonda l’attività d’impresa. Non è più concepibile, infatti, considerare l’impresa come una monade senza porte e finestre che si affacciano sul mondo esterno, tutta chiusa nelle mura aziendali, indifferente alle esternalità che la riguardano. Il territorio c’entra (e come) quando si tratta di prendere in considerazione la dotazione di infrastrutture, materiali e immateriali, che connettono la produzione con i mercati di approvvigionamento, distribuzione e vendita. C’entra quando si prende in esame il livello di qualità dei servizi privati e pubblici. C’entra quando si pensa a come promuovere le merci prodotte sui mercati domestici e non. Tuttavia non c’è attività produttiva in cui il territorio ha un peso e una centralità maggiore che nell’economia connessa alle attività agricole. Perché è specialmente nelle produzioni agricole e zootecniche che in maniera più diretta si avverte l’influenza della qualità della terra, dell’ambiente, dell’ecosistema. Vivere bene, ormai, è un obiettivo non distinguibile dal benessere del nostro habitat. Specie nei centri urbani, nella cinta periferica delle grandi città, dove è necessario rivitalizzare e tutelare le aree rurali. Anche perché la quantità di verde disponibile per abitante diventa una componente fondamentale della capacità di attrarre investimenti, non solo nel settore turistico-alberghiero, dal momento che essa incide globalmente sulla qualità della vita di un sistema territoriale. Senza i luoghi dove natura e cultura, campagna e città, verde e residenza si incontrano, non ci sarà possibilità di domiciliare il rapporto tra la tradizione che è il sostrato delle tante tipicità della Campania e l’innovazione e il cambiamento dei quali non possiamo fare a meno come uomini del nostro tempo. Andrea Cozzolino Assessore Regionale all’Agricoltura e alle Attività Produttive


Edizione speciale Campania Sviluppo Quotidiano

Aree rurali a Napoli orti, boschi, parchi e giardini in città Editore, direttore editoriale e artistico Mariano Grieco Direttore responsabile Dario Coviello Relazioni esterne Ersilia Ambrosino Testi Mimmo Ambrosino Vincenzo Andreoli Mariano Grieco Foto Alfio Giannotti, Archivio Altrastampa Camillo Ripaldi/Archivio Fotografico Ente Parco Metropolitano delle Colline di Napoli Antonino Di Gennaro e Rita Console/ Archivio SeSIRCA e STAPA CePICA Napoli Progetto grafico Altrastampa Coordinamento del progetto Michele Bianco Si ringraziano Michele Bianco e Alberto Caronte Flora Della Valle e Maria Passari con Maurizio Cinque, Antonino Di Gennaro Assunta Di Mauro, Rosaria Galiano Italo Santangelo e Settore Foreste Caccia e Pesca in particolare Gennaro Grassi Luca Acunzo, Emilio Baldacchini e Linda Toderico e inoltre Ente Parco Metropolitano delle Colline di Napoli in particolare Agostino di Lorenzo Michele Fiore e Cristina Gioia Istituto Penale per Minorenni di Nisida e infine Flavio Massa L’editore ringrazia Camillo Ripaldi per la preziosa collaborazione iconografica In copertina: Veduta di Napoli dalla vigna di San Martino foto Alfio Giannotti A sinistra: rielaborazione grafica dalla pianta Napoli e i suoi trentatre casali di Luigi Marchesi, 1804

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SommariO Le aree rurali di Napoli Tutela e sviluppo

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Città di mare... con campagna I prodotti degli orti napoletani

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Il paesaggio come futuro Verde urbano, un nuovo rapporto con la città

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Dalle vedute a volo d’uccello a Google Earth Nuovi strumenti per conoscere il territorio

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Le aree rurali di Napoli

testo: Maria Passari* e Italo Santangelo* • foto: Archivio Altrastampa

Tutela e sviluppo

Giacinto Gigante, Napoli dalla Conocchia.

L’area agricola urbana di Napoli, intesa come parte del territorio ove si attuano ancora pratiche di conduzione agricola, rappresenta ancora oggi una parte importante del contesto metropolitano. Gli oltre mille ettari censiti dal Comune di Napoli nel 2003, anche se in calo progressivo per l’endemica aggressione cementizia, rappresentano, infatti, un’area di tutto rispetto, sia pure sempre più frammentata. Una risorsa unanimemente ritenuta insostituibile, soprattutto, come affermano gli urbanisti, per ciò che attiene la caratterizzazione del paesaggio della città. Ma le aziende agricole sopravvissute alla progressiva conurbazione assolvono anche ad altri compiti di grande rilevanza per la città, come quello meritorio del mantenimento di uno spazio rurale, in larga parte ignorato o nel migliore dei casi scarsamente vissuto dai cittadini. Un bene comune, questo, di cui non si colgono appieno le grandi potenzialità. Peraltro, le tecniche tradizionali ancora adottate, lo scarso uso di principi chimici e la conservazione di antichi ecotipi, presupposti oggi difficilmente riscontrabili nelle aree agricole intensive del territorio regionale, creano un connubio tra area urbanizzata ed area agricola ad elevata ecosostenibilità e, in prospettiva, un nuovo rapporto sociale potrebbe generarsi, con benefici per tutti i soggetti impegnati, dalle imprese ai cittadini ed alle stesse istituzioni. Ma qual è la caratterizzazione attuale delle aree rurali di Napoli? Vigneti storici, ciliegeti, castagneti, agrumeti e soprattutto orti, gli Orti di Napoli, denominazione adottata anche per un intelligente e meritevole progetto promosso da Agripromos, l’azienda speciale della Camera di Commercio di Napoli, e dallo Stapa-Cepica di Napoli, per il recupero a fini produttivi degli ecotipi orticoli napoletani.

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Ancora, i tanti orti/giardini urbani, i famosi giardini napoletani, caratterizzati dalla presenza costante degli agrumi e di altri fruttiferi in una consociazione distintiva e funzionale, particolarmente apprezzata dai francesi e dagli inglesi che a questa tipologia hanno dedicato in passato studi e ricerche. Una costante del paesaggio, oggi purtroppo in declino, che per secoli ha contraddistinto la fascia costiera, dalla zona flegrea fino a Sorrento ed Amalfi. Meritoria, va sottolineata, l’opera di conservazione di questi orti e giardini compiuta nel corso dei secoli dai monasteri e dagli altri complessi religiosi come quelli, nell’area metropolitana, dei Girolamini, di

Santa Chiara, di Suor Orsola, solo per citarne alcuni. Purtroppo, le aziende agricole partenopee sono gravate da problemi strutturali e di commercializzazione dei prodotti talmente seri da comprometterne la sopravvivenza. Le dimensioni economiche insufficienti, l’elevata età media dei conduttori, le strutture carenti ed in alcuni casi seriamente compromesse, sono solo alcuni dei motivi che potrebbero determinare a breve una pericolosa ed ulteriore compressione delle superfici e delle aziende impegnate. Fortunatamente sono stati avviati negli ultimi anni, a cura di enti ed organismi vari, alcuni interventi strutturali di salvaguardia degli spazi agricoli della

città, nonché alcuni progetti speciali volti anche a rivitalizzare l’economia delle imprese che vi insistono. Su tutti va citata l’istituzione, da parte della Regione Campania, nel 2004, del Parco Metropolitano delle Colline di Napoli, che si estende su una superfice di circa 2.300 ettari, su un totale della superfice cittadina pari a 11.750 ettari. Un grande atto di sensibilità politica ed amministrativa per tutelare e salvaguardare soprattutto il sistema collinare dell’area metropolitana, che sta già dando i suoi frutti, avendo l’Ente Parco redatto il Piano di gestione, lo Statuto dei paesaggi - in attuazione della Convenzione europea del

paesaggio -, avviato alcuni progetti, nonché istituito un apposito Sportello informativo per il pubblico (SIP). Il Parco comprende la più gran parte del territorio agricolo urbano: Camaldoli, Chiaiano, San Rocco, Sant’Antonio, lo Scudillo e la Vigna di San Martino. Proprio quest’ultima ha assunto negli ultimi anni un altissimo valore paesaggistico e culturale per la città, grazie all’opera meritoria dell’Associazione Amici della Vigna di San Martino, formata da professionisti, uomini di cultura e cittadini comuni, che gestiscono questo insostituibile frammento di verde che giace sul colle più famoso di Napoli. Per la sua straordina-

ria peculiarità e rilevanza, quest’intervento rappresenta un unicum nazionale, difficilmente replicabile per le sue connotazioni e soprattutto per il sito ove esso si realizza. L’iniziativa andrebbe però ancor più pubblicizzata, non sottovalutandone i fini turistici, anche per migliorare l’immagine complessiva della città. Con l’Ente Parco Metropolitano e con il Comune di Napoli, l’Assessorato regionale all’Agricoltura e alle Attività Produttive ha avviato nel 2005 un ambizioso progetto per la valorizzazione delle attività agricole in ambito urbano: Hortus Conclusus. L’intervento, di alto significato strategico per il contesto complessivo della città, va

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Alessandro D’Anna, Osteria a Posillipo.

oltre il solo aspetto di tutela ambientale e paesaggistica, avendo come obiettivi prioritari: la rivitalizzazione della “ruralità” delle aree agricole metropolitane, il sostegno all’instaurarsi di nuovi rapporti sociali e la promozione di nuove opportunità economiche e di sviluppo sociale per le imprese che vi insistono. Un mix di azioni pilota per il miglioramento e la valorizzazione economica di tali zone, soprattutto quelle periurbane, promosse per restituire fiducia alle aziende agricole, stimolando nel contempo anche l’ingresso di giovani nella conduzione delle stesse. A cura dei divulgatori agricoli regionali dello Stapa-Cepica di Napoli è stata di recente completata l’indagine a tappeto delle aziende agricole, necessaria per mirare con più efficacia le attività previste dall’intervento. Partendo dal presupposto che, proprio in contesti come quello metropolitano, lo sviluppo della multifunzionalità delle imprese agricole può diventare risorsa economica in grado di generare reddito integrativo alle aziende stesse, il progetto prevede la promozione, negli spazi rurali, di attività turistiche, culturali e didattiche. Un intervento studiato anche per offrire ai cittadini consumatori la fruizione di spazi agricoli e naturali, avendo essi la possibilità di venire a contatto e a conoscenza, a due passi da casa, di culture, tradizioni e soprattutto di antichi sapori. Il progetto, infatti, accanto alle azioni volte a migliorare la funzionalità e l’accoglienza delle aziende, prevede soprattutto la promozione della vendita diretta di prodotti agricoli, la cosiddetta Spesa in Fattoria, recuperando così quei rapporti diretti di fiducia tra cittadini e coltivatori che contraddistinguevano fino a pochi decenni fa il contesto metropolitano di Napoli e le sue aree agricole periurbane. La promozione diffusa del Farmers Market è in generale uno dei principali obiettivi della politica regionale per la valorizzazione delle produzioni agricole tipiche del sistema agroalimentare campano, concretizzatasi nel progetto Prodotti di pregio e sviluppo dei sistemi locali. E il principale strumento promosso attraverso tale

