Gusto autentico e tradizione si incontrano nel Fior di Latte Sorì. Lenta maturazione, latte locale e metodi artigianali per un’esperienza unica. Provalo su pizza e altre mille ricette.
Amonoglu p. 87
Campionato Mondiale Della Pizza p. 24
Cuppone p. 59
Demetra p. 39
Dr. Zanolli p. 29
Sigep p. 98
Fiera Di Riva Del Garda
Gi Metal
Huegli
Italmill
Kuma Forni Snc
La Torrente
88
45
3
19
89
51
Millberg p. 83
Molino Agugiaro p. 35
Scuola Italiana Pizzaioli p. 81
Molino Cosma p. 75
Molino Dalla Giovanna p. 71
Molino Magri p. 57
Molino Naldoni p. 65
Molino Pasini p. 53
Mulino Sul Clitunno p. 47
Forni Valoriani p. 63
Rinaldi Superforni p. 69
Sacar Srl p. 15
Sanfelici p. 99
Sori' Italia p. 2
Sitta p. 100
Industria Alimentare Tanagrina p. 41
Sunmix p. 11
Molecola p. 7
Waico p. 93
— Sommario —
di Nio
Alfonso
COLOPHON
Editoriale
Antonio Puzzi
Tradizione o Innovazione? Quanto vorrei che chi ponesse questa domanda avesse contezza del significato della parola “tradizione”. Una delle più belle interpretazioni di questa parola è stata data da Cristiana De Santis, professoressa di Linguistica Italiana all’Università di Bologna:
«Il verbo italiano tradire viene dal latino tradĕre (composto di tra- “oltre” e dăre “dare”), che voleva dire propriamente “consegnare, affidare, trasmettere”. Da questo significato originario è derivato il termine tradizione, che indica appunto una trasmissione di conoscenze, sentimenti, valori. In un’accezione più specifica, il verbo latino poteva significare “consegnare al nemico” (la bandiera, una fortezza, una persona o altro che si sarebbe dovuto difendere), e di conseguenza “ingannare”. Questa accezione si è sviluppata nel latino cristiano, a partire dall’interpretazione dell’atto di Giuda (la consegna di Gesù alle guardie) come tradimento verso una figura che simboleggia amore, e quindi come “tradimento d’amore”».
Tramandare e tradire hanno dunque la stessa base di partenza. E chi innova, dunque, non è solo un “traditore” ma una persona che rispetta appieno il senso di tradizione, nella sua più “tradizionale” interpretazione. Ciò che noi tramandiamo è, pertanto, un tradimento del passato ma anche una traduzione della storia nella nostra contemporaneità. E, proprio come si fa con un testo, anche la cucina e la pizza si traducono ogni giorno, perché nessun piatto viene riproposto identico, con buona pace delle ricette e delle grammature. Contano, infatti, il terroir, i cambiamenti climatici, le stagioni, il cambiamento dei gusti di chi cucina e di chi mangia. Ogni volta che cuciniamo, portiamo con noi un pezzo di storia ma contribuiamo a mettere un nuovo tassello al grande puzzle della gastronomia del mondo. Ogni volta che portiamo in tavola una ricetta, stiamo raccogliendo e raccontando qualcosa che va ben oltre gli ingredienti. Tutto questo significa “essere gourmet”.
Buona lettura, nio
PIZZA E PASTA ITALIANA
Mensile di Pizza, Pasta, Enogastronomia e Cultura
Edito da PIZZA NEW S.p.A.
Autorizzazione Tribunale di Venezia n.1019 del 02/04/1990
Anno XXXV - n.10 novembre 2024 - Repertorio ROC n. 5768
Manuel Rigo, Paola Dus, Elena Cazzuffi — Mediagraf lab
DIGITAL PUBLISHING
Maura Trolese — Mediagraf lab
IN COPERTINA illustrazione di Basak Saral
STAMPA MEDIAGRAF S.p.A.
Noventa Padovana (Pd)
COMITATO TECNICO E REDAZIONALE
Marisa Cammarano, Gianandrea Rorato, Caterina Vianello, Alfonso Del Forno, Luciano Cescon.
AFFILIAZIONI INTERNAZIONALI
Pete La Chapelle (N.A.P.O. - Pizza Today, U.S.A.), P.M.Q. Steve Green (U.S.A.).
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Gli eventi del mese
1–3 novembre
SALON VINS ET TERROIRS
Tolosa (Francia)
Il Salon Vins et Terroirs è il luogo ideale per stabilire contatti con i produttori indipendenti della Francia e beneficiare dei loro consigli.
5–7 novembre
ATHENS BAR SHOW
Atene (Grecia)
L'Athens Bar Show è una mostra educativa per baristi e professionisti della ristorazione. L'evento supera i 10.000 visitatori l’anno.
2–4 novembre
GOLOSARIA
Rho (Milano)
Un viaggio tra territori, identità e futuro che parte dal cibo di tutti i giorni.
5–6 novembre FREE FROM FUNCTIONAL
FOOD EXPO
Amsterdam (Olanda)
La mostra sui trend gastronomici e le intolleranze alimentari per scoprire i cibi “senza” che piacciono a tutti.
