Pizza e Pasta Italiana - Ottobre 2024

Page 1


Gusto autentico e tradizione si incontrano nel Fior di Latte Sorì. Lenta maturazione, latte locale e metodi artigianali per un’esperienza unica. Provalo su pizza e altre mille ricette.

NATURA AD ALTA PRESTAZIONE

IL GUSTO AUTENTICO DEL GRANO. le5stagioni.it

Farine rustiche, di tipo 1 e integrali da macinazione gentile e a bassa temperatura per garantire l’estrazione di farina dai profumi e sapori più intensi. Gusto e performance per pizze dal carattere unico.

Afinox p. 21

Arcabox p. 23

Cuppone p. 53

Demetra p. 11

Di Marco p. 59

Dr. Zanolli p. 69

Fiera Di Catania p. 82

Farm Frites p. 95

Fiera Di Zagabria p. 98

Galbani p. 100

Gimetal p. 49

Kuma Forni p. 39

La Torrente p. 29

Millberg p. 45

Molino Agugiaro p. 3

Molecola p. 7

Scuola Italiana Pizzaioli p. 75

Molino Dallagiovanna p. 71

Molino Pasini p. 43

Rinaldi Superforni p. 37

Sacar p. 27

Sanfelici p. 61

Sorì Italia p. 2

Sitta p. 83

Industria Alimentare Tanagrina p. 89

Uni-Tech (Vamparossa) p. 93

Waico p. 99

Via Dei Briganti p. 77

— Sommario —

editoriale

di Antonio Puzzi 8 - 9

gli eventi del mese a cura della redazione 10 pizza news a cura della redazione

Il gusto dell’amaro

Antonio Puzzi dialoga con Davide Risso

18 Il bicchiere dell'arrivederci Le bevande a fine pasto di Giampiero Rorato

Ma cosa hai messo nel caffè?

di Antonio Puzzi

Ristoranti contro la fame di Noemi Caracciolo

di Giusy Ferraina 42 Carta dei vini in pizzeria: a che punto siamo? di Giusy Ferraina

ristorazione domani La nuova ristorazione

Scuola, Scuola, Scuola! di Giampiero Rorato

La padovana Ludovica Faiotto vince a Napoli

contest

dolce

San Gennaro” di N. C.

storie

Giusy Ferraina

Il caffè dal chicco alla cucina di Caterina Vianello

salute Dottoressa quanti caffé? Meglio lunghi

ristretti a cura della redazione

prodotti Piante di fine pasto di Caterina Vianello 90

La posta dei lettori a cura della redazione 96 Un libro al mese a cura della redazione le aziende informano Molino Dallagiovanna p. 70

Scuola Italiana Pizzaioli

COLOPHON

Editoriale

Si fa presto a dire “pizzeria”! Ma quanto sono cambiate negli anni le nostre abitudini?

Fino a circa un decennio fa, prima del boom turistico che ha portato Napoli a essere una delle mete più visitate del mondo, nei locali storici del capoluogo partenopeo era impensabile anche solo chiedere un caffè. La risposta a questa inusuale (quanto legittima) richiesta sarebbe stata: “Non ce l’abbiamo, noi siamo una pizzeria”. Poi, è arrivata la pizza gourmet, sono arrivate le carte dei vini e, insieme a esse, quelle degli amari e dei bicchierini di fine pasto. E il mondo è cambiato, al punto che oggi pizzaioli come il pugliese (naturalizzato torinese) Domenico Volgare propone un impasto “di recupero” con i fondi del caffè. Nella nostra quotidianità – nonostante qualcuno non la pensi ancora così – è, comunque, impensabile che in una pizzeria, a qualsiasi latitudine, non ci sia un complemento di degustazioni “liquide” fatto a regola d’arte. A tale proposito, ricordo quando, nel 2013, l’allora giovanissimo Ciro Oliva, nel rione Sanità, per innovare l’offerta di “Concettina ai Tre Santi”, decise di realizzare una carta dei vini in grande stile. Mi chiese, così, di cercare per lui un sommelier che potesse accompagnare i clienti nella scelta e quando, attraverso il passaparola, fui contattato da un bravo professionista in cerca di lavoro e questo stesso scoprì che si trattava di una pizzeria e, per giunta, in uno dei quartieri più popolari di Napoli, mi rispose quasi alla maniera di Totò (ma con maggior garbo): “Ma mi faccia il piacere!”. Da allora, di acqua sotto i ponti ne è passata, eppure c’è da dire che praticamente da sempre le pizzerie hanno accompagnato le loro eccellenze col vino: nei camerini delle pizzerie del Settecento, c’erano (eccome se c’erano!) fiumi di vino e, nel Novecento, il Gragnano frizzante era d’obbligo per la pizza al forno mentre il Marsala si sposava perfettamente con la fritta. Col dopoguerra, il vino è stato sostituito dalla birra e oggi, per fortuna, anche quella che era una anonima “bionda” cede sempre più il passo a una “spumosa” offerta di produzioni artigianali. Che direzione stiamo prendendo in questi moderni “anni Venti”? La via è quella giusta? Proviamo a scoprirlo insieme nelle pagine di questo numero di Pizza e Pasta Italiana.

Buona lettura, nio

PIZZA E PASTA ITALIANA

Mensile di Pizza, Pasta, Enogastronomia e Cultura

Edito da PIZZA NEW S.p.A.

Autorizzazione Tribunale di Venezia n.1019 del 02/04/1990

Anno XXXV - n.9 ottobre 2024 - Repertorio ROC n. 5768

DIRETTORE EDITORIALE DIRETTORE ONORARIO

Massimo Puggina Giampiero Rorato

DIRETTORE RESPONSABILE

Antonio Puzzi

PUBBLICITÀ

Caterina Orlandi

REDAZIONE

Via Sansonessa, 49 - 30021 CAORLE (VE) Tel. 0421/ 212348 - Fax 0421/81007 - E-mail: redazione@pizzaepastaitaliana.it www.pizzaepastaitaliana.it

PROGETTO GRAFICO

Manuel Rigo, Paola Dus, Elena Cazzuffi

— Mediagraf lab

DIGITAL PUBLISHING

Maura Trolese

— Mediagraf lab

IN COPERTINA

illustrazione di Basak Saral

STAMPA MEDIAGRAF S.p.A.

Noventa Padovana (Pd)

COMITATO TECNICO E REDAZIONALE

Marisa Cammarano, Gianandrea Rorato, Caterina Vianello, Alfonso Del Forno, Luciano Cescon.

AFFILIAZIONI INTERNAZIONALI

Pete La Chapelle (N.A.P.O. - Pizza Today, U.S.A.), P.M.Q. Steve Green (U.S.A.).

PER INFORMAZIONI, SOTTOSCRIVERE UN ABBONAMENTO O RICHIEDERE UN ARRETRATO:

TELEFONARE AL NUMERO 0421 212348 dal lun. al ven.: 10:00 – 12:00 / 15:00 – 17:00

INVIARE UN FAX A 0421 83178

Servizio abbonamenti Pizza e Pasta Italiana

INVIARE UNA MAIL A: abbonamenti@pizzaepastaitaliana.it L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno e dà diritto a ricevere 11 numeri della rivista. L’abbonamento andrà in corso dal primo numero raggiungibile.

PER LA PUBBLICITÀ SULLE RIVISTE:

ITALIA Pizza e Pasta Italiana; U.S.A. Pizza Today, P.M.Q.

TEL 0421.83148 — FAX 0421.81007

Gli eventi del mese

1–3

ottobre

PIZZA WORLD CUP

Roma, Centro Congressi SHG

Arriva la ventiduesima edizione del Pizza World Cup, la coppa del mondo di pizza con 20 categorie in gara a numero chiuso.

3–13

ottobre

OKTOBER FEST

Ferrara, Fiere Congressi

L’Oktoberfest Ferrara, organizzato da Paulaner, è un entusiasmante evento che celebra la cultura bavarese, riportando a Ferrara l’atmosfera festosa, la musica, la cucina e i costumi tipici della famosa Oktoberfest di Monaco di Baviera. www.oktoberfestferrara.it

6–8

ottobre

DOLOMITI

HORECA

Longarone (BL), Longarone Fiere

Dolomiti

L’ospitalità e la ristorazione nelle aree rurali caratterizzano la maggior parte del lavoro degli operatori che frequentano Dolomiti HoReCa, giunta quest’anno alla quarta edizione. La zona geografica di maggior interesse coinvolge prevalentemente le aree montane e collinari del Veneto, Friuli – Venezia Giulia e Trentino – Alto Adige. Domenica 6 ottobre aperto anche al pubblico generico. www.longaronefiere.it

9–10 ottobre

CLEANINGPIU

digitale

Il 9 e il 10 ottobre oltre 30 relatori in ambito associativo, istituzionale, industriale e accademico si incontreranno per uno stimolante confronto aperto a tutti i professionisti del settore. In oltre 8 sessioni, suddivise in 2 giornate, i protagonisti del settore analizzeranno le opportunità del settore, i trend tecnologici e la transizione digitale ed ecologica della filiera del cleaning professionale. www.cleaningpiu.it

12

–13 ottobre

S. LUCIA DI PIAVE (TV), AREA FIERE

Fiera Benessere & Bio

Prodotti bio, medicina naturale, editoria specializzata e molto altro in questo appuntamento a S. Lucia di Piave che celebra il biologico in tutte le sue forme. www.fierabenesserebio.it

13–16

ottobre

ROMA

FOOD EXCEL

Roma, Fiera di Roma

12 –

ottobre

8 dicembre

Alba (CN), Centro Storico

Nel mese di ottobre, tradizionalmente dedicato al tartufo e alle sue fiere, quella di Alba è sicuramente la madre di tutte le attività sul tema. Il fil rouge di questa edizione è “Intelligenza Naturale”. Da non perdere, tra gli appuntamenti correlati, il Palio e gli Exclusive Tasting di Barolo.

www.fieradeltartufo.org

La Seconda Edizione di Roma Food Excel rappresenta una nuova e importante occasione di incontro fisico e digitale tra i maggiori player del settore dell’industry food. Protagoniste saranno le diverse filiere della Panificazione, Pasticceria, Gelateria, Bomboniera, Pizzeria, Birre, Vini, Ristorazione, Pasta Fresca, Bar, Pubblici Esercizi & Hotel. www.romafoodexcel.it

16–18

ottobre

ZEROEMISSION

Roma, Fiera di Roma

ZeroEmission Mediterranean 2024 è la manifestazione internazionale dedicata alle tecnologie per la produzione e distribuzione di elettricità dal sole, vento, altre rinnovabili, energy storage systems, grids e microgrids, veicoli elettrici, air mobility, infrastrutture di ricarica, energy efficency e comunità energetiche. www.zeroemission.show

ottobre

BLUE PLANET ECONOMY

Roma, Fiera di Roma

Economia Blu tra Ambiente, Sviluppo e Innovazione. Un focus particolare sarà dedicato al Food con espositori e dibattiti su pesca commerciale e professionale, allevamento ittico, sistemi di trattamento, sicurezza, conservazione, distribuzione, biotecnologie marine, farmaceutica e benessere.

18

–20

ottobre

SIAL

Parigi, Paris Nord Villepinte

L’incontro internazionale annuale più amato d’Europa torna a Parigi e ci attende con produttori e distributori ma anche ristoratori e importatori / esportatori, con un occhio di riguardo all’innovazione alimentare.

www.sialparis.com

17 novembre 16–18

www.blueplaneteconomy.it

18–20 ottobre

SIC SALONE INDUSTRIA

CASEARIA E CONSERVIERA

San Marco Evangelista (CE), A1 Expo

SIC è l’unica fiera specializzata in Italia che copre tutti gli aspetti di processo e di lavorazione del settore lattiero - caseario e conserviero. Oltre alle tecnologie di processo, grande rilevanza verrà data a soluzioni per l’imballaggio, materie prime e ingredienti, tecniche di raffreddamento, controllo qualità e logistica. Al centro dell’attenzione, anche l’automazione industriale e le strategie green.

www.saloneindustriacasearia.it

Per segnalare i tuoi eventi, scrivi a redazione@pizzaepastaitaliana.it

19 –ottobre

FRANTOI

APERTI

Umbria

Dal 19 ottobre al 17 novembre si terrà la 27^ edizione di "Frantoi Aperti in Umbria", evento simbolo dell’oleoturismo in Italia che, per cinque fine settimana, celebrerà l’arrivo del nuovo olio extravergine di oliva nel periodo della raccolta e frangitura delle olive, proponendo esperienze in frantoio, tra gli olivi, all’aria aperta e nelle piazze dei borghi medievali e delle città d’arte, legate al mondo dell’olio evo di qualità umbro.

www.umbriatourism.it

25–27 ottobre

FAZI FIERA

AGRICOLA

ZOOTECNICA

ITALIANA

Montichiari (BS), Centro Fiera del Garda

Innovazione e sostenibilità: sono le due parole chiave della 96ª edizione di questa fiera. In calendario, in particolare, la 72ª

Mostra nazionale della razza Frisona Italiana, la 13ª Mostra nazionale della razza Jersey Italiana e il 12° Open Junior Show, che sono le uniche mostre di libro genealogico per queste due razze specializzate da latte e hanno, oltre ad una valenza storica, un mandato istituzionale dal Ministero dell’Agricoltura per essere riconosciute come tali. Fra gli eventi di richiamo della FAZI, non mancheranno le gare di giudizio dedicate agli studenti degli istituti agrari della Penisola e che coinvolgono oltre 1.500 giovani per confrontarsi su morfologia e bellezza delle bovine. Fra i convegni tecnici particolarmente seguiti dagli allevatori e dai tecnici del settore bovino da latte, l’ANAFIBJ organizzerà un evento di approfondimento sulle novità tecniche del settore.

Merano (BZ)

Prosegue il conto alla rovescia per la 33° edizione di Merano WineFestival, in programma dall’8 al 12 novembre 2024 con un format sempre più glamour e internazionale.

www.meranowinefestival.com

La nuova pala 10: una leggerezza senza precedenti

Cerutti Inox ha presentato la sua ultima creazione, una nuova linea di pale con caratteristiche inedite.

In linea con la nostra filosofia aziendale, che pone al centro l'ascolto e la collaborazione con i maestri della pizza, abbiamo progettato una nuova serie tenendo conto delle esigenze specifiche dei pizzaioli moderni. Ad affiancarci in questo nuovo progetto, il nostro brand ambassador Diego Vitagliano - “il maestro degli impasti” - che da tempo ha scelto le nostre pale professionali per i suoi prestigiosi locali ed ha potuto testare le qualità della nuova pala.

La nuova pala 10 è infatti il risultato di un lungo percorso di ricerca e sviluppo, in cui abbiamo integrato le più avanzate tecnologie con il know-how dei maestri pizzaioli, senza tralasciare il richiamo ad un forte simbolo di Napoli, Patria della pizza. I tratti distintivi delle nostre linee di pale, come la rinomata serie Tulip e la resistente Anodizzata Dura, si fondono armoniosamente nella nuova pala, garantendo prestazioni superiori e un design distintivo.

Riccardo Tamburrano

é il miglior pizzaiolo d’Italia

trionfo alla finalissima di Pizza Bit Competition 2024

Durante La Festa dei Granai di Molino Dallagiovanna, che si è svolta a settembre presso la sede dell’azienda molitoria di Gragnano Trebbiense, è stato annunciato il vincitore della terza edizione di Pizza Bit Competition. Riccardo Tamburrano, classe 1994, ha vinto la finale della competizione nazionale rivolta ai pizzaioli professionisti e si è aggiudicato il titolo di “Dallagiovanna Pizza Ambassador 2025”, volto ufficiale del Molino per il settore pizza in Italia e nel mondo. Tamburrano, nato in Puglia ma residente a Pordenone da quando era bambino, lavora presso l’Hotel Ristorante Pizzeria “Da Luciano” di Zoppola (PN).

Alla finale ha trionfato sugli altri 8 finalisti in gara provenienti da tutta Italia con una pizza Margherita, realizzata con Pomodoro San Marzano DOP spezzato a mano, cialda di Parmigiano Reggiano, spuma di mozzarella di bufala, caviale di olio Evo, basilico in due consistenze (disidratato e in gel).

A giudicare i concorrenti è stata la giuria composta da grandi nomi del giornalismo e del mondo della pizza: Pina Sozio (Gambero Rosso), Roberta Schira (Corriere della Sera), Lorenzo Cresci (Il Gusto – La Repubblica), Antonio Fucito (Dissapore e Garage Pizza), Renato Bosco (3 Spicchi Gambero Rosso), Massimiliano Prete (3 Spicchi Gambero Rosso), Stefano Chieregato (2 Spicchi Gambero Rosso), Michele Tonelli (Moretti Forni), Mattia Masala (Molino Dallagiovanna) e Luca Valle (vincitore della seconda edizione di Pizza Bit Competition).

food passion AU TH EN TIC

Tutti i migliori ingredienti più uno... la nostra autentica passione

Rispetto per la stagionalità delle materie prime, “dalla terra in cucina”, dalla raccolta alle preparazioni sapienti, prodotti gustosi e freschi direttamente nelle tue mani. Un’attenta selezione di pomodori conservati in innovative confezioni: polpa, passata, datterini, ciliegini e pomodori pelati... questo è il segreto di Demetra perchè ogni pizza diventi straordinaria.

demetrafood.it

Il gusto dell’amaro

Antonio Puzzi dialoga con Davide Risso

Torino, è venerdì ed è l’ora del vermouth. Siamo in piazza Carignano, di fronte al palazzo reso celebre dalla serie Netflix “Lidia Poet” mentre a pochi passi da noi rombano i motori del Salone dell’automobile.

In questo clima poco idilliaco, io – in preda al primo attacco di freddo della stagione – e Davide Risso, che sfoggia

ancora una bella t-shirt estiva, parliamo di amaro.

Davide ha 35 anni ed è un antropologo molecolare che si è specializzato in scienze del gusto, autore di numerose pubblicazioni scientifiche. Oggi è a capo della ricerca nutrizionale di una multinazionale alimentare con sede a Londra. Tra le sue opere, figurano saggi come “Il gusto degli Italiani” (UTET Grandi Opere, 2015) e “De Gustibus. Sul gusto negli esseri umani e negli altri animali” (Topic, 2023) ma anche il romanzo “Giallo di Sera” (Bookabook, 2023), oltre a diversi racconti in riviste letterarie. Lo definirei un uomo rinascimentale, se non avessi timore della sua smentita.

Davide, quando penso all’amaro e al fatto che ci piaccia, penso proprio che abbiamo dei gusti strani.

L’amaro ci affascina perché è un gusto strano, non immediato. Il dolce e l’umami piacciono quasi a tutti: c’è a chi non piace il dolce ma non è che gli faccia schifo, non ne ne è particolarmente attratto ma, dal punto di vista evoluzionistico, siamo tutti attratti da questi gusti. C’è, infatti, un codice del gusto che ha significati evoluzionistici: il dolce viene principalmente dagli zuccheri, è un simbolo di energia; devi essere attratto da questa sua caratteristica. L’umami è sinonimo di ricchezza proteica ma di quelle proteine già pronte per essere consumate e che quindi danno un apporto rapido al nostro fabbisogno. L’amaro invece, a prima impressione, fa schifo.

Una volta, io ho letto su una rivista “poco scientifica” che noi rigettavamo l’amaro perché poteva essere potenzialmente velenoso. Ma perché allora ci piace?

