Pizza e Pasta Italiana - Dicembre 2024

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anno XXXV

C’è un filo invisibile che lega i gesti di chi crea alle emozioni di chi assapora. Vive della magia dei ricordi più belli, quelli che nascono attorno a una tavola imbandita a festa. Da cinque generazioni, trasformiamo questo filo in arte casearia, per essere parte delle vostre tradizioni più care.

Campionato Mondiale Della Pizza p. 16-17

Cerutti Inox p. 21

Conserve Italia p. 25

Cuppone p. 31

Demetra p. 65

Di Marco Corrado p. 75

Dr. Zanolli p. 75

Expomar Caorle p. 33

Hospitality Riva Del Garda p. 98

Huegli

Kuma Forni Snc

3

67

La Torrente p. 71

Lilly Codroipo p. 99

Millberg p. 81

Molino Agugiaro p. 41

Scuola Italiana Pizzaioli p. 95

Molino Naldoni p. 57

Molino Pasini p. 7

Rinaldi Superforni p. 9

Sacar p. 51

Sanfelici p. 37

Sori' Italia p. 2

Sitta p. 91

Industria Alimentare Tanagrina p. 43

Molecola p. 100

Vamparossa p. 27

Velma p. 11

Italforni p. 87

— Sommario —

6 editoriale di Antonio Puzzi 8 - 10 pizza news a cura della redazione

Iginio

Massari

Il

Re del Natale a cura della redazione puglia

di Noemi Caracciolo

18 ristorazione domani Cibo e Turismo di Giampiero Rorato

Il porceddu sardo: storia, tradizione e arte della cottura di Alfonso Del Forno 12

sardegna

focaccia

Recco di Domenico Maria Jacobone

Caterina Vianello

Editoriale

"In Italia la linea più breve tra due punti è l'arabesco"

Quelle del titolo sono parole di Ennio Flaiano, giornalista, umorista ma soprattutto sceneggiatore nato a Pescara nel 1910 e, dopo diverse peregrinazioni, giunto sin dall’adolescenza a Roma, città alla quale resta profondamente legato fino alla sua morte sopraggiunta nel 1972. Flaiano, che – per inciso – ha scritto i dialoghi di film come La dolce vita, 8 ½ e Giulietta degli Spiriti di Federico Fellini ma anche Vacanze romane di William Wyler e Guardie e ladri di Steno e Monicelli con protagonista Totò, ha voluto sintetizzare con queste parole la capacità italiana di rendere le cose il meno comprensibili possibile, proprio come quella “scrittura poco leggibile in genere, fregio capriccioso, ghirigoro” come viene definito l’arabesco all’interno del vocabolario Treccani.

Quella che, però, per il mondo è “semplice complicazione”, per noi è arte, capacità tecnica di declinare pochi elementi in forme pressoché infinite. Alberto Capatti e Massimo Montanari, nella loro “bibbia” della storia gastronomica d’Italia, ovvero La cucina italiana. Storia di una cultura hanno scritto, a tale proposito: “L'identità si definisce anche (o forse soprattutto) come differenza, cioè in rapporto agli altri. Nel caso specifico della gastronomia, ciò appare con chiarezza: l'identità «locale» nasce in funzione dello scambio, nel momento in cui (e nella misura in cui) un prodotto o una ricetta si confrontano con culture e regimi diversi”. Ecco, perché, abbiamo così tante tipicità che, all’occhio di un turista o di uno straniero, potrebbero apparire del tutto simili tra loro. Per dirla sempre con Montanari, (stavolta in L’identità italiana in cucina): “È semplicemente un problema di distanza: più l’obiettivo si allarga, più il disegno complessivo ha la meglio sui dettagli; più ci si allontana dalla prospettiva locale, più tendono a prevalere i tratti comuni e si costruiscono nuove connessioni”.

In questo numero, allora, come facciamo una volta l’anno, compiamo un viaggio tra le regioni italiane raccontando la “geografia delle tipicità”, tra prodotti tipici e creatività nostrana. Incontreremo, così, il “pan ducale” d’Abruzzo, il mischiglio lucano, il ciauscolo marchigiano, la rocciata umbra, il porceddu sardo, l’immancabile panettone lombardo ma anche la farina di carciofi friulana e i prodotti del Natale “contemporaneo” secondo Iginio Massari. Per le “storie di pizza” andremo, invece, ai confini del nostro Bel Paese: in Valle d’Aosta con Maurizio Saulle e, appena fuori dall’Italia, a Nizza, con Ivan Pasquariello, entrambi eredi della cultura napoletana ma in grado di combinare sapientemente quel prodotto al territorio in cui vivono per raccontarlo al meglio al proprio pubblico. E che cos’è il Natale, se non questo? La capacità di lasciarsi contaminare dalla bellezza di culture che si incrociano. Quelle culture che hanno reso “immensa” la storia del Mediterraneo e dell’Europa. Quale migliore occasione di questo “giro di boa” che ci offrono le vacanze invernali per fare un viaggio ideale attraverso lo Stivale tricolore?

Auguri di buone feste. Possiate trascorrerle tra “pizze e paste italiane”, a tavola con chi amate.

Antonio

COLOPHON

PIZZA E PASTA ITALIANA

Mensile di Pizza, Pasta, Enogastronomia e Cultura

Edito da PIZZA NEW S.p.A.

Autorizzazione Tribunale di Venezia n.1019 del 02/04/1990

Anno XXXV - n.11 dicembre 2024 - Repertorio ROC n. 5768

DIRETTORE EDITORIALE DIRETTORE ONORARIO

Massimo Puggina Giampiero Rorato

DIRETTORE RESPONSABILE

Antonio Puzzi

PUBBLICITÀ

Caterina Orlandi

REDAZIONE

Via Sansonessa, 49 - 30021 CAORLE (VE) Tel. 0421/ 212348 - Fax 0421/81007 - E-mail: redazione@pizzaepastaitaliana.it www.pizzaepastaitaliana.it

PROGETTO GRAFICO

Manuel Rigo, Paola Dus, Elena Cazzuffi

— Mediagraf lab

DIGITAL PUBLISHING

Maura Trolese

— Mediagraf lab

IN COPERTINA

illustrazione di Basak Saral

STAMPA MEDIAGRAF S.p.A.

Noventa Padovana (Pd)

COMITATO TECNICO E REDAZIONALE

Marisa Cammarano, Gianandrea Rorato, Caterina Vianello, Alfonso Del Forno, Luciano Cescon.

AFFILIAZIONI INTERNAZIONALI

Pete La Chapelle (N.A.P.O. - Pizza Today, U.S.A.), P.M.Q. Steve Green (U.S.A.).

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HoReCa Adria a Zagabria e vincitori delle Selezioni

Croate del Campionato

Mondiale della Pizza 2025

La fiera HoReCa Adria, punto d'incontro centrale per i professionisti dell'industria del turismo e della ristorazione, si è conclusa a Zagabria, attirando oltre 10.000 visitatori dalla Croazia e dalle Nazioni limitrofe. Più di 250 espositori hanno presentato le aziende leader mondiali e le ultime tendenze nell'arredamento di hotel, ristoranti, campeggi e case vacanza.

Durante la manifestazione, si sono svolte le Selezioni Croate per i Campionati Mondiali di Pizza che si svolgeranno nel 2025 a Parma. Il primo posto è stato vinto da Martin Čirjak di Zagabria con la sua Pizza Classica arricchita con pesto verde, feta, ricotta, cipolla viola caramellata, funghi porcini, crema di aceto balsamico e spezie. Il secondo posto è andato a Pasquale Longobardi di Papavero Pizza & Food Lab di Zagabria, mentre il terzo posto è stato assegnato a Denis Aaron Krašni della pizzeria Peruzza di Lubiana.

Il Campionato Internazionale della Pizza di Bucarest invia tre vincitori al Campionato Mondiale della Pizza 2025 di

Parma

Si è svolta a Bucarest, il 14 e 15 ottobre, la terza edizione del Campionato Internazionale della Pizza, organizzato dall'Associazione Romena dei Pizzaioli Professionisti (APPR). La manifestazione ha riunito oltre 50 concorrenti provenienti da Romania, Repubblica di Moldova, Bulgaria, Serbia e Italia ed hanno potuto competere anche per le Selezioni Rumene al Campionato Mondiale della Pizza 2025.

Le categorie svolte sono state: Pizza Classica, Pizza Napoletana e Pizza in Teglia.

Ogni pizza è stata attentamente valutata da una giuria internazionale per l'aspetto, il gusto, la cottura ed anche le tecniche di preparazione dell'impasto e le combinazioni di condimenti utilizzate.

Concorrenti selezionati per partecipare al Campionato del mondo 2025 a Parma:

Alexandru Ilie Paduraru

Andrei Iulian Ciocan

Iulian Adrian Cimpoae

a cura della redazione

Ristora Hotel Sicilia a Catania e 4° Trofeo

Italiano Pizzaioli

Si è tenuta, dal 17 al 20 novembre a Misterbianco – Catania, la fiera Ristora Hotel Sicilia che ha visto oltre 10.000 visitatori, un pubblico selezionato di addetti ai lavori, scuole alberghiere e operatori del settore.

Tra gli eventi svolti durante la fiera, il 4° Trofeo Italiano Pizzaioli in collaborazione con la rivista “Pizza e pasta italiana”.

Vincitore della gara, Salvatore Bucca del Ristorante Pizzeria Villa Ossidiana di Barcellona Pozzo di Gotto (ME), con la pizza “Pescestoccosa” con stoccafisso, pomodoro “seccagno”, cipollotto di Tropea, capperi, olive verdi in salamoia, olio evo, prezzemolo, olio pepato, pepe nero, sedano e scorza di limone. 2° classificato Corrado Bombaci della Pizzeria Hambrosia di Roccalumera (ME) con la pizza “Arriva l’autunno” con crema di carciofi, mozzarella affumicata, carciofo saltato, guanciale croccante, stracciatella, confettura di datterino e mandorle. 3° classificato Salvatore Sciortino con la pizza “Norma gourmet” con crema di melanzane, mozzarella fior di latte, pesto rosso, basilico, ricotta salata e pomodorini semi secchi.

Molino Cosma: innovazione

ed

eccellenza nelle farine e mix per pizza

Molino Cosma rappresenta un riferimento per il mondo pizza con un’offerta completa di farine e mix.

L’azienda investe molto nell’attività di ricerca e sviluppo, ottenendo la realizzazione di nuove farine e miscele.

Tra le nuove proposte di prodotti che Molino Cosma porta sul mercato spicca la farina Plus Azzurra, farina per lunghe lievitazioni adatta per impasti ad alta idratazione, perfetta per ottenere pizze con cornicione pronunciato e leggero, dal gusto delicato.

Del tutto innovativa è la proposta di una miscela ad alto contenuto proteico plant-based, Mix Vegetale Proteico, adatta per ogni tipo di pizza, restituisce un prodotto performante dal gusto intenso di vegetali proteici, adatta per la produzione di padellini gourmet.

Tutte le nuove proposte vengono presentate presso l’Accademy del Molino con workshop dedicati.

Molino Cosma srl

Via Antonelli, 29

S.Martino di Lupari

Padova

Tel +39 0495952065

info@molinocosma.com

a cura della redazione

IginioMassari

IL RE DEL NATALE

M“Il panettone ha un valore simbolico che va oltre il suo sapore. È un simbolo di tradizione e condivisione, un dolce che porta con sé il calore della famiglia e la gioia delle festività. Produrlo con cura artigianale e ingredienti eccellenti è il nostro modo di onorare questa storia e di far arrivare a chi lo sceglie, non solo un prodotto, ma un’emozione memorabile da condividere”.

Sono queste le parole con cui Iginio Massari, il re indiscusso della pasticceria italiana nonché pasticciere dello star system tricolore, racconta il suo panettone. Il Panettone di Iginio Massari Alta Pasticceria è il punto di forza della produzione invernale del Maestro.

Caratterizzato da una complessa lavorazione che dura ben 65 ore con quattro lievitazioni e due impasti e che conferisce al lievitato una consistenza particolarmente morbida. All’interno, la perfetta alveolatura racchiude preziosi cubetti di arancia candita calabrese e uvetta Sei Corone, che accompagnano e arricchiscono i sentori aromatici del burro e della vaniglia. Una squisita glassa realizzata con mandorle e resa ancora più golosa da un tocco di cacao, ne ricopre la sommità, intrappolando mandorle grezze e granella di zucchero.

Un ricchissimo bouquet aromatico e un bilanciamento perfetto di gusti e consistenze.

In risposta alla crescente domanda, Iginio Massari Alta Pasticceria offre anche una versione senza canditi. Per mantenere la stessa intensità di sapore, questa variante è stata sapientemente riequilibrata con fave di tonka, più vaniglia, più miele e togliendo uvetta e mandorle.

E per chi ha specifiche esigenze alimentari nasce anche il Panettone senza lattosio grazie all’utilizzo di pregiato burro senza lattosio. Al suo interno, uvetta Sei Corone e arancia candita calabrese, con una delicata copertura di mandorle e nocciole.

Sono tre, invece, le novità previste in edizione limitata per questo Natale 2024:

◊ Panettone al Cioccolato e Lampone. Questo nuovo goloso panettone è realizzato con impasto al cacao e

cioccolato ed è arricchito con lamponi canditi, glassa al lampone e zucchero cristallino.

◊ Panettone Integrale al Caramello e Pere. Qui la farina integrale è arricchita con pere candite e una glassa di cioccolato bianco al caramello.

◊ Panettone alle Fragole Mara des Bois e Cioccolato Monorigine. Disponibile nella speciale pezzatura da 1,5 kg, questo eccezionale lievitato racchiude fragole Mara des Bois, varietà pregiata francese, e cioccolato fondente al 70% monorigine San Martin Perù, caratterizzato da note aromatiche di frutti rossi, agrumi e spezie. Una golosa glassa alle fragole completa il ricchissimo bouquet aromatico di questa edizione straordinaria. Questo panettone è proposto con un’esclusiva cappelliera da collezione.

La gamma natalizia del Maestro Massari comprende anche un altro grande classico della tradizione italiana: il Pandoro, realizzato con una lavorazione che ne esalta la morbidezza e sprigiona i sentori

di vaniglia e il Calendario dell’Avvento, anch’esso in edizione limitata, con iconici prodotti artigianali del Maestro Massari che accompagnano ogni giorno fino a Natale, dove la casella del 25 dicembre racchiude un’elegante sorpresa. Tutti i prodotti sono prenotabili e disponibili presso la Casa Madre di Brescia e presso gli store di Torino, Verona, Firenze e Roma, ma anche nei “Pop-Up Store” delle stazioni ferroviarie e degli aeroporti. Per chi, invece, non avesse questa possibilità di recarsi in pasticceria, basta andare sul sito iginiomassari.it

Ci aspetta, dunque, un Natale di emozioni autentiche, con cui Massari è – come di consueto – pronto a soddisfare ogni palato con prodotti inimitabili, tra grandi classici e imperdibili novità, tutte golose.

CAMPIONATO MONDIALE DELLA PIZZA

Iscrizioni a partire

PREZZO SPECIALE EARLYBIRD PER CHI SI ISCRIVE ENTRO IL 15 GENNAIO 2025

REGOLAMENTI ED ISCRIZIONI

www.campionatomondialedellapizza.it

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Ristorazione domani

CIBO E TURISMO

di Giampiero Rorato

CI

sono alcune cose sicure e ben conosciute in tutto il mondo: l’Italia è uno dei più importanti Paesi turistici del mondo ed ha uno dei massimi patrimoni storici, artistici e culturali del mondo occidentale. Si sa inoltre che la ristorazione è una delle principali colonne portanti del movimento turistico in Italia. Quello che non sempre è chiaro è come si sia evoluto il turismo nel nostro paese. Nel Settecento, arrivavano in Italia i figli della nobiltà e della ricca borghesia - soprattutto inglese e francese - per visitare le vestigia dell’antica Roma e conoscere l’arte conservata nei musei. Nell’Ottocento, invece, ci fu pochissimo turismo estero verso l’Italia, sia per le insurrezioni patriottiche che per le guerre del Risorgimento; un avvio del turismo dall’estero verso l’Italia si ha solo verso la fine del secolo mentre centinaia di migliaia di italiani partivano per l’estero, soprattutto per le Americhe, non certo per turismo ma in cerca di lavoro. Nel Novecento, il turismo verso l’Italia

punta su delle mete ben precise: il mare, soprattutto inizialmente la Liguria e la Toscana; i laghi, soprattutto il Garda, il Lago di Como e il Maggiore; la montagna, soprattutto le Dolomiti ed ancora le città di Roma e Firenze. Una seconda serie di varietà, dette “storiche”, sono quelle realizzate nella prima metà del secolo scorso dall’agronomo e genetista marchigiano Nazzareno Strampelli (1866-1942) di cui ricordiamo il grano duro Senatore Cappelli e i grani teneri Ardito, San Pastore, Mentana, Marzotto, ecc., alcuni dei quali ancor oggi coltivati,

IL GRANDE SVILUPPO

TURISTICO

Il turismo vero e proprio comincia però tra gli anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso: da quegli anni si ha un crescente sviluppo del turismo balneare con le spiagge romagnole in primo piano ma anche un po’ ovunque lungo le coste della nostra Penisola. Pian piano, si sviluppa un turismo culturale con interessanti flussi verso le città d’arte: da Venezia a Firenze, Roma, Napoli e anche verso città minori.

Negli ultimi decenni del secolo scorso, grazie anche ad una saggia politica governativa, l’Italia era diventata il primo Paese turistico d’Europa, coinvolgendo sempre più la ristorazione, grazie anche a interessanti e seguite guide gastronomiche come la Michelin e l’Espresso.

dando ottime farine per la panificazione. Poi c’è tutta una serie di ottimi grani “italiani moderni”, frutto di incroci realizzati da genetisti italiani e sperimentati inizialmente in Italia. Ci sono poi grani di varia importazione e non tutti regalano al pane profumo, croccantezza, sapori e fusti come i grani antichi e come diversi di quelli realizzati dallo Strampelli. La gran parte dei bravi panettieri artigiani – categoria da difendere e valorizzare, preziosa per assicurare l’eccellenza della cucina italiana – conosce bene le differenze fra le farine e sa scegliere con cura a seconda delle esigenze e delle tipologie di pane prodotto.