6–9 novembre
TIRANA
INTERNATIONAL
FAIR
Tirana (Albania)
NL'evento che concede all’Albania di essere la porta d'ingresso ai Balcani e il ponte verso l’Europa occidentale, con una realtà di oltre 200 milioni di consumatori, pari al 75% degli scambi commerciali dell'UE.
8–10 novembre
PLAZA CULINARIA
Friburgo (Germania)
Conoscere da vicino la cucina e la gastronomia della Mitteleuropa in una delle città più caratteristiche della Germania.
8–12 novembre
MERANO WINEFESTIVAL
Merano (BZ)
Prosegue il conto alla rovescia per la 33° edizione di Merano WineFestival, in programma dall’8 al 12 novembre 2024 con un format sempre più glamour e internazionale.
9–12 novembre
DEGUSTO
Cosenza
Destinato a diventare il salone di riferimento in Calabria del settore food, beverage e retail technology, DeGusto è una fiera progettata con esperienza pluriennale nel settore dei grandi eventi, in grado di soddisfare al meglio le esigenze degli espositori e dei visitatori.
9–13 novembre
AGRO GE.PA.
CIOK.
Lecce
Il Salone Nazionale della Gelateria, Pasticceria, Cioccolateria e dell'Artigianato Agroalimentare prevede un parco espositori con marchi nazionali e nomi internazionali che daranno lustro ai numerosi momenti di workshop e approfondimento con un unico obiettivo: incrementare il binomio formazione-esposizione.
12–15 novembre
DISTILLO EXPO
Rho (Milano)
Per chi vuole creare una microdistilleria ma anche saperne di più per orientarsi in un settore in forte espansione.
ENOVITIS
Rho (Milano)
Salone internazionale delle tecniche per viticoltura e olivicoltura.
23–25 novembre
MERCATO
DEI VINI E DEI VIGNAIOLI
INDIPENDENTI
Bologna
Torna a Bologna l’atteso appuntamento con i vignaioli indipendenti provenienti dall’Italia e dal mondo.
Per segnalare i tuoi eventi, scrivi a redazione@pizzaepastaitaliana.it
17–19 novembre
GUSTUS
Napoli, Mostra d’Oltremare
La Fiera dei Sapori Mediterranei torna alla Mostra d’Oltremare per raccontare il gusto del Sud.
fino all' 8 dicembre
Alba
19–21 novembre
FI EUROPE
Francoforte (Germania)
Ogni due anni, questa fiera offre grandi possibilità per trovare nuovi acquirenti e venditori di cibi salutari, nutraceutici e cosmetici.
a cura della redazione
Molino Magri per Pizza e Pasta Italiana
Durante un evento di celebrazione presso la sede di Molino Magri a Marmirolo, è stata presentata la nuova Molino Magri Academy, parte del progetto MagriLab, un innovativo centro di Ricerca & Sviluppo. La Academy, che partirà nel 2025 con una prima tappa il 17 marzo a Napoli, offrirà una formazione per professionisti su diversi temi legati al business: Formata da un board di esperti in neuroscienze, cucina stellata, nutrizione e management, ha infatti l’obiettivo di fornire nuove competenze per un maggiore successo in uno scenario competitivo. “Siamo orgogliosi di lanciare un progetto che sostiene i professionisti e risponde alle esigenze di un mercato in evoluzione”, ha dichiarato Modesto Magri, AD.
Per maggiori informazioni: https://www.molinomagri.com/.
GustoFibra N°4: la farina di Mulino Padano ricca di fibre per impasti salutari e fragranti
La farina GustoFibra N°4, realizzata con il rivoluzionario metodo StabilEasy – Natural Steam Stabilization, è perfetta per chi cerca una soluzione salutare e naturale nelle proprie preparazioni. Arricchita con germe di grano, una preziosa fonte di vitamina E, offre numerosi benefici nutrizionali, tra cui un apporto eccezionale di fibre e un potente effetto antiossidante. Grazie alla stabilizzazione naturale a vapore, GustoFibra N°4 preserva le qualità organolettiche, donando ai prodotti da forno un profumo inconfondibile, una maggiore fragranza e una croccantezza irresistibile. Ideale per impasti dolci e salati, è perfetta per la pizza in teglia ad alta idratazione, regalando un colore dorato naturale.
Con GustoFibra N°4, Mulino Padano unisce tradizione e innovazione per garantire ai professionisti un prodotto di alta qualità, salutare e a lunga conservazione, senza additivi o conservanti.
La vertigine del nome
di Antonio Puzzi
Ma poi, che cos'è un nome?...
Forse che quella che chiamiamo rosa cesserebbe d'avere il suo profumo se la chiamassimo con altro nome?
Io il coraggio di contraddire Shakespeare sinceramente non ce l’ho, eppure convengo con Alberto Capatti quando afferma che il nome “è voce, richiamo destinato ad attirare l’attenzione verso l’oggetto”. Con buona pace di Giulietta.
