Pizza e Pasta Italiana - Gennaio 2025

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Campionato Mondiale Della Pizza p. 14 - 15

Afinox p. 85

Ab Mauri p. 73

Avanzini Bruciatori Srl p. 97

Cerutti p. 100

Conserve Italia p. 19

Cuppone p. 7

Demetra p. 25

Di Marco Corrado p. 63

Dr. Zanolli p. 21

Mam - Eredi Malaguti p. 77

Familia p. 35

Fiera Di Las Vegas - International Pizza Expo p. 88

Fiera Host Milano p. 98

Fiera Riva Del Garda - Ehospitality p. 58

Kuma Forni Snc p. 67

La Sorrentina p. 2

La Torrente p. 39

Latteria Montanari p. 49

Linea Dori p. 41

Millberg p. 59

5 Stagioni p. 11

Molino Bruno p. 37

Molino Dalla Giovanna p. 3

Molino Denti p. 95

Molino Grassi p. 79

Molino Magri p. 43

Molino Naldoni p. 71

Molino Pasini p. 53

Molino Scopettuolo p. 83

Rinaldi Superforni p. 9

Sacar Srl p. 75

Sanfelici p. 99

Scuola Italiana Pizzaioli p. 20

Sitta p. 91

Industria Alimentare Tanagrina Srl p. 87

Molecola p.89

Velma p. 55

Waico - Italforni p. 47

— Sommario —

Esportiamo

Cultura di Antonio Puzzi

Farine senza glutine: come scegliere quelle "giuste"? di Alfonso Del Forno

di Giampiero Rorato Il mondo del gelato, specchio della gastronomia di Anna Marlena Buscemi

COLOPHON

Editoriale

Ho sempre avuto l’impressione che gennaio fosse il mese più lungo dell’anno. E, forse, è vero. È il mese dei nuovi inizi, dei buoni propositi e soprattutto della riflessione, quella che solo il silenzio del freddo sa imporre. E, ogni volta che ci si ferma a pensare, il tempo si dilata. Gennaio, però, è anche il tempo della prima fiera internazionale dell’anno, il Sigep. Nata come “fiera del gelato” e diventata un evento di ampio respiro internazionale, Sigep nel 2025 allarga ancora di più il suo sguardo al mondo, forte anche del fatto che nell’edizione 2024 sono arrivati visitatori da 160 Paesi, anche grazie ai 1.200 brand espositori provenienti da 35 nazioni. Sempre lo scorso anno, inoltre, il Sigep ha ospitato oltre 500 buyer da 84 Stati diversi, creando più di 5.200 incontri professionali. Si tratta di dati in costante crescita che testimoniano come l’attenzione al “Made in Italy” del comparto agroalimentare abbia ormai di gran lunga superato il concetto di “prodotto”, estendendosi all’intera filiera del foodservice.

Di questo parliamo anche nel numero di Pizza e Pasta Italiana che state leggendo, un numero che fa il punto su cosa voglia dire “esportare cultura”, che si interroga su come le scuole di formazione professionale italiane si posizionino sul mercato estero, che cerca di raccontare come sono messe le categorie merceologiche tricolore al confronto con l’Europa e il resto del mondo, partendo ovviamente dal pane, dalla pasticceria e anche dalla birra. Una sezione speciale di questo mese è, inoltre, dedicata al “gluten free”, il cui mercato continua la propria espansione: lo analizziamo dal punto di vista del piacere organolettico ma anche da quello della salute. Continuando, poi, il nostro viaggio tra gli Italiani della ristorazione all’estero, facciamo visita a Laura Plaga, titolare del ristorante e pizzeria “La mamma” ad Arles, in Francia, alle porte della Provenza e della Camargue. All’inizio del numero, trovate le novità del 2025 di Pizza e Pasta Italiana: come sempre, non fateci mancare il vostro contributo alla riflessione!

Non mi resta, dunque, che augurarvi buona lettura e buon anno,

Antonio

PIZZA E PASTA ITALIANA

Mensile di Pizza, Pasta, Enogastronomia e Cultura

Edito da PIZZA NEW S.p.A.

Autorizzazione Tribunale di Venezia n.1019 del 02/04/1990

Anno XXXVI - n.1 gennaio 2025 - Repertorio ROC n. 5768

DIRETTORE EDITORIALE DIRETTORE ONORARIO

Massimo Puggina Giampiero Rorato

DIRETTORE RESPONSABILE

Antonio Puzzi

PUBBLICITÀ

Caterina Orlandi

REDAZIONE

Via Sansonessa, 49 - 30021 CAORLE (VE) Tel. 0421/ 212348 - Fax 0421/81007 - E-mail: redazione@pizzaepastaitaliana.it www.pizzaepastaitaliana.it

PROGETTO GRAFICO

Manuel Rigo, Paola Dus, Elena Cazzuffi

— Mediagraf lab

DIGITAL PUBLISHING

Maura Trolese

— Mediagraf lab

IN COPERTINA illustrazione di Basak Saral

STAMPA MEDIAGRAF S.p.A.

Noventa Padovana (Pd)

COMITATO TECNICO E REDAZIONALE

Marisa Cammarano, Gianandrea Rorato, Caterina Vianello, Alfonso Del Forno, Luciano Cescon.

AFFILIAZIONI INTERNAZIONALI

Pete La Chapelle (N.A.P.O. - Pizza Today, U.S.A.), P.M.Q. Steve Green (U.S.A.).

PER INFORMAZIONI, SOTTOSCRIVERE UN ABBONAMENTO O RICHIEDERE UN ARRETRATO:

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TEL 0421.83148 — FAX 0421.81007

a cura della redazione

Di Marco presenta slices of art: la street art incontra lo street food

Roma, novembre 2024 – Di Marco, l’azienda che ha inventato e reso famosa nel mondo La Pinsa, presenta oggi un nuovo affascinante progetto, in cui la pinsa, street food per definizione, si veste di street art, in un connubio divertente, colorato e gustosissimo.

Per ottenere uno “scrigno” ideale è stata avviata la collaborazione con tre dei più noti street artist italiani - Camilla Falsini, Lucio Schiavon, Daniele Tozzi- per far sì che la migliore street art potesse vestire il migliore street food. Nasce così la “PBox”, una tela contemporanea, che oltre a racchiudere un’opera d’arte, la Pinsa, racchiude la creatività e lo stile degli artisti che ne hanno reinterpretato la storia e i valori attraverso la loro arte.

“Siamo molto orgogliosi – afferma Alberto Di Marco, Ceo dell’omonima azienda- di poter offrire a tutti i nostri clienti e di conseguenza a tutti i consumatori che ordineranno la Pinsa a casa un vero e proprio pezzo di arte, anzi due: La Pinsa stessa e la sua confezione disegnata da artisti che rappresentano l’avanguardia dell’arte moderna e contemporanea”.

Tuttogusto: La tua dispensa express per

pizze

creative

Salse, creme e pesti di alta qualità per unire gusto

e praticità nella tua pizzeria

Hügli Italia, con il suo brand Tuttogusto, è un punto di riferimento nel settore del foodservice, offrendo prodotti di alta qualità studiati appositamente per ristoratori e pizzerie. La gamma - oggetto di un restyling e di una operazione di aggiornamento e sviluppo delle ricettecomprende creme e pesti pronti all'uso, è pratica e versatile. Tra i prodotti spiccano la Crema di Zucca, ideale per pizze e focacce, e la Crema Tartufata, perfetta per preparazioni più elaborate.

Confezionati in vaso vetro da 500 g con tappo richiudibile, questi prodotti semplificano il lavoro in cucina e garantiscono risultati di qualità.

Come afferma Alberto Barrile, Culinary Advisor di Hügli Italia, l'adattabilità delle creme è ciò che l'azienda cerca sempre di comunicare ai professionisti della ristorazione. A fare la differenza, però, è l'alta qualità dei prodotti: la scelta e l'utilizzo di materie prime selezionate sono pilastri fondamentali per Hügli Italia e rappresentano il cuore della sua filosofia.

Gli eventi del mese

15–16 gennaio

MARCA

Bologna, Fiera

La ventunesima edizione di Marca by BolognaFiere si terrà il 15 e 16 gennaio 2025 nel quartiere fieristico di Bologna. Marca by BolognaFiere è l’unica manifestazione dove espone la Distribuzione Moderna Organizzata (DMO). Un’opportunità unica per fare business concretamente, toccare con mano i prodotti, incontrare buyer e category manager provenienti dalle principali catene internazionali e chiudere i contratti tra le aziende di qualità, food e non food, e i retailer pronti a riempire gli scaffali con il proprio marchio.

Web: marcabybolognafiere.com

18–22 gennaio

SIGEP WORLD

Rimini, Fiera

Da 46 anni, SIGEP World si svolge a Rimini, tra le mete turistiche più note d’Italia e capace di soddisfare le più diverse esigenze dei visitatori grazie a una vastissima disponibilità di hotel, ristoranti, collegamenti internazionali. Una location “esperienziale” d’eccellenza per gli operatori del foodservice. Al centro delle novità di SIGEP WORLD 2025 troviamo SIGEP Vision, osservatorio globale per l’industria del fuoricasa, sviluppato con i maggiori istituti di ricerca internazionali: una panoramica completa su cambiamenti, sfide e opportunità che attendono il settore.

Inoltre, con un layout espositivo ampliato di due nuovi padiglioni per un totale di 138.000 mq di superficie espositiva, la fiera espande la propria offerta merceologica. Tra i contenuti di maggiore spicco di SIGEP WORLD 25 avremo Taste of Tomorrow, un nuovo concept di gelateria sostenibile basato sulla bioarchitettura, il Sustainability District dedicato alle filiere del caffè e del cioccolato - dai paesi di origine fino alla tazzina - e l’Area Bean-to-Bar che valorizza l'arte e la scienza della produzione del Cioccolato, con uno spazio dedicato. www.sigep.it

25–26 gennaio

25ÈME SALON DES VINS DES VIGNERONS INDÉPENDANTS

Rennes (Francia)

Torna a Rennes, nel nord della Francia l’appuntamento con i vini indipendenti della nazione che in Europa ha forse legato più di ogni altra il suo nome al vino. Appuntamento da non perdere per costruire una carta dei vini ragionata e degna di questo nome.

Per segnalare i tuoi eventi, scrivi a redazione@pizzaepastaitaliana.it

26–29 gennaio

FIERA

NAZIONALE

DELL’ALTO ADRIATICO

Caorle, Palaexpomar

La Fiera Nazionale dell’Alto Adriatico è il punto di riferimento per il mondo Ho.Re.Ca del nord-est italiano, un must per tutti gli operatori del settore ed il luogo per conoscere le novità delle aziende e capire le nuove tendenze di mercato.In un’economia sempre più globalizzata la fiera dà ancora la possibilità ed il vantaggio decisivo dell’interazione personale, in un unico format troverete innovazioni, soluzioni e tendenze per il mondo della ristorazione e dell’ospitalità con profumi e deliziosi sapori.

3–6 febbraio

SAVE THE DATE

HOSPITALITY

Riva del Garda, Fiera

Hospitality – Il Salone dell’Accoglienza è la manifestazione internazionale di riferimento per il mondo Ho.Re.Ca.: un hub dove gli operatori di ospitalità e ristorazione entrano in contatto con fornitori e partner e scoprono le novità per far crescere il proprio business. La più completa fiera B2B in Italia si tiene in uno dei principali distretti turistici italiani - quello del Lago di Garda - e racchiude in un unico evento un’ampia platea di aziende e professionisti che trovano spazio nelle aree Contract & Wellness, Renovation & Tech, Food & Equipment e Beverage e nelle aree speciali Solobirra, RPM-Riva Pianeta Mixology e Winescape dedicate alla valorizzazione della birra artigianale, del bere miscelato e del turismo del vino. Un percorso unico con espositori selezionati tra le eccellenze di tutti i segmenti dell’HoReCa e una piattaforma di business fondamentale per ampliare le opportunità di networking tra operatori del settore e buyer nazionali ed internazionali. Alle numerose occasioni di formazione e aggiornamento di Hospitality Academy, si aggiungono laboratori, masterclass, degustazioni e cooking show che completano il programma eventi e favoriscono la nascita di nuove collaborazioni tra hotel, bar, ristoranti e strutture ricettive.

NATURA AD ALTA PRESTAZIONE

Le nostre farine tradizionali, ottenute attraverso una macinazione gentile e progressiva, garantiscono prestazioni costanti e qualità superiore in ogni preparazione. Da sempre dedichiamo attenzione all’eccellenza, selezionando solo le parti migliori del chicco di grano per offrire farine che soddisfino i più elevati standard della pizzeria professionale.

le5stagioni.it

NOVITÀ DI PIZZA LE

di Antonio Puzzi

Gennaio è il mese dei buoni propositi. Poiché da “qualche” anno non sono più un bravo bambino, però, credo sia giusto mostrarsi realisti e non blaterare di progetti irrealizzabili. Eccomi, dunque, a presentarvi le novità che quest’anno troverete in queste pagine, almeno quelle certe!

In primis, oltre alla riconferma di tutte le firme che ormai siete abituati a conoscere (e riconoscere), nel corso dei mesi, avrete modo di trovare articoli “d’autore” su temi particolarmente densi di significato: è da subito il caso di questo mese con il ritorno graditissimo di Massimiliano Bruno Gallo a dissertar di olio in pizzeria e la collaborazione prestigiosa di Anna Marlena Buscemi che, in questo numero, si concentra sul gelato.

Parleremo, infatti, sempre più spesso, nel corso dell’anno, di dolci in pizzeria, uno degli argomenti da sempre più discussi tra gli addetti ai lavori. Ci tengo però a presentarvi questi “nuovi autori”: Massimiliano e Marlena hanno in comune la laurea in Scienze Gastronomiche (conseguita in anni e città diverse), una facoltà ideata da Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, nel 2003 e che con-

sente di ottenere un curriculum studiorum ricchissimo che va dalle discipline più strettamente tecniche e scientifiche a quelle legate alla comunicazione. Non saranno gli unici a fare incursione tra queste pagine ma avrò il piacere di introdurvi, di volta in volta, chi entra nelle vostre case e nelle vostre aziende. Perché è sempre rispettoso presentarsi prima di sedersi a tavola.

Scorrendo le pagine dei numeri del 2025, troverete ragionamenti su nuove tecnologie, sostenibilità ma anche una nuovissima rubrica mensile: La recensione del mese

PASTA ITALIANA

Su questa mi dilungo brevemente (mi perdonerete l’ossimoro) per dirvi che è un’idea che inseguivo da tempo. Mi ha sempre molto affascinato leggere le recensioni lasciate dagli utenti dei locali, tanto più che sono proprio i giudizi di Google e TripAdvisor a orientare le scelte del pubblico di massa, molto più (ahimè) delle guide, scritte da chi dovrebbe avere le competenze tecniche per esprimere un giudizio. Su Facebook e Instagram le recensioni dei locali, inoltre, spopolano (io

stesso, ad esempio, sono un fan della pagina Insultare su Tripadvisor sentendosi grandi chef) ma hanno un limite: quello di non lasciare spazio alla riflessione ma solo ad ulteriori commenti di utenti la cui preparazione non è dimostrabile. Con questa rubrica, vorremo dunque iniziare a riflettere su cosa ci dicono le recensioni, su cosa è giusto o sbagliato fare, su cosa e come rispondere: vedrete che prenderà una forma diversa ogni mese, aiutateci a scegliere quella che preferite.

Per ora mi fermo qui e non mi resta che augurarvi una buona, piacevole ed edificante lettura!

2025

CAMPIONATO MONDIALE DELLA PIZZA

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Esportiamo cultura

Quando, dopo l’11 settembre 2001 fu realizzato l’attacco alle Twin Towers e il successivo 7 ottobre George W. Bush rispose agli attentatori con l’operazione “Enduring Freedom” bombardando i territori di provenienza dei kamikaze, ci fu un’espressione che venne usata dalla stampa americana per definire l’obiettivo di quell’intervento che mi fece subito trasalire: “esportare la democrazia”. A quel tempo, non avevo ancora intrapreso gli studi antropologici che hanno poi contribuito a formare il mio pensiero ma quell’idea di “esportare la democrazia” mi spaventava. Mi chiedevo: la democrazia è un prodotto? È possibile assimilarla a una “commodity”, ossia a

un bene trasferibile e commerciabile?

O, piuttosto, la democrazia è un bene comune, un’espressione della cultura di una società? E, se è così, la cultura si esporta o si costruisce? Per me la risposta è una sola: si contamina.

Ecco, l’ho presa molto alla lontana per portarvi un mio pensiero su qualcosa che in questo periodo sta appassionando le mie ricerche. Ho assistito, in questi ultimi anni, al proliferare di corsi di formazione professionali; se, in passato, infatti, le scuole per pizzaioli in Italia si contavano sulle dita di una mano e quelle per cuochi erano organismi riconosciuti dallo Stato, oggi c’è una vera e propria esplosione dell’offerta formativa. Premesso che ritengo che questo

sia un ottimo segnale, ho iniziato a domandarmi quanto e in che modo questa offerta sia valida ai quattro angoli del globo. Sono sempre di più, infatti, gli Enti formativi che vedono prevalentemente nel continente americano e in quello asiatico (ma, in parte non residuale, anche in Africa e Australia) un investimento valido per un proficuo ritorno economico. La domanda che mi pongo è, però:

ha senso “esportare cultura”? È giusto insegnare la ricetta del-

la pizza napoletana o della pizza fritta o della focaccia genovese in un altro Paese?

