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SANTUCCI ON FIRE
from PINK BASKET N.33
by Pink Basket
COVER STORY di Simone Fulciniti
VISIONE DI GIOCO, PERSONALITÀ ED ALTA INTENSITÀ. COME LA SUA GIOCATRICE DI RIFERIMENTO, SUE BIRD. DOPO L’ESPERIENZA AMERICANA È APPRODATA A RAGUSA CON OBIETTIVI IMPORTANTI. ED È DECISA A MANTENERE SALDO IL POSTO IN NAZIONALE IN VISTA DEI PROSSIMI EUROPEI
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D opo quattro anni trascorsi negli Stati Uniti, Mariella Santucci nel 2020 torna a giocare in Italia. Arrivano diverse proposte, ma lei non ha dubbi e sceglie Ragusa. La convince il progetto, lo stile, la freschezza di una Società che ogni anno propone squadre di alto livello. E poi la bellezza della città e della zona circostante, un valore aggiunto, incommensurabile. Specie per chi arriva dal grigiore di Toledo, un comune adagiato sulle rive del Lago Erie, nell’Ohio. «Mi trovo molto bene, città piccola, comoda, si gira bene in macchina. C’è una parte vecchia bellissima, e poi Marina di Ragusa, vicinissima, sul mare. Io sono cresciuta a Bologna, città molto diversa, con tanti giovani dell’Università. A Ragusa invece di giovani ce ne sono meno, e di conseguenza c’è meno “movida”. E da un punto di vista professionale questa è cosa positiva, ci sono poche distrazioni. Inoltre si mangia benissimo, c’è tanta bella gente, fortemente appassionata alla squadra: ovunque vai ti riconoscono, ti fanno in complimenti per la partita, insomma ti senti bene, ti senti accolto». Una pennellata di verde in tutti i sensi, che colora i palazzetti italiani, dando del filo da torcere a qualsiasi avversaria. «Negli ultimi anni Ragusa ha avuto squadre eccellenti, composte da straniere e italiane molto forti. Oggi le straniere sono giovani, ma ci sono tutti gli ingredienti perché possano in futuro diventare delle big: due, per esempio, sono già protagoniste in Wnba. E le italiane, che sono qui da più tempo, si conoscono bene. Formano lo zoccolo duro. La mia opinione è che possiamo puntare molto in alto».
Mariella è una giocatrice di grande spessore, vede il gioco come poche, ha personalità e lavora con grande intensità. Non a caso il suo punto di riferimento è una delle più grandi playmaker di sempre. «Sue Bird, una fuoriclasse alla quale posso paragonarmi dal punto di vista fisico. In grado di fare sempre la scelta giusta, intelligente, fa canestro quando conta e trascina le sue compagne nei momenti complicati».
Tre sorelle e una madre che non voleva sentire parlare di pallacanestro (sport che invece praticava il padre a livello professionistico, vestendo anche la gloriosa casacca della Fortitudo Bologna). «Voleva farci fare ginnastica artistica o pallavolo, perché erano sport che lei praticava da giovane. Ma la mia esperienza a pallavolo durò poco: infatti durante gli allenamenti tiravo apposta il pallone nel campo da pallacanestro adiacente per andare a recuperarlo e poi mi fermavo a tirare. Finché un giorno l’istruttrice fece chiamare mia madre e le disse “Signora, forse è meglio se iscrive sua figlia a basket. Non mi sembra portata per il volley”». Emozioni e soddisfazioni nel settore giovanile della Magika Castel San Pietro, che la spingono diretta in prima squadra. «Avevamo una squadra molto forte, e abbiamo deciso di fare la serie B, inserendo successivamente giocatrici del calibro di Simona Ballardini, e Ana Suarez, che adesso gioca in Francia. Abbiamo vinto la B, abbiamo disputato due finali perse in serie A2 contro squadre fortissime come Broni e Geas Sesto San Giovanni. Tuttavia prima di andare in America, non pensavo al basket come una professione, era più un momento di svago. Oltreoceano ho cambiato mentalità: laggiù le cose sono serie, allenamento tutti i giorni, con sveglia alle 5 del mattino. Ti impostano nel mood studio e basket».