Questo si lega al discorso del codice: è una narrativa che si usa, un po’ superficiale ma con un fondo di verità. L’amaro è un segno di attenzione che ci dice: “guarda che questa roba qui potrebbe essere pericolosa, addirittura mortale”. Dico, tuttavia, che è superficiale perché non tutte le tossine sono amare e non tutto ciò che è amaro è pericoloso.

Sul perché ci piace bisognerebbe mettere insieme psicologi, neuroscienziati ed esperti sensoriali però sicuramente possiamo dire che è un gusto che “va guadagnato”, non è immediato.

Cioè, da bambini non ci piace l’amaro.

No, se tu prendi i neonati e li esponi ai cinque gusti base, di fronte allo zucchero e all’umami sorridono e ne vogliono di più. Addirittura, prima della nascita, è stato mostrato che se alla mamma vengono date delle capsule con gusto dolce e che arrivano direttamente al feto, questo sorride: si vedono delle immagini bellissime. Se, invece, gli danno qualcosa di amaro, fa una faccia schifata. Lo stesso accade anche per altri animali: c’è un video simpatico di un cammello a cui viene dato un limone, lui lo mastica e, appena riesce a spaccare la buccia, facendo entrare così in bocca l’aspro del limone, fa la stessa faccia che faremmo noi. Questo ci permette di dire che questa reazione è talmente innata nella risposta evoluzionistica che trascende anche genere e specie.

L’amaro, dunque, fa schifo perché è questo il messaggio che deve veicolare.

Sì, ci sono, però, tantissimi composti che, a quantità basse, sono altamente beneficiari: polifenoli, flavonoidi, catechine, caffeina e molti altri che sono amari ma, a quantità giuste, fanno bene. Tantissimi antiossidanti e numerose vitamine sono amare, ad esempio.

Ecco, tu hai citato la caffeina. Noi siamo abituati a pensare al caffè come molto amaro ma, in presenza un metodo di estrazione diverso dall’espresso, poi non è così veritiera questa nostra immagine. Questo mi fa porre una domanda: noi Italiani, il popolo dell’espresso e dell’amaro di fine pasto, siamo più abituati a questo gusto?

L’estrazione, la produzione e la tostatura del caffè consentono a questo prodotto di cambiare moltissimo le sue caratteristiche organolettiche. Tutti pensano che l’amaro del caffè venga dalla caffeina ma in realtà è solo il 10-15% dell’amaro del caffè arriva da lì, in quanto ci sono tantissimi altri composti maggiormente responsabili. Molti composti amari, ad esempio, nel caffè si hanno con la tostatura, non sono già presenti nei chicchi: se, però, la tostatura si spinge troppo, perdiamo gli aromi e l’amaro diventa sgradevole. Per noi Italiani, l’amaro ha davvero un ruolo importante e nella storia della nostra alimentazione e cultura troviamo infatti una attrazione particolare, direi caratteristica, per questo gusto.

Perché quando ci troviamo in presenza di un certo tipo di amaro lo rigettiamo mentre con altre tipologie ci andiamo a braccetto?

Beh, noi stiamo parlando da un po’ di “amaro” ma non abbiamo un unico “amaro”: certo, il gusto è quello ma con tantissime sfumature, al punto che abbiamo circa 26 recettori dell’amaro (alcuni promiscui, altri specifici, altri ancora orfani) e sono tantissimi; di recettori del dolce, infatti, ne abbiamo solo 2 perché esistono meno composti dolci in natura e abbiamo anche imparato che dal dolce non dobbiamo difenderci. Quindi, dipende dal tipo di amaro, dalla sua quantità e di quale “messaggio” ci stia comunicando.

Perché servono così tanti recettori?

Perché in natura ci sono tanti composti amari e questi recettori funzionano un po’ come da difensori, in grado di coglierne il più possibile.

C’è un database bellissimo https://bitterdb.agri.huji.ac.il/dbbitter.php che censisce oltre 1000 composti, di cui circa 250 sono di origine naturale.

Si pensa, però, che ci siano decine di migliaia di composti amari. Ecco, per fare un esempio, tra i recettori dell’amaro, vi è il TAS2R38 che ci permette di captare dei composti chimici sintetici; in natura, composti simili a questi sono presenti nei cavoletti di Bruxelles e nei broccoli: tre mutazioni specifiche nel gene di questo recettore rendono alcune persone molto più sensibili a questo tipo di amaro (si parla di super-taster) e sono state associate ad avere più papille gustative e a prediligire meno alcune verdure amare rispetto ad altre.

Dove sono posizionati i recettori del gusto?

I recettori sono posizionati nelle papille gustative, che sono in media 5000, ma il numero varia molto da persona a persona. La famosa mappa della lingua, che tutti in teoria conosciamo e che fa credere che l’amaro venga percepito solo al fondo, è in realtà, però, una “fake news” perchè l’amaro, come gli altri gusti, lo percepiamo in tutta la bocca. Ma la scoperta più sorprendente è che i recettori dell’amaro sono presenti anche altrove.

Veniamo all’olio: sull’amaro e sul piccante, l’olio è il nostro alleato per scoprire questi “gusti da adulti”. Alcune culture prediligono, però, oli più amari mentre altre preferiscono quelli più tendenti al piccante: da cosa dipende?

L’amaro nell’olio è un caso molto interessante perchè è considerato a tutti gli effetti una caratteristica positiva, di qualità! Le diverse preferenze di olio potrebbero dipendere sì dall’abitudine ma forse dettata dal tipo di varietà di olive disponibili nelle varie geografie, che possono influenzare il profilo sensoriale dell’olio. Abitudine, cultura e apprendimento sono elementi chiave nell’amaro. Io ho smesso di dolcificare il caffè anni e anni fa, per esempio; all’inizio è difficile ma in pochissimo tempo ci si abitua ed è impossibile tornare indietro.

È vero, è capitato anche a me!

Sì, noi definiamo l’amaro “gusto da adulti” ma ha tante sfaccettature. Nella nostra società, infatti, la maggior parte dei cibi processati è dal gusto dolce e grasso, l’amaro non c’è perché “naturalmente” il consumatore non ne è attratto. È stato condotto, tuttavia, uno studio in cui si è dimostrato che nei neonati, già nei primi 4 mesi, si ha la possibilità di intervenire già per cambiare le abitudini alimentari future. Ad esempio,confrontando bambini esposti a latte in formula tradizionale o di soia, si è scoperto che il gusto amaro della soia ha fatto sì che poi questi bambini apprezzassero di più il gusto amaro e verdure amare.

Spesso, dunque, noi le verdure amare le cuociamo, le stracuociamo per far perdere loro l’amaro: molti vegetali, inoltre, erano in passato molto più amari e sono stati selezionati per far perdere loro quest’amaro.

Ma erano più amari e facevano anche male?

E no, questo è il punto. Alcuni composti amari delle verdure ma anche del pompelmo, dell’arancia, del tè, sono anche antiossidanti e possono abbassare il rischio di malattie cardiovascolari. E la medicina tradizionale l’aveva intuito: c’è una correlazione bellissima in Basilicata, per esempio, tra il grado di amarezza di una pianta e il fatto che questa possa essere considerata curativa. A dosi contenute, chiaramente.

Contenute, ma in crescita. Ti dico questo perché prima c’era solo il bicchierino a fine giornata mentre oggi l’amaro sta entrando anche nell’aperitivo, non credi?

Sì, certo. E questo si collega al fatto che i recettori dell’amaro, come accennavo prima, non sono solo presenti in bocca ma anche nel tratto gastrointestinale e in molte altre parti del corpo (tra cui i polmoni, per esempio). Nel tratto gastrointestinale questi recettori hanno funzione di protezione: quando un composto amaro riesce a bypassare la “resistenza naturale” a farsi mangiare e arriva fino a lì, può rilasciare degli ormoni che ti fanno sentire sazio.

La cultura popolare, dunque, ci aveva preso: bere l’amaro voleva dire chiudere il pasto e stimolare il senso di sazietà. Il fatto che oggi si beva l’amaro anche prima di cena è, dunque, un “ritorno al futuro”, dal punto di vista evoluzionistico.

Se, infatti, io bevo qualcosa di amaro prima di mettermi a tavola, inizierò a stimolare già prima una sensazione di sazietà che mi accompagnerà durante il pasto, facendomi magari assumere meno calorie.

Davide, mi hai fatto venire una curiosità per stimolare la creatività dei nostri lettori pizzaioli: spesso, infatti, quando uno imbrocca una ricetta giusta, tanti tendono a replicarla o emularla. Visto, però, che l’amaro lo stiamo scoprendo di più in questo periodo, possiamo puntare su ingredienti “amari” non adeguatamente valorizzati?

Certo. E non serve andare tanto lontano. Intanto, secondo me le varietà, le cultivar influenzano moltissimo l’organolettica:

andare a cercare queste varietà dentro un ingrediente conosciuto è già un grande passo avanti. Non c’è un solo tipo di radicchio, per esempio. Poi, ci sono i friarielli, tra le mie verdure preferite; la cicoria, i carciofi e, infine, il cacao. L’alta cucina usa moltissimo il cacao con diverse varietà e un diverso grado di amaro.

La parola chiave è: sperimentare.

Il bicchiere dell'arrivederci

Le bevande a fine pasto

di Giampiero Rorato

Nella sala della vecchia osteria di un paese veneto s’era radunata una compagnia di amici per festeggiare una vittoria sportiva; mangiarono la sana e saporita cucina dalla “parona de casa” ed alla fine giunse il caffè. Mentre lo sorbivano, un anziano bocciofilo gridò alla cuoca che li serviva:

“E el resentin?” La tradizione consolidata da tempo stabiliva che subito dopo il caffè arrivasse una bevanda alcolica per “resentare” (ripulire) la tazza del caffè.

Si trattava in prevalenza di buona Grappa campagnola oppure di prugna, un liquore molto diffuso non solo nella campagna venetofriulana ma anche in tutto il mondo slavo, lo Sliwovitz. Senza una tazzina o un bicchierino di buona grappa, non si sarebbe potuto dare inizio ai canti popolari che concludevano i pranzi e le cene dove il vino era generoso. In ogni regione italiana ci sono bevande adatte al fine-pasto fra le quali ha giocato un ruolo molto importante l’amaro fatto in casa, di solito a base di grappa, con l’aggiunta di erbe aromatiche o di frutta e conservato sia in famiglia che nelle osterie con cucina per queste occasioni.

In anni più recenti, l’amaro ha avuto la prevalenza sulle grappe prodotte in tutto il nord Italia e non solo;

il cambio di tradizione è dovuto non solo al cambio del gusto ma anche alla più bassa gradazione alcolica degli amari: ogni regione ha il suo (non sto a raccontarli, anche perché lo fanno su queste pagine gli articoli di Giusy Ferraina e Caterina

Vianello), spesso oggi prodotto anche dalle industrie sulla scia di questa proliferazione nata nelle case. Ne è un esempio il Maraschino di Zara, oggi realizzato nel padovano dalla famiglia Luxardo, la stessa che lo elaborò alla fine dell’800, nella città di Zara, dove si era trasferita da Trieste per il commercio del cordame per le navi.

Non solo Luxardo, la cui storia e tenacia merita di essere conosciuta ma molti altri “creatori” di amari, indovinando il gusto del pubblico, hanno creato delle aziende produttive conosciute in tutto il mondo, come la Fernet-Branca, il Mirto di Sardegna, il Montenegro o l’Amaro del Capo;

in

verità le tradizioni locali ci

hanno

tramandato altre bevande

particolari per il fine pasto, abbinandole magari al dessert.

Come il Vin Santo, prodotto un po’ ovunque sul territorio italiano o altri vini di grande interesse come il Marsala, la cui creazione è dovuta agli inglesi.

C’è chi ama anche liquori esotici come il Rum caraibico la Tequila o addirittura la Vodka

Se nelle cene della bocciofila di paese col caffè veniva servito il “resentin”, nelle cene più importanti poteva essere servito in un adatto calice il Cognac, o Armagnac o un gran Brandy spagnolo, per cui la scelta di un bicchiere dell’arrivederci. Era ed è ancor oggi molto ampia quella varietà di “ultimo bicchiere” che ci permette di conoscere le migliori produzioni di tutto il mondo. Ora, anche in Italia, si conoscono e si degustano molti distillati e liquori prodotti nelle più importanti distillerie internazionali, anche se un calicetto di Vin Santo o di un buono vino passito italiano fanno sempre la loro bella figura in qualsiasi tavola.

Non ho citato gli spumanti - sia metodo champenois che charmat - quindi né il Prosecco, né il Franciacorta né altri simili, perché i vini secchi tranquilli, frizzanti o spumanti, stanno meglio all’inizio del convivio per accompagnare gli antipasti o, ancor meglio, fuori pasto.

Da oltre 30 anni Leader nel packaging della pizza per asporto

Per finire il pasto, invece, risultano più adatti i distillati e i vini dolci, passiti, vinsanti: naturalmente vanno rispettati i gusti dei commensali che possono invertirne l’ordine e ne hanno facoltà.

Produciamo contenitori di prima qualità nel pieno rispetto dell'ambiente

Viale Italia, 2 Ponte San Nicolò (PD) Tel. +39 049 8961156

info@arcaboxpizza.com www.arcaboxpizza.com

Un’Italia straordinariamente “amara”

Il giro del Bel Paese in 36 amari di 20 regioni

di Giusy Ferraina

Tra i suoi tanti primati, l’Italia ha anche quello degli amari: nessun altro Paese al mondo ha, infatti, un numero così elevato di liquori amari.

Tra i suoi tanti primati, l’Italia ha anche quello degli amari: nessun altro Paese al mondo ha, infatti, un numero così elevato di liquori amari. Da nord a sud li troviamo lungo tutto lo Stivale e ogni regione italiana ne vanta uno identitario.

La storia dell’amaro comincia nell’antica Grecia con Ippocrate, sotto forma di infusi medicali in alcol per poi prendere forma con i medici-alchimisti islamici all’epoca dei califfati e vede un grande passo in avanti in epoca medievale tra Francia e Italia. È proprio nel nostro Paese, però, che la Scuola Medica di Salerno tira fuori un suo metodo di distillazione non dissimile da quelli usati oggi. Complice della grande produzione italiana liquoristica, è la presenza capillare degli ordi-

ni monastici nel nostro territorio: numerose, infatti, le abbazie e i monasteri da cui arrivano le ricette. Pensate che nella storia dell’amaro compare addirittura anche il “castigatore” Girolamo Savonarola, che crea un amaro ai pinoli, radici di cocomero, di petali di rose e miele per “curare” il vaiolo; e un altro con rosmarino e salvia per i vermi intestinali.

Con la tradizione del Grand Tour nel ‘600, gli amari si propagano in tutta Europa e, in poco più di un secolo, diventano un vero e proprio alcolico da bere in compagnia: siamo nel 1737, l’anno di nascita del Chartreuse Verte, il primo liquore amaro della storia pensato per il piacere e teorizzato dai monaci nelle cantine della certosa di Voiron, come elisir di Lunga Vita.

La parola “amaro” compare nei primi manuali di liquoristica di fine ‘800 e la definizione dei preparati di questa categoria

è quella di “ottimi vermouth senza vino […] piccole medicine degli uomini sani”.

In effetti, la loro nascita corrisponde con la fine della funzione curativa degli “elisir” o “corroboranti”, ovvero quella categoria di liquori composti da erbe e spezie amare con funzione curativa, veri prodotti di farmacopea. A separare la liquoristica amara dalla farmaceutica, ci pensò lo zucchero, che rese piacevole dei rimedi curativi destinati a diventare obsoleti con il sopraggiungere dei medicinali moderni. Ma se prima queste bevande alcoliche dal sapore intenso non riuscivano a trovare una propria collocazione di consumo, è con il secondo dopoguerra e il boom economico che l’amaro dopo pranzo diventa un vero trend. Gli italiani si ritrovano di nuovo a tavola per il piacere della convivialità e non più con il bisogno di sopravvivenza. Ecco, dunque, che l’amaro si colloca a fine pasto per aiutare la

digestione e pulire la bocca. Negli ultimi anni, c’è stato un vero ritorno alla liquoristica, un ritorno alle origini per molti produttori alla ricerca di piante officinali, botaniche ed erbe tipiche, complice anche la grande attenzione alla miscelazione dove gli amari occupano con successo il loro posto. Un ritorno in auge che ha sdoganato l’amaro, le grappe e i liquori di fine pasto, visti come prodotti vecchi e per vecchi, relegati nelle credenze di casa o in ristoranti e pizzerie come l’ammazzacaffè, spesso offerto a fine cena. Oggi possiamo affermare senza sbagliare che gli amari vivono la loro seconda giovinezza: nascono nuove aziende, opifici e microdistillerie, così come le aziende storiche ritornano in produzione con vecchie e nuove ricette.

In questa geografia degli amari nazionali, proviamo a fare un viaggio alla scoperta dei prodotti tipici di ogni regione e, oltre ai marchi conosciuti, sfogliando la nuova guida di “Spirito Autoctono 2024” abbiamo trovato anche una serie di novità e di prodotti sperimentali che vale la pena provare.

Partiamo da nord, dalla Valle D’Aosta , dove c’è il Benefort, 38 gradi alcolici prodotto esclusivamente dalla miscela di oltre 20 tipi di fiori, radici ed erbe alpine, tra cui appunto il “Benefort”, ovvero l’Artemisia absintium e l’omonimo Amaro Aosta prodotto da ‘La Source’, distillando le erbe di montagna, morbido e vegetale, perfetto per abbinamenti o anche da solo con ghiaccio.

Passando al Piemonte , troviamo lo storico Genepì, un liquore piemontese e valdostano ottenuto dalla macerazione di artemisie alpine in alcol; tra le bevande storiche c’è l’Amaro Ulrich, antica eccellenza piemontese dimenticata, che nasce nel 1854 dal genio del Dottor Domenico Ulrich, esperto botanico e farmacista, riportato in auge dalla distilleria Marolo di Alba. Tra le novità da segnalare, c’è poi l’Amaro del Centenario Riserva, prodotto da Cerutti Liquori e premiato con uno dei migliori amari dell’anno: si distingue per l’invecchiamento nelle botti di rovere francese per 24 mesi che aumentano quel fresco sapore di erbe officinali.

Scendendo in Liguria , il punto di riferimento è l’Amaro Camatti, che la distilleria Sangallo produce da un secolo secondo una ricetta segreta rimasta invariata e da cui si si intuiscono solamente alcuni ingredienti base, come il mandorlo, la genziana e l’arancio amaro.

Arriviamo ora in Lombardia e qui sono i due i prodotti iconici che hanno fatto la storia degli amari nazionali, l’Amaro Ramazzotti e il Fernet Branca. Il primo venne prodotto per la prima volta a Milano nel 1815 come “Amaro Felsina Ramazzotti”, da una ricetta segreta del farmacista bolognese trasferitosi a Milano, Ausano Ramazzotti. Il secondo lo dobbiamo a Bernardino Branca che nel 1845 deposita la ricetta, tuttora segreta, di un infuso con fiori, foglie, radici e fusti e nelle prime pubblicità viene descritto come ideale per le sue proprietà benefiche e curative di febbri e persino di stati d’ansia.

In Veneto non possiamo non citare il Cynar, che aiuta “contro il logorio della vita moderna”, altra icona delle bevande spiritose italiane. Prodotto con foglie di carciofo - da cui prende il nome - e altre diciotto erbe tra cui genziana, china, cardamomo e cannella, il Cynar venne creato dall’azienda padovana G.B. Pezziol di proprie-

tà dei fratelli Dalle Molle e testato presso il Ten Bar di Venezia e il Bar Pezziol di Padova; nel 1952 entrò in commercio. E poi, tra le chicche, troviamo l’Amaro Pratum biologico, prodotto da Bonaventura Maschio, un’altra eccellenza dal gusto intenso e profondo. Un amaro frutto dell’infusione di botaniche certificate biologiche che si beve benissimo sia in purezza che in miscelazione.