XXI SECOLO

All’inizio del nuovo secolo, Francia e Spagna hanno superato l’Italia, forse anche per una diminuita attenzione politica verso il movimento turistico, che pur coinvolgeva molte centinaia di migliaia di addetti. In mezzo, ci sono state due crisi economiche importanti e alla fine del secondo decennio una brutta pandemia da Covid-19, fortunatamente superata.

In questi ultimi anni, gli interessi dei turisti internazionali si sono ulteriormente modificati; si sono infatti scoperte le bellezze del territorio: le Langhe in Piemonte, la Franciacorta e l’Oltrepò Pavese in Lombardia, le colline del Prosecco in Veneto, il Delta del Po tra Veneto e Romagna, le colline Marchigiane e via via tutte le regioni italiane hanno messo in luce

LA RISTORAZIONE CALABRESE

E qui entra in campo, grazie ai prodotti e alla cucina locale, la ristorazione. In questa regione, ci sono già ottimi ristoranti e c’è spazio anche per altri che vogliano essere punti di attrazione per i tanti turisti che - dalla primavera all’autunno - visitano e sostano in Calabria, perché il nuovo turismo non ama solo il mare o la montagna, le città d’arte e i musei ma anche la bellezza dei territori in una regione dove una lunghissima storia, l’unicità dei borghi interni, l’originalità e la bontà dei piatti sanno soddisfare pienamente anche il turista più esigente.

Ecco perché nei prossimi anni, oltre al mare, ai laghi, alla montagna, alle città d’arte e ai musei, il turista vorrà un crescente incontro con il territorio e le cucine locali preparate con la bravura dei tanti giovani cuochi, seri e impegnati capaci di ottimamente raccontare la storia degli abitanti, la civiltà dei luoghi e la bellezza di un mondo del quale tutti abbiamo sempre più bisogno.

E, come per la Calabria che abbiamo preso ad esempio, si può dire di ogni altra regione italiana, soprattutto del nostro centro-sud.

la campagna ovunque ricca di prodotti di pregio. La Calabria - per fare un esempio significativo - in passato abbastanza dimenticata dal turismo internazionale, si sta ora riproponendo per i suoi straordinari prodotti: salumi, formaggi, liquori, bergamotto, cedro, liquirizia, olio evo, vino, peperone e peperoncino; con l’impiego di questi prodotti, la tradizione regionale ha realizzato nel corso del tempo una serie di piatti gastronomicamente eccezionali, capaci di raccontare la storia del territorio, dell’Aspromonte, della riviera adriatica e ionica e dei tanti luoghi che risalgono alla colonizzazione greca avvenuta tra l’ottavo e settimo secolo a.C. Ci sono poi in questa regione degli insediamenti di comunità albanesi ricchi di cultura, tradizione, riti e piatti che hanno ulteriormente arricchito la storia alimentare regionale. Tutto ciò sta attirando l’attenzione del turismo sia interno che estero e quanti arrivano nelle spiagge calabresi sentono poi il bisogno di entrare alla scoperta di un territorio ricchissimo di valori, dove molti giovani - dopo la laurea - hanno scelto di restare, avendo ben compreso che la loro regione non è un problema italiano, perché contribuisce in maniera efficace a risolvere il problema italiano.

Padiglione D7

IL PAN IL PAN

di Domenico Maria Jacobone

Il Pan Ducale è uno tra i dolci più tipici della tradizione abruzzese, indissolubilmente legato alla città di Atri, storico centro della provincia teramana già noto nell’antichità che - come annotò Plinio il Vecchiosorge “a sei miglia dalla costa adriatica”.

La città di Atri domina il paesaggio dalla sua collina a circa 400 metri sul livello del mare, regalando uno straordinario colpo d’occhio che abbraccia in una sola giravolta l’Adriatico e il massiccio del Gran Sasso. Le origini di Atri, come spesso accade nelle stratificazioni storiche, si intrecciano con diverse leggende che narrano dell’insediamento di una colonia illiricosicula o dell’arrivo di popolazioni dalmate, testimoniando una storia millenaria che giunge fino ai nostri giorni.

Forse proprio dall’intreccio di queste commistioni storiche fiorisce la storia di uno dei dolci abruzzesi più rinomati al mondo. Il Pan Ducale, infatti, ha salde origini nell’antica “pizza di mandorle” atriana, una preparazione che univa uova, zucchero, farina e mandorle tritate. Questa versione primordiale, documentata in scritti risalenti al periodo tra il 1200 e la prima metà del 1300, rivela interessanti connessioni con le tradizioni culinarie turco-balcaniche e greche, che spiegherebbero in parte alcune legende storiche. Particolarmente affascinante è

la somiglianza (dall’altro lato dell’Europa) con il Toucinho de Céu portoghese, che condivide gli stessi ingredienti di base seppur con una storia diversa: uova, zucchero, farina di mandorle e farina bianca. Nelle case atriane, la pizza di mandorle rappresentava il dolce delle festività per eccellenza ma la sua fama raggiunse l’apice quando venne offerta come dono di benvenuto al Conte di S. Flaviano, Antonio Acquaviva, che nel 1395 acquisì Atri. Una storia di dolcezza che attraverserà cinquecento anni perché il Ducato degli Acquaviva prosperò per ben 19 generazioni.

Tornando alla leggenda, si narra che il neo Duca Antonio d’Acquaviva fosse conosciuto come personaggio temibile e scontroso ma rimase talmente conquistato da questo dolce da richiederne una fetta quotidiana, come fosse pane. Questo accoglimento inaspettato e la conseguente benevolenza del neo-sovrano portarono gli atriani a rinominare la pizza di mandorle in Pan Ducale. La prelibata ricetta si diffuse ampiamente nel centro Italia e raggiunse anche l’Europa,

DUCALE DUCALE

grazie ai legami degli Acquaviva con gli Aragonesi. Il dinamismo dei duchi, che si distinsero per modernità e intraprendenza nel periodo tra il Rinascimento e la fine del ‘700, favorì la creazione di connessioni in tutta Italia. Nel corso degli anni, alla ricetta furono aggiunti i canditi e nell’Ottocento si arricchì con l’aggiunta del cioccolato, quest’ultimo divenuto di moda in Italia proprio in quel periodo, definendo così la versione che ancora oggi delizia i palati in tutto il mondo.

Con il declino e l’estinzione della famiglia Acquaviva e il conseguente passaggio di Atri al Regno di Napoli, la produzione e il consumo del Pan Ducale tornarono ad essere prerogativa esclusiva delle famiglie atriane. La rinascita moderna e la diffu sione nel mondo di questa pro duzione tradizionale si deve alla famiglia atriana D’Amario, che alla fine degli anni ‘60 rilevò il Caffè del Teatro, nella piazza cen trale della città. La produzione artigianale, basata sulla “ricetta della mamma”, la signora Filo mena, riscosse un tale successo

da spingere Pasquale D’Amario e sua moglie Maria Rosaria (tuttora custode della ricetta di famiglia) ad aprire il primo laboratorio di produzione. L’attenzione per gli ingredienti ed il coraggio imprenditoriale hanno portato fino ai giorni nostri l’azienda, attualmente guidata dai figli Paola, Danilo e Claudia D’Amario, che si è evoluta in un’importante realtà industriale dolciaria.

Nel 2021, il Pan Ducale ha ottenu-

Questa prelibatezza rappresenta un patrimonio dolciario di facile interpretazione, perfetto per le imminenti festività natalizie: bastano pochi ingredienti e un classico stampo da plumcake di taglia

LA RICETTA DI NONNA ADELINA

Le dosi della ricetta generosamente condivisa al telefono da “nonna

Adelina” sono:

• 150g farina 00

• 45g farina di mandorle

• 150g zucchero

• 1 bustina lievito per dolci

• 180g burro

• 5 uova

• 180g cioccolato fondente in scaglie

• 80g mandorle con la pelle

• 80g cedro candito

• Essenza di mandorle amare

• Scorza di ½ limone

• Burro e farina per lo stampo

Il procedimento

è semplicissimo:

preparare uno stampo da plumcake imburrandolo einfarinandolo accuratamente. Setacciare insieme la farina con la farina di mandorle e il lievito per dolci in una ciotola. Separare i tuorli dagli albumi delle uova. In una ciotola capiente, montare i tuorli con lo zucchero fino ad ottenere un composto chiaro e spumoso. Incorporare gradualmente il mix di farine setacciate nel composto di tuorli e zucchero, mescolando delicatamente.

Tritare grossolanamente le mandorle, mantenendone la pelle. Aggiungere al composto le mandorle tritate, le scaglie di cioccolato fondente, il cedro candito tagliato a pezzetti, la scorza di limone grattugiata e qualche goccia di essenza di mandorle amare, mescolando per distribuire uniformemente gli ingredienti.

In una ciotola separata, montare gli albumi a neve ferma. Incorporarli delicatamente al composto principale effet-

tuando movimenti dal basso verso l’alto con una spatola morbida, prestando attenzione a non smontare il composto. Versare l’impasto nello stampo preparato e cuocere in forno preriscaldato a 170°C per circa 45-55 minuti. Verificare la cottura inserendo uno stecchino al centro del dolce: se esce pulito, il Pan Ducale è pronto. Lasciare raffreddare completamente prima di toglierlo dallo stampo.

A proposito: dopo averlo tagliato a fette, si consiglia di condividerlo ed aggiungere un pizzico di felicità al momento.

Karshof. Farina di carciofo.

Parlando di sostenibilità è impossibile non fare riferimento allo spreco alimentare, il quale inevitabilmente provoca un impatto sull’economia, la sicurezza alimentare e l’ambiente. È ormai risaputo che il Ministero della salute abbia scelto di promuovere i principi e i valori della Dieta Mediterranea come modello di dieta tradizionale, sana e sostenibile. Ebbene, pochi anni orsono, Luca Cotecchia e Nicola An-

cillotto – fondatori della startup “Circular Fiber” con sede in provincia di Pordenone, nel Friuli-Venezia-Giulia – hanno scelto di impegnarsi in una missione basata proprio sugli stessi valori, attraverso la creazione di un prodotto capace di valorizzare non soltanto la Dieta Mediterranea stessa, ma anche i principi sulla quale essa si fonda, focalizzandosi in particolar modo su sostenibilità e salubrità.

Così nasce Karshof: un’innovativa farina vegetale di carciofo, creata dagli scarti dello stesso, la prima del suo genere. L’obiettivo è quello di combattere gli sprechi alimentari e promuovere al meglio le risorse naturali, con un prodotto che ben si adatta a molteplici preparazioni: dal pane alla pizza, dalla pasta ai taralli e non solo. Aldilà del puro utilizzo culinario, Karshof si presenta come un prodotto adatto a tutti, grazie a elementi utili a favorire la salute del fegato e il benessere intestinale, ideale per i diabetici e ovviamente i celiaci. L’Italia è il più grande produttore di carciofi al mondo: perché dunque sprecarne anche solo un pezzettino?

Luca raccontami chi sei e di cosa ti occupi. Sono un biotecnologo agroindustriale. Vengo da Napoli e mi sono laureato alla Federico II, ho speso dieci anni all’estero formandomi tra Irlanda e Stati Uniti. Sono rientrato in Italia nel 2016 e ho lavorato a livello manageriale in alcune grandi società. Poi ho messo su Circular Fiber con il mio socio, Nicola Ancillotto.

Il progetto è partito in concomitanza con un’Executive MBA che ha fatto Nicola, praticamente abbiamo portato la start up come tesi del master.

E la “Circular fiber” nasce proprio per il progetto Karshof o vi occupate anche di altro? Ci siamo focalizzati soltanto sulla rigenerazione dei sottoprodotti del carciofo. Abbiamo notato che c’è un gap sul mercato, nel senso che non esistono farine vegetali di carciofo: nessuno ci aveva mai “sbattuto la testa” e quindi eccoci qua.

Ecco perché proprio il carciofo, ma come nasce l’idea? C’è qualcosa in particolare da cui avete tratto ispirazione? Sì. Praticamente da una cena con Federmanager giovani, alla quale ero appena stato premiato tra i 40 manager emergenti italiani. Loro erano interessati a una figura che solo adesso inizia a vedersi nelle aziende italiane: il sustai-

nability manager. Ruolo per il quale io avevo già lavorato all’estero. Tutto è nato perché a cena stavamo mangiando carciofi – nemmeno a dirlo – e ci siamo resi conto che nel piatto restava lo scarto di fibra. Da lì è nata l’idea: “vediamo se riusciamo a trovare un trasformatore, se riusciamo a creare questo prodotto, se riusciamo a fare” ecc. Alla fine, è nata Karshof.

Ero francamente convinta che per trovare il giusto prodotto, prima del carciofo, ci fosse voluta una vita e invece eravate a cena, a mangiare carciofi per caso.

Diciamo che è stato un caso il carciofo ma è stata una cosa ben studiata. Quando sono rientrato in Italia mi son portato un bel bagaglio di esperienze su ciò che all’estero viene chiamato “upcycled food” o farine o cibo circolari, che in Italia non esiste.

La pratica di upcycling si riferisce a più campi di applicazione, ma è andata via via assumendo una risonanza sempre maggiore all’interno dell’industria del food, diventando un settore a sé stante. In Italia sono ancora poche le startup che stanno adottando misure concrete contro lo spreco alimentare.

Spiegami meglio. È un termine che in italiano non esiste, è questo il motivo per cui facciamo fatica a comu-

nicare nel nostro Paese mentre abbiamo un riscontro all’estero. Tradotto in italiano dovrebbe essere: “rigenerazione di un sottoprodotto della produzione in essere”; solo che, mentre lo dico, praticamente è passata già una vita.

“Upcycled food” invece esiste all’estero, così come le catene circolari di rigenerazione proprio di un sottoprodotto di produzione. In Italia abbiamo una marea di spreco e, studiando proprio il progetto “Karshof”, abbiamo visto che oltre il 70% del carciofo originale viene scartato. Sono prodotti vegetali unici e importantissimi. Ciò che viene “scartato”, noi al Sud, in trasformazione lo mangiamo.

Oltre al fatto che si tratta di un prodotto antispreco che si inserisce perfettamente nell’ambito dell’innovazione sostenibile e che possiamo dunque definire “a favore del pianeta”, quali altri potrebbero essere i punti a favore del prodotto?

Noi abbiamo un plus, una marea di plus in realtà: è un discorso di sostenibilità, di economia circolare, di fibre vegetali ecc. La nostra farina ha oltre il 60% di fibra, il 15 – 20% di proteine e il 10% di inulina, un prebiotico naturale fondamentale per la dieta mediterranea, in quanto aiuta l’assimilazione dei minerali nelle ossa, il normale metabolismo degli

acidi grassi. Inoltre, il carciofo è l’unica pianta con un livello di cinarina alto, ovvero un detox, che va a interagire con la detossificazione delle cellule epatiche del fegato. Dunque, la nostra è una farina davvero funzionale. Oggi non abbiamo ancora il giusto budget per entrare nel canale della nutraceutica o delle farmacie ma sarà sicuramente un prossimo step. Stiamo sicuramente creando prodotti spettacolari con alcuni partner: pasta, pane, pizza, pinsa, crackers… Abbiamo fatto anche delle pizze meravigliose con “Gorizia” al Vomero, i taralli di “Tentazioni pugliesi”, la pasta di Aldo, un pastificio nelle Marche che fa delle fettuccine all'uovo con la “Karshof” o la pasta del Pastificio “Matildico”, la “Pinsa Lia” e altri che stanno facendo sperimentazione.

Per quanto riguarda il gusto, si sente molto il carciofo? Si sente, ma non è invadente. La nostra farina va in percentuale: dal 6 al 15% massimo, perché avendo tanta fibra poi diventerebbe un lassativo, cosa che non vogliamo, almeno per oggi (ridiamo). Quindi, al 15 o al 12% c’è un bel gusto “carciofoso”, ma al 6% hai giusto quell’amarognolo che comunque si sposa benissimo con determinati gusti; per esempio, con il pesce, veramente una cosa buonissima.

Anche con altri piatti, come –ovviamente – carciofi e patate. La cosa più difficile per noi è proprio far capire alle persone che, nonostante il gusto alternativo, si tratta di un qualcosa che ti fa bene. Ha alti livelli di cinarina e inulina, cioè tecnicamente puoi bilanciare una frittura napoletana con tre crackers. L’inulina è importantissima, ma a quei livelli la trovi solo nella cicoria e - parliamoci chiaramente - prova a mangiarla una pizza o la pasta di cicoria! O anche il Topinambur. Paradossalmente, pur essendo il carciofo una pianta mediterranea, riscontriamo maggiore interesse fuori dall’Italia, dove non sanno neppure cosa sia il carciofo, ma dove valutano il profilo nutrizionale.

Proprio in virtù di questa difficoltà, che previsioni hai in merito all’inserimento del prodotto sul mercato italiano?

Oggi cerchiamo partner. Abbiamo bussato alla porta di vari mulini. Non andiamo ad oggi al consumatore finale; non arriviamo a te, alla vicina o alla nonna, ma a chi fa la pasta e i cracker. Facciamo B2B, perché per arrivare al consumatore finale necessita una comunicazione incredibile, che oggi non è possibile fare. Quindi, come ovviare a questo problema? Con partner forti.

Come avviene il processo di lavorazione?

