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UN SECOLO DI SUPERDONNE
from PINK BASKET N.33
by Pink Basket
STORIE di Franco Arturi
UN TUFFO NELLA STORIA DEL BASKET FEMMINILE IN OCCASIONE DEL CENTENARIO DELLA FEDERBASKET. DALLE PIONIERE CON I GONNELLONI ALLA SPINTA DEL FEMMINISMO, DALL’ETÀ DELL’ORO ALLE DIFFICOLTÀ DI OGGI. IL TUTTO DA UN ANGOLO VISUALE PRIVILEGIATO.
Tutti noi siamo la nostra storia, che quindi è indispensabile conoscere. Le ricorrenze forti e le celebrazioni servono soprattutto a fermarsi un secondo e guardare indietro, anche con un po’ di tenerezza e malinconia, perché no. Solo un attimo, prima di riprendere la corsa verso il futuro e divorare il campo. Vale anche per i cento anni della Federbasket, nata nel 1921, e quindi della versione femminile dello sport, che qui ci interessa ripercorrere in un lampo. Chi erano le antenate, le prime che hanno cominciato a “buttarla dentro”, imbragate in gonnelloni da paura, ma finalmente felici di poter scatenarsi e divertirsi come gli uomini? Quelle ragazze tiravano a canestro in un’Italia che correva verso vent’anni di fascismo e una seconda guerra mondiale, a poca distanza dal cataclisma della prima. Cinque contro cinque all’aperto, nei cortili di qualche scuola, in un mondo che teneva le donne a casa, senza diritto al voto, ad aspettare un marito e dei figli, unica missione loro richiesta.
Dunque delle pioniere e anche rivoluzionarie. Un seme gettato per lo sport, per loro stesse e per chi sarebbe venuto dopo, cioè l’esercito di ragazze di oggi, infinitamente più libere nel gioco e nella vita. Segnatevi i nomi di questa squadra: Banzi, Radice, Piantanida, Ferrè, Travaini. È la Pro Patria di Busto Arsizio che batte 8-0 l’Unione Sportiva Milanese, con De Simoni, Gualdi, Pagani, Sappini, Mangiarotti. È il primo “meeting nazionale femminile”, torneo misto di atletica e basket, che allora si chiamava ancora palla al cesto. Gli altri due club partecipanti sono il Ricreatorio Laico Garibaldi (un nome che è un’epoca) e l’O.P.A.L. di Olgiate Olona. Si giocò in un campo su Viale Sondrio, a un passo dalla stazione centrale di Milano, quella più piccola, attiva dal 1864, non la gigantesca struttura in stile “assiro milanese” che sarebbe stata edificata solo 10 anni dopo.
La storia, per la verità, era cominciata ancora prima, sempre all’insegna delle donne. Già, perché il basket-pallacanestro-palla al cesto è l’unico dei grandi sport ad essere stato introdotto e diffuso in Italia proprio da una donna. Si chiamava Ida Nomi Pesciolini, era una benestante nobildonna senese, viaggiatrice e poliglotta, nata nel 1873. Ad inizio Novecento insegnava ginnastica alla Mens Sana ed italiano agli stranieri. Venne a conoscenza di quel nuovo gioco inventato da James Naismith nel 1891, si procurò il regolamento in inglese, lo tradusse nella nostra lingua e già nel 1907 organizzava le prime dimostrazioni in giro per l’Italia. Il seme era gettato, anche per i maschi. Erano tempi in cui l’attività fisica delle donne, fra mille pregiudizi e limitazioni, era poco differenziata: atletica, ginnastica e quel nuovo gioco erano spesso un tutt’uno, anche organizzativamente. I primi cinque campionati in qualche modo riconosciuti, dal ‘24 al ‘28, si mossero nell’ambito di sigle generaliste. Le prime grandi cestiste erano anche eccellenti atlete. Il livello tecnico era ancora un po’ così da questa parte dell’Atlantico, Italia compresa, come si deduce dai risultati di una rappresentativa canadese in tournée in Europa nel ‘24: 39-9 all’Alsazia, 64-4 al Roubaix, 60-0 alle parigine. Un anno dopo, nel ‘29, altra tournée delle canadesi, stavolta di Edmonton, stesse legnate per tutte, compreso il 68-2 ad una selezione italiana. L’esecuzione, pardon la partita, si tenne alla Forza e Coraggio di Milano. L’attuale Fip e la sua precursora Fipac entrarono in gioco nel 1930, da dove si fa cominciare l’albo d’oro del campionato italiano, con due successi della Ginnastica Triestina, seguite da un decennio di dominio milanese, con varie società.