Attenzione, non sto chiedendo se sia giusto insegnare queste ricette agli “stranieri” (come pure si era discusso in passato) perché per me è chiaramente giusto (ma anche doveroso) che chiunque voglia avvicinarsi a un argomento, uno studio, un tema sia messo nelle condizioni più opportune per farlo. La mia domanda riguarda piuttosto se è giusto andare a compiere questi insegnamenti

in un altro Paese. E la motivazione è presto detta: continuiamo a ripetere che la nostra pizza è espressione di una cultura e, dunque, come possiamo pensare di trasferire e far comprendere i contenuti di una cultura senza farla vivere direttamente nel Paese di origine? Pensereste mai di definirvi esperti di canguri senza averne mai osservato i movimenti e le abitudini nel loro habitat naturale e andando invece a studiarli in uno zoo? Mi piacerebbe, dunque, offrire qualche suggerimento sulla questione. In primo luogo, credo sia opportuno ricordare che non possiamo dimenticare che il rapporto tra natura e cultura è tutt’altro che definito. I confini entro i quali ci muoviamo sono oggetto di continua riflessione. Ecco, allora non possiamo prescindere dall’idea che per vivere una cultura ci sia bisogno

di immergersi nella “sua” natura. Per farlo, occorre seguire – a mio modesto avviso – alcuni piccoli consigli:

1 - Incoming.

Lo studio di una materia viva come la pizza e, in particolare, di alcuni tipi di pizze, non può prescindere dallo studio di un territorio, di un ambiente sociale, della gente che ha reso quel prodotto un’icona, un simbolo riconoscibile dal mondo intero. Ecco, perché, bisogna puntare prima di tutto a organizzare corsi sulla pizza fritta napoletana a Napoli; sullo gnocco fritto in Emilia-Romagna; sulla Chicago style a Chicago, e così via

2 - Storytelling.

Nelle fiere e negli appuntamenti fuori dal territorio di origine di un determinato prodotto, è giu-

sto “fare storytelling”, non semplicemente raccontarlo ma farlo vivere, ricostruendo – per quanto possibile – le ambientazioni e il contesto socioculturale del territorio di origine

3 - Contaminazione.

Quando si va oltre i confini del proprio territorio, non bisogna avere la pretesa di essere i detentori di un sapere superiore ma è giusto porsi all’ascolto delle culture altre, lasciandosi contaminare da quel messaggio e provando a incrociare, ove possibile, la nostra cultura con quella del luogo in cui ci troviamo.

Durante un recente viaggio in Francia, ho avuto modo di dedicarmi allo studio di un piccolo gruppo dei tanti migranti che dall’Italia si sono trasferiti lì. C’è una cosa che mi è piaciuta più di tutte:

alla mia domanda se si sentissero Italiani o Francesi, in molti mi hanno risposto di non conoscere la risposta. C’è un messaggio più bello?

PLATEA ROTANTE ORAANCHECON

FATTO IN ITALIA, AMATO NEL MONDO.

Ristorazione domani

ANNO NUOVO

E LA RISTORAZIONE ?

Inizia un nuovo anno anche per la ristorazione, sia quella considerata di alto livello che quella delle tradizionali trattorie di campagna. Come tutti sanno, da quando milioni di anni fa nel sistema solare è comparso un pianeta poi chiamato “Terra”, questo ammasso di terra, rocce ed acqua ha iniziato, seppur lentamente, ad evolversi, subendo in certi periodi dei cambiamenti molto rilevanti.

E così è stata e continua ad essere la storia dell’umanità. In questa storia che riguarda tutti noi, i cambiamenti ci sono sempre stati e li vediamo anche in questi ultimi tempi. Sul finire del secolo scorso, la globalizzazione che prima riguardava le grandi città e poche nazioni è diventata universale. Oggi, infatti, grazie ai moderni sistemi di comunicazione, sappiamo in tempo reale quello che succede non solo in ogni parte del nostro pianeta ma anche sulla luna e prossima-

I NUOVI CONSUMATORI

In questo enorme cambiamento che ha trasformato, come dicono gli studiosi, il villaggio locale in un villaggio globale, è pure cambiato l modo delle famiglie di acquistare i prodotti alimentari e soprattutto di chi lavora fuori casa il modo di mangiare a mezzogiorno. Non va poi dimenticato che è venuta meno rispetto al passato la capacità di preparare in casa cibi gustosi; di preparare i piatti tradizionali delle feste e di confezionare, sempre in casa, i dolci tramandati dalla tradizione. A tutto questo, va aggiunto il fatto che attualmente si mangia anche nei bar, nelle birrerie, paninoteche, ecc. dove conta soprattutto il basso costo. E si aggiunge una crescente diffusione delle pizzerie, gran parte delle quali è aperta anche a mezzogiorno.

Come anche i nostri lettori ben sanno, il mondo della ristorazione è immerso in un rapido cambiamento per cui a tutti gli operatori, dai tristellati alle osterie con cucina, dalle malghe alpine e appenniniche alle grandi città e alle isole minori, si richiedono delle conoscenze e una cultura professionale a quelle che erano sufficienti sul finire del secolo scorso, meno di trent’anni fa.

mente anche gli eventi che riguardano altri corpi celesti. Grazie a ciò, sappiamo, ad esempio, che cosa si produce in tutte le altre parti del mondo e quali prodotti agroalimentari il mercato ci mette a disposizione tutti i giorni dell’anno. Conosciamo anche le tradizioni alimentari e gastronomiche dei vari Paesi; quali piatti amano i turisti che arrivano in Italia, così come conosciamo quotidianamente i costi della frutta e della verdura reperibile nei nostri mercati.

CONCLUSIONE CONOSCERE IL NUOVO CHE AVANZA

Non è più sufficiente essere bravi cuochi, usciti da serie scuole alberghiere e con solido apprendistato compiuto in locali di qualità. Ora si richiede sempre più una approfondita conoscenza della materia prima impiegata; meglio se si conoscono i luoghi e le persone che la producono, perché già questo contribuisce a valorizzare il lavoro di chi opera nella ristorazione: dai cuochi, ai maître ai camerieri, ai sommelier. Poi, è importante conoscere le cucine e le tecniche operative dei locali più importanti, sia in Italia che all’estero e questo per capire le altre culture, le altre tradizioni, nonché le tecniche operative degli operatori più bravi è più esperti. Non va trascurata la necessità di avere con i clienti un rapporto capace di valorizzare e soddisfare i clienti stessi, in modo che uscendo dal ristorante o dalla trattoria ne parlino bene ad amici e conoscenti.

Come il lettore ha già capito in questo articolo non si danno risposte ma si pongono interrogativi che invitano a riflettere sul proprio lavoro, sulla propria storia professionale – cuoco, pizzaiolo, sommelier, operatore di sala, ecc. – tutti avendo bisogno di una crescita culturale per affrontare nel modo migliore i tempi nuovi che, come già si vede non saranno molto facili. Emergerà da protagonista chi avrà compreso che il mondo della ristorazione richiede sempre più impegno, cultura, professionalità, spirito di sacrificio e la capacità di affrontare da posizioni di forza il nuovo che avanza molto velocemente.

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IL MADE

“oltre il prodotto”

L’Italia esporta molto più di prodotti gastronomici: esporta competenze, cultura e un metodo educativo che rappresenta un pilastro del “Made in Italy” nel mondo. Negli ultimi anni, la formazione italiana nel settore della ristorazione e della pizzeria hanno assunto un ruolo strategico, non solo come vettori di conoscenze tecniche ma anche come strumenti di promozione dell’eccellenza culturale e gastronomica italiana.

La rilevanza economica del “Made in Italy” nella ristorazione può facilmente essere riscontrata nell’aggiornamento 2024 di FIPE-Confcommercio, secondo il quale il settore della ristorazione italiana comprende oltre 331.000 imprese,

Quanto vale la formazione italiana per la ristorazione e la pizzeria all’estero?

con un valore aggiunto di 54 miliardi di euro e 1,4 milioni di lavoratori. I ristoranti italiani all’estero, invece, superano le 30.000 unità, generando un giro d’affari di oltre 12 miliardi di euro. Questo successo non si limita al prodotto servito in tavola ma alla capacità di esportare un sistema educativo e culturale che fa della cucina italiana un riferimento globale.

Tra le istituzioni, il Ministero degli Esteri, nel suo rapporto annuale sulla ristorazione italiana all’estero, sottolinea come questa capacità formativa rappresenti uno dei principali asset della riconoscibilità qualitativa del Made in Italy. Quando si parla della nostra cucina nazionale, non si tratta solo di insegnare ricette tradizionali ma di trasmettere un metodo che favorisce la creatività, sempre nel massimo rispetto della qualità delle materie prime, uno dei nostri principali punti di forza.

Tra le realtà formative più importanti per l’internazionalità, spicca l’alma - la scuola internazionale di cucina italiana - che negli ultimi anni ha rafforzato la propria offerta con corsi inediti e maggiormente accessibili come il “Restaurant Revenue Management” o il modulo sulla “Pizza Gastronomica”. Con oltre 15.000 studenti formati, provenienti da più di 85 Paesi, ALMA rappresenta una piattaforma globale per lo sviluppo delle competenze culinarie e gestionali ed uno dei primi istituti ad aver creato il culto della formazione italiana nel mondo della grande cucina internazionale.

la scuola italiana pizzaioli, fondata nel 1988 in provincia di Venezia, è riconosciuta a livello internazionale per la formazione di eccellenza nel settore della pizza. Con un percorso formativo certificato e strutture dotate di laboratori professionali, opera sia

di Domenico Maria Jacobone e Monica Pisciella

IN ITALY

in Italia che all’estero. L’offerta didattica è articolata e innovativa, includendo corsi base, alta formazione e focus su sostenibilità e tendenze emergenti, con l’obiettivo di formare professionisti completi e capaci di affrontare le sfide del settore. Con una presenza capillare che si estende dall’Italia a Europa, Asia, Australia ed Americhe, la missione della Scuola Italiana Pizzaioli è quella di promuovere la cultura della pizza italiana in tutto il mondo. Grazie a questa rete globale, contribuisce a esportare un modello culturale che valorizza la pizza, una delle eccellenze più rappresentative del Made in Italy all’estero.

alba accademia alberghiera, con sede nel cuore delle Langhe piemontesi, è una realtà decisamente più giovane. Fondata nei primi anni del 2000, ha sviluppato programmi formativi che vanno oltre l’insegnamento tecnico della ristorazione, puntando a formare professionisti completi. Tra i progetti formativi più recenti, spiccano “Ancient Grain”, dedicato alla riscoperta di cereali antichi e prodotti tipici, e “Italian Tradition Chef training”, che esplora l’identità del territorio attraverso verdure, biodiversità, macelleria, farine e derivati, tartufo e dolci. Con partnership internazionali in Europa e nel mondo, l’Alba Accademia Alberghiera ha formato negli ultimi anni professionisti che oggi ricoprono ruoli di rilievo in ristoranti, cantine ed hotel

di prestigio internazionale. Negli ultimi anni ha sviluppato diverse collaborazioni internazionali con il Niagara College Canada, Brightwater, Austin Community College e Florida International University.

Gli esempi appena citati ci descrivono come il modello formativo italiano non si limiti al mero insegnamento tecnico ma trasmetta una filosofia che integra qualità, rispetto per le materie prime e creatività, tenendo ben salda l’aderenza alle tradizioni enogastronomiche regionali. Questo approccio si traduce in una rete globale di professionisti che, una

volta formati, diventano veri e propri ambasciatori capaci di valorizzare il nostro patrimonio culturale in un mercato sempre più competitivo e diversificato.

Attraverso un’“intervista doppia” a Sara Bitti, responsabile di settore di Alba Accademia Alberghiera e Luca Gaccione, direttore didattico della Scuola Italiana Pizzaioli, esploreremo come queste realtà stiano affrontando le sfide dell’internazionalizzazione e quali strategie intendono adottare per continuare a promuovere la leadership formativa italiana nel settore enogastronomico internazionale.

Made in Italy: quanto vale, secondo te, la formazione alla base del prodotto enogastronomico?

sara bitti: “La formazione è fondamentale per il successo del prodotto enogastronomico Made in Italy. La qualità e l’autenticità dei prodotti italiani sono strettamente legate alla passione ma soprattutto alla competenza. La formazione continua è l’unica ricetta che può garantire la conservazione della cultura enogastronomica, contribuendo a tramandare tecniche e ricette della tradizione e, al contempo, permette di stare al passo coi tempi aggiornandosi su nuove tecniche e strumenti in cucina nel rispetto delle materie prime.

Una solida formazione può migliorare la sostenibilità delle preparazioni e l’efficienza della produzione, contribuendo a mantenere l’eccellenza che caratterizza il Made in Italy. La conoscenza approfondita delle materie prime, delle tecniche di lavorazione e delle norma-

tive di sicurezza alimentare è essenziale per mantenere alti gli standard qualitativi. La nostra Accademia Alberghiera, ad esempio, si trova ad Alba, Creative City Unesco per la gastronomia e “capitale” del territorio di Langhe, Roero e Monferrato, anch’esso patrimonio Unesco, con l’attenzione alle materie prime, il rispetto del paesaggio vitivinicolo, l’innovazione e il legame profondo con la tradizione che sono i cardini su cui si innesta il successo di questo angolo di Piemonte, dove la cucina e l’enogastronomia richiamano un turismo internazionale sempre più attento ed esigente”.

luca gaccione: “La formazione nel settore enogastronomico, in particolare per un prodotto iconico come la pizza, è un pilastro fondamentale per garantire qualità e autenticità. Quando si parla di pizza, non si tratta solo di apprendere tecniche e ricette: è essenziale comprendere il contesto storico e culturale che ha plasmato questo simbolo del Made in

Italy. La pizza racchiude una tradizione radicata nel nostro territorio, una storicità che ci è invidiata a livello globale e che offre infinite opportunità di valorizzazione, permettendo di creare varianti che esaltano sia il passato sia l’innovazione.

Un aspetto cruciale della formazione è il legame con le tradizioni, come l’utilizzo del forno a legna e l’impiego di materie prime autoctone. Per esempio, le farine siciliane non rappresentano solo un elemento tecnico ma anche un’espressione della cultura territoriale. Lo stesso vale per ingredienti freschi come il pomodoro e la mozzarella, che sono la base di una pizza artigianale autentica. Questi elementi richiedono non solo competenze tecniche ma anche una profonda conoscenza del territorio produttivo e delle sue peculiarità.

L’artigianalità della pizza deve essere supportata da un metodo rigoroso che garantisca una qualità costante nel tempo. Un prodotto come la pizza non può presentare variazioni significative da una produzione all’altra: la formazione serve proprio a creare un sistema che unisca creatività e tradizione, ma che allo stesso tempo stabilisca standard chiari. Questo approccio è indispensabile per elevare il prodotto a un livello di eccellenza, mantenendo al centro il valore della materia prima e l’artigianalità, che rimane l’anima della pizza italiana”.

Formazione Italiana all’estero: come avete organizzato lo scambio con altre nazioni, come preparate i docenti, in che modo “fate la differenza” rispetto ad altri istituti italiani ed esteri?

sara bitti: “Alba Accademia Alberghiera ha un’offerta formativa articolata per tipologia di utenza e fascia di età: dai ragazzi che la scelgono per i propri studi superiori, agli adulti che cercano un aggiornamento professionale o vogliono trovare lavoro nel settore grazie a corsi di upskilling e reskilling, fino alle imprese del mondo Horeca che necessitano di formazione specializzata in ambito gastronomico e turistico. Per non parlare del Wine & Spirit Education Trust (WSET) leader mondiale nella formazione dedicata ai vini di cui Alba Accademia è Approved Programme Provider per Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta.

Questa poliedricità è la chiave del nostro successo a livello internazionale, poiché docenti e chef hanno nel tempo acquisito know how e competenze scalabili che permettono loro di rapportarsi con diverse utenze italiane e straniere sempre con il corretto livello di interazione.

A questo, va aggiunta tutta una serie di competenze progettuali e di project management che ci permettono di essere protagonisti in Europa e nel

mondo. Alba Accademia infatti si relaziona con oltre 53 partner internazionali per diversi progetti, molti dei quali finanziati dalla Comunità Europea, su azioni di capacity building, innovazione e scambio di competenze nel settore enogastronomico e turistico.