Abbiamo uno dei più grandi trasformatori di verdura del Nord Est, che è immenso. Sfido chiunque a fare meglio di noi. Andiamo a prendere il carciofo o le foglie di carciofo nei mercati, da chi le taglia per chi le fa arrivare sulle pizze, chi fa i sottoli e cose così. Non parliamo di scarto ma di sottoprodotto, di quello che viene definito proprio sottoprodotto di produzione. La nostra sede operativa è in provincia di Venezia e il nostro socio

trasformatore recupera tutto ciò che serve. Ci riferiamo specialmente al mercato italiano, anche spagnolo, francese o comunque europeo in generale, ma il 90% è italiano: la nostra dunque è una farina Made in Italy. A fare una cosa del genere in patria siamo gli unici, in Europa siamo in due.

Ma cos’è che la differenzia sostanzialmente dalle farine raffinate? Carciofo a parte ovviamente.

Il differenziante è il fatto che la nostra farina ha un indice di carbon footprint (impronta ambientale, ndr) inferiore rispetto a tutte le altre farine, perché non partiamo dal campo. È chiaramente una farina vegetale, non ha dunque glutine ed è adatta ai celiaci, così come ai vegani e i vegetariani. Inoltre, la “Karshof” è a basso indice glicemico, quindi adatta ai diabetici, a persone che appunto hanno un problema del genere.

A parte la sostenibilità, qual è il valore su cui si basa questo progetto?

Valorizzare un qualcosa che ad oggi è eliminato; oggi i sottoprodotti di produzione vengono lasciati sul campo o buttati. La nostra è una farina nobile, con tantissime proprietà nutrizionali.

Nasce nell’ottica dell’antispreco, del Made in Italy, dell’unicità sul mercato, dell’innovazione e soprattutto, come hai detto, di sostenibilità. Quest’ultima va ricercata e noi possiamo dare alle aziende un’esclusiva, oltre che un vantaggio rispetto ai competitor. Se va avrò sbancato, è un prodotto talmente particolare; se poi non va, significa che il marketing non ha funzionato o che può non essere piaciuto ma la verità è che ad oggi non abbiamo trovato una sola persona alla quale il prodotto non sia piaciuto o non sia andato bene.

Avete riscontrato maggiori difficoltà al Sud rispetto al Nord o viceversa?

No. Il problema è che le aziende sperimentano e rischiano poco. Sono tutte “followers”; nel senso che, dopo la prima, si parte con il “guarda che figo, ce l’ha il mio competitor, adesso proviamo anche noi”. Questo vale per tutti. I pizzaioli che vogliono distinguersi, per esempio, sono aperti. Abbiamo vinto anche un campionato con la nostra farina.

La Focaccia di Recco

COME FARLA, COME PROPORLA

di Domenico Maria Jacobone

Quando si parla della Focaccia di Recco col Formaggio IGP, si parla di un’eccellenza che fonde territorio e tradizione gastronomica in un connubio indissolubile, riconosciuto e celebrato in tutto il mondo. Questa focaccia ripiena di formaggio è l’espressione più autentica di un piccolo eden gastronomico che prende il nome da Recco, incantevole cittadina ligure situata a pochi chilometri a sud di Genova e lo erge a prezioso vessillo di una preparazione storica. Recco si rivela al visitatore attraverso un sorprendente percorso che, in poche curve dall’omonimo casello autostradale, scende dalla mezza costa dell’Appennino ligure fino al mare, seguendo il sinuoso corso del torrente Recco. Questo borgo marinaro di circa 10.000 abitanti, incastonato tra il verde delle colline e l’azzurro del Mar Ligure, rappresenta un perfetto esempio di quella Liguria di

mare che ha saputo preservare la sua autenticità. Il suo centro storico relativamente moderno ci ricorda che purtroppo, dopo i pesanti bombardamenti subiti dagli inglesi, non è sopravvissuto quasi nulla dell’impianto cittadino originario. La bellezza di una passeggiata nella ricostruita cittadina si trova facilmente “perdendosi” tra le piazzette che si aprono improvvise, precedute da animate vie puntellate di negozi e, soprattutto dal profumo delle botteghe storiche dei focacciai. Il lungomare, con la sua passeggiata che si snoda tra stabilimenti balneari e ristoranti fino alla rinomata Ciappea (una terrazza naturale di ardesia adagiata tra i flutti ed ambita meta estiva dei ragazzi), offre scorci mozzafiato sul Golfo Paradiso, mentre il porticciolo con i due moli di attracco barche e traghetti aggiunge un tocco di vivacità marinara all’atmosfera del luogo.

Ho avuto la fortuna di tornare in questa perla gastronomica a pochi giorni dalla stesura di questo articolo, proprio nel momento in cui il rinomato critico enogastronomico americano Fred Plotkin ha rilasciato un’affermazione destinata a fare il giro del mondo. In un recente articolo per il New York Times, ha infatti dichiarato: “Se sapessi che sto mangiando il mio ultimo pasto, questa focaccia sarebbe nel menù.” Un endorsement di straordinario valore che ha amplificato ulteriormente la risonanza internazionale di questo prodotto, già amato ed esportato in ogni angolo del globo.

La Focaccia di Recco è un prodotto la cui storia è testimoniata da uno scritto risalente alla Terza Crociata (nel 1189) nel quale si racconta del pasto precedente la partenza dei Crociati liguri tra i quali spicca “una focaccia di semola e di giuncata appena rappresa”. Questa pietanza ha una storia indissolubilmente legata alla sopravvivenza dei recchesi, infatti durante le frequenti incursioni dei pirati saraceni, la popolazione recchese trovava rifugio nell’immediato entroterra, dovendo sopravvivere con pochi ingredienti di facile trasporto come: olio, farina e la preziosa formaggetta locale. I fuggiaschi, utilizzando una lastra di ardesia scaldata sul fuoco e coperta, impararono a cuocere una sottile sfoglia di pasta ripiena di formaggio,

dando vita a quella che oggi conosciamo e celebriamo come “Focaccia di Recco col Formaggio”

Nel corso degli anni, la Focaccia di Recco ha mantenuto intatta la sua genuina semplicità, ma il crescente successo nazionale (ed internazionale), ha reso indispensabile una rigorosa tutela del prodotto e della sua denominazione. La registrazione del marchio nel 1994 ha rappresentato il primo fondamentale passo di questo percorso, motivato dall’urgenza di arginare la proliferazione di imitazioni che poco avevano a che fare con la ricetta originale.

La vera svolta si materializza negli anni 2000 con la nascita di un comitato volontario

dei produttori che, nel 2005, evolve nell’attuale Consorzio di Promozione. L’obiettivo ambizioso era la stesura di un disciplinare univoco e l’ottenimento del riconoscimento IGP (Indicazione Geografica Protetta) a livello europeo, traguardo raggiunto nel 2015 dopo un complesso iter burocratico e diverse opposizioni. Questo prestigioso riconoscimento, ottenuto per la “rinomanza” della preparazione, ha elevato la Focaccia di Recco col Formaggio al rango di 278esima eccellenza gastronomica italiana. Un primato significativo caratterizza questo IGP: è la prima specialità tutelata al mondo il cui ciclo produttivo completo può realizzarsi non solo in laboratori artigianali e panifici, ma anche all’interno dei ristoranti, una peculiarità unica nel panorama dei prodotti DOP e IGP.

Il Consorzio, che oggi riunisce quattordici storiche aziende con una ventina di punti ven-

dita distribuiti nel territorio di Recco, Camogli, Sori e Avegno, ha elaborato un disciplinare di produzione tanto rigoroso quanto essenziale, sottoposto a verifiche scrupolose durante tutto l’anno. Questo documento, nella sua precisa semplicità, è diventato un modello di riferimento per la tutela delle eccellenze gastronomiche tradizionali, eliminando ogni elemento superfluo e concentrandosi sull’autenticità del prodotto. Da oltre vent’anni, il Consorzio persegue una strategia di comunicazione globale volta a promuovere e valorizzare il brand locale “Focaccia di Recco col Formaggio”, forgiando un legame indissolubile tra prodotto, artigiani e territorio. Questo impegno costante ha dato vita a una robusta identità gastronomica che fonde armoniosamente tradizione, eccellenza qualitativa e riconoscibilità internazionale.

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Tuttavia, nonostante il rigoroso lavoro di tutela del marchio IGP e l’instancabile difesa dell’autenticità del prodotto, il fenomeno della contraffazione continua a rappresentare una sfida significativa. Un dato allarmante emerge dall’analisi del 2023: la Focaccia col formaggio falsamente attribuita a Recco e quindi prodotta in violazione del disciplinare, si è tristemente distinta come uno dei prodotti più contraffatti in tutto il Nord-Ovest italiano. Questa statistica sottolinea quanto sia ancora necessario proteggere questa eccellenza gastronomica dalle imitazioni che ne sviliscono il valore e la tradizione.

Per preparare una replica casalinga di focaccia al formaggio (che non si potrà mai chiamare “Recco” proprio per la tutela del marchio) le indicazioni sono inserite direttamente tra le pagine online del consorzio che ho riportato fedelmente:

DOSI E INGREDIENTI

(per una teglia di “Focaccia di Recco col formaggio” diametro cm 60 da 10 porzioni circa)

• 500 gr. di Farina di grano tenero tipo “00” di forza o in alternativa farina tipo “Manitoba”.

• 50 gr. di olio extra vergine d’oliva italiano

• Acqua naturale

• Sale fino

• 1 kg. di Formaggio fresco (Crescenza)

PREPARAZIONE DELL’IMPASTO

L’impasto della Recco è un impasto diretto, si lavorano assieme farina di grano tenero tipo “00” (o farina tipo “Manitoba”), acqua, olio extravergine di oliva italiano e sale sino ad ottenere un impasto morbido e liscio. Terminata l’operazione, si lascia riposare l’impasto per almeno 30-45 minuti a temperatura ambiente, coperto da un telo di tessuto naturale oppure in appositi contenitori alimentari a norma di legge. Si suddivide poi l’impasto in porzioni corrispondenti alle esigenze di impiego mantenendolo in condizioni igieniche ottimali. Si preleva una porzione di impasto e la si tira a mano e col mattarello.

Quindi si procede manualmente allargando la pasta con un movimento rotatorio, posizionando le mani sotto alla sfoglia, fino a renderne lo spessore inferiore al millimetro, e avendo cura di non provocare perforazioni della superficie. Si adagia la sfoglia ottenuta nella teglia di cottura (solitamente un testo di rame stagnato), precedentemente unta con olio extravergine di oliva italiano.

Si adagia sulla sfoglia il formaggio fresco, distribuendolo in piccoli pezzi della grandezza pari a quella di una noce così da coprire in maniera omogenea tutta la superficie. Si procede alla lavorazione dell’impasto rimanente, per ottenere un secondo strato di sfoglia delle dimensioni pari al precedente, che sarà ulteriormente lavorato fino a renderlo sottile come un velo, quasi trasparente (tanto che si possano vedere chiaramente le nocche di chi lo sta lavorando, e sarà successivamente adagiato sulla base già coperta dal formaggio.

Si saldano, schiacciandoli, i bordi sovrapposti delle due sfoglie per impedire la fuoriuscita del Formaggio durante le operazioni di cottura. Eventuali lembi di impasto in eccesso potranno essere rimossi con l’ausilio di un coltello o di altro strumento. Con le dita si pizzica in più punti la sfoglia superiore formando dei fori, (i cosiddetti “camini”), che serviranno ad incanalare il vapore durante la cottura.

Si cosparge la “Focaccia di Recco col formaggio” con un

filo di olio extravergine di oliva italiano e, eventualmente, con una spolverata di sale. La cottura deve avvenire in forni alla temperatura compresa tra 270° e 320°C per 4-8 minuti, fino a quando la superficie del prodotto non avrà assunto un colore dorato, con bolle o striature marroni nella parte superiore. Il forno deve essere regolato in modo che la parte inferiore sia decisamente più calda della superiore perché la cottura della Recco è una cottura inversa che parte dal basso. Appena sfornata va tagliata e servita immediatamente.

Per assaporare l’autentica Focaccia di Recco col Formaggio IGP col “bollino” e lontano da ogni imitazione, non c’è esperienza migliore che programmare un soggiorno nella splendida Riviera Ligure di Levante. Questo territorio, vitale e accogliente in ogni stagione, offre un percorso gastronomi-

co unico attraverso le quattro località del disciplinare: dalla vivace Recco al pittoresco borgo di Camogli, dalla costiera Sori fino al verdeggiante Avegno nell’entroterra.

In ognuna di queste località, potrete gustare l’autentica focaccia seguendo il motto dei produttori locali: “Fatta, cotta e servita”, un’esperienza che raggiunge il suo apice quando viene consumata in riva al mare, magari accompagnata da uno dei celebri tramonti liguri che tingono di rosa e oro le acque del Golfo Paradiso.

Per pianificare al meglio la vostra esperienza gastronomica e scoprire tutti i produttori certificati, il Consorzio mette a disposizione un portale ricco di informazioni utili:

PUGLIA

La paposcia

Paposcia Re,San Menaio

di Noemi Caracciolo

Ogni luogo è rappresentato da una o più tradizioni, che ne conservano la magia e ne contraddistinguono l’identità, come i cannoli per la Sicilia o i Pizzoccheri per la Lombardia, per citarne un paio.

Parliamo, allora, di una pietanza le cui origini risalgono addirittura al XVI secolo: la Pa-

poscia, regina del Gargano in Puglia. A ogni regina il suo re e, in questo caso, a sostenere il peso della corona è Gianluca Ferraraccio, proprietario di “Paposcia Re” a San Menaio, in Vico del Gargano, dal 2017. Pizzaiolo e fautore di paposce, Ferraraccio ha iniziato a impastare all’età di 26 anni, insieme a un amico: Simone Tomaiuoli. Non inizialmente intenzionato a intraprendere questa strada, come capita ormai a molti, ne è stato tanto affascinato da non cambiare più. A conferirgli il titolo di “Re” sono stati proprio i suoi clienti, che, quando lo incontravano per strada lo chiamavano così e da qui la decisione di aprire una propria attività e il nome del locale, semplice e funzionale “Paposcia Re”. Spalleggiato dal figlio Vincenzo, che gestisce “PaposciaRe 2.0” e da sua moglie che sta ai fornelli, Gianluca propone ogni giorno almeno 15 tipi di paposce, innovando, ma restando sempre ben ancorato alle radici storiche di un prodotto tanto antico quanto buono, senza alterarne i valori tradizionali.

Gianluca qual è la storia della paposcia e che cos’è?

Nasce come prova, dal “test del forno”. Anticamente, esi-

steva solo il forno a legna e si preparava il pane impastando in dei contenitori di legno; di ciò che avanzava e restava nei bordi - “a fazzatur” nel mio dialetto – si facevano delle palline che, una volta cresciute, si allungavano come una “babbuccia” o “paposcia”, prendendo la forma di una pantofola appunto e venivano messe in forno. Se si gonfiavano, allora la temperatura era giusta per il pane; se invece no, allora si aggiungeva la legna. Oggi è ancora così, “allungata” e si cuoce nel forno a legna a fuoco vivo, minimo a 300°, dai 30 ai 40 secondi. Senza la fiamma non si gonfierebbe. Si prepara con farina, acqua, pochissimo lievito e sale, olio extravergine.

Fai anche le pizze, proponi dunque lo stesso impasto?

Sì, faccio la pizza classica, impasto da 12 a 36 ore con pochissimo lievito, molto leggera. Sinceramente vengono apprezzate entrambe. Uso un blend di farine tipo 1, 2 e 0, viene fuori una pasta molto croccante. La pallina della paposcia ha lo stesso peso della pizza, 270 g. L’80% dei clienti però chiede la paposcia.

Come riesci a innova-

re pur proponendo un prodotto così tradizionale?

La mia paposcia è diversa, non è la solita. La differenza sostanziale sta nella lunghezza, il metodo e la lievitazione. Gli altri la fanno lunga circa 30 –35 cm, la pallina è la stessa, ma io la lavoro e la stendo diversamente. Quando la allungo, nonostante gli stessi grammi

di quella degli altri, riesco a farla più lunga, uniforme e uguale da punta a punta. È una lavorazione di mano. Oltre ovviamente alla farina che dev’essere di prima qualità, esattamente come tutto ciò che uso nel mio locale. Comunque, è 100% digeribile, si mangia senza il bisogno di dover bere un po’ d’acqua, pensa, ci metto meno di un grammo di lievito al kg.

Qual è la maggiore difficoltà che si riscontra nella preparazione di una paposcia?

Dietro c’è un lavoraccio, a cominciare dagli impasti. Il mio è molto idratato, lievita un minimo di 48 ore. Rispetto a quello della pizza, deve riposare di più: maggiore è il riposo, meglio sarà. Quando c’è la possibilità, uso il lievito madre. In ogni caso, ti porta via il doppio del tempo rispetto alla pizza. Alcune vanno anche rimesse in forno. Personalmente ne preparo tra le 15 e le 16 tipologie.

Ci sono degli ingredienti che la valorizzano maggiormente?

Assolutamente sì. La “più spettacolare” per me è la nostra classica: olio evo del Gargano e pecorino garganico, molto semplice e saporita. L’ho fatta anche a Napoli recentemente,

la gente l’ha molto apprezzata, anche se all’inizio era diffidente. Ho raccontato la storia del prodotto, li ho ispirati ad assaggiare, lo hanno fatto e dopo sono tornati. Tra l’altro usiamo tutti prodotti locali, ci fa piacere valorizzarli, soprattutto le verdure, a Km 0, come

i pomodori locali dei nostri ortolani o le melanzane, soprattutto d’estate.

Si condisce con prodotti caldi e freddi?

Sì. Quelle a caldo si chiamano paposce “rinfornate”: io ne ho cinque o sei tipi. Vengono condite a metà cottura e poi rimesse in forno per far sciogliere tutto, come la “Boscaiola” con pomodoro passato, porcini, caciocavallo podolico o la Diavola. Tra le fredde, per esempio, ci sono la “Crudaiola”, con pomodoro fresco, mozzarella, crudo e rucola o la “Sfiziosa”, con pomodoro, mozzarella, porcini, bresaola e rucola e la “Ortolana”, con insalatina, tonno, cipolla, rucola, che è molto fresca e in estate va tantissimo. Le creo tutte io, sono una buona forchetta e dico sempre che mi piace far mangiare la gente come piace mangiare a me. Provo tutto: se il prodotto è buono, lo metto in menu.