L’esperienza americana appunto, che arriva come uno squarcio di luce improvviso. «Avevo disputato i mondiali Under 17 con la Nazionale e mi stavano arrivando un sacco di email dai vari college, anche molto importanti, ma io non conoscendo l’inglese non rispondevo mai». Poi la svolta. «Mi scrive, in italiano, l’ex giocatrice (con un passato tra i parquet della penisola) Vicky Hall, dicendomi che aveva visto i miei video della Nazionale ed era interessata a portarmi a Toledo. Decisi di andare per diversi motivi: poteva essere finalmente l’occasione per imparare la lingua. E quella di poter giocare e studiare nello stesso momento, cosa che dalle nostre parti è molto difficile. Così, dopo qualche mese, sono partita». Come accade nelle favole, anche le più affascinanti, l’inizio non è dei migliori. Mariella è spesso assalita dalla nostalgia della famiglia, di Bologna e dei tortellini in brodo (il suo piatto preferito). E poi ci sono le difficoltà della lingua, che sembrano insormontabili. «Il primo giorno conobbi le compagne di squadra e con una di loro andai fuori a pranzo. Per dire qualsiasi cosa utilizzavo Google, perchè senza era impossibile. Lei fu molto gentile, a spiegarmi il significato di alcune parole. Due mesi difficilissimi i primi. Per fortuna a scuola, con le materie scientifiche la lingua non era necessaria, essendo predominanti i calcoli e le cose scritte. Altrimenti mi sarei persa. Ho pensato spesso di mollare tutto e rientrare. Nell’università non c’erano italiani, l’unica capace di dire qualche parola era la coach. Col senno di poi posso dire che fu una fortuna. Costretta a parlare sempre inglese, per vivere, alla fine sono riuscita ad impararlo. E il mio carattere aperto, di una che non si fa problemi a sbagliare, mi ha aiutato nel processo di apprendimento. Avevo lasciato un posto confortevole, dove avevo la famiglia, il buon cibo, il divertimento, per approdare in una cittadina brutta, composta da vie deserte». Ma col tempo c’è anche spazio un po’ di turismo. Grande mela compresa. «A New York sono stata a dicembre, quando è arrivata la mia famiglia. Nel corso dei mesi ho visitato vari stati, raggiungendo anche Cancun in Messico. Ho conosciuto un sacco di persone; conoscenze che ancora adesso porto avanti, che mi hanno fatto diventare molto più responsabile di quella che ero in Italia».
Modi di vivere completamente differenti dallo stile italiano, anche a livello di squadra: nessuna cena insieme dopo le partite. E la sera a letto presto, stremati dalla fatica. Ma a livello sportivo i risultati spesso regalano belle soddisfazioni. «Il primo anno abbiamo vinto il campionato nella nostra conference. Il momento più bello giocare la finale all’Arena di Cleveland; c’era anche Lebron James sugli spalti, ma ovviamente è stato inavvicinabile. Abbiamo viaggiato per partecipare al NCAA Tournament, come Vip, con tanto di aereo privato, hotel di lusso, conferenze stampa. Un’esperienza così bella che mi ha convinto a fare questo nella vita». Due le istantanee indimenticabili. «Quella finale è stato il frangente più bello; poi la sfida a Notre Dame, una squadra fortissima che annoverava tra le altre Brianna Turner adesso alla Virtus, davanti a quasi 8.000 persone. Indescrivibile». Ma ci sono anche disavventure piene di adrenalina. «L’ultimo anno dovevo tornare a casa per Natale, in quattro anni non l’avevo mai fatto. Arrivata a New York, in aeroporto mi sedetti al gate, tranquilla e beata. Avevo un buon anticipo e mi misi a guardare un po’ di cose sullo smartphone. Quando mancavano 20 minuti all’imbarco mi accorsi che il volo non era ancora segnalato. E capii immediatamente di aver sbagliato ingresso. Chiesi informazioni e mi dissero che il mio imbarco era a mezz’ora da lì. Il panico. Non potevo perdere quel volo. Senza nemmeno pensarci cominciai a correre. Avevo due valige e non posso raccontare la fatica. Arrivai giusto in tempo per la partenza. Insomma tredici ore di volo, sudata fradicia, senza riuscire nemmeno a parlare». Nei quattro anni a stelle e strisce nessun incrocio con le altre italiane impegnate nei vari college. Solo una volta, durante una breve vacanza nella grande mela, incontra Carlotta Gianolla. E mantiene un contatto virtuale con Francesca Pan. «Purtroppo, a causa della pandemia, la laurea in economia internazionale l’ho presa da casa. Miseramente online, saltando la parte più bella, quella delle celebrazioni e dei festeggiamenti. Che slittarono a dicembre, quando ormai ero a Ragusa in pieno campionato. Un grosso rimpianto».
Mariella Santucci punta senza mezzi termini a confermarsi in maglia azzurra e ha nel mirino i prossimi europei. «In Nazionale maggiore ho debuttato contro la Francia, giocando bene. Così come mi sono sentita a mio agio nella prima partita ufficiale contro il Lussemburgo. E il 3 contro 3 è stata un’altra bella avventura: anche in questo caso punto a proseguire il percorso in azzurro».
La cosa fondamentale è intercettare la felicità. «Essere in armonia col mondo e con gli altri, facendo scelte che non danneggino le persone». La scaramanzia, sostiene, non fa parte del suo bagaglio culturale, ma non è esattamente così. «Diciamo che ho i miei riti: ad esempio se una volta giochiamo bene e vinciamo la volta successiva uso lo stesso elastico per i capelli. Abbiamo perso due partite di fila ed avevo lo stesso smalto sulle unghie, me lo sono tolto e abbiamo cominciato a vincere». Attualmente Mariella, mentre si impegna per migliorare «i black out difensivi, il palleggio arresto e tiro, e le percentuali in attacco», sta facendo un master con una celebre università inglese. Se non avesse fatto la cestista, probabilmente sarebbe impegnata nell’ambito della green economy. Ma il basket c’è sempre stato, a costo di dire bugie. «Una volta, con la febbre alta, dissi a mia madre che sarei andata a riposare, invece mi recai a giocare una partita». La Spagna è il paese da visitare assolutamente. «Se mi chiedono la giocatrice più forte che ho incontrato, non ho dubbi: Sandrine Gruda. Guardandola in azione rimani a bocca aperta».