La lirica romanza del Medioevo. Storia, tradizioni, interpretazioni Atti del VI convegno triennale della Società Italiana di Filologia Romanza, a cura di Furio Brugnolo e Francesca Gambino – Padova: Unipress, 2009
Stefano Rapisarda
Ipotesi di ricollocazione tematica di due testi della Scuola poetica siciliana È sicuro che la canzone S’eo trovasse Pietanza e il sonetto Meglio val dire ciò ch’omo à ’n talento parlano d’amore?
Tra i luoghi comuni che vengono continuamente ripetuti – e che, come tutti i luoghi comuni, contiene certamente una parte di verità – sta l’idea che i rimatori della Scuola siciliana, al contrario dei loro colleghi provenzali, si dedicassero alla poesia con il solo scopo di una delectatio formalistica, “disimpegnata” e del tutto avulsa a cogliere le sollecitazioni della realtà esterna e quasi ossessivamente monotematica. Lo confermano molti giudizi critici, che sono diventati, si può dire, opinione comune.1 Basterà citarne alcuni tra i più noti:
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Il testo è stato presentato all’interno della comunicazione tenuta da M. Spampinato-M. PaganoS. Rapisarda dal titolo Note al margine al Corpus poetico siciliano; lo specifico argomento è stato oggetto della tesi di laurea in Lettere Moderne di R. Forte, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Catania, a.a. 2003-04 di cui sono stato relatore; in quella, e in questa occasione, mi sono ampiamente avvalso della lettura anticipata della nuova edizione dei poeti della Scuola siciliana, promossa dal Centro di studi filologici e linguistici siciliani di Palermo e di imminente pubblicazione presso Mondadori, in tre volumi dal titolo rispettivamente: Poeti della Scuola Siciliana, I. Giacomo da Lentini, Edizione critica con commento di R. Antonelli; II. Poeti della corte di Federico II, Edizione critica con commento diretta da C. Di Girolamo; III. Poeti Siculo-Toscani, Edizione critica con commento diretta da R. Coluccia, Milano in stampa [ora pubblicata, 2008], da cui sono tratti i testi citati e varie informazioni dei commenti. La nuova edizione del corpus siciliano si caratterizza rispetto alle precedenti per la presenza di un commento sistematico e particolarmente attento ai fatti intertestuali. Sono grato ai colleghi di quel gruppo di lavoro per le note e le osservazioni; andrebbero citati pressoché tutti, dato che con tutti ho avuto occasione di trattare singoli punti o questioni complesse, in un lavoro di edizione, studio e commento che tra varie fasi e vicissitudini ha finito per impegnarci per quasi l’arco di un decennio; non farò singoli nomi, dunque, perché l’elenco sarebbe lungo e in pratica coinciderebbe con l’équipe al completo.
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Stefano Rapisarda [la siciliana è] letteratura poetica del tutto distaccata dalle occasioni e dalle ragioni immediate della vita politica e sociale. È l’esperienza di una élite laica di funzionari, magistrati e notai, i quali coltivano la letteratura come evasione dalla realtà quotidiana […].2 [La poesia dei Siciliani] si configura come evasione dalla realtà quotidiana, come attività minore nei confronti delle cure dello stato. […] La loro poesia è curiale, elegante, ed inoffensiva, “lusus” cortigianesco del tutto staccato dal vissuto delle loro esistenze […] I poeti della Magna Curia esercitano l’attività poetica come amatori e dilettanti, riducendo il repertorio lirico che ereditano dalla tradizione trobadorica all’unica corda erotica […].3 un elemento nuovo [nei Siciliani rispetto ai Provenzali] è l’ossessiva attenzione alla fenomenologia dell’amore […].4 Non il “servizio d’amore” è al centro della poesia dei Siciliani, e neppure, a ben vedere, la donna, ma l’amore stesso in quanto realtà ontologica o fenomeno naturale, la cui descrizione coincide con l’atto stesso del poetare: il canto sull’amore, per così dire, e non il canto d’amore o per amore.5
Ciò avrebbe prodotto una fortissima restrizione tematica, limitandosi i Siciliani quasi esclusivamente, e con pochissime eccezioni, alla produzione di poesia di tematica amorosa. La restrizione è oggettivamente incontestabile, esistendo nei Siciliani pochi e occasionali riferimenti a tematiche politiche, storiche, didascaliche, gnomiche, etico-morali, e risultando del tutto assenti i temi dell’“attualità” feudale e i generi “aggressivi”, come l’invettiva e il sirventese; e la spiegazione che tradizional2
G. Folena, Cultura e poesia dei Siciliani, in Storia della Letteratura Italiana, a cura di E. Cecchi e N. Sapegno, I. Le origini e il Duecento, Milano 1965, pp. 231-32. O quello di A. Monteverdi, Il problema del Duecento, in Antologia della critica letteraria, a cura di G. Petronio, Napoli 1962, p. 52: «Il fatto è che per loro la poesia, e l’amore stesso che dà materia alla loro poesia, sono un puro gioco, quasi un voluto oblio della realtà». 3
M. Spampinato, La Scuola poetica siciliana, in Storia della Sicilia, diretta da R. Romeo, IV, Napoli 1980, pp. 389-90. 4
C. Di Girolamo, I Siciliani, in Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, a cura di F. Brioschi e C. Di Girolamo, I. Dalle origini alla fine del Quattrocento, Torino 1993, p. 306. 5
F. Brugnolo, La Scuola poetica siciliana, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, I. Dalle Origini a Dante, Roma 1995, p. 327.
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mente viene arrecata è che il promotore-imperatore Federico non avrebbe gradito che intorno a lui si parlasse di altro che d’amore e avrebbe preteso, più o meno esplicitamente, che ci si limitasse al lusus poetico, cortigiano, disimpegnato, apolitico, ecc.6 Ciò detto, vogliamo tuttavia domandarci: non può essere accaduto che in sede critico-interpretativa la tematica amorosa abbia funzionato come una potente calamita, attraendo verso di sé dei testi che sarebbe anche stato possibile interpretare diversamente? In altre parole, non potrebbe essere accaduto che qualche testo tradizionalmente considerato di tematica amorosa in realtà non parli d’amore e offra qualche altra possibilità d’interpretazione? 2. Esistono infatti un paio di testi che, a una lettura sgombra dal pregiudizio amoroso, lasciano qualche perplessità sotto il profilo interpretativo; ciò vale per due testi in particolare, entrambi di non certissima attribuzione, e mi riferisco al sonetto Meglio val dire ciò c’omo à ’n talento e alla canzone S’eo trovasse Pietanza. Vediamo innanzitutto il sonetto, che qui citiamo dalla imminente edizione dei Poeti della Scuola Siciliana:7 Meglio val dire ciò ch’omo à ’n talento ca vivere in penare istando muto, solo ched agia tal coninzamento che dipo’ ’l dire non vegna pentuto:
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C. Villa ha di recente contestato questa opinione diffusa. Secondo la studiosa sarebbe erroneo sostenere che Federico II non gradiva che si parlasse di politica; lo dimostrerebbero almeno le invettive in lingua greca contro la città di Parma formulate durante l’assedio del 1247 dal notaio Giovanni d’Otranto. Semmai, può darsi che fosse retoricamente poco opportuno farlo in volgare: «Federico II non censurò allora il suo notaio; mentre le interdizioni politiche furono piuttosto congenite alla poetica della scuola volgare, secondo una idea – saldamente radicata nella retorica mediolatina – dove l’amore è materia dello stile basso e, di conseguenza, solo in volgare si può sviluppare poesia amorosa […] Se in volgare non si poteva poetare altro che d’amore bisogna pure ribadire l’impossibilità di dire il nome dell’imperatore e le sue lodi in una lingua che, per i Siciliani, doveva ancora essere quelle delle muliercule: come implicitamente ricaviamo dagli encomi a Federico espressi, naturalmente in latino, nella corrispondenza di Pier della Vigna, o nella famosa predica di Nicola di Bari, che si esibisce in un formidabile campionario di stile mistico o Salvatorstil, confermando come i fatti dell’imperatore, cioè le sue imprese politiche e militari, dovessero essere dette in una lingua sacra, latino o greco», C. Villa, Trittico per Federico II ‘Immutator Mundi’, “Aevum”, LXXI (1997), pp. 346-47. 7 In Poeti della Scuola Siciliana cit., II, 7.11, a cura di A. Comes. Qui, come altrove, il riferimento è alla numerazione dei componimenti.