Lo stile? È quello dell’“learning by doing”, che nasce dall’experience maturata in oltre 65 anni di attività come Agenzia di Formazione Professionale, dove le ore di pratica di laboratorio sono fondamentali per quantità e per qualità. È un approccio che gli studenti stranieri apprezzano moltissimo e che trova proprio nel mondo dell’enogastronomia l’ambito di sua massima efficacia”.

luca gaccione: “La scuola predilige uno stile di insegnamento fondato su due pilastri inscindibili: la teoria e la pratica sono due componenti essenziali che si completano a vicenda. La componente teorica è cruciale per fornire agli studenti una conoscenza

approfondita delle materie prime. L’obiettivo è trasmettere una comprensione che vada oltre la semplice tecnica, stimolando la capacità di innovare e proporre nuove soluzioni nel mercato della ristorazione.

La dimensione pratica è altrettanto fondamentale. Gli studenti vengono coinvolti attivamente, mettendo le mani in pasta durante tutte le fasi di preparazione. Dall’impasto alle successive lavorazioni, l’esperienza diretta diventa elemento centrale del processo di apprendimento.

I progetti internazionali rappresentano un punto di forza della scuola, con una strategia di scambio culturale accuratamente sviluppata. Un esempio significativo è l’esperienza biennale in Brasile, dove vengono presentati diversi stili di pizza attraverso la partecipazione a importanti fiere internazionali, come quella di San Paolo. Nel corso di questi eventi, vengono illustrate le sfumature della pizza italiana:

Un aspirante cuoco di un altro Paese cosa trova nella vostra scuola? Se e come avete creato progetti di scambio Italia/estero? Quali

dalla versione napoletana classica alla pizza in teglia, fino alla pizza in pala. Il programma “Incoming Brasile” offre un corso di alta formazione in Italia per studenti brasiliani, che va ben oltre la semplice tecnica di preparazione. Aspetto distintivo di questi scambi è la componente culturale: gli studenti stranieri vengono accompagnati in visite guidate per conoscere il territorio italiano, scoprendo i segreti di produzioni simbolo del Made in Italy. Da Venezia alle cantine del Prosecco, dai tour negli stabilimenti di prosciutto crudo alle fabbriche di Parmigiano Reggiano ed Aceto Balsamico di Modena, ogni tappa è un’immersione nella cultura enogastronomica italiana.

Dall’esperienza diretta emerge che i Paesi più ricettivi verso la cultura culinaria italiana sono l’Australia, con la sua massima curiosità e attenzione, seguita dal Brasile e dal Giappone. Quest’ultimo si distingue per una capacità di apprendimento manuale particolarmente sorprendente, con studenti in grado di apprendere le tecniche di preparazione della pizza in tempi incredibilmente brevi.

L’obiettivo finale va oltre la formazione di semplici professionisti: si mira a creare veri ambasciatori del Made in Italy, capaci di trasmettere l’autenticità e la profondità della cultura enogastronomica italiana in ogni angolo del mondo.

sono i Paesi più attenti e rispettosi della cucina italiana o degli stili di cucina?

sara bitti: “Grazie ad un lavoro costante nel tempo, Alba Accademia Alberghiera fa ora parte di reti di partnership e visibilità sia in Italia, come l’Associazione delle Scuole di Alta Formazione della Ristorazione di Fipe/Confcommercio, sia a livello internazionale come il Thematic working group on tourism o l’European Association of Hotel and Tourism Schools, solo per citarne alcune.

Queste reti e altre relazioni internazionali ci hanno portano visibilità in una platea di oltre 250.000 professional e studenti in 4 continenti e che solo nel Nord America coinvolge college e università di 5 Stati. È da questa platea che provengono gli studenti e i docenti di scuole, college e università che scelgono i nostri programmi incoming di alta formazione enogastronomica. E devo dire che tutti, soprattutto gli americani e i nord europei, hanno un approccio molto rispettoso della nostra cucina e rimangono letteralmente affascinati dalle eccellenze rappresentate dai piccoli produttori locali.”

luca gaccione: “Abbiamo voluto distinguere la Scuola Italiana Pizzaioli da altre realtà formative garantendo la certificazione del metodo d’insegnamento e sedi attrezzate con le tecnologie più avanzate,

pensate per migliorare la qualità del lavoro e ottimizzare l’apprendimento. Ogni sede è stata progettata seguendo un format uniforme, con ambienti accoglienti e strumenti di ultima generazione, per assicurare un’esperienza didattica all’altezza delle aspettative. In tutte le nostre sedi, gli studenti hanno accesso a una vasta gamma di attrezzature professionali, comprese impastatrici di ogni tipo: a forcella, a spirale e a braccia tuffanti. Questo permette loro di acquisire familiarità con le diverse tecnologie utilizzate nel settore, comprendendo sia i punti di forza sia i limiti di ogni strumento. Così, quando

si troveranno a lavorare in un’azienda che utilizza una specifica attrezzatura, saranno già preparati a gestirla con competenza.Lo stesso approccio è adottato per i forni: le nostre sedi dispongono di forni a legna e forni elettrici, per consentire agli studenti di sperimentare tecniche di cottura diverse.

Questo non solo li aiuta a comprendere quale tipo di forno sia più adatto al loro stile di pizza – dalla pizza in pala alla pizza napoletana classica – ma anche a sviluppare una visione più chiara delle scelte professionali future. Ad esempio, il forno elettrico è ideale per chi desidera lavorare su prodotti specifici come la pizza in pala, mentre il forno a legna, oltre a offrire un’eccellente resa scenografica, resta un’icona della tradizione italiana per la pizza napoletana.

Il nostro obiettivo è che ogni aspirante pizzaiolo, sia in Italia che all’estero, trovi nelle nostre sedi un ambiente completo, in grado di offrire tutti gli strumenti necessari per intraprendere un percorso professionale di successo.

siamo convinti che questa attenzione alla qualità e all’innovazione ci renda la scelta ideale per chi desidera crescere nel mondo della pizza”.

FORMAZIONE E INNOVAZIONE:

LE PAROLE D’ORDINE PER RESTARE PROTAGONISTI!

di Enrico Bonardo Direttore commerciale e marketing di Scuola Italiana Pizzaioli

L'Italia è la culla della pizza, simbolo indiscusso di tradizione e qualità. Ma oggi, nel panorama globale, la domanda è inevitabile: siamo ancora il faro indiscusso o dobbiamo guardare a nuovi modelli e contaminazioni? Se da un lato l’arte del pizzaiuolo napoletano rimane un punto di riferimento mondiale — tanto da essere tutelata dall’UNESCO come patrimonio immateriale dell’umanità — dall’altro, gli stili di pizza americani, ad esempio, stanno guadagnando terreno con una crescita sorprendente. La pizza in stile newyorkese, con il suo impasto sottile, croccante e dalle dimensioni generose; la “Detroit style”, con i bordi caramellati e la cottura in teglia; o la “Chicago deep dish”, una sorta di torta-pizza alta e filante, sono diventati prodotti di tendenza. Non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa e persino in Italia, questi stili di pizza stanno incuriosendo un pubblico sempre più vasto. Cosa sta accadendo? La globalizzazione ha trasformato il modo di concepire la pizza: se in passato l’Italia dettava lo stile e l’ingredientistica, oggi l’innovazione viaggia veloce e da ogni angolo del mondo arrivano nuove idee, tecniche e soprattutto sapori. Dal Sud America al continente asiatico registriamo molteplici contaminazioni, soprattutto con ingredienti locali come le spezie tandoori per l’india o la famosa anatra laccata di Pechino. Questo significa che l’Italia ha perso la sua centralità? No, ma deve evolversi. La forza della tradizione italiana è la base su cui costruire ma il futuro richiede apertura e capacità di innovare. Le eccellenze italiane, dalle farine di alta qualità agli ingredienti selezionati, possono continuare a fare la differenza, purché si accetti di guardare oltre i confini. Gli stessi pizzaioli italiani di successo, oggi, viaggiano, studiano e portano in patria influenze e sperimentazioni che arricchiscono il settore. L’Italia, quindi, ha ancora molto da insegnare ma anche molto da imparare. La pizza non è più solo napoletana: è un fenomeno globale che cresce, muta e si diversifica. Riusciremo a restare protagonisti? La risposta è nelle mani di chi saprà formarsi per poter portare le giuste innovazioni, senza perdere il legame con le proprie radici.

Tempo di olio nuovo:

quale abbino alle mie pizze?

di Massimiliano Bruno Gallo

È tempo di olio nuovo, di profumi ampi e inebrianti che spaziano dal carciofo alla costa di sedano, dalla forza amaricante della scarola cruda alle note verdi del pomodoro acerbo, toccando punte delicate di frutti rossi e di mandorla dolce. Che sia più “verde” o più “maturo” importa il giusto: l’importante è che sia extravergine di oliva, italiano, di qualità e… nuovo. Si, nuovo, perché l’olio extravergine di oliva (che da adesso chiameremo olio evo), non segue il paradigma tanto caro nel vino che “più invecchia e più e buono”, anzi, è l’esatto contrario.

Perché l’olio evo non deve “invecchiare”?

Il vino, quando è di qualità, grazie al tempo e al giusto “invecchiamento”, migliora la sua espressività olfattiva e gustativa, ammorbidisce i tannini, diventa più rotondo al palato e sprigiona dei profumi che prima erano nascosti. Discorso opposto per l’olio evo, che più passa il tempo e più peggiora, perde i suoi profumi e la sua forza polifenolica; il piccante e l’amaro affievoliscono e il dolce aumenta. Questo fenomeno degradativo

è dovuto principalmente ai processi ossidativi e foto-ossidativi che si attivano nell’olio evo quando entra in contatto con due elementi: la luce e l’ossigeno. Le fonti luminose sono nemiche dell’olio, ecco perché le bottiglie in cui conservarlo devono essere fatte di vetro scuro e non chiaro oppure di alluminio (le cosiddette latte), che riescono a riflettere i raggi di luce e a proteggere il nostro prezioso liquido.

Diffidate quindi da chi vende l’olio nelle bottiglie di vetro trasparenti! L’ossigeno è il secondo nemico dell’olio, responsabile del difetto di “rancido” che, al naso, ricorda l’odore del grasso del prosciutto lasciato all’aria. È importante conservare l’olio evo sempre chiuso ermeticamente nel proprio contenitore. Questo principio è importante anche in fase di lavorazione delle olive; se siete dei produttori assicuratevi che il frantoio che produce il vostro olio abbia dei macchinari a ciclo continuo, delle gramole chiuse e che utilizzi dei frangitori e non le ormai obsolete presse. Se invece siete dei pizzaioli, abbandonate la vecchia oliera in acciaio e utilizzate le bottiglie originali dei produt-

tori per condire le vostre pizze che, oltre ad essere più estetiche, conservano decisamente meglio il prodotto.

Quale olio nuovo abbino alle mie pizze?

Oltre a seguire il principio di base che l’intensità dell’olio e quella del piatto devono essere le stesse, possiamo pensare ai nostri abbinamenti in relazione agli odori e agli aromi dell’olio.

Principio del completamento

Immaginate per un attimo di avere nel vostro menu la classica pizza con una base di mozzarella, parmigiano reggiano a scaglie, rucola selvatica e prosciutto crudo e che oggi il vostro fornitore di fiducia abbia dimenticato di consegnarvi la rucola selvatica. Invece di togliere questa pizza dal menu, potreste decidere di proporla in abbinamento con un olio evo che abbia dei profumi e degli aromi spiccati di rucola selvatica. Quest’anno mi è capitato di provare un olio

calabrese che avesse proprio queste caratteristiche!

Chi assaggerà la vostra pizza non vedrà la rucola, perché in effetti non c’è ma percepirà lo stesso il suo profumo e il suo aroma. Geniale no?!

Principio dell’accostamento

Quanti pizzaioli ripropongono la loro versione della parmigiana sulla pizza? Direi tanti.

Fior di latte, melanzane fritte e sugo di pomodoro adornano il disco di pasta lievitato più buono del mondo. Ad arricchire questa esplosione di sapori, l’abbinamento con un olio della cultivar “tonda del Matese” che ha degli spiccati sentori di bacca di pomodoro non può che rendere più intensa e più avvolgente questa pizza, così da far diventare l’olio evo un vero e proprio esaltatore di profumi e di aromi.

Che sia per completamento o per accostamento sta a voi deciderlo: l’importante è che l’olio sia evo, buono e…nuovo.

PIZZA OVALE E IMPASTI CREATIVI.

storie di pizza

MASSIMO ROSSETTO, IL

PIZZAIOLO ALTERNATIVO.

Una vita, quella di Massimo Rossetto, letteralmente con le mani in pasta. Da quando aiutava il padre in pizzeria a 12 anni ad oggi, a distanza di 40 anni, non ha mai smesso e lo fa - oggi come allora - sempre allo stesso modo, a mano.

Sembrerà folle - e lui stesso lo ammette che un po’ lo è – ma il pizzaiolo di Polcinigo (Pordenone) ha rinunciato ad ogni aiuto tecnologico e macchinario per le sue pizze; per di più, per facilitarsi il lavoro, ogni settimana propone 7 impasti di tipo diverso, così che le sue pizze non saranno mai uguali a quelle della settimana precedente. Creativo, estroso, alternativo, controcorrente: chiamatelo come vi pare, qualsiasi aggettivo calza a pennello; di sicuro, Massimo Rossetto è la risposta concreta alla domanda del momento, se l’intelligenza artificiale sostituirà l’uomo. Massimo Rossetto non si definisce un pizzaiolo qualunque; nella sua lunga carriera ha sempre cercato di proporre dei prodotti diversi dal solito, un pizzaiolo fuori dagli schemi, sicuramente non uno di quelli che si accontentano di seguire i trend ma amano sperimentare, provare, fallire e alla fine riuscire.

della Pizza a Castocaro 1992

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Campionato Mondiale

E così la sua dedizione all’arte bianca lo ha portato a creare combinazioni uniche, costruendo intorno al concetto di pizzeria un'esperienza originale e inimitabile. Dalle sue parti lo definiscono per l’appunto “l’artista degli impasti” e questa sua grande passione si è anche trasformata in un libro "La pizza mi ha salvato la vita", in cui racconta il suo percorso, le difficoltà e le soddisfazioni di una carriera dedicata all'arte della pizza e dove si trovano anche alcune delle sue ricette delle pizze più strane.

Massimo, quando e come ti avvicini alla pizza?

Tutto è iniziato per necessità più che per passione. Era esattamente il 1984 quando ho cominciato ad aiutare nella pizzeria di famiglia ad Aviano (Pn), all’epoca ero un ragazzino e aiutavo quando c’era bisogno, fino a quando ho completamente sostituito mio padre che all’epoca non stava bene. E già fin da allora avevo le mie “manie”, perché proposi a mio padre la pizza ovale, invece che tonda. Nel 1987 cominciarono ad arrivare i primi riconoscimenti e nel 1992 partecipai alla prima edizione del Campionato Mondiale della Pizza a Castocaro.

Dopo 10 anni, mio padre decise di chiudere la pizzeria e di prendere un’altra strada ma io ho continuato questo mestiere, che oramai mi era entrato dentro, lavorando per altri. Ovviamente sono dovuto per forza di cose tornare alla forma tonda ma se in pizzeria avessi rispettato le regole, a casa avrei continuato a sperimentare.

E arriviamo qui al tema degli impasti, che è l’aspetto che caratterizza

maggiormente il tuo lavoro.

Nel 2011 ho avuto la fortuna di trovare una pizzeria che ha appoggiato la mia idea sugli impasti e mi ha permesso di farne 5 diversi da proporre nel menu. In tutto questo tempo, le tipologie di impasto sono diventate ben 35 e nel mio locale “Quelli dell’Isola” a Polcinigo, che gestisco con mia moglie, ne propongo 7 a settimana, sempre diversi. Sono tutti impasti saporiti, ovvero fatti con uno o più ingredienti che colorano e insaporiscono.

Ci spieghi in dettaglio come li lavori?

La lavorazione di ogni impasto avviene solo a mano, per non rompere le fibre; così facendo, mi rendo anche conto se l’impasto è carente di acqua o di farina. Lavoro con farine di un mulino locale e preparo un impasto cosiddetto “facilitato” con lievito di birra che, nell’arco delle 12 ore, è pronto per essere steso e infornato. Una lievitazione più lunga come quelle moderne di 24 o 48 ore ne comporterebbe il deterioramento. Inoltre, anche il tasso di umidità incide molto nella riuscita del tutto.

Ogni mattina sono in pizzeria ad impastare, in modo che per la sera sia tutto pronto per essere steso, farcito e cotto. Insieme ad acqua, lievito, farina e sale, inserisco degli ingredienti, materie prime solo stagionali di cui conosco la provenienza e che tratto precedentemente per poi amalgamare nell’insieme. In estate c’è l’ortica, che lesso, frullo e poi lavoro per ottenere un impasto fresco, saporito e verde splendente. C’è l’impasto ai funghi in autunno o al cavolo nero in inverno, quello al radicchio, alla curcuma, alla castagna, alla zucca, al mirtillo e menta. Tanti colori ma soprattutto tanti sapori per pizze sempre differenti, che attirano molto la curiosità dei clienti.

A ogni creazione il suo momento.

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Cinque farine, cinque tempi di lievitazione, un’unica missione: trasformare ogni impasto in un capolavoro di gusto.

