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VITA DI RIVALSE

STORIE - DI CATERINA CAPARELLO

LA CARRIERA DI STEFANIA PASSARO, PIVOT D’ECCELLENZA DI UN’ITALIA COMBATTIVA,È LA DIMOSTRAZIONE DI COME IL RIMANERE FEDELI A SE STESSE SIA LA CHIAVE DIVOLTA NELLO SPORT E NELLA VITA, NONOSTANTE LE MAREE

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Spesso la vita ci pone davanti delle sfide, dei momenti in cui dimostriamo forza interiore, rispetto e, soprattutto, orgoglio. Sono sfide da accettare nonostante facciano paura, da accettare per sopravvivere o per farsi valere. Sono sfide di rivalsa. La storia cestistica di Stefania Passaro, pivot di 193 cm risoluta e tenace, è davvero ricca di queste sfide. E tutte vinte. Dal 1975, anno in cui ha iniziato undicenne, al 1995, Passaro ha conquistato 10 scudetti, 7 Coppe Campioni e 4 Coppe Italia. Eppure da ragazza non aveva alcuna intenzione di giocare a basket. “Tutti insistevano per farmi giocare, ma io non volevo. Anzi, mi dava fastidio che gli altri mi dicessero di farlo. Infatti ho iniziato molto tardi e come bastian contraria. Alle scuole medie si è verificato l’episodio cardine. Durante le ore di ginnastica, maschi e femmine erano divisi. I miei compagni maschi giocavano a basket, mentre noi ragazze eravamo costrette a fare ritmica, che odiavo.

Per non parlare dell’insegnante, una persona che non aveva grande simpatia nei miei confronti tanto da ritenermi, essendo già alta per la mia età, poco aggraziata. Perciò, puntualmente, scappavo a giocare a basket con i miei compagni che erano anche più bassi di me. A quel punto capii di avere un vantaggio, nonostante non sapessi assolutamente giocare. La docente mi beccò e rischiai l’insufficienza. Rinunciai a giocare con i maschi, ma non al basket. Infatti mi iscrissi subito nella società della mia città, Rapallo. Volevo ancora fregare i maschi della mia classe. È nato tutto così, con uno spirito di rivalsa e sfruttando un’altezza che comunque avevo”.

Il cammino di Stefania era iniziato. Quella giovanissima e alta ragazzina aveva intrapreso il sentiero dai mattoni arancioni, la cui prima tappa era la serie B. “Oltre a giocare con le giovanili, facevo anche la panchina in serie B. Ricordo che la mia prima partita ufficiale delle giovanili è iniziata con un auto canestro. Erano tutti talmente contenti che giocassi con loro da dirmi solamente di prendere la palla e tirarla nel canestro. Peccato che non mi avessero spiegato le regole. Avevo 11 anni”.

Dopo avere appreso saldamente quelle regole, Stefania non sbagliò più. E, a un anno di distanza, le squadre di serie A si accorsero di lei. “Parecchie squadre di A, come la Fiat Torino, mi chiesero di trasferirmi, ma ero troppo piccola e non volevo lasciare la mia famiglia. Decisi di spostarmi a 14-15 anni a Perugia per giocare con la Don Bosco, neopromossa in A. Rapallo mi cedette per dei palloni da basket in più. Eravamo tutte ragazzine della stessa età, la più grande era la capitana che di anni ne aveva 18. Accettai di andare a Perugia ma a due condizioni: potere alloggiare presso una famiglia, e non in un collegio o appartamento, e usufruire di ripetizioni scolastiche. Per me lo studio era importantissimo, finii il liceo classico proprio a Perugia, dove rimasi tre anni”.

Non è mai facile partire da giovanissime e spostarsi per l’Italia lasciando a casa i propri affetti. Ma quando la vicinanza emotiva è presente, tutto si affronta. “I miei genitori mi hanno sempre spronata a fare quello che desiderassi. Almeno una volta al mese venivano a trovarmi e quando mi sentivano giù di corda anticipavano la partenza. Non mi hanno mai lasciata sola e non mi hanno mai fatto pesare la lontananza. Solo dopo ho saputo quanto fosse stata dura anche per loro”.