Il nome è, dunque, esso stesso godimento. Lo sa bene anche Italo Calvino quando, in un racconto della raccolta “Sotto il sole giaguaro”, scrive: “Io m’immedesimavo a divorare in ogni polpetta tutta la fragranza d’Olivia attraverso una masticazione voluttuosa, una vampiresca estrazione di succhi vitali, ma m’accorgevo che in quello che doveva essere un rapporto tra tre termini, io-polpetta-Olivia, s’inseriva un quarto termine che assumeva un ruolo dominante: il nome delle polpette. Era il nome ‘gorditas pellizcadas con mantecas’ che io gustavo soprattutto e assimilavo e possedevo. Tanto che la magia del nome continuò ad agire su di me anche dopo il pasto, quando ci ritirammo insieme nella nostra
camera d’albergo, nella notte”. Il nome di una ricetta – lo sappiamo tutti – può provenire da mille fonti diverse: il riferimento a chi l’ha creato (è il caso emblematico delle Fettuccine Alfredo), il mistero storico della provenienza (la Carbonara), l’ingrediente principale (Sagne e fagioli), la città che lo ha reso celebre (il Ragù alla bolognese vs il Ragù napoletano), e via dicendo. Da diversi anni, ho la fortuna di girare l’Italia in lungo e in largo e, per soddisfare il mio bisogno di cibo, sono spinto ad andare alla ricerca di infinite varianti ristorative. In tutto questo tempo, ho assistito
a un cambiamento lento ma inesorabile dei nomi che appaiono nei menù. Ricordo che, da bambino, a vincere erano soprattutto nomi esotici, come nel caso delle “pennette alla vodka” di ispirazione sovietica o – per me cittadino – della “sangiovannara”, che ricordava epiche lotte tra briganti e sabaudi tra Sannio, alto Casertano e Cilento. Poi, è accaduto il pasticcio: l’arrivo dei canali tematici sul cibo e degli spadellamenti a ogni ora hanno dato adito a un rinnovamento totale delle ricette… Pardon, dei titoli delle ricette! Ecco che, dunque, la pasta e fagioli diventava “Mescafrancesca con fagiolo tondino di Villaricca cotto a bassa temperatura in acqua, con spolverata di olio evo” mentre i maccheroni al ragù napoletano venivano descritti come “Ziti spezzati a mano con sugo di pomodoro San Marzano autoprodotto, preparato in vasocottura e tagliato senza ausilio di attrezzature meccaniche”.
E – ahimé – la lunghezza del nome della ricetta era direttamente proporzionale all’aumento del suo costo ed esattamente inverso alla quantità di cibo presente nel piatto. Come a dire: faccio prima a mangiarlo che a leggerlo. Sarà per questo che oggi, dopo tanto tempo, siamo sempre di più a sentire il bisogno di tornare a dire al cuoco, al personale di sala, a chi è lì ad accogliere gli
ospiti: “Fa’ tu!”. Ma quanto dovevano essere belli i tempi di Paolo Monelli che, circa un secolo fa, negli anni Trenta del Novecento, inaugurando di fatto la critica gastronomica italiana, scriveva a proposito di Napoli: “Anche noi abbiamo fatta una strippata nella celebre trattoria al porto: penne alla pommarola, sàrago spinato col segno della fiocinata nel fianco, costata alla pizzaiola […] E dopo la strippata uscimmo a naso all’aria per via della pancia tesa, con ‘a nzegna, l’insegna, cioè con la macchia d’unto sulla camicia, come dicono sia ostentazione dei luciani dopo uno dei loro rari e sontuosi banchetti per festa famigliare o per sagra. E il vino di Gragnano ci tingeva l’avvenire, vasto e cordiale, coloritissimo, che orla il bicchiere d’una labile spuma
paonazza, e sa di viola cotta dal sole, e va giù senza chiasso”.
Eppure, nonostante tutto, c’è qualcosa che non è cambiato: il cibo preparato con amore da chi lo fa per mestiere o anche solo da chi lo fa per le persone a cui vuol bene ha tutto un altro sapore, indipendentemente da come lo si chiami. Guardare le mani che impastano, che tagliano, che tritano; mettersi insieme alla persona che amiamo a preparare le polpettine per la lasagna (ma solo se la facciamo nella sua versione nobile e carnevalesca) oppure andare a scegliere i migliori pezzi di carne per il Ragù e la Genovese sono elementi di poesia del quotidiano che toccano le sfere celesti.
Per chiudere questa riflessione, non posso non citare Eduardo De Filippo ma sono indeciso se parlarvi del ragù di Sabato, domenica e lunedì, quello che unisce una famiglia ma può anche distruggerla per ciò che va “dal silenzio delle cose non dette al silenzio
delle cose taciute alle promesse regalate telepaticamente risa mute” oppure degli Spaghetti alle vongole fujute, uno dei piatti dedicati alla sua Isabella: fatto sta che l’insuperato drammaturgo partenopeo ha sempre dato gran valore al cibo nelle sue opere. E non lo ha fatto a caso. Basti pensare che Non ti pago si apre con Ferdinando Quagliulo e Aglietiello che mettono a posto le conserve di pomodoro e una bottiglia cade e si rompe; che Napoli milionaria è interamente dedicata alla fame e all’abbondanza; che in Mia famiglia, quando la famiglia si sta sgretolando, non si cucina più ma si prendono cartocci di cibo in rosticceria. Il rapporto tra Napoli e il cibo è infatti un rapporto viscerale, specchio delle sue relazioni sociali perché, come asseriva Monelli: “I napoletani sono sobri, perché sono meridionali, poveri, e filosofi razionali. Ma per loro il mangiare e il bere è pretesto di svago di vita, di spettacolo colorito”.