E come studi i topping sui diversi impasti?

Ovviamente sono tutte pizze studiate ad hoc: anche in questo caso seguo la stagionalità degli ingredienti. Non utilizzo il pomodoro, che tende a coprire e rovinare l’aroma dell’impasto stesso ma mi piace usare elementi particolari e creare degli abbinamenti creativi. Tra questi, per esempio, amo utilizzare anche la frutta, le glasse e, comunque, sempre prodotti lavorati da me in cucina. Ogni impasto ha il suo topping pensato ad hoc per quel sapore; in questo modo cerco di valorizzarlo, poi capita che per alcuni tipi di impasto ci siano dei topping abbastanza trasversali, facilmente abbinabili, che danno anche risultati differenti a seconda della base scelta. Per esempio, la pizza con le pere, porro, gorgonzola e speck – in base alla tipologia di impasto – acquista ogni volta un gusto differente, una fusione di sapori che può sembrare insolita ma che, con l'impasto giusto, diventa un viaggio gustativo straordinario. E c’è da dire che ogni nuova creazione nasce da giorni di prove e perfezionamenti. Nel weekend utilizziamo poi gli stessi impasti per realizzare dei panini, in questo modo abbiamo meno spreco possibile.

Abbandonare la pizza classica per una tonda, anzi ovale, creativa per te è stato naturale e voluto, ma le persone di Polcenigo e dintorni come l’hanno recepita?

È stata dura e ci è voluto tempo. All’inizio mi sentivo incompreso, soprattutto quando lavoravo in altri locali. Poi, quando nel 2016 sono riuscito ad aprire una pizzeria tutta mia, “L’Isola” a Malnesio (Pn), le cose hanno preso un’altra piega, complice mia moglie, che - come responsabile di sala e del servizio - rispondeva alle domande, spiegava e consigliava. Con questa modalità, il messaggio è arrivato prima e bene. Oggi ci sono clienti che vengono con la curiosità di provare l’impasto settimanale ed altri che, sulla scelta del topping, mi dicono: “fai tu”. Per far capire meglio la nostra filosofia a chi viene a trovarci, ho introdotto il format di degustazione che propone un'intera cena a base di pizza, dall’antipasto alla pizza dolce.

Oltre alle pizze ovali e ai panini, ti sei inventato anche un altro formato: il fagotto. Possiamo definirlo una rivisitazione del calzone?

Il concetto è simile, si tratta di una pizza ripiegata e ripiena ma il mio fagotto ha proprio la forma del fagotto ed è composto da tre diversi impasti per creare sfumature di colore diverso: curcuma, rapa rossa e cavolo nero, farcito con germogli di soia, pancetta al curry, ricotta di capra e gocce di peperone.

Il tutto viene impreziosito da un topping di rucola, pomodorini, crema di pistacchio e glassa di lampone.

Quali sono gli impasti che piacciono di più? I più richiesti? Il suo preferito?

Quello più richiesto in assoluto è l’impasto al porcino in autunno, mentre in estate quello all’ortica e in inverno al cavolo nero. Il mio preferito è l’impasto al caffè e menta: mi piace il gusto che ne viene fuori, così come in generale mi piace il profumo che i vari impasti emanano mentre li lavoro.

E ora quali sono gli obiettivi o i desideri da realizzare?

La nostra nuova pizzeria “Quelli dell’Isola” aperta lo scorso anno a Polcinigo, uno dei borghi più belli d’Italia, è il mio nuovo obiettivo, la continuazione di un sogno ed il mio impegno per il futuro. Mi piace sentirmi libero e indipendente, non seguire le mode e proporre la mia personale idea di pizza. E da quanto possiamo leggere siamo certi che Massimo Rossetto non si accontenterà mai dei soliti classici, ma cercherà sempre di dire la sua e creare un'esperienza unica intorno alla sua pizza.

“Gli

il buon pomodoro italiano

tisti della pizza”.

Tante idee da assaporare ogni mese con i nostri dodici “Artisti della pizza”. Gennaio è stato dedicato al nostro caro pizzaiolo Fabio Mutignano, che ci presenta la sua deliziosa creazione, “Terra mia”. Preparata con pomodorini datterini con peperoncino, patate viola, fiori di zucca e provola sottile. Questa pizza celebra i sapori della terra con un tocco di passione, un vero e proprio matrimonio in rosso che accende il cuore e il palato, dove la dolcezza dei datterini incontra il brio del peperoncino, mentre la delicatezza dei fiori di zucca e il profumo della provola si fondono in un’armonia perfetta.

A COSA SERVE LA SCUOLA?

Che il mondo stia cambiando lo vediamo ogni giorno anche nella cucina e nella ristorazione. Siamo in piena globalizzazione, tuttavia esistono nel pianeta due culture alimentari e gastronomiche che non vanno né dimenticate né confuse. In Occidente, le basi dell’alimentazione sono: il frumento, l’olio d’oliva e il vino, con l’aggiunta in subordine di polenta, altri cereali e birra. Nella cucina orientale, a cominciare dalla Cina, le basi sono rappresentate da: riso, soia, tè. In entrambe le parti si aggiungono i prodotti storici locali, ad esempio le spezie in oriente e la frutta tipica del luogo.

La globalizzazione ha però confuso queste antiche tradizioni, per cui anche nel nostro mondo occidentale troviamo il riso, la salsa di soia e il tè serviti a tavola.

Le scuole alberghiere

LINEA DORI 3000 SRL

Via di Vigna Girelli 48/b 00148 Roma, Italia

Tel/Fax +39 0665671626

info@lineadori.com

Come per tutte le professioni, anche per quelle ristorative serve una preparazione adeguata che i giovani apprendono frequentando apposite scuole. In Italia queste scuole sono di due tipi: gli Istituti Professionali di Stato, di durata quinquennale e i Centri di Formazione Professionale di durata triennale con l’aggiunta di un anno di specializzazione. Oltre a queste scuole, ci sono anche dei corsi per pizzaioli, ma sono convinto che ormai questa materia dovrebbe essere inclusa nei programmi delle scuole prima ricordate. In entrambe le tipologie di scuole indicate, ci sono quasi ovunque ottimi insegnanti che permettono di far apprendere anche i piatti più importanti delle tradizioni locali, oltre a sperimentare le novità.

Compito di queste scuole è anche quello di salvaguardare le caratteristiche princi-

www.lineadori.com

Le di legno, che affonda le sue origini in una piccola bottega artigiana nel centro storico Roma, dove ogni pezzo veniva realizzato a mano con legni selezionati e stagionati. Fabio Dori, figlio di Cesare, amando il lavoro del padre, ha portato avanti la sua piccola bottega trasformandola in un’azienda. La Linea Dori, ad oggi, è leader nella progettazione e produzione di attrezzature professionali per panifici e pizzerie. Tali attrezzature, apprezzate in tutto il mondo per loro unicità, robustezza e funzionalità, vengono costruite con macchinari all’avanguardia nel rispetto di antiche tecniche di lavorazione, usando legnami che provengono da foreste ecosostenibili con programmi di rimboschimento. I suoi prodotti in legno vengono

pali della “civiltà della tavola” del territorio, pur con gli aggiornamenti richiesti dall’evoluzione del gusto e delle regole nutritive. Si può affermare tranquillamente che le scuole alberghiere italiane si sono molto evolute negli ultimi decenni anche con confronti fra regione e regione, con esperienze all’estero e, da qualche anno, con la partecipazione alla “Giornata della cucina italiana” nel mondo, realiz-

tutti gli articoli destinati ad entrare in contatto con gli alimenti sono lavabili a mano, grazie alla finitura alimentare certificata con cui vengono trattati. La Linea Dori 3000 srl è in costante aggiornamento per tutte le esigenze degli operatori dell’Arte Bianca garantendo il massimo della professionalità con un prodotto certificato e idoneo alle normative vigenti, GMP e ISO9001. La sua missione è quella di migliorarsi sempre e di portare nel futuro la sua tradizione Made in Italy attraverso l’impegno della terza generazione, Fabiola e Camilla Dori.

Produzione attrezzature professionali in legno per panfici, pizzerie e ristoranti a norma con le vigenti leggi per il contatto alimentare.

06 65 67 16

zata con pranzi tipici italiani nelle nostre Ambasciate indette dal governo italiano in collaborazione con l’Accademia Italiana della Cucina. Queste ed altre esperienze con simili servono a preparare bravi professionisti operatori di cucina, di sala e sommelier, preparati questi ultimi in corsi organizzati dalle associazioni di settore.

Nella cucina italiana, a differenza della cucina francese, a contare sono soprattutto i prodotti impiegati e, sotto questo profilo, l’Italia ha una varietà e qualità di prodotti impensabile altrove. In Francia, più che i prodotti conta l’arte dei cuochi che, nei grandi ristoranti, sanno incantare con la loro bravura i clienti che arrivano da ogni parte del mondo.

paese. Per capire l’importanza dei sughi, basta dire che chi serve una pasta con il ketchup non presenta un piatto italiano ma rovina un piatto che non ha nessun valore gastronomico.

Su questi temi ci sarebbe molto altro da scrivere (cosa che faremo anche in seguito) perché servire negli USA, in Giappone, e negli altri Paesi del nostro pianeta una cucina veramente italiana farebbe amare ancor di più la nostra cucina, aiutando l’economia agroalimentare italiana e attirando in Italia il ricco turismo enogastronomico internazionale, sempre in movimento, alla ricerca di cucine e di piatti che sappiano mostrare la nostra civiltà enogastronomica e regalare davvero e generosamente il piacere della tavola.

Abbiamo scritto altre volte che la cucina italiana è molto apprezzata in tutti i continenti e, anche per questo, all’estero ci sono decine di migliaia di ristoranti che portano il nome o le insegne del nostro tricolore. Personalmente, ho trovato ottime cucine italiane dal Giappone al Messico, come ne ho trovate tante altre che di italiano non ne avevano nulla. Ora, a prescindere della bravura dei cuochi, la cucina italiana all’estero si caratterizza per due aspetti: innanzitutto la preparazione del personale che dovrebbe essere realizzata in Italia dalle scuole alberghiere e dalle università con appositi corsi per stranieri. In secondo luogo, queste cucine, per essere definite italiane, dovrebbero usare prodotti italiani; in particolare, pasta, riso, olio evo, salumi, prosciutti, formaggi e soprattutto salse e sughi tipici del nostro

La cucina italiana nel mondo

storie di pizza

L’ARIETE DI PONSACCO

CINZIA BONFRISCO

“Siamo quello che mangiamo. Il mio obiettivo è il benessere delle persone.”

Cinzia Bonfrisco, proprietaria de L’Ariete a Ponsacco (Pisa)

“Mens sana in corpore sano” (“mente sana in corpo sano”) è una sentenza tratta da un verso di Giovenale – poeta romano e fautore di satire –, oggi un mantra per molti: da un lato si riferisce al fatto che l’individuo, per stare bene, necessita di mantenere un costante equilibrio tra la mente e il “proprio io”, indagare e proteggere se stesso, ridurre al minimo situazioni stressanti o evitare la mancanza di sonno.

Dall’altra che è necessario mantenere uno stile di vita equilibrato, il meno possibile sedentario e soprattutto non “disordinato” da un punto di vista culinario: è fondamentale infatti tenere un’alimentazione sana e bilanciata. Questo va spesso in contrasto con il desiderio di molti di mangiare come si vorrebbe. Il punto però è che non necessariamente “fare la dieta” significa “rinuncia”.

Per i Greci díaita – da cui la nostra “dieta” – significava “stile di vita” e designava in genere una regola, una condotta non necessariamente legata al cibo. Nel tempo ha assunto un significato nettamente più limitato, si è lentamente consolidata l’idea per la quale seguire una dieta vuol dire appunto porsi dei limiti, il che può essere vero in un certo senso, ma non vuol dire necessariamente dover rinunciare a mangiare o a una serata in compagnia o semplicemente sentirsi felici. Siamo sinceri: magiare e soprattutto farlo in maniera soddisfacente è sinonimo di felicità.

Dunque, così come molti “clienti” sentono la necessità di mangiare sano senza dover soffrire, alcuni ristoratori sentono l’esigenza di accontentarli e mirare a una proposta “benefica”, che possa accontentare tutti. È il caso di Cinzia, un’imprenditrice proprietaria di diversi locali, tra cui “L’Ariete” a Ponsacco, che punta proprio a questo, un menu inclusivo, leggero ma gustoso.

Cinzia, da quanto tempo sei nell’imprenditoria?

Dall’età di 23 anni, oggi sono mamma di due figli. In realtà avevo lavorato per cinque anni in uno studio dentistico come assistente alla poltrona, poi conobbi il mio ex marito – un cuoco e pizzaiolo – e insieme aprimmo “L’Ariete” nel 1993. Entrambi avevamo un sogno ed eravamo molto determinati. All’inizio non è stato facile, ovviamente ma quando hai una meta, se la persegui con determinazione, la raggiungi.

Come mai “Ariete”?

In realtà il locale esisteva e si chiavava così, decidemmo di tenere il nome.

E poi cosa è successo?

Quattro anni fa è nato il progetto di panificazione “Low Carb” e con esso la linea “Bella Vita” che vendo anche attraverso un e-commerce: prodotti 100% naturali, realizzati con amido resistente. Avendo un basso indice glicemico, ha un impatto minore sui livelli di zucchero nel sangue rispetto alle farine tradizionali. Questo la rende un'ottima scelta per coloro che cercano di seguire una dieta a basso contenuto di carboidrati o che vogliono mantenere stabili i livelli di zucchero nel sangue. Dove c’è il laboratorio, abbiamo anche un punto ristoro, pranzi veloci e bar, a Pisa centro.

Ma come ti è venuto in mente?

Prima ero più operativa nei locali, oggi mi occupo più della strategia e delego. Quando parlavo con le persone al ristorante – specialmente in merito alla pizza – mi sentivo spesso dire: “non posso mangiarlo perché fa ingrassare” o “sono a dieta” o sono diabetico” e cose così; io mi domandavo come fosse possibile non poter mangiare un prodotto d’eccellenza italiano come la pizza. Mi capitò questa miscela per caso e, con l’aiuto di un chimico, creai questa pizza con valori specifici adatta a tutti. Poi ho conosciuto Lorenzo Rancati, il quale mi ha parlato di “Vitamill”, una farina a basso indice glicemico creata e commercializzata da “Grandi Molini Italiani”, che ho abbracciato e introdotto ne “L’Ariete” immediatamente. Proponiamo dunque due impasti “salutari”: uno senza carboidrati, nato da “Low carb” che ha dato origine alla pizza Bella vita ed è vegetale e uno con Vitamill, da cui la pizza a basso indice glicemico Fibra Più. Inoltre, ho un altro e-commerce, attraverso il quale vendiamo “Linea più”, una linea di prodotti (pasta, basi pizza, pane, biscotti) venduti online, che ha sviluppato Lorenzo. Sono dei prodotti fantastici, innovativi e che vanno a favore del benessere e della salute delle persone.

Quali sono i maggiori vantaggi?

È una pizza molto leggera, digeribile, non fa ingrassare, è benefica, ma soprattutto è a basso indice glicemico. In pratica è una figata! Purtroppo, i diabetici sono molti.

E il gusto com’è? Quanto cambia rispetto a un tradizionale impasto?

È buonissima. Tra l’altro usiamo tutti prodotti ottimi e di qualità. Sul menu abbiamo entrambi gli impasti, spiegati al dettaglio.

Quindi si potrebbe dire che la filosofia che ti guida è il benessere… Assolutamente, è ciò a cui miro.

Però so che non si tratta solo di

pizza ma che adotti lo stesso metodo anche per la pasta.

Sì. Proponiamo tre tipi di pasta “Low Carb”: spaghetti, penne e strozzapreti, ma anche gnocchi. Hanno le stesse caratteristiche della pizza. Con l’e-commerce vendiamo in tutta Italia, anche le tagliatelle.

Insomma, hai voluto diversificare ma diversamente dal solito… E in merito ai dolci, anche in questo caso tratti prodotti non consueti?

Ne abbiamo tra i 10 e i 12, tutti artigianali e che vanno tantissimo, la gente ne mangia in quantità industriale. Di questi, tre o quattro li prepariamo con delle accortezze: eritritolo – un dolcificante che non fa male – al posto dello zucchero, burro chiarificato al posto di quello classico, per la frolla uso una farina “Low Carb”. Insomma, non fanno male e possono mangiarli tutti. Qualche esempio sono la torta della nonna, il tiramisù la Cheescake. Il gusto è davvero saporito.

Tu però non cucini.

No, in realtà come ti dicevo non sono più molto operativa, mi dedico piuttosto al marketing e alla strategia.

Scusami la domanda un po’ “off topic”: sei una donna in carriera da molti anni ormai, una “leader” ed erroneamente il ruolo della donna è sempre stato sottovalutato. Trovi che questa triste visione abbia avuto qualche svolta? Che sia cambiato qualcosa?