NATURA AD ALTA PRESTAZIONE

Le nostre farine tradizionali, ottenute attraverso una macinazione gentile e progressiva, garantiscono prestazioni costanti e qualità superiore in ogni preparazione. Da sempre dedichiamo attenzione all’eccellenza, selezionando solo le parti migliori del chicco di grano per offrire farine che soddisfino i più elevati standard della pizzeria professionale.

le5stagioni.it

A rischio di sembrare blasfema, qual è differenza con il saltimbocca?

Ottima domanda! Il saltimbocca ha la pasta spessa e la mollica. La paposcia invece no, è sottile, un velo di pasta e non ha mollica né sopra né sotto; senti perfettamente condimento e pasta. Il saltimbocca è più massiccio.

E a te piace preparare più la pizza o la paposcia?

Io nasco “paposciolaio” e mi piace preparare più le paposce che le pizze. Su queste ultime, è più esperto mio figlio Vincenzo, che ha iniziato a 16 anni, oggi ne ha 23 e le fa migliori di me.

Quale paposcia mi faresti provare?

Tra le calde, quella con mortadella di cinghiale, caciocavallo podolico e granella di pistacchio; potrebbe sembrare diversamente ma è molto delicata. Tra le fredde, la “Sfiziosa” con

porcini locali, bresaola, pomodoro fresco e mozzarella.

Ai clienti proponi una gran varietà di scelte: quali pensi preferiscano e perché?

Forse non ci crederai, ma vanno tutte per la maggiore in realtà. Forse un pochino in più la “Boscaiola” che ti citavo prima oppure la “Fumè:” con pancetta arrotolata, scamorza affumicata e mozzarella. Ultimamente, anche quella con la tagliata di angus viaggia forte, così come quelle di mare, come la polipo e patate con straccciatella, che è buonissima.

Dunque, fate anche cucina.

Sì, siamo sul mare e quindi facciamo anche ristorazione con prodotti locali. In cucina c’è mia moglie, che è bravissima ai fornelli, li gestisce da 7 anni e anche su questo lavoriamo veramente tanto, su prodotti tipici nostri: dalla parmigiana al pacchero allo scoglio, dalle orecchiette fatte in casa con fio-

ri di zucca e cacioricotta locale alle orecchiette con vongole e porcini, dai fritti alle grigliate di pesce, agli antipasti. La scelta è molto vasta. È un’attività a conduzione familiare, mia figlia gestisce la cassa e mio figlio l’altro punto vendita.

La paposcia può essere anche dolce?

Più di sei anni fa abbiamo inventato la “Ciocconutella”: impasto scuro con nutella e cacao, farcita con crema pasticcera, panna e frutta di stagione. Va di brutto! Se ne esce una, subito dopo ne usciranno minimo altre 30 o 40.

Quindi se venissi da te, mangerei una paposcia intera?

Sì. La propongo su taglieri di legno appositi e se ne mangia una a testa. Ti assicuro che la mangiano sempre tutta. È leggera, sottilissima, croccante, molto digeribile e, come ti dicevo, è la stessa grammatura di una pallina di pizza.

IL PORCEDDU SARDO:

storia, tradizione e arte della cottura SARDEGNA

Il “porceddu”, conosciuto anche come porcheddu o porcetto, è uno dei piatti simbolo della Sardegna, emblema di una tradizione culinaria che affonda le sue radici in secoli di storia e cultura pastorale. Questo prelibato piatto rappresenta l'essenza stessa dell'isola, rivelando il legame profondo dei Sardi con il loro territorio, con la natura selvaggia e incontaminata che da sempre li circonda.

Le origini del porceddu risalgono all'antica pratica pastorale della Sardegna, una terra in cui l'allevamento e la pastorizia hanno da sempre rivestito un ruolo centrale. Sin dall'epoca nuragica, i pastori sardi allevavano maiali, sfruttando le abbondanti risorse naturali dell'isola come boschi di querce e sughere che offrivano una ricca alimentazione a base di ghiande.

Il maialino da latte, solitamente macellato quando non supera i 7-8 kg di peso, era considerato una prelibatezza da riservare alle occasioni speciali, come feste, matrimoni e celebrazioni religiose.

Il porceddu era il protagonista delle tavole durante le festività, un piatto conviviale che univa le famiglie e le comunità. Preparato con cura e pazienza, è un omaggio al rispetto delle tradizioni che, in Sardegna, sono ancora oggi tramandate di generazione in generazione.

La preparazione del porceddu è un vero e proprio rito che richiede esperienza, passione e maestria.

Il maialino viene eviscerato e pulito con attenzione, per poi essere insaporito con sale grosso e talvolta con un mix di erbe aromatiche tipiche della macchia mediterranea sarda, come mirto, rosmarino e timo. Tuttavia, la ricetta varia leggermente da zona a zona: in alcune aree, per esempio, il mirto viene utilizzato non solo come condimento ma anche come letto su cui cuocere la carne, conferendo un aroma unico e inconfondibile.

Il segreto del porceddu sta nella sua lenta cottura allo spiedo o su un letto di braci ardenti. La tecnica tradizionale prevede l'utilizzo di un forno a legna oppure la cottura all’aperto su braci di legna di leccio o quercia, che garantiscono un calore uniforme e costante. Il maialino viene infilzato su uno spiedo di legno e cotto lentamente per diverse ore, a una distanza tale dalle fiamme da evitare che si bruci esternamente, mantenendo al tempo stesso la carne tenera e succosa. Durante la cottura, è essenziale girare lo spiedo manualmente e con regolarità, affinché il calore penetri in modo uniforme. L'obiettivo è ottenere una carne morbida e saporita, con una cotenna croccante e dorata. In alcune varianti, il porceddu viene avvolto in foglie di mirto durante l’ultima fase della cottura, lasciando che il profumo penetrante dell'erba aromatica si sprigioni all'interno della carne.

Il porceddu non è solo un piatto, ma un'esperienza che coinvolge tutti i sensi, un momento di condivisione che riunisce amici e parenti

In molte zone della Sardegna, soprattutto nelle campagne del Nuorese e del Campidano, la preparazione del porceddu è ancora legata ai ritmi lenti della vita rurale. È un piatto che si gusta meglio nelle feste all’aperto, nei pranzi all’ombra degli alberi, durante le sagre paesane o nelle antiche tenute dei pastori.

Le feste locali e le sagre, come la famosa “Sagra del Porceddu” che si tiene in diversi comuni dell'isola, sono occasioni imperdibili per assaporare questo piatto preparato secondo la tradizione. Qui, i maestri della cottura mettono in mostra la loro abilità nel preparare un porceddu perfetto, che diventa una vera e propria opera d'arte culinaria. Il porceddu si serve tradizionalmente su taglieri di legno, accompagnato da foglie di mirto che ne esaltano ulteriormente il profumo. La carne viene tagliata in pezzi generosi e gustata calda, spesso con le mani, secondo l'usanza sarda che privilegia un contatto diretto con il cibo.

Gli abbinamenti migliori sono quelli con il vino rosso sardo, come il Cannonau o il Carignano del Sulcis, vini robusti e corposi che riescono a sostenere la ricchezza di sapori del porceddu. In alcune occasioni, si accompagna con il pane carasau, il tradizionale pane sottile e croccante sardo, oppure con contorni semplici come patate al forno e verdure grigliate.

Nonostante le influenze della modernità e la crescente popolarità di stili di vita più frugali, il porceddu rimane un simbolo della cultura sarda, un piatto che racconta storie di antiche tradizioni e di un popolo fiero delle proprie radici. Con il passare degli anni, però, questa tradizione ha dovuto fare i conti con le normative europee che regolamentano l’allevamento e la macellazione degli animali.

Tuttavia, molti sardi continuano a custodire gelosamente questa antica usanza, considerandola un patrimonio da tramandare.

Il porceddu non è solo un piatto ma un modo per riconnettersi con la terra e con il passato, un viaggio sensoriale che sa di Sardegna, di campi assolati, di profumi intensi e di tradizioni senza tempo. Gustare un porceddu significa immergersi nella cultura isolana, in un’esperienza che va ben oltre il semplice pasto: è un atto di celebrazione della vita e delle sue radici più profonde.

La Latteria Perenzin

Dialogo tra Caterina Vianello ed Emanuela Perenzin

La Latteria Perenzin è una delle più interessanti realtà venete di produzione lattiero casearia. Si trova a Bagnolo di San Pietro Feletto, nel trevigiano, ed è stata in grado di valorizzare il formaggio non solo dal punto di vista

gastronomico, ma anche svolgendo un ruolo importante nella formazione dei casari e nella diffusione di una “cultura” dell’arte casearia. Per saperne di più, abbiamo intervistato la titolare, Emanuela Perenzin.

Che storia ha la Latteria Perenzin?

L’azienda nasce con il mio bisnonno Domenico Perenzin, alla fine del XIX secolo: da allora sono passati 125 anni. La prima sede era a Tarzo, poi mio nonno Angelo si è trasferito nella “Latteria delle Mire” negli anni ’30. Era un piccolo caseificio in gestione e già da allora - si evince leggendo le lettere del fratello che era in America - Angelo aveva un sogno: avere una latteria tutta sua; erano però anni bui ed il fratello gli consiglia di rimandare il progetto, perché lui era senza lavoro negli Stati Uniti (a causa del crollo di Wall Street e della Grande Depressione) e di conseguenza non avrebbe potuto aiutarlo. Dopo 25 anni, nel 1956, finalmente nonno Angelo riesce a realizzare il suo sogno, inaugura il caseificio a Bagnolo (la sede attuale), non senza indebitarsi e con grandi sacrifici di tutta la famiglia.

Come si è evoluta l'azienda nel tempo?

Le generazioni che si sono susseguite hanno cercato di volta in volta di migliorare e far progredire l’azienda. In particolare, la seconda generazione ha costruito la sede di Bagnolo; la terza ha ampliato l’edificio e rinnovato completamente il negozio e la quarta generazione, cioè la mia, ha inizialmente ristrutturato il caseificio ed aggiornato i macchinari di produzione, poi ha costruito un nuovo edificio adiacente al primo, dove ci sono le nuove e moderne sale di stagionatura, reparto confezionamento e spedizione, oltre ad una nuova ed innovativa area di vendita e somministrazione al pubblico: il PER Bottega e Cheesebar.

Qual è il bilancio di questi anni di attività?

Attualmente abbiamo 25 dipendenti nelle due realtà (caseificio e PER) e lavoriamo 3 tipi di latte, cioè capra, vacca e bufala. Il 60% del latte lavorato è biologico; il 77% del latte lavorato è di capra. Abbiamo circa 40 tipologie di formaggi e latticini. Il fatturato è di poco sotto i 5 milioni di euro: il 30% del fatturato deriva dall’export.

Com'è

cambiato l'approccio al mondo del formaggio, in particolare in Veneto, in questi anni?

L’approccio del consumatore è cambiato, si è “affinato”, per usare un termine caseario. Il cliente gourmet è diventato più esigente ed è disposto anche a spendere di più per avere un prodotto qualitativamente migliore; il gusto del consumatore comune invece, è diventato sempre più standardizzato, allineato ai messaggi di marketing ed all’aspetto estetico del prodotto, a discapito soprattutto delle scelte salutari, di gusto, ma più costose.

Ritiene che il ruolo svolto da Latteria Perenzin sia stato determinante in questo cambiamento?

Il ruolo della nostra azienda è stato determinante nella nostra zona e forse anche in tutta Italia, nel valorizzare il formaggio di capra ed il formaggio biologico.

Come

sono evoluti

i vostri prodotti nel tempo?

Siamo partiti con la prima generazione dove il prodotto di punta era il burro mentre il formaggio era un prodotto di secondaria importanza, per arrivare oggi ai formaggi affinati, conciati ed ubriacati.

Recentemente la Latteria ha organizzato un convegno sull'evoluzione della figura del casaro. Cosa ne è emerso?

Lo ha spiegato bene Carlo Piccoli, fondatore dell’Accademia Internazionale dell’Arte Casearia con sede a Formeniga (TV) e consulente in ambito caseario: “Quello del casaro – ha detto – non è un mestiere in via di estinzione: abbiamo avuto in questi 10 anni più di 2.000 allievi, persone che sono venute da ogni provincia d’Italia e da 70 Paesi del mondo. Ai miei corsi ho moltissimi giovani, anche ragazzi al di sotto dei 20 anni. Quello che insegno è come valorizzare il latte; loro fanno il formaggio insieme a me, mettono le mani in pasta e, alla fine del corso, sanno fare dei formaggi importanti e sanno gestire un caseificio. C’è un interesse al saper fare che è veramente enorme, addirittura c’è un interesse che nemmeno immaginavo di pasticceri, gelatieri, ristoratori che vogliono

imparare a trasformare il latte per creare delle materie prime da usare nei loro laboratori”. È intervenuto anche Alessandro Sensidoni, docente universitario in tecnologie alimentari, che ha parlato non solo del futuro dei moderni casari ma anche dei futuri consumatori di formaggi. Si è parlato anche del passato di questo territorio, che ora siamo abituati a vedere ricoperto di vigneti, mentre in realtà, fino a 40-50 anni fa, era ricco di piccolissime aziende agricole familiari. Ognuna di loro aveva una, due o tre vacche. Pensate che la nostra latteria raccoglieva da 250 stalle. C’era una frammentazione pazzesca della produzione e tempi biblici nella raccolta del latte; ricordo che il mio bisnonno andava a prelevare il latte ancora con la bicicletta e il carrettino. Era un territorio molto diverso da ora. Le cose poi sono cambiate molto, non tanto per l’avvento del Prosecco, ma dell’industria che ha portato via le braccia all’agricoltura. Sono nati la figura del metalmezzadro e, pian piano, tante attività agricole sono state abbandonate, a partire dalle stalle. Dopo, con la crescita dell’importanza del prodotto vino, ha ripreso valore anche il mondo dell’agricoltura e quindi adesso abbiamo dei territori estremamente curati: non sarebbe così se invece ci fosse stato l’abbandono che aveva iniziato ad esserci.

Nel corso del convegno si è parlato anche dei migranti come nuovi casari. Ce ne parla?

Sono ragazzi che, a differenza di molti nostri giovani, hanno voglia e bisogno di imparare e di lavorare. Appassionante è stata la testimonianza di Salifou, soprannominato Felix, un allievo del professor Sensidoni che è arrivato in Italia dal Togo e che rappresenta un esempio per i giovani che vogliono intraprendere questo mestiere. Si è laureato due anni fa grazie anche all’incoraggiamento di Sensidoni. Oggi Salifou ha realizzato il suo sogno: lavorare come tecnologo alimentare in un grande caseificio friulano.

Ci parla dell'Accademia

Internazionale di Arte

Casearia?

È nata nel 1999 grazie ad un’esperienza che Carlo Piccoli, che allora era mio socio in azienda, ha fatto in Messico, dove era stato chiamato a fare formazione casearia. Visto il successo, assieme all’Associazione Famiglie Rurali abbiamo deciso di creare una scuola dove si potessero formare, in breve tempo, persone che volevano imparare a fare il formaggio. I destinatari ideali sono aziende agricole con animali da latte, malghe, aziende monoprodotto che vogliono ampliare la gamma di referenze prodotte.

Come'è nata l'idea di un Cheese bar?

È nata dalle numerose visite all’estero che abbiamo fatto per promuovere i nostri formaggi, abbiamo visitato moltissimi posti; il risultato è un locale che, dopo 12 anni dall’apertura, è ancora super moderno, del quale vado particolarmente orgogliosa.

Ci parla, infine, del Museo del formaggio?

È nato dalla mia voglia di esporre tutto il materiale che i miei cari hanno conservato nella soffitta e nei sotterranei dell’azienda. Il risultato è un piccolo museo, che parla di emozioni, di famiglia, di passione, ma soprattutto di come un territorio sia cambiato nell’ultimo secolo.

Forno con alimentazione elettrica, dalle dimensioni contenute, concepito per la cottura di 1 o 2 pizze da 33 cm

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Forni a tunnel con tappeto di cottura in refrattario. Montato su ruote e configurabile per ogni esigenza. Disponibile anche con tecnologia Industria 4 0

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UMBRIA Rocciata

Un antico strudel del centro dell’Italia Umbra

“Arrocciare” nel dialetto umbro significa attorcigliare, da qui il nome della Rocciata, un dolce tipico di questa regione che ha il suo momento di gloria in questo speciale periodo dell’anno: è uno dei dolci tradizionali più amati in Umbria, che non può mai mancare durante le festività.

Nelle famiglie umbre è, infatti, il dolce delle occasioni speciali ma anche dell’autunno o delle feste invernali, considerati i suoi ingredienti molto stagionali e anche abbastanza calorici. In particolare, lo troviamo a partire dalle festività dei Santi e dei Morti per tutto il periodo natalizio e fino alla fine della Quaresima. Dolce riconosciuto anche come Prodotto

Agroalimentare Tradizionale (PAT) per le regioni Umbria e Marche, vede ogni famiglia contendersi una ricetta diversa, anche perché ogni provincia e paese hanno la propria versione.

Diffusa proprio con il nome di Rocciata nelle zone di Foligno, Assisi e Spello e Nocera umbra, mentre nella montagna folignate, a Trevi, Sellano, e Spoleto si chiama attorta o 'ntorta; nella Provincia di Macerata viene anche chiamato rocciu (parola che in Umbria, però, indica un altro dolce da forno) mentre a Vallo di Nera, in Valnerina ha il nome di tòrta. Tutti nomi che si portano dietro lo stesso significato.