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progetto è appunto il marchio Sapore di Campania, intorno al quale si sviluppa un sistema certificato di qualificazione delle imprese aderenti. Proprio per realtà come quella di Napoli esso può fornire risultati distintivi e fortemente innovativi. Questo perché al marchio possono accedere anche le osterie, che in città e nel suo hinterland rappresentano una parte cospicua del sistema di offerta gastronomica; osterie che potranno rifornirsi dei prodotti tipici direttamente alla fonte, alimentando e ripristinando così quel circuito virtuoso - la filiera corta - che connotava fortemente in passato il processo di approvvigionamento delle materie prime. L’obiettivo di fondo è quello di ridefinire il concetto di ristorazione tipica napoletana, valorizzando le ricette e i menu tradizionali, ma legandoli all’impiego dei prodotti agricoli del territorio.

Stessa cosa varrà per le botteghe aderenti al marchio, i cosiddetti negozi cittadini di prossimità che potranno diventare di diritto autentiche vetrine delle produzioni tipiche di eccellenza. Al sistema del marchio Sapore di Campania aderiscono ad oggi 60 imprese di Napoli e dintorni, di cui ben 18 osterie, che già oggi possono rivendicare, con la dovuta certificazione, di comprendere nei loro menu piatti realmente tipici della zona partenopea. Ma altre attività, come quelle destinate ai ragazzi in età scolare, sono state promosse nel contesto cittadino e che trovano nel Museo vivo di Città della Scienza il cuore pulsante e pensante dell’intero Programma regionale di comunicazione ed educazione alimentare. Accanto allo stand permanente Gnam, recentemente rinnovato ed ampliato, sono state implementate alcune azioni pilota che vedono

il coinvolgimento diretto delle imprese agricole cittadine che diventano così protagoniste di percorsi didattici destinati alle scolaresche della città. Una concezione moderna della fruizione dello spazio e delle strutture agricole urbane per attività pratico-didattiche e anche ludiche a disposizione delle giovani generazioni per tutto l’anno. Ma Napoli e il suo spazio verde sono inseriti interamente anche in Costiera dei Fiori, il Programma regionale di marketing territoriale per la promozione del paesaggio litoraneo della Campania e per lo sviluppo del settore florovivaistico locale, ideato e realizzato dall’Assessorato all’Agricoltura e alle Attività Produttive. Non a caso proprio a Napoli l’intervento ha espresso alcune delle sue migliori performance, tra cui gli allestimenti floreali, curati dal Conflomer, ai più importanti even-

ti cittadini, come il Concorso ippico internazionale, o la recente visita del Papa a piazza del Plebiscito. Costiera dei Fiori, nella sua versatilità, si presta a tante altre declinazioni ed opportunità operative. Interessante, anche per le sue implicazioni didattiche e formative, è l’intervento rivolto alle scuole sull’educazione all’ambiente rurale, con visite guidate, applicazioni pratiche, preparazione di erbari, moltiplicazione di semi e piantine fino alla piantumazione di alberelli. Da citare anche l’intervento che ha visto gli alunni di alcune scuole partenopee e dei comuni vicini impegnati nella sistemazione delle aiuole antistanti gli edifici scolastici ed alcune stazioni ferroviarie della Circumvesuviana. Di grande rilevanza, anche sociale, è il progetto Costiera dei Fiori per Nisida, che prevede l’impegno

diretto dell’Assessorato per sostenere il processo di reinserimento e di integrazione dei ragazzi custoditi presso la casa circondariale. Il campo di azione dell’intervento in particolare è la riqualificazione del contesto paesaggistico di pertinenza del carcere minorile nell’ambito dell’oasi di Nisida. Su questo obiettivo si innestano poi azioni pilota di grande significato sociale da sviluppare all’interno della struttura, come l’attivazione di un laboratorio per la formazione di operatori vivaistici addetti alla riqualificazione ambientale, o come l’addestramento di guide per le visite all’oasi di Nisida, o come la produzione di manufatti artigianali e gadget promozionali da utilizzare per le attività del programma Costiera dei Fiori. Tutti i programmi e gli interventi descritti muovono da un presupposto imprescindibile, un imperativo che pone la pubblica amministrazione nella doverosa opera di garantire agli spazi rurali della città una nuova realtà di sviluppo, una rivitalizzazione che punti a considerarli, dignitosamente, come risorsa, naturale ed economica, della città. Le imprese devono sentirsi motivate nei processi di rifunzionalizzazione loro proposti e gli stessi e necessari interventi di adeguamento strutturale vanno accompagnati secondo la moderna concezione di sostenibilità ambientale, paesaggistica ed economica. Gli spazi rurali non vanno considerati come oasi integrali intoccabili, in cui col tempo la competizione naturale porta al prevalere di rovi e sterpaglie, indicatori di abbandono e degrado. Va fatto prevalere un nuovo concetto di costruzione del paesaggio e di manutenzione attiva del territorio, pienamente compatibile con le linee più avanzate della moderna urbanistica. Le imprese agricole della città vanno riconosciute a pieno titolo come attori di sviluppo nel più ampio disegno di ridefinizione del contesto urbano partenopeo. Non solo custodi del paesaggio ma parte viva della città, modelli di naturalità e benessere a disposizione dell’intera collettività. *Regione Campania, Settore SIRCA, Napoli

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Città di mare... con campagna I prodotti degli orti napoletani testo: Mariano Grieco e Italo Santangelo foto: Rita Console, Antonino Di Gennaro e Archivio Altrastampa

Un tempo i napoletani venivano, spregiativamente, soprannominati mangiafoglie, per la loro abitudine di cibarsi prevalentemente dei prodotti degli orti, che, rigogliosi, erano sparsi un po’ dovunque negli immediati dintorni della città e nella città stessa. Infatti molti erano i giardini dei palazzi nobiliari e delle insule monastiche che, essendo alquanto estesi, avevano una zona dedicata a orto e a frutteto. Persino il Real Bosco di Capodimonte, quello di Portici e quello di Caserta avevano vaste zone coltivate ad ortaggi e frutta per la regale mensa e certamente i Borbone non erano dei mangiafoglie. Sarà che il suolo di origine vulcanica era particolarmente ubertoso, sarà che il clima, quello di una volta, era decisamente mite ed equilibrato, sarà la vicinanza con il mare, sta di fatto che Napoli era, e tutto sommato è ancora, circondata e quasi invasa da una natura generosa che non lesinava i suoi abbondanti frutti in tutte le stagioni; e ovviamente il napoletano ne ha sapientemente approfittato, facendone la base per la sua alimentazione, povera o d’élite, cambiava solo la presentazione, almeno fino alla comparsa di sua maestà il maccherone. Negli orti e nei giardini, sulla zona collinare o in piena città, cresceva di tutto, dagli agrumi alle viti, e poi fichi, olivi, frutta di tutti i generi, pere, mele, sorbe, prugne, kaki, gelsi bianchi e neri; e ancora noci, nocciole, castagne. Le verdure e gli ortaggi erano innumerevoli, dai fagioli alle fave, verze, zucchini, melenzane, peperoni, insomma un vero bengodi che rendeva i mercati di Napoli i più ricchi e colorati, meraviglia dei viaggiatori stranieri. Della grande varietà di ortaggi e frutti che erano coltivati nel territorio cittadino, prevalentemente nelle zone collinari, alcuni, nel corso dei secoli, hanno assunto caratteristiche organolettiche particolari tali da diventare tipici

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rispetto a quelli prodotti in altri territori, dando luogo alla nascita di veri e propri ecotipi specifici. Talmente tipici, diffusi e di uso comune da entrare a pieno titolo, e spesso da protagonisti, perfino nella iconografia presepiale dal ‘700 in poi. Dalla terra quindi il napoletano traeva il suo sostentamento e nel corso dei secoli da quei frutti ha saputo creare piatti gustosi e ricchi di fantasia che sono il vanto della cucina tradizionale, adattando e accostando prodotti della terra a spezie, carni e aromi in un mix dai risultati sorprendenti e gustosi. La famosa foglia di cui erano ghiotti i napoletani altro non era che il broccolo friariello di

Ignoto XVIII sec., Napoli da Posillipo.