Assolutamente sì. Ti racconto una cosa: da quattro anni frequento una scuola per imprenditori a Bologna, creata da un uomo, Paolo Ruggeri, il quale gestisce aziende in tutto il mondo e sai lui che dice? Che una donna al vertice di un’azienda raggiunge molti più risultati, migliori, che va più spedita. Le sue aziende hanno tutte una leadership femminile. Si butta un po’ di fango su una credenza senza alcun fondamento. Grazie a lui, a prescindere, la mia azienda ha triplicato il fatturato. Solo nella mia pizzeria siamo almeno 20 collaboratori interni.

Finalmente qualcuno lo ha detto, anzi un uomo lo ha detto! (Ridiamo)

Ma torniamo al ristorante: la vostra è una proposta multipla, quale va per la maggiore?

La braceria è al primo posto, abbiamo una carne molto ricercata anche dall’estero, così come eccellenze italiane.

C’è un bel frigo in sala dove frolliamo e una braceria al centro dove i clienti possono tranquillamente guardare la cottura della propria carne. Poi c’è la pizza, per la quale abbiamo il forno a legna.

E per gli ingredienti?

Usiamo tutte cose molto naturali e semplici. Fior di latte o pomodoro artigianale che viene dal Sud Italia. Abbiamo pizze classiche come la 4 stagioni, la Capricciosa, ma anche più gourmet, magari con il tartufo o comunque prodotti che le rendono più ricercate.

Vi capita che una persona senza

esigenze particolari richieda dolci o piatti “salutari” solo per provare e poi li riprenda?

Negli ultimi due anni le persone fanno più attenzione. Stiamo andando sempre più nella direzione della consapevolezza. Questo mi gratifica, perché vorrei fare de “L’Ariete” l’unico locale nella zona nel quale si mangia bene, con prodotti che fanno bene, che si allineino con il benessere delle persone. Questo è il mio obiettivo ma devo andare gradualmente, pensare anche al fatturato e quindi non è possibile – almeno per il momento – dare una svolta definitiva.

Immagino ci sia la paura di perdere una fetta di clienti.

Sì, devo fare attenzione a non perdere quella fetta di fatturato proveniente da persone che non hanno ancora ben compreso il concetto di “benessere e attenzione”. Anche perché qui ho la responsabilità di quasi venti famiglie sulle spalle, non posso permettermi di andare a perdere.

Componi per me un menù salutare, dall’antipasto al secondo, passando per una pizza.

Antipasto: ti proporrei una bruschettina della casa con pane “Low Carb” con condimento leggero o un piatto di bresaola con una bella burrata dal Sud Italia. Per primo, una pasta sempre con amido di tapioca con ciliegino fresco e basilico o la salsa “L’Ariete”, un concentrato di pomodoro e funghetti leggermente piccantina o un semplice primo a base di verdure. Secondo: un bel filettino o una pizza “Bella Vita Low carb”, una margherita con pomodoro, bufala e basilico fresco o una vegetariana con verdura.

storie di pasta

LA CUCINA DELLA MAMMA

LAURA PLAGA PORTA L’ITALIA NEL PIATTO IN PROVENZA

di Antonio Puzzi *

Laura Plaga è titolare del ristorante - pizzeria “La mamma”, situato a due passi dall’arena romana di Arles, alle porte della Provenza e della Camargue. Laura si è trasferita in Francia perché si è perdutamente innamorata di questi luoghi durante un viaggio di studio per approfondire la conoscenza del Francese. «I miei genitori avevano un bar – tabacchi e trattoria in Italia», ci racconta.

«Poi, a un certo punto, mio papà venne a mancare ma io e mia sorella eravamo troppo giovani per gestire da sole il locale, quindi mia madre decise di vendere, con la promessa che un giorno mi avrebbe aiutato a comprare un locale tutto mio. Così, poiché fino ad allora avevo lavorato con loro, mi ritrovai con molto tempo libero e decisi di venire un po’ in Francia. Ero venuta qui in vacanza e per imparare il francese, per migliorarmi in francese; per caso, trovai lavoro e restai qui; poi, un bel giorno, ho telefonato a mia madre e le ho detto: “Ora sono abbastanza grande, ho 38 anni e, se puoi, è il momento di aiutarmi a comprare il mio locale”. Siccome avevo già lavorato qui, dove ora c’è il mio locale, sapevo che il posto sarebbe stato ottimo, così ho chiesto al proprietario se me lo vendesse. All’inizio mi disse di no ma poi, dopo un po’, l’ha venduto. E successivamente è diventato il mio compagno ma questa è un’altra storia».

Quanto è apprezzata in Francia la cucina italiana?

Penso sia molto apprezzata, oggi c’è anche un po’ la moda della pasta al dente, si sente parlare spesso di Dieta Mediterranea… e poi sono tutti proprio entusiasti dell’Italia, della cultura italiana. La gente dice che noi siamo tutti artisti, che siamo musicisti, che abbiamo una lingua “qui

chante”, dicono loro, ovvero molto musicale. E, quindi, insomma, si diventa proprio fieri di essere italiani stando all’estero.

Da chi è formato il pubblico del tuo locale?

Sicuramente, tanti italiani e francesi. Poi, ci sono tantissimi tedeschi, belga, americani, olandesi e spagnoli, quindi c’è anche un bello scambio. Se tornassi indietro, rifarei la scelta che ho fatto, però avrei fatto la scuola alberghiera. Ho una maturità in grafica e fotografia, grafica tecnica, grafica della pubblicità, insomma non c’entra niente.

Però i miei genitori erano in questo settore qui e, quindi, alla fine della fiera, sono ritornata alla sorgente.

È una bella storia! Mi interessa anche capire quali sono per esempio alcune delle ricette che proponi nel tuo locale.

Diciamo anche che poiché il locale si chiama “La mamma”, non posso che proporre una cucina semplice, familiare, ovvero: lasagne, cannelloni. E poi facciamo tutto con prodotti freschi fatti al momento.

Tu sei di Milano: la cotoletta alla milanese la fai?

Ma certo! Anche se ho dovuto fare un sacrilegio! Perché ai Francesi piace mangiare la pasta con la carne e, allora, bisogna accontentarli. Così, ho dovuto mettere la cotoletta alla milanese con di fianco la pasta alla bolognese, ed è proprio una cosa a cui non ho mai potuto abituarmi; ogni volta che la porta dico: non è possibile. Eppure, a loro piace così. Però, se sento che c’è un tavolo di italiani, non lo chiedo neanche e porto il contorno normale con patatine, verdure o un po’ di insalata.

Da dove prendi i prodotti per realizzare queste ricette italiane?

Abbiamo dei fornitori molto validi che mi conoscono bene, infatti mi dicono che sono un po’ “rompi” perché sono molto esigente sulla qualità: se non mi piace, rimando indietro le consegne. Ho trovato un bravo fornitore qui ad Arles; a dire il vero, ne ho due e poi ho anche un vicino di casa che fa i mercati; quindi, a volte mi rifornisce per le verdure.

Prima, però, mi dicevi che hai dovuto modificare alcune ricette italiane per il pubblico locale: fino a che punto per te la tradizione è importante?

È importante, però, diciamo che non ho dovuto neppure modificare molto. A parte il contorno della cotoletta, i saltim-

bocca, per esempio, li abbiamo dovuti arrotolare perché altrimenti, quando li fai cuocere distesi, il prosciutto diventa un po’ secco e ai Francesi questa cosa non piace.

E le lasagne, invece, le hai modificate?

No, le lasagne no: quelle non si toccano, poi piacciono così.

La Francia, comunque, ha una cucina straordinaria, ricchissima anche di ricette e di ingredienti: cosa oossiamo offrire noi italiani alla Francia?

Diciamo che possiamo offrire la semplicità, perché i Francesi sono sempre “un po’ complicati”. Alla fine, invece, se si fa scoprire che magari anche solo pomodoro, mozzarella, due foglie di basilico, un goccio d’olio d’oliva è un piatto buonissimo e che non c’è bisogno di fare le salsine, si abituano e apprezzano.

Qual è il tuo piatto preferito che proponi in questo locale?

Beh, penso le lasagne o la cotoletta alla milanese.

Come la fai la lasagna?

Allora le lasagne che prepariamo qui le chiamano “alla bolognese”. Quindi facciamo il ragù e la besciamella, poi sbollentiamo le lasagne (perché sui pacchetti c’è scritto che si possono mettere al forno anche così ma non è vero, non è la stessa

cosa, bisogna sbollentarle) e poi fai gli strati con ragù e besciamella. Poi, ci mettiamo sopra un po’ di Emmenthal, perché qui la fontina non c’è e poi il Parmigiano lo mettiamo di fianco sul tavolo, perché non piace a tutti. Però, è successo che, nel corso degli anni, mi sono accorta di questo cambiamento sul Parmigiano: prima non lo volevano e poi si sono abituati e lo mangiano tutto; sono diventati dei fan del Parmigiano, anche.

C’è un piatto che ti ricorda la tua infanzia?

Mia mamma faceva i ravioli, che io non riesco a riproporre al locale perché richiedono tempi di preparazione troppo lunghi: mia mamma cominciava il giorno prima a cuocere le carni. Poi, si condivano o con solo burro e salvia oppure faceva il brasato e, poi, col sugo del brasato venivano conditi.

Quanto è importante per te la sostenibilità nella proposta di cucina del tuo locale?

Molto importante: già negli acquisti cerco di comprare prodotti “a chilometro zero” per ridurre la distanza del trasporto; poi, con i resti alimentari, c’è l’aiuto cuoco che ha degli animali, li mette in un secchio e li porta ai suoi animali.

E tu non hai animali da cortile, un orto?

Io prima avevo delle galline che poi le volpi mi hanno mangiato. Insomma, mi sono stufata perché la volpe è furba e riesce sempre a entrare.

Cos’è per te la cucina italiana?

La cucina italiana è una tradizione. E, poi, è una cosa seria, perché spesso si ha l’impressione che all’estero l’alimentazione

sia presa sottogamba; invece, ormai tutti i medici dicono che è fondamentale per la salute; quindi, è anche una responsabilità preparare da mangiare per gli altri. La cucina italiana, diciamo, che invece quasi “istintivamente” è orientata su tutte le cose che fanno bene.

Qual è il futuro della cucina italiana all’estero secondo te?

Secondo me, ha un grande avvenire. Perché piace e poi non è costosa, cioè con poche cose si possono preparare dei piatti prelibati. * Questo articolo, così come l’intervista a Ivan Pasquariello apparsa nel numero di dicembre, è frutto di un viaggio di ricerca etnografica compiuto nel Sud della Francia grazie ad un progetto finanziato su fondi PNRR nell’ambito del Dottorato di ricerca nazionale in Heritage Science, coordinato dall’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e dall’Università degli Studi di Napoli “Suor Orsola Benincasa”.

Farine senza glutine: come scegliere quelle "giuste"?

Scegliere le farine senza glutine può sembrare una sfida, soprattutto per chi si affaccia per la prima volta a questo mondo. Le opzioni sul mercato sono tante: dai prodotti naturalmente privi di glutine ai mix pronti pensati per semplificare la vita in cucina, passando per quelli arricchiti con amido di frumento deglutinato.

Ognuna di queste soluzioni ha caratteristiche specifiche e peculiarità che vale la pena esplorare per comprendere come sfruttarle al meglio. Le farine naturalmente prive di glutine sono quelle che, per loro natura, non contengono questa proteina. Si ottengono da cereali, pseudocereali, legumi, frutta secca o tuberi e offrono una varietà straordinaria di sapori e consistenze. La farina di riso, per esempio, è la più comune grazie al suo sapore neutro e alla versatilità che la rende adatta per dolci e biscotti. Tuttavia, ha il limite di produrre impasti più fragili, motivo per cui spesso si abbina ad altre farine.

La farina di mais, invece, è ideale per preparazioni rustiche come tortillas e polenta, grazie al suo gusto deciso. Il grano saraceno, nonostante il nome, non contiene glutine ed è perfetto per ricette dal carattere forte come le crepes e il pane. Altre opzioni interessanti sono la farina di mandorle, ricca di grassi e proteine, che conferisce una consistenza morbida e umida ai dolci, e le farine di teff e sorgo, apprezzate per il loro apporto nutrizionale e il sapore delicato.

Queste farine sono ottime per chi desidera utilizzare ingredienti semplici e naturali ma possono essere più difficili da gestire in cucina, soprattutto nella panificazione, dove l’assenza di glutine si fa sentire. Per superare questa difficoltà, molte persone optano per i mix pronti senza glutine, prodotti formulati specificamente

per offrire risultati ottimali in termini di elasticità e consistenza. Questi mix combinano diverse farine, amidi e addensanti come la gomma di xantano o di guar, riuscendo a replicare in modo convincente le proprietà del glutine. Ciò li rende particolarmente adatti per chi desidera preparare pane, pizza, dolci o pasta fresca senza dover calcolare proporzioni o aggiungere ingredienti extra. Inoltre, molti di questi mix sono senza lattosio, pensati per soddisfare le esigenze di chi ha intolleranze multiple.

Esistono poi i mix a base di amido di frumento deglutinato, una soluzione che genera opinioni contrastanti ma che merita attenzione. Questo ingrediente si ottiene attraverso un processo che elimina il glutine dal frumento, mantenendo intatte le proprietà dell’amido. Il risultato è una farina che consente di ottenere impasti molto simili a quelli tradizionali, sia per consistenza che per lavorabilità. Tuttavia, non tutti si sentono a loro agio con l’idea di utilizzare un deri-

vato del frumento e alcune persone con sensibilità estrema al glutine preferiscono evitarlo. Dal punto di vista pratico, i mix con amido deglutinato rappresentano una scelta interessante per chi cerca un risultato il più possibile vicino a quello delle farine con glutine, soprattutto nella preparazione di pane e pizza.

Per scegliere la farina giusta, è importante partire dalla ricetta che si desidera realizzare. Preparare un dolce richiede farine con caratteristiche diverse rispetto a quelle necessarie per il pane o la pizza. Per esempio, la farina di mandorle o quella di riso sono perfette per i dolci grazie alla loro leggerezza, mentre per il pane potrebbe essere utile una combinazione di farina di sorgo e amido di tapioca. Anche le esigenze nutrizionali possono influenzare la scelta: chi cerca un maggiore apporto di fibre potrebbe orientarsi verso farine integrali come quelle di teff o grano saraceno. Non va trascurata, inoltre, l’importanza della conservazione. Le farine senza glutine, specialmente quelle integrali o a base di frutta secca, tendono a irrancidire più velocemente rispetto a quelle tradizionali. È consigliabile conservarle in un luogo fresco e asciutto, preferibilmente in contenitori ermetici. Le farine più delicate, come quelle di mandorle o di cocco, si conservano meglio in frigorifero o nel congelatore.

Scegliere la farina senza glutine "giusta" non è solo una questione tecnica ma anche un’opportunità per sperimentare nuovi sapori e approcci in cucina. Con un po’ di pratica e curiosità, è possibile scoprire quanto la varietà di farine e mix senza glutine possa trasformare ogni ricetta in un’esperienza unica e soddisfacente, dimostrando che mangiare senza glutine non significa rinunciare al gusto o alla qualità.

® BORN TO BURN

specchio della IL MONDO DEL

Come la pizza, anche il gelato esprime un concetto più che una mera preparazione: un know how che, sebbene non sia di origine italica, qui si è sviluppato ed evoluto, assumendo caratteristiche peculiari che lo distinguono da tutti gli altri appartenenti della famiglia dei freddi. Anche (ma non solo per questo) non è traducibile né confondibile con icecream o creme glacés.

Potremmo farne una banale storia di numeri, sciorinando statistiche e percentuali, concentrandoci sui fatturati e consumi di coppette pro-capite, esplorando la distribuzione sul territorio nazionale e sul calendario, eppure nessuno di questi dati, da solo o combinato, riuscirebbe comunque a dare una fotografia rappresentativa ed esaustiva di quello che é il variegato mondo del gelato italiano nel Belpaese e nel mondo. Non é nemmeno così facile ridurre il tutto in “artigianale” e “industriale”: esistono

infatti una serie di sfumature che rendono la classificazione della produzione gelatiera più complicata di quel che sembra, non solo per la biodiversità di ingredienti e di creatività che ci contraddistingue, ma anche per un pruriginosa questione burocratica che rende ulteriormente faticosa una suddivisione chiara e priva di fraintendimenti. Nel nostro comune pensare infatti, siamo soliti ricondurre al mondo dell’artigianale un prodotto fatto a mano, unico e riconoscibile, rispettoso delle tradizioni e - perché no? - genuino. Peccato che ognuno di questi concetti viene contraddetto nei fatti quando si parla di gelato, soprattutto di gelato contemporaneo visto che, ad esempio, nessuno di questi potrebbe esistere ed essere prodotto a mano, senza l’impiego di macchine, che miscelano, pastorizzano, mantecano, stabilizzano e conservano affinché il risultato finale esprima al meglio le proprie caratteristiche organolettiche.