Tra le montagne del Trentino , non ci sono solo grappe ma abbiamo scovato l’Amaro alle erbe Alpine ‘Alpler’ di Roner e l’Amaro Bruno della distilleria Pilzer, uno degli amari con meno zuccheri aggiunti in assoluto, molto

versatile così come l’Amaro di Trieste (Piolo e Max) che risulta uno dei migliori di tutto il FriuliVenezia Giulia.

Cominciamo a scendere lungo lo Stivale e ci fermiamo in Emilia , terra di amari e buoni bevitori, la cui storia inizia con Stanislao Cobianchi, che mette in commercio il suo elisir, dedicato alla principessa Elena del Montenegro: l’Amaro Montenegro che vive la sua stagione d’oro nel 1921 grazie alle bevute di Gabriele D’Annunzio in compagnia degli intellettuali del tempo.

Ancora oggi, tra i maggiori produttori di amari e liquori ci sono i

monaci camaldolesi, dell’Abbazia di Camaldoli, in Toscana : celebri le loro Gocce Imperiali, un noto liquore digestivo a base di anice, unico nel suo genere perché ad alta gradazione alcolica (ben 90 gradi). E, sempre dalla Toscana, tra la nuova generazione di spirits c’è Labaro Amaro Viola, definito da “Spirito Autoctono” come uno degli amari più originali presenti sul mercato, prodotto dai ragazzi di Spirito Fiorentino.

Nella vicina Umbria , menzione speciale va ad Amaro Ardelio “Bucolico Umbro” di Green Heart Distillery, prodotto con erbe e piante officinali raccolte a mano sulle colline di Trevi.

L’Amaro Sibilla è uno dei liquori più famosi ed apprezzati delle Marche . La sua storia è legata agli antichi usi del territorio montano da cui prende il nome, inventato nel 1868 da Girolamo Varnelli che mise a frutto la sua grande esperienza erboristica per avere un prodotto che fosse anche un “rimedio” per i pastori della transumanza. Ancora oggi, questo amaro è ottenuto da un decotto su fuoco a legna di genziana ed altre piante officinali.

Forno con alimentazione elettrica, dalle dimensioni contenute, concepito per la cottura di 1 o 2 pizze da 33 cm.

p p pinse.

Forni a tunnel con tappeto di cottura in refrattario. Montato su ruote e configurabile per ogni esigenza. Disponibile anche con tecnologia Industria 4.0.

V U L K A N
P U L C I N E L

A Roma, c’è il pluripremiato Amaro Formidabile, l’Elixir Amaricante Finissimo, ideato da Armando Bomba. Un liquore amaro naturale elaborato artigianalmente con un processo di macerazione di piante aromatiche ed officinali in purissimo alcool di grano. Una storia particolare e una ricetta fatta con cura.

Tra i monti dell’ Abruzzo non possiamo non citare il verde Centerbe, nato nell’Abbazia di San Clemente a Casauria e la Genziana, amari rinomati dappertutto e identitari, nati da botaniche e radici di montagna con un maggiore principio attivo utile alla digestione.

E il Molise ? In questo caso esiste e ci regala l’Amaro IS, nato da un’antica ricetta: un concentrato di erbe, fiori, frutti e radici appenniniche digestive, che rappresenta l’essenza del territorio e il cuore della regione.

Eccoci arrivati in Campania e qui ci imbattiamo nell’Amaro Benedettino, una mistura di erbe e aromi naturali, prodotto e imbottigliato nell’antica e pluridecorata Fabbrica di Liquori dell’Abbazia Benedettina del Loreto di Montevergine, vicino Avellino. Mentre da Ischia arriva l’amaro Piperna, prodotto con l’omonima pianta molto aromatica. Una bella novità è Gagà l’Amaro Edonista, creato dai geniali ragazzi delle Officine Alkemiche che hanno prodotto un amaro mai troppo dolce capace di lasciarsi lascia alle spalle l’austerità degli amari di erbe di più classica tradizione.

E ora veniamo al “Cosa vuoi di più dalla vita?”. L’Amaro Lucano risale al 1894 ad opera di Pasquale Vena, proprietario dell’omonimo biscottificio nel paese di Pisticci, in provincia di Matera, pasticciere che produceva già l’amaro mescolando diverse erbe officinali.

Sempre in Basilicata , Galtieri Liquori ha prodotto il nuovo Amaro di Uggiano, con lavorazione manuale secondo le antiche tradizioni per un prodotto moderno e abbinabile anche con tantissimi piatti.

Sulle coste pugliesi , abbiamo trovato l’Amaurum, un amaro che unisce le virtù delle erbe aromatiche pugliesi e orientali con lo spirito del rum giamaicano. Terra anche dell’elisir San Marzano Borsci e del classico e antico Amaro Pugliese.

E giungiamo ora in Calabria , terra di amari grazie al suo retaggio magnogreco. Di amari calabresi se ne contano almeno una cinquantina: ovviamente in Calabria citazione doverosa è per il Vecchio Amaro del Capo (anche nell’edizione speciale del Centenario) prodotto da Caffo a Limbadi (VV), che ha saputo conquistare l’intero Paese divenendo tradizione ovunque. Segue nel “toto nomi” anche Jefferson di Vecchio Magazzino Doganale e Amaro Eroico prodotto dalla distilleria “Essenza Mediterranea” che si compone di 22 essenze che donano un aggraziato equilibrio tra la componente amaricante e la nota balsamica.

Concludendo il nostro viaggio, arriviamo sulle isole, per trovare in Sicilia , lo storico Amaro Averna, nato proprio qui al sud nell’abbazia normanna di Santo Spirito a Caltanissetta, dalla trovata di un monaco benedettino nel 1868. Citazione a parte merita Amara, prodotto in piccola quantità con le arance rosse dell’Etna, perfetto da bere liscio, eccezionale in miscelazione. L’Amara nasce selezionando le migliori scorze di Arancia Rossa di Sicilia, prodotte negli aranceti di proprietà aziendale in Contrada San Martino, con acqua di sorgente ed erbe spontanee dell’Etna.

In Sardegna , infine, da non perdere è l’Amaro Scoccia, lavorato con la carruba e altri prodotti tutti siciliani, un vero caposaldo della territorialità sarda, così come l’Amaro Bomba Carta (prodotto da Silvio Carta), entrato ormai tra gli ‘irrinunciabili’ di tutte le tavole italiane.

“Gli tisti della pizza”

Tante idee da assaporare ogni mese con i nostri dodici “Artisti della pizza”. Ottobre è stato dedicato al nostro caro pizzaiolo Antonio Cardone, che esalta il gusto dei nostri filetti di pomodoro con il basilico con la sua “Margherita al metro”. Una pizza tipica del territorio di Vico Equense (Na), viene cotta in forno a legna ad una temperatura non molto elevata per una cottura lenta e docile. Il risultato è una pizza formato famiglia croccante e morbida al tempo stesso.

www.latorrente.com - info@latorrente.it

Ma cosa hai messo nel caffè?

Viaggio storico e sociale in una tazzina

Tra mito e storia

Un’antica leggenda etiope risalente al 700 d.C. narra l’origine delle coltivazioni di caffè nell’altopiano abissino. Il sito web di una nota azienda italiana del caffè la riporta così: “Un pastore di capre chiamato Kaldi notò che i suoi animali diventavano insolitamente vivaci dopo aver mangiato le bacche rosse di un certo albero. Incuriosito, il pastore provò ad assaggiare le bacche, sentendo un’esplosione di energia analoga a quella delle capre. Entusiasmato dalla scoperta, portò le bacche in un monastero locale, dove i monaci iniziarono a utilizzarle per creare una bevanda che li aiutava a restare svegli a pregare per numerose ore. L’effetto energizzante di quelle bacche iniziò a diffondersi, raggiungendo inizialmente il Medio Oriente e la penisola arabica. Poco dopo il caffè iniziò il suo interminabile viaggio attraverso il mondo. Un’altra versione della leggenda sostiene che Kaldi

abbia condiviso i chicchi con un monaco, che all’inizio ne disapprovò l’uso e li gettò nel fuoco. Sorprendentemente, il risultato fu un aroma meraviglioso e piacevole che, di fatto, portò al primo caffè tostato di tutti i tempi. Poco dopo, i chicchi vennero macinati e bolliti per produrre una bevanda che doveva essere piuttosto simile a quella che oggi conosciamo come caffè”.

Due storie più che affascinanti, dunque, che avvolgono nel mito questa bevanda di cui ogni nazione ha fatto un culto, utilizzandola in diverse preparazioni. In Italia, come ben sappiamo, il caffè scandisce i ritmi della giornata. Sebbene i precisi dettagli sulla sua scoperta siano tuttora incerti, non vi è alcun dubbio, però, sul luogo d’origine, ovvero la regione etiope di Kaffa. Parimenti, la prima prova valida dell’esistenza di una caffetteria risale al XV secolo, nei monasteri del Sufi-

di Antonio Puzzi

smo nell’attuale Yemen. Dalle nostre parti, il caffè arriva solo nel Seicento: a Venezia, nel 1645 aprì, infatti, il primo caffè europeo. Prima di questa preziosa bevanda, nel Vecchio Continente, a colazione si beveva principalmente la birra, in quanto l’acqua era generalmente troppo inquinata. Scoprendo il caffè e sostituendo l’energia all’ebrezza, gli europei provarono prima a coltivarlo sui propri terreni, salvo accorgersi dell’impossibilità a procedere in tal senso e decidere così di coltivarlo sul territorio africano colonizzato.

Il gusto

Il direttore della rivista “L’assaggio” del “Centro Studi Assaggiatori”, Luigi Odello, così

scrive a proposito del caffè e del fatto che si dice che lo usiamo principalmente per la caffeina: se fosse vero che del caffè apprezziamo soprattutto la caffeina, il sistema più rapido per assumerla dalla pianta sarebbe farsi un’insalata con le foglie o mangiarsi le drupe, crude o bollite, come facevano gli antichi”. Spiega poi: «La forza era – ed è – valutata attraverso tre elementi: l’intensità dell’aroma, la consistenza tattile (il corpo, o sciropposità che dir si voglia) e l’intensità dell’amaro. Per ottenere un caffè forte occorre agire su tre variabili: la specie (la Canephora – alla quale appartiene la Robusta – dà caffè più forti rispetto all’Arabica), la tostatura e l’estrazione. Va da sè che utilizzando Robusta e tostando scuro si aumenta la forza, ma parimenti si riduce anche la piacevolezza».

Per promuovere e valorizzare questa cultura italiana del caffè e candidare l’espresso

italiano a Patrimonio Unesco (missione ad oggi – purtroppo – ancora non compiuta), si è costituito il 15 settembre 2014 il Consorzio di tutela del caffè espresso italiano tradizionale. Secondo il Consorzio: “Espresso in italiano antico indica un prodotto ottenuto, tramite spremitura o, in qualche modo, estratto al momento. Con il termine Espresso è denominato, quindi, il caffè consumato velocemente nei locali dei bar e delle caffetterie, preparato espressamente per il cliente con un particolare metodo di estrazione, utilizzando una speciale macchina che consente di ottenere una bevanda servita in tazzina molto concentrata, cremosa, dal gusto e dall’aroma intensi”.

Fin qui tutto bene: la situazione si complica, però, quando si parla di come nascono le macchine espresse. Il Consorzio, infatti, dice: “Le prime invenzioni e i primi brevetti delle macchine professionali

per espresso in Italia risalgono alla fine del XIX secolo. Le macchine per caffè espresso, oggetto di continua evoluzione a livello tecnologico, sono oggi diffuse in tutto il mondo”. Nessun nome, dunque, sull’inventore che, però, da più parti, sembra essere riconosciuto Angelo Moriondo che l’avrebbe brevettata nel 1884. Dopo di lui, tanti furono gli inventori in tutto lo Stivale che la perfezionarono. Il vero problema nel riconoscergli la paternità sta nel fatto che Moriondo era di Torino, mentre la candidatura del caffè arriva da Napoli e Trieste e questo ci spinge a pensare alle solite storie di campanilismo che rischiano di portare a un “nulla di fatto” in termini di ottenimento dell’iscrizione all’elenco del Patrimonio dell’Umanità. E qui mi viene, però, da dire: ma è davvero una macchina a fare la differenza per dire che per Napoli e Trieste il caffè non è solo un rito ma addirittura un mito?

Un rito “tutto italiano”… e dell’Italia tutta

Nella mia piccola esperienza di “vagabondo tricolore”, ho trovato ineguagliabile la storia del “caffè sospeso” della mia Napoli, ovvero l’usanza di lasciare pagato al bar un caffè in più per chi non può permetterselo. Così come è indescrivibile la gioia di aver trovato la stessa pratica in un bar dei portici di Piazza Caricamento a Genova. Il caffè “corretto” trevigiano, poi (ma direi: veneto, in generale) è un’altra storia che parla di commistione tra energia ed ebrezza per sopportare l’umidità e il freddo delle aree fluviali e della campagna, mentre il culto del caffè a Trieste accompagnato da un bicchierino di cioccolato ci racconta dei commerci con l’Est e di una città “imperiale” che, con i suoi stupendi caffè letterari, tende a dimostrare al mondo la sua straordinaria floridità, non solo economica.

Per non parlare delle tantissime canzoni dedicate al caffè che percorrono tutto lo Stivale: da quella che dà il titolo a questo articolo (e a questo numero) scritta nel 1969 dall’ineguagliabile Giancarlo Bigazzi con Giorgio Antola e Riccardo Del Turco, nella quale si esplicita il ruolo sociale del caffè, ovvero tutto ciò che si cela dietro all’invito a “prendere un caffè insieme”; alla bellissima “‘A tazza ‘e cafè” del 1918 con testi di Vittorio Fassone e musica di Giuseppe Capaldo: un omaggio a Brigida, una donna dai modi burberi ma “in fondo in fondo” dolce, come lo zucchero sul fondo della tazzina; fino, ovviamente, a “Il caffè della Peppina” del 1971, a opera di Alberto Anelli, Antonio Martucci e Nicola Giovanni Walter Pinnetti, portata allo Zecchino d’Oro e da lì entrata nel cuore di tutti gli Italiani.

ottobre

Forse, per riuscire a ottenere i riconoscimenti che meritiamo nel mondo, noi Italiani dovremmo superare i metodi di “tafazziana” memoria nell’aizzare città contro città e rione contro rione, al fine di stabilire una inutile primazia in una sorta di “autonomia culturale differenziata”. Siamo nel mondo globale dove la nostra terra appare uno splendore nella totalità dei nostri 302.073 km2

Non ci resta, dunque, che vincere quella che ancora oggi suona come una profezia lasciataci da Dante nel VI canto del Purgatorio: “Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello!”. Prendiamo un caffè insieme e ricominciamo.

IMPASTI ALTERNATIVI, STILI GOURMET E SOSTENIBILITÀ

direttore didattico di Scuola Italiana Pizzaioli

L’Italia, patria indiscutibile della pizza, rappresenta a livello mondiale il paese con gli stili di pizza più diversificati nelle forme e nelle consistenze. Stili che non solo rispecchiano aree geografiche tipiche per la produzione di particolari tipologie di grano ma anche l'evoluzione che alcuni pizzaioli hanno apportato nel settore, trasformando ricette tradizionali in versioni rivisitate. Mi soffermo in particolare sulla capacità di alcuni professionisti di valorizzare farine di grani autoctoni, anche antichi, o farine alternative, come quelle di legumi, che apportano un alto contenuto di proteine e spesso un basso indice glicemico. Queste farine consentono di realizzare impasti alternativi esaltati dalle consistenze, mettendo in risalto la croccantezza o la sofficità. Tutto questo, abbinato a un’attenta lievitazione, rende la pizza, sia nella versione classica che in qualsiasi altro stile, leggera e digeribile. Risultati che creano emozioni durante l’assaggio e portano il cibo al centro di un’esperienza gastronomica salutare, non riducendolo ad una semplice necessità di sostentamento. Un'esperienza che trasforma la pizza in un’esperienza gourmet per chi sa apprezzare il lavoro che c’è dietro la trasformazione di un piatto “semplice” in qualcosa di più esaltante. Gourmet inteso come ricercato, non necessariamente con ingredienti eccessivamente costosi come il tartufo o il prosciutto iberico, ma con l’impegno ammirevole di trasformare anche prodotti di uso quotidiano in qualcosa di raffinato, nelle forme, nei sapori e nelle consistenze. La rivisitazione di ingredienti poveri, spesso locali e di stagione e l’attenzione all’utilizzo completo degli ingredienti per ridurre al minimo gli scarti, rappresentano azioni consapevoli e amorevoli che sempre più professionisti intraprendono, facendo della sostenibilità un elemento centrale del loro lavoro quotidiano. Un atteggiamento che auspico possa diventare sempre più diffuso nelle scelte responsabili e sostenibili di tutti, con l’obiettivo di consegnare un mondo migliore alle generazioni future.

www.scuolaitalianapizzaioli.it info@scuolaitalianapizzaioli.it

Ristoranti contro la fame

Torna a ottobre l’iniziativa di “Azione Contro la Fame”.

Tra i partner anche la Michelin

di Noemi Caracciolo

Parola d’ordine: solidarietà. Termine che deriva dapprima dal latino solidum e poi dal francese solidarité (“sentimento di fratellanza”). Ecco, “solidarietà”, nella sua accezione più moderna invece significa “vincolo di assistenza reciproca nel bisogno che unisce tra loro persone diverse […], condividere con altri sentimenti, opinioni, difficoltà, dolori e l’agire di conseguenza” (Vocabolario Garzanti di Italiano, 2010).

Un concetto bellissimo, che trova la sua massima espressione nell’altruismo e che – quasi sempre concretamente –molti mettono in pratica perché spinti da un sentimento importante: l’amore, in questo caso per il prossimo.

Non è una novità il fatto che la fame nel mondo sia una piaga e che la nostra patria purtroppo non faccia eccezione: secondo i dati Istat, infatti, in Italia quasi

5,7 milioni di persone si trovano in uno stato di povertà assoluta; una persona su 10 è tanto povera da non potersi permettere pasti regolari ed equilibrati. Una situazione che non riguarda solo l’aspetto economico, ma anche quelli sociali, culturali e psicologici.

Azione contro la fame – fondata in Francia nel 1979 – è un’organizzazione umanitaria internazionale che s’impegna

appunto nell’aiutare il prossimo in tutto il mondo, a partire dalla malnutrizione, ma non solo.