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Stefano Rapisarda che ben pote omo fare movimento, pu·ragion agia non èste intenduto; per zo di diri aggi’ om aveggiamento, che non si blasmi de lo suo creduto.
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E sacio ben ch’a molti è adivenuto zo ch’àn detto nonn-à loco neiente; sempre di lor de’ omo avere spera,
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che follegiando àn zo ched àn voluto, non per saver né per esser temente: chi cusì face, certo ben finèra.
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che così potremmo parafrasare: È meglio dire ciò che si ha voglia di dire, piuttosto che vivere in stato di pena restandosene in silenzio, a condizione – beninteso – che il dire abbia tale esordio che dopo aver parlato non ci si trovi a doversi pentire; è ben possibile infatti che qualcuno si muova in tal maniera che, per quanto abbia ragione, tale ragione non venga intesa: perciò chi parla si esprima in maniera avveduta, che non gli si debba rimproverare la sua opinione (1-8). Io so bene che a molti è accaduto che il loro parlare non ha prodotto alcun effetto; (invece) bisogna sempre tenere come esempio quelli che, comportandosi in modo folle, hanno ottenuto ciò che volevano, non per mezzo della saggezza, né tramite un comportamento timoroso: chi fa così, certo finirà bene (9-14).
L’attribuzione del sonetto, come dicevamo, non è del tutto certa, cosa comune a un’infinità di testi dei Siciliani, e la tradizione testuale è piuttosto singolare.8 Esso infatti è tràdito due volte nel ms. Vaticano Latino 3793, una (V 348, c. 113r) come sonetto anonimo, l’altra (V 29, c. 7v) come III strofe della canzone di Rinaldo d’Aquino Poi li piace ch’avanzi, una canzone che sulla scorta di Folchetto di Marsiglia ha come tema principale, e proprio nelle prime due stanze, quello del “timore di parlare o di cantare” le alte doti di madonna; nel Laurenziano (Lb 118, c. 102d) è riportato esattamente come in V29 in forma di stanza di canzone; nel Palatino la canzone è riportata senza le strofe/sonetto di cui stiamo trattando (P 47, c. 27r). La critica giudica aperta la questione ma «di sicuro si può affermare che il sonetto è di provenienza esterna alla canzone, 8
Per i particolari cfr. la Discussione testuale a Poi li piace ch’avanzi suo valore, a cura di A. Comes, in Poeti della scuola siciliana cit., I, 7.3.
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come si può dedurre dal fatto che è l’unica “strofe” che non presenta rimandi all’originale di Folchetto»,9 per quanto eventualmente la si possa considerare in qualche modo tematicamente compatibile.10 L’interpretazione tradizionale del nostro sonetto è quella amorosa. Secondo questa diffusa interpretazione (Santangelo, Panvini, Sanguineti, Gresti, ultima cronologicamente la Comes)11 il poeta esprimerebbe insomma l’idea che dichiarare l’amore potrebbe essere più proficuo che tacere e nasconderlo, e che in amore si possono ottenere risultati migliori comportandosi da folle piuttosto che cautelosamente tacendo. E per coerenza con la “presupposizione” amorosa si interpreta il folleggiando di 12 nel senso di “amare in modo folle”. Su tale linea interpretativa insisteva in modo forte Panvini.12 9
Ivi.
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In tal caso, si potrebbe addirittura intendere l’interpolazione, se d’interpolazione si tratta, come un utile trait d'union tra le prime due strofi, nelle quali il locutore protesta preoccupazione a tessere degnamente le lodi di madonna, e la strofe finale, in cui le virtù sono bruscamente dichiarate. Debbo l’osservazione ad Aniello Fratta, che ringrazio cordialmente. Non mi pare sia stata valutata l’ipotesi che si tratti di una stanza che diventa sonetto autonomo. 11
Il sonetto in questione è stato editato e commentato varie volte nel corso del tempo; un elenco delle edizioni principali comprende A. D’Ancona-D. Comparetti, Le antiche rime volgari secondo la lezione del codice Vaticano 3793, pubblicate per cura di A. D’Ancona e D. Comparetti, Bologna 1875-88, 5 voll., I, p. 81; O. J. Tallgren, Les poésies de Rinaldo d’Aquino, rimeur de l’école sicilienne du XIIIe siècle, “Mémoires de la Société néophilologique de Helsingfors” (poi Helsinki), VI (1917), pp. 173-303, a p. 296; C. Guerrieri Crocetti, La Magna Curia (La Scuola poetica siciliana), Milano 1947, p. 185; Crestomazia italiana dei primi secoli, con prospetto grammaticale e glossario per E. Monaci, Città di Castello 1912 e nuova edizione riveduta e aumentata per cura di F. Arese, presentazione di A. Schiaffini, Roma-Napoli-Città di Castello 1955, p. 120; S. Santangelo, Le tenzoni poetiche nella letteratura italiana delle origini, Génève 1928, p. 335; M. Vitale, Poeti della prima scuola, Arona (Varese) 1951, p. 222; B. Panvini, Le rime della scuola siciliana, I. Introduzione, testo critico, note, II. Glossario, Firenze 1962-64, I., p. 117; Sonetti della Scuola siciliana, a cura di E. Sanguineti, Torino 1965, p. 47; P. Gresti, Sonetti anonimi del Vaticano Lat. 3793, Firenze 1992, p. 47; Concordanze della lingua poetica italiana delle origini (CLPIO), I, a cura di d’Arco S. Avalle e con il concorso dell’Accademia della Crusca, Milano-Napoli 1992, p. 312. 12
«[All’amante] è più vantaggioso dire tutto quello che vuole, piuttosto che soffrire e tacere, purché egli fin da principio parli in modo che dopo non s’abbia a pentire di quello che ha detto; se no, per quanto egli poi assuma un tale atteggiamento di circospezione, non verrà ascoltato, neanche se sarà in buona fede; per ciò parli con cautela, in modo da non doversi più dolere della sua fiducia [in se stesso]. E riconosco che molti amanti dicono cose non rispondenti alla realtà; tuttavia si deve tenere presente l’esempio di coloro che, pur folleggiando, hanno ottenuto [dalle loro donne] ciò che hanno voluto senza avere usato saggezza e sottomissione: chi fa così, sicuramente avrà buon risultato», B. Panvini, Le rime della scuola siciliana cit., I, p. 117 e successive ristampe an-
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Vari testi vengono richiamati come intertesto: un preciso rapporto in tenzone con il sonetto Ogn’omo c’ama de’ amar so ’nore di Giacomo da Lentini e con l’anonimo intitolato Non è fallo ma grande conoscenza esisterebbe secondo Santangelo13 o con Uno disio d’amore di Giacomo da Lentini secondo la Comes;14 e ancora, aggiungerei, un non meno stringente rapporto si potrebbe ipotizzare con la I strofe di Assai cretti celare di Stefano Protonotaro.15 Solo che nei testi che ho appena citato la tematica amorosa è esplicita per la semplice presenza delle parole amore, amare, amanza, amante, inamoranza, che invece nel sonetto di Rinaldo non appaiono mai, così come non appaiono termini collegati come donna, cuore, nonché un lessico che sia più o meno pertinente a quell’area semantica, come disianza, gioco, gioia, ecc. E si noti come infatti Panvini nella sua parafrasi di accompagnamento mette correttamente tra parentesi i termini amante e donne che nel testo non ci sono (e altrettanto avrebbe dovuto fare con quel molti amanti che gli sfugge fuori parentesi).16 Né si può certo affermare che folleggiare abbia una specializzazione amorosa come già nel caso del suo corrispettivo occitanico follejar; e a tal fine basta vedere certe considerazioni sul folleggiare in tenzone tra Monte Andrea e Pallavillani che certamente nulla hanno a che vedere con l’ambito amoroso.17 tologiche e parziali sino a Poeti italiani della corte di Federico II, edizione riveduta e corretta, Napoli 19**, p. 176. 13
Santangelo, Le tenzoni poetiche cit., pp. 319-23 in particolare; secondo Santangelo il sonetto di Rinaldo (o chi per lui) farebbe parte di un’ampia tenzone (la XVIII, p. 306 e sgg., nel suo repertorio) sul modo d’esprimere l’amore alla donna, tenzone che, raggruppandosi intorno a Giacomo da Lentini, Ogn’omo ch’ama e Pietro Morovelli, Come l’argento vivo, muoverebbe dall’anonima Gran disïanza aggio lungamente che Santangelo, p. 308 attribuisce a Giacomo da Lentini. Per le ipotesi intertestuali cfr. la più recente edizione di Ogn’omo ch’ama in Poeti della Scuola Siciliana cit., I, 1.25, a cura di R. Antonelli e di Nonn-è fallo, ma grande caonoscenza in Poeti della Scuola Siciliana cit., III, 49.29, a cura di R. Gualdo. 14
Comes, in Poeti della scuola siciliana cit., II, 7.11.