A Pizzagirls il premio per la comunicazione etica e inclusiva
Il 30 settembre 2024 il programma
televisivo PizzaGirls è stato insignito del prestigioso premio
“Excellence in Ethical and Inclusive Communication” durante la quarta edizione dell’evento internazionale
“BestPizza 2024”, tra i più importanti al mondo nel settore della pizza. Il tema principale è stato “The Future of Pizza”, un argomento che ha messo in luce questa pietanza, offrendo numerosi spunti e riflessioni. A ritirare il premio, l’ideatore, regista e autore del programma Carlo Fumo, il quale ha dichiarato ha dichiarato:
“Sono davvero onorato di ricevere questo importante premio, in particolare per la mission di PizzaGirls. Voglio ringraziare tutta la mia squadra, le pizzaiole del programma, i brand che ci sostengono e soprattutto Rai Italia che ci permette di trasmettere il programma in tutto il mondo. Questo premio lo dedichiamo al nostro percorso che, dal 2020, ha cambiato radicalmente una visione arcaica della pizza solo al maschile. Siamo pronti a portare avanti ancora per molti anni il progetto, perché PizzaGirls è potere, il potere delle donne”.
PizzaGirls è un brand crossmediale lanciato nel 2020 che ha conquistato un pubblico ampio e diversificato, totalizzando oltre 25 milioni di ascolti in 4 stagioni e 108 puntate. Il format, unico nel suo genere, è dedicato all’arte della pizza vista attraverso gli occhi delle donne, celebrando il talento e la creatività delle pizzaiole italiane. Con l’intento di abbattere le barriere di genere nel settore culinario, il programma è diventato un simbolo di inclusività e comunicazione etica, valori che hanno portato al prestigioso riconoscimento. La quarta stagione di PizzaGirls, trasmessa da aprile 2024 sulle reti RAI, ha riscosso un successo straordinario, raccontando storie di donne forti e talentuose che, attraverso la pizza, sono diventate ambasciatrici del “Made in Italy” in tutto il mondo.
Forno con alimentazione elettrica, dalle dimensioni contenute, concepito per la cottura di 1 o 2 pizze da 33 cm.
p p pinse.
Forni a tunnel con tappeto di cottura in refrattario. Montato su ruote e configurabile per ogni esigenza. Disponibile anche con tecnologia Industria 4.0.
V
P
ALLA RICERCA DEI Gourmet
di Giampiero Rorato
MOLTI SI CHIEDONO PERCHÉ IN CUCINA E IN CIÒ
CHE ATTIENE ALLA RISTORAZIONE COMPAIANO SPESSO NOMI FRANCESI, NONOSTANTE LA CUCINA ITALIANA FINO AL SEICENTO COMPRESO FOSSE LA PIÙ IMPORTANTE E CELEBRATA NEL MONDO OCCIDENTALE.
Solo nel Settecento infatti prevalse in Europa quella francese, anche a causa del decadimento politico dell’Italia divisa in molti stati, al cospetto di una Francia presente sull’intero territorio attualmente noto con un regno importante che aveva fatto nascere numerosi castelli abitati da una ricchissima nobiltà che aveva curato con grande interesse anche la gastronomia. È in quel tempo che iniziano a farsi strada nomi altisonanti come quelli di Careme, Brillat-Savarin ed Escoffier, per limitarci solo a poche citazioni. Grazie a questi e ad altri personaggi di cultura gastronomica nel corso del Settecento, detto anche “secolo dei lumi”, la Francia irradiò in tutta Europa non solo l’Illuminismo ma anche la sua cucina, come ha raccontato anche il grande commediografo veneziano Carlo Goldoni che si lamentava per l’intrusione anche nella città dogale di cuochi arrivati dalla Francia. Da tutto questo, pur detto in sintesi, il linguaggio ufficiale del mondo gastronomico è quello fissato dai grandi studiosi e cuochi d’Oltralpe. Parimenti, per motivazioni analoghe, il linguaggio musicale, invece, parla italiano in tutto il mondo.
IL GOURMET
Soffermiamoci ora su un termine francese usatissimo anche in Italia: gourmet Questo termine nasce in Francia e, più precisamente, nelle cantine dei grandi vignaioli in cui un personaggio speciale gustava i mosti e, successivamente, i vini, per valutarne non solo il corpo e la struttura ma l’equilibrio, la finezza, l’eleganza e la capacità di regalare a chi in seguito lo berrà, piacevoli e raffinate emozioni. Sempre in Francia, il termine gourmet, al pari del vino, si è trasferito nella ristorazione. In questo campo, il gourmet è un esperto degustatore, persona di grande cultura e lunga esperienza che conosce ogni singolo prodotto, le tecniche corret-
te di cottura e l’insieme dei sapori e dei gusti offerti dal piatto pronto. Non solo il gourmet valuta la consistenza, l’equilibrio e la bellezza formale della pietanza; ma tutto ciò che è capace di offrire sensazioni gustative di grande interesse, piacevoli e il cui ricordo resterà a lungo positivamente nella memoria. Il gourmet non è solo un appassionato di buona cucina, essendo anche un grande esperto di prodotto agroalimentari, di tradizioni culinarie, di tecniche di cottura e di servizio: cose queste che si apprendono con anni di studio e di concreta esperienza. Ben diversa è, invece, la figura del gourmand, personaggio che ama il cibo buono ma è più un “ghiottone” che un gourmet, anche se nel linguaggio comune molti tendono a confondere erroneamente i due termini. In Italia, come in ogni altro Paese, i ghiottoni cioè i gourmand sono molti ma i gourmet sono piuttosto rari… anche fra gli ispettori delle guide gastronomiche.