Pone infatti in essere diversi progetti e programmi atti a mettere in pratica il senso più profondo di solidarietà, aiutando chi ha bisogno in un percorso di ripresa. Citiamo a tal proposito “Mai più Fame: dall’emergenza all’autonomia”, progetto lanciato nel 2022 a Milano e a giugno 2023 a Napoli, un percorso di formazione e accompagnamento che mira a contrastare la povertà alimentare attraverso il lavoro e il miglioramento delle abitudini di spesa e alimentari, per aiutare chi si trova in difficoltà a rinascere e vivere: «Per me è stata una crescita in tutti i sensi, mi hanno fatta rinascere», ha detto una delle persone coinvolte con le lacrime agli occhi. Un programma grazie al quale – snocciolando solo qualche numero - circa 6 persone su 10 hanno trovato lavoro o sono tornate a studiare, con un tasso di riattivazione complessivo del 59%. Di queste, il 37% ha trovato un impiego regolare e l’11% ha deciso di intraprendere un percorso formativo e il 57% ha dichiarato di consumare pasti più vari. «Nell’affrontare il problema della povertà alimentare, il mix dei fattori che entrano in gioco, come età, genere, istruzione, aspetti sociali e geografici, può dare luogo anche a significative differenze nei risultati. Per questo motivo il nostro intervento viene costantemente adattato al contesto, mettendo sempre al centro

le persone e collaborando strettamente con le reti e le istituzioni del territorio», racconta Ilaria Adinolfi, responsabile del progetto, che vede il supporto del Comune di Napoli e di quello di Milano.

Quest’anno partirà la decima edizione di Ristoranti contro la fame, la più grande campagna solidale messa in atto attraverso la ristorazione italiana, promossa dalla Onlus Azione contro la fame, per sostenere i programmi della campagna MAI PIÙ FAME, in Libano, Sahel e Repubblica Centrafricana nonché in Italia, a Milano e a Napoli con il progetto “Dall’emergenza all’autonomia”. Come lo scorso anno, l’iniziativa partirà il 16 ottobre – Giornata mondiale dell’alimentazione – per concludersi il 31 dicembre. Tanti sono i ristoratori che hanno partecipato in passato e che hanno deciso di aderire al progetto quest’anno: ognuno inviterà i propri clienti a scegliere un piatto solidale attraverso cui donare 2 € e/o 0,50 cent per una bottiglia d’acqua o una pizza solidale. Altresì, ogni ristoratore potrà scegliere di organizzare una serata speciale e devolvere parte del ricavato. La promozione del tutto avviene attraverso una serie di Cene Super Solidali organizzate dagli ambasciatori e promotori del progetto. Molti personaggi in vista del panorama “ristorazione” hanno già aderito mettendo il loro volto in primo piano, per citarne qualcuno: Roberto Valbuzzi, Ernst Knam, Gennaro Esposito, Tommaso Arrigoni e non solo. Ma cosa spinge le persone ad “aiutare”? Potrebbe sembrare un quesito scontato,

ma non lo è affatto.

Anzi, bisognerebbe fermarsi a pensare, guardarsi intorno e capire che c’è una disperata necessità di tendere la mano. Dopotutto qual è il senso dell’essere umano” se non questo? Condividere e sentirsi anche più leggeri nella consapevolezza di aver – con un minimo – contribuito a regalare un sorriso.

«Mi motiva profondamente l'idea di poter fare la differenza in modo tangibile, lavorando direttamente per migliorare le condizioni di vita di chi è più vulnerabile. Il pensiero di essere parte di un team di professionisti dedicati, che operano

in prima linea per curare e prevenire la malnutrizione, suscita in me un senso di responsabilità e gratificazione. Se dovessi invitare i miei colleghi a unirsi al progetto, sottolineerei l'importanza di contribuire a un'organizzazione che ha un impatto diretto e significativo sulla vita delle persone. Inviterei tutti a considerare questa opportunità, non solo come un impegno professionale ma anche come un modo per arricchire il proprio senso di realizzazione personale, sapendo di essere parte di un cambiamento positivo nel mondo», ci dice Gaetano Trovato, chef-patron di “Arnolfo Restaurant” in Toscana.

Daniele Ferrari, di “85 Bistrot” a Sesto San Giovanni (Lombardia), invece ci racconta: «Mi ha spinto ad aderire il fatto di sapere che quotidianamente c’è chi può permettersi di mangiare al ristorante e chi invece non può mangiare affatto. La voglia di contribuire a migliorare anche solo un minimo la vita di qualcuno.

La coscienza. Se ognuno di noi riuscisse a togliersi un po’, un minimo, paragonandolo a dei mattoni, anziché costruire un

muretto, potremmo costruire un palazzo. Altre iniziative sono spesso risultate poco utili o sono fallite; questa, invece, grazie anche al fatto che è patrocinata da movimenti importanti come la Michelin mi ha indotto davvero a crederci. È comunque una cosa che bisogna sentire dentro, bisogna capire che ci si può credere ancora. Chi arriva al ristorante è un fortunato».

Parole incisive, dette nella speranza che anche altri ristoratori scelgano di unirsi alla missione.

L’iniziativa prevede un contributo iniziale e quattro categorie di partecipazione: - platinum, per la formazione e l’accompagnamento all’inserimento lavorativo; - gold, per la consulenza di un/una nutrizionista al fine di promuovere una dieta sana ed equilibrata; - silver, per un supporto psicologico alle famiglie partecipanti al Progetto Italia; - bronze, per un contributo alla spesa per 4 famiglie in Italia con minori.

Nel 2023 hanno partecipato alla raccolta fondi ben 208 realtà, contribuendo a raggiungere una cifra pari a € 178.321 e l’intervento per il 2024 sarà a supporto di ulteriori 200 famiglie: 100 a Milano e 100 a Napoli.

Come anticipato, uno dei partner del progetto è Michelin Italia, che ha favorito la partecipazione di ristoranti presenti nell’omonima guida ma anche Radio Deejay, la Federazione Italiana Cuochi, l’International Pizza Accademy, Ambasciatori del Gusto ecc.

«Abbiamo aderito con entusiasmo al progetto di Ristoranti contro la fame perché, in un mondo pieno di disuguaglianze sociali, possiamo fare un piccolo gesto concreto di solidarietà. L’emozione più grande è poter regalare un sorriso ed un pizzico di serenità alle persone in difficoltà. In fondo cucinare è un gesto d’amore. Tanti piccoli gesti possono fare una grande differenza. Invitiamo i colleghi a partecipare a questa iniziativa anche per dare ai propri clienti un motivo in più per recarsi al ristorante o in pizzeria», ci hanno detto Andrea Colombara e Ars Malak di “Impronta” (Albairate), anch’essi presenti nella Guida Michelin insieme a “85 Bistrot”.

È paradossale pensare che nel “mondo dell’abbondanza”, dove tutto sembra

“troppo”, sono ancora oltre 820 milioni le persone che soffrono la fame, soprattutto donne e bambini. Persone che non riescono a raggiungere il minimo delle calorie necessarie da assumere per sopravvivere. Tra le cause, sono da annoverare: la guerra, la disuguaglianza economica, l’impossibilità per molti di accedere alle risorse di base necessarie per la sopravvivenza, la disuguaglianza di genere, i cambiamenti climatici e le migrazioni forzate.

«Crediamo che ogni essere umano abbia diritto a una vita libera dalla fame. E sappiamo che la fame può essere sconfitta, perché è quello che facciamo ogni giorno, da oltre 40 anni nei 55 Paesi in cui operiamo – ha dichiarato nel 2023 Simone Garroni, direttore generale di Azione contro la Fame – sono due semplici evidenze che dimostrano che cambiare le cose è possibile, a partire da piccoli gesti quotidiani. Grazie a Ristoranti contro la Fame, anche una cena fuori può fare la differenza e salvare delle vite, contribuendo a sostenere i nostri progetti per prevedere, prevenire e curare la fame e la malnutrizione, in Italia e nel mondo”.

Ed è proprio vero: attraverso un piccolo gesto di solidarietà, è possibile mangiare bene e al contempo aiutare chi ne ha bisogno attraverso un’azione davvero concreta.

Carta dei vini in pizzeria : a che punto siamo?

SE LA PIZZA CAMBIA E DIVENTA

SEMPRE PIÙ MODERNA ED

ELABORATA, CAMBIA ANCHE

L’ABBINAMENTO AL CALICE E IL

BINOMIO “PIZZA & VINO” TROVA

SEMPRE PIÙ CONFERMA TRA

DOMANDA E OFFERTA.

Fino a qualche anno fa, mettere insieme le parole pizza e vino per molti clienti - ma anche pizzaioli - era una bestemmia gastronomica, mentre il sacro binomio pizzabirra, oramai vero e proprio stereotipo, era quasi intoccabile (e forse per alcuni rimane tutt’ora tale). Oggi per fortuna non si avverte più quella reticenza, anzi c’è molta curiosità e disponibilità da parte dei clienti a farsi guidare al pairing. Oggi la pizza si è emancipata e sceglie il vino.

Da alcuni anni si parla sempre più di pizza accompagnata dal vino, soprattutto da quando la “tonda” ha trovato nuove espressioni: oltre ad una consapevolezza più forte per quanto riguarda gli impasti, sul disco trovano posto nuovi ingredienti, tutti di alta qualità, che ripropongono le ricette della cucina italiana - da quella regionale e tipica a quella ricercata e creativa - tanto da costruire intorno al consumo della pizza un’esperienza di gusto, prima forse impen-

sabile. Il disco di pasta negli ultimi anni è stato protagonista di una grande sperimentazione che, tra critiche e sostegno, ha avuto l’abilità di trasformare la pizza da elemento di tradizione in un vero piatto da ristorazione fine dining. E di ciò se ne sono accorti sia alcuni sommelier ed esperti che si divertono a sperimentare i fantasiosi topping con le diverse etichette e sia alcuni pizzaioli, che strutturano carte dei vini sempre più interessanti, con un occhio attento al territorio. E di fronte a questo cambiamento strutturale e di visione della pizza e delle pizzerie come luogo di consumo è cosciente anche l’Associazione Verace Pizza Napoletana (AVPN) che, nella sua fedeltà alla tradizione napoletana, sottolinea l’esigenza di un’apertura del mondo pizza verso un servizio completo, più ampio e di qualità soprattutto, e dove anche il binomio “pizza e vino” è sempre più necessario. Lo rimarca lo stesso presidente Antonio Pace: “La

costante evoluzione delle pizzerie passa anche attraverso un elemento fondamentale come l’abbinamento. La pizzeria del futuro dovrà necessariamente assomigliare sempre di più ad un ristorante specializzato e proporre una carta dei vini in grado di soddisfare una clientela sempre più esigente”. Ed ecco perché AVPN, insieme ad AIS Campania, ha dato vita ad un progetto e ad un manuale capace di fornire informazioni, consigli, istruzioni su come creare il giusto wine-pairing, utile specialmente alle piccole pizzerie per costruire la propria carta dei vini con consapevolezza, uscendo dalla logica del vino della casa o di dubbia qualità e in grado di offrire al cliente un’esperienza quanto più piacevole possibile. Il riscontro è stato più che positivo e partecipato come ci racconta lo stesso presidente AIS Campania Tommaso Luongo: “L’idea che alimenta questa progettualità - che ci auguriamo diventi presto di respiro nazionale – è di natura tutta culturale e ha in sé anche un grande potenziale economico per il mercato del vino e per il territorio stesso. Abbiamo cercato di toccare le corde emotive della territorialità e della tradizione, partendo da criteri generali che sono validi per tutte le liste dei vini e non solo per quelle delle pizzerie. Ovviamente si parte dal food per poi costruire una carta guardando anche il contorno, ovvero il target, le economie di investimento, lo stoccaggio dei vini, la formazione del personale, la tipologia di locale: tutti punti da non sottovalutare per la riuscita di una carta, che trova il suo essere “ideale e perfetta” nel momento in cui assolve alla sua funzione. Di sicuro, la gradualità è sempre una buona strategia per partire, magari lavorando su denominazioni trasversali che possono essere dei passpartout”.

“Secondo il manuale proposto – continua Luongo – la carta dei vini poggia su una divisione del menù delle pizze in macrocategorie. Si parte banalmente dalla base bianca e base rossa, per poi dividere tra pizze classiche, fritte, fino ad arrivare a quelle dolci, passando per le pizze dell'Orto, del Mare, del Bosco, del Casaro, del Salumaio, del Cuoco e del Macellaio. Per ognuna di esse, esiste un abbinamento che inizia dal territorio, ma che lancia lo sguardo anche oltre confine”. Nello specifico: “la distinzione basica - tra una pizza a base bianca e una a base rossafunziona sempre e già solo applicando il concetto di concordanza cromatica abbiamo assolto ad un primo step per capire che tipologia di vino abbinare. La prima (ma anche quella fritta) predilige spumanti o vini bianchi sapidi e freschi capaci di ripulire il palato, mentre la seconda - per contrastare l’acidità del pomodoro - vuole dei rossi freschi e giovani, mai molto tannici o dei rosati profumati o, ancora, se vogliamo esagerare, dei bianchi più strutturati. Altro punto fermo da cui partire per non sbagliare è il territorio, imprescindibile a mio avviso ma non esclusivo e limitante”. Ma la finalità dell’abbinamento rimane sempre il fattore emozionale e quindi è importante ragionare su cosa c’è sopra la pizza per scegliere il vino secondo una logica di abbinamenti funzionali al gusto, di territorio, di tradizione ma anche una logica sperimentale per creare scenari nuovi, andando oltre il consueto abbinamento per contrasto o concordanza come tanti libri insegnano ma puntando al principio di valorizzazione e di enfatizzazione.

Se la pizza è come un contenitore che accoglie e dialoga con i prodotti del territorio, in questo abbraccio di gusto il vino rientra a pieno titolo. E, come sottolinea Tommaso Luongo: “La somma, o meglio dire la fusione, della pizza con il vino deve dare come risultante una gratificazione sensoriale, facendo leva sull’esperienza. Inoltre siamo di fronte ad un’operazione culturale perché sia la pizza che il vino sono portavoce del territorio e in una visione più generale ambasciatori della cultura italiana, non solo a casa ma anche all’estero”. Forse ad oggi sono ancora pochi i casi di pizzerie con una carta dei vini strutturata su abbinamenti con padellini, tonde e tranci di vario tipo. E, in questo caso, ci troviamo di fronte a pizzaioli o sommelier illuminati, che interpretano la pizzeria secondo una visione moderna sempre più vicina alla ristorazione, proponendo per i loro clienti esperienze

sensoriali importanti, che nulla hanno a che invidiare a certi locali. Tra questi “illuminati” c’è Clementina Pizzeria a Fiumicino (Rm), una realtà che merita di essere citata come esempio di progettualità ideale, sicuramente non l’unica in Italia ma tra quelle più conosciute da chi scrive e con cui abbiamo avuto il piacere più volte di chiacchierare intorno all’argomento (calice in mano ovviamente).

Daniele Mari, oggi sommelier di “Clementina”, arriva qui per caso due anni fa e da semplice cliente nel giro di tre mesi ne diventa il direttore di sala: “Ricordo che prima di andare via, ho conosciuto Luca Pezzetta con il quale ho avuto un confronto sull’esperienza di quella sera: la carta dei vini con una decina di referenze non era assolutamente adeguata alla sua proposta, così complessa e rivoluzionaria. Era necessario maggiore coraggio. Oggi la carta dei vini include quasi 300 bottiglie, comprese quelle fuori carta, con una sezione dedicata alle etichette francesi importate senza intermediari, due cantine in esclusiva e una quarantina di proposte tra gin, distillati, amari e grappe. Un progetto personale, frutto di mesi di lavoro, viaggi e ricerca”. Ma come stanno veramente le cose in pizzeria? “La figura del sommelier è ormai diffusa nelle pizzerie contemporanee e totalmente assente in quelle convenzionali”, ci dice il nostro sommelier. “Per me il vino ha la stessa valenza di un piatto.

LINEA SOFFIO PIZZERIA

QUATTRO GENERAZIONI, 100 ANNI DI STORIA, L’ARTE DELLA FARINA IMPRESSA NEL DNA.

Quindi, mi piacerebbe trovare in ogni pizzeria una carta dei vini che sia coerente con l’identità del locale. Ben vengano i corsi di approfondimento e di avvicinamento al mondo del vino, purché generino un risultato specifico e non disordinato.

Oggi, in molte pizzerie le carte vengono elaborate dalle agenzie: lo trovo poco gratificante, anzi mortificante. Pensateci bene: dove sarebbe la diversità se bevessi una Ribolla Gialla di quel produttore e la ritrovassi, la settimana successiva, anche in un’altra pizzeria? Dove sta la ricerca e dov’è il lavoro del sommelier? Ma soprattutto: come ci possiamo distinguere? Questo deve essere il nostro faro. Da “Clementina” facciamo questo: ci distinguiamo”.

Ragionando sul concetto della diversità o meglio dell’unicità, possiamo dire che “Clementina” non è una “banale” pizzeria. Per chi è stato qui, sa che c’è la possibilità di un percorso composto da una serie di lievitati e topping ricercati creati da Luca Pezzetta che trova in parallelo uno o più percorsi disegnati da Daniele Mari, che ci racconta come ha costruito la sua carta dei vini: “Abbinare sui piatti e i lievitati di Luca per me è uno stimolo quotidiano. C'è talmente tanta complessità, profondità di sapori, integrazione di profumi che trovare il prodotto giusto per molti è più semplice di quello che si pensi. Ma io amo sbalordire con un pairing difficile: è lì che mi piace eccellere.

La carta di “Clementina” è unica: ho lavorato con una divisione inusuale per famiglie e non per regione, individuando 3 o 4 focus su alcune uve che prediligo e che, secondo me, si sposano perfettamente con le creazioni di Luca.

Avere una pagina intera di Riesling o di Pinot Nero o, ancora, di Chablis lo trovo stimolante per me e credo lo sia anche per i nostri clienti. Ma esistono anche dei paletti che secondo me vanno rispettati: avere dei vini con determinate caratteristiche è elemento fondamentale per andare incontro ai gusti della clientela, a prescindere dall’identità del locale. Per esempio, da “Clementina” le bollicine sono le più vendute, tanto da aver creato una selezione totalmente in esclusiva tra

Franciacorta, Champagne, Rifermentati, Metodo Charmat”. E continua: “Per quanto concerne il discorso pizza e vini del territorio, sono dell’avviso che si può e si deve fare di più, soprattutto nel nostro Lazio. La prossima carta di “Clementina” avrà infatti una profondità diversa e la nostra regione uno spazio ancora più ampio. Ogni pizzeria dovrebbe dedicare una pagina intera ai prodotti del territorio sempre e comunque”.

Al di là dei metodi o delle tecniche di abbinamento è sempre l’emozione che vince e la voglia di creare esperienze da vivere: lo ha sottolineato Luongo e lo conferma anche Mari, che vede l’abbinamento pizza-vino come un qualcosa di privato, di intimo, con cui divertirsi soprattutto se sei quello seduto al tavolo: “I miei clienti si affidano a me al 100%. La cosa importante per loro è bere sempre differente per non annoiarsi e per scovare cose diverse. I clienti nuovi, invece, rimangono sempre un pò spiazzati ma, se riesco a entrare nella loro testa, allora il gioco è fatto”.

C’è un tassello fondamentale che ancora non abbiamo affrontato ed è quello della formazione per questo tipo di pairing. Ho chiesto ad ambedue gli interlocutori se secondo loro fossero più da formare i pizzaioli, i sommelier o i clienti. Entrambi hanno risposto senza esitazione: “tutti e tre”, ognuno in forma differente sicuramente ma con la chiara coscienza di crescere tutti insieme e creare un dialogo senza mai essere al di sopra.