A questo punto devo per forza di cose inserire qualche nota personale, però aderente al tema: ho “seguito” direttamente o indirettamente molto da vicino questo secolo di basket donne, anche se cent’anni non li ho ancora compiuti… Il primo legame sta nell’attività di due miei illuminati predecessori alla Gazzetta dello Sport, il giornale che ha assorbito molti decenni della mia vita professionale e che mi vede tuttora attivo: Luigi Ferrario e Martino Voghi furono decisivi negli anni eroici nella veste di dirigenti-organizzatori, che affiancarono al loro lavoro alla Rosea. Il secondo riguarda mia madre, Clelia, dalla quale, ormai adulto, appresi, non senza un certo stupore, che all’Istituto Magistrale (oggi parleremmo di liceo psico-pedagogico) milanese di via Tabacchi giocava in cortile con le sue compagne a pallacanestro fra un bombardamento alleato e l’altro: erano gli ultimi, pesantissimi, anni della seconda guerra mondiale. Dunque quello sport di squadra era di fatto il primo e allora unico aperto alle donne, stante i divieti e i pregiudizi sul calcio. Un primato di cui andare orgogliose. A proposito di quei tempi turbinosi, un moto di solidarietà offriamolo alla reyerina Bonato che, nelle fasi finali del campionato del ‘43, si beccò un’ombrellata da uno spettatore di Trento, mentre una compagna fu colpita da una pallonata, sempre dagli spalti: il basket non è mai stato uno sport per signorine… O forse sì: proprio in quella fase di lancio del basket fra le nostre donne cade la gemma del titolo europeo vinto dalla nostra nazionale a Roma nel 1938: maglia azzurra e gonna (sì, ancora) bianca, le italiane primeggiano su 4 squadre avversarie. Prima di confinare quel successo in un’era lontana, troppo arcaica per essere vero, andiamoci piano: mai siamo tornati a svettare a quelle quote nella “modernità”. Insomma, teniamocela stretta la medaglia d’oro delle pioniere.
Per tornare ai miei collegamenti personali con il basket-donne, torno agli anni 60, alla mia adolescenza. Ero tifoso del mitico Simmenthal, Brumatti e Iellini i miei idoli. Abitavo molto vicino al Palalido, dove arrivavo domenica mattina, di buon’ora. Verso le 11 gli addetti alle pulizie spalancavano tutte le porte di accesso per fare il loro lavoro. E per me era un gioco da ragazzi sgattaiolare dentro non visto, e soprattutto non pagante. A quel punto cominciava la lunga attesa delle 18, per la partita dei miei beniamini. Gran fortuna che la giornata comprendesse almeno una partita giovanile e a seguire spesso quella delle ragazze della Standa Milano, che mi hanno aperto gli occhi cestistici sull’altra metà del cielo. Le fughe in contropiede a velocità doppia di Fiorella Alderighi (che si sarebbe poi sposata con Fabio Guidoni, coach del Geas europeo del ‘78) le ho ancora negli occhi. Entrato nell’età adulta e nella mitica Gazzetta dello Sport, caso e mio caposervizio, Marco Cassani, vollero che mi dedicassi stavolta professionalmente al basket femminile. Il grande Geas era mia responsabilità in redazione. E a questo punto svelerò gli altri due motivi personali della mia full immersion nell’ambiente: proprio in quegli anni conobbi Rosi Bozzolo, che di quel Geas e della nazionale era una straordinaria playmaker. Ne scaturì il nostro matrimonio e per me un corso di aggiornamento professionale quotidiano. Non bastasse, insieme abbiamo dato vita a Giulia Arturi, di cui sto seguendo una quasi ventennale carriera in Serie A e in nazionali varie, che mi porta da addetto ai lavori fino ai giorni nostri. Insomma, me ne sono perse poche da diversi decenni a questa parte.
Forte di questo lungo corso, mi sono piuttosto chiari i punti di svolta, tecnici e di costume, di questo straordinario sport. Non potrò qui certamente proporre elenchi esaustivi (e noiosi), ma certo mettere in primo piano il big bang del basket donne come credibilità nazionale e internazionale. Avvenne proprio negli anni 70 col gruppo Geas (Bocchi, Bozzolo, Sandon in particolare) cui in azzurro si unì presto un altro fenomeno, Gorlin. Che cosa accadde, a parte la congiunzione astrale di tante superdonne in una-due generazioni? In primo luogo la spinta poderosa del femminismo che in tutto il mondo rimetteva, almeno nella dialettica filosofica, la donna sullo stesso piano dell’uomo, dopo millenni di patriarcato implacabile. Non è un caso che proprio dai primi anni 70 alcune ben individuate atlete in Italia diventassero trascinanti. Parlo di Paola Pigni, Sara Simeoni, Novella Calligaris e appunto del gruppo delle cestiste che arrivarono sul tetto continentale col bronzo europeo di Cagliari ‘74 e la conquista della coppa dei Campioni del ‘78, primo trofeo di quel livello non soltanto nel basket, ma dell’intero sport italiano. Queste grandi campionesse aprirono l’era dello sport femminile moderno, dove ci si allenava a tempo pieno, come gli uomini, in un nascente professionismo di fatto. Il pionierismo e lo spontaneismo erano superati per sempre. Sfioro appena il ridicolo argomento riassumibile nello slogan “quello femminile non ha niente a che fare col basket (maschile): è un altro sport”. Si tratta di espressioni di sottocultura maschilista che si qualificano da sole. Il basket è sempre lo stesso, che lo si declini al maschile o al femminile.