LE UNIVERSITÀ GASTRONOMICHE
Negli ultimi decenni, sono notevolmente aumentate le facoltà universitarie che si interessano di scienze gastronomiche e che quindi insegnano ai numerosi studenti come valutare i prodotti che entrano in cucina e in cantina, come trasformare i prodotti in piatti, come rispettare le regole alimentari anche nell’alta ristorazione e come ottenere piatti di grande bontà ed eleganza. È da pensare che chi esce da queste facoltà con successo e sia animato dalla volontà di conoscere veramente le produzioni del territorio - come anche le produzioni agroalimentari estere - chi ami le tante tradizioni alimentari che caratterizzano i Paesi più importanti sotto questo aspetto, possa aspirare a
diventare non solo cuoco, sommelier, direttore di sala anche nelle grandi catene alberghiere internazionali ma anche un eccellente gourmet, capace di contribuire dove si troverà a lavorare sia a migliorare la cucina sia a consentire ad essa di incontrare nel miglior modo possibile il gusto dei clienti. L’Università ha proprio questo scopo: essere centro di diffusione del sapere e, per quanto riguarda la gastronomia, anche la diffusione di una sana educazione alimentare. Il gourmet di domani non sarà solo un grande esperto esclusivamente a proprio favore ma insegnerà a realizzare buoni piatti nel rispetto delle regole della sana alimentazione ma anche a gustarli perché una buona tavola regala buon umore e sorrisi, eliminando stress, cattivi pensieri e ciò che è dannoso a una vita piacevole.
Mai più di cinque!
“Prima di tutto si parte dalla resistenza umana, no? Cioè, prima di tutto: mai più di cinque. Cioè, non più di cinque quando uno fa… quelle cose, l’amore, no? Mai più di cinque. Cioè, tu sei diplomato?”.
“Si”.
“Mai più di quattro. Cioè mai più di quattro, ma però bisogna misurare l’intensità; cioè, mica uno ne fa quattro così, però con l’intensità che possono essere pure cinque, no? Se sono quattro, devi misurare che in una volta non ne devi fare due. Giusto, no? Per esempio, capita che uno fa una volta, sai, e ci mette tutta chella intensità che in una ne escono due. Allora che succede? Che quella volta in una ne hai fatte due è come se te la sei bruciata, allora in quel caso mai più di tre”.
È il 1981 quando Massimo Troisi, compianto attore, regista e sceneggiatore partenopeo, vestendo i panni di Gaetano, si rivolge così in “Ricomincio da tre”, sua prima opera cinematografica, a un ineguagliabile Renato Scarpa che interpreta il remissivo Robertino, che la “mammina” ha relegato in casa perché “dice che ha i complessi”. La domanda di Robertino, che allude al sesso pur senza esplicitarlo, è: “Come si fa a capire questo limite?”.
Ed è proprio da qui che voglio partire: qual è il limite? Se, nel sesso, la giusta misura è infatti rappresentata dal rispetto della volontà dell’altr*, non comprendo perché nel cibo non debba accadere lo stesso. Qualche anno fa, al Campionato mondiale della Pizza di Parma, si decise di dedicare i seminari formativi proprio a questo tema: quanti e quali ingredienti scegliere per le proprie creazioni.
La riflessione nasceva dal fatto che, nella maggior parte dei casi, le schede di partecipazione contenevano un elenco di materie prime infinito e spesso oltre la più fervida immaginazione.
Ciò avveniva (e avviene ancor oggi) perché si pensa che aggiungere ingredienti e lavorazioni renda una pizza più appetibile e la posizioni nell’impero dei gourmand. Sfatiamo subito questo mito: non è così. Non bastano, infatti, materie prime blasonate (e costose) per trasformarsi in chef ma è necessario conoscere tecniche di cucina, sperimen-
tare il pairing e soprattutto acquisire conoscenze sensoriali degustando ingredienti, abbinamenti e ricette. Se non si segue questa via, che è un po’ più lunga ma di certo più soddisfacente, il rischio più che concreto è quello di fare ciò che a “Masterchef” chiamano mappazzone e che equivale a uno spreco di ingredienti, tempo e denaro.
4/5
Fu dunque il Campionato mondiale della Pizza di Parma a introdurre per la prima volta questa teoria del “Mai più di 5!”, divenuta ormai felicemente condivisa da chiunque eserciti attività di formazione e consulenza nel campo della pizzeria.