GELATO

gastronomia

Allo stesso tempo, non ci ritroveremmo sul cono ciò che abbiamo se, nel corso della sua storia, qualcuno non avesse pensato di uscire dalla strada più battuta e conosciuta, per percorrere altre vie: se così non fosse stato, oggi berremmo ancora ghiaccio condito, invece che mangiare gelato. La sua evoluzione, quindi, deve dire grazie a chi, incurante delle abitudini e incuriosito dal possibile, ne aggiunse man mano ingredienti o tecniche, cambiandone forma e struttura: di base è una miscela liquida che, tramite azioni meccaniche e reazioni fisico-chimiche, ingloba freddo e aria per diventare prima spatolabile e poi gustabile. Questo dovrebbe portarci

a una seconda riflessione: il gelato non esisterebbe nemmeno senza la chimica, quindi non dovremmo porci nei confronti di essa pregiudiziosi a priori e nemmeno farci trascinare nella retorica di un rassicurante “fatto come una volta”, confondendo l’antico come genuino: sappiate che le frodi alimentari sono sempre esistite e non per colpa della chimica in sé, grazie alla quale campiamo e trasformiamo ma di una generalizzazione sia semantica sia fraudolenta che se ne fa in alcuni casi (e in tutti i settori). La stessa considerazione è applicabile a molti altri vocaboli o concetti che girano in tutti i campi gastronomici (e non solo), a partire da quelli che ci sembrano più

confortevoli e rassicuranti (come naturale, km0, artigianale) a quelli che ci allarmano (come additivo, semilavorato, industriale): fobie alimentari nate e nutrite a suon di semplificazioni, slogan, informazioni elargite spesso in modo approssimativo e sibillino, per volontà o per ingenuità e forse anche per una certa pigrizia cognitiva umana che necessita di ridurre e riassumere il più possibile, fino a svuotare le parole di ogni significato e potenzialità.

La semplicità consta di una sua complessità, fatta forse di pochi elementi, ma tanti dettagli senza i quali non potrebbe definirsi tale. Basti pensare al pane, il cibo più basilare e quotidiano che mettiamo in tavola tutti i giorni. In apparenza semplice, una pagnotta racchiude tante complessità: sapori, saperi, tecnica, riti, errori, evoluzioni, involuzioni, territori, chimica, fisica, matematica, storia e molto altro. Cosa e quanto possiamo togliere da questo elenco, già ridotto, affinché quell’insieme di mollica e crosta possa ancora essere definito “semplice” e ancora riconosciuto come “pane”?

Capite meglio ora di quanto possa essere complessa la semplicità? Alcuni sbufferanno

tediati; i più diranno ok, facendo spallucce; altri cominceranno a vedere le cose in maniera diversa. Voi non sentitevi sbagliati in nessuno dei tre casi: in questo trittico siamo sommariamente rappresentati più o meno tutti; certo, mancano le sfumature, che sono utili ma, se le aggiungiamo, poi come e chi le gestisce? Non siete già stanchi?

Ecco ripartiamo da qui, dalla comprensione di noi, questo ingarbugliato insieme di sfumature e differenze, che chiamiamo umanità, variegata come tutti gli ambiti che ci riguardano, compreso quello della pizza e del gelato: siamo tanti, non tutti perfettamente rappresentati e descritti. Ma esiste almeno una cosa che ci rende, fortunatamente e drammaticamente, tutti non uguali ma simili. Ed è lì che dobbiamo cercare il nostro lato comune, preparandoci che esso potrebbe anche non piacerci affatto o addirittura sconvolgere le nostre abitudini e le nostre certezze. A questo punto vi aspetterete delle risposte, invece che altre domande e altri dubbi. E invece non troverete nulla di pronto e confezionato, nem-

meno di semilavorato: tutto è aperto e da fare. Date il vostro contributo umano, metteteci un’idea, un desiderio, un tassello, indipendentemente che siate chi fa o chi consuma. Come vorreste che fosse il vostro cibo di domani, quello con cui nutrite e vi nutrite? Di cosa avete bisogno per definirlo cibo? Quanto dovrebbe costare? Come dovremmo produrlo? E quanto?

Che sia pane, pizza, gelato o melanzana, cosa dovrebbe essere perché venga riconosciuto come tale?

Nessuna risposta, solo domande, perché come mi ha scritto, in privato, una sovversiva professionista del gelato: “Non sappiamo se sia nato prima il gelato o il gelatiere, se dobbiamo difenderci da qualcuno o da qualcosa o preferiamo rifugiarci nella suprema divisione tra buoni e cattivi. Io sogno un mondo in cui non sono io l’unica gelatiera di cui valga la pena mangiare il gelato, ma dove l’eccellenza perda la sua caratteristica di esclusività elitaria. Un mondo in cui ogni gelatiere fa del proprio meglio (e vi assicuro che basterebbe questo, per avere una percentuale di gelaterie “buo-

Come vorreste che fosse il vostro cibo di domani, quello con cui nutrite e vi nutrite?

ne” molto superiore a quella odierna). Un mondo in cui se hai fatto poca strada, non importano i motivi per cui ti sei trovato indietro rispetto alla ricerca della qualità, c’è sempre tempo per migliorare! Io propongo di cambiare strada. Non voglio che tu mi segua, proviamo a camminare uno a fianco all’altro, perché non ci sia il primo ad arrivare, perché se siamo affianco possiamo pure tenerci per mano, fare cordone, supportarci, sentirci una squadra. Abbiamo bisogno di usare parole vere per descrivere ciò che facciamo, ciò che voi mangiate. Abbiamo bisogno di conoscere il significato vero delle parole che usiamo, non quello che spesso gli viene attribuito da azioni di puro marketing. Abbiamo bisogno di parlavi chiaro e di essere creduti. E voi avete bisogno della nostra sincerità”.

Un’ultima domanda: non trovate che questo pensiero possa essere applicato a tutti comparti gastronomici e infine umani?

Padiglione D7

c u lt u ra brassicola la italiana

Un’identità emergente tra influenze mitteleuropee, statunitensi e radici locali

di Alfonso Del Forno

La birra in Italia ha attraversato una trasformazione epocale. Da prodotto marginale in un Paese tradizionalmente legato al vino, è diventata un simbolo di creatività e innovazione. Ma sorge spontanea una domanda: la cultura brassicola italiana è davvero un’espressione identitaria, o è ancora troppo influenzata dalle tradizioni mitteleuropee e statunitensi?

Origini e influenze internazionali

Le radici della birra in Italia affondano nella seconda metà dell’Ottocento, con l’apertura dei primi birrifici industriali nel Nord del Paese. In questa fase, le tecniche produttive e gli stili erano fortemente influenzati dai vicini della Mittel Europa, in particolare Germania e Austria.

Lager, Bock e Weizen erano i protagonisti di un mercato che guardava quasi esclusivamente oltre confine.

Negli ultimi decenni, però, le influenze non si limitano più all’Europa. L’Italia ha recepito le tendenze provenienti dagli Stati Uniti, dove il movimento craft beer ha rivoluzionato il panorama brassicolo internazionale. Lo sviluppo di varianti luppolate di stili tradizionali europei ha ispirato anche i birrifici italiani, che hanno saputo adattare e reinterpretare

La rivoluzione artigianale e gli stili italiani riconosciuti

Quando è nato il movimento della birra artigianale in Italia, nel 1996, le produzioni nazionali si sono ispirate a quelle europee dei paesi in cui la tradizione brassicola era consolidata (Germania,

Illustrazioni di Giulia Serafin

Negli anni, la birra artigianale italiana ha trovato una propria strada, evolvendosi fino a definire stili oggi riconosciuti a livello internazionale, come le Italian Grape Ale e le Italian Pilsner, esempi emblematici di come l’Italia abbia saputo trasformare influenze esterne in un patrimonio unico.

Italian Grape Ale (IGA): un incontro

Le Italian Grape Ale rappresentano il connubio perfetto tra la tradizione vinicola italiana e l’innovazione brassicola. Questo stile, unico al mondo, prevede l’utilizzo non solo di mosto d’uva in fermentazione ma anche di mosto cotto, spesso aggiunto durante la bollitura. Questo processo contribuisce a caratterizzare ulteriormente il profilo aromatico della birra, creando un ponte tra i due mondi. Grazie alla varietà di uve italiane, le IGA offrono una gamma infinita di interpretazioni, ciascuna legata al territorio d’origine delle uve uti-

LA BIRRA

Italian Pilsner: il carattere

del dry hopping

Le Italian Pilsner nascono come reinterpretazione dello stile Pilsner tradizionale, ma con una tecnica distintiva: il dry hopping, che consiste nell’aggiungere luppolo a freddo. Questo processo esalta gli aromi erbacei, floreali e fruttati, conferendo alla birra una complessità olfattiva unica. Pur mantenendo la pulizia e la bevibilità delle Pilsner clas-

La filiera brassicola italiana: ingredienti locali e sostenibilità

Un aspetto cruciale dell’identità brassicola italiana è il legame con il territorio e lo sviluppo di una filiera sempre più autonoma e sostenibile. Se in passato le materie prime venivano quasi interamente importate, oggi si assiste a una valorizzazione delle risorse agricole nazionali.

Le coltivazioni di orzo sono in espansione, soprattutto nelle regioni centrali e meridionali. Parallelamente, la produzione di luppoli italiani sta crescendo grazie alla ricerca su varietà autoctone e adattate al clima mediterraneo. I luppoli italiani stanno andando verso una loro definizione in termini organolettici ma c’è bisogno di molto tempo per avere una propria identità.

Ingredienti speciali:

frutta, grani

antichi e spezie

La biodiversità agricola italiana offre un patrimonio infinito di ingredienti che i birrifici artigianali utilizzano per creare birre uniche. Agrumi, fichi, melograno, ciliegie, grani antichi e spezie locali arricchiscono le ricette, trasformando ogni birra in un’espressione del territorio da cui proviene.

Un’identità in costruzione tra Europa e Stati Uniti

La cultura brassicola italiana è il risultato di un dialogo costante tra influenze estere e radici locali. La Mittel Europa ha fornito il modello iniziale, gli Stati Uniti hanno ispirato la sperimentazione con il luppolo, ma è stato il genio italiano a trasformare queste influenze in qualcosa di unico. La birra italiana non è solo una bevanda ma un racconto di biodiversità, tradizione e innovazione.

La birra italiana è oggi un simbolo di creatività e radicamento territoriale. Con stili come le Italian Grape Ale e le Italian Pilsner e grazie a una filiera che valorizza sempre più le materie prime locali, l’Italia si è affermata come protagonista nel panorama brassicolo mondiale. Non è più questione di “copiare” le tradizioni mitteleuropee o americane: la birra italiana ha trovato la sua voce, e il suo futuro è tutto da scrivere.

Mangiare senza glutine fa bene o fa male?

a cura della Dott.ssa

Marisa Cammarano, biologa nutrizionista

I prodotti senza glutine, negli ultimi anni, hanno iniziato a diffondersi a macchia d’olio sugli scaffali di tutti i supermercati.

Spesso vengono percepiti come una più salutare alternativa rispetto ai prodotti che contengono glutine. É vero oppure si tratta solo di una moda del momento?

Cos’è il glutine?

Il glutine è una proteina che si trova naturalmente in alcuni cereali come il grano, l’orzo e la segale. Ha la funzione di agente legante, inoltre, dona elasticità e struttura agli impasti, senza il glutine, infatti, gli impasti non sarebbero così elastici e malleabili. Il glutine si trova in cibi comuni come la pizza, il pane o la pasta ma non fornisce nessun nutriente essenziale al nostro corpo: si tratta infatti dell’unica proteina che non può essere digerita dal nostro organismo. Questo significa che, per coloro che non soffrono di intolleranze, il glutine passa praticamente inosservato una volta ingerito all’interno del corpo. Per coloro che soffrono di intolleranza, invece, il glutine innesca una

risposta immunitaria che causa infiammazione e danneggia l’intestino. É per questo che per i celiaci diventa cruciale seguire una dieta gluten-free.

Altri cereali che contengono glutine sono:

• farro;

• semola di grano duro;

• grano khorasan (popolarmente conosciuto come Kamut);

• triticale (una miscela di grano e segale).

Di conseguenza, il glutine è presente anche nelle farine di questi cereali e nei prodotti da forno che le contengono (es. crackers, biscotti, pane, fette biscottate, ecc.)

L’avena per natura è priva di glutine ma, poiché viene spesso coltivata vicino ad altri cereali che contengono glutine o lavorata nelle stesse strutture di questi ultimi, può contenere glutine da contaminazione incrociata e, per questo, non è sempre adatta ai celiaci.

Il glutine si trova anche nel seitan (glutine di frumento), mentre fonti meno ovvie sono salsa di soia e amido alimentare modificato.

A chi fa male il glutine?

Il glutine può causare effetti collaterali solo a:

Celiaci, ossia coloro che hanno un’intolleranza permanente al glutine diagnosticata tramite specifici esami del sangue.

Chi soffre di sensibilità al glutine non celiaca (gluten sensitivity), un'intolleranza al glutine che non innalza i livelli di anticorpi e non provoca danni intestinali (erosione dei villi). Di solito i sintomi, simili a quelli della celiachia, sono persistenti, ma il test diagnostico celiaco risulta negativo.

La scienza dimostra che i celiaci hanno un rischio un po’ più elevato di sviluppare osteoporosi ed anemia, dovuto rispettivamente al malassorbimento di calcio e ferro. Il consiglio è dunque di introdurre maggiori quantità di questi nutrienti essenziali.

Il calcio si trova principalmente in latte e derivati, come per esempio il formaggio, che contiene proteine ad alto valore biologico , vitamine importanti come B2 e B12 e antiossidanti come vitamina A, zinco e selenio.

Per aumentare il consumo di ferro, invece, occorre consumare quantità adeguate di carne, pesce e uova, oltre a condire le verdure (in particolare quelle a foglia verde) con la vitamina C (es. succo di limone). Negli ultimi anni è aumentato in maniera esponenziale il numero delle persone che soffre di celiachia. Si tratta, in effetti, dell’intolleranza alimentate più frequente e la stima della sua prevalenza si aggira sull’1%.

Il glutine, però, è un problema solo per chi è celiaco diagnosticato o per chi reagisce negativamente a questa sostanza, tutti gli altri possono tranquillamente consumarlo. Ma, l'attenzione negativa dei media su grano e glutine ha portato alcune persone a dubitare della loro importanza in una dieta equilibrata e salutare. In realtà, la maggior parte degli studi, ad oggi, suggerisce il contrario.

Il consumo regolare di cereali glutinati fa parte di una dieta bilanciata, in quanto è importante assumere proteine vegetali, oltre a quelle animali. Sono escluse da questa indicazione solo le persone affette da celiachia o sensibilità al glutine diagnosticata.

Spesso, evitando il glutine, si evitano anche i cereali integrali. Uno studio ha suggerito che le persone che non mangiano glutine pur non essendo celiache possono aumentare il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari a causa del possibile consumo ridotto di cereali integrali  e quindi di fibre.  Molti studi hanno, infatti, collegato il consumo di cereali integrali ad un buono stato di salute, percentuali notevolmente più basse di malattie cardiache e ictus, sviluppo di diabete di tipo 2 e decessi per tutte le cause.

Il glutine può anche agire come prebiotico, nutrendo i batteri "buoni" nel nostro intestino, come i bifidobatteri. È noto che cambiamenti nella quantità o attività dei bifidobatteri sono stati associati a malattie gastrointestinali, tra cui malattie infiammatorie intestinali, cancro del colon-retto e sindrome dell'intestino irritabile.

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È interessante notare che coloro che non soffrono di celiachia sono tra i maggiori consumatori di prodotti senza glutine. Questo è dovuto alla convinzione errata che i cibi senza glutine siano più sani o perché facciano meglio all’intestino o ancor peggio facciano dimagrire.

Ricordiamo che, in assenza di celiachia accertata, non è necessario eliminare il glutine dalla dieta: l’ideale è seguire una dieta varia, equilibrata e sana, che segua i principi della dieta mediterranea.

I prodotti senza glutine in commercio, alimenti trasformati e confezionati, riconoscibili dalla spiga barrata sulla confezione, sono solitamente molto ricchi di calorie, zuccheri, grassi saturi e sodio. Oltre al fatto che hanno un costo sensibilmente maggiore rispetto ai corrispettivi glutinati, il loro consumo per le persone sane è inutile e, se si esagera con le quantità, può essere pericoloso infatti si osserva aumento di peso, maggior predisposizione a malattie metaboliche e cardiovascolari. A tal proposito, ricerche condotte dall’Harvard Health School sembrano dimostrare che i cibi senza glutine sono solitamente meno ricchi di minerali e fibre e più ricchi di zuccheri e grassi. Viene smontata, dunque, anche, la favoletta del dimagrimento. Al contrario si rischia di perdere la linea. In genere, i prodotti senza glutine sviluppano un maggior numero di calorie rispetto al corrispondente alimento che contiene glutine, perché addizionati di grassi. Un altro importante studio, questa volta spagnolo, ha sottolineato come il pane senza glutine abbia mediamente una concen-

trazione doppia di grassi rispetto a quello tradizionale ed un contenuto di proteine da due a tre volte inferiore. Dati simili anche per biscotti e pasta. Non solo, hanno anche un alto indice glicemico, quindi aumentano lo zucchero nel sangue dopo il loro consumo e saziano meno.

