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Di Marco Corrado Srl

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Dr Zanolli

Dr Zanolli

DI MARCO CORRADO SRL Via Monte Nero, 1/3 00012 Guidonia Montecelio (RM) Tel 0774 572804

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I due nuovi volti della Pinsa Romana Di Marco: Puccia e Sorriso

Le migliori invenzioni nascono dalla creatività e dalla voglia di sperimentare. Così è successo nel 2001 quando Corrado Di Marco ha inventato l’Originale Pinsa Romana e così succede oggi con la creazione di due nuovi formati per il settore professionale della ristorazione che rendono la Pinsa ancora più versatile e vicina al mondo dello street food: Puccia e Sorriso. Puccia si ispira al pane della tradizione salentina ed è facile da condire grazie all’aspetto gonfio e senza mollica, mentre Sorriso ha una caratteristica forma a conchiglia semi aperta, ripiegata su sé stessa, che agevola la farcitura a piacere. Così come avviene per la Pinsa Romana, anche Puccia e Sorriso seguono una lenta lievitazione di 72 ore e vengono stese a mano dagli esperti pinsaioli Di Marco. Gli impasti di queste basi di Pinsa sono realizzati senza additivi né conservanti e contengono ingredienti che ne garantiscono leggerezza e alta digeribilità. In particolare, la pasta madre e lo speciale mix di farine di frumento, riso, soia e pasta acida conferiscono un aroma e un sapore intenso, mentre l’elevata idratazione dell’impasto dona una fragranza in grado di accogliere qualsiasi condimento e farcitura. Puccia e Sorriso sono soluzioni ideali per ricreare ricette regionali, nazionali e internazionali da proporre ai clienti e per accontentare tutti i palati, dai tradizionali ai vegani.

Dal punto di vista pratico, se la conservazione è così lunga da raggiungere i 18 mesi ad una temperatura di -18°, la preparazione è invece molto veloce: dopo la fase di scongelamento che dura 3-4 minuti a temperatura ambiente, le due basi possono essere condite e cotte per 4-5 minuti in forno statico a 300° oppure per 7-8 minuti in forno ventilato a 250°. Puccia e Sorriso nelle loro confezioni rispettivamente di 50 pezzi e 25 o 35 pezzi, reinventano la Pinsa Romana con originalità e ampliano l’offerta per il mondo della ristorazione.

LA FORMA DELL’ACQUA:

I segreti dell’idratazione dell’impasto di pizza e pinsa

di Marco Montuori

Sono numerosi gli elementi che concorrono alla realizzazione di un impasto perfetto per una pizza o per una pinsa romana: certamente la scelta della farina (o del mix di farine), gli agenti lievitanti, i tempi di lievitazione e maturazione, le modalità di lavorazione dell’impasto e, last but not least, la quantità d’acqua o “idratazione”. Ad una maggiore idratazione corrisponderà un impasto sempre più leggero e alveolato, morbido all’interno e croccante in superficie, pronto per essere condito a piacere.

Per calcolare la corretta idratazione, è necessario rispettare alcuni parametri scientifici e, in particolar modo, la “forza” delle farine utilizzate (indicata dalla lettera W). Una pinsa romana, per esempio, richiede una maggiore alveolatura, ovvero la quantità di bolle d’aria e, per ottenere questo effetto, è indispensabile idratare molto l’impasto. A questo proposito, le farine “forti” sono caratterizzate da un alto tasso di trattenuta d’acqua e sono ideali per una lievitazione prolungata grazie all’alto contenuto di glutine. Quelle più “deboli”, a causa del poco glutine, non trattengono l’acqua e non sono idonee a lievitazioni prolungate. Nello specifico, se per una pizza tonda (che richiede la massima resa immediatamente dopo la cottura), è sufficiente una farina di media forza con un’idratazione del 6570%, le farine forti per Pinsa Romana e per Pizza in Teglia richiedono invece un quantitativo di acqua maggiore (circa l’80%), che viene gradualmente rilasciata durante la fase di cottura, ottenendo un impasto leggero, molto morbido e arioso all’interno, croccante in superficie e in grado di conservare le sue caratteristiche organolettiche più a lungo, anche quando vengono riscaldate dopo alcune ore dalla cottura. In ogni caso, come piccolo ma efficace trucco per idratare al meglio ogni singola tipologia di farina, sfruttando appieno la maglia glutinica per un impasto più tenace, è meglio utilizzare acqua molto fredda, magari con ghiaccio tritato o a piccole scaglie all’interno (attenzione a non usare cubetti, per non rovinare l’impastatrice). Ma in quale fase di lavorazione si aggiunge l’acqua? L’estensibilità del glutine viene costruita seguendo l’ordine preciso degli ingredienti da versare nell’impastatrice. Si parte dalla farina e dal lievito, e poi, una volta impostate le velocità di lavorazione e amalgamati i due ingredienti, si aggiunge l’acqua a più riprese, a seconda della percentuale da utilizzare. Lo scoppiettio della cosiddetta “zucca” all’interno dell’impastatrice indica che la maglia glutinica si è formata correttamente. Per aggiungere sale e olio dovremo aspettare che l’impasto salga di temperatura: io cerco di chiudere l’impasto a 21°C per cui aggiungo il sale quando arriva a 19°C e, nel giro di un minuto aggiungo anche l’olio. Nel tempo necessario all’assorbimento saliremo quindi di un paio di gradi, per arrivare alla temperatura desiderata di 21°C. Vale la pena, in conclusione, ricordare che per impasti ad alta idratazione sono preferibili impastatrici ad alta velocità, più idonee per incordare bene il glutine creando molto attrito.

In pillole: farina forte, impastatrice veloce, acqua molto fredda e versata a più riprese.

Solo adesso possono cominciare lievitazione e maturazione, ma di questo parleremo nelle prossime puntate.

Tre forni per una lady

Marianna Iaquinto, Lady Anna

Alle porte di Benevento, a Ceppaloni, Marianna Iaquinto è per tutti “Lady Anna”. Marianna fa la pizzaiola da 33 anni ed è madre di due figlie, oltre che nonna di una bellissima bambina. Ha iniziato a fare questo lavoro negli anni ’90, quando la sola idea di parlare di donne in pizzeria era relegata soprattutto al servizio di sala e accoglienza per i locali più blasonati.

Dalle sue parole si evince subito l’amore per quella che oggi è a tutti gli effetti una professione, che è fatta – per sua stessa ammissione – di dedizione, passione, voglia di crescere sempre e di condividere i propri traguardi e competenze.

di A.P.

Marianna, come è cambiato questo mestiere nei tuoi 33 anni di esperienza?

Quello del pizzaiolo è un lavoro che è molto cambiato negli anni perché sono cambiate farine, tecniche, conoscenze. Ed è cambiata anche l’attenzione del pubblico, oltre che dei professionisti. Oggi, chiunque vuole ha le competenze per fare un impasto diverso: indiretto, con poolish e biga o diretto, variabile a seconda della forza della farina, del mix utilizzato, delle ore di lievitazione e maturazione… In pratica, se prima andavi al mulino vicino casa e non conoscevi le caratteristiche del prodotto, oggi invece riesci ad avere una scheda tecnica molto precisa. La pizza però resta un piatto che è simbolo dell’eccellenza italiana, prima come adesso: è completo, ci sono carboidrati, proteine, vitamine, c’è tutto… Mangiare una pizza è sorridere al primo boccone.

Quanto conta la formazione?