Seguendo questa teoria, si intende consigliare alle pizzaiole e ai pizzaioli del tempo odierno di non strafare, avendo cura di non condire la pizza con più di 5 ingredienti. La Margherita, per esempio, ne ha 4: olio, mozzarella, pomodoro, basilico.
Quando, invece, siamo in presenza di preparazioni più complesse come, per esempio, una parmigiana di melanzane, sarebbe giusto inserire solo quella preparazione lì (già di per sé consistente) sulla nostra pizza, senza aggiungere altro. Gli esempi (e gli interrogativi) potrebbero essere tanti e diversi ma, per ora, credo di aver esplicitato a sufficienza il concetto.
E cosa accade, invece, nel caso di una pizza farcita? Anche in quest’occasione il ripieno deve avere al massimo 5 ingredienti? E no. Qui subentra, infatti, la specifica che fa Gaetano a Robertino in merito all’essere diplomati. Saper cuocere una pizza ripiegata su se stessa è infatti “roba da diplomati” e tutti i pizzaioli lo sanno. Allora, in questo caso, “mai più di 4”. Prendiamo ad esempio il più classico tra i calzoni napoletani: cicoli, ricotta e pepe. Tre ingredienti. Se siete più bravi di chi ha inventato quest’opera d’arte, potete strafare e aggiungerne un quarto, altrimenti ascoltate un consiglio: “ricominciate da tre”.
Ad ogni modo, bisogna ammettere che sta, per fortuna, cadendo in disuso l’inserimento di una sovrabbondanza di ingredienti sulla pizza ma non molto tempo fa un’amica pizzaiola, Rosa Casulli, mi ha raccontato che una sera si è presentata al suo locale di Putignano una persona che le ha chiesto – senza colpo ferire – una “completissima”. Ovvero, una pizza che avesse sopra tutti gli
ingredienti esposti sul banco. È evidente, dunque, che il problema non è solo dei pizzaioli ma anche della disastrosa educazione al gusto della clientela. Ascoltiamo, allora, l’insegnamento di Troisi che, dopo la sua attenta spiegazione, chiosa così:
“Robè, siente a mme, ccà nun ce sta nisciuno limite, nessun di-
plomato e cosa. Robè, tu devi uscire, ti devi salvare”. Nessun limite, dunque, esiste per chi ha fame e sete di formazione, ovvero per chi “esce” dal proprio guscio della pizzeria e “si salva”, in un unico modo: conoscendo.
CAMPIONATO MONDIALE DELLA PIZZA
Iscrizioni a partire
PREZZO SPECIALE EARLYBIRD PER CHI SI ISCRIVE ENTRO IL 15 GENNAIO 2025
REGOLAMENTI ED ISCRIZIONI
www.campionatomondialedellapizza.it
CONTATTI
info@campionatomondialedellapizza.it
di Noemi Caracciolo
Scoperte in vigna 2024
“Scoperte in Vigna” –ideato e organizzato da Geppino Tolino – è un evento a cielo aperto, una passeggiata enoturistica in auto (o bus) tra vigneti, cantine, bellezze naturalistiche e artistiche del Parco Regionale del Taburno Camposauro.
La quarta edizione, svoltasi lo scorso settembre, è stata realizzata nell’ambito del progetto “Alla scoperta della cucina caracciolina in Campania, fra palazzi, conventi, vicoli e masserie” finanziato da Fondo Sviluppo Coesione FSC 20212027 della Regione Campania. Torrecuso (BN) – punto di partenza del “viaggio” – fu feudo dei Caracciolo, un’antichissima famiglia aristocratica del Regno di Napoli, dalla quale discende San Francesco Caracciolo, patrono dei Cuochi.
«Attraverso le corti dei Caracciolo si sviluppava la competenza del mestiere di cuoco e, infatti, nel borgo natale di San Francesco, Villa Santa Maria in Abruzzo, è nata la prima scuola alberghiera d’Italia. I Caracciolo mandavano i loro garzoni a Napoli per imparare l’arte della cucina dei famosi Monsù – dal francese “Monsieur le Chef”, appellativo con cui venivano chiamati i capocuochi nelle case aristocratiche francesi – ai quali vennero affidate le cucine aristocratiche partenopee. Oggi stiamo provando, attraverso una proposta di itinerari, che legano la presenza dei Caracciolo in questi territori con la cucina, a raccontare il cibo con le sue storie, le sue tradizioni e gli abitanti dei borghi ad esso collegati», racconta Nicola Caracciolo, promotore del Cammino di San Francesco Caracciolo.
Pronti, partenza… via! È così che inizia la passeggiata, sembra quasi di essere in un film. Tante auto d’epoca coupé, alcune delle quali molto particolari, che attendono trepidanti il via – tra il suono di un clacson e l’altro – per partire
alla scoperta dei bellissimi paesaggi beneventani con il vento tra i capelli.
Il tour nel bus a cielo aperto ci ha accompagnati in un percorso fatto di incredibili bellezze naturalistiche, siti storici, visite guidate, degustazioni di prodotti tipici e vigneti, punto focale dell’evento.