Napoli, una pianta ortiva da foglia che nell’area napoletana è coltivata da secoli, con varietà diverse ma tutte tradizionali della zona. I friarielli non sono altro che le infiorescenze del broccolo appena sviluppate, delle quali si utilizzano in cucina le foglie tenere ed i fiori, al gusto sono leggermente amarognole e un po’ piccanti; molto simili alle cime di rapa pugliesi. Tradizionalmente si preparano con aglio e peperoncino e si accompagnano divinamente alle salsicce fritte; sasicce e friarielli miezo ‘o pane erano, e spesso sono ancora, la colazione tipica dei braccianti e dei lavoratori in genere, tradizione fortunatamente acquisita e fatta

Carl Wilhelm Götzloff, Napoli dalla collina del Vomero. Prodotti: broccolo friariello, torzella, cicoria, cavolo.

propria anche dalla gioventù. Ma il broccolo è ottimo anche, come contorno, bollito condito con olio e limone o soffritto e unito alla pasta in un piatto dal sapore particolare. Quasi completamente dimenticata, nel secondo dopoguerra, quando i consumi e i gusti si sono

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andati via via massificando, la torzella, detta anche torza riccia o cavolo greco, è una pianta biennale della quale è in corso una intensa operazione di recupero e tipizzazione varietale. Ricca di minerali ed antiossidanti, il suo consumo era molto diffuso, sia a crudo che cotta, lessa, al vapore o saltata in

padella con aglio e peperoncino, e in gustose minestre invernali. Ma il tradizionale consumo di questa verdura si lega principalmente a un piatto che per secoli ha dominato le mense popolari, e non solo: la minestra maritata, che univa, appunto maritava, un ricco brodo di carni miste con un altret-

tanto misto di verdure ed aromi. Piatto sostanzioso e molto saporito, immancabile presenza nella tradizione culinaria natalizia e pasquale. Altra verdura che non mancava mai sulle mense, la cicoria verde di Napoli, una varietà tradizionalmente coltivata in tutta la provin-

cia napoletana, ma molti vi comprendono anche la cicoria selvatica (scientificamente il tarassaco) più amarognola e leggermente piccante che cresce spontanea nelle aree incolte e sui cigli dei terrazzamenti, lungo tutto il periodo invernale e primaverile. Della cicoria si utilizzano le foglie,

dalle coste frastagliate e croccanti, impiegate soprattutto come contorno alle pietanze di carne ma anche come materia prima della celebre minestra maritata di cui si è detto. Dall’odore non proprio elegante quando si cuoce, il cavolfiore gigante di Napoli è un altro dei prodotti tipici della zona napoletana, detto così per la notevole taglia dell’infiorescenza, bianca e compatta, e per la pianta che ha gambo eretto e robusto. Esistono diverse tipologie di prodotto, a seconda dell’epoca di maturazione del fiore: ottobratico, natalino, gennarese, marzatico, anche se quella principale è certamente quella autunnale che dà luogo alla produzione destinata all’insalata di rinforzo delle feste di Natale ed alla tipica e famosa pasta e cavolo, uno dei piatti più gustosi della gastronomia nostrana. Della zucca lunga di Napoli anticamente coltivata nell’area di Napoli, che nei secoli scorsi rappresentava il più ampio bacino di produzione in Italia insieme al Veneto, si utilizzano sia il frutto, la zucca appunto, che il fiore, il cosiddetto fiorillo o sciurillo. La varietà più diffusa è quella a frutto lungo con buccia liscia e sottile, polpa aranciato intenso, soda e dal sapore dolce e aromatico. Deve probabilmente le sue grandi qualità al clima e al terreno fertile di origine vulcanica. Da sempre la sua utilizzazione principale è quella di unirla alla pasta, pasta e cucozza, in una minestra saporita dal gusto leggermente dolciastro, ma ultimamente viene proposta anche fritta o gratinata. Con i fiorilli, si fanno ottime fritture, sia in pastetta che senza, e gustose minestre insieme ai talli, i gambi delle infiorescenze. Il peperoncino friariello di Napoli è una varietà tipica di tutta l’area napoletana, dai frutti piccoli e di forma conica e dal sapore dolce molto particolare. A maturazione completa essi sono rossi ma generalmente vengono commercializzati ancora verdi. Sono consumati soprattutto fritti, da cui deriva il nome friariello (frigitello), con aggiunta di pomodorini ed aromi vari. È uno dei prodotti più famosi dell’arte culinaria partenopea. Appartenente alla stessa famiglia

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MINESTRA MARITATA Ingredienti: mezza gallina, prosciutto crudo, polpa di manzo, salsiccia secca piccante, cotenna di prosciutto, carota, sedano, cipolla, prezzemolo, verza, scarola, borragine, torzella, cicoria, broccoli di Natale, sale. Preparazione: in una grande pentola mettere la gallina, il pezzo di carne, la salsiccia intera spellata, il prosciutto in un sol pezzo, le cotenne, carota, cipolla, sedano, prezzemolo e sale. Ricoprire d’acqua e far cuocere dolcemente come per il comune brodo. Lessare separatamente le varie verdure senza cuocerle troppo, scolarle e strizzarle in modo da eliminare tutta l’acqua possibile. Passare il brodo e immergervi le verdure cotte spezzettate, la salsiccia a fettine, il prosciutto, le cotenne, la carne e la gallina disossata, il tutto tagliato a pezzetti. Portare la minestra a bollore e lasciarla sobbollire per almeno due ore. La minestra dovrebbe riposare prima di essere consumata. INSALATA DI RINFORZO Ingredienti: cavolfiore, papaccelle, olive nere e bianche, sottaceti, acciughe salate, aceto, olio. Preparazione: scottate per qualche minuto in acqua salata il cavolfiore tagliato a grossi pezzi, lasciatelo raffreddare e poi in un’insalatiera conditelo con le papaccelle, i sottaceti, le olive bianche e nere, i filetti di acciuga, un po’ d’olio e aceto... Lasciate insaporire l’insalata per qualche ora e poi servite.


ma differente per forma colore e sapore, la papaccella riccia dalle brillanti colorazioni verde giallo e rosso, è uno degli ingredienti principali dell’insalata di rinforzo natalizia, che pur restando quasi immangiata fino all’Epifania, non può assolutamente mancare nel ricco menu di Natale; ma il suo uso, sempre nella versione sotto aceto, si estende anche come accompagnamento al baccalà, una vera delizia, oppure fritta con aglio e ancora al forno variamente imbottita o cruda affettata sottile mista ad altre verdure e ortaggi. Anche nell’area metropolitana di Napoli, sono da tempo immemorabile, coltivati i tradizionali e tipici pomodorini del piennolo da serbo, che pazienti ed abili mani provvedono dopo la raccolta a conservare nei caratteristici piennoli. La varietà più utilizzata è quella vesuviana, detta anche da muntagna come viene scherzosamente menzionato il Vesuvio dai partenopei. La caratteristica del prodotto è quella classica di tale tipologia: bacche piccole e di forma ovale allungata, a volte periforme, con buccia spessa e di colore rosso vivo uniforme. I

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pomodorini, oltre che conservati nel piennolo, possono essere anche trasformati artigianalmente per farne conserve o utilizzati per la produzione dei pomodori secchi, asciugati al sole e successivamente salati. Alimento per poveri un tempo, diventato poi uno “sfizio”, la pannocchia del mais spogna bianca è un’antica varietà di granturco, poco nota, ma tradizionale e tipica dell’area napoletana. Deve il suo nome al colore bianco perlaceo dei chicchi (le cariossidi) che compongono la pannocchia ed alla sua particolare dolcezza. È utilizzata esclusivamente per l’alimentazione umana ed è particolarmente richiesta per la preparazione delle celebri spighe, arrostite o bollite, leccornie tradizionalmente vendute dagli ambulanti del lungomare di Napoli tra fine agosto e gli inizi di settembre e in special modo nel periodo della Piedigrotta, l’antica e famosa festa popolare napoletana di fine estate. Oltre agli ortaggi molti erano i frutti che sono diventati tipici del territorio, primo tra tutti la melannurca campana. Da secoli coltivata anche in agro napoleta-

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no, soprattutto nella zona confinante con i comuni flegrei, è la mitica “regina delle mele”, che di recente ha avuto anche il riconoscimento comunitario dell’IGP. L’Annurca è conosciuta soprattutto per la spiccata qualità dei suoi frutti, dalla polpa croccante, compatta, bianca, gradevolmente acidula e succosa, con aroma caratteristico e profumo finissimo, una vera delizia per gli intenditori. Oggi trova impiego anche nella pasticceria d’élite, sebbene la sua trasformazione più celebre è quella delle mele cotte. Ed ancora la ciliegia della Recca di Chiaiano che deve il suo nome alla località Recca in agro di Marano, al confine nord del comune di Napoli, ove è stata selezionata, ma da decenni è intensamente coltivata soprattutto nel quartiere di Chiaiano di cui ne rappresenta anche l’icona, adottata, non a caso, dall’Ente Parco Metropolitano delle Colline di Napoli nel suo logo ufficiale. È una varietà tra le più pregiate e richieste dal mercato, una vera prelibatezza per i tanti estimatori non solo campani.

Pagina precedente. Salvatore Fergola, Napoli dalla salita Due Porte. Prodotti: zucca lunga, pereroncino friariello, papaccelle, pomodorini del piennolo, mais spogna bianca, mele annurche.

Ha un frutto medio-grosso di colore rosso brillante, la polpa è duracina, molto succosa, gradevole al palato e non aderente al nocciolo. Per le sue caratteristiche qualitative è in corso un’azione di tutela della denominazione e del relativo prodotto. Degno finale di ogni pranzo estivo la percoca puteolana, già descritta nell’800 dal Gallesio, è la varie-