È importantissimo che i ragazzi frequentino corsi di formazione: io stessa ho fatto da formatrice all’Istituto Smaldone di Salerno, ma anche al carcere minorile di Airola e nella casa circondariale di Benevento. Bisogna trasferire agli allievi l’amore che si ha quando si tocca un panetto perché il panetto della pizza “sente”, è qualcosa di vivo. Ed è diverso quando lo tocchi con amore. Non ti nascondo che nel fine settimana arrivo distrutta a casa ma ringrazio sempre il Signore perché faccio un lavoro che mi piace e mi dà soddisfazione.

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a sinistra

Marianna Iaquinto, Lady Anna con Gino Sorbillo

GRUPPO

a sinistra I tre forni di Lady Anna: un forno per il senza glutine, uno per la pizza napoletana e uno per la pinsa romana

Che formazione deve avere oggi un pizzaiolo?

In primo luogo, le ragazze e i ragazzi che si avvicinano a questo mondo, dovrebbero sapere a cosa stanno andando incontro. Se andiamo a impastare o a cuocere pizze solo perché non abbiamo altro da fare, è meglio non farlo. Prima il pizzaiolo era il mestiere al quale venivano relegate le persone “ignoranti” che non avevano voglia di studiare, oggi no. Non può più essere così perché fare il pizzaiolo significa rinunciare a tanto: le feste con la famiglia, i compleanni, gli affetti…. Il primo requisito per farlo è dunque amare ciò che si sta facendo, il secondo è studiare. Il motivo è che dobbiamo saper rispondere alle domande che il pubblico ci pone e nel contempo mettere nel piatto la nostra identità, ciò che siamo noi. Io, ad esempio, nel mio locale, faccio anche la pinsa romana ma l’ho modificata come piace a me. E faccio anche pizza senza glutine, perché mia figlia è celiaca: ho dunque un forno per il senza glutine, uno per la pizza napoletana e uno per la pinsa romana.

sotto Pinsa con farine di riso, soia e frumento

Come si costruisce la propria “identità di pizza”?

Ogni pizzaiolo trasforma la pizza a modo suo ma per farlo deve acquisire conoscenze. Se noi vogliamo riprodurre ciò che un pizzaiolo fa in un’altra pizzeria, non abbiamo identità. Dobbiamo invece acquisire le basi ed essere attenti a fare della pizza un prodotto nostro. Il vero segreto sta nella farina: usare una farina macinata a pietra oppure scegliere un mix di farine con una percentuale di crusca in più, ciascuno sceglie ciò che sente più vicino. La mia pinsa, ad esempio, è fatta con farine di riso, soia e frumento, ha una lievitazione e maturazione di 72 ore e subisce una precottura. Dobbiamo fare del nostro lavoro la nostra identità.

Cosa vuol dire essere pizzaiola oggi?

Guardare il sorriso delle persone quando vanno via. Dopo avere assaggiato i miei prodotti, dopo avere scambiato qualche parola, ascoltare quel “ci rivediamo presto perché abbiamo mangiato una pizza buonissima”, fa andar via tutta la fatica. Il nostro è un lavoro molto impegnativo, sotto tutti i punti di vista. Io ho una buona resistenza fisica ma la fatica si sente. Non è un mestiere solo adatto agli uomini: ci sono donne ricercatrici, scienziate, pilote, perché non potremmo essere pizzaiole? È più faticoso perché siamo donne e mamme ma possiamo farcela. Il dolore che si ha nel momento del parto un uomo non lo sopporterebbe: noi possiamo tutto, se vogliamo. Il pizzaiolo è un bellissimo mestiere e la donna riesce a mettere dentro anche la creazione: noi siamo più delicate ma anche più inventive, cerchiamo di vedere (e di portare) la bellezza in un piatto o su una pizza. L’unica nota dolente è che noi siamo in minoranza rispetto agli uomini, credo sia per una questione di impegni e orari di lavoro: il pizzaiolo è un lavoro che – almeno nelle piccole città – si fa di sera e in genere a quell'ora una persona sposata è a casa con la famiglia. E inoltre se devi rientrare di notte da solo, è meglio per te che sia un uomo anziché una donna. Il problema quindi non è il lavoro in sé ma la società nella quale viviamo.

sopra Sala allestita per una festa

accanto Pizza dolce

Daniele Campana

di Antonio Puzzi Se questa rivista non fosse rivolta a un pubblico professionale, avrei raccontato la storia di Daniele Campana partendo dal suo storytelling e dalla sua grande passione per il suo prodotto, la pizza in teglia e per la sua terra, la Calabria ma parlando a un parterre di professionisti non posso che partire dalla mia esperienza personale. È un lunedì di inizio febbraio quando vengo contattato da chi si occupa di coordinare la comunicazione di Daniele. Mi viene proposto di assaggiare la sua pizza e ovviamente, come quasi sempre, rispondo di sì, sperando di avere il tempo di raggiungere il prima possibile la Calabria. Mi dicono però che c’è un’altra possibilità. Penso a qualche evento in giro per l’Italia ma sono lontano anni luce dalla verità. Mi viene detto infatti che Daniele fa arrivare la sua pizza direttamente a casa mia perché ha pensato a un “Calabria kit” riservato esclusivamente alla stampa. E a me viene in mente immediatamente lo spot di una celebre pizza surgelata che mostra una famiglia borghese di Milano che chiama una pizzeria all’ombra del Vesuvio per farsi consegnare la pizza a casa. Poiché però le sfide mi piacciono e sono molto curioso, accetto.

A parte qualche difficoltà logistica per la consegna (dovuta al fatto che – salvo zone rosse – sono spesso in giro), a fine febbraio mi arriva finalmente un pacco che – da quel che posso sentire – non ha mai interrotto la catena del freddo. Lo apro e dentro trovo quattro basi rosse di pizza in teglia, una ricotta stagionata e affumicata, la ‘nduja e altre eccellenze “made in Calabria”. In un video che mi invia su Whatsapp (con riprese e montaggio perfetti) Daniele mi spiega come rigenerare il prodotto abbattuto e condirlo poi secondo le sue indicazioni, suggerendomi anche il percorso degustativo per apprezzare al meglio i sapori. Il risultato – ça va sans dire – è a dir poco sorprendente: non ho mai assaggiato la pizza di Daniele prima di quel momento ma se io sono riuscito a renderla così buona posso solo immaginare quanto sia buona la sua, da gustare appena sfornata. Ecco, questo mi ha fatto pensare a molte cose. Due di queste ve le condivido. In primo luogo, non trattandosi di una proposta commerciale ma di una attività promozionale, ho pensato che sia stata un’idea straordinaria perché non solo Daniele si presenta in maniera innovativa ma anche perché ha scelto il target giusto per incuriosire e far parlare di sé e della Calabria, la terra da lui

amata. In secondo luogo, quello che io ho ribattezzato “Calabria kit” consente di conoscere una serie di ingredienti che vengono da produttori calabresi e ci fa ragionare sul valore dell’economia circolare che la pizza genera. O meglio che la pizza può generare. E Daniele su questo ha le idee ben chiare: «Ho un profondo rispetto verso la mia terra, per il lavoro svolto dai contadini, per i frutti del loro duro lavoro. La mia pizza parla calabrese e racchiude il territorio della Calabria: non racconta la mia storia, ma tante storie».

E ora finalmente vi parlo di lui. Per Daniele Campana la pizza in teglia è una vocazione ma Daniele è “figlio d’arte”. Suo padre, Francesco, gestiva dal 1990, insieme alla mamma Carmela, la gastronomia di Corigliano Calabro, in provincia di Cosenza. È qui, fra farine, lievito madre, impasti e prodotti tipici che crebbe in lui il desiderio di dedicarsi alla cucina e, in particolare, alla pizza in teglia, che oggi è l’unico prodotto dell’ex gastronomia.