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«Assai cretti celare / ciò che mi conven dire, / ca lo troppo tacere / noce manta stagione, / e di troppo parlare / può danno adivenire: / per che m’aven temere / l’una e l’altra cagione. / Quand’omo à temenza / di dir ciò che convene, / levemente adivene / che ’n suo dire è fallenza: / omo temente no è ben suo segnore, / per che, s’io fallo, il mi perdoni Amore» (vv. 1-14). La più recente edizione è in Poeti della Scuola Siciliana cit., II, 11.1, a cura di M. Pagano. 16
Cfr. nota 12.
17
Schiatta di messer Albizo Pallavillani, Sonetti in tenzone con Monte Andrea, in Monte Andrea da Fiorenza, Le rime, ed. critica a cura di F. F. Minetti, Firenze 1979, pp. 177-80.
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Vediamo dunque se ci sono alternative all’interpretazione tradizionale. Nella sua letteralità il testo potrebbe riferirsi al gioco cauteloso della prudenza, della simulazione e della dissimulazione che un certo tipo di storiografia ha reso tipico dell’età barocca ma che già vigeva nelle corti medievali. Basterà citare il bel libro di Glauco Cantarella, Principi e corti,18 che è per molta parte dedicato ai comportamenti di corte a partire dalle modalità dell’espressione e dalle virtù teorizzate di curialitas e di urbanitas. Come uomo di corte l’autore del sonetto, sia o meno Rinaldo d’Aquino, ben doveva conoscere le tematiche del retto comportamento curiale, dell’affabilitas, della prudentia, della previdentia, del segreto; alla corte federiciana il problema del ‘quanto e come parlare’ era comunque sicuramente dibattuto, e si potrebbero citare presenze acclarate del Secretum secretorum (che in molti passi si pone il problema del modo di parlare sia del re che del consigliere)19 o del De arte loquendi e tacendi di Albertano da Brescia,20 noto giurista anti-imperiale che fu prigioniero di Federico II. Che sono due tra i libri più letti e conosciuti del Medioevo, se addirittura Lynn Thorndike in un celebre articolo sul canone letterario o sul “fattore d’impatto” di opere medievali le annovera tra i Thirteenth-Century Classics.21 Se Albertano però condanna il parlare da folli («irrationabilia vero semper sunt tacenda»), esistono tuttavia dei casi ben diversi. Anzi, esiste nelle corti medievali una figura, il fatuus, che diventerà il fool nel teatro di Shakespeare, al quale spetta una funzione ben precisa, quella di folle che può permettersi di dire tutto ciò che dal cervello transita alla lingua. Figura presente in tutte le corti: da quella 18
G. M. Cantarella, Principi e corti. L’Europa del secolo XII, Torino 1997.
19
Opera hactenus inedita Rogeri Baconi, V. Secretum secretorum, cum glossis et notulis, tractatus brevis et utilis ad declarandum quedam obscure dicta fratris Rogeri, nunc primum edidit R. Steele, Oxonii 1920: il re dovrà «linguam reprimere» (p. 45) ma dovrà essere «facundum»; pur astenendosi «a multiluquio» dovrà praticare la conversazione coi consiglieri affinché questi possano amarlo in ragione della sua curialitas (pp. 48-49); il consigliere dovrà essere «curialis, affabilis, dulcis lingue, ita quod lingua cordis concordet et respondeat cogitacioni», sia dotato di eloquenza ma «quod non sit verbosus vel emittens multos risus» (pp. 141-42). Per la presenza del Secretum alla Curia federiciana vd. S. W. Williams, Prima diffusione del «Secretum Secretorum» in Occidente: corte papale e corte imperiale, in Federico II e le scienze, a cura di A. Paravicini Bagliani e P. Toubert, Palermo 1994, pp. 459-74. 20
Albertano da Brescia, Liber de doctrina dicendi et tacendi. La parola del cittadino nell’Italia del Duecento, a cura di P. Navone, Firenze 1998. 21
L. Thorndike, Some Thirteenth-Century Classics, “Speculum”, 2 (1927), pp. 374-84; di Albertano si parla alle pp. 376-77: «It is certainly not a great work, but it seems to have been popular»; del Secretum a p. 383: «The most popular medieval work of this type».
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plantageneta su cui ci ragguagliano Walter Map e Giovanni da Salisbury,22 a quella normanna di Palermo di cui parla la cronaca di Falcando: di quel buffone senza nome che alla corte di Palermo negli anni successivi alla morte del normanno Guglielmo I (1166) “folleggiando”, si fa strumento della politica del re.23 E non solo alla parola si limita il comportamento trasgressivo del fatuus, ma spesso si spinge al gesto folle o di simulata follia: come quello narrato da Walter Map, in cui un fatuus addirittura rovescia sulla testa dell’ospite un bricco di lat-
22
Cantarella, Principi e corti cit., pp. 114-26.