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tà di percoca per eccellenza, contraddistinguendo da sempre la peschicoltura napoletana insieme alla “cugina” Terzarola, più tardiva. Proprio da essa deriva la tipologia produttiva delle percoche, termine adottato commercialmente ormai anche a livello internazionale, che contraddistingue appunto le pesche gialle a polpa compatta e aderente al nocciolo utilizzate

anche dall’industria per le famose sciroppate. I frutti sono di eccellente sapore e trovano ancor oggi grandi estimatori, soprattutto del sud Italia. Ancora diffuso è l’utilizzo di questi frutti nel vino, dando luogo alla celebre percoca nel vino, connubio non troppo lontano della spagnola sangria. La susina botta a muro (botta a muro, mortaretto popolare natali-

zio che scagliato al muro esplode) è la prugna più famosa delle tante varietà coltivate nell’area metropolitana di Napoli, anche perché è quella che ancor oggi è particolarmente apprezzata dai consumatori locali. È nota anche come settembrina nera proprio perché i suoi frutti maturano in questo periodo. La buccia è di un blu violaceo mentre la squisita e compatta polpa è di colore verde chiaro, non aderente al nocciolo, particolarmente aromatica. Una vera prelibatezza per gli intenditori. L’area metropolitana è a buon diritto inserita nella zona geografica di produzione anche della mitica noce di Sorrento, che pur essendo stata selezionata in agro sorrentino, si è diffusa nei decenni successivi un po’ in tutta la Campania. È difficile riscontrare masseria o azienda napoletana che non abbia attorno casa o disposte a filari piante di tale varietà, che dà luogo a frutti dal valore commerciale elevato. Infatti, essi, per le loro peculiari caratteristiche (guscio fragile, pellicola sottile, sapore dolce), sono particolarmente ricercati soprattutto in prossimità del periodo natalizio, per

essere utilizzati come frutta secca, insieme ad altre produzioni tipiche campane, come le nocciole, le castagne e i fichi del Cilento. Ma non solo. Infatti proprio ai napoletani si deve il consumo di noci fresche, nel periodo di fine estate, che è in crescita ovunque. A questo va aggiunta la richiesta delle noci di Sorrento ancora con l’involucro verde, il mallo, nella data particolare di San Giovanni, il 24 giugno, per la preparazione artigianale del celebre nocillo, elisir tutto napoletano, oggi posto in vendita anche da marche prestigiose. Il nocillo è ottenuto dalla macerazione in alcool, per 30-40 giorni, di noci verdi, mallo compreso, raccolte, secondo la tradizione, la vigilia di San Giovanni (23 giugno), in vasi di vetro, ben tappati ed esposti al sole. Dopo tale periodo si filtra e si unisce, a freddo, lo sciroppo preparato a parte con acqua sterilizzata e zucchero; alcune varianti prevedono l’aggiunta di chiodi di garofano e cannella. Si imbottiglia e si conserva in luogo fresco, lasciandolo maturare per almeno due mesi prima di consumarlo.

Per questi, e per molti altri prodotti tipici della Campania, gli enti preposti stanno incentivando una fattiva opera di recupero, per salvaguardarne e tutelarne la tipicità, e di promozione per svilupparne la produzione e il consumo anche attraverso progetti mirati come Hortus Conclusus e Sapore di Campania due opportunità che il consumatore intelligente dovrebbe cogliere al volo.

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Alexandre-Hyacinthe Dunouy, Napoli dallo Scudillo. Prodotti: ciliegie della Recca, percoche puteolane, susine botta a muro, noci di Sorrento.


Il paesaggio come futuro Verde urbano, un nuovo rapporto con la città [...] E ogni giorno costringevano sempre più i boschi ad arretrare sul monte e a lasciar posto in basso alle coltivazioni, per avere prati, stagni, ruscelli, messi e vigneti ubertosi sulle colline e nei piani, e perché la cerula fascia spiccante degli ulivi potesse correre a mezzo, diffusa per poggi e convalli e pianure; come ora vedi distinta da uno svariare gioioso tutta la campagna, che gli uomini adornano disponendo dolci pomari, e recingono con piantagioni di arbusti fruttiferi. [...]. Così Lucrezio nel De rerum natura (libro V) descrive la rivoluzione agricola: un momento decisivo per l’evoluzione della razza umana con la nascita, nel neolitico, dell’agricoltura e successivamente delle città. È l’inizio dello sfruttamento delle risorse naturali per soddisfare i bisogni primari, ma anche il principio di una volontà di instaurare un nuovo rapporto uomo-natura: il significativo punto di inserimento dell’uomo, come parte attiva, nella storia evolutiva del pianeta terra. È l’inizio dell’antropizzazione dell’ambiente naturale; per Lucrezio questo salto evolutivo segna l’affrancamento dalle pene inflitte dalla natura ostile, l’inizio di uno scambio proficuo, attraverso il quale l’uomo vive prendendo dalla natura nella natura. Si attraversa una fase arcadica, che Lucrezio narra tratteggiando scene dionisiache e frugali allo stesso tempo [...] così, tra amici, sdraiati sulla molle erba lungo un rivo d’acqua sotto i rami di un albero alto, con mezzi modesti davano piacere al corpo [...] la natura insegna anche la ciclicità degli eventi, con l’alternarsi delle stagioni, e l’uomo, facendo parte di essa, è anch’egli soggetto al ciclico alternarsi dei periodi di espansione e di contrazione della sua civiltà. Si passa da una sorta di pauroso rispetto verso il grande mistero della selva oscura, ad un rapporto di scambio, ad un ammonimento

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testo: Mimmo Ambrosino foto: Maurizio Cinque, Alfio Giannotti, Camillo Ripaldi/Archivio Fotografico Ente Parco Metropolitano delle Colline di Napoli, Archivio Altrastampa

per l’eccessivo sfruttamento delle risorse da parte del genere umano, che [...] tra inutili affanni consuma la vita, certo perché non conosce un limite al possesso e nemmeno fin dove s’accresca il vero piacere. L’antinomia sviluppo-sostenibilità non è quindi un problema esclusivo dei nostri giorni; coniugare la crescita di una civiltà, non solo con gli aspetti economici, ma anche con gli aspetti sociali e ambientali, è diventata oggi un’urgenza, ma accompagna l’umanità da sempre, come caratteristica costante della sua presenza sul pianeta. Quanto più una civiltà diventa complessa e opulenta, e non necessariamente questo cambiamento deve valere per tutti gli strati della popolazione, tanto più assorbe spazi e risorse e come un organismo che obbedisce a spinte

evolutive primarie, esaurisce prima la risorsa più facilmente disponibile, per poi passare alla successiva con il medesimo atteggiamento. Nei due secoli trascorsi l’industrializzazione ha inciso notevolmente sulla concezione di città moderna, portando con se tutte le problematiche legate alla trasformazione urbana: crescita demografica, aggressione al territorio, inquinamento. Questo periodo ha segnato il passaggio, il netto mutamento di forma, dalla città antica a quella moderna, mutando anche il rapporto uomo-natura; l’uso armonico del territorio, che ha caratterizzato per millenni la nostra civiltà, ha comportato comunque un rapporto più diretto, anche se crescentemente ridotto, con il naturale. L’umanità è come Persefone, rapita da Plutone, strappata alla madre Demetra, dea dei campi e

dell’agricoltura, e trascinata in un mondo oscuro e attraente, che porta in dono la ricchezza; Plutone, il ricco, è spesso rappresentato con il corno dell’abbondanza, e porterà anche la plutocrazia, che ha caratterizzato e caratterizza la nostra epoca. Questa epoca di enorme sviluppo ha trasformato, in breve tempo, realtà territoriali rimaste pressoché immutate per millenni; il paesaggio descritto nel De rerum natura non è molto dissimile da un paesaggio mediterraneo di appena due secoli fa. Fino al 1500, Napoli, cinta dalle mura aragonesi, si è sviluppata in maniera armoniosa, lungo gli antichi assi viari, adagiandosi sui pianori costieri, e destinando le aree extra moenia, alle attività agricole e alle “ville di delizie” della nobiltà, basti pensare alle scomparse

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Affresco pompeiano, La Flora. Vetro cammeo, Dionisio e Arianna.


villa della Duchesca e di Poggio Reale, delle quali sopravvivono solo i toponimi, il primo, nella zona alle spalle di piazza Garibaldi, il secondo che richiama emotivamente l’omonimo carcere e l’area circostante. Con l’avvento della conquista spagnola e la trasformazione da regno a viceregno, la città cambia rapi-

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damente. La politica di accentramento del potere attuata dai viceré, attira nella capitale del viceregno, per poterla meglio controllare, la ricca e riottosa nobiltà di campagna che esprime immediatamente una incontrollabile fame abitativa; si costruisce dovunque, dentro e fuori le mura, e a nulla valgono le “prammatiche sanzioni”

emesse dai governanti, per impedire o limitare questa frenetica attività edilizia. Tutti gli spazi urbani sono riempiti con palazzi, ville cittadine, e tanti, tantissimi monasteri, fabbriche che al loro interno continuano, tuttavia, a contenere ampi spazi verdi destinati a giardino e a orto. L’agricoltura, espulsa dalla città e

dai suoi immediati dintorni, prende a risalire le pendici delle colline, trasformandole in terrazzamenti produttivi, sulle quali sorgeranno numerose ville extraurbane e casolari: il paesaggio di Napoli inizia a cambiare volto. Anche il tessuto sociale cambia volto, la frenetica attività edilizia, la presenza di una nobiltà deside-

rosa solo di apparire e possedere, che spende largamente dando fondo ai cospicui patrimoni familiari, attraggono nella città masse di diseredati provenienti dalle campagne ormai prive di veri centri di potere e di possibilità di lavoro; il popolo si trasforma in plebe, quella plebe che darà prova della sua disperazione, mutata in

ferocia, nella rivolta di Masaniello; lo stesso popolo che però non sostenne le minoranze illuminate protagoniste della breve avventura repubblicana del 1799. Napoli Gentile, così, ancora fino alla fine del ‘600, i cartografi definivano la città con il suo impareggiabile paesaggio, si avvia a diventare quel paradiso abitato da diavoli

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In alto al centro. Francesco Pagano (attr.), Tavola Strozzi. A sinistra. E. DupéracA. Lafréry, Pianta di Napoli, 1566. A destra. Matteo Florimi, La città di Napoli Gentile, 1600 ca.


più volte descritto dai viaggiatori stranieri; e questa realtà conviverà con quella arcadica tramandataci dalle tante immagini, dalle gouaches alle cartoline, che diventeranno nei secoli uno stereotipo, una specie di marchio indelebile per una città quasi condannata alla bellezza. La colonizzazione delle aree collinari continua, senza eccessivi scossoni, progressivamente, per un paio di secoli fino alla svolta ottocentesca della trasformazione neoindustriale e dell’incremento demografico che riguarderà le maggiori città europee.

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La città di Napoli vive molto in ritardo questo momento di urbanizzazione e sviluppo; le grandi trasformazioni territoriali cominciarono soltanto nel XX secolo. La Napoli dell’800, cinta dal suo sistema di colline, in gran parte non urbanizzate, viveva ancora un felice rapporto di equilibrio con la ricchezza della sua Natura. La fortuna internazionale del territorio napoletano era, in quel periodo, al suo apice; le rappresentazioni di Napoli, anche se influenzate da una visione romantica, rendevano appieno la stupefacente bellezza di questa terra.