«È stato un cambio naturale – dice Daniele

– anche se inizialmente i miei genitori non capivano perché io puntassi unicamente ad un prodotto. Io, però, avevo una passione da seguire e un sogno da realizzare: trasferire tutti i sapori della Calabria nella pizza in teglia, che diviene così un piatto per raccontare la storia di tanti artigiani che lavorano la terra con

dedizione e impegno»

Nel corso degli anni, Daniele ha alternato il lavoro con gli studi e con i corsi di formazione sulla pizza e sull’arte bianca. La sua pizza in teglia è oggi realizzata con farine macinate a pietra. L’impasto è indiretto e matura 24 ore a temperatura controllata. In ogni proposta, Daniele inserisce sempre un prodotto che ha la capacità di stupire, come nel caso della pizza con zucca, mortadella e liquirizia. A ispirare il lavoro di Daniele è un principio su tutti: il rispetto dell'identità attraverso la volontà di continuare una tradizione e l'esigenza di salvaguardare l'impegno degli artigiani e dei contadini.

LA RICETTA

Pizza in teglia con crema di zucca, mortadella di suino nero dell’Aspro- monte, polvere di liquirizia bio

INGREDIENTI (per una teglia per 4 persone) PREIMPASTO della Calabria, cipolla 500 gr farina di forza 250 gr acqua 10 gr lievito fresco di Tropea IMPASTO FINALE 250 gr farina integrale 300 gr acqua 5 gr lievito 15 gr sale integrale

FARCITURA Zucca Mortadella di suino nero dell’Aspromonte Polvere di liquirizia bio della Calabria Olio dolce bio di Rossano Cipolla di Tropea Sale integrale Pepe Affumicato PROCEDIMENTO Mettete la farina in una ciotola e sciogliete il lievito nell’acqua, dopo di che unitela alla farina. Impastate fino ad assorbimento completo e lasciate il composto nella ciotola per 16 ore coperto con un panno umido. Passate le 16 ore, riprendete l’impasto e aggiungete 250 gr di farina integrale, 250 gr di acqua e 5 gr di lievito fresco sciolto nell’acqua. Incorporate piano e aggiungete 15 gr di sale e impastate fino a quando il composto non diventa elastico e liscio. Lasciate riposare il tutto per 30 minuti e coprite l’impasto con un panno umido. Trascorsi i 30 minuti, tagliate l’impasto in due pezzi e formate due palline e lasciate riposare per un’ora, coprendole. Passata l’ora, infarinate il banco sul quale stenderete la base e procedete schiacciando in modo energico i bordi dell’impasto da un estremo all’altro, fino a quando avrete raggiunto la grandezza della teglia da forno. Oliate la teglia sulla quale andrete ad adagiare l’impasto e aggiustatelo in modo da coprirla in modo uniforme e lasciate riposare per 15 minuti. Nel frattempo accendete il forno a 250° in modalità statica. Procedete con la farcitura, sbucciate e togliete i semi della zucca e tagliatela a spicchi sottili. Rosolate la cipolla nell’olio a 75°, aggiungete la zucca e fate rosolare per 2 minuti, dopo di che aggiungete il sale e il pepe e aspettate che i liquidi evaporino. Togliete dal fuoco e frullate la zucca con un passaverdura a grana sottile. Nel frattempo tagliate della mozzarella fiordilatte e lasciatela fuori dal frigo. Procuratevi della mortadella di suino nero dell’Aspromonte. Procedete con la cottura della base della pizza con sopra la crema di zucca per 10 minuti, dopo di che toglietela dal forno e aspettate 5 minuti che si asciughi la base. Prendete la mortadella tagliata sottile e coprite tutta la base, dopo di che prendete la mozzarella e mettetela sopra la mortadella. Aggiungete un filo d’olio e infornate per altri 2 minuti. Una volta cotta, togliete la teglia da forno e cospargete la pizza con la polvere di liquirizia bio della Calabria. Tagliatela con la forbice o a vostro piacimento e servitela.

Giulio Cesare, Novara “Una scuola della pizza di C.O. Simone de Stasio – architetto – conduce con il padre ed il fratello Daniel, pizzaiolo che si occupa degli impasti e delle ricette, la pizzeria Giulio Cesare di Novara. Si tratta di una realtà relativamente giovane nel panorama gastronomico della città piemontese ma che ha già raggiunto consolidati risultati di pubblico e critica, essendosi orientata fin dall’inizio ad offrire al cliente diverse tipologie di impasto in un ambiente curato e raffinato. Ulteriore aspetto interessante è rappresentato dal fatto che Simone ci racconta che la Pizzeria Giulio Cesare ha un legame con la Scuola di panificazione di Novara Vco, dalla quale spesso provengono diversi ragazzi che vanno aperta al pubblico”a fare esperienza in pizzeria per poi provare a “spiccare il volo” nel vasto e complesso mondo della ristorazione.

Simone, raccontaci la genesi del vostro progetto.

Abbiamo deciso di intraprendere il percorso all’interno di questo settore grazie ad una prima collaborazione (in franchising) con un amico imprenditore che già aveva numerose pizzerie, di tipo fast-food, nel nord Italia. Questo ha rappresentato per me e la mia famiglia il punto di partenza grazie al quale abbiamo iniziato a conoscere la materia e le diverse dinamiche che la compongono. Pizzeria Giulio Cesare nasce nel maggio del 2017 proprio a valle di questa prima esperienza. Poi, ognuno con le proprie competenze specifiche, ha contribuito a creare il concept finale che si contraddistingue rispetto alle pizzerie tradizionali della zona per innovazione, design e qualità del prodotto.

SOPRA Interni del locale

Quali caratteristiche ha la Pizzeria Giulio Cesare sia come struttura che come servizio che come offerta gastronomica?

Formazione, ricerca, professionalità accompagnate da tanta dedizione ed impegno. La struttura, unica nel suo genere, lavora esclusivamente in orario serale e su prenotazione (50 coperti). La proposta enogastronomica ed il menù, costantemente aggiornato, favoriscono attivamente la collaborazione con i molini, i caseifici, i fornitori della zona con i quali si organizzano incontri formativi e presentazioni di nuovi prodotti al pubblico. Il locale fonda la propria filosofia sulla valorizzazione commerciale di prodotti gastronomici “di nicchia”, promuovendo il lavoro di realtà agricole del territorio Piemontese e non solo. Il progetto della pizzeria crede nel contatto diretto con allevatori, contadini e agricoltori, salvaguardando le usanze artigiane e seguendo un approccio ecocompatibile con le tematiche relative al consumo delle risorse naturali, dei consumi energetici ed idrici.

Ci racconti il rapporto con la Scuola di Panificazione di Novara?

La collaborazione con i docenti della scuola di panificazione di Novara Vco nasce in seguito dalla volontà di creare un luogo esclusivo nel suo genere. Oggi proponiamo quotidianamente almeno cinque impasti differenti di altissima qualità realizzati con metodo indiretto (poolish e/o biga), in grado di soddisfare le specifiche richieste della clientela, anche in considerazione delle sempre più frequenti intolleranze alimentari. Scegliamo per i nostri impasti la farina macinata a pietra, quella integrale, la multicereali, il kamut khorasan, il carbone vegetale e la farina proveniente da agricoltura biologica.

La scelta di puntare sulla formazione del personale e sulla costante sperimentazione in aula e all’interno del nostro laboratorio sono state e sono tutt'ora molto importanti per la definizione del prodotto finale: a noi piace definirla come una vera e propria "scuola della pizza aperta al pubblico".

Che rapporto avete con questi ragazzi per i quali voi diventate la prima vera e propria esperienza sul campo?