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«Nec illud reticendum arbitror, quod cum ad cardinalem magnates curie die quadam ceterique proceres et episcopi convenissent, aderat inter eos note loquacitatis et urbane quidam insanie, qui ob stultitiam suam libere quidem et nimis quandoque mordaciter in ipsos etiam farniliares invehi consueverat, et assidue curiam sequebatur. hic, cum universos solitis verborum contumeliis afficiens, ad risum singulos permovisset, tandem, omissis ceteris, Iohannem Neapolitanum intuitus: “quot”, inquit, “o cardinal, videtur tibi miliariis Panormum ab urbe Romana distare?”. cumque responsum esset .xv. dierum itinere: “at ego”, inquit, “te videns totiens tamque secure tanti difflcultatem itineris quasi negligendo discurrere, non ampliori spatio nos ab Romanis abesse quam .xx. miliariis arbitrabar. nunc autem intelligo qua spe lucri ductus pericula tanta contempnis, sentiens in manus stultorum thesauros palatii devenisse. Quod si Willelmus senior viveret, neque Romam redires ita suffarcinatus auro Sicilie, neque totiens Panormum recurreres ut contentiones et rixas in curia suscitares”. hoc illius dictum cum astantibus placuisset, subito dispersum in populo, multam adversus cardinalem plebis invidiam excitavit, versumque est in proverbium: “Iohannem Neapolitanum ab urbe Romana usque Panormum .xx. miliaria computare”», in La Historia o Liber de Regno Sicilie e la Epistola ad Petrum Panormitane Ecclesie Thesaurarium di Ugo Falcando. Nuova edizione sui codici della Biblioteca Nazionale di Parigi a cura di G.B. Siragusa, Volume unico con tre tavole illustrative, Roma 1897 (trad. ital. in Cantarella, Principi e corti cit., pp. 125-26: «Essendosi riuniti un giorno intorno al cardinale i grandi della corte e gli altri nobili e vescovi, era fra loro presente un tale di nota loquacità e di urbana pazzia, che per la sua stoltezza liberamente e fin troppo talvolta era solito inveire mordacemente contro gli stessi famigliari, e assiduamente seguiva la corte. Costui, dopo aver mosso al riso ognuno avendo coperto tutti quanti di contumelie verbali, alla fine lasciò perdere gli altri, fissò Giovanni Napoletano e gli chiese: “Quante miglia, cardinale, ti sembra che Palermo disti dalla città di Roma?”. La risposta fu: quindici giorni di viaggio. “Però! – riprese. – Io, vedendoti correre su e giù tante volte e con tanta tranquillità come se non ti curassi della difficoltà di tanto viaggio, mi credevo che non fossimo distanti dai Romani più di venti miglia. Ora invece capisco che è per speranza di lucro che fai così poco conto di tanti pericoli, giacché senti che i tesori del palazzo sono venuti nelle mani degli stolti. Ché se Guglielmo padre fosse ancora vivo non te ne torneresti a Roma cosi imbottito dell’oro della Sicilia, e nemmeno verresti tante volte a Palermo a suscitare contese e risse a corte”. Questo suo detto piacque molto agli astanti e fu subito sparso per il popolo, eccitando molta malevolenza della plebe contro il cardinale, e diventò proverbiale dire che Giovanni Napoletano dalla città di Roma fino a Palermo contava venti miglia»).
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te.24 Per provocazione, e nell’attesa maligna di una reazione violenta da parte del provocato: e ovviamente agendo dietro dettatura e copertura del suo signore. Infatti il folle, a corte, è una sorta di doppio del re. Per un’antica tradizione solo i re e i folli possono permettersi di agire in assoluta libertà.25 «Il loro compito [dei “buffoni”, s’intende] consiste nel divertire, senza dubbio, ma anche nell’interpretare il ruolo di “doppio”, di emissari della volontà del loro signore, di smascheramento delle sue intenzioni»,26 come si vede chiaramente nelle storia dei vari fatui presenti nelle pagine del De nugis curialium di Walter Map. E non si dimentichi che, oltre che nelle testimonianze delle cronache di corte, il parlare folleggiando è consegnato anche a un testo di larghissima diffusione, non a caso ambientato in una corte: e mi riferisco al Dialogo tra Salomone e Marcolfo. Alla saggezza del folle si riferisce appunto il celebre dialogo, nel quale un villano intelligente e di estrema sagacia verbale ribalta carnevalescamente la presunta sapienza di re Salomone. L’autopresentazione di Marcolfo a re Salomone è sotto l’insegna della follia: la parodica genealogia del villano «verbosum» e «eloquentissimus» culmina in un «ego sum Marcolfus follus»27 In generale il silenzio non è saggezza; anzi Marcolfo esorta Salomone a non fare troppo affidamento sull’uomo che preferisca il silenzio alla parola: «Aque non currenti et homini tecenti noli credere!».28 E ancora: trovare un folle è un’evenienza fortunata, tale da far gioire: «Ubi invenis talem follem, bucca illum basia aut in culo morde!»29. Al culmine di una lunga tenzone giocata sul filo dell’invenzione e della sottigliezza, i cortigiani sono sconcertati e ribattono ancora sulla follia, sul nonsenso delle espressioni del villano «eloquentissimus»: «Ut quid iste follus infestat dominum nostrum regem?». Ma il re Salomone, a differenza dei suoi consiglieri, dimostra di saper ben apprezzare il “carnevalesco”: l’impudente Marcolfo, per 24
Walter Map, Svaghi di corte, a cura di F. Latella, Parma 1990, II, p. 533.
25
W.H. Alexander, Aut Regem aut Fatuum, “The American Journal of Philology”, 58 (1937), pp. 343-45, in cui si tratteggia la tradizione classica del detto secondo il quale solo i re e i folli possono comportarsi in modo assolutamente libero. 26
Cantarella, Principi e corti cit., p. 125.
27
Salomon et Marcolfus, kritischer Text mit Einleitung, Anmerkungen, Übersicht über die Sprüche, Namen- und Wörterverzeichnis, herausgegeben von W. Benary, Heidelberg 1914; cito qui da Giulio Cesare Croce, Bertoldo e Bertoldino, in appendice Dialogus Salomoni et Marcolphi e El dyalogo di Salomon e Marcolpho, a cura di G. A. Cibotto, Roma 1960, p. 216. 28
Ibid., p. 226.
29
Ibid., p. 227.
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quanto folle in apparenza, è in realtà portatore di paradossali verità; dunque non sarà punito ma «bene saturatus cum pace dimittatur».30 Alla luce di queste testimonianze, credo insomma che nella sua letteralità il sonetto non parli necessariamente del folleggiare nella espressione dell’amore ma che potrebbe anche riferirsi al “parlar da folle a corte”. Se poi l’autore fosse Rinaldo d’Aquino, anche senza ricorrere più o meno positivisticamente a particolari di provenienza biografica, ciò acquisterebbe un plusvalore di senso; e occorre qui appena ricordare che Rinaldo era uomo di corte, anzi «et inter maiores in curia Frederici», e avrebbe sperimentato su di sé il tema del “come e quanto parlare” nonché intrighi e trame, come quella che egli avrebbe fraudolentemente organizzato «Friderico dissimulante» e che gli sarebbe costata la vita secondo la cronaca di Tolomeo da Lucca richiamata nei cappelletti “biografici” curati da Francesco Carapezza nell’imminente edizione mondadoriana. Credo dunque che l’autore del sonetto potrebbe anche parlare di curialitas, cioè in ultima istanza di comportamenti in una sfera che potremmo chiamare “politica”, nella misura in cui la curialitas è politica; e credo anche che si possa rintracciare nei Siciliani una trama di metafore feudali abbastanza evidenti ma che finora forse non sono state ben percepite perché, volenti o nolenti, un’autorevolissima tradizione critica ne ha velato la percezione. E sono metafore feudali che non riguardano solo il rapporto d’Amore modellato sul servizio vassallo-signore (il che sarebbe ovvio) ma costituiscono una riflessione, anche abbastanza esplicita, su comportamenti curiali e politici come quel «Certo me par che far dea bon signore / i· signoria sua fier cominciamento» che si legge nelle pieghe di una canzone di Giacomo da Lentini.31 Ove il fier cominciamento, ovvero l’idea che la prima fase di governo è quella in cui conviene operare con maggior determinazione o che al signore convenga esordire al governo con un’azione politica spregiudicata, parrebbe un vero e proprio consilium politico.32 30 Ibid., p. 229. E ancora l’appellativo di folle accompagna Marcolfo all’inizio della seconda parte del dialogo, ibid., p. 231. 31
In Poeti della Scuola Siciliana cit., I, 1.32, vv. 1-2, a cura di R. Antonelli.