La potremmo definire come lo strudel del Centro Italia perché, come per il dolce altoatesino, è fatta con la classica pasta matta stesa sottile sottile, ripiena di mele e frutta secca, come noci, pinoli e uvetta, a cui si aggiungono anche cioccolato, miele e cannella. Fra i due cambia la forma, visto che la Rocciata non viene lasciata distesa, ma viene arrotolata (appunto, arrocciata) su sé stessa a mo' di chiocciola ma si aggiunge anche l’alchermes o il vino rosso, con cui si spennella la superficie per colorarla e aromatizzarla dopo la cottura in forno.

Come si fa la Rocciata umbra

Si tratta di una sottile sfoglia di pasta a base di farina di grano, acqua, olio extravergine d’oliva e vino, stesa molto sottile al mattarello e in cui viene avvolto un impasto composto da mele, uvetta, noci, pinoli lasciati prima insaporire un po’ insieme a crudo. A questo impasto base, secondo le diverse varianti, è possibile aggiungere alchermes, cacao, anice, fichi secchi, mandorle, scorza di limone, cannella. L’unico ingrediente che non deve mai mancare sono le mele, uno dei pochi frutti che, soprattutto nei decenni passati, si poteva conservare per tutto l’inverno e l’iconica forma a spirale, che la caratterizza.

Il rotolo così ottenuto viene infatti girato a spirale su sé stesso, spennellato con olio e zucchero e poi cotto in forno, mentre a fine cottura si aggiunge l’alchermes. Ne viene fuori un dolce con un impasto sottile e croccantino con un morbido e profumato ripieno. Le interpretazioni poi sono svariate: c’è anche chi usa addirittura la marmellata.

La stessa pasta di base viene usata anche con dei ripieni salati; a Spello, per esempio, c’è quella con i cavoli ripassati in padella, mentre a Serravalle di Chienti si farcisce con erbe campagnole o spinaci conditi e prende il nome di fojata o erbata (anche in una versione dolce). Tra le versioni salate, abbiamo inoltre la fojata della Valnerina con spinaci, bieta, cicoria ed erbe di capo e il biscio di Nocera Umbra che si prepara con verdure miste cotte.

Questo dolce, che rappresenta uno dei sapori autentici della cucina umbra, ha origini molto antiche: la ricetta della Rocciata si fa risalire, secondo alcune fonti, all’epoca medievale, periodo in cui i territori umbri erano occupati proprio dai popoli nordici; da qui, arriverebbe anche quella somiglianza che richiama lo strudel, ma che nel tempo ha saputo sviluppare caratteristiche uniche e legate al territorio di appartenenza. Da altre fonti, pare che nelle tavole eugubine (sette tavole bronzee rinvenute nel XV secolo nel territorio dell'antica Gubbio, sulle quali è iscritto un testo in umbro, relativo ai cerimoniali di purificazione) si parli di un alimento molto simile alla rocciata che veniva usato nei riti sacri. Si tratta del tenzitim che può essere trascritto come “tensedio”, nome di un pane il cui significato letterale è “corda che si mangia” che sembra proprio l’antenato della nostra rocciata, in quanto era un dolce utilizzato dagli antichi umbri durante i riti sacri e dedicato ad un’antica divinità del luogo, il dio Hondo Cerfio.

Altra curiosità

_ per chi non lo sapesse la rocciata umbra ha anche la sua sagra, giunta quest’anno alla sua trentesima edizione, che si svolge tra luglio e agosto a foligno e organizzata con l’intento di omaggiare la tradizione culinaria locale e riscoprire i sapori autentici del passato.

LE AZIENDE INFORMANO

Un grande lievitato inizia dalla farina

MOLINO NALDONI

Via Pana 156, Faenza (RA) T. 0546 40002

M. naldoni@molinonaldoni.it

In foto l'intervistato Alberto Naldoni

Farine 100% naturali, senza enzimi o additivi chimici, da grano prevalentemente italiano selezionato. È questa la promessa di Molino Naldoni, un’azienda che, da oltre tre secoli, trasforma la passione per la molitura in una storia di successo. Ne parliamo con Alberto Naldoni, Amministratore Delegato.

www.molinonaldoni.it

ALBERTO NALDONI, QUALI SONO LE REFERENZE DI MOLINO NALDONI PIÙ

ADATTE ALLA PRODUZIONE DI GRANDI LIEVITATI?

La nostra linea dedicata alla Pasticceria è composta da 4 referenze di grano tenero, di cui due adatte a sostenere impasti ricchi di zuccheri, grassi e frutta, ed al contempo capaci di grande stabilità. Proprio la stabilità è elemento fondamentale per il pasticcere che necessita di grande organizzazione e tempi molto precisi. Si tratta di Praga particolarmente estensibile da 350W e Vienna capace di raggiungere alte idratazioni. Con una forza di 440W ed un contenuto proteico maggiore del 16%, Vienna è la farina per eccellenza per viennoiserie e grandi lievitati. Il nostro amico Sebastiano Caridi, Maestro Pasticcere definisce Vienna “Semplicemente straordinaria sia per la gestione del lievito madre sia per la realizzazione degli impasti dei grandi lievitati!”.

PER MOLINO NALDONI LAVORARE GRANO DI QUALITÀ ITALIANO E ROMAGNOLO È UN VALORE FONDANTE. COME SI TRADUCE NELLA LINEA PER PASTICCERIA?

Tra le farine realizzate con il 100% di grani italiani la linea annovera due farine tipo 0: Ginevra conun basso contenuto di

proteine, è la farina per i prodotti ad alta friabilità come biscotteria e pasta frolla; Nizza perfetta per le lavorazioni classiche a fermentazione breve e media, ideale per pan di Spagna, bignè, sfoglia pasticciera. Siamo orgogliosi delle nostre scelte, nel 2023 abbiamo lavorato ben l’80,5% di grano italiano, che vuol dire perseguire la sostenibilità in modo concreto, come piace a noi.

MOLINO NALDONI SARÀ PROTAGONISTA DEGLI EVENTI FIERISTICI DI GENNAIO PIÙ IMPORTANTI DI SETTORE:

Marca – Bologna 15-16 gennaio con il Consorzio Biologico.

SIGEP Rimini 18-22 gennaio 2025 – HALL D5 stand 045.

SIRHA + Lyon 23/27 gennaio 2025 – stand 4H129.

Molino Naldoni, mugnai dal 1705 conta oggi 3 stabilimenti produttivi:

Faenza in via Pana 156, lo stabilimento innovativo ed altamente tecnologico Marzeno di Brisighella, il molino biodedicato a marchio Farinaria 100% BIO Castel Bolognese con l’antico mulino ad acqua del 1398 dove, grazie alla collaborazione tra pubblico e privato, si produce una farina di altri tempi a marchio Mulino Scodellino.

INNAMORATI

DI NIZZA

storie di pizza

IVAN PASQUARIELLO, LES AMOREUX

«Sono Ivan Pasquariello, cogérant, come si dice in Francia, della pizzeria “Les amoreux”, attiva a Nizza da 15 anni. Les amoreux (gli innamorati, ndr) – ci tiene a specificare Ivan – siamo io e Monica». E basta guardare anche solo una delle loro tante foto presenti in questo locale che Ivan definisce “una finestra aperta tutti i giorni sul mondo” per capirlo.

Ivan, il piemontese napoletano (e oggi anche un po’ nizzardo), è stato eletto nel 2018 il miglior pizzaiolo napoletano di Francia, insieme a sua moglie Monica Liberti, anche lei pizzaiola. Uno dei maggiori critici gastronomici di Francia, infatti, insieme a uno chef stella Michelin e a una giornalista crearono per l’occasione un piccolo gruppo di “recensori” e, attraverso un canale tv, una radio e un giornale, diedero voce al loro viaggio: 6000 km per testare 300 indirizzi più volte e, alla fine, nella loro classifica, “Les amoreux” è risultata la migliore pizzeria napoletana di Francia.

Anche se siamo a pochi passi dal porto di Nizza, entrare qui ci porta immediatamente a oltre 1000 km di distanza, a Napoli, tra panni stesi, lambrette in strada e maglie del Napoli rigorosamente appese alle pareti.

Perché proprio Nizza?

La scelta di Nizza si è basata sulla geografia: è vicina all’Italia, giusto affianco all’Italia e, per chi soffre di nostalgia dell’Italia, è l’ideale. Poi, c’è il mare e anche quella è stata una liaison (un legame, ndr) con questa città; l’avevo già visitata tante volte da turista e mi ero accorto che non era molto grande rispetto a Napoli ma che c’era tutto, tutti i servizi: in piccolo potevi avere tutto.

Dunque, sei napoletano?

Sono nato a Borgosesia in provincia di Vercelli; poi, con i miei genitori ci siamo ri-trasferiti a Napoli (loro luogo di origine, ndr) negli anni ’70 e quindi poi da Napoli sono arrivato qui.

A Napoli avevi già una pizzeria?

Ero un’odontoiatra, ho fatto questo lavoro per 12 anni, poi qualche difficoltà fisica mi ha reso impossibile continuare la professione e così ho detto a Monica: “se dobbiamo cambiare vita, facciamolo per qualcosa che ne valga la pena”. È stata una scelta importante quella di cambiare sia Paese sia lavoro ma è andata bene.

In Francia la cucina italiana e la pizza sono apprezzate?

Negli ultimi dieci anni, a parte la parentesi del Covid, le persone hanno viaggiato tanto. Anche da questa parte della Francia sono andate spesso in Italia: hanno scoperto zone che non conoscevano e hanno potuto apprezzare sia i paesaggi che la cucina nei luoghi giusti. Noi abbiamo provato a far conoscere la pizza napoletana e, pian pianino, l’hanno apprezzata.

Fai pizza napoletana tradizionale?

Sicuramente faccio pizza napoletana, né stile contemporaneo né stile antico. Faccio la pizza napoletana giorno per giorno, seguendo anche un po’ le nuove tecniche e non tralasciando la tradizione. In molti oggi discutono di tradizione e innovazione ma noi abbiamo una visione a 360 gradi del prodotto.

Cornicione alto o cornicione basso?

Io mi permetto di dire: cornicione nostro. Ovvero una via di mezzo.

Ruota di carro o pizza al piatto?

Io ero legato alla ruota di carro di “Da Michele” a Napoli, sono innamorato della pizza di Michele. Ovviamente, non abbiamo lo stesso stile: la nostra pizza esce un po’ fuori dal piatto ma ha un cornicione un po’ pronunciato.

Forno a legna, elettrico o a gas?

Noi qui abbiamo una vecchia licenza che consente di usare ancora il forno a legna. Abbiamo fatto costruire un forno che può funzionare sia a legna sia a gas. Oggi, per fortuna, è stato sdoganato che la legna non conferisce profumi alla pizza ma sicuramente la scena del fuoco vivo è molto emozionale e quando puoi cuocere qualcosa a legna, per questo motivo, ha tutto un altro sapore.

I prodotti per le tue pizze da dove arrivano?

I nostri prodotti arrivano esclusivamente dall’Italia, specialmente dal Sud Italia per quanto riguarda pomodori e mozzarelle ma anche dalla Sicilia, dal Piemonte, dalla Lombardia… Abbiamo fatto una ricerca su quanto di meglio potessimo offrire in termini di prodotti italiani ai nostri clienti: Dop, Presìdi Slow Food e tutto quello che è qualità oggi ci viene conferito da ben 14 fornitori diversi che ci supportano anche nel poter scegliere prodotti “secondo stagione”. Io penso che se, attraverso prodotti semplici ma di qualità, puoi mandare un messaggio hai raggiunto un risultato eccezionale.

Nel corso del tempo, hai dovuto modificare le ricette della Margherita e della Marinara per il pubblico della Costa Azzurra?

Diciamo che, con molta gentilezza e fermezza, mi sono attenuto alla nostra tradizione, non facendo alcuna alterazione ma spiegando che la nostra tradizione prevede questo.

Da chi è formata la tua clientela?

Noi, qui, accogliamo veramente tutti. Dopo tanti anni, abbiamo veramente un pubblico vario: dal turista al locale, a quello di passaggio, al vicino.

Mentre arrivavo da te, ho visto che a pochi passi hai le grandi catene

della pizza come “Domino’s”: il pubblico locale si rende conto della differenza o, per loro, “è tutta pizza”?

Io penso, innanzitutto, che i gusti delle persone vadano sempre rispettati. Le persone di questa città pensano certamente che “la pizza è pizza” ma abbiamo provato a far capire loro, in questo locale, che si può fare pizza in modi diversi. Noi lavoriamo più sul concetto di cosa sia l’esperienza gastronomica di una pizza che non sul puntare a “far mangiare qualcosa”.

Cosa può dare l’Italia alla Francia, terra particolarmente apprezzata per la propria gastronomia?

Noi abbiamo tutto per poter offrire un buon esempio: dal tartufo al pesto siciliano. E poi anche trasmettere, attraverso i prodotti, la passione di vivere l’esperienza culinaria, ovvero lo stare bene a tavola.

C’è qualcosa che ti manca

dell’Italia

in Francia?

(A questo punto, Ivan si prende una pausa e riflette, ndr)

Questa è una bella domanda. Mi mancano delle belle cene dove si mangia bene, magari anche tanto. E lo stare a tavola. Ecco, molto spesso vedo persone che stanno a tavola per mangiare e per scappare: io vorrei fare una delle mie tavolate italiane in cui si sta a tavola e si sta ancora a parlare aspettando un’altra pietanza. È quella convivialità che mi manca.

Qual è il tuo piatto preferito?

(Qui, invece, a dispetto di prima, Ivan non ha dubbi, ndr)

Spaghetti alle vongole. Io non sono così bravo a farli ma mia moglie sì. Usiamo delle paste artigianali e, tramite i nostri fornitori italiani, mi arrivano le vongole veraci.

Che cos’è per te la cucina italiana?

È tradizione, tecnica, stare a tavola, convivialità. All’estero accomunano spesso “italiano” e “spaghetti” e io penso che non sia un’offesa, anzi bisognerebbe esaltarsi a questa affermazione rispondendo: “Spaghetti sì, ma quelli buoni”.

Cosa vuol dire per te essere un pizzaiolo napoletano?

Dove ci sono tecnica, lavoro e ingredienti buoni tu puoi essere orgoglioso tanto in America quanto a Napoli. Io credo che i gesti, l’attenzione, gli strumenti che il pizzaiolo napoletano dedica a questo prodotto lo rendano profondamente diverso da altri stili di pizza. Questo può anche non piacere ma sicuramente la pizza napoletana è “un’altra storia”, una “grande storia”.

Ti senti italiano o francese?

(Anche qui Ivan torna silenzioso per qualche istante, ndr)

Io sono un italiano al 100% e non faccio mai distinzione tra nord e sud dell’Italia o tra Italia e Francia ma solo tra “buoni e cattivi”. Questo lavoro mi consente di conoscere, lavorando in sala, tante persone di cui non ricordo neppure la nazionalità ma ricordo se sono brave persone.

storie di pasta

DALLA FRASCHETTA AL FINE DINING:

I CASTELLI ROMANI NEL PIATTO

di Giusy Ferraina

IN FOTO “Sintesi”, il ristorante 1 stella Michelin di Sara Scarsella e Matteo Compagnucci.

Quando si parla dei Castelli Romani, si pensa subito alla classica gita fuori porta della domenica con la fraschetta, la porchetta e il vino buono. E magari qualche stornello. Un’associazione immediata quasi come fosse un assioma matematico. E invece sono solo degli stereotipi, in parte superati, in parte da superare. Siamo a sud-est della Capitale, in un’area che si è originata dalle continue eruzioni e poi dal collasso del Vulcano Laziale, che ha generato laghi, montagne e valli agricole. Un territorio storico, che dall’antichità è sempre stato la campagna dell’Impero Romano: sorgevano qui le vigne, era qui che si produceva il vino dei patrizi e tutte le materie prime che rifornivano le cucine dell’impero. Nel corso dei secoli successivi,

i diversi feudi passarono sotto il dominio della Chiesa di Roma che divenne la proprietaria di tutta la zona.  Territorio di grande valore e cultura enogastronomica, che ha scritto la tradizione, dando vita alle ricette tipiche di Roma e dintorni. Oggi il territorio è cresciuto, si punta alla qualità dei prodotti e all’eccellenza, ed è proprio il concetto di alta qualità e modernità che si vuole far comprendere a chi ha ancora una visione bucolica dei Castelli Romani. Un’idea che non vuole dissacrare la tradizione, ma semplicemente valorizzarla secondo un approccio contemporaneo. Sapevate, per esempio, che ai Castelli Romani oltre ai prodotti DOP e IGP rinomati come il pane di Genzano, le fragoline di Nemi o la Porchetta si

producono lo zafferano, il topinambur, lo zenzero, il paksoi (una varietà di cavolo originario della Cina), ci sono sistemi di agricoltura idroponica per la produzione di erbe aromatiche o di germogli? Tutti ingredienti, tra vecchi e nuovi, che vanno ad arricchire la cucina tradizionale e innovarla, secondo la mission di chef intraprendenti.

I Castelli Romani si compongono di 17 borghi e qui, in un nostro immaginario giro turistico da Albano a Velletri, passando per Frascati che è il centro più grande e il cuore dei Castelli, scopriamo oltre alle classiche fraschette anche ristoranti fine dining, trattorie e bistrot: un panorama ristorativo ricco che da un comune denominatore si amplia tra sperimentazioni e proposte di nuova generazione.