La prima tappa è stata il palazzo Caracciolo-Cito, il quale prende il nome dalle ultime due famiglie che ci hanno vissuto. Tra le notizie certe, c’è quella secondo la quale i Longobardi, avendo trovato il colle sul quale sorge, decisero di costruire un castello a difesa di Benevento, carattere che ha mantenuto fino al XVIII secolo, quando la famiglia Caracciolo non ebbe più eredi e il castello fu acquistato dalla famiglia Cito. Al suo interno sorge la prima pinacoteca d’Italia dedicata esclusivamente al mondo vitivinicolo.
Brand Ambassador della manifestazione è stata Roberta Garibaldi, una delle più autorevoli esperte italiane di turismo enogastronomico: «Questo territorio è meraviglioso dal punto di vista del paesaggio – che è il primo elemento di scelta dei turisti di una meta enogastronomica – ma anche delle assolute ricchezze, dell’animo e dello spirito dei produttori del luogo. Qui c’è una grande voglia di condividere, partecipare e raccontare. L’enogastronomia è una grande leva per la valorizzazione dei territori e oggi la maggior parte dei turisti vuole vivere spazi aperti ed esperienze di questo genere, che questo territorio offre magnificamente».
Dopo una breve visita al Ponte romano “Foeniculum”, noto per le vicende storiche della battaglia di Benevento, dove morì Manfredi di Svevia, le cui
spoglie furono temporaneamente seppellite alla base della “grave mora” citata da Dante nella “Divina Commedia”, noi – fortunati enoturisti – siamo stati smistati nelle cantine protagoniste dell’evento. Tra queste l’azienda “Pietrefitte”: un contesto familiare che produce esclusivamente con uve dei propri vigneti e nata davvero per pura passione.
I proprietari, infatti, tra arte medica e dirigenziale, fanno tutt’altro nella vita. Giovanni e Itala, figli di contadini, hanno intrapreso la strada vinicola per puro spirito di tradizione, accompagnati nel percorso da figli e nuore. Mangiare da loro è stato come passare una domenica in famiglia e, tra una portata e l’altra – piatti pre-
parati con pomodori e zucca del loro orto, olio dei lori ulivi e pasta fatta in casa – un bel calice di vino: dal rosato alla Falanghina del Sannio, all’Aglianico del Taburno, elementi di vanto della zona. Molto carine le etichette, che inizialmente erano denominate con il titolo di vecchi film italiani e poi sono diventate delle vere e proprie opere d’arte, dipinte a mano.
“Scoperte in Vigna” punta, dunque, alla valorizzazione del territorio attraverso prodotti tipici come la Salsiccia rossa di Castelpoto (Presidio Slow Food) e i vini del Taburno, con
l’aiuto degli sconfinati paesaggi, i sorridenti abitanti e le cantine aderenti, che quest’anno sono raddoppiate rispetto a quello passato.
Questa quarta edizione, in particolare, è stata un’occasione ideale per scorgere il rapporto tra Napoli e Torrecuso, uno degli oltre 500 feudi della famiglia Caracciolo, strettamente legata alla buona tavola; inizialmente solo in termini di sontuosi banchetti ma poi, grazie a San Francesco Caracciolo e alla sua particolare propensione a donare grandi quantità di cibo ricavate dalla casata familiare, il legame si è allargato alla grande tradizione agroalimentare ed enogastronomica mediterranea.
PLATEA ROTANTE ORAANCHECON
FATTO IN ITALIA, AMATO NEL MONDO.
PI ZZA E VINO: BINOMIO PERFETTO
Dialogo tra Alfonso Del Forno e Antonella Amodio
Antonella Amodio, sommelier e giornalista enogastronomica, è un punto di riferimento nel mondo del vino e della ristorazione. Con oltre trent’anni di esperienza alle spalle, si distingue per il suo approccio innovativo e appassionato. Il suo libro “Calici & Spicchi”, nato dall’idea di esplorare l’abbinamento tra pizza e vino, è il primo volume interamente dedicato a questo tema. La sua ricerca è volta a ridare al vino lo spazio che merita anche in pizzeria, dove storicamente ha sempre avuto un ruolo di rilievo, ma che negli ultimi decenni è stato oscurato dalla birra. Antonella Amodio ha selezionato pizze e vini con grande cura, basandosi sulla sua vasta conoscenza del settore, seguendo criteri “sommelieristici” e introducendo un’innovativa tecnica cromatica nell’accostamento dei sapori.
Come è nata l’idea di scrive-
re un libro sull’abbinamento tra pizza e vino?
Il volume “Calici & Spicchi”, dedicato all’abbinamento tra pizza e vino, è frutto del desiderio di unire il lievitato più celebre al mondo con la bevanda più antica. Tre anni fa ho avviato una rubrica sul blog di Luciano Pignataro, il quale ha curato la prefazione, in cui ogni settimana propongo un incontro tra pizza e vino a tavola. Così è nato il primo volume al mondo che parla di questo matrimonio che ha radici lontane.
Nel tuo percorso professionale, come giornalista e sommelier, quale è stato il ruolo del vino nel mondo della pizza prima del tuo libro?
Il vino in pizzeria non è mai stato veramente considerato, se non nell’Ottocento.