Il rapporto con i ragazzi che provengono dalla scuola (e non solo) è soprattutto di rispetto e di stima reciproca. Si impara confrontandosi ed aiutandosi a vicenda. Il pizzaiolo è un lavoro molto difficile e faticoso, soprattutto se non approcciato sin dall’inizio con la giusta mentalità. Per questo, i ragazzi più bravi e volenterosi, dopo l’esperienza formativa (stage curriculari) e/o lavorativa nella nostra struttura, puntano ad aprirsi una propria attività e crearsi un proprio percorso lavorativo. A volte ci riescono, a volte no ma per noi è comunque motivo di orgoglio poter essere un esempio concreto di successo dal quale poter prendere ispirazione.

SOPRA Pizza Timilia e esterno del locale

A SINISTRA Da sinistra Daniel, Riccardo e Simone De Stasio

Quando ancora le donne dietro il bancone di una pizzeria non avevano conquistato l’attenzione mediatica - come invece è accaduto negli ultimi anni, in cui la lotta alla disparità di genere è diventata centrale - la Campania vantava già diverse eccellenze in tal senso. Tra queste, un nome su tutte era quello di Paola Cappuccio. Ritornata in tv qualche mese fa come protagonista di “Mica pizza e fichi” su La7, oggi Paola dichiara di essere pronta a nuove sfide e rivela: “È da poco nata una collaborazione con un noto marchio napoletano in pieno sviluppo”. Sarà questa la sua strada domani?

“Domani si vedrà, lasciando sempre aperta una porta sulla scuola e sulla formazione: mi piace moltissimo stare a contatto con i giovani e trasferire il mio sapere”. Paola, oggi “fare il pizzaiolo” non è più un mestiere “da uomo” ma una “bella ambizione” senza differenze di genere: come e perché è cambiato il mondo della pizza negli anni?

Dire: “è solo una pizza, semplicemente acqua e farina” è un concetto vecchio, ormai decisamente superato. Fare una pizza non è solo mescolare acqua, lievito e farina ma un insieme di conoscenze, tecniche e abbinamenti, farine e topping, che rendono la pizza un pasto completo e bilanciato. La pizza è una vera pietanza, non più un frugale pasto veloce ma un racconto del territorio e del lavoro di tante persone.

Che tipo di preparazione deve avere oggi un pizzaiolo? Quale percorso consigli di seguire?

Un pizzaiolo oggi deve avere una formazione a 360 gradi: deve avere conoscenze sui principi della nutrizione, per garantire una pizza equilibrata, nutriente e buona; deve conoscere le caratteristiche delle differenti farine, per sapere come lavorarle e per creare un prodotto leggero e digeribile; deve conoscere le caratteristiche organolettiche dei prodotti che andrà ad utilizzare, per esaltare sia l’impasto che la farcitura e nel contempo conoscere le proprietà nutrizionali degli ingredienti utilizzati.

I pizzaioli sono spesso “gelosi” dei propri “segreti”: è giusto? Ma come si fa allora a imparare da un Maestro bravo?

È importante studiare, affidandosi alla formazione tecnica di un buon mulino o frequentando una buona accademia. È vero che ogni pizzaiolo è un po’ geloso della sua “creatura” ma un buon tirocinio in una pizzeria, dopo aver frequentato corsi accademici, è l’approccio giusto per imparare, “rubando” il mestiere con gli occhi e applicando un buono spirito di osservazione.

Tu insegni a fare la pizza in giro per l’Italia e il mondo: quali difficoltà incontri? Quali soddisfazioni invece hai ricevuto e ti sono rimaste dentro?

In questo momento storico abbiamo tutti vissuto difficoltà causate dalla pandemia ma, pian piano, sono certa si tornerà alla normalità. Come docente donna ai corsi di formazione, non ho avuto difficoltà, semmai ho rilevato stupore perché in cattedra c’era una donna anziché un uomo… e noi sappiamo che nell’immaginario collettivo c’è sempre un uomo a fare le pizze dietro un banco. Lo stupore è però solo di pochi secondi e, non appena la lezione ha inizio, ogni incertezza svanisce e comincia il viaggio nell’universo della pizza.

Dunque, imparare, “rubare il mestiere con gli occhi”, formarsi a 360 gradi… Sono questi i modi in cui si crea la propria personale “identità di pizza”?

Attraverso l’esperienza e la conoscenza nasce la propria identità di pizza, che è l’espressione e la sensibilità del pizzaiolo. Personalmente, attraverso le mie pizze amo raccontare e rappresentare la mia terra. Vivo alle falde del Vesuvio, in una terra magnifica, la “Campania Felix” che offre una straordinaria varietà di prodotti eccellenti, che utilizzo, facendo rete con i contadini del territorio, che lavorano la terra con coscienza e con rispetto della medesima e offrendo sempre prodotti di altissima qualità secondo stagione.

Formazione e nutrizione

della Dott.ssa Marisa Cammarano, biologa nutrizionista

Dopo mesi di lockdown totale, quando il mondo si è fermato e molte cose sono cambiate, gli Italiani si stanno esercitando in prove tecniche di ripartenza, provando a riprendere in mano la propria vita e le proprie abitudini.

In questi mesi di lockdown gli italiani hanno “costruito”, a volte anche solo digitalmente, comunità allargate che non aspettano altro che essere vissute. L’emergenza sanitaria provocata dalla pandemia Covid-19 ha costretto il mondo della formazione a muoversi verso l’erogazione di soli corsi online, in tutte gli ambiti ed in tutte le discipline. Chiaramente, c’è chi era meglio preparato a rispondere a questa sfida e chi ha dovuto sperimentare per la prima volta nuovi metodi legati alla didattica a distanza. Farlo in modo efficace, però, non è solamente questione di tecnologia e di piattaforme, ma di riprogettazione dell’approccio formativo e degli obiettivi ed orientamenti professionali. La sfida più grande non riguarda semplicemente il cambiamento della tecnica didattica, ma la sua efficacia e valutazione. Ciò che, tuttavia, affiora prepotentemente anche in questa difficoltosa circostanza è che, affinché la formazione possa rispondere ad un bisogno di crescita e maturazione della persona, la partita è comunque da giocarsi in un luogo chiamato “relazione”. Il “fare formazione” non coincide con la mera erogazione di contenuti ma con qualcosa che accade. La scuola e la formazione necessitano di un luogo di rapporti e di appuntamenti. Non c’è apprendimento senza rapporto. Se il contenuto che apprendiamo non può giocarsi in un rapporto con il reale, con qualcuno o qualcosa che me lo chiede, non si impara. Oggi il lockdown ha esaltato la necessità di riscoprire quanto sia profondo il bisogno di conoscere, di comprendere, di realizzare un percorso; ma questo desiderio può emergere solo se qualcuno o qualcosa contribuisce nel sollecitarlo. La grande sfida che ci attende in futuro è quella di aspirare e raggiungere i tre livelli della formazione: il sapere, il saper fare e il saper essere. La formazione professionale è, difatti, da tempo ritenuta uno dei fattori prioritari e fondamentali nell’ambito della ristorazione. Questo concetto era vero per “ieri”, ma, lo è ancor di più oggi con un mondo che muta ed evolve sempre più velocemente. Infatti, il concetto stesso della ristorazione è, oggi, profondamente mutato. La necessità di una indispensabile formazione professionale specifica e di un aggiornamento continuo al passo con i tempi, è un problema sentito da tutti gli operatori, poiché è lo specifico settore che lo richiede, dove è ampio il consenso di principio ma, come avviene poi nella realtà, più difficile è il tradurlo in pratica. Anche perché le esigenze sono diverse: per chi è giovane e deve essere inserito nel mondo del lavoro e per chi invece è rimasto indietro o, peggio ancora, confinato in uno spazio professionale poco in linea