Partiamo dal concetto di “fraschetta”, luogo di origine molto antica, sicuramente medioevale, ma che compariva già in epoca romana come punto di ristoro tra le campagne. Il suo nome deriva dall'usanza medievale in varie zone d'Italia di apporre una frasca (spesso di alloro) sopra l'ingresso delle case nelle quali era possibile consumare a pagamento del vino. Dei locali molto semplici, dove inizialmente si poteva anche mangiare del cibo portato dall’avventore stesso; poi, nel tempo, oltre al vino si cominciò a vendere qualche genere alimentare tipico, come

la porchetta e i formaggi. Le fraschette moderne oggi somigliano sempre più a trattorie, con proposte di prodotti dall'enogastronomia laziale da aziende locali: porchetta, Corallina, Salamella, Coppiette e la Coppa di Testa, formaggi freschi e stagionati, olive e sottoli. A questi si aggiungono, poi, i primi e secondi piatti tipici della cucina romana, per chiudere il menu con le classiche ciambelline al vino, che si possono anche inzuppare nella Romanella (vino frizzante locale). Rinomata ad Ariccia c’è la “Selvotta”, con un menu molto corto, un tagliere enorme pieno di ogni ben di Dio, una bella pagnotta di pane di Genzano e un costo che va a peso. Ma, se siete in giro per i Castelli, in qualsiasi bottega alimentare o forno voi entriate, il panino con la porchetta (anche caldo) lo trovate di sicuro. Un esempio è il “Forno Ciaralli” che dal 1920 a Frascati con nonna Rossana produce pane, pizza bianca e rossa, e i dolci tipici come La pupazza frascatana. Finora vi abbiamo raccontato l’aspetto classico dei Castelli e, come abbiamo capito, quando dici “fraschetta” dici Ariccia ma, in questo piccolo borgo, lo stereotipo si è rotto dal 2020 con “Sintesi”, il ristorante 1 stella Michelin di Sara Scarsella e Matteo Compagnucci. I due chef si lasciano ispirare dalla tradizione di cui Ariccia e i Castelli Romani sono pregni, si innamorano dei prodotti locali, si alleano con i fornitori e, se questi mancano, diventano loro stessi produttori con il loro orto. Da “Sintesi” vigono la regola della sostenibilità e il comandamento del rispetto e della valorizzazione degli ingredienti attraverso la tecnica che non deve scadere nell’esercizio di stile. Esempi di trasposizione del territorio e gusto assoluto si hanno con le loro due signature: Bottoni di bieta con formaggio e brodo di fungo porcino e

Risotto affumicato, polvere di alloro e battuto di pecora a crudo, dove si gioca tra vegetali fermentati, brodi e toni di affumicato. Non possiamo non citare tra i fine dining dei Castelli Romani “La Galleria di Sopra” ad Albano dei fratelli Carfagna, tra i primi format differenti in zona dalla classica cucina romana. Lo chef si allontana dalle rivisitazioni ma punta tutto sul territorio raccontandolo con una sua personale visione. Forse è proprio questa la vera rivoluzione dei Carfagna: applicare un’intensa ricerca su ogni materia, saperla vedere e far assaporare da diversi punti di vista senza declinare sul banale. Ora andiamo verso Frascati; qui punto di riferimento è il “Ristorante Cacciani” che nel 2022 ha spento 100 candeline, un secolo di cucina attraversando le generazioni, i decenni, le mode gastronomiche in un legame indissolubile con il territorio.

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Tutti i migliori ingredienti più uno... la nostra autentica passione

Rispetto per la stagionalità delle materie prime, “dalla terra in cucina”, dalla raccolta alle preparazioni sapienti, prodotti gustosi e freschi direttamente nelle tue mani. Un’attenta selezione di funghi, carciofi, pomodori, peperoni e altre specialità conservate in innovative confezioni... questo è il segreto di Demetra perchè ogni pizza diventi straordinaria.

Ad arrivare a questo traguardo sono i fratelli Paolo, Leopoldo e Caterina Cacciani (terza generazione) che raccontano: “Le mura del ristorante ne hanno visti di personaggi: Fanfani, Saragat, Pertini, Clark Gable, Gina Lollobrigida, Alberto Sordi che amava le fettuccine con le rigaglie di pollo (come le faceva sua madre), Vittorio De Sica che cenava in terrazza con Maria Mercader, Rod Steiger che amava l’abbacchio alla cacciatora. E ancora Ben Gazzara, Antony Quinn, Paolo Stoppa e Abby Lane”. In un secolo di cucina, rimangono degli evergreen i Caccianelli alla Poldino, il crostino alla provatura, la straordinaria Cacio e Pepe, l’imperdibile zuppa inglese. Tutti piatti che nel corso del tempo hanno arricchito il menù. Dalla tradizione della famiglia Cacciani passiamo ora a “Il Belvedere”, che è divenuto rapidamente uno dei locali più conosciuti della provincia di Roma, grazie alla sua cucina semplice e gustosa ma soprattutto grazie alla meticolosa cura dei dettagli. In cucina c’è Alain Rosica Matamoros, chef talentuoso e creativo, legato al territorio delle campagne romane e ai suoi prodotti; tra i suoi ultimi piatti, ci sono i Cappellacci di Saragolla, ripieni di un mix di bieta, cicoria, ramoracce e uvetta, con sopra fonduta di Pecorino e salsa di melograno, che prende ispirazione dal tradizionale piatto di fettuccine di grano antico con ragù bianco di agnello ed erbette.

Sempre qui a Frascati, tra le viuzze del centro c’è “Greed Avidi di Gelato” di Dario Rossi, maestro gelatiere incoronato dal “Gambero Rosso” come miglior gelato gastronomico nel 2017 e, dal 2018 ad oggi, presente in guida con il massimo punteggio dei Tre Coni. Lui definisce il suo gelato come naturale: “Mi rifiuto di fare tutto ciò che non sia naturale, non seguo le mode industriali e uso solo frutta, ortaggi e materie dei dintorni. Ogni anno cerco di proporre dei nuovi gusti, mentre i gusti più amati e richiesti sono ricotta di pecora con fichi caramellati e burro con confettura”. Oltre ai gusti “come natura comanda” ci sono anche

i gusti gastronomici, categoria su cui Dario si è specializzato nel tempo come fiori di zucca e alici, cacio e pepe, gelato alla porchetta dei Castelli Romani; e poi il sedano di Sperlonga, la lattuga, la carota o il carciofo. Insomma, se entrate da “Greed Avidi di Gelato” a Frascati, già leggendo tutte le etichette vi renderete conto di questa esclusiva naturalità e territorialità del suo gelato, sottolineata dalla frase su una delle pareti: “quando compri un gelato stai comprando un pezzo di territorio”.

Spostiamoci verso Monteporzio Catone. Qui, quella che nacque come fraschetta dove bere un bicchiere di vino nuovo è ora “Hosteria Amedeo” , con i suoi 60 anni e una cucina che porta la tradizione fuori dagli schemi. Le ricette sono quelle di famiglia con un approccio contemporaneo, che rimanda ai sapori di ieri, riconoscibili al primo boccone, ma con una forma nuova e che regalano l’effetto sorpresa. Il must? I fegatini di pollo sul pan brioche e le Cannacce con la Pajata alla cacciatora, dove abbiamo una pajata in bianco più leggera ma sempre saporita e un formato di pasta che si allontana dal solito rigatone. Il dessert qui è il gelato al vino del maestro gelatiere Roberto Troiani di Frascati, che si è dedicato a questo format molto identitario.

in foto Sopra, "Hosteria Amedeo". Accanto, "il Tinello".

A Castel Gandolfo, c’è “Tinello”, nuovo bistrot aperto da un anno come progetto parallelo dalla mente dello stesso team di “Sintesi”, per offrire un format di qualità, più agile, con una cucina di prodotti del territorio. I protagonisti sono la pasta fresca che viene realizzata in casa con la trafila in bronzo, i vegetali provenienti anche dall'orto di proprietà, piatti da condividere per celebrare la convivialità e vini artigianali. A Marino è arrivato da qualche mese “Avus”, che propone solo 8 piatti, un menu in miniatura a dominanza vegetale nato da due giovanissime che cercano connessione con le loro radici e definiscono questo progetto come “un omaggio ai nostri nonni”, anche se si viaggia su fermentazioni, maturazioni e spinte acide. Insomma, qui ai Castelli Romani c’è un grande fermento gastronomico, sperimentale, energico con tante e interessanti proposte diverse fra loro ma che prendono ispirazione da un territorio unico.

I COLORI DELLA CAMPANIA E I SAPORI DELLA VALLE D’AOSTA

LA RICETTA PERFETTA DI MAURIZIO SAULLE

«Quando ero piccolo mi appassionava guardare il mio maestro mentre faceva la pizza: chiudeva gli occhi e cantava, come se stesse suonando il pianoforte e con quelle mani creava qualcosa di meraviglioso. Mi trasmetteva che questo lavoro fosse qualcosa di bello, la sua passione diventava la mia. A causa del lavoro gli era venuta la gobba, ma non si fermava e instillava anche in me tutta quella forza, quel vigore. Ancora oggi, quando faccio la pizza penso a lui, che mi ha trasmesso così tanto. Oggi non è più così, la maggior parte dei pizzaioli vogliono essere “prime donne”».

Quanto è bella l’idea di preparare una pizza come se si stesse componendo una melodia? È così che ne parla Maurizio Saulle, proprietario de “I Saulle” a Quart in Valle d’Aosta, insieme al papà e ai suoi fratelli. Discendente da una famiglia di pizzaioli casertani, ha iniziato il suo percorso quando era molto piccolo e non ha mai smesso di comporre. La voglia di crescere e cambiare era tanta, perciò, volendo sperimentare un tipo di prodotto diverso da quello che faceva suo nonno (una casertana molto sottile, croccante e senza cornicione), iniziò a studiare la pizza napoletana, portandola pian piano dapprima su al Nord e poi anche fuori Italia. Oggi Maurizio gestisce, insieme alla sua famiglia, un locale con ben 200 posti a sedere nel quale propone un impasto napoletano “un po’ innovativo”, ma sempre molto tradizionale, con ingredienti di

altissima qualità, passando da prodotti tipicamente valdostani a quelli rigorosamente campani. La proposta de “I Saulle” prevede infatti non soltanto la pizza, ma anche la ristorazione, gestita da uno chef napoletano.

Maurizio, come inizia la tua storia?

Molti mi dicono che passo troppe ore qui dentro, ma io devo capire, studiare. Oggi ho 38 anni, ma sono partito da zero, ho preparato la mia prima pizza a 10 anni, nel locale di mio nonno nel casertano. Nel tempo ho iniziato a girare, spesso lavorando senza essere pagato, per formarmi. Inoltre, volevo imparare la pizza napoletana, molto diversa da quella di mio nonno. A 14 anni sono andato a Bagnoli, per apprendere da Gaetano Esposito, il mio maestro. A 19 anni volevo partire, la situazione era difficile: c’era chi ti sfruttava, chi non pagava e via dicendo. La valigia si era rotta, quasi fosse un segno ma non mi diedi per vinto e andai in Svizzera. Mi sentivo come se avessi sradicato le mie radici e decisi di tornare, ma nemmeno un mese e feci marcia indietro. Rimasi per un anno. Nel tempo ho girato tanto, sono stato a Ischia e poi anche a Bruxelles e in Canada. Ho intrapreso un percorso con l’AVPN. Ho partecipato a molti eventi insieme ad Antonio Pace e Stefano Auricchio e anche con la APN del compianto Sergio Miccù. Poi mi sono fermato in Valle d’Aosta.

Come mai proprio lì?

Ho lavorato per un po’ per un’azienda napoletana come responsabile di pizzeria e mi spostarono qui. Nel frattempo, mia mamma, che è un’infermiera, venne a lavorare qui e alla fine ci siamo spostati tutti. Siamo quattro fratelli, ognuno di noi

ha intrapreso questa strada e oggi tutti abbiamo un ruolo e una mansione nella pizzeria. Il locale all’inizio era la metà di quello attuale, solo sessanta – settanta posti a sedere, ma era quasi sempre pieno. Oggi contiamo duecento coperti tra dentro e fuori, un angolo pizzeria, area bar, cinque pizzaioli, area ristorante e un angolo campano (durante l’intervista Maurizio mi mostra il locale, che nonostante la grandezza, si mostra caldo e accogliente. A spiccare è un’intera parete piena di foto che racconta la storia di questa famiglia e di tutte le persone passate di lì e anche la foto di un giovanissimo Maurizio partecipante al Campionato Mondiale della Pizza a Parma). Ad oggi abbiamo avuto diversi riconoscimenti: 50 Top pizza, tra le migliori 100 pizzerie d’Italia; due spicchi Gambero Rosso; recentemente l’Arcimboldo d’Oro. Sono belle soddisfazioni.

Non dev’essere facile gestire un locale di una tale portata e con tanta affluenza. Siete partiti con la classica pizza napoletana ma nel tempo siete riusciti a diversificare?

Sì, dalle pizze fritte alla doppia cottura. Nel tempo, sicuramente i nostri impasti sono cambiati, non facciamo più un tipo diretto, ma dei prefermenti, cerchiamo di dare friabilità, scioglievolezza, lavoriamo su vari tipi di impasti, come il multicereali. Le persone si incuriosiscono, vogliono assaggiare, anche se l’impasto classico resta quello che va di più. Chi viene da noi lo fa perché vuole assaggiare la pizza

Quindi sei favorevole al gourmet?

napoletana e ama i prodotti prevalentemente campani, come il Provolone del Monaco, la salsiccia di suino nero o la mozzarella di bufala.

Visti i tanti posti a sedere, il menu è molto vasto o vi tenete sul semplice?

Facciamo sicuramente proposte stagionali: siamo in cinque proprio per gestire meglio le tante richieste. Poi ci siamo adeguati anche in termini di forno, oggi ne usiamo uno rotante. Chiaramente lavoriamo anche con prodotti locali come il Bleu d'Aoste, la toma, la fontina o il prosciutto cotto affumicato Saint-Oyen. Siamo ai confini con la Svizzera e la Francia, passano anche molti turisti e vogliono proprio provare cose locali. Dunque, proponiamo un po’ di prodotti campani e un po’ di prodotti territoriali.

Sei da tanti anni nel settore, quindi hai vissuto le fasi di cambiamento del mondo della pizza. Preferivi prima o adesso e cosa è maggiormente cambiato?

Non è più il mondo di una volta. Sicuramente sono cambiati impasti e gusti, oggi si lavora molto sui topping, i prefermenti, le cotture e soprattutto la qualità. Ritengo che non si debba mai dimenticare la storia. L’innovazione va bene, i tempi, la mentalità e le esigenze cambiano ma le radici sono importanti. Bisogna adeguarsi sì, ma mai perdere di vista la propria storia, da dove veniamo.

(ride) A quello tradizionale. Scherzi a parte, credo che sia possibile solo in una pizzeria con pochi posti a sedere. Non sarebbe possibile in un locale tanto grande come il nostro.

So che sei stato anche pizzaiolo

A CASA SANREMO, DURANTE LE GIORNATE DEL FESTIVAL.

Sì. Eravamo in dieci, si lavora per le celebrità, un’esperienza bellissima, mi sembrava di essere a Disneyland: loro però non mangiano praticamente niente! Ho fatto anche il red carpet a Venezia ma ho preferito Sanremo, spero di rivivere l’esperienza.

Avete mai pensato di aprire al Sud?

Sì, ma preferisco non farlo. Non è facile la mentalità del sud, così come il modo di vivere purtroppo. Conosciamo bene la realtà di chi apre un’attività “giù”: non si vive e lavora serenamente, a differenza di qui. Attualmente stiamo pensando alla Svizzera, ma non è semplice, ci stiamo lavorando.

Qual è il segno distintivo vostro e del vostro impasto?

Lavorare sodo, curare il cliente. Noi siamo artigiani e cerchiamo sempre di alzare l’asticella.

La materia prima è fondamentale. Il nostro impasto prevede una biga, lievitazione di 30 ore, la temperatura controllata e soprattutto prodotti di altissima qualità come ricotta di fuscella, provola d’Agerola, pomodoro San Marzano.

Che pizza mi faresti assaggiare?

La “Saulle Re”, la nostra pizza di battaglia, con la quale ho vinto un campionato a 17 anni: pomodoro ciliegino scarpariello, bocconcini di bufala di Mondragone, parmigiano e basilico fresco.

Ma anche una “Donna Eleonora” con crema di zucchine, fior di latte, pancetta croccante e stracciatella; o, ancora, la “Carminuccio”, che viene prima fritta e poi asciugata in forno, con pomodorino confit, mozzarella di bufala, crudo e scaglie di parmigiano in uscita.

Però cucinate anche e ho visto che avete il bar: che ruolo gioca nel locale?

Abbiamo uno chef di Napoli che prepara piatti tradizionali, dalla terra al mare, come scialatielli ai frutti di mare, lo scarpariello o gli gnocchi alla sorrentina; ovviamente non manca la friggitoria napoletana. Abbiamo una bella carta di vini, prevalentemente campani, ma anche locali e non e dolci di nostra produzione e una carta di Sal De Riso. Il bar lo sfruttiamo più che altro per la preparazione dei dolci ma risulta utile per proporre un aperitivo ai clienti in attesa. Mi capita troppo spesso di aspettare, chiedere qualcosa da bere e sentirmi dire: “non serviamo aperitivi”, non è carino e non è funzionale. È giusto poter ingannare l’attesa bevendo qualcosa. Anche perché le persone sono molto impazienti: qui anche aspettare 20 minuti o mezz’ora non è molto gradito, ma ahimè, impossibile ovviare al problema. Per fortuna, c’è sempre da aspettare un po’!

“Gli tisti della pizza”

Tante idee da assaporare ogni mese con i nostri dodici “Artisti della pizza”. Dicembre è stato dedicato al nostro caro pizzaiolo Marco Di Pasquale, che esalta il gusto del Marzanino con la sua “Pizza Europa”. Un pomodoro eccellente e particolarmente apprezzato dagli intenditori per il suo gusto dolce. Il Marzanino è caratterizzato da un profumo intenso e dalla ridotta presenza di semi. Caratteristiche che lo rendono ideale per tutte le ricette. La pizza Europa è una combinazione unica di ingredienti.