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Ho in preparazione un breve studio sulle metafore e similitudini feudali nei Siciliani, di ambito politico-cortese; e intendo appunto non quelle in cui il poeta si rivolge a una donna chiamandola signore, né quelle in cui si fa riferimento metaforicamente alla signoria della donna, del tipo «Tant'è potente vostra signoria», (Giacomo da Lentini, Ben m’è venuto prima cordoglienza, 1.7, v. 5) ma quelle che alludono a comportamenti effettivi di tipo feudale o a precetti da speculum principis sul comportamento del buon signore, del tipo (anche qui le citazioni sono tratte dal nuovo corpus mondadoriano in tre volumi, in stampa): per essere amato, il signore deve mostrarsi a sudditi e consiglieri: «che gran follia mi pare / omo inorare a·ssì folle segnore / ch’a lo suo servidore non si mo-
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3. Un altro testo che a mio avviso pone qualche dubbio interpretativo è S’eo trovasse Pietanza, probabilmente attribuibile a Re Enzo, uno dei più celebri carcerati della letteratura italiana. Anche qui riportiamo il testo nella nuova edizione del corpus siciliano:33 I. S’eo trovasse Pietanza d’incarnata figura merzé le chederia ch’a lo meo male desse alezamento; e ben faccio acordanza infra la mente pura ca ’l pregar mi varia, vegendo lo meo umile agechimento. Che dico, oïmè lasso? spero in trovar merzede? Certo il mio cor nol crede, ch’io sono isventurato più d’omo inamorato: so che per me Pietà veria crudele.
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stra» (Tommaso di Sasso, D’amoroso paese, 3.2, vv. 58-60); i doni ricevuti dal signore vanno esibiti («e paremi che falli malamente / omo ch’à riceputo / ben da signore e poi lo vol celare», Rinaldo d’Aquino, Per fin amore vao sì allegramente, II 7.4, vv. 4-6); l’uomo di corte deve ricordare al signore la propria fedeltà nel servizio («ch’eo li rimembreria, / como fa servidore/ per fiate a suo segnore, / meo lontano servire», Stefano Protonotaro, Assai mi placeria, II 11.2, vv. 5-7); l’uomo di corte deve sapere prendere le distanze da un signore non meritevole («c’assai val meglio chi sa partire / da reo segnor e alungiar bonamente» e «a tal segnoria / son servato, che buono guiderdone / averaggio, perzò che no obria / lo ben servent’e merita a stagione», Iacopo Mostacci, Umile core e fino e amoroso, II 13.4, vv. 29-30 e 37-40); il buon signore ricompensa il merito («col buon segnor provede e face guiderdone», Carnino Ghiberti, L’Amore pecao forte, III 37.3, vv. 54-55); il buon signore non mente ed è generoso con gli uomini della sua corte («Non mente a quelli che son suoi / anti li dona gioi, / come fa buon segnore a suo servente» (Rinaldo d’Aquino, In gioia mi tegno tuta la mia pena, II 7.7, vv. 19-21); un buon signore non emette sentenze sbagliate («che bon segnor non dà torta sentenza», Anonimo, Donna, lo fino amore, III 49.7, v. 46); capita che si abbia timore di parlare dinnanzi a un signore che mette in soggezione («Ma dubito in parlare, / com’omo ch’è pauroso / e dubitoso / a segnor che fa dottare» III, Petri Morovelli, S’a la mia donna piacesse, 38.2, vv. 21-24), ecc. 33
La più recente edizione in Poeti della Scuola Siciliana cit., II, 20.2, a cura di C. Calenda.
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Stefano Rapisarda II. Crudele e spïetata seria per me Pietate encontro a sua natura, secondo ciò che mostra el meo distino, e Merzede adirata piena d’impïetate. Deo, ch’e’ ò tal ventura, ca pur diservo ove servir non fino? Per meo servir non veggio che gioia mi si n’acresca, nanti mi si rinfresca pena e dogliosa morte ciascun giorno più forte, ond’io morir sento lo meo sanare. III. Ecco pena dogliosa che nel meo core abonda e sparge per li membri, sì ch’a ciascun ne vien soverchia parte. Giorno non ò di posa come nel mare l’onda: core, che non ti smembri? Esci di pena e dal corpo ti parte. Molto val meglio un’ora morir ca pur penare, che non pò mai campare omo che vive in pene, né gaugio no ’l s’avene, né pensamento à che di ben s’aprenda. IV. Tutti quei pensamenti ca spirti mei divisa, sono pene e dolore, sanz’allegrar, che no gli s’acompagna; e di tanti tormenti abondo en mala guisa, che ’l natural colore
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Ipotesi di ricollocazione tematica di due testi della Scuola poetica siciliana tuto perdo, tanto il cor sbatte e lagna; or si pò dir da manti: «Che è zo, che no mori, poi ch’à’ sagnato il core?» Rispondo: «Chi lo sagna, in quel momento stagna, non per mio ben, ma prova sua vertute». V. La vertute ch’il’àve d’auciderme e guerire, a lingua dir non l’auso, per gran temenza ch’aggio no la sdigni; onde prego soave Pietà che mova a gire e facia i·llei riposo, e Merzé umilemente se gli aligni, sì che sia pïetosa ver’ me, che non m’è noia morir, s’ella n’à gioia: che sol vita mi place per lei servir verace e non per altro gioco che m’avegna.
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Così potremmo provare a parafrasare il testo della canzone: I. Se incontrassi la Pietà incarnata in figura umana, le chiederei misericordia, ché desse sollievo al mio male; e entro la mia mente pura nutro la speranza che questa preghiera potrebbe sortire un buon effetto, vedendo lo stato di abbattimento in cui mi trovo. Che dico, me misero? Spero di trovare misericordia? Certo il mio cuore non può crederci davvero, dato che sono sventurato più di un uomo innamorato (o “più d’omo che sia nato”) e so che persino la Pietà sarebbe capace di dimostrarsi crudele nei miei confronti. II. Crudele e spietata sarebbe la Pietà contro la sua stessa natura, secondo quel che mostra il mio destino e Misericordia sarebbe adirata e piena d’empietà. O Dio perché questa è la mia sorte, che continuamente acquisto demerito anche se non smetto mai di servire? Per quanto io continui a servire, non per questo vedo aumentare la mia felicità, anzi mi si rinnova sempre maggior sofferenza e morte dolorosa, ogni giorno più forte, per cui sento venir meno la mia (speranza di) guarigione.
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Stefano Rapisarda III. Ho una pena dolorosa che nel mio cuore abbonda e circola per le membra, sicché ogni parte del mio corpo ne riceve, ne subisce una quantità eccessiva. Non ho giorno di tregua come l’onda nel mare. Cuore, perché non ti strappi dal corpo (o “non ti spacchi, non ti rompi in pezzi”)? Esci dalle pene e staccati dal corpo. È di gran lunga preferibile morire una volta che continuamente vivere in pena, perché non può sopravvivere un uomo che conduce una vita di pene, né gli si manifesta (possibilità di) gioia né il pensiero di potersi mai aggrappare al bene. IV. Tutti quei pensieri che i miei spiriti discernono o elaborano non sono che pena e dolore, senza allegria, che ad essi (l’allegria) non può mai acocmpagnarsi, abbondo di tanti tormenti che sciaguratamente perdo il mio colore naturale tanto il cuore si dibatte e slamenta. Ora molti possono pur dire: “Come è mai possibile che non muori, dal momento che hai il cuore che sanguina?”. Rispondo: “Chi lo fa sanguinare nello stesso momento ne arresta l’emorragia, lo risana; non perché abbia a cuore la mia sorte, ma solo per mettere alla prova, per dimostrare il suo potere”. V. La sua capacità di uccidere e guarire non oso esprimerla ad alta voce, per il timore di poterla indignare, indispettire; onde prego umilmente la Pietà che si muova e vada da lei, e anche Misericordia umilmente le si unisca, in maniera che lei sia pietosa nei miei confronti; giacché non mi pesa, non mi addolora morire se lei ne ha piacere; che la vita mi piace solo se mi è consentito essere suo servitore e non per altro piacere che possa capitarmi.