® BORN TO BURN

Ristorazione domani

di Giampiero Rorato

Da tempo, ascoltando anche gli esperti e le inchieste di settore, scriviamo che la nuova ristorazione è sempre più radicata sul territorio e nella tradizione. Come dire che deve ispirarsi alla cucina delle bisnonne, ma questo - anche se essenziale - assolutamente non basta. La ristorazione di qualità ha bisogno dell’apporto di diversi specialisti, come del resto avviene in tutti i lavori che richiedono conoscenze, competenze, aggiornamento e capacità creative. Il pittore, ad esempio, salvo qualche eccezione se vuole raggiungere risultati importanti, deve frequentare un’apposita accademia, qualificati circoli artistici e conoscere molto bene la cultura e le correnti artistiche del tempo. Nel mondo della ristorazione, per quanto riguarda il cuoco, servono precise conoscenze e competenze. Questo personaggio deve conoscere bene la vasta gamma della materia prima che entra nel suo ristorante, le caratteristiche organolettiche, i luoghi d’origine, le capacità nutritive nonché le più serie garanzie igienico-sanitarie. Poi deve conoscere le tecniche di cottura sia tradizionali che moderne, come pure caratteristiche e funzionamento delle attrezzature necessarie. Deve inoltre avere una seria esperienza per realizzare al meglio

le cotture indicate. Acquisita una cultura professionale di questo tipo, consolidata da una adeguata esperienza, meglio se anche internazionale, può dirigere una cucina e quindi diventare chef. Per arrivare al risultato indicato, non basta aver frequentato con successo i 5 anni di un Istituto Alberghiero statale né un serio quadriennio di un Centro di Formazione Professionale regionale. Perché la cucina non è statica ma, pur radicata sul territorio e dosandone i prodotti grazie ad una globalizzazione inarrestabile, è sempre in contatto con altre cucine, altre esperienze, nuovi gusti e nuove

ricerche. E lo è anche perché c’è ovunque un continuo spostarsi di persone: basti pensare, ad esempio, che fuori d’Italia ci sono discendenti di emigrati italiani di un numero di quasi pari agli Italiani che vivono nel nostro Paese. Se ci guardiamo attorno, vediamo le numerose presenze di famiglie e cittadini provenienti da ogni parte del mondo.

Ci sono motivi storici, culturali, geopolitici, in particolare la globalizzazione, il mutare dei gusti, la ricerca del cibo salutare, che spingono la cucina italiana - come tantissime altre cucine - ad evolversi. La cultura tecnico-professionale degli operatori della ristorazione è oggi sufficiente? O è possibile fare meglio?

L’Italia che si avvia a riconquistare il primato del turismo internazionale, perso sul finire del secolo scorso, ha assoluto bisogno di una ristorazione di altissima qualità, anche se già oggi gode di grande considerazione nel mondo.

Da quanto precede, già solo per i cuochi serve una più alta e qualificata formazione professionale per cui serve un impegno maggiore delle Università italiane aperte al mondo della ristorazione, consapevoli che i prodotti agroalimentari italiani sono già oggi ma non da oggi considerati fra i migliori al mondo.

In Italia, ci sono alcune eccellenti Università che si interessano della ristorazione, del personale, dei prodotti, delle architetture, degli arredi e della comunicazione. Credo serva un potenziamento di queste istituzioni, fondamentali perché la nostra ristorazione possa non solo tenere il passo con le sempre più esigenti richieste del mercato interno e internazionale ma possa riconquistare e consolidare quel primato che merita di avere, grazie alla storia e alla cultura che ha caratterizzato la nostra enogastronomia nel corso dei secoli.

C’è un altro motivo per cui la ristorazione italiana nel suo complesso ha diritto di maggior attenzione anche dalle istituzioni nazionali e locali: innanzitutto, il numero degli “addetti ai lavori” è enorme; i ristoranti, così come le pizzerie, sono presenti in tutto il territorio italiano, anche nelle isole minori, contribuendo ad offrire ai giovani dignitosi posti di lavoro, frenandone l’espatrio. Ma, se tanti giovani conquistato il diploma o la laurea scelgono la strada dell’estero, ci sono purtroppo motivi molto validi; ad esempio, non abbiamo ancora conquistato il concetto di “dignità del lavoro”, nella consapevolezza che tutti i lavori, servendo alla vita delle

persone, hanno pari dignità. Ci sono ancora differenze fra i compensi degli uomini e quelli delle donne; gli stipendi purtroppo non sono sempre sufficienti per assicurare ai giovani la realizzazione dei loro sogni come il matrimonio, i figli, la casa. In definitiva, se da una parte si richiede agli operatori - cuochi ed operatori di cucina, maître e personale di sala e di ricezione, sommelier, pizzaioli e l’intera lista di mansioni - una maggiore cultura professionale, serie competenze (anche linguistiche) ambienti e tecniche comunicative come richieste dal mercato internazionale, dall’altra parte si richiede un maggiore e

serio interessamento delle autorità per elaborare e realizzare dei programmi di crescita globale del mondo che qui ci interessa, purtroppo ancora assenti. Un plauso lo meritano i docenti e i dirigenti degli istituti e delle scuole alberghiere per il loro serio lavoro formativo e un ringraziamento particolare va all’Accademia Italiana della Cucina per la meritevole battaglia culturale a difesa della miglior cucina italiana di tradizione, che è poi quella ricercata dai tanti gourmet internazionali che vengono in Italia per gustare la nostra cultura gastronomica.

La padovana

Ludovica Faiotto

vince a Napoli il contest

“Un dolce per San Gennaro”

San Gennà miettece ‘a mana toja… e noi ci mettiamo un dolce per te!

A San Giuseppe la zeppola, a Sant’Antonio Abate il Chisol, la madeleine per San Giacomo e… per San Gennaro? Il legame tra Santi, ricorrenze e dolci è sempre stata una peculiarità della tradizione gastronomica italiana, soprattutto del sud. Ora, è risaputo che i Napoletani scandiscano il tempo con i dolci: basti pensare alla pastiera.

Eppure, qualche anno fa, qualcuno si è reso conto che a San Gennaro (che tra fede, tradizione e superstizione, raccoglie innumerevoli seguaci tra credenti e non) non era stato ancora dedicato un dolce. Ecco che nasce San Gennà… un dolce per San Gennaro, firmato da Mulino Caputo, un contest ideato non solo per onorare il Santo protettore partenopeo ma anche per dare la possibilità ai pasticceri italiani di inneggiare alla creatività e l’artigianalità.

Il 16 settembre scorso - sul roof garden del “Renaissance Naples Hotel Mediterraneo” – si è svolta la settima edizione del concorso, che ha visto sfidarsi sette finalisti tra uomini e donne, napoletani e non. Ognuno di essi ha presentato un dolce innovativo, ma sempre caratterizzato dai colori giallo e rosso e dall’utilizzo di un ingrediente Agrimontana.

«La voglia di stimolare l’artigianalità e la creatività dei ragazzi sono lo spirito di questa competizione. San Gennaro è l’occasione per poter dare spazio, un luogo di confronto, stimoli ai pasticceri. Napoli e l’Italia vantano una grande culla di tradizioni gastronomiche di pasticceria ma è sempre bene che si alzi l’asticella e si valorizzino questi straordinari giovani, che fanno cose meravigliose», ha commentato Antimo Caputo, patron dell’evento e AD dell’omonimo mulino.

«Sono molto onorato di far parte di questo evento, mi sento molto coinvolto, non per niente mi chiamo Gennaro!»,

ha commentato lo chef Gennaro Esposito, uno dei giudici di questa edizione, che ha visto una commissione di tutto rispetto: ad accompagnare il bistellato Chef de La Torre del Saracino, infatti, c’erano Pietro Macellaro, titolare della Pasticceria Agricola Cilentana; Sabatino Sirica, patriarca della pasticceria napoletana e Antimo Caputo. «Si celebra un’icona della cultura napoletana, che, aldilà della sacralità, dà la possibilità di far emergere tanta creatività. La gastronomia da sempre celebra personaggi, eventi, materializzandoli in un piatto: ci sono addirittura formati di pasta dedicati a determinati eventi. È giusto che ci siano anche dolci. La tradizione è un qualcosa che si stratifica nel tempo e si fissa poi nella quotidianità, è un lavoro ambiziosissimo e ancora lungo da fare, ma sarebbe bellissimo riuscirci. Inoltre, in questa edizione vedo giovani e pasticcerie classiche; c’è una trasversalità del concetto di pasticceria, dal ristorante al classico negozio, alla cioccolateria. Tanti comparti, tutti molto complessi. Qui, oggi, vedo rappresentate quasi tutte le espressioni della pasticceria e, soprattutto, una grande cura dell’estetica – segnale di contemporaneità – e un’incredibile attenzione alla materia prima e al racconto dei dolci. Ultimamente, si abbracciano la stagionalità e le tipicità del territorio, tutti messaggi positivi»,

La vincitrice 2024 è una giovane pasticciera veneta, Ludovica Faiotto, 26 anni, titolare, assieme al maestro Denis Dianin della omonima pasticceria di Selvazzano, in provincia di Padova,

che porta a casa un premio di mille euro, mille chili di farina e una enorme soddisfazione per lei che ha dichiarato, emozionata, di “sentirsi un po’ napoletana”. «Il confronto mi ha spinto a partecipare. Sono giovane, penso sia giusto farlo. È

importante conoscere altri professionisti e mettersi in gioco», ha detto la Faiotto prima di essere “eletta”. Parole curiose se si pensa al “dopo vittoria”, quando, commentando il suo dolce, Gennaro Esposito ha detto: «Mi ha colpito il suo voler giocare. Il carico di zuccheri è stato gestito con grande maestria, una scoperta a ogni boccone. Al di là di tecnica ed esecuzione, mi è piaciuto questo non prendersi troppo sul serio che è tipicamente napoletano, anche se questa volta...» ed è stato così che lo chef non ha resistito a una bella risata, alludendo alla “non napoletanità” della giovane pasticcera. Il dolce della vittoria si chiama ‘O Patron: una frolla classica, con croccantino alle mandorle e cremoso di vaniglia, bigné ripieno di gel al mandarino e bavarese allo yogurt con fiori d’arancio; la monoporzione, rivestita da una glassa rossa, punteggiata da scaglie d’oro e petali di fiori.

«I tanti ingredienti mi preoccupavano, ma in realtà sembra una sinfonia», ha commentato Macellaro e, concorde con lui, Sirica si è complimentato emozionato, raccomandando a Ludovica di “restare sempre con i piedi per terra e continuare a coltivare la sua passione con entusiasmo e dedizione”.

La giuria, riconoscendo l’altissimo livello raggiunto da tutte le preparazioni, si è espressa all’unanimità, mettendo in risalto la buona scuola della giovane, la leggerezza e delicatezza del dolce: «Mi

hanno colpito la sua freschezza, i tanti sapori ben definiti che si fanno raccontare e i bellissimi colori», commenta Caputo. «Si vede che c’è una buona scuola; mangiarlo, mi intrigava, è molto equilibrato e spinge a conoscerlo meglio», continua Macellaro.

Ognuno dei partecipanti ha messo nella propria creazione un po’ di sé, un po’ di San Gennaro e tanta fantasia. O Patron è il dolce della vittoria, ma anche tutti gli altri in gara sono da assaggiare e premiare per la creatività dei pasticceri. Ricordiamo Staje senza pensier di Raffaele Cristiano dell’omonima pasticceria (una frolla a li-

mone e nocciola, con cremino a nocciola, cake a limone con scorzette di limone, top di pasta sfoglia e una glassa rossa che in forno si apre a rappresentare la trasformazione del sangue, con una caramella al mandarino per dare una parte acidula); 16/12/1631 di Carlotta Garofalo titolare de “La Carlotteria” (ha la forma del Vesuvio e vuole ricordare il terzo miracolo di San Gennaro: mousse cioccolato bianco e vaniglia Bourbon del Madagascar, cremoso ai frutti esotici e brunoise di ananas, croccantino esotico con cocco rape e pasta di mandorle, biscuit sul fondo); Altro che miracolo, che vuole rappresentare il cappello di San Gennaro, di Giorgio Maiorano de “La Forneria” (tarte choux rossa con craquelin al pistacchio, ananas confit e, a chiudere, crema e gel semiliquido di ananas e vaniglia), O Miracolo di Raffaele Mignone dell’omonima pasticceria (monoporzione alla nocciola e albicocca pellecchiella del Vesuvio con mandorle e coulis di lamponi in una boccettina da colare sul dolce, che

sta a rappresentare il sangue); Cupola di San Gennaro di Armando Scaturchio dell’omonima pasticceria dal 1903 (pan di Spagna red velvet con bagna al limone, crema di more e lamponi e un disco di crumble alla vaniglia, con una pipetta ripiena di glassa di mirtilli); Lilina di Veruska Cardelicchio de la gelateria e pasticceria “Dare”, un dolce dedicato alla sua nonna napoletana, fortemente devota a San Gennaro (semifreddo allo zabaione con inserto al lampone e croccante al pistacchio).

«Di anno in anno - ha dichiarato Antimo Caputo - si sta definendo e codificando la forma del dolce: una cupola». Noi siamo curiosi di vedere cosa accadrà nelle prossime edizioni e quale dolce si “consacrerà” al patrono di Napoli.

A SCUOLA DI PINSA

La Pinsa con il caffé?!

L'idea di abbinare la pinsa romana al caffè, associazione che ricorda la tipica colazione genovese, è un concetto intrigante che apre nuove prospettive nella cucina italiana. La pinsa, con le sue radici romane e la sua consistenza inconfondibile, può infatti diventare una compagna perfetta del caffè, trasformando così la colazione in un'esperienza ricca di nuovi accostamenti. La pinsa romana, come quella di Di Marco, è realizzata con un impasto particolare, frutto di un mix di farine (frumento, soia e riso) e pasta madre, lasciato maturare per 72 ore a temperatura controllata. Una lavorazione unica, che dona alla pinsa croccantezza all’esterno e morbidezza all’interno, e che la rende una base ideale per condimenti sia dolci che salati, perfetti da combinare con il caffè.

Se pensiamo ai sapori dolci, una pinsa farcita con marmellata, crema di nocciole o frutta fresca si abbina bene a un caffè espresso o lungo. L’intensità e il gusto deciso dell’espresso possono bilanciare la dolcezza del condimento, creando un piacevole contrasto. Un esempio interessante è una pinsa condita con marmellata ai frutti di bosco, che, accostata a un caffè forte, esalta le note fruttate, offrendo un mix complesso ma stimolante per il palato.

In alternativa, per un abbinamento salato, la pinsa può essere arricchita con ingredienti come formaggio fresco, prosciutto o verdure gri-

gliate, e accompagnata da un caffè americano o un macchiato. Il sapore più leggero e diluito del caffè americano, infatti, si sposa bene con una pinsa salata, senza sovrastarne il gusto.

Una pinsa con ricotta e spinaci, invece, può trovare un'armonia perfetta con il caffè, grazie alla delicatezza dei suoi sapori e all’equilibrio che si crea tra le due componenti.

Un altro elemento da considerare è la temperatura della pinsa. Servirla calda, appena sfornata o leggermente riscaldata, valorizza ulteriormente l’accostamento con il caffè, creando una sintonia tra la croccantezza della pinsa e la cremosità del caffè.

La pinsa, grazie alla sua versatilità, può essere personalizzata in base ai gusti individuali e al tipo di caffè scelto. Le varianti dolci e salate possono essere adattate per creare combinazioni sempre nuove. Una pinsa al cioccolato fondente può essere perfetta con un cappuccino, dove la dolcezza del cioccolato viene esaltata dal latte e dal caffè. Allo stesso modo, una pinsa con ingredienti più leggeri può trovare il suo equilibrio con un caffè meno intenso, offrendo un’alternativa più delicata.

L’abbinamento tra la pinsa romana Di Marco e il caffè rappresenta quindi un’opportunità per sperimentare nuovi sapori e arricchire la colazione con accostamenti originali, diversi da quelli a cui siamo abituati nella nostra quotidianità.

FERMENTA,

storie di pizza

LA PIZZA CHE RACCONTA L’ABRUZZO.

di Giusy Ferraina

Luca Cornacchia e Giorgia Santuccione,

coppia nella

vita e nella professione, sono stati i primi nel

2018 a portare la pizza contemporanea a Chieti, quella con il cornicione pronunciato e alveolato.

La loro proposta di pizza rompe ogni schema e lancia un impasto alternativo con un topping ricercato e, per di più, un servizio di sala con tanto un wine sommelier e un beer sommelier . Insomma quello a cui la gente del posto non era assolutamente abituata. Dal 2018 ad oggi, il percorso di “Fermenta” è stato lungo ma, quando il pubblico ha compreso e apprezzato la novità, tutto è stato sempre un crescendo e sono arrivati i riconoscimenti. Oggi “Fermenta” è una delle realtà della pizza più importanti della regione. Luca Cornacchia sceglie il territorio e le ricette della tradizione, le trasferisce in modo rivoluzionario sulla pizza, legandosi con ferma volontà e scelta ai prodotti tipici e i fornitori. Il concetto di sinergia con il territorio e di far diventare la pizza sua ambasciatrice è sempre stato un punto fermo per questi due ragazzi.

Come nascono Luca Cornacchia come

pizzaiolo e il progetto di Fermenta?

Questa è una domanda a cui non riesco mai a dare una risposta assoluta. Sicuramente la pizza è sempre stata alla base del mio percorso di vita e professionale, messa da parte solo nel periodo del Luca Cornacchia calciatore, per poi tornare più forte che mai con “Fermenta”, un progetto di cui sentivo l’esigenza dove la pizza doveva essere centrale, così com’è centrale l’Abruzzo, in ogni sua forma. Progetto condiviso con Giorgia e che senza di lei non avrebbe mai preso la forma giusta.

Quanto Abruzzo c'è sulle tue pizze

e perché questa scelta territoriale?

Dal primo giorno, abbiamo voluto incentrare la nostra pizza sul territorio e lo abbiamo fatto per tanti motivi. La sostenibilità economica e la sinergia sono alla base: abbiamo cercato di volgere l’attenzione verso tradizioni e prodotti caduti nel dimenticatoio, verso quelle problematiche territoriali su cui potevamo agire in modo positivo e portare sviluppo. Ad oggi il nostro menu è composto all'80% da prodotti della nostra regione, dai latticini ai pomodori, passando per tutti gli ortaggi o i salumi, fino alla carta dei vini o delle bevande, altro aspetto che ci sta molto a cuore.

Cosa ti piace raccontare della tua regione, quali sono gli aspetti che più ti piacciono e che vuoi mettere sulla tua pizza?

L’Abruzzo è il concetto che portiamo avanti e con esso le sue tradizioni culinarie e, da questo punto di partenza, la pizza diventa narratrice delle nostre origini e di varie storie, come per esempio quella della transumanza che raccontiamo attraverso i formaggi e il latte di pecora, così come con la sua carne o, ancora, la tradizione dimenticata del pomodoro pera d’Abruzzo, un nostro prodotto che abbiamo riportato in auge, un pomodoro più dolce, quasi come un frutto, molto diverso dal pomodoro San Marzano usato dai pizzaioli napoletani. Insomma, la nostra missione è quella di aiutare il nostro territorio, così come il territorio aiuta noi.

E, a tal proposito, qual è la pizza che più riflette la tradizione gastronomica abruzzese?

Sicuramente la “Transumanza”, un padellino farcito all'interno con spezzatino di pecora - meglio conosciuto da queste parti come “pecora alla callara” – con spalla e collo di pecora cotti a bassa temperatura fino a 36 ore, con pomodoro pera d'Abruzzo e poi servito con un formaggio a scorza nera. Mada noi si trovano dagli starter alle pizze anche lo stracotto di papera, i formaggi di Gregorio Rotolo, le Pallotte cacio e uovo, le patate di Atessa, il pecorino di Farindola, la ventricina vastese. Cornacchia ama giocare con gli impasti, così come con le cotture, con topping gourmet e altri più tradizionali. La pizza di Fermenta è frutto di un impasto con una idratazione all’80%. Luca Cornacchia punta tutto sulla leggerezza e digeribilità: ecco perché sceglie di lavorare con un prefermento che prevede un 40% di biga mentre il restante 60% è una farina tipo 0 che lievita per almeno 48 ore.