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La farina di mischiglio

Ogni prodotto alimentare non racconta mai solo una storia gastronomica ma anche sociale, antropologica, geografica e culturale. Il mischiglio ci fa compiere un viaggio nella valle del Serrapotamo, ai piedi del Parco Nazionale del Pollino, in Basilicata. Il nome è curioso e già dice molto, essendo espresso in dialetto locale e quindi ancora più radicato nella tradizione. L’area di produzione è limitata a quattro comuni del Parco del Pollino: Calvera, Fardella, Teana e Chiaromonte. In ogni paese, il mischiglio (cioè miscuglio), si fa a modo proprio: tratto comune

è il fatto che ad una farina di grano se ne aggiunge una di legumi e/o orzo. Tradizionalmente, a Teana e a Fardella, si produce mischiglio di farina di fave e farina di grano tenero tipo Carosella, in proporzione al 50%. A Chiaromonte, invece, si aggiungono farina di ceci (secondo alcuni fave) e di orzo. Le proporzioni, in questo caso, sono 1/3 di grano tenero Carosella, 1/3 di grano duro Senatore Cappelli e 1/3 misto dei restanti legumi e orzo. A Calvera, si usa 1/3 di grano tenero Carosella, 1/3 di grano duro Senatore Cappelli ed il resto un misto di fave e ceci.

Il colore è marrone–grigiastro, ma chiaramente varia leggermente a seconda delle farine utilizzate e delle proporzioni. Le origini sono un po’ controverse: secondo alcuni, fu inizialmente un cibo di conti e marchesi per diventare in seguito un cibo popolare, visto che i contadini non potevano disporre di grandi quantità di grano e ricorrevano quindi ad un’aggiunta di altri ingredienti, più umili, per avere di che sfamarsi. I sostenitori di questa tesi portano a sostegno della propria ipotesi il fatto che si trovano tracce scritte del mischiglio sin da prima del ‘600 (addirittura nel tardo Rinascimento) e in genere la storia che viene veicolata e scritta è quella delle classi nobili e non certo quella dei contadini. Chi guarda invece all’altra storia – quella popolare – sostiene che durante i periodi di scarsità di farina di grano – destinato come tributo al regno dei Borboni – i contadini lucani abbiano aggiunto a quello rimanente della farina proveniente dai legumi, come fave e ceci, in modo tale da poter riuscire a preparare impasto compatto e lavorabile.

Lo scopo era ovviamente quello di poter contare su ingredienti che fossero in grado di sfamare e di assicurare energia e sostentamento a chi lavorava tutto il giorno nei campi. A conferma della sua importanza, anche come testimonianza di una storia e di una geografia locali, il mischiglio è stato inserito nell’elenco dei PAT (Prodotti agroalimentari tradizionali), ed come tale è presente nel Geoportale della Cultura Alimentare (GeCA), progetto promosso dall’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale (ICPI) e finanziato dal Programma Operativo Nazionale (PON) Cultura e Sviluppo. Recentemente, è entrato anche nel novero dei Presidi Slow Food: al Presidio del mischiglio hanno aderito cinque coltivatori, due mulini che trasformano la farina e tre pastifici. Numeri limitati ma significativi che raccontano una storia di economia locale che - attraverso un prodotto identitario ed espressione non solo di tradizioni socioculturali ed antropologiche di una specifica zona della Basilicata, quella del Pollino – può diventare un volano di promozione non solo gastronomica ma anche turistica, traghettando il passato nel futuro.

Il mischiglio racconta una storia di una comunità, ma anche di valori e tradizioni che rischiavano di andare perdute.

L’abitudine all’utilizzo e al consumo subisce una battuta d’arresto attorno agli anni ’50 del Novecento, quando migliori condizioni di vita, lavoro e quindi alimentari, ne hanno visto progressivamente accantonare l’impiego. Di qui, la necessità e l’urgenza di riscoprire e valorizzare un prodotto e il suo intero patrimonio culturale, ben sapendo che attorno ad esso c’è un’intera filiera produttiva e un intero territorio. Rispetto al passato, insomma, quando era l’urgenza della fame ad avere il sopravvento, oggi possiamo contare su un vantaggio dato dalla lungimiranza e dalla capacità di sfruttare al meglio - e mettendo in campo risorse diverse - quello che ci è stato consegnato in eredità. In cucina, la ricetta più rappresentativa, oltre che simbolo di una tradizione e di un territorio, sono i “rascatielli di mischiglio”.

Il nome deriva dal fatto che l’impasto, lavorato a lungo con il palmo della mano sulla spianatoia partendo da una base di farina e acqua, fino diventare un lungo cordone viene quindi suddiviso in piccoli cilindri – di circa 4 cm - che vengono poi “raschiati” con le dita sulla spianatoia: i rascatielli infatti rientrano nel novero delle cosiddette paste “trascinate”, in riferimento al gesto che si compie per produrle, quello cioè di incavare il pezzetto di pasta trascinandolo con uno o più dita sulla spianatoia infarinata. Un gesto e soprattutto un formato di pasta che si usa mangiare perlopiù nelle regioni centrali e meridionali d'Italia e che conserva una gestualità ed una lavorazione che racconta il lavoro contadino di quelle zone.

Il condimento per eccellenza dei r ascatielli di mischiglio , la cui consistenza rugosa è peraltro perfetta per accogliere il sugo, è una salsa di pomodoro, aglio e basilico – preparata facendo soffriggere il pomodoro in padella con aglio e olio - detta “ scind scind ”, dalla consistenza liquida, quasi una zuppa, a cui talvolta si aggiunge del peperone crusco a scaglie, e che può anche essere mangiata con il cucchiaio o con il pane.

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Ai rascatielli è anche dedicata una sagra, organizzata dalla Pro Loco di Teana, che coinvolge la popolazione locale sin dalla mattina, quando vengono preparati i condimenti, e prosegue poi nel pomeriggio, quando inizia il lavoro di preparazione dell’impasto. Non semplicemente un appuntamento gastronomico ma un’occasione per riscoprire e rinsaldare il senso di appartenenza ad una comunità che, nonostante la durezza delle condizioni di vita e la scarsità di materie prime a disposizione, riusciva comunque a dare vita a ricette di valore. I rascatielli non sono, tuttavia, l’unica ricetta in cui si impiega il mischiglio : la sua versatilità ne vede l’utilizzo nella preparazione di gnocchi, focacce, polpette, oltre a dolci rustici, come biscotti e torte. Interessanti e golose, in particolare, le tagliatelle e i tapparedd Le prime si preparano aggiungendo al mischiglio acqua, sale e uova e lavorando gli ingredienti fino ad ottenere un impasto morbido ed elastico. Con un matterello si stende la sfoglia, la si avvolge su sé stessa, a rotolo e la si taglia a strisce larghe un dito, ottenendo appunto le tagliatelle.

Per il condimento, si procede da un lato facendo cuocere dei fagioli bianchi in acqua e sale per circa due ore, e dall’altro preparando un sugo con aglio schiacciato, peperoncino spezzettato, pomodori freschi tagliati a pezzi e basilico.

Il condimento di pomodoro andrà aggiunto a tre quarti di cottura dei fagioli. La pasta andrà cotta in acqua bollente salata e, una volta scolata, condita con la salsa di fagioli e pomodori. In chiusura, qualche notazione nutrizionale. Il mischiglio ha un buon contenuto di proteine vegetali, valida alternativa alle fonti di proteine animali, in particolare in caso di scelte alimentari vegetariane o vegane.

Altra qualità rilevante è l’apporto di carboidrati complessi: i cereali impiegati, infatti, come il grano Carosella e il grano duro Senatore Cappelli, forniscono carboidrati che vengono assimilati lentamente dal corpo e che sono quindi in grado di garantire una fonte di energia duratura, evitando picchi glicemici e aiutando a mantenere costante il livello di energia nel corso della giornata. Prezioso, infine, anche l’apporto di minerali e vitamine: legumi e cereali sono ricchi di ferro, magnesio e zinco, minerali essenziali per il corretto funzionamento del sistema immunitario, per la produzione di energia e per la salute delle ossa. Le vitamine del gruppo B, inoltre, presenti in grande quantità sono fondamentali per il metabolismo e per il benessere del sistema nervoso.

Il ciauscolo

Le Marche conservano un patrimonio gastronomico di grande interesse, con alcuni tesori non noti al grande pubblico e che meritano per questo di essere conosciuti e valorizzati. Uno di questi è il ciauscolo, insaccato di carne di maiale riconoscibile per la consistenza morbida, quasi spalmabile. Il legame con il territorio, le tradizioni e il contesto socioeconomico, oltre che culturale, è forte e la necessita di tutelarne la produzione ha fatto sì che questo insaccato fosse inserito tra i prodotti a marchio IGP, dal 2009.

Le origini riportano alla tradizione contadina delle Marche e il nome sembra

darne conferma: L’etimologia rimanda infatti al latino “ciabusculum” ossia “piccolo cibo” o “piccolo pasto”, una sorta di spuntino da portare con sé e consumare negli intervalli tra la colazione e il pranzo e tra il pranzo e la cena. La prima menzione “ufficiale” del prodotto si trova all’interno di un atto notarile di metà Settecento appartenente al territorio di Visso mentre altre attestazioni sono presenti all’interno dei “Prezzi dei generi”, documento risalente al 1851 e conservato nell’Archivio Notarile del Comune di Camerino, in cui il ciauscolo è citato nella lista dei prodotti alimentari.

La zona di produzione del Ciauscolo IGP comprende alcuni comuni delle province di Ancona, Macerata, Ascoli Piceno e Fermo: caratteristiche geografiche, contesto e vita delle popolazioni contadine e rurali del territorio Piceno, unite a tecniche e metodi di lavorazione, conservazione e stagionatura, sono di fatto racchiuse in un prodotto che - analogamente a quanto si riscontra anche in altre regioni – vedeva nel maiale e nella sua macellazione due pietre angolari del lavoro e del tempo agricolo. L’allevamento avveniva all’interno delle aziende agricole, dove ai coloni veniva affidata la gestione da parte della proprietà: tratto comune del territorio - fino agli anni ’50 - era la presenza di aziende mezzadrili con una maja poderale (4-5 ettari) dove l’allevamento dei suini (spesso di un unico suino) integrava quello più consistente di bovini, cui si aggiungeva la produzione agricola.

La macellazione e la lavorazione domestica del maiale hanno sempre rappresentato un rito invernale, dalla duplice valenza economico-alimentare e sociale. Momento di socializzazione tra le famiglie, occasione di scambio tra mezzadri e di doni ai padroni, l’uccisione del maiale e la successiva lavorazione delle carni è parte del folclore e della cultura contadina. Il maiale garantiva una disponibilità di carne a lungo termine, consentendo una risorsa importante per chi non poteva constare su grandi disponibilità economiche. Alla sapienza artigiana si è aggiunta la particolarità climatica del territorio, che è continentale specialmente nei territori alto collinari e montani: temperature invernali rigide si sono rivelate positive per la stagionatura e conservazione del prodotto.

Insaccato a grana fine, ottenuto dalla doppia macinatura di tagli pregiati di carne suina (pancetta, spalla e rifilature di prosciutto e lonza. Nel dettaglio: pancetta, fino ad un massimo del 70%; spalla, fino ad un massimo del 40%; rifilature di prosciutto e di lonza, fino ad un massimo del 30%), il ciauscolo deve la sua consistenza morbida alla percentuale di grasso della carne, alla tecnica di macinatura e il livello di umidità dell’ambiente. I maiali impiegati devono appartenere alle razze Large White, Landrace e Duroc o comunque compatibili con il suino pesante italiano.

La carne, prima della lavorazione, viene conservata all’interno di celle frigorifere per un periodo variabile tra un minimo di 2 giorni ed un massimo di 10, in modo tale da raggiungere il giusto grado di frollatura. Puliti accuratamente delle parti connettivali più grandi e dal grasso in eccesso, i tagli di carne vengono macinati in 2-3 fasi, utilizzando trafile del tritacarne con fori di dimensioni progressivamente più piccole, fino ad arrivare ad una larghezza di 2-3 mm. L’impasto ottenuto, alla fine di questo passaggio, deve risultare omogeneo. La lavorazione della carne con gli aromi e le spezie (sale, pepe nero macinato, vino, aglio pestato) può essere effettuata a mano o a macchina. La macinatura è la fase più delicata della lavorazione, in cui l’abilità manuale e l’esperienza possono fare la differenza. Il disciplinare ammette appunto di poter ricorrere a macchinari e utensili, ma tradizionalmente è un passaggio che si esegue a mano.

L’impasto viene quindi insaccato in un budello naturale di maiale o di bovino (facendo attenzione che non si formino bolle d’aria) e successivamente legato alle due estremità con uno spago: si procede quindi con l’asciugatura che porta a una rapida disidratazione delle parti superficiali e che varia dai 4 ai 7 giorni. La stagionatura avviene per un minimo di 15 giorni in locali ben aerati e con temperature comprese tra gli 8° e i 18°C e con un tasso di umidità compreso fra il 60% e 85%. Se le fasi di produzione e di stagionatura del prodotto avvengono in stabilimenti che si trovano in aree considerate di montagna, il ciauscolo può riportare in etichetta la dicitura “prodotto della montagna”. Generalmente viene consumato fresco dai 20 ai 30 giorni sino a un periodo massimo di due mesi dopo la preparazione. Il risultato di questa combinazione di tecniche, sapienza e ovviamente segreti di lavorazione, restituisce un prodotto indimenticabile all’assaggio: il ciauscolo si presenta in forma cilindrica, con diametro che varia dai 4,5cm ai 10 cm e una lunghezza compresa tra i 15 e 45 cm. Il peso varia da 400 gr a 2,5 kg. La consistenza è morbida e la spalmabilità è la prima cosa che colpisce e che lo distingue dagli altri insaccati: la fetta si presenta omogenea, di colore rosso-roseo uniforme. Il profumo è delicato, tipico e speziato mentre il gusto è sapido, saporito e delicato.

® BORN TO BURN

È venduto intero o in tranci, sfuso o sottovuoto. Se si acquista intero sfuso, si può conservare in ambiente fresco, asciutto e aerato, tra i 15° e 20 °C, meglio se appeso. Una volta aperto, meglio avvolgere la superficie tagliata con una garza. La conservazione a temperatura ambiente è consigliata solo se il prodotto non ha già subito processi di refrigerazione. Se viene acquistato dal banco frigo di un negozio o supermercato, è meglio conservarlo in frigorifero: lo sbalzo di temperatura rischierebbe di accelerarne il deperimento. In caso di acquisto di prodotto confezionato, l’ideale è conservarlo in frigorifero, meglio se sui ripiani intermedi. Una volta aperto, coprire la superficie tagliata con un foglio di alluminio ben aderente e conservarlo nella parte meno fredda del frigo. In generale, per gustarlo al meglio, è bene estrarlo dal frigo almeno mezz’ora prima del consumo. Va consumato avendo accortezza di togliere il budello. Si può mangiare in purezza, come spuntino o antipasto spalmato su crostini, fette di pane e bruschette, meglio se caldi.

Si abbina bene ai formaggi e ai vini del territorio di origine. In cottura, viene valorizzato sia nella pasta (in questo caso viene fatto sciogliere in padella insieme a uno spicchio d’aglio e saltato insieme alla pasta una volta pronta; da provare anche con le tagliatelle) sia nei risotti, aggiungendolo per esempio sbriciolato in fase di mantecatura, insieme a un vino rosso corposo, oppure affettandolo a dadini o listarelle e scottandolo in padella per renderlo croccante e aggiungendolo a fine cottura insieme alla Casciotta di Urbino DOP o allo zafferano. Ottimo anche se inserito come ingrediente per le ricette dei secondi piatti, come ad esempio nelle polpette con ricotta o nele crocchette di patate.

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FATTO IN ITALIA, AMATO NEL MONDO.

LOMBARDIA Ilpanettone

a cura della Dott.ssa Marisa Cammarano, biologa nutrizionista
Il panettone è più di un semplice dolce: è un’icona delle festività natalizie italiane, un simbolo di condivisione ed un piacere irrinunciabile per milioni di persone.

La sua origine affonda le radici nella storia di Milano, tra leggende e curiosità che lo rendono ancor più affascinante. Secondo la leggenda più conosciuta, il panettone nacque per caso nella cucina della corte di Ludovico il Moro, a Milano, nel XV secolo. La storia narra che, durante una cena di Natale, il cuoco della corte bruciò il dolce previsto per il banchetto. Uno dei suoi aiutanti, Toni, propose allora di usare l’impasto di pane dolce che aveva preparato per sé

stesso. Arricchì l’impasto con uova, burro, zucchero, scorza di cedro e uvetta, e servì questo dolce improvvisato agli ospiti. Il dolce riscosse un grande successo e venne chiamato “pan di Toni”, che nel tempo è divenuto “panettone”. Produrre un panettone tradizionale non è semplice e richiede una lavorazione precisa ed attenta, con lunghi tempi di riposo. Il processo inizia con la preparazione dell’impasto, che viene lavorato in più fasi per ottenere la giusta elasticità e morbidezza. La qualità del panettone si misura proprio dalla sua consistenza: un panettone di qualità deve essere soffice e alveolato,

con una struttura leggera e un profumo intenso. Nella lavorazione artigianale del panettone, ogni fase è cruciale: la prima lievitazione, la seconda lievitazione ed, infine, la cottura. Questo processo, se seguito correttamente, permette di ottenere un dolce che rimane fresco più a lungo, senza bisogno di conservanti. Uno degli elementi essenziali per un panettone di qualità è l’uso del lievito madre, un agente lievitante naturale che conferisce al dolce una consistenza unica e un sapore inconfondibile. Il lievito madre si ottiene mescolando semplicemente acqua e farina, lasciando che i batteri lattici ed i lieviti presenti naturalmente in questi ingredienti fermentino nel tempo. A differenza del lievito di birra, che permette di ridurre drasticamente i tempi di lievitazione, il lievito madre richiede pazienza: può infatti richiedere fino a 48 ore di lavorazione e riposo per ottenere l’impasto perfetto. Tuttavia, questa fermentazione naturale ha numerosi vantaggi: il lievito madre rende il panettone più digeribile, migliora la conservazione e permette di sviluppare profumi ed aromi complessi, difficili da ottenere con altre tecniche. Grazie a questa tecnica tradizionale, un panettone può mantenere la sua freschezza e morbidezza per settimane, senza che perda le sue caratteristiche originarie. La versione classica è quasi d’obbligo sulle tavole delle Feste, mentre i gusti più golosi e gourmet diventano regali gastronomici, oppure vengono serviti come dessert.  Con la tendenza degli ultimi anni la proposta industriale vacilla sempre di più davanti alla costante crescita dell’artigianale. A determinare la

scelta del panettone sono senza dubbio le aspettative sulla qualità del prodotto, il prezzo e le abitudini di consumo. Chi non si vuole impegnare troppo nella ricerca, preferisce la convenienza ed una qualità media, allora reperirà il prodotto nella grande distribuzione e perlopiù industriale nell’ampio assortimento di marche. Chi, invece, è attento alle materie prime, alla lavorazione artigianale, ed è disposto a spendere più di 20 euro per il panettone, allora si recherà in pasticceria. Il primo parametro che solitamente consideriamo per stabilire se un alimento fa ingrassare oppure no è il suo apporto calorico. Per rispondere subito alla domanda, una porzione da 100 g, che corrisponde circa a una fetta di panettone tradizionale, contiene circa 350/360 Kcal (di cui in prevalenza grassi e zuccheri). Stabilire se queste calorie sono tante o poche invece dipende da numerosi fattori che solo un nutrizionista, può valutare per ogni singola persona, e la risposta non è mai unica.