In alto. Paolo de Matteis, Allegoria della prosperità e delle arti nella città di Napoli. A sinistra. Carl Wilhelm Götzloff, Napoli da Posillipo. A destra. Cartolina di inizio ‘900, Posillipo.

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La forma del territorio è in stretto rapporto con la forma della città: le colline di Posillipo, del Vomero e dei Camaldoli, fino a Chiaiano, la separano dai Campi Flegrei e dai terreni produttivi della Liburia, la Terra di Lavoro; e il pianoro di Capodimonte spinge il suo sviluppo ad est verso il Vesuvio. È nell’800 che le colline di Napoli entrano a far parte di un sistema produttivo e di approvvigionamento per i bisogni della città; mentre le colture orticole erano destinate all’area orientale, sulle pendici delle colline, fino ad ora quasi incolte, si sviluppano le colture arboree. Questo momento coincise con la realizzazione, sulle colline di Posillipo, del Vomero e di Capodimonte, di numerose ville che univano al godimento di giardini e splendidi panorami, una produzione agricola a fini di reddito. Il paesaggio collinare cambia aspetto; si sviluppano in modo particolare gli agrumeti, disboscando e mettendo a coltura le aree occupate dalla macchia mediterranea e innestandosi nelle zone prima destinate alla coltura dell’ulivo. I terreni sulle pendici delle colline, modellati dai terrazzamenti e coltivati a frutteto,

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In alto. Heilmann de Rondchatel, Panorama di Napoli e dei suoi dintorni preso dal forte di Sant’Elmo. Sotto. Particolare delle colline da Capodimonte ai Camaldoli. Al centro. Particolare del golfo. In basso. Particolare della collina di Posillipo e dei Campi Flegrei.


A. GuesdonE. Rouargue, Veduta di Napoli presa da sopra l’entrata del porto, 1840. A destra. Le aree del Parco Metropolitano delle Colline di Napoli.

diventano una caratteristica fondamentale del paesaggio napoletano. Oggi questo paesaggio è certamente molto cambiato, le trasformazioni dell’ultimo secolo hanno sfruttato il verde urbano soprattutto come area edificabile in un connubio non sempre armonico con l’ambiente naturale circostante, ma Napoli conserva ancora, in quel che è rimasto della sua foresta urbana, delle caratteristiche preziose se osservate da un punto di vista diverso. La città deve ripensare al suo sviluppo in termini di sostenibilità ambientale e non più come centro di consumo;

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la salvaguardia e l’uso adeguato del patrimonio naturale, devono servire per migliorare la qualità della vita. Allo scopo di tutelare le aree rurali della città, la Regione Campania ha istituito, nel 2004, il Parco Metropolitano delle Colline di Napoli, con l’intento principale di salvaguardare l’integrità fisica e l’identità culturale di quella parte del territorio napoletano in cui ancora resistono vaste zone boschive e/o rurali. L’obiettivo è quello di compensare le contraddizioni esistenti tra le aree densamente edificate e le aree rurali, con lo scopo di ripristinare un rapporto intenso e continuativo tra le

zone di margine e il centro della città. Il Parco tutela un’area a nordovest della città che va dalle pendici dei Camaldoli, in corrispondenza della Conca dei Pisani, e si estende fino a Capodimonte, per una superfice complessiva di 2.215 ettari, di cui la metà sono ancora destinati ad attività agricole. Oltre a questo ambito territoriale, che si sviluppa da ovest ad est senza soluzione di continuità, il Parco comprende anche la collina di San Martino che, con il suo antichissimo impianto agricolo, costituisce a tutti gli effetti il centro storico del Parco nella città. Il

sistema collinare, insieme alla collina di Posillipo che è compreso nel Parco dei Campi Flegrei, in molte parti è strettamente connesso con il fitto tessuto edilizio cittadino ed è caratterizzato dalla presenza dei valloni, che si alternano ai fondi rustici terrazzati, coltivati o meno, e da numerose cave di tufo in gran parte dismesse. Nell’800 il “parco” era una categoria spaziale ed estetica ben definita nella città, con un concetto di Natura delimitata e realizzato essenzialmente per lo svago e la salute dei nobili o dei semplici cittadini. In un certo senso era la Natura, controllata dall’uomo, che

entrava in città; oggi, in un epoca di globalizzazione e di emergenza ecologica, è la città che entra nella natura, e si rivolge ai suoi margini territoriali, non per sfruttarli, ma per coinvolgerli in un progetto di sviluppo compatibile sia per l’ambiente che per i suoi abitanti. Questo rinnovato rapporto uomonatura si dovrà tradurre in strumenti operativi. In questa ottica il Parco ha individuato particolari ambiti di intervento: la tutela e l’incentivazione dell’agricoltura in città, il riutilizzo delle cave dismesse a fini ricreativi e culturali, il recupero delle masserie come strutture ricettive.

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Le aree inserite nel Parco sono: le pendici della Conca dei Pisani, la collina dei Camaldoli, la Selva e le masserie di Chiaiano, il Vallone San Rocco, lo Scudillo e la zona collinare di Santa Maria ai Monti e l’area della collina di San Martino. La Conca dei Pisani è un’area a prevalente vocazione boschiva, sulle sue pendici si sviluppa un’agricoltura in terrazzamenti ampi, realizzati nel corso del tempo e sostanzialmente a fine ‘700, che seguono l’andamento della collina, fino a ricongiungersi con la confinante area del Parco Regionale dei Campi Flegrei. In quest’ambito la tutela riguarda la conservazione dei superstiti spazi agricoli, del vasto bosco, e il recupero delle discariche fortunatamente dismesse. La collina dei Camaldoli, geologicamente ancora parte dei Campi Flegrei, è poggiata, come tutto il sistema orografico napoletano, su un basamento di tufo giallo napoletano, prodotto dell’eruzione dell’ignimbrite campana di 35.000 anni fa. L’attività estrattiva del tufo come materiale da costruzione, che non ha mai subito interruzioni nel corso dei secoli, ha lasciato numerosi segni sul territorio, soprattutto in tempi recenti con le cave non più sotterranee,

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ma a cielo aperto. In tutta l’area del Parco si contano più di 180 cave a cielo aperto, il tema del loro recupero è uno dei punti nodali della riqualificazione urbanistica programmata. La collina, che prende il nome dall’eremo fatto costruire a metà del XVI secolo da Giovanni d’Avalos su progetto di Domenico Fontana, con i suoi 458 metri di altitudine è il punto più alto della città e un

In alto. Le pendici della collina dei Camaldoli. Al centro. Il bosco dei Camaldoli. Sotto. La collina dei Camaldoli. Pagina precedente. Le pendici della Conca dei Pisani.


In alto. Il bosco dei Camaldoli. Al centro. Sentiero nel Parco dei Camaldoli. Sotto. L’orto dell’Eremo. Pagina successiva, dall’alto. Heilmann de Rondchatel, Panorama di Napoli e dei suoi dintorni preso dal forte di Sant’Elmo, particolare della collina dei Camaldoli. Giovanni Cobianchi, L’Eremo dei Camaldoli. Ignoto XIX sec., Veduta dei Campi Flegrei dai Camaldoli. Cartolina di inizio ‘900, veduta dai Camaldoli.

tempo era chiamato Prospetto; proprio perché da questo punto si poteva cogliere, in un’unica visuale, la spettacolare sequenza del golfo di Napoli e delle sue isole, fino ai lidi flegrei. La collina abbraccia verso sud le conche di Soccavo e Pianura, e si estende verso Quarto, ad ovest, fino alle pendici della Conca dei Pisani. I versanti a sud sono molto scoscesi con una prevalente vegetazione di macchia mediterranea, la parte a nord scende più dolcemente, verso la zona dei Cangiani, ed è coperta da un bosco ceduo di castagno; la pratica della ceduazione, il taglio periodico dei rami giovani per uso commerciale, è continuata fino a venti anni fa ed ha generato un bosco molto omogeneo, lasciando poco spazio ad altre essenze arboree. Ai margini del bosco, dove i castagni sono meno fitti e lasciano penetrare la luce, troviamo la Robinia e una pianta ornamentale originaria

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In alto. Le pendici della collina dei Camaldoli sul versante di Pianura. Sotto. Il bosco dei Camaldoli in una veduta aerea.

della Cina, la Buddleja, che si è ormai naturalizzata. Parte della collina rientra già nel Parco dei Camaldoli, inaugurato, per un terzo della sua estensione, nel 1996; uno degli obiettivi del Parco è la diversificazione delle essenze arboree, con l’impianto di specie più adatte ad una fruizione pubblica. Il Parco delle Colline prevede

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il completamento e l’estensione della superfice tutelata con la realizzazione di una riserva naturale e la riqualificazione della vecchia cava di tufo. Proseguendo dalla via dell’eremo verso nord, si attraversano quelli che erano gli antichi villaggi di Nazareth e dei Guantai e si entra nel territorio degli antichi casali di

Chiaiano e Polvica. È un territorio emblematico della complessa morfologia dell’agro napoletano: un intreccio tra boschi, centri abitati di recente edificazione a cui, spesso, mancano seri requisiti estetici, borghi cinquecenteschi e quel che resta di un prezioso sistema di antiche masserie in parte ancora produttivo. Mentre i casali,

che risalgono al X secolo, si addensarono attorno alle chiese e ai punti nodali delle antiche vie verso la città, le masserie, sviluppatesi molto più tardi, tra il XVII e il XIX secolo, erano strutture meno stabili e più legate all’attività produttiva del fondo. Proprio la presenza di tali emergenze architettoniche ha indotto il Parco a considerare questa zona come un ambito a se stante, quello appunto delle Masserie di Chiaiano, nel più ampio ambito della Selva di Chiaiano; esso prevede il recupero funzionale delle strutture di maggior interesse e la riconversione a fini turistici o culturali come già avvenuto in altre zone periurbane della città come Casoria e San Pietro a Patierno. La denominazione di masseria risale etimologicamente a quello di massa che in età romano-bizantina indica il possesso latifondiario, inteso come possesso di beni rustici. La trasformazione da massa a masseria rileva una più marcata accentuazione della matrice fondiaria propriamente agraria e si sposta sulla struttura più che sull’attività. Molte di queste fabbriche versano purtroppo in uno stato di abbandono totale con la vegetazione che ormai ha preso il sopravvento invadendo ambienti e terreno circostante in un unico groviglio. Normalmente le masserie si sviluppavano con un impianto a corte su due piani collegati da una scala esterna, con i locali inferiori destinati alle attività agricole e a depositi di derrate, e quelli superiori ad abitazione. Solo una di queste masserie oggi è ancora operante, come azienda agrituristica, ed è una delle poche ad avere un terreno agricolo molto esteso. Nel 1600 si formò il Borgo di Santa Croce, che poi venne riunito ai casali di Polvica e Chiaiano nel 1807. In questi due secoli si assiste ad una forte ripresa delle attività agricole; le masserie colonizzano il territorio costituendo un sistema produttivo molto efficiente, che rifornisce la città di Napoli con prodotti di altissima qualità: come le pregiate ciliegie ‘a Recca che prendono il nome dalla piccola collina di Marano, dove vengono coltivate fin dal XVI secolo, che “emigrate” nella zona di Chiaiano

In alto e al centro. Giambattista Porpora, Mappe dei territori dei casali di Polvica e Chiaiano, 1776/1779. Sotto. Casale a Chiaiano.