Una consolidata e autorevole tradizione filologico-critica, da Bruno Panvini a Corrado Calenda, interpreta S’eo trovasse Pietanza come una poesia d’amore: un’esortazione indirizzata ad una donna, affinché ella ami il poeta e non lo lasci vivere in sofferenza; e il compito di persuadere la destinataria della richiesta tocca alla Pietà e alla Mercede che vengono impersonate e struggentemente invocate.34 E stavo per aggiungere al novero della maggioranza Gianfranco Contini, il quale però, a rileggerne il commento in questa chiave, parrebbe in realtà mostrare una certa cautela, anzi un sostanziale agnosticismo; si noti infatti che Contini non cita mai nelle sue note a questa canzone delle parole che pertengano al lessico amoroso e nel commento si limita a una letteralità non disambi34
Per tutti B. Panvini, S’eo trovasse Pietanza, in La scuola poetica siciliana. Le canzoni dei Rimatori nativi di Sicilia, Firenze 1955, pp. 177-78: «V. Il potere che essa ha di uccidermi e guarire, non oso dirlo con parole per il grande timore che ho che ciò provochi il suo risentimento. Per la qual cosa io prego umilmente la Pietà che si appresti ad andare e si fermi presso di lei, e Mercede umilmente le si accompagni, sì che la donna sia misericordiosa verso di me; ché non mi rincresce morire, se ella ne prova gioia; perché mi piace vivere solo per servirla lealmente, più che per qualsiasi altro bene che possa venirmi».
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guante che induce il sospetto che non voglia impegnarsi in un’esplicitazione troppo vincolante del senso. Infatti, per quanto la si interpreti tradizionalmente come canzone d’amore, la parola amore non è mai citata se non in un’ambigua similitudine, peraltro tràdita solo in uno dei due rami della tradizione, nella quale peraltro l’espressione del v. 14 «plu d’ogni innamorato» è comunque anfibologica e potrebbe valere sia per “soffro più di ogni altro innamorato al mondo” sia per “soffro più di quanto possa soffrire un uomo innamorato”, ove la sofferenza amorosa fosse assunta quale emblema della sofferenza esistenziale in generale. Non si manchi di notare che l’altro ramo della tradizione elimina l’amore alla radice perché reca la lezione «che sono sfortunato più d’omo che sia nato», riportando dunque la sofferenza alla condizione esistenziale umana più che a una transitoria condizione erotica. Anche qui Contini parrebbe riluttante ad assumere una posizione univoca, dato che nel suo commento il «plu d’ogni innamorato» viene parafrasato come un “più di qualsiasi innamorato” che rimane sostanzialmente anfibologico. Sotto il profilo del livello stilistico e della costruzione metrica, questa di Enzo è una canzone di tono molto elevato, come già osservava un antico editore dei poeti-re di casa sveva, Hermann H. Thornton,35 e nella quale non si può fare a meno di rilevare anche qualche singolarità lessicale: la iunctura mente pura del v. 6 e l’impïetate di Merzede del v. 20 sono a questa altezza cronologica delle voci rare e parrebbero più da lessico mistico o filosofico che amoroso; anche il distino del v. 18 è in fin dei conti parola rara in ambito siciliano (cfr. poco più avanti al v. 21 il ben più comune sinonimo ventura); unica altra attestazione in area omogenea, se non mi sbaglio, è quella di Neri dei Visdomini, Per ciò che ’l cor si dole, peraltro in una canzone che parrebbe intrattenere una precisa relazione intertestuale con questa, cfr. sotto.36 Lo stesso riferimento agli spiriti del v. 44 allude a meccanismi di funzionamento fisiologico ed è tipico, almeno a questa
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H. H. Thornton, The Poems Ascribed to King Enzio, “Speculum”, 4 (1926), pp. 398-409: «This canzone is, in its personification, its stanza-lenght, and its general tone, the most formal, one might say the most pretentious of the poems of this entire group». 36
Anche distinato può avere funzione sostantivale, ma comunque rimane parola di attestazione molto rara, distinato: ‘destino’, cfr. Cielo, Rosa fresca aulentissima, I. 16, v. 56: «Boimè, tapina, misera!, com’ao reo distinato!»; per la forma, cfr. M. Corti, La lingua poetica avanti lo Stilnovo. Studi sul lessico e sulla sintassi, a cura di G. Breschi e A. Stella, Firenze 2005, p. 34.
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altezza cronologica, del lessico medico-scientifico o filosofico comunque “alto”.37 Il fatto che un uomo desideri vedere Pietanza incarnata in figura e che quell’uomo, per un’esperienza biografica altamente simbolica e notissima a tutti i contemporanei, si trovi in carcere, direi che fa subito pensare alla visione di Filosofia che si manifesta nel sommo dell’infelicità a Boezio incarcerato, in quello che è, inutile dirlo, uno dei testi più celebri del medioevo e più diffusi anche a livello scolastico.38 Ciò detto tenterei appunto di dare una lettura “boeziana” di questa canzone, come riflessione sulla Fortuna. E si ricordi che oltre all’ininterrotta tradizione di un’intertestualtià carceraria, che, diremmo, collega Boezio a una pluralità di altri testi (a un Arrigo da Settimello e la sua Elegia (VII secolo) composta in carcere durante uno stato di caduta e disgrazia39 o a un Bono Giamboni, ecc.), il tema della mutabilità della Ventura, collegata o meno o che sia a questa rete intertestuale, è diffusissimo nei Siciliani, e ancor più nei Siculo-toscani, e basterà richiamare solo qualche citazione.40 Lo stesso Re Enzo, se è sua la canzone, ave37
Lo spirito compare in una delle liriche lentiniane di più alto impegno tecnico-metrico, e «l’impegno tecnico può forse già denunciare l’importanza della tematica affrontata». Sul termine spirito e il suo impiego lirico si veda l’approfondita nota di R. Antonelli a Madonna mia, a voi mando, v. 20 in Poeti della Scuola Siciliana cit., I, 1.13. 38
Sulla fortuna e l’uso scolastico di Boezio cfr. il recente R. Black-G. Pomaro, “La consolazione della filosofia” nel Medioevo e nel Rinascimento italiano. Libri di scuola e glosse nei manoscritti fiorentini / Boethius’s “Consolation of Philosopy” in Italian Medieval and Renaissance Education. Schoolbooks and their Glosses in Florentine Manuscripts, Firenze 2000. 39
Per il parallelismo testuale tra Boezio e Arrigo da Settimello cfr. E. Bonventura, Arrigo da Settimello. L’“Elegia de diversitate fortunae et philosophiae consolatione”, “Studi medievali”, IV (1912-1913), pp. 136-37. Per il testo: Enrico da Settimello, Elegia, a cura di G. Cremaschi, Bergamo 1949, p. 40, vv. 23-24: «O dolore e vergogna e gravezza! O trista ventura!/Io sono misero e niuno mi fa misericordia». 40
Si pensi innanzitutto a Giacomo da Lentini, Per sofrenza si vince gran vetoria, I 1.31, vv. 10-14: «ancor la mia ventura vada torta / no me dispero certo malamente, / che la ventura sempre va corendo / e tostamente rica gioia aporta / a chïunque n’è bono soferente»; Ruggeri Apuliese, Umile sono ed orgoglioso, II 18.1, vv. 79-80: «E la ventura sempre scende e sale; / tosto aviene a l’omo bene e male»; Rinaldo d’Aquino, In un gravoso affanno, II 7.2, vv. 15-17: «ch’a pover omo avene / ca per ventura à bene, / che monta ed àve assai di valimento»; e soprattutto Re Enzo, Tempo vene, II 20.4, vv. 1-2: «Tempo vene che sale chi discende, / e tempo da parlare e da tacere» e Federico II, Misura, providenza e meritanza, II 14.5, vv. 9-11: «Omo ch’è posto in alto signoraggio / e in ricchezze abonda, tosto scende, / credendo fermo stare in signoria»; riferimenti alla Fortuna e alla sua ruota sono ancor più frequenti nei Siculo-toscani, come Inghilfredi, Dogliosamente, III 47D.1, vv.