Questa è la base; poi in menu si trovano anche forme più

sperimentali, vero Luca?

Per quanto riguarda gli impasti, ne facciamo di diverse tipologie oltre a quello base: lavoriamo con farine multicereali, grano saraceno, segale, così come abbiamo sperimentato anche farine autoctone, che proponiamo in

carta a rotazione. Sperimentazione e ricerca anche sulle cotture come il padellino cotto solo a vapore o le pizze in doppia consistenza, prima fritte e poi al forno, per esaltarne l’effetto crunch.

Hai avuto difficolta nel fare apprezzare il tuo progetto e la tua pizza? Com'è stata la reazione iniziale dei clienti?

A distanza di tempo, posso dire che sotto alcuni punti di vista siamo stati fortunati, abbiamo saputo trasmettere il nostro entusiasmo e la nostra passione al cliente; ci siamo raccontati in modo sincero e questo è piaciuto e ci ha aiutati a costruire un rapporto vero con il cliente. In questo percorso di costruzione, abbiamo poi portato avanti la nostra idea di pizza, di cucina, di servizio, di accoglienza: senza imposizione e con le tempistiche giuste, creando curiosità intorno a noi e attenzione.

L’ALLEATO PER IL TUO SUCCESSO

ORIGINALE PINSA ROMANA

Basi pronte da condire e cuocere , nelle versioni freezer, frigo e ambiente : praticità per tutti i tipi di servizio.

LAVORAZIONE ARTIGIANALE

PRONTA IN 5 MINUTI

GUSTOSA, LEGGERA E DIGERIBILE

SUCCESSO GARANTITO

L’impasto ad elevata idratazione permette di dosare il condimento senza eccessi , per la massima resa di gusto, con costi contenuti e alta profittabilità.

www.dimarco.it

E infine dicci qual è la pizza più richiesta, quella diventata la pizza di riferimento di “Fermenta”?

Sicuramente è la ‘ Quel matto di Luca ’, che è anche la mia preferita e che posso spiegarti come una “margherita secondo noi”, composta con pomodoro pera d'Abruzzo macerato con timo, menta, cipolla ed erbe aromatiche, crema di fiordilatte, un pecorino di Farindola all'estremità del bordo che conferisce allo stesso bordo una croccantezza aggiuntiva, come in un ‘percorso del morso’ dal centro della

pizza fino alla sua estremità e, infine, gel di basilico. Il nome glielo ha dato simpaticamente e provocatoriamente Giorgia, all’inizio non proprio convinta ma che poi l’ha definita “un colpo di genio”. L’effetto è un po’ quello della “ ciavarella ”, una sorta di pappa al pomodoro abruzzese, che rappresenta un po’ per tutti noi abruzzesi,

un ricordo d’infanzia. Oggi posso dire che è la nostra pizza identitaria ma, quando è nata, è stata la nostra sfida; era un qualcosa di molto distante dal gusto decodificato della margherita classica non comprensibile per il cliente ma, alla fine, abbiamo avuto ragione.

DI MAIO.

SAN CIRO, BRESCIA

di Noemi Caracciolo
“Una briciola di volontà pesa più di un quintale di giudizio e persuasione”

Arthur Schopenhauer

Ciro Di Maio, 34 anni, è un giovane originario di Napoli – nato e cresciuto in un quartiere non facile – che ha scelto di aggrapparsi alla vita e alla volontà di fare sempre meglio. È un amante della buona cucina con un piccolo ego e un grande cuore. Sulla scia delle brutte esperienze vissute dal suo papà e la rinascita dello stesso, ha intrapreso una strada fatta di bontà d’animo e duro lavoro. Un percorso che ha dato i suoi frutti. Ciro, infatti, oggi è proprietario di San Ciro – ristorante e pizzeria a Brescia – locale di gran successo, dove è possibile assaggiare piatti e pizze legati alla tradizione napoletana, contornati da un pizzico di innovazione e tanta dedizione.

Partiamo dal tuo passato che so esse-

re stato non proprio facile.

Qual è la tua storia?

Mio padre ha avuto un passato turbolento finché non sono nato io e ha deciso di cambiare vita per dare un futuro anche a me, per non farmi sbagliare.

Conobbe le suore di Madre Teresa di Calcutta a Napoli, a Vico dei Panettieri vicino San Gregorio Armeno, che gli cambiarono la vita.

Si dedicò totalmente a progetti sociali e alla realizzazione di una cappella nel quartiere popolare dove abitavo io, a Frattamaggiore. Era molto appassionato di cucina; infatti, tutte le domeniche mi portava dalle suore a cucinare per i poveri, i senzatetto. Quelle sono state le mie prime esperienze: tagliare l’aglio, la cipolla, fare il pomodoro in quei pentoloni giganti. Da lì è nata una passione, come una sfida con mio padre. Iniziai a frequentare l’alberghiero ma ero terribile a scuola, facevo solo guai. Già a 14 anni lavoravo e studiavo. Mi davano 50 lire ogni due settimane. Siamo quattro figli, le mie due sorelle facevano le calzolaie per pochissimi soldi a nero e mio fratello era troppo piccolo per lavorare. La situazione era quella che era, quindi bisognava darsi da fare. Conobbi la famiglia Fornito - quattro generazioni di pizzaioli - e mi dissero che cercavano un fornaio e mi chiesero se volessi imparare.

Ovviamente dissi subito sì. Poi mi chiamarono alla Locanda Masaniello. Partii la prima volta a 17 anni per lavorare in un hotel a 2 stelle a Cattolica, facevo le stagioni estive. Ebbi il mio primo contratto. Febbre, non febbre, dolori, lavoravo sempre. Ad un certo punto tornai a Napoli, la mia mamma aveva un negozietto sfitto e vuoto lasciatole da mia nonna in centro a Fratta e, avendo sempre l’idea di voler aiutare la mia famiglia, comprai 200 € di detersivi e iniziai a venderli, insieme ad articoli da regalo. Feci dei finanziamenti e ci lavoravano mia mamma e mio padre, mentre io continuavo a fare il cuoco. A scuola nel frattempo dormivo, perché la notte lavoravo. Ad un certo punto mi chiamò un hotel a 4 stelle in Trentino e così lasciai la scuola. Da lì passai a Rossopomodoro a Brescia per fare una sostituzione e, alla fine, conobbi una società napoletana che aprì un ristorante, fallì però abbastanza in fretta. Nella stessa, subentrarono altri imprenditori che avevano soldi ma non competenze nella ristorazione e così mi dissero: “guarda, ti regaliamo il 20 %, basta che ci aiuti a sistemare tutta la situazione”. Accettai. Al primo assegno chiamai il commercialista incredulo, non ne avevo mai visto uno. Pian piano iniziai ad acquistare una quota alla volta e, alla fine, presi la maggioranza. All’inizio non uscivano soldi, dovevamo eliminare tutti i debiti. Pian piano, ho preso il controllo della società.

È sempre stato “San Ciro” il nome del locale?

No, inizialmente è nato come “Pizza Madre” ma, visto che non avevamo registrato il nome, ne sono state aperte tante e, per distinguermi, ho creato “San Ciro”. I miei nonni si chiamavano così e, in più, è un nome che sento proprio napoletano.

Napoli e la Campania sono realtà che comunque tu non hai mai abbandonato.

No, mai. Prendo sempre a lavorare persone dal sud. Proprio poco fa è salito un ragazzo dei Quartieri Spagnoli. Non lo faccio per chissà quali motivi ma semplicemente perché credo abbiamo la cultura del cibo e, in particolare, della pizza. Poi, anche per dare un’identità al locale. Chi meglio di un napoletano può capire la cultura del cibo povero? Mi piace coinvolgere anche persone che hanno un passato difficile. Ho fatto corsi in carcere spinto dal passato di mio padre, che adesso non c’è più a causa di un tumore. Quando lui se n’è andato, ho voluto portare avanti il suo progetto: aiutare. Alla fine, nessuno più di lui mi ha dato un giusto esempio, mi ha fatto capire che chi sbaglia può rimediare. L’importante è credere in ciò che si fa e nel cambiamento. Il progetto del carcere di Canton Mombello è stato bellissimo, ho conosciuto persone che davvero mi hanno lasciato un segno e, dopo, abbiamo anche assunto dei ragazzi. Uno di loro purtroppo è ricaduto nei problemi di droga e alcol che aveva già avuto ma, dopo dieci anni di carcere, non è facile riprendersi. Io ci entravo una volta a settimana e ogni volta mi lasciava un segno. Il sentir chiudere quelle porte alle tue spalle è una cosa indescrivibile, fa paura. Però è bello che ci siano tante realtà anche lì dentro, che diano possibilità. Ci sono corsi di ogni specie, dalla sartoria alla cucina, dall’arte alla lingua, ed è bello. Dal mio punto di vista, in base a quanto ha vissuto mio padre, chi ha sbagliato può insegnare tanto e dimostrare tanto.

La tua storia è frutto

di un riscatto.

Sì, certo. Io sono convinto che si possa rimediare, che sia inutile emarginare, altrimenti chi davvero vuole cambiare non avrà l’opportunità di farlo.

Se tu fossi rimasto a Napoli e non avessi intrapreso la strada della cucina, cosa avresti fatto?

Non sarebbe stato facile. Già il solo fatto di sentirti emarginato solo perché vivi nelle case popolari è brutto. Ti racconto un aneddoto: una volta uscii con una ragazza bellissima e pensai: “wow sta uscendo con me”. Mia sorella abitava in centro a Frattamaggiore, dove c’era bella gente e una volta, mentre eravamo lì, la ragazza mi disse: “ma non sali a casa?”. Quando le dissi dove abitavo io, non la vidi né sentii più. Pura emarginazione. Noi che abitavamo lì, venivamo visti come quelli che spacciavano o rubavano. Alla fine, credo che se continuamente vieni trattato in un determinato modo, come uno zingaro, come se venissi dal ghetto, etichettato, emarginato, giudicato, finisci per non avere molta scelta e diventare davvero così. Ci sono realtà come lo spaccio – una cosa che aborro perché odio qualunque tipo di droga – ma anche tante brave famiglie. All’epoca, c’era gente che lavorava per pochi soldi e portava avanti una famiglia.

Però c’è chi ce la fa, come te per esempio. Quando sei andato via, come hai vissuto il cambiamento lavorativo?

Mi sono sempre sentito accolto e apprezzato. Mi dicevano che in Trentino erano razzisti nei confronti dei napoletani; in realtà, per me non è stato così. Dopotutto, se fai conoscere il vero napoletano, quello della Napoli bella, perché dovrebbe essere il contrario? Il proprietario dell’albergo in Trentino, quando arrivava la mattina a lavoro mi diceva: “Uè Uè, come stai?”. Se mostri il vero, il bello e non sei un buffone, allora ti accolgono. Noi napoletani abbiamo tantissime buone qualità, come l’arte dell’arrangiarci, l’umiltà e la semplicità. Poi abbiamo portato la pizza in tutto il mondo, no? Abbiamo fatto storia e credo la facciamo ancora.

Come mai hai deciso di proporre sia la pizza che la cucina?

Ho iniziato come cuoco, però poi con l’aiuto della famiglia Fornito di cui ti parlavo prima, mi sono innamorato anche della pizza. Papà mi diceva di fare lo chef perché riteneva essere un mestiere più “importante”. Ovviamente non è più così. Nei miei piatti c’è la cultura della cucina napoletana: dai più semplici, come la pasta e patate, lo scialatiello allo scoglio o “noci e nucelle”. L’ho chiamato “piatto della tradizione antica napoletana” ma in realtà non è proprio napoletano. Io comunque cerco di metterci anche un po’ di mio. Per esempio, in questo caso,

pasta “Noci e nucelle” – che è un piatto semplice, povero – si prepara con olio, acciughe, noci e nocciole. Io non ci metto le acciughe per accontentare anche i vegani o vegetariani e faccio: base aglio, olio, prezzemolo e peperoncino, un bel soffritto, acqua di cottura della pasta e crema di noci e nocciole invece di sbriciolarle e concludo con qualche nocciola sopra. Stessa cosa per le pizze: ci metto sempre un po’ di me, perché comunque cuoco e pizzaiolo devono essere anche artisti. Per la diavola, ad esempio, la faccio proprio come si faceva quando è stata inventata, quando non esisteva il salame piccante: uso salame Napoli e peperoncino. All’inizio mi chiedevano come mai, poi i clienti si sono abituati, perché hanno anche capito la qualità del prodotto che servo. Il salame me lo faccio arrivare direttamente da Napoli.

Ma in che senso la tua pizza ha le orecchie?

In realtà tutti quelli che fanno una pizza veramente artigianale le fanno. La mia è a ruota di carro e quando la tiriamo a destra e sinistra si fanno le orecchie. Non mi piacciono le cose perfette, la pizza super rotonda da me non la troverai mai. La vera pizza si distingue per sapori, odori e forma.

Pensi di tornare a Napoli

o comunque di aprire qualcosa “giù” in futuro?

Per il momento no. Però continuerò a coinvolgere ragazzi di Napoli, soprattutto chi ha più bisogno. Mi piace aiutare le persone.

Però aiuti anche gli animali

mettendo al contempo in gioco una politica antispreco.

Ho iniziato un progetto con il canile perché notavo che l’acqua era troppo sprecata ed è un bene prezioso. I clienti lasciavano sempre una bottiglina quasi intera sul tavolo e inizialmente la prendevo per i miei cani, però era davvero tanta, troppa. Così è nata l’idea di collaborare con il canile. È stato un successo, mi ha chiamato anche un assessore di un comune in provincia di Bologna, si è complimentato e mi ha chiesto di parlare insieme del progetto, per proporlo anche nella sua zona. Ieri proprio abbiamo portato 40 litri. Bastano due minuti ma ne vale la pena. Il mio gesto è solo una piccola goccia ma, se lo facessero tutti, secondo me sarebbe una gran cosa. Oggi i giovani difficilmente capiscono l’importanza del non sprecare, i sacrifici che hanno fatto i propri genitori o nonni. È importante fargli capire che bisogna darsi da fare. Io ringrazio tanto mio padre per avermi trasmesso questi valori.

Parlami dell’impasto

della tua pizza.

È semplicissimo e lo faccio ancora a occhio. Tocco l’impasto con le mani, mi regolo con l’umidità e aggiusto di lievito, sale ecc.; di quest’ultimo ne uso davvero poco, non mi interessa il guadagno sulle due birre che il cliente per dissetarsi debba prendere. Preferisco mangi una buona pizza e piuttosto alzare il prezzo di 1 €.

Da dove trai la tua ispirazione per piatti e topping?

Innanzitutto, sono un buon cliente e una buona forchetta prima di essere un cuoco e un pizzaiolo. Le idee mi vengono così, senza un particolare motivo. Amo mangiare e sono molto critico con me stesso.

I clienti vengono più per la pizza o per la cucina?

Per la pizza. Però, poi, assaggiando i prodotti, tornano per la cucina. Come ti dicevo uso solo prodotti di ottima qualità, la maggior parte degli ingredienti mi arrivano da Napoli. Come il pomodoro per esempio o la farina.

Tre prodotti che non possono mancare nella tua dispensa?

Basilico, prezzemolo e peperoncino. Amo il piccante, anche troppo in realtà. Mi è capitato anche di avere qualche piatto o una Diavola indietro perché troppo piccanti ma è più forte di me.

Il piatto che va per la maggiore?

Lo Scarpariello: faccio appassire un bel datterino, faccio una cremina con il pomodoro; poi aglio, olio e peperoncino a soffriggere, un po’ di basilico, salto la pasta, aggiungo un mix di Pecorino Romano e Grana Padano, ancora a saltare e, in uscita, altro pecorino e grana. Bello cremoso. Poi la pasta e patate: una classica napoletana ma ci mettiamo il nostro guanciale pepato che io amo; pomodorini per macchiare, patate e, a fine cottura, grana “a go go” e provola affumicata.

Piatto e pizza preferiti?

Spaghetto con le vongole. Personalmente preferisco il pesce. Anche un bel piatto con l’astice, però. Non avendolo mai mangiato da piccolo, quando l’ho assaggiata mi è rimasta impressa. Il pescato lo prendiamo in base alle disponibilità, qui non è facile trovarlo. Riguardo alla pizza, non ne ho una in particolare ma mi piace molto la Cosacca o una bella Margherita fatta bene.

Se venissi da te, che menu mi proporresti?

Una pizza che ho dedicato alla mia mamma, la Patriziella: una fritta, con mozzarella e pomodorini e in uscita Bufala campana DOP che si scioglie sopra. Come primo, uno spaghetto alle vongole che mi piace fare; come secondo, un bel fritto di pesce, che da noi va davvero tanto e poi una bella fetta di pastiera che faccio io, con la ricetta di mia mamma. O anche un bel tiramisù alla Nutella che faccio sempre io, con la crema chantilly.

LA BIRRA

La top 10

La birra, da sempre simbolo di convivialità, è diventata negli ultimi anni una bevanda sempre più apprezzata in Italia. Anche se tradizionalmente associata ai paesi del nord Europa, la birra si sta guadagnando un ruolo

Ma quali sono le regioni dove il consumo di birra è più elevato? Scopriamolo insieme, facendo un viaggio tra le dieci regioni italiane dove la birra è regina.

1. Lombardia

In cima alla classifica troviamo la Lombardia, regione dal forte spirito industriale ma anche ricca di una vivace scena birraria artigianale. Milano, in particolare, è un punto di riferimento per gli appassionati di birra con i suoi numerosi pub e locali specializzati.

Il consumo di birra qui è strettamente legato alla vita sociale e alla cultura dell'aperitivo, un rituale milanese che spesso prevede l’abbinamento di birra e stuzzichini.

2. Veneto

Il Veneto, patria della tradizione vinicola con il celebre Prosecco, sorprende per il suo elevato consumo di birra. Questa regione è ricca di birrifici artigianali che producono birre di qualità, con un forte legame con il territorio.

delle regioni italiane che più amano la birra

LA BIRRA

Le fiere dedicate alla birra e i festival bir rari, come quello di Treviso, attirano ogni anno migliaia di visitatori, contribuendo a diffondere la cultura della birra.

3. Lazio

Il Lazio, e in particolare Roma, ha visto ne gli ultimi anni un boom di birrerie e pub. La capitale d’Italia si è imposta come una delle città più importanti per il consumo di birra, grazie anche alla crescita di microbirrifici che stanno sperimentando nuove varietà. A Roma, la birra viene spesso consumata in abbinamento alla pizza, un'accoppiata che si è consolidata come una delle più amate dagli italiani.

4. Emilia-Romagna

6. Sicilia

Anche al sud, e in particolare in Sicilia, il consumo di birra è in costante crescita. In una terra dove il vino è sempre stato il protagonista, la birra sta conquistando i palati dei siciliani, soprattutto durante le calde estati mediterranee. Birre fresche e leggere vengono apprezzate in abbinamento ai piatti di pesce e alle specialità locali, con un’attenzione crescente per le produzioni artigianali siciliane.