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sono diventate ecotipi specifici di quest’area e costituiscono ancora oggi un primato nella produzione italiana. Territorio vocato alla produzione frutticola, in cui si trovano anche vasti meleti e ampi appezzamenti con alberi di percoche e prugne. Chiaiano dal 1637 diventa feudo dei principi Caracciolo, che abiteranno l’omonimo palazzo fino al 1828; come altri palazzi nobiliari nella zona è stato frazionato e modificato in più parti. Un edificio interessante è villa La Decina, in via Camillo Guerra, che presenta in facciata elementi della simbologia iniziatica dei Templari: una figura in armatura e un bafometto, simile a quello presente nel federiciano Castel del Monte. È una delle testimonianze del movimento culturale e massonico che si formò a Napoli agli inizi del ‘700; insieme a villa Heigelin, situata al limite orientale del Parco, tra Santa Maria ai Monti e la Calata Capodichino, dove erano di casa Goethe e Giuseppe Balsamo, al secolo Cagliostro. Un percorso esoterico sembra snodarsi tra l’ambiente poroso delle colline, che serbano ancora dei segreti; è recente la scoperta, in una cavità all’altezza di via Cattaneo sul versante meridionale dello Scudillo, di alcuni ambienti che potrebbero essere stati la sede dell’Accademia Secretorum Naturae, l’Accademia dei Segreti di Giambattista della Porta, chiusa dall’Inquisizione nel 1578. La parte più fitta della Selva di Chiaiano è il Bosco delle Cinque Cercole, un castagneto ceduo che è stato un’importante risorsa economica per la zona, segnato a nord e a sud da due grosse cave ancora in uso. Non essendo l’attività estrattiva compatibile con gli strumenti di tutela e quindi destinata ad essere interrotta, le cave, come

le aree industriali dismesse, possono svolgere un ruolo molto importante per la riqualificazione del territorio. I grandi spazi risultati dalla asportazione del tufo possono essere luoghi di grande suggestione; l’atto del togliere materia è risultato nel tempo meno dannoso della proliferazione dell’opera di

sversamento, del tutto arbitrario, di materiali residuali dell’abusivismo edilizio degli ultimi decenni. Le alte pareti di tufo, che spesso terminano con i cigli terrazzati delle aziende agricole sovrastanti, conformano spazi di grande impatto visivo. Una volta messe in sicurezza le cave possono diventa-

re attrezzature a scala urbana per la cultura, lo sport e lo spettacolo. Oppure, per quelle non adatte a questi scopi, si possono seguire esempi di riconversione già attuati in altre regioni, dove sono state utilizzate per scopi produttivi impiantando centrali fotovoltaiche.

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Ciliegeto e melai a Chiaiano. Pagina precedente. Vecchia cava a Chiaiano e particolare di villa La Decina.


In alto. Villa Faggella sul Vallone San Rocco. Sotto e di lato. Il Vallone San Rocco.

Ad est di Chiaiano, dopo Santa Croce, vi è forse la parte meno conosciuta delle colline napoletane: il Vallone San Rocco. Una lunga e profonda fenditura che, per circa 6 km da ovest ad est, delimita in alto la zona ospedaliera, i Colli Aminei e, snodandosi lungo il confine nord del Bosco di Capodimonte arriva a circoscrivere, a valle, il pianoro di Santa Maria ai Monti. Tra i valloni pre-

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senti nel Parco è sicuramente quello più lungo e articolato e, pur se poco conosciuto, è sempre stato utilizzato nei modi più diversi. Per la sua particolare posizione non è facile percepire visivamente il taglio del vallone, che si nota solo in alcuni punti sopraelevati e in corrispondenza dei ponti che lo superano. Il fatto di essere nascosto alla vista ha favorito nel tempo un uso promiscuo, che ha prodot-

to numerose trasformazioni ed anche manomissioni. Anticamente utilizzato per le attività pastorali, il vallone prende il nome dal santo protettore a cui si affidarono i cittadini in occasione della pestilenza del 1656 e a cui dedicarono una piazzetta nelle vicinanze. Il punto più alto e panoramico del vallone, sul lato orientale, per la sua posizione isolata fu scelto, agli inizi del 1600, come luogo di spirituali-

tà dalla comunità dei Padri Pii Operai; i religiosi, trasformando una masseria con le sue pertinenze agricole diedero origine al complesso conventuale di Santa Maria ai Monti. A metà del secolo si costruisce la chiesa su progetto di Cosimo Fanzago; a causa dei gravi danni provocati dai terremoti del 1628 e del 1732, la chiesa è stata più volte ripristinata, con l’ultimo sisma del 1980 il complesso conventuale viene chiuso e dopo un

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In alto e a sinistra. L’area di Santa Maria ai Monti. A destra. Servizio dell’oca, salita Santa Maria ai Monti.


lungo restauro è stato riaperto pochi anni orsono. Con la realizzazione della Reggia e del Bosco di Capodimonte, il Vallone San Rocco nel ‘700 diventa un sito ambito dai personaggi a cotè della corte borbonica, che vi fanno costruire le loro residenze. Una delle più rappresentative è sicuramente Villa Paternò, ora Faggella, visibile dal ponte di San Rocco. È un esempio emblematico dell’architettura settecentesca napoletana e in special modo della tipologia di villa in collina; trasmettendo in egual misura il senso

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di isolamento della struttura e il suo perfetto inserimento nell’ambiente naturale. Questo rapporto dialettico con la natura è rafforzato dalla concatenazione di spazi esterni ed interni, che dal portale di ingresso in piperno portano al giardino retrostante che affaccia sul vallone e sul bosco. In questo periodo il vallone fu utilizzato da Carlo di Borbone come riserva di caccia al cervo e al cinghiale; alle aee boschive si alternavano i terrazzamenti ricolmi di alberi da frutto e vigneti, le particolari condizioni bioclimatiche e la fertilità

del suolo, favorivano la concentrazione di una grande varietà di specie vegetali e animali. Le condizioni ambientali rimangono inalterate per tutto l’800, anche se è in questo periodo che inizia l’attività estrattiva del tufo in questa zona, servito principalmente per le grandi opere del Risanamento a Napoli lungo il neo tracciato asse viario che prenderà il nome di corso Umberto I; durante la grande guerra fu usato come area per manovre militari e nella seconda guerra mondiale, le numerose cave presenti servirono

da rifugio durante i bombardamenti aerei. Dagli anni ’50 in poi e soprattutto negli ultimi trenta anni, il degrado ambientale raggiunge livelli preoccupanti; il vallone diventa sede di discariche abusive e nell’alveo del torrente San Rocco vengono addirittura confluiti gli sversamenti delle acque di scarico del II Policlinico. Pur conservando un aspetto unitario dal punto di vista vegetazionale, il vallone si può suddividere in quattro aree diversamente caratterizzate: la zona più occidentale, dove ci sono la maggior parte delle

cave; il Boscariello, a confine con Miano, che conserva maggiormente le caratteristiche rurali originarie; la Pianella, che segue il confine nord del Bosco di Capodimonte; Santa Maria ai Monti, dove l’alveo del torrente San Rocco scompare, coperto dalle nuove strade, nelle vicinanze di villa Heigelin. Il Vallone San Rocco è un concentrato dei problemi e delle potenzialità del territorio collinare metropolitano; i danni prodotti dall’aggressività dell’intervento umano sono molto evidenti ed è necessario individuare strumenti

per porvi rimedio al più presto, ma le possibilità insite, in quello che possiamo considerare un vero e proprio canyon mediterraneo al centro della città, si possono ancora cogliere pienamente e realizzare una riserva naturale che poche città al mondo possono annoverare nel proprio territorio. L’urbanizzazione settecentesca riguardò anche le aree dello Scudillo e del Moiariello, rispettivamente ad ovest e ad est della Reggia di Capodimonte. In epoca precedente erano comunque presenti numerose case coloniche,

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Al centro. Il bosco di Capodimonte. In questa pagina, dall’alto. Salvatore Fergola, La collina di Capodimonte. Anonimo XIX sec., Napoli dalle pendici dello Scudillo. Saverio Della Gatta, I Ponti Rossi.


Veduta di Napoli dallo Scudillo. Pagina successiva. La salita dello Scudillo e antichi casolari della zona.

che si sono poi trasformate fino a diventare dei casini di vacanza. Ma la produzione agricola non smette di avere un ruolo fondamentale, anzi, il suo sviluppo influenza l’evoluzione stessa delle residenze signorili. L’attività agricola in collina comincia a diventare nel XVIII secolo un comparto importante nell’economia della città; le strutture rurali e signorili si evolvono come delle vere aziende agricole.