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va già consegnato al sonetto Tempo vene che sale chi discende una meditazione sullo stesso tema.41 Nulla parrebbe ostare a una canzone interamente dedicata alla Fortuna; il termine “gioco” del v. 70 è certo nella tradizione dell’amor cortese ma, se riferito al gioco della Fortuna, è anche, e assai prima, in Boezio. È la Fortuna che si diverte a giocare con la vita degli uomini: «[…] hunc continuum ludum ludimus, rotam volubili orbem versamus, infima summis, summa infimis mutare gaudemus. Ascende, si placet, sed ea lege, ne, uti cum ludicri mei ratio poscet, descendere iniuriam putes» (II, 9-10).42 Ai vv. 68-69 l’autore parrebbe alludere al servitium fortunae come modo di confidare in un ribaltamento della condizione esistenziale. Qui il re svevo incarcerato parrebbe dire: «se si continua a confidare nella fortuna, le cose non possono che mutare in bene, non potendo le cose andar peggio ed essendo Fortuna quella cosa che fa girare tutto, voglio morire o sopravvivere sperando che la ruota giri». Il referente dei vv. 54-55 sarebbe in questa lettura la ventura già espressa al v. 21, piuttosto che una non mai esplicitata donna amata e lo stesso varrebbe per il v. 57, ove la virtù, la capacità, di uccidere e guarire sarebbe appunto pertinenza della stessa entità personificata; infatti sotto il profilo strettamente testuale, il rinvio dell’il del v. 57 non può essere che di tipo cataforico e con l’unico referente possibile che parrebbe anche in questo caso la ventura del v. 21. Al v. 60 il passo in cui si esprime la paura che la Fortuna possa mostrarsi insensibile all’invocazione dell’uomo disperato (per gran temenza ch’agio no la sdigni) 21-24: «Poi che le piacque a Quella ch’à ’n podere / la rota di fortuna permutare, / però lei piaccia di me rallegrare: / cui à sallito, faccialo cadere» e 45: «Che ciascun d’alto potesi bassare»; Panuccio del Bagno, Se quei che regna, vv. 15-18: «Sed alcun folle sé trova ne l’alto, / sensa defalto sù cred’esser fermo; / poi vê’ si sper’, mo fa di sotto ’l salto. / Chi è ’n grande essalto, non creo regni guer’mo» (Panuccio del Bagno, Rime, a cura di F. Brambilla Ageno, Firenze 1977, pp. 103); Onesto da Bologna, One cosa terena, vv. 1-2: «One cosa terena quanto sale, / tanto conven che senda per natura» (Onesto da Bologna, Rime, a cura di S. Orlando, I, Firenze 1974, pp. 85); la Rota della Ventura è in Ciolo de la Barba, Compiutamente, 33.1, v. 7: «e se Ventura de la rota à fermezza». Anche qui, se non diversamente specificato, le citazioni sono tratte dal nuovo corpus mondadoriano, in stampa. 41
In Poeti della Scuola Siciliana cit., II, 20.4, a cura di C. Calenda.
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Severino Boezio, La consolazione della Filosofia (De consolatione Philosophiae), a cura di C. Moreschini, Torino 1994, pp. 130-31: «Questa è la nostra forza, questo il gioco che conduciamo continuamente: noi giriamo la ruota in tondo, ci piace mutare le cose che sono in alto con quelle che sono in basso, e viceversa. Sali pure, se tu vui, ma a questo patto, che tu non consideri un’offesa il discendere, quando lo richiederà la regola del gioco».
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parrebbe alludere direttamente all’incipit del De consolatione in cui si dice: «Eheu, quam surda miseros avertitur aure / et flentes oculos claudere saeva negat!» (I, 15-16).43 E si noti anche che con Boezio potrebbe spiegarsi quel già citato sintagma dal sentore “filosofico” del v. 6, la mente pura che, in accezione assolutamente unica nei Siciliani, a Contini pareva citazione neotestamentaria e precisamente paolina, e che invece al più recente editore pare giustamente di tutt’altra ascendenza, comunque laico-filosofica.44 Infatti, se la coincidenza è significativa, la mente pura è già in Boezio ed è il più alto grado di consapevolezza e di acutezza percettiva che l’uomo raggiunge con l’esercizio della filosofia: «Intelligentiae vero celsior locos exsistit […] illam simplicem formam pura mentis acies contuetur»; vale a dire quel “puro sguardo della mente che spinge a cogliere la stessa semplice forma dell’essere”; ed è il passo in cui Boezio distingue a livello ascendente i gradi della percezione, senso, ragione, immaginazione, intelligenza: «sensus enim figuram in subiecta materia constitutam, imaginatio vero solam sine materia iudicat figuram», con insistenza, che a me pare significativa, sul termine figura. La visione con mente pura («pura […] cernere mente») torna nei versi iniziali del carme VI del libro IV,45 a riprova di quanto sia importante l’addestramento della mente al più alto tipo di visione nel De consolatione di Boezio. Si potrebbe obiettare alle osservazioni precedenti che, pur in assenza di un lessico esplicitamente amoroso si riscontra tuttavia in dosi massicce il lessico del servizio, della gioia, ecc. Ebbene, chiedo scusa per la semplificazione anzi per la banalità: ma credo che nei Siciliani e nei Siculo-toscani si parli d’amore quando si usa la parola amore. Semmai l’inverso: il lessico amoroso è talmente invasivo che l’uso di termini che apparentemente appartengono alla tradizione amorosa non vuol dire necessariamente che ci troviamo nell’ambito di significati amorosi. Per esempio si veda il caso di una canzone di Inghilfredi, in «Dogliosamente e con gran malenanza / convien ch’io canti e mostri mia gramessa, / ca per servire sono in disperanza» ha un incipit che parrebbe amoroso; e usa versi che parrebbero amorosi: «Partomi di sollazzo e d’ogne gioco» e «Ardo e strugo e 43
Ibid., pp. 82-83: «Ahimé, essa con sorde orecchie discaccia i miseri e crudele non vuol chiudere gli occhi che piangono».
44 «La certezza dell’efficacia della supplica (v. 7) è una provvisoria illusione tutta mentale (infra la mente pura), immediatamente smentita dal brusco ritorno alla realtà (vv. 9-10): dunque inopportuni, a mio parere, in questo caso i richiami biblici di Contini alla conscientia pura e al cor purum della lettera a Timoteo di San Paolo», Calenda in Poeti della Scuola Siciliana cit., II, 20.2. 45
Boezio, La consolazione della filosofia cit., pp. 296-97.