Quindi non è facile decidere, solo sulla base delle calorie, se possiamo o no concederci una fetta di panettone senza sensi di colpa o temendo per la nostra linea, ma dobbiamo considerare altri aspetti, decisamente più importanti. Ciò che veramente conta, dal punto di vista nutrizionale, non è solo il contenuto di zuccheri e di grassi, ma la qualità del panettone, spesso più importante della quantità in grammi e delle calorie che contiene. Ricordiamo che il panettone è un dolce povero della tradizione che nasce come un pane fatto in casa, a lenta lievitazione, a cui sono stati aggiunti l’uvetta e la scorza di agrumi per creare un equilibrio perfetto e un gusto dolce, per cui non erano necessarie grandi quantità di zucchero. Oggi, la ricetta tradizionale spesso cede il passo a versioni più commerciali, e di conseguenza meno salutari di questo dolce, pensate per accontentare i gusti di tutti: farciture di ogni tipo, al cioccolato, al limoncello, al pistacchio, o senza canditi.

Kcal 360

Carboidrati di cui zuccheri 52 gr 26 gr

Grassi di cui saturi 14 gr 9 gr

Il panettone, nella sua ricetta originale, è un dolce a base di farina, zucchero, burro, uova, lievito, uvetta e scorze di agrumi candite. È fondamentale che questi ingredienti siano di ottima qualità, per questo motivo è importante leggere attentamente le etichette quando acquistiamo un dolce già pronto e cercare di evitare tutte quelle varianti di panettone che contengono glasse e farciture troppo ricche di zuccheri e di grassi. Il panettone, dunque, fa ingrassare? La risposta a questa domanda è sì: come qualsiasi dolce, anche il panettone fa ingrassare, ma non a causa delle sue caratteristiche nutrizionali. Ciò che fa ingrassare è la cattiva tendenza di trasformare un dolce, il cui consumo normalmente dovrebbe essere limitato alle occasioni speciali del Natale, in un’abitudine quotidiana durante tutto il periodo delle feste. L’errore, infatti, spesso è quello di consumare il panettone che avanza anche a colazione e spesso a merenda come spuntino. Mangiare panettone, o dolci in genere, tutti i giorni potrebbe essere la causa, anche se non l’unica, del senso di gonfiore e di pesantezza, che spesso ci accompagna durante le feste e, non ultimo, di aumento di peso.

Come si legge dalla tabella gli zuccheri sono moltissimi: più di 5 cucchiaini per fetta. L’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda di non superare i 25 gr al giorno di zuccheri nella dieta: basta una fetta di panettone per superare tale soglia! Una fetta non va negata, ma che sia una e di un prodotto di ottima qualità.

Panettone

Piatti per le Feste

FIN DALL’ANTICHITÀ, LE FESTE SIA RELIGIOSE CHE CIVILI, COME ANCHE QUELLE FAMIGLIARI, CONSISTEVANO IN DUE MOMENTI BEN PRECISI: IL RITO E IL PRANZO.

NELL’ANTICA GRECIA E A ROMA, LE FESTE IN ONORE DEGLI DÈI PREVEDEVANO LA CERIMONIA RELIGIOSA SPESSO UNITA AL DONO DI PREPARAZIONI GASTRONOMICHE PARTICOLARI, QUINDI LA DEGUSTAZIONE DA PARTE DEI PARTECIPANTI DI QUELLE PREPARAZIONI.

La tradizione è continuata nel tempo ed ancor oggi nelle feste religiose si prevede la cerimonia nelle chiese, nelle sinagoghe, nei templi di varie fedi e, quindi, il pranzo con piatti legati a quella particolare cerimonia. Lo si osserva in particolare in una continuità coi tempi antichi nelle comunità ebraiche, nelle quali dopo la preghiera in sinagoga è previsto nelle cinque feste principali della loro religione un pranzo con piatti prestabiliti da secoli e questo lo si vede in tutte le città dove ci sono comunità ebraiche. Anche nel mondo cristiano vige la stessa regola: prima

il rito religioso, poi il pranzo festivo, con una differenza rispetto agli Ebrei perché ogni regione ha per le feste cristiane i propri piatti che sono molto diversi, anche in Italia, da regione a regione.

Lo stesso avviene per le feste famigliari: si pensi solo al matrimonio e che sia religioso o civile, quindi in chiesa o in municipio; poi, c’è il pranzo. Molto interessanti le tradizioni delle associazioni combattentistiche e d’arma. Dopo la cerimonia al monumento ai caduti di tutte le guerre, c’è quasi sempre il “rancio combattentistico” cioè il pranzo degli ex combattenti ed ex militari, spesso con famiglie: vale a dire un pranzo dove i vecchi commilitoni e le giovani leve si ritrovano anche per ricordare con nostalgia i tempi della vita in caserma.

La tradizione di pranzi speciali in occasioni di feste e celebrazioni particolari è dunque molto antica e molto diffusa.

I PIATTI PER LE FESTE

DI NATALE E CAPODANNO

Ogni regione italiana ha delle tradizioni gastronomiche consolidatesi nel corso del tempo. Va tenuto conto che sia

il Santo Natale (25 Dicembre) che Capodanno, compresa la sua vigilia, capitano in Italia nel cuore dell’inverno, per cui si hanno in genere piatti caldi e sostanziosi. Vediamo qualche esempio. A Napoli e zone limitrofe, ad esempio, la tradizione suggerisce di abbondare con la carne e ci sono anche delle preparazioni tradizionali immancabili nelle case in cui si ha rispetto per la tradizione. Fra i piatti, ricordo i maccheroni al forno, il sartù di riso, le polpette fritte e fra i dolci si possono trovare gli struffoli, i raffiuoli, i susamielli e la classica pastiera. In Sardegna, i piatti tradizionali delle feste

natalizie sono: i cullurgiones, la pasta con la bottarga, l’agnello in umido o arrosto, risotto ai frutti di mare, il maialino arrosto e i pani sardi.

A Firenze, godono di particolare prestigio a Natale i crostini coi fegatini di pollo, i cappelletti in brodo, la lombata di maiale e, per i dolci, i ricciarielli, i cantuccini col Vinsanto e il panforte.

A Torino e in diverse parti del Piemonte, il pranzo di Natale prevede: il vitello tonnato, i peperoni con bagna cauda, gli agnolotti del plin, il bollito misto e, per i dolci, il ben noto panettone piemontese.

Nel Veneto si può trovare sia

un antipasto marinaro che il baccalà mantecato con crostini di pane o polenta; quindi, i risi in brodo con i fegatini o tortellini in brodo di cappone; sono comunque diffusi i risotti alla veneziana con un ingrediente di mare o di terraferma.

Come secondi piatti, il classico cappone bollito, seguito, se si vuole dalla tacchinella al forno con castagne, piatto ereditato dalla cucina viennese; c’è anche chi è legato al tradizionale bollito misto con lingua, cotechino, gallina ed altre carni. Come dolci, in Veneto primeggia il pandoro di Verona, evoluzione di fine Ottocento del più antico “Nadalin”, dolce a forma di stella a otto punte. Ci sono poi il panettone veneziano come pure quello “alla Milanese”. A questo proposito, aggiungo che il panettone milanese e il pandoro veronese sono attualmente i dolci natalizi italiani più presenti nel mondo. Ogni regione abbina ai piatti i vini migliori della propria terra e ricordo che l’Italia ha oltre

500 tipologie di vini: dagli spumanti metodo classico e metodo Charmat ai vini passiti e ai Vinsanti. Ce n’è dunque per tutti i gusti e ogni famiglia sceglie i più adatti ai piatti serviti. Nel Veneto, ad esempio è ormai classica usanza iniziare con o un Metodo classico Trentino o con il Prosecco spuman-

te; per i piatti che esigono vini bianchi, si va dal Lison classico al Soave o al bianco di Custoza; per le carni, ottimi il Valpolicella, l’Amarone o il Malanotte e, come per il Veneto, così in ogni regione d’Italia. Un consiglio per i lettori.

NEL PREPARARE IL PRANZO DI NATALE, LA CENA DI SAN SILVESTRO (31 DICEMBRE) E IL PRANZO DI CAPODANNO, DOPO AVER ACCURATAMENTE SCELTO I PIATTI SIA TRADIZIONALI CHE CREATIVI, VANNO TROVATI E PROVATI I VINI CHE MEGLIO ACCOMPAGNANO I PIATTI E CHE SIANO VINI ALL ’ ALTEZZA DELLE GRANDI FESTE CHE, IN UN TEMPO RICCO DI MOMENTI BUI, PORTINO SERENITÀ E MAGARI ANCHE ALLEGRIA NEI VOSTRI COMMENSALI.

PIEMONTE

redazione@ pizzaepastaitaliana.it

Anche in Piemonte c’è la “paposcia”, tipico prodotto pugliese (Denominazione Comunale di Vico del Gargano) raccontato da Noemi Caracciolo in questo numero. A realizzarla, è la “Pizzeria Paposceria Jonica” di Collegno.

Quella proposta da Silvana Di Geronimo è, dunque, una tradizione di famiglia, rivisitata con un tocco di rosa. La pizzeria è nata nel 1982. “Crediamo – dice Silvana – che ci si possa ancora emozionare assaporando una pizza artigianale, a lievitazione naturale, con una maturazione lenta di 48-72 ore, cotta in un

forno a legna rivestito di mattoni refrattari e alimentato esclusivamente con legna di faggio”.

Ovviamente, l’uso del forno a legna richiede l’abilità di un Maestro fornaio. E alla “Jonica” queste abilità sono incarnate, per la prima volta nella storia della pizza di Collegno, da una donna: erede della passione familiare, dal 2017 è insignita del titolo di Lady Chef "NIP" (Nazionale Italiana Pizzaioli). Al suo fianco, Maria, braccio destro e maestra pasticcera.

Tanti gli impasti proposti da Silvana con un menù molto ricco. Di sua spontanea vo-

LA POSTA DEI LETTORI

lontà, Silvana ci ha inviato un articolo che abbiamo deciso di riportare.

Silvana è, infatti, giornalista, esperta di comunicazione e pizzaiola da oltre 40 anni: ha iniziato a 15 anni accanto al padre. Laureata in Lettere, con specializzazione in Giornalismo e relazioni pubbliche, ha conseguito anche il titolo di informatore tecnico della NIP (Nazionale Italiana Pizzaioli). Con il corso in web-learning "Pizza Revolution" dell'Università di Napoli Federico II, è accresciuta ancora di più la passione nel raccontare la cultura della pizza e il suo legame con la tradizione italiana.

Perché evito l’impasto al carbone vegetale e preferisco le farine non raffinate e i grani antichi

di Silvana Di Geronimo, Collegno (Torino)

Negli ultimi anni, l’impasto al carbone vegetale è diventato popolare in pizzerie e panetterie, in parte grazie al suo colore accattivante e alla promessa di benefici salutari. Tuttavia, ho scelto di non utilizzare questa tipologia di impasto e di preferire, invece, farine non raffinate, macinate a pietra e grani antichi siciliani, rispettando così una filosofia culinaria più autentica e salutare. Ecco le motivazioni alla base della mia decisione.

È importante capire che il carbone vegetale aggiunto agli impasti per pizza e pane è considerato principalmente un colorante.

Secondo la normativa vigente, infatti, i prodotti da forno con carbone vegetale non possono essere commercializzati con la denominazione di “pane” ma come “prodotto della panetteria fine.” Questo perché il carbone vegetale non arricchisce il prodotto dal punto di vista nutrizionale; la sua presenza serve solo a dare un colore insolito ma non esistono prove di apporto di reali benefici alla salute.

Di fronte a questi elementi, preferisco utilizzare farine non raffinate, macinate a pietra e grani antichi siciliani. Le farine integrali, ottenute dalla macinazione tradizionale a pietra, conservano le parti

migliori del chicco, inclusi il germe e la crusca, che sono naturalmente ricchi di fibre, vitamine e minerali.

Scegliere i grani antichi siciliani, inoltre, significa portare avanti una tradizione che valorizza varietà locali come la Tumminia o il Russello, che offrono non solo sapori unici, ma anche un contenuto nutrizionale migliore rispetto alle farine bianche raffinate. Questi grani sono meno soggetti a lavorazioni industriali e sono naturalmente più ricchi di nutrienti, oltre a contribuire a preservare la biodiversità e la tradizione agricola del nostro territorio.

Il mio obiettivo è quello di proporre un prodotto che sia nutriente e, allo stesso tempo, rispettoso della tradizione.

Credo fermamente che la salute si costruisca attraverso una scelta consapevole degli ingredienti e che valorizzare farine integrali e grani antichi sia la strada giusta per offrire un prodotto sano, gustoso e autentico.

Spero che queste riflessioni possano aiutare chiunque sia interessato a conoscere meglio ciò che porta in tavola. Scelte come quella di prediligere farine non raffinate e grani antichi non solo sostengono la qualità e la biodiversità alimentare ma possono davvero fare la differenza per la nostra salute e quella del nostro territorio.

Terre Le del

Prosecco

Ècon immenso piacere che su queste pagine ospitiamo il lavoro più recente del nostro direttore onorario, Giampiero Rorato. Corredato dalle immagini dello stimato fotografo Francesco Galifi, il volume ci guida alla scoperta della Pedemontana trevigiana, territorio nel quale si producono il Prosecco (DOCG Conegliano-Valdobbiadene e Asolo) e il Colli di Conegliano DOCG.

Il libro è un percorso tra storia, arte ed enogastronomia che ci consente una vera e propria immersione nelle terre del Prosecco, colline riconosciute Patrimonio dell’Umanità. Nel 2019, dopo un iter iniziato nel 2008, il sito “Le Colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene” è, infatti, stato iscritto nella Lista del Patrimonio Mondiale come paesaggio culturale, dove l’opera dei viticoltori ha contribuito a creare uno scenario unico.

a cura della redazione

Sulle Colline del Prosecco è possibile ammirare piccoli vigneti su strette terrazze erbose chiamati ciglioni, splendidi dorsali collinari, villaggi e borghi medievali, foreste e coltivazioni. Un terreno aspro, ma incantevole, a lungo modellato e adattato dall’uomo, che ne ha comunque rispettato a fondo la natura, ottenendo un particolare paesaggio a scacchiera caratterizzato da filari di viti parallele e verticali rispetto alla pendenza. Una meta ricca di bellezza e di sapori travolgenti accompagnati al buon bere.

Autori: Giampiero Rorato, Francesco Galifi

Anno di edizione: 2024

Editore: De Bastiani

Pagine: 174

Prezzo: € 20,00

I confini delle Colline del Prosecco di Conegliano Valdobbiadene sono stati delineati per la prima volta negli anni ‘30 del Novecento, ma hanno una lunga storia che affonda le radici nel passato. A seguito dell’abbandono delle terre a causa delle razzie barbariche, nel Medioevo si assiste a un ritorno alla coltivazione viticola promossa da nobili e monasteri. Fondata da Antonio Carpenè nel 1868, la nota Società Enologica Trevigiana ha dato vita a una vera e propria rivoluzione vitivinicola, seguita dalla nascita nel 1876, della Scuola Enologica di Conegliano, prima accademia specialistica di questo genere in Italia. Negli anni successivi prese piede in zona un nuovo modello di viticoltura, particolarmente scenografico e molto interessante dal punto di vista tecnico: la “bellussera”, un metodo di coltivazione della vite basato su un sistema a raggi messo a punto dai fratelli Bellussi. Questa forma di allevamento è un elemento che contraddistingue il territorio sito dell’UNESCO ma non è praticabile nella produzione DOCG Conegliano Valdobbiadene – Prosecco a partire dal 2009.

La particolarità dell'area sta nella sua conformazione geomorfologica: gli hogback, ovvero i rilievi con strette creste e pendii ripidissimi, sono stati modificati dall’uomo fin dal Medioevo assumendo geometrie spettacolari.

Nel 1966 è stata istituita la Strada del Prosecco, la prima strada del vino riconosciuta in Italia. Oggi “Prosecco” è sinonimo di “aperitivo”: quanta acqua e – soprattutto – quanto vino sono passati sotto i ponti da quel momento? Ripercorriamo, dunque, con Rorato la storia delle Terre del Prosecco, magari mentre brindiamo a un anno che va via e all’altro che inizia.

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