Molte aziende produttrici di alimenti senza glutine, infatti, utilizzano ad esempio la farina di riso, che è più povera di proteine e micronutrienti e, nel tentativo di replicare il sapore e la consistenza dei prodotti con glutine, aggiungono maggiori quantità di grassi, sale o zucchero. In pratica, solo perché un prodotto è etichettato come “gluten-free” non significa che sia più salutare. Come sempre, controllare l’etichetta di ogni singolo prodotto e verificare la quantità di zuccheri, additivi e sostanze poco salutari dovrebbe essere la prassi da seguire in ogni caso, indipendentemente dai “claim” riportati sul packaging.

In conclusione, per coloro che soffrono di celiachia e intolleranze al glutine, l’aumento dell’offerta di prodotti gluten-free è sicuramente una buona notizia. Ma per coloro che non soffrono di intolleranze, quindi, in assenza di patologie che giustifichino l’eliminazione dalla dieta di cibi contenenti glutine, la conclusione è che non c’è nessun motivo scientifico per cui evitare il glutine. A dichiararlo è l’Istituto Superiore di Sanità.

La morale? Lasciamo ai celiaci i cibi gluten free, gli unici che ne hanno veramente bisogno per stare in salute.

I dolci della tradizione italiana in pizzeria

Se finalmente la carta dei dessert in pizzeria comincia a conquistarsi uno spazio a sé, con le classifiche che premiano i migliori pasticceri del settore, la scelta di costruire una carta che dia adeguato spazio al dolce non è cosa semplice: se alcuni puntano sulla tradizione – nella quale hanno la meglio capisaldi come tiramisù, panna cotta e pastiera – altri puntano sulla prosecuzione della linea

“lievitati”; se c’è chi gioca su toni più leggeri con sorbetti e gelati, c’è anche chi guarda a torte e dolci al cucchiaio. Guardando alla tradizione, le possibilità offerte dalla varietà della pasticceria italiana sono notevoli: ecco qualche illustre rappresentante che può aggiungersi ai classici ricordati prima e che può rappresentare un vero salto di livello per una pizzeria se fatto a regola d’arte.

Babà

Simbolo dell’arte dolciaria napoletana, il babà ha una storia secolare che attraversa l’Europa, passando per Francia e Polonia. Ad inventarlo fu il re polacco Stanislao Leszczyński, in esilio in Lorena: decise di aggiungere uno sciroppo al rum al kugelhopf, torta di tradizione alsaziana di grandi dimensioni. Per aumentarne la morbidezza e conservarla più a lungo, il sovrano polacco decise di aumentare le fasi di lievitazione e aggiungere altri ingredienti come uva passa, canditi e zafferano. Certamente diverso dalla versione odierna, questo antenato del babà, giunse a Versailles, dove la figlia Leszczyński, Maria, in occasione delle nozze con il re di Francia Luigi XV, aveva deciso portare con sé il pasticcere del padre, Nicolas Stohrer.

Siamo all’inizio del Settecento, la corte apprezza il rum giamaicano e la ricetta viene modificata tenendo conto di gusti e tendenze: quindi rum per la bagna, niente zafferano e canditi e la forma a cupola rigonfia. L’arrivo a Napoli si deve a Maria Antonietta, moglie di Luigi XVI e sorella di Maria Carolina d’Austria, sposata con il re di Napoli Ferdinando IV di Borbone: fu la regina a portare a Napoli, alla fine del Settecento, molte specialità gastronomiche, tra cui il babà. La prima testimonianza scritta risale al 1863 e si trova nel manuale di cucina italiana di Vincenzo Agnoletti ma si dovrà aspettare la fine dell’Ottocento perché il babà diventi un dolce diffuso fra la borghesia napoletana, fin dall’inizio consumato camminando, come un vero street food.

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Torta di rose

È uno lievitati più raffinati, per il quale si guarda alla cucina lombarda. Le origini, come si conviene, sono contestate. Secondo vari scritti, la torta di rose venne servita per la prima volta nel 1490 alla corte dei Gonzaga, per le nozze di Isabella d’Este arrivata a Mantova per sposare Federico II. Ispirato dalla bellezza della fanciulla sedicenne, il cuoco dei Gonzaga – nientemeno che Cristoforo di Messisbugo – realizzò un dolce che fosse simile ad un bouquet di rose: preparò una pasta lievitata che ritagliò in strisce, arricchite con burro e zucchero e arrotolate su sé stesse ricreando la forma di piccoli boccioli. Ricoprì quindi la teglia con queste piccole rose, disposte in cerchio: il risultato, una volta cotto, fu un meraviglioso dolce di pasta brioche. Golosa ed elegantissima, deve la sua bontà ad una dose significativa di uova e burro.

Zuppa inglese

Nome che rimanda al Regno Unito ma origini italiane per un grande classico al cucchiaio. Strati sovrapposti di Pan di Spagna o savoiardi inzuppati nell’alchermes, alternati a crema pasticcera e crema al cioccolato, la zuppa inglese ha una storia articolata che attribuisce al dolce una paternità emilianoromagnola, toscana o napoletana. L’ipotesi più probabile fa risalire la sua nascita a Ferrara, nel XVI secolo alla corte degli Estensi, come rielaborazione del trifle inglese, da cui il nome. La base sarebbe stata la bracciatella, una sorta di ciambellone, mentre allo sherry sarebbero stati sostituiti rosolio e alchermes. Nel ‘700 sarebbe arrivato il pan di Spagna - a sua volta ispirato ai savoiardi - e la crema pasticciera e il cioccolato avrebbero sostituito la panna. Altra ipotesi è quella che vuole origini toscane, nell’800: l’autrice sarebbe stata la governante di una famiglia inglese residente a Firenze, che avrebbe preparato una “zuppa” con biscotti avanzati ammorbiditi nel vino dolce, crema pasticciera e budino di cioccolato.

Infine, c’è un’ultima strada che porta a Parma, ai tempi di Maria Luisa d’Austria, ad inizio ‘800. Credenziere di corte era il romano Vincenzo Agnoletti nella cui opera, il “Manuale del cuoco e del pasticciere di raffinato gusto moderno”, parla di una “zuppa inglese”, da prepararsi “come il marangone” (un antico dolce originario di Mantova preparato inzuppando i “biscotti delle monache” o il pan di Spagna nel vino o nel rosolio e facendo vari strati intervallati da mandorle, pistacchi e canditi, o con crema e marmellata, con la copertura finale a base di glassa) ma aggiungendo rum e meringa come tocco finale. Diversa da quella attuale, che spinge a ipotizzare contaminazioni e influenze regionali per la composizione finale della ricetta.

Meringata

Fresca, leggera ma insidiosa da preparare, la meringata è un finale perfetto. Le origini del dolce sono contrastate e riporterebbero ancora al goloso ed appassionato Leszcyński. Per alcuni, fu inventata in Svizzera, nel ‘700, quando il pasticcere italiano Gasparini la preparò per la principessa Maria, promessa sposa del re Luigi XV, secondo altri – e qui entrano in campo anche le origini del nome – deriverebbe dalla marzynka, nome polacco con cui si indicava una preparazione creata dallo chef in servizio presso Stanislao Leszcyński, futuro duca di Lorena, che passò la ricetta alla figlia Maria, che a sua volta la introdusse in Francia. C’è anche una pista inglese: la prima testimonianza di un dolce fatto con albume d’uovo sbattuto e zucchero è riportata a mano dall’autrice Elinor Fettiplace e datata 1604. Oltre al dibattito sulle origini, certa è la forma, che diventa quella attuale solo a inizio ‘800 quando il francese Marie Antoine Carême usò per la prima volta la sac à poche. Piccola nota tecnica: a seconda della consistenza e del metodo di preparazione, si individuano tre tipi di meringhe. C’è quella francese, realizzata sbattendo albumi e zucchero fino a ottenere un composto lucido e solido e cotta in forno; quella italiana, fatta con uno sciroppo di zucchero caldo aggiunto agli albumi, più morbida e cremosa; infine, quella svizzera, più simile a quella italiana come consistenza ma preparata a bagnomaria.

Torta Caprese

Un contrasto di colori e consistenze: la superficie cosparsa di zucchero e velo, che svela al taglio un impasto scuro; una crosta fragrante che al taglio lascia lo spazio all’interno morbido e giustamente umido. Mandorle, cioccolato fondente, burro, zucchero e uova, e soprattutto l’assenza di farina e lievito: la torta Caprese è inconfondibile. Le origini sono leggenda: da un lato c’è chi sostiene che fu realizzata su richiesta di Maria Carolina d’Asburgo, moglie di Ferdinando IV di Borbone. Voleva un dolce che le ricordasse le sue origini: ed ecco una torta al cioccolato ma nella quale i monsù sostituirono alla farina di frumento quella di mandorle. La seconda versione è datata 1920 e porta nella bottega di Carmine di Fiore, pasticcere napoletano che aprì una bottega a Capri. Un pomeriggio il pasticcere ricevette la visita inaspettata di alcuni compari del capo della malavita italoamericana Al Capone: in viaggio a Napoli per “affari”, pare fecero una deviazione a Capri per comprare le ghette preferite dal boss, prodotte da un artigiano locale. Per dare seguito in fretta alla loro richiesta di un dolce al cioccolato, Di Fiore impastò una torta alle mandorle, dimenticando di aggiungere farina e lievito. L’errore si rivelò un successo che varcò ben presto i confini dell’isola, divenendo nazionale.

I pani d'Italia

Ogni regione d’Italia custodisce una varietà notevole di pani, diversi per ingredienti, lavorazione, forma e tradizione: un patrimonio non solo gastronomico ma soprattutto culturale che merita di essere conosciuto e che consente di comprendere come sotto l’ampia definizione di “pane”, si nascondano in realtà centinaia di storie e prodotti dal valore inestimabile.

Piemonte

Valle d'Aosta

Vero e proprio simbolo regionale è il

La più diffusa tipologia regionale è la biova , soffice e bianchissima: derivata della “micca”, ha origini antiche ed una produzione attestata da studi storici locali. L’impasto è costituito da farina di grano tenero, lievito di birra, acqua, sale e strutto: ha crosta sottile e croccante, interno quasi vuoto con poca mollica. Vale la pena citare anche

Lombardia

È senza dubbio la michetta il pane lombardo per eccellenza milanese. Della stessa famiglia dei pani soffiati, con bassa umidità e pasta dura, si riconosce dal tipico stampo a stella con “appello” centrale. La storia si lega all’Impero austriaco, cui faceva capo la Lombardia dopo il trattato di Utrecht del 1713. La dominazione austriaca portò con sé anche la tradizione alimentare del kaisersemmel, un panino a forma di piccola rosa che tuttavia non riusciva, come a Vienna, a rimanere fresco e fragrante fino a sera, diventando gommoso a causa dell’umidità. I maestri panificatori milanesi riuscirono nell’impresa di eliminare la mollica, svuotare il pane e alleggerirlo, rendendolo "soffiato" e garantendone una migliore conservazione.

Trentino-Alto Adige

È la farina di segale il vero tratto distintivo del pane di questa regione, che viene declinato in diverse specialità: il breatl a pasta acida con semi di finocchio, cumino e coriandolo, lo Schwarzer Weggen , diffuso in tutto il Sud Tirolo, il Fela Struzn e Vinschgauer Struzn , due pani a forma di ferro di cavallo, presenti anche bianchi, ma soprattutto il noto Schuttelbrot , sottile, appiattito e croccante e diffuso ovunque, quasi sempre in accompagnamento allo speck.

Veneto

Rosetta, ciopa, bovolo cioppetta, montasù: il veneto conta un’ampia varietà di pani. La ciopa è il più diffuso: ha mollica compatta, crosta friabile e forma con quattro o sei punte. Altrettanto noto è il montasù: deve il nome all’aspetto, generalmente due pastelle o filoncini sormontati e incrociati. Ha colore dorato, crosta friabile e mollica compatta.

Friuli-Venezia Giulia

Presidio Slow Food, il pane del Friuli è il Pan di Sorc: deve il nome alla farina di mais (sorc), unita a farina di segale, frumento e talvolta a fichi secchi, uvetta e semi di finocchio. La forma è quella di una pagnotta tonda alta pochi centimetri, con la crosta molto scura e fragrante che contrasta con la mollica gialla, dall’aroma di polenta. A Trieste vale la pena ricordare la biga servolana, rosetta o kaiser (retaggio dell'impero austroungarico), consumata con prosciutto cotto caldo di Trieste e kren.

Emilia-Romagna

È certamente la Coppia Ferrarese il pane più noto della regione. A marchio Igp, si tratta di due panini allungati, lavorati e intrecciati a mano, croccanti, quasi privi di mollica. Prima del XII secolo era confezionato a mo' di pagnotta, senza orli, bordi o ricami; poi, i legislatori estensi dettarono norme severe su preparazione, conservazione e identificazione del produttore. La versione più simile all’odierna si può far risalire al carnevale del 1536 quando in una cena imbandita in onore del duca di Ferrara venne presentato un pane ritorto, con i cornetti. Una menzione anche per il pane di Pavullo: a pasta dura, senza sale e con una piccola quantità di strutto, viene modellato nella forma di pagnotta rotonda o allungata, e in varie dimensioni. Pare fosse il pane di pastori e braccianti, per via della lunga conservabilità.

Liguria

Il pane più famoso è quello di Triora, nota un tempo come il granaio della Repubblica di Genova. Vede nell’impasto anche farina di grano saraceno e un riposo su uno strato di crusca. Ha grande pezzatura, forma bassa e larga e viene cotto in forno caldo utilizzando foglie di castagno per evitare che si attacchi alla base del forno. A cottura ultimata, le pagnotte presentano sulla crosta una incisione di forma quadrata. Altre tipologie interessanti: il pane nero di Pigna o semplicemente “pan negru” e la Carpasina, ovvero il Pan d’ordiu di Carpasio, con macinato d’orzo.

Toscana

Oltre al notissimo pane sciocco, vale la pena citare il pane di farro o di patate, che è Presidio Slow Food, in Garfagnana, la Marocca di Casola in Lunigiana, anch’esso Presidio, preparato con farina di castagne che è anche l’ingrediente del pane di Neccio. Infine, il pane di Vinca, con farina di grano tenero e crusca.

Marche

PAT regionale è il pane di Chiaserna: si tratta di un filone di forma allungata leggermente schiacciata, di colore dorato e privo di sale. Per la preparazione viene utilizzata l’acqua del Monte Catria che, unita alla semplicità della lavorazione - che prevede una base di impasto acido fatto fermentare a lungo - conferiscono consistenza e sapore unico al prodotto.

Lazio

Sempre presente in tavola è la ciriola romana, il classico pane bianco di grano tenero. Da ricordare anche la Falia di Priverno, dalla forma allungata, che si avvicina più ad una focaccia, il pane casereccio di Genzano, simile al Pane di Lariano, filone o pagnotta con crosta dura, lievito madre e spolverato con cruschello o tritello, ed infine il pane di Velletri, realizzato secondo l’antica tecnica della scoffiatura, che permette di ottenere aree vuote all’interno del pane.

Abruzzo

Ode al grano Solina, che dà una farina con basso contenuto di glutine e alto contenuto di proteine, morbida al tatto, di colore chiaro e dal particolare profumo di montagna. Dalla Solina arriva il pane preparato con quella che i proverbi abruzzesi definiscono “la mamma di tutti i grani”. Il pane ha colore più scuro rispetto al pane tradizionale, con crosta profumata, mollica morbida e soffice. Menzione anche per il pane spiga, dal nome dei piccoli tagli sulla superficie che ricordano la spina di grano.

Campania

A Napoli il re è il Pane Cafone o pane dei Camaldoli. Di antichissima tradizione, deve il nome alla collina dei Camaldoli, nella parte nordoccidentale della città. PAT regionale, questo pane ha grande forma rotonda (può raggiungere anche i 4 kg) e viene cotto in forno a legna. Ha mollica alta, colore paglierino e crosta piuttosto spessa e croccante. Nel resto della regione, è in corso un’importante ripresa dei grani antichi, impiegati nella preparazione di pagnotte, specie in Cilento, in paesi come Padula, o nel beneventano, nel pane di Saragolla.

Puglia

È certamente quello di Altamura il pane più famoso della regione: pasta acida con crosta croccante grazie alla cottura in forno con legna di quercia, oggi prodotto Dop. Vale la pena ricordare però anche il pane di Laterza, dalla storia secolare. Cotto nei tradizionali forni a legna, riscaldati con legna aromatica di bosco o di ulivo, è preparato con semola di grano duro e lievito madre e ha sapore tendente all'acidulo. La pezzatura tradizionale prevede forme di pane da uno, due e quattro kg di peso. Ha crosta tendente al marrone, mentre la mollica è di colore bianco avorio.