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A differenza dell’epoca feudale, quando il rapporto tra il nobile e i suoi contadini rasentava la schiavitù, queste piccole comunità autosufficienti erano strutturate secondo ruoli e mansioni ben definiti, con la gestione del fondo che affianca produttivamente gli usi di svago e di rappresentanza. Le ville rapidamente colonizzano i punti più prestigiosi e panoramici delle colline; lo sfarzo delle dimore e i

rigogliosi giardini che si innestano nel verde rurale, sembrano seguire un generale progetto che coniuga estetica e produzione. Il sistema di terrazzamenti e ciglionamenti raggiunge lo stato dell’arte, contribuendo a controllare il dissesto idrogeologico, ma anche a disegnare e caratterizzare inconfondibilmente il paesaggio. L’orografia dei pendii è il frutto dell’azione impetuosa delle acque che per

millenni si sono riversate da Capodimonte; la sua irregimentazione è sempre stato un serio problema per il Borgo dei Vergini, basti pensare alle cosiddette lave che periodicamente si riversavano dalle sovrastanti colline provocando danni e lutti, risolto solo a metà del Settecento, quando si posa la pavimentazione in basolato. È un momento felice per la città anche per le scelte urbanistiche; si

costruisce in questo periodo il tracciato di via Foria e piazza Cavour, nell’alveo dove confluivano le acque provenienti dalle colline. Un’importante opera di risanamento che oltre a spingere la città verso la modernità, metteva in comunicazione la sua parte più antica con i borghi e le colline. È una nuova immagine della città; con la sequenza dell’imponente mole dell’Albergo dei Poveri e la

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In alto. Saverio Della Gatta, La salita dello Scudillo. Luigi Salvatore Gentile, La collina di Capodimonte.

cortina di palazzi settecenteschi fino al Museo, allora Palazzo dei Regi Studi, avvolti dalle colline che digradando si insinuano nel fitto tessuto della città storica. Il nuovo ingresso d’onore sostituisce quello rinascimentale di Porta Capuana, dove ancora nel 1734 era stato accolto dalla nobiltà napoletana Carlo di Borbone, diciottenne nuovo Re di Napoli e primo sovrano in assoluto ad abitare stabilmente nella città. Si afferma un rapporto strettissimo e proficuo con le selve urbane, l’economia agri-boschiva delle colline evolve con la città; un ulteriore impulso allo sviluppo delle attività agricole viene dalla realizzazione del Real Orto Botanico, Giuseppe Bonaparte nel 1807 inaugura la struttura, che doveva servire alla [...]

moltiplicazione delle spezie utili alla salute, all’agricoltura e all’industria. Ma non evolve parallelamente il tessuto sociale napoletano; le scelte urbanistiche, che sono anche espressione della volontà di controllo del potere dominante, non riescono a dare risposta alle esigenze degli strati più bassi della popolazione. La proliferazione edilizia in breve tempo satura i residui spazi urbani disponibili, creando situazioni di grave compressione sociale. La modernizzazione settecentesca, con i suoi echi illuministici e massonici, incrina profondamente lo stretto rapporto tra la cultura religiosa e la cultura laica; con la soppressione nel 1773 della Compagnia di Gesù, che in un certo senso moderava il lassismo

della nobiltà partenopea, inizia un periodo di decadenza dell’aristocrazia napoletana che pensa più a gloriarsi della pomposità dei titoli, che a svolgere il proprio ruolo nello sviluppo sociale ed economico della città. La corte privilegia i rapporti con la ricca e indocile nobiltà di campagna, che volge a proprio esclusivo favore le possibilità date dalla soppressione dei vincoli feudali, peggiorando di fatto le condizioni di chi trae sostentamento dalla fitta rete di piccole economie contadine attorno alla città. In questo fertile humus in cui si sviluppano le spinte rivoluzionarie della nuova classe borghese, non cresce però il sostegno popolare; l’improvvisa democratizzazione che le nuove idee rivoluzionarie proponevano, era nettamente in contrasto con le tradizioni civili e religiose che il popolo comunque sentiva intimamente proprie. Il popolo non chiede altro, da sempre, che gli strati sociali più elevati si assumano le piene responsabilità che derivano dai rispettivi ruoli. Il XX secolo ha prodotto le trasformazioni che ben conosciamo, ma questo ambito territoriale del Parco, presentando i punti di maggior connessione con la parte più densa della città, è la porta naturale per accedere ad un itinerario che permette di cogliere, in successione, la varietà morfologica e architettonica dell’area metropolitana di Napoli. Ancora oggi è possibile, procedendo dalla città antica verso le colline del Moiariello e dello Scudillo, percepire le successive stratificazioni urbane; attraversando il Borgo dei Vergini, caratterizzato dall’originale linguaggio del Barocco napoletano, si arriva in prossimità delle Fontanelle, dove l’architettura si semplifica nelle sue forme fino ad assumere l’aspetto e la modestia delle abitazioni rurali immerse nel verde agricolo, per poi rivelare, man mano che si sale, la presenza di masserie e residenze nobiliari settecentesche. Le numerose cavità presenti non sono tutte derivate dall’attività estrattiva; il tufo nudo dello Scudillo, fin dalla prima colonizzazione greca, è stato oggetto di interesse per la realizzazione di ambienti sotterranei; come gli splendidi ipogei greci

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della zona dei Cristallini, che hanno restituito intatti reperti archeologici di rara bellezza. Al Moiariello il passaggio nel tempo è più rapido e subito ci si allontana dalla frenesia cittadina, le vie per colles offrono qui dei punti di vista unici sull’intero golfo di Napoli, con la città distesa che mostra per intero tutta la sua storia. La collina per eccellenza nella storia della rappresentazione della città di Napoli, è l’unica area isolata del Parco Metropolitano Collinare: il colle di San Martino, che la Tavola Strozzi raffigura nella Napoli del XV secolo, con il Castel Belforte, così si chiamava allora Sant’Elmo, che immerso nella fitta vegetazione delle pendici, domina dall’alto la città. L’altura è stata sempre protagonista delle vedute di Napoli, e la sua evoluzione è ben documentata dalle numerose rappresentazioni, non solo vista dal mare, ma anche dall’Eremo dei Camaldoli, come a fine cinquecento la ritrasse van

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Stinemolen. A questo secolo risale l’impianto della vigna dei Certosini; con l’ampliamento della clausura di San Martino, poi circondata dai muri che ancora adesso la cingono. La vigna viene gestita dai religiosi con alterne fortune, quando alla fine del Settecento la gestione delle attività agricole viene affidata per breve tempo a privati; con la restaura-

zione borbonica del 1799 la Certosa viene sequestrata e l’Ordine espulso; varie famiglie poi si avvicendano nella conduzione del fondo nell’800 e le colture, oltre all’antichissimo impianto dei vigneti, si arricchiscono di olivi e alberi da frutto. La vigna scampa miracolosamente alla speculazione edilizia nel 1939, quando il Piano Regolatore dell’epoca aveva

programmato per le aree di San Martino e dello Scudillo uno sviluppo intensivo di edilizia residenziale. La vigna vive un periodo in cui l’attività agricola perde il senso dei contenuti originari; l’orografia del terreno richiede cure costanti ed impegnative per le colture, che i margini di reddito, in un sistema economico ormai cambiato, non consentono più di sostenere. Il

mantenimento a regime di una simile proprietà, richiede una diversa visione del concetto di agricoltura in città. Negli anni ’80 la vigna viene venduta e la nuova proprietà inizia un accorto recupero dei coltivi, delle possenti strutture murarie che contengono gli appezzamenti di terreno e del complesso sistema di governo delle acque. Nella nuova gestione

la vigna di San Martino ritorna protagonista, non solo per l’attività agricola che viene ripristinata pienamente, ma anche come attore culturale della città. Nel 1999 viene fondata l’Associazione Amici della Vigna, a cui aderiscono numerose personalità cittadine, con lo scopo di conservare e curare quello che è un simbolo dell’iconografia di Napoli, facendo interagire l’originaria natura agricola recuperata con nuove funzioni culturali. Gli oltre sette ettari di estensione della proprietà, negli ultimi anni sono stati teatro di numerosi eventi culturali; nella magica atmosfera della vigna, natura e cultura interagiscono e influenzano gli animi, e l’esperienza culturale si arricchisce di una componente dionisiaca. Sebbene rientri nella perimetrazione del Parco dei Campi Flegrei, non si può non includere nel sistema collinare di Napoli la collina di Posillipo, che è l’ininterrotta continuazione dell’arco vulcanico che

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In alto, al centro e sotto. La vigna di San Martino. La collina di San Martino rispettivamente nella Tavola Strozzi, in un piatto del Servizio dell’oca e in un olio di Gaspar van Wittel.


Vigneto a Posillipo sul versante della Gaiola.

inizia dalla Conca dei Pisani e si chiude con l’isola di Nisida. È il risultato di un’attività vulcanica continuata fino a 5.000 anni fa, quando le pause eruttive hanno permesso le prime colonizzazioni; d’altronde la mitologia greca ambienta la battaglia dei Giganti proprio nei Campi Flegrei, Ovidio descrive la terrificante potenza con cui i Titani sovrapposero montagne sopra montagne… e scagliavan tali scogli, che parecchi di essi ricadendo sulla terra formavano alti monti, ed isole se piombavano nell’acqua… in modo che l’uomo non dimentichi la forza della natura di questa terra, abbagliato solo dalla sua bellezza. Se la rappresentazione nella Tavola Strozzi, della Napoli del XV secolo, ci permette di cogliere il sistema delle colline come uno sfondo per la città, oggi il parallelo ipertecnologico delle immagini satellitari, ormai alla portata di tutti, ci permette di cogliere una visione di insieme, in tre dimensioni, della splendida unicità geologica di Napoli e delle sue colline. Quando la Natura distrugge, come nel caso di un eruzione vulcanica, restituisce sempre in termini di vita; la ricchezza di forme e la fertilità di questa terra ne sono un esempio.