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consumo pur pensando / con’ son caduto e donde e cui mi trovo».46 Eppure è una canzone che indubbiamente parla di politica, anzi “dura”, militante, dato che parrebbe una replica di parte filo guelfa alla «caduta del governo guelfo [di Lucca], nel 1263-1264, quando in seguito alla vittoria riportata da Pisa, rientrarono in città tutti i ghibellini cacciati dopo la battaglia di Montaperti (1260) per dare ospitalità ai profughi guelfi». Quale che sia il momento e la ragione della composizione non c’è dubbio che qui Inghilfredi con il lessico della tradizione lirica amorosa in realtà stia parlando d’altro né mai si possa dubitare che parli d’altro. Perché, allora, non considerare la canzone come una meditazione boeziana sulla Fortuna, e un’implorazione affinché questa mostri una volta, magari l’unica, un volto benevolo, nascondendo così il volto beffardo e crudele che ha rivolto fino a quell’istante al poeta, conducendolo dalla sconfitta militare al carcere? Sembra quasi che i versi che compongono S’eo trovasse Pietanza scandiscano le tappe di un percorso meditativo intrapreso dal Re prigioniero: consapevole del suo triste destino, dapprima egli cerca lenimento alle sue sofferenze presso la Pietanza, che contraddicendo la sua stessa natura gli si mostra crudele e spïetata; allora pensa di rivolgersi a Merzede, la quale non sarebbe così disposta a spalancargli le braccia per confortarlo, in quanto anche lei sarebbe adirata e piena d’impïetate. È la mente pura, che lo induce a sperare, forse illusoriamente nella possibilità che Ventura muti il suo corso. In preda a un momento di spossatezza e di forte emotività, Re Enzo realizza che pena e dogliosa morte si fanno ogni giorno più intense e vicine, e arriva persino ad invocare la fine della sua vita, proprio come Boezio nel De consolatione. E si rende consapevole che la sua unica speranza consiste nel confidare nella Fortuna: come un tempo essa lo aveva sollevato e poi abbassato, in un indistinto futuro potrebbe risollevarlo facendo girare la sua ruota. L’incarico di tentare questa impresa dovrà essere mediato da Pietanza e da Mercede, e il poeta non potrà far altro che continuare a vivere come servitore di Fortuna, in balia del suo gioco, ma speranzoso in una risalita. Questo è solo un modesto invito al dubbio; e che i versi di Enzo siano leggibili anche in chiave amorosa è dimostrato, oltre che dalla prevalente tradizione critica, da un lampante rapporto intertestuale con una canzone di argomento amo46
In Poeti della Scuola Siciliana cit., III, 47D.1, a cura di M. Berisso.
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roso e di ripetuta evocazione della ventura (vv. 8, 23, 27). È quello che accade in un testo quasi sincrono, forse leggermente posteriore, come Per ciò che ’l cor si dole di Neri de’ Visdomini; le due canzoni, metricamente assai vicine, con inversione di numero di versi tra fronte e sirma e stesso numero complessivo di verso per stanza (14), ma senza che sia possibile stabilire con certezza la direzione dei prelievi, dialogano senza dubbio tra loro, come dimostrano alcune riprese significative specie della I strofe come distino, pietate/pietanza, ventura e soprattutto la iunctura “intellettuale” mente pura, il tema è certamente amoroso perché esplicitato nella II strofe che qui non riportiamo:47 I. Per ciò che ’l cor si dole, mi movo a·ffar lamento, e quel dolore cresce e non s’atuta. Assai più che non sòle, s’avanza il mio tormento, che la pietate per me è smaruta. Credo che ’l meo distino e la forte ventura ricontri a la pietanza com’agua fred’a lo calor del foco. No finai, né rifino servir con mente pura e amare co leanza, e truovola guerrera in ciascun loco.
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La relazione intertestuale mi pare indubbia, ma, lo ripeto, senza che sia possibile stabilirne la direzione: se cioè il siciliano introduca una variazione “tragico-esistenziale” in un tradizionale tema erotico e se viceversa il siculo-toscano riconduca quella variazione a una situazione tradizionalmente erotica. Un’altra che parrebbe una ripresa intertestuale si trova tra le rime dei cosiddetti Memoriali bolognesi,48 ove si legge:
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In Poeti della Scuola Siciliana cit., III, 28.6, a cura di S. Lubello.
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Rime dei Memoriali bolognesi (1279-1300), a cura di S. Orlando, Torino 1981, p. 27 poi in Rime duecentesche e trecentesche tratte dall’Archvio di Stato di Bologna, ed. critica a cura di S. Orlando con la consulenza archivistica di G. Marcon, Bologna 2005, pp. 30-31.
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(1286) 12 S’eo trovasse incarnata la Pietanza, degno sirïa de le’ morte dare como a guerrero mortale ché gli ho clamato mercede a pesanza che de le mie pene me deza alegiare; ma nïente me vale. Como lo césaro mantirò l’usanza: quando ha plui doglia, comenza a cantare e dà termino al so male. De la mia doglia mostrarò alegranza daché pietanza no me val clamare: mia pena monta e sale.
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Al di là della singolare struttura metrica e della condizione testuale che forse è di frammento, direi che neanche questo testo rappresenta necessariamente una doglianza d’amore. E già a partire dal primo verso, S’eo trovasse incarnata la Pietanza, non escluderei un rapporto intertestuale un po’ più stringente di quello che ipotizza l’editore; in particolare mercede di 4 e soprattutto petanza di 1 e 11 parrebbero parola-chiave. Analoga anche la situazione: un uomo, dinanzi all’indifferenza della Pietà nei suoi confronti, desidererebbe ucciderla e morire cantando come il cigno che dà termino al so male. Parrebbe una sorte di prosecuzione della situazione cantata in S’eo trovasse Pietanza di Re Enzo. Anche questo ultimo, probabile, richiamo intertestuale ci porta distante da una fruizione univocamente amorosa, che è quella dominante nella storia della ricezione di questo testo. Ma c’è un’eccezione alla quasi unanimità dell’interpretazione amorosa: ed è il vecchio Torraca che attira l’attenzione soprattutto sulla III strofe:49 Enzo […] ne’ ventidue anni dell’onesta sua prigionia, non pure, come narra la leggenda per la vaghezza della persona, per la fama del valore, per la mesta aureola della sventura, ond’era circondato, vinse i cuori delle fanciulle […] [Ma] Non, forse, un amore immaginario, più probabilmente il suo duro fato gl’ispirò questa [la III], che è una delle più sentite strofe della lirica siciliana […] Folchetto di Marsiglia aveva cantato: “Minor male, a parer mio, è morire, che 49
F. Torraca, La scuola poetica siciliana, “Nuova Antologia”, serie III, LIV (1894), pp. 475-76 poi in Studi su la lirica italiana del Duecento, Bologna 1902, p. 176.
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Stefano Rapisarda vivere così, con pena e con affanno”; altri provenzali e italiani avevano ripetuto il concetto, ovvio del resto; ma chi l’aveva mai espresso in altrettanto tragica situazione?
Re Enzo avrebbe giocato in variazione con il più consolidato lessico poetico, riusandolo in chiave “tragico-esistenziale”. Mi domando se il vecchio Torraca non avesse ragione. Insomma tenderei a recuperare questa interpretazione, che probabilmente non gode di troppa simpatia perché odora troppo di “positivismo biografico” ma che forse in questo caso specifico era più che plausibile.50
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Se così fosse S’eo trovasse Pietanza sarebbe anche l’unico testo morale-didascalico non in forma di sonetto, cfr. Folena, Cultura e poesia dei Siciliani cit., p. 278: «Essi [i Siciliani] evitano ogni argomento che non sia amoroso (solo raramente, ed esclusivamente nel genere conversativo del sonetto, compare una tematica diversa, d’argomento dottrinale, morale e religioso)».
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