L’onda lunga di quella conquista, tecnica e culturale, ha poi sostenuto almeno altri 15-20 anni di nuovi successi. Il basket confermava, anche col numero delle tesserate, il suo ruolo centrale nell’ambito del movimento sportivo nazionale. Il campionato attirava le migliori straniere del mondo, e altri due club fecero la storia, in Italia e all’estero: il Vicenza di Antonio Concato, che è stato il più grande dirigente italiano, e poi la Comense, entrambe guidate dalla mano salda di Aldo Corno. I nomi di Gorlin e Sandon, le esperte reduci del decennio precedente, e quelli delle magnifiche Pollini e Fullin sono state al centro di epopee vincenti ineguagliabili. Vi rimando agli albi d’oro per quantificare questa età da favola. Con la nazionale, la spinta ci portò prima all’importante approdo all’Olimpiade di Mosca ‘80 e infine allo straordinario argento europeo del ‘95.
Raggiunto l’apogeo della parabola, cominciò purtroppo un declino che continua tuttora. Motivi chiari: il primo fu la perdita del primato dei numeri. Altri sport, in particolare il volley, aprirono una fase espansiva di straordinaria portata. Non è questa la sede per indagarne i motivi, ma di fatto il basket femminile italiano cessò progressivamente di essere la prima disciplina di richiamo nel panorama nazionale ed ancora oggi ha seri problemi di reclutamento. Fattori economici e geopolitici e di costume hanno accelerato la crisi: altri Paesi europei hanno cominciato a sovrastare dal punto di vista economico i nostri club. Con l’effetto evidente di marginalizzare il nostro movimento. La crisi è tutta italiana perché Paesi vicini e mediterranei, come Francia e Spagna, hanno continuato la loro ascesa, opponendosi con successo agli incredibili budget di russi e turchi. Niente è irreversibile: il risvolto positivo di questa situazione è che si può solo migliorare, vedremo come. Uno sport che è stato guida e traino delle donne italiane lo merita e non può aver perso la sua carica vitale. Fra l’altro, il modello femminile proposto dal basket è quanto di più moderno: una donna sicura di sé, non bamboleggiante, aggressiva quanto serve, mai intimorita dal contatto fisico, ricca di autostima e intraprendenza, energica, resiliente. Le cestiste sono tutto questo e anche in Italia, ne sono convinto, riprenderanno il posto che meritano al centro del panorama sportivo.
Per chiudere in leggerezza, ne ho viste e sentite molte in decenni di basket femminile. Ve ne dico un paio fra le più sorprendenti. Una con nome e cognome: protagonista Vittorio Tracuzzi (fosse ancora fra noi si divertirebbe dell’episodio, e confermerebbe tutto senza sentirsi in discussione), uno degli immortali del nostro basket, allenatore influente come pochi, dopo un eccellente percorso da giocatore. Verso fine carriera passò anche dalla femminile, c.t. della nazionale fra il 1981 e il 1985. Tipo anticonvenzionale, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo. Nel corso di un lungo colloquio mi disse, con tanto di dimostrazione gestuale: “Vedi, ho scoperto che la posizione difensiva di base delle donne dev’essere diversa perché loro devono controbilanciare il peso del seno”. Giuro, era serio, come quando aggiunse: “Pollini? Bravissima, ma in Italia c’è ne sono decine come lei, adesso vado a scoprirle”. Sì, amava spararle grosse, anche se resta un genio del basket. Di un altro dialogo non dirò il responsabile, che è ancora felicemente fra noi, e che è stato peraltro uno dei migliori tecnici mai passati dal basket donne. Un giorno commentavo con lui la prova di una giovane play che stava lanciando, una ragazza dal gran fisico, che sapeva fare tutto molto bene, tranne il tiro dalla distanza. La classica mano quadra. “Però ha appena 17 anni - gli faccio io -, può migliorare molto. Che lavoro specifico gli fai fare?”. Lui mi gela: “Sono l’allenatore della prima squadra, non ho tempo per queste cose”. A proposito della cura dei fondamentali…
P.s.: sono debitore a Massimiliano Mascolo e al suo “Almanacco del basket femminile” di molte notizie, in particolare sui tempi lontani. Come telecronista Rai e appassionato storico e statistico, ha dato davvero tanto a questo sport.