9. Puglia

Terra di sapori forti e decisi, l'EmiliaRomagna è una regione dove il buon cibo è una tradizione. Non sorprende che qui la birra sia molto apprezzata, soprattutto nelle serate in compagnia. Da Bologna a Rimini, la cultura della birra ha trovato terreno fertile, grazie a eventi birrari e a un numero crescente di birrifici che stanno sperimentando combinazioni innovative con i prodotti tipici locali.

5. Piemonte

Il Piemonte è noto per i suoi vini ma, negli ultimi anni, anche la birra ha fatto il suo ingresso trionfale. La regione è diventata un centro importante per la produzione di birra artigianale, con Torino che ospita numerosi festival dedicati a questa bevanda. Qui, il consumo di birra è spesso legato alle cene in famiglia o tra amici, dove si sperimenta l’abbinamento con formaggi e salumi locali.

7. Campania

La Campania, famosa per la sua gastronomia ricca e variegata, non è da meno quando si tratta di birra. Napoli è una delle città dove il consumo di birra ha conosciuto un grande sviluppo, soprattutto tra i giovani. La birra è spesso preferita per accompagnare la pizza napoletana, un connubio che ha conquistato anche i turisti. La regione vanta inoltre un crescente numero di birrifici artigianali che producono birre ispirate alle tradizioni locali.

8. Toscana

La Toscana, terra di grandi vini, ha visto un aumento esponenziale nel consumo di birra. Negli ultimi anni, molti birrifici artigianali toscani hanno raggiunto una fama internazionale, grazie alla qualità delle loro produzioni. La birra qui viene spesso consumata durante i numerosi festival gastronomici che animano le città toscane, dove i visitatori possono assaporare prodotti tipici abbinati a birre locali.

In Puglia, la birra è spesso associata alle lunghe serate estive e ai piatti della tradizione, come le friselle o i taralli. Negli ultimi anni, la regione ha visto una vera e propria rinascita del settore birrario, con un numero crescente di birrifici artigianali che stanno sperimentando nuove varietà ispirate ai sapori locali. Il clima caldo e la convivialità tipica della regione fanno della birra una delle bevande più consumate durante tutto l’anno.

10. Sardegna

Chiudiamo il nostro viaggio in Sardegna, dove la birra ha una tradizione radicata e consolidata. La produzione locale è molto apprezzata, e il consumo di birra è parte integrante della cultura sarda, spesso abbinata ai piatti di carne e alle specialità regionali. La birra in Sardegna viene considerata una bevanda per tutte le occasioni, che unisce le persone nelle grandi feste e celebrazioni dell'isola.

Il consumo di birra in Italia non è solo una moda passeggera, ma una tendenza in costante crescita che coinvolge tutte le regioni del Paese. Dalle grandi città alle piccole realtà locali, la birra si sta affermando come una bevanda versatile e adatta a ogni contesto, accompagnando i piatti della tradizione italiana e offrendo nuove esperienze gustative grazie alla continua evoluzione delle produzioni artigianali.

PLATEA ROTANTE ORAANCHECON

FATTO IN ITALIA, AMATO NEL MONDO.

LE AZIENDE INFORMANO

Conclusa con successo

MOLINO DALLAGIOVANNA

G.R.V SRL

Località Pilastro 2

Gragnano Trebbiense (PC)

Ecommerce: www.shopdallagiovanna.it

“La

Festa dei Granai” di Molino Dallagiovanna

Sabato 7 settembre Molino Dallagiovanna ha organizzato presso la sua sede di Gragnano Trebbiense (PC) la seconda edizione de “La Festa dei Granai” e la finale di Pizza Bit Competition, giunta invece alla terza edizione. La Festa dei Granai nasce per celebrare lo storico legame tra il molino e il suo territorio, la Wheat Valley, cuore pulsante della produzione di grano tenero in Italia, le tante eccellenze del piacentino e l'attività degli agricoltori locali. Proprio a loro e al loro prezioso lavoro è stato dedicato il premio "Chicco d'Oro, assegnato quest’anno a quattro aziende agricole: Zanardi Fausto per la varietà Grano biscottiero, Mamago di Montanari per la varietà Grano panificabile, Botti & C per la varietà Grano di forza, e Silva Giampiero per la varietà Grano taylor.

Sul palco la famiglia Dallagiovanna al completo, con la quinta generazione rappresentata dai cugini Pier Luigi e Sergio e la sesta con Sabrina, Stefania, Renza e Paolo, affiancata da Mattia Casarin per RDS 100% Grandi Successi e da Andrea Mainardi e Daniele Persegani, chef e noti conduttori televisivi. Sul palco anche Stefano Perini di Cantine 4 Valli in rappresentanza della rete Piacenza Food International (PFI), che riunisce 5 imprese piacentine, a conduzione familiare e plurigenerazionali – Cantine 4 Valli, Colla, Fiorani, Molino Dallagiovanna e Salumificio San Carlo – impegnate nella promozione delle eccellenze del territorio in Italia e all’estero.

In occasione de “La Festa dei Granai” si è disputata anche l’attesissima finale nazionale di Pizza Bit Competition, la gara che Molino Dallagiovanna ha ideato per i pizzaioli professionisti con la collaborazione del Gambero Rosso.

A pagina 10 parliamo del suo vincitore.

www.dallagiovanna.it

Il caffè dal chicco alla cucina

Secondo un report dell’Area Studi Mediobanca, rilanciato da Sca Italy, associazione di categoria impegnata nella promozione del caffè di qualità, il mercato mondiale del caffè torrefatto nel 2022 è valutato in 120 miliardi di dollari, rappresentando consumi pari a 170,8 milioni di sacchi da 60 kg, equivalenti a 3,1 miliardi di tazzine bevute ogni giorno su scala globale. Le previsioni parlano di un aumento regolare nei prossimi anni, con tassi di crescita compresi tra l’1% e il 2% che porterebbero a un consumo fino a 208 milioni di sacchi nel 2030, ovvero 3,8 miliardi di tazzine al giorno. In questo quadro l’Italia si colloca al settimo posto al mondo tra i Paesi consumatori di caffè, con 5,2 milioni di sacchi annui, 95 milioni di tazzine sorseggiate ogni

giorno, 1,6 in media per abitante. Ragionando in termini pro-capite, sono i Paesi del Nord Europa a dominare la classifica dei consumi con 4,4 tazzine quotidiane per la Finlandia, 3,2 per la Svezia e 2,6 per la Norvegia. Il consumo domestico nei Paesi dell’Unione Europea rappresenta il 79% del totale, arrivando all’82% in Italia: la Gdo italiana veicola oltre la metà dei volumi di caffè torrefatto venduti, con un ulteriore 20,6% rappresentato dal dettaglio tradizionale, dai negozi specializzati e dall’ecommerce. Il restante 25,2% è diviso tra alberghi, ristoranti, caffetterie e catering (15,4%), distributori automatici e Office Coffee Service (9,8%). Uno sguardo alla produzione mondiale di caffè torrefatto dipinge un quadro che, nonostante la

I primi dieci produttori soddisfano poco più del 35% della domanda mondiale, di cui il 16,1% diviso tra due grandi nomi, Nestlé e JDE Peet’s. Lavazza e Massimo Zanetti Beverage Group (quelli di Segafredo) – per parlare delle due principali realtà nazionali - insieme rappresentano il 4,1% della torrefazione globale. Nonostante siano un centinaio le varietà di caffè note, due sole hanno rilevanza commerciale, l’Arabica e la Robusta. Nel 2022, l’Arabica ha rappresentato il 56,2% della produzione mondiale ma, nel tempo, la Robusta ha aumentato la propria incidenza passando dal 39,2% dell’annata 2012-2013 al 43,8% di quella 2021-2022.

Un quadro significativo, che tuttavia pone l'accento solo sulla parte più evidente del consumo di caffè, quella che lo vuole bevanda.

Anche se decisamente inferiore ai dati riportati, esiste invece un altro universo, quello che vede il caffè utilizzato come ingrediente a tutti gli effetti e non solo – e in modo scontato – nei dolci e nei dessert ma più significativamente in ricette salate. Un universo, che, data la capacità del caffè di sprigionare fino a 800 sfumature di aromi e sapori diversi, merita decisamente di essere esplorato. Muoviamo da due assunti di base: da un lato il bando alla monotonia, dall’altro l’attenzione all’intensità aromatica.

Così, se da una parte dev’essere abbandonata l’idea che il caffè nei piatti debba avere solo la forma in cui siamo abituati a consumarlo – liquida – aprendo piuttosto alle potenzialità che arrivano dalla forma solida, disidratata, macinata, polverizzata, dall’altra è bene ricordare che i suoi molteplici aromi non devono essere utilizzati ed abbinati a caso, quanto piuttosto accostati ad elementi di pari potenza. Occorre, insomma, ripensare al caffè in termini di spezia e adoperarlo, come tale, nelle ricette. Vediamone le potenzialità, gli accostamenti e gli accorgimenti per sfruttarlo al meglio, muovendoci tra ingredienti, consistenze e varietà. Da uno sguardo ai primi piatti, appare immediatamente trasversale alle ricette di molti chef l’uso del caffè per paste e risotti. Se i tagliolini al caffè – aggiungendolo in polvere all’impasto – sono una preparazione tutto sommato comune e replicabile anche a casa, più ampio è il panorama guardando ai risotti, in particolare del fine dining, dove il caffè a contatto

con il calore sprigiona una complessità di aromi notevoli: aggiunto in polvere o inserito durante la preparazione, dopo il brodo, accostato ai formaggi e agli agrumi, fa da spalla giocando con la parte grassa dei latticini o con quella acida di limoni e arance.

Ben più ampio il panorama che si apre guardando alle carni, sia bianche che rosse. Se la delicatezza delle prime impone moderazione, sulle seconde si può spaziare e osare, sia a livello di tecnica che di accostamenti. Ecco allora il caffè, usato per marinare, al posto di aceto o limone, aiutando anche la carne a diventare più tenera; poi in emulsione, per profumare salse di accompagnamento; per laccare le carni (per esempio quella di maiale), prima e durante la cottura, dando loro un colore dorato e un sapore più intenso: ad esempio, nel caso della preparazione delle costine, si può unire la polvere di caffè al liquido usato per brasarle in modo che, quando il liquido evapora, il caffè tenderà a caramellare conferendo un retrogusto

dolce e amaro decisamente interessante. E, ancora, in riduzione, per completare un piatto dandogli una sferzata finale: in questo caso, per ottenere un caffè ridotto e molto concentrato, è sufficiente farlo restringere sul fuoco basso fino a ottenere una consistenza molto cremosa. Inoltre, aggiunto a fine cottura in umidi di carne e stufati (basterà la punta di un cucchiaio a metà cottura), li arricchisce.

Da non sottovalutarne l'uso assieme ad al-
tre spezie:

macinato,

mischiato con sale e paprika, può rivelarsi un mix perfetto per un maiale in crosta.

Le carni vanno massaggiate bene con il composto su tutta la superficie, quindi cotte. Analogamente si può fare con gli hamburger e le polpette. Aggiunto a cacao e semi di cumino, si accosta alle carni di agnello (sempre previo “massaggio”), mentre insieme a cannella, cardamomo e pepe è letteralmente in grado di “accendere” i tagli di manzo.

Capitolo a parte quello della selvaggina: qui germano reale e piccione danno la possibilità di approfondire il tema degli

accostamenti dei sapori, delle tostature e delle varietà. Una tostatura media e dal sapore più intenso valorizza certamente le ricette che li vedono protagonisti, mentre note più delicate (ad esempio quelle di un monorigine 100% Arabica, meglio ancora se tostato più chiaro rispetto a quanto si fa per l’espresso, rimanendo così più acido) sono adatte a carni come quella del maiale, più grasse. Nella scelta tra Arabica o Robusta, vale la regola dell’equilibrio e del bilanciamento: ecco allora che l’Arabica, più dolce e delicata, è preferibile per i primi piatti mentre la Robusta, più legnosa e astringente, ben si abbina alle carni.

La scelta circa l'uso di miscele o monocultivar è invece assolutamente soggettiva: estro creativo, ingredienti particolari e supporto della tecnica verranno in aiuto e potranno sciogliere qualsiasi dubbio.

Sull’uso in chicchi, in polvere o in grani, attenzione all’effetto amaro a livello gustativo e granuloso o sabbioso in merito alla texture: vale sempre la regola di non aggredire il palato e di non coprire il sapore degli altri ingredienti.

E il pesce? Sorprendentemente, il caffè può essere utilizzato anche in piatti di pesce, a patto di rispettarne la delicatezza. O, in caso di una materia prima di altissima qualità, di giocare con i contrasti: ecco allora che si può osare anche con un ottimo crudo, facendo della croccantezza il punto di forza dell’abbinamento.

Sulla pizza, si può?

Chiudiamo questa carrellata guardando al mondo della pizza e alle possibilità del caffè in pizzeria: sono validi anche in questo caso gli accorgimenti di cui abbiamo parlato finora.

L'importante è non strafare, procedere con equilibrio e intelligenza: una pizza (o un piatto) in cui il caffè viene aggiunto solo per impressionare, certamente ci riuscirà... ma in negativo! Col rischio, cioè, di lasciare nel cliente un brutto ricordo di chi lo ha preparato.

Dottoressa quanti caffé?

Meglio lunghi o ristretti

L'irrinunciabile tazzina di caffè rappresenta un rito tipicamente italiano, frutto di un’abitudine molto radicata del nostro paese. Il caffè, attraverso la torrefazione, un processo di cottura dei semi, a temperature di 200-240 °C, assume la classica colorazione bruno nerastra e le caratteristiche organolettiche e morfologiche tipiche, appunto, del caffè.

Le principali caratteristiche nutrizionali e benefiche del caffè sono dovute alle proprietà della caffeina, tra le quali:

• l’effetto stimolatorio  sulla secrezione gastrica e su quella biliare: ecco perché si ritiene che un caffè a fine pasto faciliti la digestione;

• l’effetto tonico e stimolatorio  sulla funzionalità cardiaca e nervosa. Il caffè è in grado di stimolare il sistema nervoso centrale, riducendo la sensazione di sonno e aumentando la sensazione di benessere. I suoi effetti tonici e stimolanti si percepiscono anche sul cuore ed a livello delle funzioni psichiche, con il miglioramento delle capacità mnemoniche e l’aumento della facilità di ragionamento.

• l’effetto lipolitico favorisce il dimagrimento: la caffeina stimola l’utilizzo dei grassi a scopo energetico e la termogenesi, aumentando la quantità di calorie bruciate;

• l’effetto anoressizzante:  il caffè assunto in dosi massicce diminuisce l’appetito.

Il consumo eccessivo, invece, di caffè ci espone a diversi rischi:

• l’effetto stimolatorio  aumenta la produzione di succhi gastrici nello stomaco, il caffè è, infatti, controindicato per chi soffre di gastrite, ulcera o reflusso gastroesofageo;

• l’effetto tonico e stimolatorio  può risultare dannoso per chi soffre di ipertensione, insonnia o vampate di calore. Un elevato consumo di caffè può, anche nelle persone sane, portare a tachicardia, sbalzi della pressione e tremori;

• l’effetto lipolitico  scompare se si beve il caffè zuccherato (20 kcal ogni cucchiaino) o macchiato (10 Kcal);

• l’effetto inibitorio  sull’assorbimento di calcio e ferro può favorire l’anemia e l’osteoporosi, inoltre, può interferire anche in modo importante con l’assorbimento di alendronato (farmaco usato per l’osteoporosi) e può ridurre l’efficacia degli integratori a base di ferro. Gli antibiotici chinolonici, come la ciprofloxacina, possono, invece, aumentare l’assorbimento della caffeina. Il caffè è, inoltre, controindicato se si soffre di ipertiroidismo e glaucoma

Quanti caffè?

300 mg di caffeina sono ritenuti il limite di assunzione giornaliera, questo si tramuta in 5 espressi (60 mg/tazzina) o 3 tazzine abbondanti di caffè della moka (85 mg/tazzina). Non è solamente il caffè che contribuisce all’introduzione di caffeina nel nostro corpo, non vanno dimenticati il tè, il cioccolato ed altre specie vegetali. Il limite viene, però, leggermente abbassato a 3 caffè espressi al giorno per le donne e 4 per i maschi. Le donne in gravidanza dovrebbero limitare al massimo, meglio evitare, il consumo di caffè visto che alte dosi di caffeina risultano pericolose per il nascituro.

Caratteristiche e differenze del caffè lungo o corto

Per alcune persone il caffè è un rito quasi sacro, per altre un’occasione per socializzare, per altre ancora un momento per sé. Tra caffè lungo o corto non ne esiste uno migliore in termini assoluti: tutto dipende dai gusti individuali e dai momenti della giornata o le situazioni in cui viene gustato. A volte, però, ordinare l’uno piuttosto che l’altro non dipende solo da una questione di gusto, ma dal quantitativo di caffeina che pensiamo di ritrovare in tazzina.

La principale differenza che distingue un caffè lungo da uno corto è la quantità di acqua contenuta. Per preparare un caffè lungo c’è chi lascia fluire molta acqua nella tazzina e chi invece serve un normale espresso con, a parte, acqua calda. Il caffè corto o ristretto, invece, si ottiene con una dose inferiore di acqua, ma la stessa quantità di caffè che si utilizza per un espresso.  Di conseguenza, il gusto del caffè cambia: quello corto ha un aroma più intenso e una consistenza più densa e cremosa; quello lungo ha un sapore più morbido e delicato e una texture meno corposa.  Inoltre, c’è da sfatare un falso mito: il caffè corto non contiene più caffeina del caffè lungo, semmai il contrario. Molti erroneamente credono che ordinando un caffè lungo, in qualche modo l’apporto di caffeina venga diluito, invece, proprio perché sottoposto a una preparazione più lunga, ne contiene una quantità maggiore perché ne “produce” di più.  Infatti, la dose di caffeina è direttamente proporzionale al tempo di estrazione, quindi, più breve è il contatto tra acqua e polvere di caffè, minore è la quantità di caffeina nella bevanda. Ecco allora che diventa chiaro come il dosaggio sia inferiore in un caffè ristretto preparato in pochi secondi al contrario, invece del caffè lungo se viene realizzato allungando i tempi di estrazione, e dunque ci sarà una percentuale di caffeina superiore al normale espresso.

Ma, c’è da precisare che il caffè lungo, ben fatto, dovrebbe essere realizzato estraendo un normale caffè espresso e servendo a parte dell’acqua calda: così facendo, la bevanda manterrà un aroma perfetto e, allo stesso tempo, non conterrà una dose maggiore di caffeina.

Ad ogni modo l’arte risiede proprio nell’azzeccare il tempo di contatto tra acqua e caffè. In genere per un espresso standard questo si aggira tra i venti ed i venticinque secondi. In questo modo si otterrà un caffè intenso e strutturato, cremoso e ricco di caffeina da degustare senza troppe distrazioni come zucchero, biscottini o cioccolatini. Al contrario è preferibile pulire il palato con un goccio d’acqua e prepararlo ad accogliere l’intensità gustativa del caffè ristretto.

Il caffè lungo, invece, andrebbe servito nella tazzina normalmente ma con un’aggiunta a parte di acqua bollente. Sarà il destinatario a decidere quanta acqua aggiungere ed a quale temperatura berlo. Solo in questo modo il caffè in tazza rimane profumato ed equilibrato nei suoi trenta millimetri di bontà. Si tratta di uno standard squisitamente italiano dato che, nel resto del mondo, il caffè servito con acqua a parte viene inteso come “Americano”. Ciò nonostante il caffè lungo viene spesso realizzato aumentando i secondi di estrazione dando vita a sostanze sgradevoli, poco digeribili e dallo spiacevole retrogusto bruciato. E come diceva qualcuno…”il caffè è un piacere, se non è buono che piacere è!”