con quanto il mercato richiede. Infatti, se da una parte il mondo del lavoro richiede lavoratori competenti, addestrati e responsabili, dall’altro abbiamo coloro che sono in attesa di occupazione e che, purtroppo, non sono adeguatamente preparati per ciò che il mercato offre. Il fenomeno tipico di questi ultimi decenni definito “globalizzazione”, comporta orizzonti sempre più vasti, favorendo la possibilità di entrare in contatto con tutto il pianeta, anche attraverso collaborazioni e contatti internazionali: di questo si deve tener conto nel programmare una moderna tematica didattica. Inoltre, si deve considerare che l’Europa si sta pian piano trasformando in una società multirazziale, in quanto

culture diverse si confrontano, si mischiano ed a loro volta provano ad integrarsi nella società presente. Importantissimo e determinante, è assumere atteggiamenti di rispetto ed interesse nei confronti delle civiltà diverse dalla nostra. Ne consegue che anche la formazione professionale dovrà essere adeguatamente competitiva e migliorarsi continuamente attraverso un confronto reale, continuo e porsi attivamente in discussione nonchè controllare la validità degli obiettivi raggiunti ed inseguire quelli che si sono prefissati per non vanificare inutilmente le risorse. Gli essenziali stimoli, però, non occorre andarli a cercare tanto lontano da noi, in quanto sono largamente presenti nel nostro territorio. Ciò vale per l’Italia più che altrove, poiché la complessità geografica del Paese e le differenze culturali rappresentano una grandissima ricchezza intrinseca anche se non sempre semplice da recepire per la storica diversità. Imparare a conoscere è il primo fondamentale passo per poter capire al meglio come rapportarsi con esso e cosa poter ottenere dal territorio stesso senza interferire con il suo equilibrio. La vera sfida della ristorazione moderna è legata alla necessità di conciliare i piatti, le pizze, ecc. con una rinnovata attenzione al benessere, alle materie prime che si usano in cucina ed in pizzeria, nonché al bilanciamento degli stessi che arrivano in tavola. I profondi cambiamenti dello stile di vita delle famiglie e dei singoli hanno determinato per un numero sempre più crescente di individui la necessità di consumare almeno un pasto fuori casa, quindi è di fondamentale importanza elevare il livello qualitativo dei pasti, mantenendo saldi i principi di sicurezza igienica, di qualità nutrizionale ed organolettica, di corretto utilizzo degli alimenti, favorendo scelte alimentari nutrizionalmente corrette attraverso la valutazione dell’adeguatezza dei menù e la promozione di alcuni piatti o ricette che siano. E, fortunatamente, è sempre maggiore il numero di chef, pizzaioli professionisti ed imprenditori della ristorazione che sposano l’obiettivo di mettere al servizio della salute le proprie conoscenze in materia gastronomica. Proprio in virtù di tutto questo, i corsi di formazione dedicati a chi opera nel mondo della ristorazione si dovrebbero arricchire di argomenti tali da soddisfare il bisogno e la voglia di approfondire una formazione in campo alimentare specificamente legata agli aspetti nutrizionali della materia. La necessità di diffondere maggiore consapevolezza sull’importanza di una corretta nutrizione rappresenta, infatti, una delle sfide principali per la nostra società: basti pensare alla crescente incidenza delle malattie croniche, ma anche alla sostenibilità ambientale, sociale ed economica connessa alla produzione ed al consumo di cibo. Queste dinamiche sono evidenziate in maniera chiara dalle principali organizzazioni internazionali come la FAO, che in più occasioni ha esortato i decisori mondiali ad impegnarsi per favorire una maggiore sensibilizzazione sull’esigenza di raggiungere un sistema alimentare equo, sostenibile, in grado di assicurare il benessere delle persone di questo pianeta. Una dieta corretta non è frutto di sole combinazioni nutrizionali, ma è anche conoscenza, libertà di scelta, ricerca del gusto e della propria personale esperienza sensoriale, è saper gestire con consapevolezza cibi e bevande dal gusto e dall’aspetto invitante. Perché la scuola ed i corsi professionalizzanti possano insegnare ai discenti ma anche ai già professionisti del settore a fare tutto ciò, occorre ripensarli come piattaforma sulla quale costruire progettualità così orientate. L’alimentazione, o meglio ancora l’educazione alimentare, è, infatti,

qualcosa che prende forma attraverso la teoria, ma che necessariamente deve essere messa a terra attraverso la pratica quotidiana, pena l’inefficacia dell’azione. Oggi, più di ieri, non è pensabile che un cuoco oppure un pizzaiolo, viva in una realtà non impregnata di cultura, ed, ancor peggio, che non sia informato sugli aspetti più importanti per la propria professionalità e che non sia proteso verso uno studio continuo che gli permetta di essere costantemente aggiornato sulla evoluzione della scienza dell’alimentazione, della tecnica, e della metodologia. Essere o meglio sentirsi professionisti della ristorazione non può prescindere dalla consapevolezza nutrizionale e dalla sicurezza alimentare. Dunque, anche su questo principio bisogna auspicare che sia fatta formazione con i dovuti approfondimenti di nutrizione

clinica e scienza dell’alimentazione,

nonché prevedere anche l’inserimento di

moduli sulla merceologia, le malattie del metabolismo, l’igiene degli

alimenti, affinché gli stessi sappiano contribuire alla correzione delle malattie metaboliche dovute ad una scorretta alimentazione ed, ancora, lezioni monografiche sulle diverse categorie di alimenti: cereali e legumi, frutta e verdura, carne, pesce, latticini e formaggi, olio e grassi, vino e bevande alcoliche, allergeni e contaminazioni crociate in cucina, riciclo e riduzione dei residui, gestione clienti con condizioni alimentari speciali (intolleranze al glutine, lattosio, frutti di mare, ecc.), alimentazione sana e prodotti in voga, la cucina ecologica e la differenza con quella tradizionale nonché approntare nozioni di analisi sensoriale degli alimenti e delle bevande. Tutte le nuove conoscenze che si acquisiscono possono essere uno stimolo per creare ed applicare nuove soluzioni nella propria professione. Un pizzaiolo, un cuoco con una formazione in alimentazione, potrà proporre pizze o piatti più equilibrati e salutari, per esempio. Mai come in questo momento, il nostro futuro è nelle nostre mani: facciamo in modo, quindi, che la conoscenza e la consapevolezza siano un “boost” alla nostra carriera nel settore che più ci aggrada.

Alla scoperta della rucola

di Caterina Vianello

Protagonista di una riscoperta recente, che ne ha fatto uno degli ingredienti simbolo nella moda gastronomica degli anni '90, la rucola ha vissuto una storia altalenante. Conosciuta sin dai tempi antichi, apprezzata dai Romani, raggiunge un primo apice di gradimento fino al Medioevo, per poi vivere un periodo di declino. Ne riemerge dopo qualche secolo, ma è solo nei decenni scorsi che si può riconoscere all'erba appartenente alla famiglia delle Crucifere il raggiungimento di un successo notevole.

Anche se utilizziamo un unico termine, è utile sin da subito procedere con una precisazione. Esistono infatti due tipi di rucola: quella selvatica (Diplotaxis), che è un’erbacea perenne dalle foglie piccole e dal sapore intenso, e quella coltivata (Eruca sativa), che è un’annuale dalle foglie grandi ma con aroma meno accentuato. La selvatica, perenne, diffusa nei campi e nelle aree marginali dei terreni alcalini, ha fiorellini gialli e foglie di un verde caldo vivace, profondamente intagliate e lobi molto sottili, carnose e dall’inconfondibile sapore piccante e pungente, che aumenta nel corso dei mesi e raggiunge il suo apice in estate. Quella coltivata ha foglie riunite in una rosetta basale, fiori biancastri con venature viola e foglie di un verde più scuro, a lobi più estesi e meno incise. Il sapore è decisamente più morbido rispetto a quella selvatica. È annuale e la raccolta si effettua quando le foglie raggiungono i 10-15 cm di lunghezza.