Umbria

Si chiama pane di Strettura, dal nome del piccolo comune vicino a Spoleto, il pane tipico dell’Umbria. Si prepara con vecchie varietà di cereali ed il lievito conservato dalla panificazione precedente, cui si aggiungono acqua tiepida appena salata e farina. Si ottiene così una pagnotta, su cui si traccia una croce e si fa lievitare per una intera notte. Il giorno successivo l’impasto viene rinfrescato, aggiungendo acqua ancora tiepida e farina, fino ad ottenere la giusta consistenza. Si procede poi alla lavorazione manuale, fino ad ottenere un composto omogeneo e liscio, che si fa lievitare ancora per alcune ore e poi si cuoce.

Basilicata

Molise

Tipico molisano è il parrozzo, da non confondere con il dolce abruzzese. Letteralmente il “pan rozzo”, è preparato con patate, mais e granoturco.

Calabria

Dalla Calabria arriva il pane di Cerchiara: ha forma rotonda e una “gobba”, cioè un rigonfiamento superiore ottenuto al momento dell’infornata, ripiegando la pasta su se stessa. Presenta crosta consistente e croccante, mollica giallastra con alveolatura pronunciata, compatta e uniforme, profumo e sapore lievemente acidulo e biscottato. Da provare anche il pane di Cutro, con grani locali e una crosta spessa e croccante e il pane di Pellegrina (una frazione di Bagnara Calabra), con cruschello, dalla forma tonda e leggermente allungata, crosta ruvida e croccante e mollica bianco avorio-nocciola, bella compatta.

Sicilia

Orgoglio lucano è il pane di Matera IGP, di lunga tradizione storica e preparato con grani duri locali tra cui il Senatore Cappelli. Ha forma prevalentemente alta e lunga, inarcuata (è chiamato “a cornetto”), che deriva dalla necessità in passato, quando veniva cotto nei forni collettivi, di rendere riconoscibile ogni pane ed evitare che nella cottura le forme si toccassero e attaccassero tra loro. Ottimo appena sfornato, si conserva indicativamente sette giorni nella pezzatura da 1 kg e quattordici giorni per la pezzatura da 10 kg.

Dalla muffoletta di Palermo - una pagnotta tonda che si prepara con spezie quali anice, cannella, finocchietto, pepe, cuminoal pane nero di Castelvetrano, con un mix di grano duro integrale e grano Tumminìa, cotto per circa un’ora nei forni a pietra alimentati a legna di ulivo; dalla Vastedda di Enna - classico pane casereccio fatto in casa – al Pè, con semola di grano duro passata al setaccio e lievito naturale; dalla pagnotta del Dittaino, con grano duro locale al Cicciddatu, a forma di ciambella, fino al pane casereccio di Lentini, ricoperto con i classici semi di sesamo: il pane in Sicilia è anche un viaggio nella cultura araba.

Sardegna

Se carasau, guttiau e pistoccu sono nomi noti, la Sardegna regala anche pani meno conosciuti. È il caso della tunda, nota per la sua particolare forma con sette punte o “pizzi” e che veniva preparata solo il sabato per essere poi consumata tutta la settimana, cui si aggiungono il coccoi a pitzus, un tipico pane decorato di semola di grano duro, che in passato si preparava per matrimoni (coccoi de is sposus) e Pasqua (coccoi cun s’ou), ed infine il civraxu di Sanluri, una grande pagnotta dalla crosta di colore bruno dorato, con doppia lievitazione.

Tempo di

a cura della redazione

A Rimini la 45a edizione della fiera d’inizio anno

SIGEP WORLD - The World Expo for Foodservice Excellence si svolgerà alla Fiera di Rimini dal 18 al 22 gennaio, dove aprirà un nuovo capitolo del suo progetto di espansione globale, che in fiera andrà a concretizzarsi attraverso i programmi strategici di business matching.

SIGEP WORLD rappresenta l'evento di riferimento e di ispirazione per la community del Foodservice, attirando professionisti internazionali nei settori Gelato, Pastry&Chocolate, Coffee, Bakery e Pizza.

Il settore del foodservice continua ad essere competitivo in Europa e nel mondo. La spesa complessiva registrata in Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia e Spagna, raggiunge gli oltre 330 milioni di euro, con una crescita del 6,4% rispetto al 2023. Riguardo alle visite in locali e ristoranti, ad oggi gli stessi Paesi registrano un lieve incremento rispetto al 2023, pari allo 0,6%. Guardando invece oltreoceano, la spesa dei consumatori dell’Out of Home negli Stati Uniti risulta in aumento del 3,9% rispetto all’anno precedente, attestandosi a oltre 612 milioni di euro (Fonte: Circana).

Nella vivace atmosfera della Fiera di Rimini, gli espositori presentano il futuro della loro industria, offrendo ai visitatori approfondimenti esclusivi sulle tendenze di domani e sui gusti inesplorati. L'evento offre una panoramica completa: prodotti, ingredienti e servizi alle attrezzature, arredi, soluzioni di packaging e tecnologie.

SIGEP è il luogo ideale per allacciare contatti e stringere relazioni con i principali player del settore. Ogni interazione rappresenta un'occasione preziosa per imparare, crescere e cogliere nuove opportunità di business. Qui è possibile sperimentare in prima persona le innovazioni che trasformeranno il modo di intendere l’industria fuori casa del domani.

Da ormai 45 anni, SIGEP WORLD rappresenta un evento essenziale per conoscere le più recenti innovazioni e tendenze nel settore foodservice. Qui è possibile scoprire materie prime, ingredienti, macchinari, tecnologie, attrezzature, arredamento, so luzioni di packaging e servizi. L'evento of fre uno spazio unico in cui interagire con aziende ed esperti del settore, discutere gli sviluppi del comparto e creare opportuni tà di business, networking e aggiornamen to professionale.

Lo spirito di SIGEP WORLD 2025 si può già cogliere nel titolo del talk di apertura della fiera: “Global trends and future scenarios of the gelato and foodservice industry”, in collaborazione con i più grandi esperti a livello mondiale dell’industria del foodservice, delle associazioni, delle istituzioni e dei partner del mondo accademico. Proprio a SIGEP WORLD, infatti, si delineerà il futuro del Fuoricasa a livello globale, grazie soprattutto all’alto standing degli eventi che offriranno ai visitatori contenuti aggiornati e novità sugli sviluppi di mercato in tutto il mondo. Le grandi sfide della sostenibilità e l’innovazione saranno i temi caldi della manifestazione, pronta ad anticipare gli scenari di un futuro in cui le problematiche ambientali e le trasformazioni digitali dovranno essere prese in considerazione dalle aziende. SIGEP WORLD 2025 si pone anche come trendsetter dell’industria del foodservice: un vero e proprio incubatore in cui decifrare le più recenti innovazioni e intercettare le

LE AZIENDE INFORMANO

HOSPITALITY

IL SALONE DELL’ACCOGLIENZA

Quartiere Fieristico di Riva del Garda

Via Baltera, 20 – Riva del Garda

A Hospitality 2025 novità, tendenze, iniziative esperienziali e formative per i professionisti di ospitalità e ristorazione

Dal 3 al 6 febbraio, al quartiere fieristico di Riva del Garda, va in scena Hospitality – Il Salone dell’Accoglienza, la fiera internazionale leader in Italia nel settore Ho.Re.Ca..

Con oltre 800 aziende che abbracciano tutti i segmenti del comparto, il format espositivo è suddiviso nelle quattro aree tematiche (Beverage, Contract & Wellness, Food & Equipment e Renovation & Tech) oltre alle tre aree speciali dedicate alla birra artigianale, alla miscelazione e all’enoturismo che animeranno il padiglione B4 fino a mercoledì 5 febbraio.

Sostenibilità, inclusione e accessibilità restano tematiche centrali che ispirano anche le attività formative: grazie alla rinnovata collaborazione con Village for all – V4A e Lombardini22, quest’anno lo spazio DI OGNUNO indaga la sala colazione con suggerimenti su come, anche con piccoli accorgimenti, sia possibile andare incontro alle necessità di tutti.

Ricco il programma formativo di Hospitality Academy e con gli incontri di aggiornamento professionale con il contributo di esperti, opinion leader e associazioni di categoria.

Tra i grandi protagonisti di questa edizione, la pizza a cui è riservata anche una delle 8 arene tematiche: ogni giorno, nella Pizza Arena, concorsi - come il nuovo contest di gruppo “Pizza in Equipe” per le pizzerie con posti a sedere che coinvolgerà le diverse professionalità che lavorano in pizzeria - show-cooking, dibattiti e degustazioni.

Non mancheranno gli appuntamenti con l'Unione Regionale Cuochi Trentino-Alto Adige, in collaborazione con FIC-Federazione Italiana Cuochi, e le attività di NIC in School per gli studenti degli Istituti Alberghieri che, per la prima volta in una fiera, si sfideranno anche in un Cooking Quiz.

Numerose le iniziative esperienziali come The Spirits Escape, la novità dell’area RPMRiva Pianeta Mixology che vedrà barman e professionisti di ristorazione e hôtellerie cimentarsi in cocktail innovativi guidati da mixologist, reali e virtuali.

Su www.hospitalityriva.it le informazioni per esporre e visitare la fiera

La recensione del mese

Inizia questo mese una nuova rubrica in cui entriamo nella “giungla” delle recensioni online. Laddove il titolare / il gestore del ristorante o della pizzeria ci fornisse un commento inedito, troverete indicato anche il nome del locale; viceversa, indicheremo esclusivamente la città o l’area geografica. L’obiettivo di questo spazio è provare a ragionare sugli errori più comuni (spesso spiegati male dai clienti e interpretati peggio dai ristoratori) per riuscire a costruire un rapporto migliore tra chi cucina e chi mangia. Speriamo sia di vostro gradimento.

Per segnalazioni, potete scrivere all’indirizzo redazione@pizzaepastaitaliana.it

La recensione

“Avevo aspettative alte, avendo visto qualche video su TikTok, ma purtroppo non è stato così, ho provato le caramelle di scamorza e guanciale, niente di particolare, il magnum di scamorza e cicoria era passabile, poi ho preso la cacio e pepe ed era asciutta e scotta, non ne parliamo per la carbonara che era condita ma assolutamente scotta. Assolutamente sopravvalutato, non ne vale la pena”.

Recensione lasciata su Tripadvisor per un locale di Roma nel mese di maggio 2023

Il commento

Quanti decidono di sperimentare un posto solo perché attratti da una foto o un video? Tanti. Questo non sempre è positivo, come desumibile dal commento del nostro recensore.

Non necessariamente è sempre buono quel che è bello; d’altronde, non si giudica mai un libro dalla copertina. Ciò però non esclude che possa essere vero anche il contrario, senza voler poi prendere in considerazione il gusto personale di ciascuno.

Il ristoratore spesso pubblicizza il proprio prodotto attraverso le immagini e le belle parole, senza considerare che questa scelta è un’arma a doppio taglio. È possibile, infatti, che quest’ultimo faccia breccia nel cuore e nello stomaco della persona accalappiata, procurandosi in tal modo un nuovo cliente e tante belle recensioni, ma anche tanta “visibilità negativa”: il cliente deluso può non solo recensire negativamente sugli appositi canali ma anche sfruttare quegli stessi mezzi che lo avevano spinto al locale per commentare negativamente il prodotto, la scelta, il locale stesso, il servizio e così via dicendo. Purtroppo, si sa, oggi – al di là del puro e semplice passaparola – i social network sono probabilmente il mezzo più efficace e veloce per far girare una notizia o inculcare un’idea. Quest’ultima, infilatasi nella mente, è davvero difficile o quasi impossibile da sradicare.

Scegliere di essere presenti e “comunicarsi” sui social è una strategia dettata dai trend contemporanei e dalla volontà di comunicare in modo il più possibile diretto con il cliente ma è una scelta senza dubbio audace.

Ogni mestiere andrebbe svolto da chi lo pratica professionalmente, si aggiorna nelle tecniche e sa declinare nella quotidianità ciò che conosce. Questo vale sia in cucina sia al computer. Non solo: un bravo social media manager dovrebbe essere in grado di variare il proprio “tone of voice” (il proprio stile, diciamo così) in base al proprio cliente, non preoccupandosi solo di una perfetta riuscita del reel o delle tante visualizzazioni e interazioni ma anche dell’effettiva rispondenza alla verità dell’offerta del locale.

È sempre meglio la sostanza che l’apparenza. Non dimentichiamo che molti commentano le immagini ma questa tendenza lascia il tempo che trova; molti altri, invece, guardano la gradevolezza estetica del pizzaiolo o della pizzaiola, un po’ come si faceva un tempo con calciatori e veline. Ma, poi, è veramente questo a dare soddisfazione e a far crescere professionalmente? A giocare un ruolo fondamentale nella branding reputation comunque sono spesso le critiche tecniche (ma a goderne sono davvero una piccolissima percentuale dei locali attivi) e le recensioni online (che sono invece inevitabili), su Tripadvisor, Google o “sotto ai post”.

Mostrare una bella pizza, un drink o una carbonara ben presentata nel piatto, dunque, non basta, così come non basta mostrarsi “accattivanti” e attirare il cliente con ricette o preparazioni stravaganti. L’ingrediente più valido di tutti per una ricetta perfetta è la sincerità, unita a un prodotto di indubbia qualità. E per “sincerità” intendiamo tutto ciò che realmente l’avventore troverà nel suo piatto all’arrivo nel locale, sia esso un critico gastronomico o un impiegato in pausa pranzo.

La domanda, dunque, resta: quanto è positivo indurre un possibile cliente a “provare” il proprio prodotto sfruttando le capacità attrattive dell’autore / dell’autrice o della ricetta stessa, se poi quest’ultima non corrisponde a ciò che riesco a offrire a ogni cliente?

Ai social media manager l’ardua sentenza.

LE AZIENDE INFORMANO

INDUSTRIA MOLITORIA DENTI S.R.L

Via Rosario Livatino, 3/A Borzano Albinea (RE) ITALY

Tel: +39.0522350085

email: info@molinodenti.it

Pizza in pala Tipo 1 con Lievì Pizza

infibra tipo 1 w 380

infibra tipo 1 w 300

INGREDIENTI BIGA

Farina Infibra tipo 1 W 380 2000 g Acqua 1000 g Lievito di Birra fresco 20 g

*Mettere a lievitare a 18 gradi per 16 ore

INGREDIENTI IMPASTO

Farina Infibra tipo 1 W 300 2000 g Lievi pizza

200 g Acqua 2360 g Olio evo

Sale

160 g

80 g

Squeeze malt Denti 20 g

PROCEDIMENTO

→ 1. Inserire in vasca biga, farina Infibra tipo 1 w 300, squeeze malt Denti, Lievì pizza e il 60% dell’acqua da ricetta.

→ 2. Ottenuto un impasto liscio e omogeneo alzare la velocità e inserire il sale e il resto dell’acqua.

→ 3. Assorbita l’ultima parte di acqua aggiungere olio a filo, lasciare lievitare per 90 minuti a 26-30 gradi.

→ 4. Spezzare e formare panetti da 450 g, lasciare lievitare fino al raddoppio.

→ 5. Stendere e infornare.

→ 6. Precottura a 280 gradi per 6 minuti circa.

Il gelato tutto l’anno

a cura della redazione

Parlare di gelato a gennaio sembra ai più un’operazione fuori tempo ma gli addetti ai lavori sanno bene che gennaio è da sempre consacrato al Sigep, nato come il “salone del gelato” e diventato oggi punto di riferimento per tutta l’arte gastronomica.

Ecco, dunque, che ad accorrere in nostro aiuto per formare una “cultura del gelato” è questo libro di Massimiliano Scotti, uscito nel 2022.

Figlio di un papà piemontese (e in Piemonte la cultura del gelato è diffusissima), Scotti deve al gelato la sua seconda vita professionale: dopo essere diventato direttore generale del marketing di una casa editrice, a quarant'anni si è vestito di bianco e si è messo a fare il gelataio, fondando “Vero Latte” e impegnandosi nello studio di un prodotto di altissima qualità. Il Gelato Festival World Ranking ha decretato “Vero Latte” di Vigevano la quinta migliore gelateria al mondo. Oggi il suo brand è presente, oltre che in Italia, nel Regno Unito e in selezionati luxury hotel e ristoranti stellati.

Autore: Massimiliano Scotti

Casa editrice: Mondadori

Pagine: 160

Sapevate che il gelato è nato 4000 anni fa da un’idea cinese e che i Romani poi se ne sono appropriati? Nel libro, oltre alla storia e a tante curisiotà, si potrà scoprire come usare il gelato in numerose ricette: dai tagliolini al guanciale con gelato al burro e salvia, al sorbetto al mango su carpaccio di pesce spada, alla granita di pompelmo con capesante al miele. Massimiliano Scotti propone 45 ricette da fare anche senza gelatiera. Dai grandi classici che tutti conoscono ai gusti «d’autore», fino al gelato salato e ai suoi abbinamenti, questo libro ci invita ad avvicinarci al gelato in modo nuovo. E ci svela i suoi segreti, la sua filosofia, la continua ricerca del gusto e della sperimentazione.

Un libro per chi non vuole rinunciare al piacere del gelato. E per quelle gelaterie aperte tutto l’anno.

Anno di edizione: 2022

Prezzo di copertina: € 17,90

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