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La bellezza di Posillipo non si discute ed è stata sempre celebrata, come noti ed apprezzati fin dall’antichità sono stati i prodotti della sua terra. Oggi nuove aziende sono sorte, puntando soprattutto sulla qualità che la ricchezza del suolo e l’esposizione permettono di ottenere; la produzione di falanghina dei Campi Flegrei, piedirosso e catranesca (catalanesca), pur non contando su grandi numeri, sta diventando una interessante realtà nel panorama enologico campano. Alla Gaiola un’altra azienda superstite, che su oltre tre ettari di superfice terrazzata, verso la Baia di Trentaremi, coltiva falanghina, olivi e albicocchi ancora con metodi tradizionali, sta progettando una riconversione che sia compatibile con fini culturali e ricreativi. E infine Nisida, l’isola che non c’è dei napoletani, il cui nome suona dolce come un bel nome di donna, come disse Benedetto Croce, che la visitò nel 1894, quando ancora era un’isola e la rupe da cui dominava il castello era ancora ricoperta da una fitta selva e da terrazzamenti coltivati. Dopo i lontani fasti di epoca romana, alla fine del XVI secolo l’isola assume il ruolo di luogo di segregazione e in parte lo

conserva tutt’ora; da lazzaretto per le navi provenienti da luoghi a rischio di peste, insediato sullo scomparso scoglio del Chiuppino, a bagno penale e attualmente come sede dell’Istituto Penale Minorile. È negli anni ‘30 dell’ultimo secolo che si realizzano le trasformazioni più invasive, che arrivano alla negazione dell’insularità con la costruzione del collegamento con la terraferma. Nisida è stata scelta nel 2003 come sede del Centro Studi Europeo sulla Delinquenza Minorile, certamente per l’esperienza maturata e per i programmi attuati per il recupero dei minori, unitamente alla grande valenza paesaggistica; la piccola isola è anche al centro di un più ampio progetto regionale denominato Costiera dei Fiori per Nisida volto al reinserimento sociale dei minori a rischio attraverso il loro impiego in attività agro-floreali di recupero e salvaguardia del territorio dell’isola. L’ambiente naturale è portatore di valori immateriali, non quantificabili con il metro dell’economia, ma che contribuiscono allo sviluppo della persona e della sua capacità relazionale. Nisida, isola da sempre negata, può, da luogo di segregazione diventare luogo di integrazione, aprendosi sempre di più alla

città e alle sue energie, non solo produttive ma anche artistiche e culturali. La ricchezza ambientale del territorio napoletano può diventare centrale nei nuovi processi di sviluppo urbanistico; nelle città moderne, ormai senza centro, le aree di margine invertono il proprio ruolo storico di dipendenza, proponendosi non più come statici luoghi di limite della cinta urbana, ma come attori dinamici di una nuova organizzazione territoriale. Il Parco si è dotato dei primi strumenti operativi di intervento, come il programma Extramet, il cui obiettivo è quello di incentivare le relazioni tra lo spazio rurale e la parte più densa dell’abitato, con un processo di trasformazione e di crescita territoriale, improntato al miglioramento della qualità della vita all’interno della città. Oppure il progetto regionale Hortus Conclusus mirato alla valorizzazione dell’agricoltura urbana, incentivando le aziende agricole a puntare su prodotti di pregio, da immettere direttamente nel circuito commerciale cittadino. Ognuna delle aree del Parco si propone con una specifica vocazione, rendendo possibile la creazione di un sistema che contempli gli aspetti economici, promuovendo il turismo culturale e ambientale, e

gli aspetti della salvaguardia come nel caso delle masserie di Chiaiano che, unitamente alla produzione agricola, possono svilupparsi in una rete di strutture ricettive. L’apparentemente irrisolvibile contrasto tra l’economia produttiva e la salvaguardia ambientale, può essere superato riconoscendo un ruolo propulsivo all’ambiente naturale; non soltanto secondo una mera visione legata al rapporto costi-benefici, ma valutando gli effetti positivi, anche in termini economici, che questi hanno sulla qualità della vita. L'avvenire dei parchi è nella conservazione attiva e quindi anche nello sviluppo del

terziario naturalistico; economisti, ambientalisti, urbanisti e istituzioni dovranno necessariamente lavorare insieme per poter risolvere i gravi problemi ambientali senza mortificare il sistema economico. Ma la ricerca di un così difficile equilibrio passa anche attraverso un processo di crescita delle coscienze; bisogna acquisire la consapevolezza che la salvaguardia dell’ambiente è necessaria, non perché ne siamo responsabili nei confronti di ipotetiche generazioni future, ma perché è conveniente: noi siamo già le generazioni future.

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In alto. La baia di Porto Paone a Nisida. Sotto. Francesco Zuccarelli, Nisida e l’isolotto del lazzaretto.


Dalle vedute a volo d’uccello a Google Earth

Bastien Stopendaal, Pianta della città di Napoli, 1653/1663. Veduta a volo d’uccello da un punto di vista ipotetico, sono evidenti le forzature prospettiche e le deformazioni dimensionali per esaltare alcuni particolari monumentali. Sotto. Immagine da Google Earth ripresa, verosimilmente, dallo stesso punto di vista, elevato di 668 m slm.

L’uomo sogna. Sogna di vedere dove non può vedere, di osservare ciò che non osserva normalmente. Sogna di viaggiare, di volare, immagina e crea cose meravigliose. Quella che chiamiamo tecnologia, relativamente ai tempi in cui essa si è sviluppata e si sviluppa, serve a dare vita ai nostri sogni, rendendo possibile ciò di cui abbiamo bisogno. E dove la tecno-

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logia non basta, sopperisce la fantasia, la genialità. Si può parlare di tecnologia e di fantasia, quando Baratta, e tanti altri a partire dal ‘500, nel ‘600, facendo combaciare spunti artistici e mappe eterogenee, insieme a molta fantasia e genialità, mostravano la città di Napoli vista dall’alto, punto di osservazione allora inaccessibile per l’uomo, dise-

gnando strade, piazze, vicoli, alberi, semplici scene di quotidianità che accrescevano il realismo delle così dette vedute a volo d’uccello. I giovani aristocratici, che includevano Napoli nel Grand Tour, il viaggio in Italia indispensabile alla formazione culturale di ambienti privilegiati, osservavano quelle immagini vagheggiando atmosfere, colori, suoni. E, spesso, senza

Nuovi strumenti per conoscere il territorio testo: Vincenzo Andreoli foto: Google Earth e Archivio Altrastampa

un fine militare, politico, economico, disegnare la veduta aerea di una città serviva, oltre a mostrarla a chi non l’aveva mai vista, a farne comprendere il paesaggio e l’anima. Napoli, città che sicuramente può vantare una cartografia storica tra le più vaste, anche nella rappresentazione di Stopendaal, che sempre nel ‘600 copia la celebre veduta del Baratta arricchendola di dettagli e più corretti valori prospettici, mostra, già allora, la sua natura di città non solo di mare, ma soprattutto collinare, ricca di boschi, orti e giardini.

Mostra la sua complicata orografia che ne condiziona l’espansione, lo sviluppo dei collegamenti cittadini, il carattere stesso della popolazione che si sente sempre un po’ divisa, come le sue colline. Osservazioni che fanno riflettere l’osservatore come il visitatore, immagini che fanno pensare, sognare. Sogni che ci appartengono ancora, e che oggi sono a disposizione di tutti. Oggi abbiamo un nuovo e meraviglioso strumento per conoscere il territorio. Basta accedere al nostro computer, eseguire il download

gratuito di un programma che si chiama Google Earth, installarlo e… stupirci. Tutto ciò che è necessario è una connessione abbastanza veloce ad internet. Ci appare l’immagine familiare del globo terrestre, ma ci rendiamo presto conto che è molto più di un’immagine. È la composizione di un preciso rilevamento fotografico satellitare tridimensionale della intera superfice del pianeta. Con pochi semplicissimi comandi del “mouse” possiamo zoomare fino ad una risoluzione di pochi metri, angolare a piacimento il punto di

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Immagini da Google Earth. In alto a sinistra. Il sistema collinare napoletano. A destra. Le pendici della Conca dei Pisani. Sotto a sinistra. La collina dei Camaldoli. A destra. L’area di Chiaiano.


Immagini da Google Earth. In alto a sinistra. L’area del Vallone San Rocco. A destra. La zona dello Scudillo. Al centro a sinistra. La collina di San Martino. A destra. La collina di Posillipo. Sotto. L’isolotto di Nisida.

osservazione e spostarci dove vogliamo volando velocissimi nell’atmosfera, fino a vedere dal cielo il tetto di casa nostra o le piramidi d’Egitto circondate dai turisti. Ma a questo si accompagnano anche potenti funzioni, come l’interfaccia con il motore di ricerca di Google e quindi, in sostanza, con lo scibile umano; oppure con le schede del National Geographic e con migliaia di fotografie. Sono sempre più disponibili accurate ricostruzioni tridimensionali che consentono di entrare negli edifici e nei monumenti, angolando il punto di osservazione fino a vedere il panorama che si gode da ogni punto del pianeta. Per ogni luogo si possono ottenere informazioni storiche, artistiche, percorsi, creare itinerari o anche cercare un ristorante e sapere il piatto del giorno. Tutto questo senza comprare guide o mappe destinate a diventare strumenti obsoleti. Stanno diventando accessibili le telecamere di sorveglianza delle aree abitate, e grazie a questo è possibile osservare, con buona pace della privacy, non solo i det-

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tagli dall’alto di una strada di una qualsiasi città, ma anche vedere in tempo reale cosa vi accade. Se osservare è anche una riflessione, una meditazione, un’analisi, con le nuove tecnologie ora disponibili si può percepire e acquisire molto di più di quanto un’incisione di Stopendaal potesse rendere nel 1600. Forse la fantasia, e perché no, la privacy, ne escono un po’ penalizzate, ma questi sono i regali della tecnologia.

Le vecchie mappe, tuttavia, hanno ancora il loro fascino. Esplorando infatti i prodigiosi contenuti speciali di Google Earth si può tornare indietro nel tempo, esplorando, piuttosto che gli straordinari rilevamenti satellitari, la cartografia storica raccolta da Rumsey, mirabilmente rappresentata sul globo. Perché gli uomini possano continuare a sognare. E questa è la rivincita della nostra fantasia.


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