Piante di fine pasto

Quella di amari e liquori non è semplicemente una storia alcolica ma è soprattutto una storia vegetale: sin dall’antichità, infatti, il sapere medicofilosofico, con quella interdisciplinarietà e quell’ampiezza di vedute tipica del passato e che oggi dovremmo recupera -

rivelò fondamentale per la creazione delle prime infusioni alcoliche di erbe, nate a scopo curativo. Il primo amaro ufficiale di cui abbiamo notizia porta la data del 1300: lo creò l’alchimista catalano Arnaldo da Villanova per curare un attacco di colite renale che aveva

Se inizialmente le preparazioni erano esclusivamente ad uso farmacologico, all’inizio del Rinascimento si inizia a ragionare anche in termini di piacevolezza, grazie alla scoperta delle spezie indiane e sudamericane che iniziano ad arrivare in Europa con le compagnie delle Indie olandesi ed inglesi ed ai commerci fiorenti delle città di Venezia e Firenze. Per comprendere il grande ruolo di piante e spezie, è d’obbligo citare la nascita del primo liquore della storia, la Chartreuse. Nel 1605, il maresciallo d’Estrées consegna ai monaci della Certosa di Vauvert un manoscritto contenente un elenco di 130 piante e spezie, ricetta che promette di essere un elisir di lunga vita. Ci vollero più di 100 anni di studi per mettere a punto il liquore, la Chartreuse Vert, che vide la luce nel 1737.

Ben sapendo che non è possibile trattare tutto il vasto mondo di erbe e spezie impie gato nella liquoristica, ci siamo concentrati su alcune le cui storie sono per diversi motivi, decisamente particolari.

Genziana

Originarie della Cina, le genziane contano più di 1400 specie, di cui 30 crescono in Svizzera. È, tuttavia, una tipologia parti colare, la Gentiana lutea, cioè la genziana gialla, quella ad essere impiegata nella preparazione di liquori e amari. Già citata da Dioscoride all’inizio dell’era cristiana e da Andromaco - di cui la triaca, un preparato miracoloso con decine di ingredienti che ebbe notevole successo nell’antichità, avrebbe dovuto rendere invincibile l’imperatore Nerone - deve il suo nome al re Gentius (II secolo a.C.), ultimo re d’Illiria. I principi attivi responsabili dell’amarezza della Genziana sono il genziopicroside e l’amarogentina: se il primo è in quantità maggiore, pare che sia il secondo a determinare il sapore della pianta. La diluizione è in proporzione 1:50.000 e, in ogni caso, la nota amara è sempre preponderante. Se nell’antichità la medicina tradizionale asiatica ne sottolineava la funzione antidepressiva, oggi la genziana viene spesso indicata per rinforzare il sistema digerente debole o ipoattivo. In particolare, i principi amari stimolano i succhi gastrici e attivano lo stomaco, rendendo liquori e amari a base di genziana particolarmente utili in caso di pasti copiosi.

Anice

Nota in Mesopotamia già nel III sec. a.C. quando veniva usata per le sue virtù farmaceutiche (contro il mal di stomaco e come digestivo e sedativo), l’anice ha rappresentato la base di molte bevande medicamentose citate anche da Plinio e Pitagora. Sulle origini della pianta non abbiamo dati certi: Egitto e Grecia sono tuttavia i due paesi più accreditati in merito alla provenienza. Le varietà sono molte ma “solo” una settantina quelle impiegate in pasticceria, cucina e liquoristica. Le più comunemente usate sono quelle che appartengono a due famiglie: illiciace (tra le quali l’anice stellato, più diffuso) e umbrellifere (tra le quali la Pimpinella anisum ). Se il primo tipo è impiegato nella realizzazione degli “anicizzati”, il secondo è invece protagonista in ricette salate e dolci. L’essenza che si estrae per infusione e/o distillazione è un etere metilico chiamato anetolo, mentre il principio attivo è un alcaloide oleoso chiamato olio di Badiane, a cui si deve l’effetto lattiginoso caratteristico dei liquori a base di anice. Le modalità di consumo sono diverse a seconda dei paesi di appartenenza: citare un esempio non ci porta poi così lontano. Mentre, infatti, in Italia il consumo è come digestivo, oltralpe, in Francia, gli anicizzati sono consumati come aperitivi (su tutti, basti citare Pernod e Pastis) e la letteratura abbonda di citazioni illustri circa il loro uso (e abuso).

Artemisia

L’ Artemisia absinthium , questo il nome, è forse una delle botaniche più note: questa celebrità si deve in parte a questioni di gusto, in parte a motivi “culturali”. È dall’artemisia che si ricava infatti l’assenzio, il distillato dei poeti maledetti, simbolo di perdizione per eccellenza nella società francese di fine Ottocento. Sono molte le ipotesi circa le origini del nome: deriverebbe da Artemide, dea greca della caccia dei boschi, secondo alcuni; mentre, per altri, sarebbe da ricollegare al termine greco artemes , cioè sano, di buona salute, alludendo forse alle proprietà della pianta. L’ultima versione lega il nome ad Artemisia II di

Caria, sorella e moglie di Mausolo: a lei risalirebbe la tradizione secondo cui la pianta è dotata di poteri magici, poteri che emergerebbero in particolare nella notte di San Giovanni Battista dopo il solstizio d’estate, il 24 giugno, quando la pianta veniva usata in funzione “scacciadiavoli”, soprannome che le è rimasto nel tempo. La specie Artemisia conta molte varietà, circa 350. Oltre all’ absinthium , degna di nota è la glacialis , notevolmente aromatica anch’essa e dalla quale si ricava il genepì, liquore tipico di Piemonte e Valle D’Aosta, dal riconoscibilissimo colore giallo-verdino.

Ginepro

Arbusto dalla corteccia grigia e rugosa, foglie simili ad aghi, profumate e di colore verde scuro, ed un frutto minuscolo, odoroso, tondo, lucido e dal colore viola-bluastro molto scuro: il ginepro è una delle bacche più versatili, passando dalla cucina al mondo degli alcolici. Il nome discende dal celtico juneprus , acre, ed è il noto sin dall’antichità: citato nel Papiro di Ebers, tra Greci e Romani veniva utilizzato per scopi diversi, da quello terapeutico e propiziatorio a quello gastronomico. Apicio lo considerava già al tempo una spezia essenziale in cucina, come sostituto del pepe. Le bacche (che in realtà sono pigne, ognuna contenente 3 semi) maturano ogni

2 anni e a seconda di clima, altitudine e habitat hanno dimensioni, profumi e sapori diversi. Responsabili dell’aroma sono le ghiandole che contengono un’essenza resinosa. L’uso alcolico più noto è quello che porta alla preparazione del gin dopo essere state macerate in alcool. Le origini del distillato risalgono alla Scuola Salernitana ed oggi, dopo anni di silenzio, il gin è tornato alla ribalta sulla scena della mixology.

China

La China calissaia ( Cinchona calisaya ) è originaria del Sud America. Deve il nome ad Ana de Osorio, contessa di Chincon e moglie del viceré del Perù, che scoprì su sé stessa le virtù della corteccia di china, guarendo da febbri malariche ed essendo determinante per l’importazione in Europa nella prima metà del XVII secolo. Nota appunto soprattutto per l’alto potere curativo delle febbri del chinino da parte di un alcaloide febbrifugo e antimalarico (veniva chiamata “corteccia peruviana” perché gli alcaloidi sono presenti soprattutto in quella parte della pianta), la china è una delle più classiche nella preparazione di liquori amari e vini aromatizzati. È a Giava e nello Sri Lanka che si trovano le piantagioni più considerevoli, mentre la grande massa del commercio transita per Amsterdam. La parte più sfruttata è, come detto, la corteccia: viene raccolta dagli alberi abbattuti, di 12-25 anni. Biancastra appena raccolta, al contatto con l’aria cambia colore, diventando rapidamente rosso-bruna o giallo-bruna. Prima posta al sole, viene fatta seccare completamente in essiccatoio a 70-80 °C. Usata nella preparazione di liquori (in particolare, la varietà rossa), è alla base di una serie di prodotti commerciali che hanno fatto la storia: Ferrochina Bisleri, China Martini, Elisir di China, Barolo chinato, oltre all’acqua tonica: notevoli, infatti, sono le sue capacità aperitive e digestive, aumentando la secrezione cloridropeptica dello stomaco.

Rabarbaro

Pianta erbacea della famiglia delle Poligonacee, è usato sin dall’antichità a scopo alimentare e medicinale, in particolare da alcune popolazioni asiatiche. Pare che i Cinesi lo utilizzassero già dal 2700 a.C. e che rientrasse fra gli alimenti tradizionali delle popolazioni mongole. Decisamente più recente, invece, l’uso fra le popolazioni occidentali. L’impiego alimentare si limita al lungo picciolo, consistente e carnoso che, nella varietà tanguticum , presenta una base rossastra e che viene impiegato soprattutto per la preparazione di torte dolci o salate e confetture. L’impiego nel settore liquoristico coinvolge il rizoma (le specie più utilizzate sono Rheum officinalis e Rheum palmatum mentre la varietà più pregiata e utilizzata è la “tanguticum” ) che viene raccolto da piante di oltre un anno di età, decorticato e frantumato - in pezzetti le cui dimensioni variano dai 3-5 cm ai 7-8 cm - quindi trattato per l’essicazione, su graticci o in stufa. Grazie alle sue proprietà in grado di regolare le funzioni digestive, viene utilizzato per la produzione di amari tonico-digestivi oppure come ingrediente correttore del sapore per aperitivi e amari a base di erbe o come esaltatore dei bouquet aromatici.

LA POSTA DEI LETTORI

redazione@ pizzaepastaitaliana.it

Oggetto:

Ma quanto costa l'amaro in pizzeria?

a cura della redazione

Caro Direttore, sempre più spesso mi trovo in difficoltà: i clienti si aspettano sempre che l’amaro venga regalato e, se questo è qualcosa che al Nord è ormai andato in disuso quasi ovunque, dalle mie parti, al Sud, sembra che sia quasi un dovere e provano sempre a farmi sentire in colpa per l’addebito di quel bicchierino.

Chi ha ragione, secondo te? Quale dovrebbe essere il prezzo giusto dell’amaro?

Enzo (via e-mail)

È tradizione italiana e antica – una di quelle che definisce il carattere del nostro paese nel mondo – bere un “ammazzacaffè” a fine pasto. Inizialmente, come il nome suggerisce, serviva a ripulire la bocca dal caffè, ad ammazzarne il sapore, appunto. Un’abitudine che si è protratta nel tempo, con l’unica differenza che oramai non è più solo una necessità ma si beve per puro piacere, per digerire o, se vogliamo, per prolungare un momento di convivialità.

Che sia a casa o in un locale, dopo mangiato è dunque uso comune “farsi un bicchierino”.

L’amaro va per la maggiore, che sia fatto in casa o commerciale. Ecco perché oggi è quasi impossibile non trovarlo in menu, ma quanto costa l’amaro in pizzeria?

Ebbene, da un’indagine non proprio scientifica - ma pur sempre una piccola indagine - è emerso che i prezzi sui menu delle pizzerie italiane si aggirano più o meno tutti intorno alle stesse cifre e cioè fra i 3 e i 4 €. Difficile trovare qualcuno che venda l’amaro ad un prezzo inferiore o maggiore, ma questo chiaramente dipende dal tipo di prodotto che si propone.

Ci sono alcune pizzerie che danno al cliente la possibilità di scegliere tra un prodotto più commerciale e un prodotto più tipico e unico.

È il caso, ad esempio, della Pizzeria “Da Donato” a Bari che, sulla carta, ha addirittura più di 30 referenze di amari, dal “Lucano” al “Del Capo”, fino a quelli più particolari.

Ho chiesto al proprietario come mai alcuni prezzi fossero così alti e lui mi ha detto:

«La nostra proposta varia tra amari commerciali e altri provenienti da varie zone d’Italia, come Sardegna o Sicilia.

Se pago 50 € una bottiglia dalla quale escono circa 10 bicchieri, vado a recuperare solo i soldi che ho speso per acquistarli».

È dunque una questione di spesa. Altri scelgono più semplicemente di fidelizzare il cliente o dimostrargli gratitudine offrendo un omaggio “dopo pasto”. Come Francesco Maiorana della Pizzeria “San Francisco” a Tramonti, che non si è mai fatto pagare per un liquore o un caffè a fine pasto:

«Non posso aiutarti sui prezzi, offro da sempre un limoncello prodotto da un’azienda locale o un Concerto artigianale che facciamo noi. Non usiamo prodotti commerciali. Preferisco offrire qualcosa ai clienti e soprattutto qualcosa di territoriale».

La maggior parte propone amari abbastanza conosciuti e commerciali, ma tenendosi – a parte qualche piccola eccezione come per il “Jefferson”, il cui valore è un po’ più alto rispetto alla media – più o meno sempre nello stesso range di prezzo. Non mancano eccezioni ovviamente: alcuni propongono infatti l’amaro a 2,50 € o addirittura a 2 €, ma ahimè, chiedo venia, non siamo riusciti a capire il perché.

Benché il fatto di bere un amaro a fine pasto sia un rito quasi irrinunciabile per gli Italiani, alcuni ristoratori concordano nell’affermare che in realtà il consumo degli stessi sia un po’ calato per lasciare spazio ad altro:

«I prodotti “facili” come il Montenegro, l’Averna ecc., restano i più graditi, anche se – almeno nel mio locale – è l’Amaro del Capo a riscuotere maggior successo, forte probabilmente di una bella campagna marketing.

I miei prezzi si aggirano intorno ai 4 €. I prezzi di vendita sono calcolati in base al costo degli spiriti stessi.

Viene quindi applicato il rincaro normale che si applica per questa tipologia di vendita, considerando la porzione di 4 cl. Lo stesso tipo di rincaro viene applicato a tutti i liquori in generale, che siano amari,

liquori o grappe», mi dice Raffaele Pizzoferro della Pizzeria “alla Lampara” a Udine, in Friuli-Venezia Giulia.

In base a ciò, gli ho chiesto perché altri ristoratori vendano gli stessi liquori a un prezzo inferiore: «Non posso entrare nelle logiche di altre attività ristorative perché non conosco le loro dinamiche. Provo ad immaginare che, riducendo il prezzo di vendita e la loro mar-

ginalità, si "giochi" sulla quantità di vendita. Se il mio locale, con un prezzo di vendita competitivo, riesce a vendere molte porzioni di amari o liquori in generale, riduco la marginalità singola perché sulla bottiglia intera riesco ad avere una marginalità sufficiente. Non ci perdo, il ricavo è minimo. Oppure posso ipotizzare una vendita abbinata: caffè e amaro ad un prezzo vantaggioso».

Che le richieste stiano cambiando è probabile: sarà una tendenza passeggera?

Chi lo sa, è sicuro però che questo – per alcuni – influisca anche sulla determinazione dei prezzi degli amari sul menu: «Proponiamo amari che vanno dall’Averna allo Jegermaister a 3 € o lo Jefferson a 3,50 €. Il consumo però, negli ultimi anni, è calato drasticamente (almeno per noi…).

A volte lo offro proprio a fine cena. È tutto a favore di Spritz, Gin Tonic e similari», mi dice Renato Pancini di “Al Fogher” ad Arezzo, in Toscana e continua, spiegandomi il perché dei prezzi più bassi rispetto ad alcuni suoi colleghi per gli stessi amari: «Semplicemente è una voce ininfluente nel bilancio. Ripeto, la scelta si è volta verso gli aperitivi, cosa che fino alla pandemia era pari allo zero, parlando per me ovviamente».

Preparazione veloce e semplice pochi minuti

Risultati di alta qualità, sapore e doratura uniformi

Scelta più responsabile

Maggiore produttività e flessibilità, più rendimento

Efficienza nei costi, nessun uso di grassi/olio, meno spreco di prodotto

Maggiori opportunità commerciali Più convenienza, pulizia facile, niente odori

www.farmfrites.it

UN LIBRO AL MESE

In Vino Business

Utopia, economia e operatività della wine list al ristorante

a cura della redazione

Intorno all’Universo Vino gravita una vastissima letteratura dedicata ma poco o nulla è stato scritto sulla gestione economica e strategica della wine list nella ristorazione e hotellerie. Colmare tale vuoto di conoscenza è la missione del libro di Giovanni Di Tomaso.

“In vino business” ha l’ambizione di guidare e ispirare i protagonisti del settore per garantire la sostenibilità economica e la crescita della propria azienda, rispettando il mercato in cui si opera e i limiti oggettivi di un prodotto complesso e vivo. Il testo, dedicato a operatori e manager, allievi e professionisti, produttori e distributori, titolari di imprese di ristorazione e somministrazione e appassionati, affronta l’argomento wine list design & management con un approccio unico, approfondendo i principi di progettazio-

ne della carta dei vini per orientarsi tra le tante scelte possibili, ad esempio sui prezzi iniziali e sulla loro correzione mensile e raggiungere un opportuno equilibrio tra logiche di mercato e di profitto. Equilibrio che il testo invita a perseguire in maniera ancora più attenta nella gestione degli acquisti, armonizzando il valore delle scorte in cantina con le suggestioni da proporre in lista e nella comunicazione, tenuta a mediare tra l’impostazione tradizionale di servizio e un’accoglienza contemporanea, grazie a logiche di marketing sempre più tecnologiche ed evolute.

Il volume è arricchito da case histories, tabelle di analisi e strumenti di controllo.

I lettori possono altresì tenersi aggiornati e in costante contatto con l’autore, accedendo a un’area riservata con materiali tecnici e news in divenire.

L’autore, Giovanni Di Tomaso, matura la sua preparazione accademica presso la Hotel Management School di Les Roches, in Svizzera e l’Endicott College di Boston. Resta in USA e lavora in Hotel 5 stelle quali il Marriott Portland, al Plaza Athènée di Manhattan, come responsabile di F&B Management. Al suo rientro in Europa, apre un locale di successo: “Amaca Art Restaurant & Café”.

Dal 2011 si occupa di docenza presso accademie e istituti di alta formazione, di ricerca e di consulenze, sviluppando modelli inediti per la gestione economica e operativa di ristoranti e reparti F&B d’hotel. La sua filosofia professionale si fonda su una concezione solidale del lavoro, che assegna lo stesso valore e priorità agli obiettivi aziendali, a quelli della clientela e di ogni dipendente.

La prefazione del volume è curata da Antonello Maietta, presidente emerito AIS. Tra le interviste brevi inserite nel testo, scopriamo le riflessioni di sommelier d’eccellenza quali: Alessio Bricoli dell’Hassler Roma, Cristian Maitan, il famoso e “stellato” Matteo Bernardi delle Calandre, oltre a contributi di esperti di Wine Marketing, AI e digitale, quali Susana Alonso, Samuele Camatari e Simone Puorto. Ci guidano nei segreti del successo della wine list gli interventi di Anja Cramer, esperta di marketing ed export e titolare di una grande cantina (Contratto), del ristoratore Lorenzo Lisi (Pierluigi a Roma) e di altri profili che aggiungono interessanti punti di vista all’approccio divulgativo dell’autore.

Autore: Giovanni di Tomaso

Pagine: 200

Prezzo di copertina: 26 euro

Anno di edizione: 2024

Editore: Dario Flaccovio

Collana: Fu-Turismo, diretta da Nicoletta Polliotto

HoReCa Adria

Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.