Rucola selvatica

Alla selvatica appartengono diverse tipologie: la diplotaxis erucoides, con gusto fortemente speziato, foglie più strette e scure; la diplotaxis tenuifolia, con sapore amaro e piccante, foglie di un bel verde scuro, lunghe e slanciate; la verdiana, più delicata, con foglie lanceolate; e quella a foglia di ulivo, diplotaxis integrifolia, dal sapore fresco, simile al crescione e con foglie allungate.

Rucola coltivata Rucola Igp

Esiste infine una rucola a marchio Igp. Si tratta della Rucola della Piana del Sele a cui nel 2020 la Commissione europea ha riconosciuto l’ammissione nel registro delle Indicazioni geografiche protette. La denominazione designa le foglie di rucola selvatica prodotte nella provincia di Salerno, in particolare nei comuni di Battipaglia, Bellizzi, Eboli, Pontecagnano - Faiano, Giffoni Valle Piana, Montecorvino Pugliano, Montecorvino Rovella e CapaccioPaestum. Le foglie sono larghe 2-5 cm e lunghe 8-25 cm, hanno lobi stretti e dentati. L’aroma è speziato e piccante, particolarmente intenso e penetrante e la consistenza è croccante. Il riconoscimento della specificità si basa su fattori ambientali e storici. Da un lato ci sono le peculiarità di un terreno di natura vulcanico-alluvionale, formatosi grazie all’azione del Vesuvio e all’azione alluvionale del fiume Sele. Ricco di macro e micro elementi, specialmente potassio, calcio e ferro, dà alle foglie il loro aroma tipico. A ciò si unisce anche il clima, con l’azione termoregolatrice del Mar Tirreno e quella svolta dalla catena montuosa degli Alburni che proteggere il territorio dal freddo dei Balcani. Le testimonianze storiche consentono di affermare che la coltivazione della rucola nella Piana del Sele era già praticata nel periodo medievale (le “Opere mediche” della “Scuola medica salernitana” lo confermano) tuttavia è solo con la fine degli anni ’80 che si arriva ad una coltivazione più strutturata, tanto da divenire ormai specializzata.

Tra le rucole coltivate, esistono alcune varietà che si distinguono per il colore delle foglie (che tende al viola) e per il colore della nervatura centrale (che può anche essere rossa). Le varietà di rucola più coltivate sono: la Astra, la Fireworks, la Lingua di drago, la Atena, la Saturn. Tra queste, quella sicuramente più interessante è la Lingua di drago. Ha foglie strette simili a quelle di quercia, profondamente lobate con bordi seghettati, con distinte venature marroni. Vengono generalmente raccolte a 10-15 centimetri di lunghezza ed hanno una consistenza croccante ed un sapore che rimanda ad una miscela di aromi pepati, erbacei e vegetali mescolati con note di nocciola e spezie. Ha gusto più intenso rispetto alle altre varietà perché deriva da un incrocio con quella selvatica.

Comune alla varietà domestica e selvatica è la ricchezza in fatto di vitamine A e C, antiossidanti, ferro, vitamina K e acido folico. La rucola ha proprietà aperitive e digestive grazie all’olio essenziale a base di sostanze solforate. Nell’antichità, secondo la teoria degli umori, era considerata calda e secca come tutte le erbe piccanti ed entrava nella composizione delle misticanze per bilanciare la freddezza ed il carattere umido di altre piante, come per esempio lattuga, indivia, portulaca. Tra i romani, dato il suo sapore intenso, veniva considerato un cibo afrodisiaco, caratteristica che fu invece responsabile dell’oblio nel periodo medievale, quando fu pressoché bandita dagli orti dei conventi.

Tra le ricette del passato, alcune meritano di essere citate. Un ricettario del XVII ne riporta in particolare due, una per quella selvatica e una per quella domestica. Dagli anni '80 la rucola ha vissuto un periodo di riscoperta che ne ha fatto uno degli ingredienti simbolo degli anni '90, in particolare accostata a carni (tagliate, carpacci, bresaola) o come condimento per pizze.

In realtà relegarla a semplice aggiunta a crudo come jolly verde sistemato su qualsiasi piatto, senza un ragionamento gastronomico, significa non solo banalizzarne il valore ma anche non sfruttarne al meglio il carattere, che si dimostra essere assolutamente versatile. Perfetta per misticanze, la rucola accostata ad altre verdure a foglia (le lattughe, i radicchi e la valeriana) o alle patate lesse, ha la capacità di accenderne il sapore. Discorso analogo per formaggi e carni dal sapore delicato: alcuni abbinamenti divenuti ormai classici sono quelli con i formaggi freschi o stagionati (stracchino, primosale, tomino, ricotta o mozzarella, ma anche caprini, parmigiano e feta) così come quelli con le carni crude tagliate sottilissime (il carpaccio appunto) o quelle cotte. Per valorizzarla al meglio, tuttavia, salse e condimenti sono l’ideale. Ecco allora che può essere sostituita al basilico per la preparazione del pesto, o come condimento – sempre per la pasta – in abbinamento a pesci molto saporiti quali acciughe o le sarde. Notevole anche l'accostamento a frutta secca come pinoli, noci pecan, mandorle e noci, o a bulbi come ravanelli e barbabietole. Cotta è ottima in abbinamento agli spinaci e alle bietole, magari leggermente saltata.

La prima è una insalata con erba morella, finocchio, piantaggine, iperico, fegatella, primo fiore e zenzero. L’altra vede la rucola accompagnare lattuga, borragine, basilico e acetosa. Nota era anche la ricetta del “savore di rucchetta” preparato con i piccoli semi della pianta lasciati a mollo nell’aceto bianco e poi pestati con aglio e mandorle. Tutto veniva poi salato e diluito con altro aceto. Una variante particolarmente interessante aggiungeva anche zenzero, agresto e zafferano. Altra ricetta interessante era il sapore “per serbare”: i semi venivano pestati con spezie, mandorle, zafferano, miele. Il composto veniva poi sistemato in un recipiente di terracotta dove si conservava fino a 6 mesi. Quando si decideva di utilizzarlo, andava stemperato con aceto o agresto e si trasformava in salsa per il pesce.

Raccontando le spezie, anche quelle meno note o addirittura attualmente sconosciute in Italia, si sfogliano interessanti pagine di storia che ci aiutano a capire come i prodotti della terra, anche e soprattutto quelli spontanei, hanno legato fin dall’antichità i diversi gruppi umani, le diverse tribù, i tanti popoli che, sulle terre emerse del pianeta sono cresciuti e si sono sviluppati in modo diverso, dando vita a quel mosaico di civiltà che caratterizzano attualmente il nostro pianeta. Sappiamo che i primi popoli a raggiungere un grado di civiltà che ha permesso loro di scrivere la loro storia sono stati quelli che vivevano nella celebre “mezzaluna fertile”, cioè in quella fascia di territorio a forma di mezzaluna o ferro di cavallo che aveva il suo centro a nord del Caucaso e le punte ad est sul Golfo Persico (quindi nella Mesopotamia) e ad ovest in Egitto. E proprio in questo tratto di territorio del Vicino Oriente è nata la nostra civiltà occidentale.