Dopo Perugia arriva, nel 1982, il trasferimento a Vicenza, una squadra per cui Passaro nutriva delle grandi aspettative rivelatesi non così semplici da gestire, nonostante i 5 scudetti (1983, ‘84, ‘85, ‘86 e ‘87) e le 4 Coppe Campioni (1983, ‘85, ‘86 e ‘87). “Sono arrivata a Vicenza da miglior giocatrice giovane e fulcro di Perugia. Ero un po’ il corpo estraneo, poiché la squadra era formata da un gruppo storico e unito che aveva vinto il primo scudetto. Io facevo amicizia con le straniere, come la mia compagna di appartamento, Janice Lawrence, per la quale ho imparato l’inglese e lo slang americano. Ero una giocatrice che aveva tanta voglia di imparare. Nel tempo abbiamo vinto tanto, ma accadeva anche che giocassi molto più in Nazionale che non in squadra, perché giustamente c’erano tante atlete forti. Al terzo anno, volevo andare via. Mi sentivo sottoutilizzata. Avevo già vinto 3 scudetti e 3 Coppe Campioni, volevo giocare e sentirmi utile.

Ma ero costretta a rimanere, non volevano lasciarmi andare, nemmeno al quinto anno. A quel punto, ho scelto io stessa di andar via, facendo le valigie e tornando a casa. Ho rischiato di non giocare più perché, all’epoca, se non accettavi un trasferimento o te ne andavi, i club potevano anche decidere di non venderti lasciandoti inoccupata. Io volevo giocare ad Ancona, dove sarei stata utile. Mi risposero che, piuttosto, avrebbero preferito vendermi in A2. A quel punto sono andata via di mia sponte. A novembre mi cedettero ad Ancona e il mio fu il trasferimento più costoso di quegli anni”. Ma anche in quella spiacevole vicenda la rivalsa arrivò, eccome: “Al mio secondo anno ad Ancona, eliminammo Vicenza dai playoff con un mio canestro allo scadere”.

Nel 1990 iniziò il suo ultimo viaggio cestistico, Como, dove Stefania ritrovò le compagne di Nazionale e vinse altri 5 scudetti (1991, ‘92, ‘93, ‘94 e ‘95) più 2 Coppe Campioni (‘94 e ‘95), oltre a incontrare nuovamente coach Aldo Corno, con il quale intraprese un rapporto odi et amo iniziato a Vicenza. “Appena arrivò, Corno chiese alla presidenza di mandarmi via, un aut aut o me o lui. Fu costretto ad accettarmi, sia per il contratto che avevo e sia perché a Como mi amavano. Fu così che, nel sopportarci, sbocciò l’amore cestistico. Io ero maturata, ero sicura di me stessa e lui aveva riscoperto una giocatrice utile e importante. Nel 1994, disse che ero in assoluto la miglior pivot in circolazione. Gli devo molto”. Il 1995 fu l’anno del ritiro, complice il brutto infortunio al legamento crociato. Un ritiro che lasciava un senso di amarezza dovuto alla mancanza dello spogliatoio, delle sue compagne, dei tifosi, e anche di una partita d’addio ufficiale. “Ho smesso a 32 anni, all’apice e troncando di netto. Per quell’infortunio mi ero resa conto che non sarei stata più come prima. E sono tornata a studiare”.

Ma Stefania Passaro non è stata solo una gigantessa dei club. Decima per presenze in Nazionale (178 totali per un debutto a 16 anni) e 873 punti realizzati l’hanno resa una delle giocatrici di punta dell’Italia, fermando atlete come Zheng Haixia (115 kg) e Ul’jana Semënova (213 cm), partecipando a 6 Europei (1980, ‘83, ‘85, ‘87, ‘89 e ‘93) e disputando il Mondiale in Malesia nel 1990 come capitana e le Olimpiadi di Barcellona del 1992. “La Nazionale è un orgoglio enorme. Ma allo stesso tempo è un’occasione unica di scoprire altre culture”. Perché il basket va oltre il concetto di sport. “Per me il basket è sempre stato un mezzo e non il fine, un mezzo per viaggiare, per conoscere, per scoprire. Ha forgiato il mio carattere, sul campo diventavo una combattente feroce, scrupolosa e perfezionista. Nelle marcature ci mettevo l’anima, non dovevo uscire dal campo senza aver dato tutto il possibile”.

IL BASKET HA FORGIATO IL MIO CARATTERE. NELLE MARCATURE METTEVO L’ANIMA, NON DOVEVO USCIRE DAL CAMPO SENZA AVER DATO TUTTO IL POSSIBILE.

Un’indole da guerriera che Stefania si ritrova anche dopo la sua brillante carriera, nell’attivismo per la salvaguardia dell’ambiente con l’associazione “Siamo gente di mare”, nel giornalismo e nel supporto delle donne. “Sono passati 45 anni da quando ho iniziato a giocare, ma poco è cambiato in termini di diritti delle donne. Proprio per questo il mio posto è vicino alle differenze, alla varietà e a coloro che fanno vedere l’altra metà del cielo, spesso nascosta dagli uomini”.

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