La terra d’origine

Il primo documento scritto che testimonia la presenza e l’uso del cumino è la Bibbia, libro sacro a Ebrei, Cristiani e Musulmani, che, pur a volte in forma leggendaria, racconta nella prima parte, detta “Antico testamento”, la storia non solo degli Ebrei, ma dell’intero territorio che conosciamo come mezzaluna fertile. Quindi anche dell’Egitto. Racconta dunque la Bibbia che gli Ebrei, emigrati in Egitto attorno al 1700 a.C., rimanendovi per ben 400 anni, fino a quando Mosè li liberò e li riportò nella “Terra Promessa”, durante i secoli della schiavitù raccoglievano cumino che cresceva spontaneo nella Valle del Nilo. Bisogna attendere parecchi anni, ed ecco altri documenti che attestano che i mercanti arabi che facevano la spola con il lontano Oriente per rifornirsi di spezie, nel viaggio di andata portavano in India il cumino. Poi, sempre prima del 1000 a.C., il commercio delle spezie e del cumino fu monopolio dei Fenici che lo portarono in tutto il Nord Africa, lasciando ai mercanti berberi di trasportarlo nelle loro carovane alla popolazioni subsahariane. Nei tempi moderno il cumino è coltivato in India, Cina, Giappone, Indonesia, Nord Africa e fin nelle Americhe.

Il Cumino

La pianta del cumino ha un fusto sottile e ramificato, alto sui 20-30 cm. Le foglie assomigliano molto a quelle del finocchio, i fiori sono piccoli, bianchi o rosa e disposti a ombrella, mentre il frutto è rivestito da un guscio duro, legnoso, dalla forma allungata e ovoidale, lungo 4–5 mm, contenente un singolo seme. I semi del cumino sono simili a quelli del finocchio e dell’anice verde, ma sono più piccoli e di colore scuro. I frutti si raccolgono quando le ombrelle sono giunte a maturazione: una volta essiccate, si procede con una leggera battitura per separarli. La spezia del cumino è rappresentato da semini ovali essiccati, in realtà sono i frutti della pianta denominata Cuminum cyminum. Questi semini – questa è la forma della spezia – hanno un gusto caldo, robusto, agrodolce e somigliano leggermente al cumino dei prati, che è tutt’altra cosa. Grazie al suo sapore unico e intenso, il comino è una spezie molto versatile, come possiamo vedere dalle note che seguono. Il cumino è infatti usato in tutta l’India. Nel Nord Africa e nel Medio Oriente e fa parte di numerose miscele di spezie: l’iraniano “advich”, l’afgano “char masala”, gli indiani e bengalesi “garam masala”, “chaat masala” e “panch phoron”, ed ancora il berbero “ras el hanout”; il georgiano “svanuri marili”, l’araba “baharat” e la nordafricana “harissa”. Oltre a essere una spezia nota per il suo sapore deciso e penetrante che contribuisce, come abbiamo visto, a numerose miscele, arricchisce anche moltissime ricette e, da secoli, è molto apprezzato anche per avere effetti benefici sulla salute. Diversi studi hanno dimostrato le proprietà del cumino, che sono state generalmente attribuite all’azione dei suoi costituenti attivi, terpeni, fenoli, e flavonoidi. Il cumino è poi ricco di preziosi oli essenziali, che conferiscono a questa spezia un gusto amaro, piccante e un aroma dolciastro. Gli studiosi hanno trovato che il cumino ha proprietà amiche dell’intestino e della digestione; combatte il colesterolo ed è un potente antiossidante e antisettico.

In cucina

Nelle cucine orientali e nordafricane, ma anche in Messico e in altri Paesi caraibici e, da qualche cuoco dell’Europa mediterranea, il cumino è molto apprezzato per il suo sapore forte e deciso. In Italia però non è molto conosciuto e utilizzato. In genere del cumino si utilizzano i semi interi, come si fa con i semi di finocchio, oppure la polvere, ottenuta macinando i semi con un pestello, meglio se direttamente al momento per conservarne meglio l’aroma. Il suo gusto amaro e piccante allo stesso tempo e il suo aroma dolciastro lo rendono adatto a insaporire piatti a base di carne e formaggi freschi, ma si abbina anche a verdure e ortaggi, in particolare cavoli e patate. E non sarebbe male se, nell’evoluzione che sta ora conoscendo la pizza, qualche pizzaiolo sperimentatore lo abbinasse alla farcia, anche per regalare ai suoi clienti gusti e sensazioni nuove. La pizza, come è avvenuta nel corso dei secoli, è infatti sempre pronta ad accogliere le novità, raccontando in questo modo l’evoluzione dei gusti e soprattutto del costume alimentare dei popoli.

Il Culatello di Zibello ed il Consorzio di Tutela

a cura della redazione

Il consorzio di Tutela del Culatello di Zibello nasce nel 2009 per difendere e promuovere la qualità e la tipicità del Culatello di Zibello DOP (Denominazione d’Origine Protetta): un gioiello della salumeria italiana di cui ogni giorno i produttori si impegnano a garantirne la provenienza dalla fascia di terra (Busseto, Polesine Parmense, Zibello, Soragna, Roccabianca, San Secondo, Sissa, Colorno) che corre lungo le rive del Po, nonché la lavorazione antica e l’autentica tradizione.

Il Consorzio assicura con il proprio marchio - attraverso una severa regolamentazione e rigidi controlli svolti dall’Istituto Parma Qualità (l’ente incaricato dal Ministero per i controlli sulla produzione) - la lavorazione tradizionale, la stagionatura adeguata e l’origine tutta italiana delle carni, per garantire al consumatore che il Culatello di Zibello del Consorzio rispetti le tradizioni e venga ancora fatto “come una volta”. I culatelli controllati dal Consorzio devono essere lavorati completamente a mano e devono essere utilizzate solo le cosce di suini provenienti dalle regioni dell’Emilia Romagna e della Lombardia. Ogni anno poco più di 60.000 culatelli di Zibello si possono fregiare della DOP e, da oggi, anche del marchio dei produttori aderenti al Consorzio di tutela del Culatello di Zibello: una garanzia in più di unicità e tipicità del Culatello di Zibello DOP.

Il Culatello di Zibello è patrimonio di quella terra che si colloca lungo il Po e che è avvolta dalla nebbia, fattore determinante e regime climatico insostituibile per la maturazione e la stagionatura di questo salume.

Dalle cantine della Bassa parmense alle tavole nazionali, il percorso del culatello è stato, storicamente, tutt’altro che breve; per molti secoli, infatti, il nome e il prestigio del culatello sono rimasti circoscritti alle zone d’origine; patrimonio della gente della Bassa che sola sapeva apprezzarne il gusto e conservarne i segreti. In seguito, il culatello ha conquistato visibilità ed estimatori anche al di fuori del territorio parmense, aumentando le richieste e mettendo a rischio l’unicità della produzione, da sempre nelle mani di pochi e genuini esperti. Si narra che già nel 1332, al banchetto di nozze di Andrea dei Conti Rossi e Giovanna dei Conti Sanvitale, si facessero apprezzare alcuni culatelli, recati in dono agli sposi e che, più avanti, i Pallavicino avessero offerto omaggi di culatello a Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano. Va detto però che di questi episodi non si trova testimonianza attendibile: la prima citazione esplicita e ufficiale del culatello risale infatti al 1735, all’interno di un documento del Comune di Parma. Le prime citazioni letterarie risalgono invece all‘Ottocento, ad opera, prima, del poeta dialettale parmigiano Giuseppe Callegari e, poi dello scultore Renato Brozzi, che scambiava opinioni sul culatello con il poeta Gabriele D’annunzio.

Sappiamo con certezza che fino ai primi decenni del secolo scorso solo pochissime famiglie potevano concedersi di gustare il sapore pregiato del culatello e che comunque tale pratica era circoscritta geograficamente e socialmente. Il gusto del culatello era rinomato ed apprezzato dunque solo a livello locale perché un prodotto così pregiato non alimentava certo grandi commerci. Il fatto che restasse sconosciuto al grande pubblico garantiva sicuramente la tipicità del prodotto ma al tempo stesso ne alimentava la leggenda, circondandolo di un po’ di quella nebbia che non ha mai abbandonato la gente di questi luoghi e che tanto partecipa alla creazione di un prodotto unico.

Il culatello viene comunemente identificato come un salume insaccato in un involucro naturale, che solitamente è la vescica del maiale. È un prodotto di salumeria costituito dalla parte anatomica del fascio di muscoli crurali posteriori ed interni della coscia del suino, opportunamente mondati in superficie e rifilati fino ad ottenere la classica forma a “pera”. Nella miscela di salagione sono presenti: sale, pepe intero e/o a pezzi ed aglio. Possono inoltre essere impiegati: vino bianco secco, nitrato di sodio e/o potassio nel rispetto dei rigorosi termini di legge. La fama che questo prodotto ha acquisito in tutto il mondo è relativamente recente ma – come abbiamo sottolineato – la produzione artigianale e la storia del culatello hanno avuto inizio molti, moltissimi anni prima.

Salume insaccato in un involucro naturale

Tabella Valori Nutrizionali

Informazioni nutrizionali: valori tipici per 100g di culatello

Calorie kcal 198 kj 828

Proteine g 19.74

Lipidi

g

12.58

Carboidrati g 0.00

Fibre

g

0.00

Non di solo pizza

Nel mondo della ristorazione, la cooperazione non è la norma ma un’eccezione. Eppure le esperienze di cooperazione in quest’ambito sono tutt’altro che secondarie perché consentono di ribaltare la convinzione che per il corretto funzionamento di un ristorante sia necessaria l’autorità imposta da una sola persona al comando contrapponendo invece lo stile di una vision condivisa, al pari delle mansioni operative. Osteria Andirivieni, Torino a cura della redazione

Quella della Cooperativa Raggio è una storia che arriva dritta al cuore perché dà sostegno alla dignità delle persone in situazioni di svantaggio certificato. Raggio è una cooperativa sociale di tipo B nata nel 2012 nel quartiere di Mirafiori Nord, a Torino. Nei propri progetti, la cooperativa promuove l’inserimento lavorativo di ragazze e ragazzi che vengono da percorsi di vita tutt’altro che semplici: soggetti con disabilità, ex detenuti, rifugiati politici o persone che arrivano da dipendenze come droghe e alcol.

Per la cooperativa, la scelta di operare nell’ambito della ristorazione ha voluto essere non solo un modo per supportare processi di inclusione sociale di soggetti svantaggiati ma anche uno strumento per creare, in maniera formale e informale, integrazione nel territorio dei propri “protagonisti”.

“Spesso i clienti mi ringraziano per il lavoro svolto: per me è una grande soddisfazione”,

dice Giusy, che aggiunge:

“Questo posto mi rende felice, sto bene con tutti”.

Gianluca dice di sentirsi

“trattato come un figlio”

e confessa che in cascina ha anche incontrato la sua fidanzata Elisabetta.

Non lasciatevi però ingannare dalle apparenze: scegliere di cenare o anche solo di prendere un aperitivo da Andirivieni, il locale gestito dalla cooperativa sociale Raggio non è (solo) una scelta etica ma anche (e soprattutto) una scelta che premia il gusto. In un luogo straordinario, sorgono sia la caffetteria che l’osteria della cooperativa: è la Cascina Roccafranca, riaperta dopo il recupero del 2007 e afferente alla Rete delle Case del Quartiere di Torino. Nei suoi 2.500 metri quadrati di spazio, le persone si incontrano, svolgono attività, sviluppano progetti e vivono momenti di aggregazione. È in questo posto magnifico anche dal punto di vista architettonico che l’osteria Andirivieni promuove la filosofia del “chilometro giusto”, scegliendo frutta e verdura di stagione che rispetti il giusto equilibrio costi ambientali / benefici. Ogni piatto è accompagnato da vini di piccoli produttori del territorio, molti dei quali provenienti da agricoltura biologica. La cucina di Andirivieni è coordinata dagli chef Giulia Brunasso Cipat e Walter Bettin. Il menù cambia ogni due mesi e viene scelto “dopo lunghe sedute di discussioni e assaggi”, come ammettono gli stessi protagonisti. Non ci appare dunque affatto strano che il locale sia sempre ben frequentato, anche durante la settimana. La proposta dei piatti, tutti di ottima fattura, prevede ovviamente l’immancabile vitello tonnato e le impareggiabili acciughe del Cantabrico con pane e burro, esempio di piemontesità.

“A tavola –

dichiarano, scrivendolo nel menù

– ci siamo dati come missione quella di valorizzare al meglio il territorio in cui siamo. Per questo basiamo la nostra cucina circolare sulla conoscenza diretta dei produttori, lavorando per l’abbattimento degli sprechi e con l’utilizzo di materie prime di filiere che rispettano la terra e il lavoro delle persone”. Una virtuosità non da poco è però quella che si trova nella cipolla ripiena di topinambur, raschera e tartufo nero: in pratica, una bandiera dei prodotti di punta della regione. Tra i primi, destano l’attenzione sicuramente i bottoni di patate e parmigiano con salame di Turgia crudo e spinacino e gli spaghetti al ragù di coniglio. Eccellente, tra i secondi, la guancia di vitello al vermouth, esempio – questo come gli altri – della grande capacità di rileggere la tradizione, innovandola e arricchendola a tutto vantaggio della promozione del territorio. Tra i dolci, è un must il Panbrioches (così chiamato nel menù) con seirass (una ricotta tipica del Piemonte), frutta candita e cioccolato. Ma non manca un’altra grande storia piemontese: lo zabaione, proposto in spuma e accompagnato da pasticceria secca. Gli amari e le grappe proposte a fine pasto sono di piccoli produttori artigianali e rappresentano una vera “chiusura in bellezza”. Il costo? Molto meno di quello che vi aspettereste. Pensateci…

New date! 30 April –04 May 2022

Back to the future!

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LA BIRRA

Emilia-Romagna, terra di birra

di Alfonso Del Forno

Regione dalle tante anime, morfologicamente strutturata come un cuscino su cui poggiano i territori del nord Italia, l’Emilia-Romagna è capace di esprimere eccellenze nel settore enogastronomico che tutto il mondo osserva con estremo interesse. In questo paniere di prodotti tipici, dove primeggiano il Parmigiano Reggiano, il Culatello, il Prosciutto di Parma e l’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena, non può non essere annoverata la birra artigianale. In questo settore, sono diverse le aziende che spiccano nel panorama nazionale e, tra queste, cito alcuni degli esempi più interessanti. Uno dei birrifici che amo è BiRen, che produce a Sant’Agostino (Fe).

LA BIRRA

Il suo patron e birraio è Andrea Govoni, personaggio che mette buonumore al solo guardarlo. La cordialità e la voglia di accogliere le persone nel suo birrificio vanno di pari passo con la qualità delle sue birre, che toccano punte di eccellenza soprattutto nelle basse fermentazioni. Le sue produzioni, anche quelle complesse, sono tutte caratterizzate da una facile beva e invitano sempre al sorso successivo. Tra queste non posso che citare la Philippe, pilsner estremamente pulita ed equilibrata, fatta per coloro che amano le birre di ispirazione tedesca da bere senza troppi ragionamenti mentali. Come non poter ricordare poi la Tosco? Prende il suo nome dal soprannome dello stesso Andrea ed esprime l’intensità dei malti torrefatti, unendoli alla semplicità di bevuta. Una birra che bevo volentieri è la Flavius, bock morbida e rotonda, ottima per accompagnare i piatti a base di carne. Spostandoci a Colecchio (Pr) troviamo il birrificio Argo, creatura nata nel 2013 dalle sapienti mani di Stefano Di Stefano e Veronica Bianchi.

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