Dagli anni ‘70 é anche peggiorata la situazione, con il ruolo del vino che era più quello di un elemento decorativo, una bomboniera posizionata su mensole a prendere polvere, piuttosto che di una bevanda da abbinare alla pizza.
Colpa - ahimè - dello scandalo del vino al metanolo che fece crollare il consumo. Salvo più avanti rientrare solo in ristorazione, in quanto la birra prese il posto d’onore come compagna della pizza. Nel corso degli ultimi anni, ci sono stati locali che lo hanno proposto ma sono davvero pochi.
Come hai scelto i vini e le pizze da abbinare? Hai seguito dei criteri particolari?
Ho basato la selezione sulla mia esperienza, poiché scrivo da molti anni sia di pizzerie che di vino, rivestendo anche il ruolo di referente per guide
specializzate. Ho cercato di raccogliere una vasta gamma di stili e tecniche di cottura della pizza, includendo nel libro sia pizzaioli esperti che promettenti nuovi talenti nel panorama della pizza.
Quali sono stati i criteri principali su cui ti sei basata per creare i migliori accostamenti?
I criteri per l’abbinamento sono quelli insegnati nelle scuole di sommelier. Da questo punto di partenza, ho poi personalizzato le scelte con i miei suggerimenti, introducendo anche la tecnica cromatica del pairing
Hai riscontrato delle difficoltà nel proporre il vino come alternativa alla birra nell’accompagnamento della pizza?
Esiste sicuramente un pregiudizio. Tuttavia, dal 15 marzo, quando ho presentato alla stampa “Calici & Spicchi”, ho notato che qualcosa è cambiato nell’approccio verso questo tema. Le persone sono desiderose di essere informate, ed è questa la realtà. Tuttavia, c’è ancora molto lavoro da fare.
Nel libro, hai trattato anche di particolari tipologie di pizza o di vini che sono meno conosciuti al grande pubblico?
Per chi ama il vino, non ci sono segreti né novità nelle produzioni.C’è “Radio Bottiglia” che informa in modo veloce.
Ho selezionato i vini in base alla loro qualità e caratteristiche, senza mettere in evidenza se provengano da viticoltura integrata, biologica o biodinamica. Ho preferito tenere in secondo piano questo aspetto, che considero superficiale nei termini dell’accostamento ed ho dato spazio a tutti gli stili e alle tipologie. Per la pizza, ci sono le varianti napoletana, napoletana contemporanea, romana e italiana.
Quanto è importante secondo te il territorio nella scelta di un abbinamento pizza-vino? Hai dato spazio a vini locali o regionali?
Mi considero un’appassionata sostenitrice dell’abbinamento territoriale! La mia prima regola è valorizzare le produzioni locali, proprio come si fa con i condimenti delle pizze. Storicamente le pietanze erano servite con vini ottenuti in loco. Pertanto, ho dato ampio spazio a vini rappresentativi del territorio, affiancandoli a etichette provenienti da altre zone.
Hai avuto collaborazioni con pizzaioli o enologi durante la stesura del libro?
Non ho mai avuto alcun legame di collaborazione con pizzaioli o enologi per la stesura del testo. Le pizze citate all’in-
terno del libro sono state provate tutte da me e, per l’abbinamento, ho messo in campo la mia trentennale esperienza, operando in totale libertà.
Quali sono state le reazioni di chef e pizzaioli al tuo libro?
“Calici & Spicchi” è stato accolto con grande entusiasmo da tutti. In realtà, più che da chef o pizzaioli, il libro ha riscosso successo tra il pubblico che frequenta le pizzerie, perché è scritto con un linguaggio semplice, in cui ho escluso qualsiasi termine poco comprensibile per chi non è nel settore del vino e della pizza, mentre ho adottato un approccio immediato, arricchendo il testo con foto e descrizioni.
C’è un abbinamento tra pizza e vino che ti ha particolarmente sorpreso o entusiasmato?
Ci sono 101 abbinamenti e li amo tutti; sono da sperimentare e provare, così ognuno potrà poi scegliere quello che meglio si adatta al proprio palato e ai propri gusti. Sono però particolarmente felice di aver introdotto le pizze dessert abbinate ai vini dolci, poiché questa tipologia di vino non sta vivendo un momento favorevole in termini di divulgazione.
Quali sono i consigli che daresti a chi vuole iniziare ad esplorare l’abbinamento tra pizza e vino?
Consiglio di leggere “Calici & Spicchi” perché narra di un mondo straordinario che ha origine al tempo dei Romani e arriva fino ai giorni nostri. Il mio libro apre le porte a un universo affascinante sul pairing, presentato in modo professionale ma anche divertente e immediato.
Calici & Spicchi si ferma qui? Sono quasi giunta al traguardo con il secondo volume: “Calici & Spicchi 2.0: mappa completa della pizza e del vino in Italia e nel mondo”.
Si tratta di una panoramica esaustiva su questo affascinante tema.
PENSAVO FOSSE GOURMET… INVECE ERA FORMAZIONE
di Enrico Bonardo
direttore commerciale & marketing di Scuola Italiana Pizzaioli
Negli ultimi quindici anni si sono finalmente accesi i riflettori sul mondo della pizza e in particolare su una categoria professionale, quella del pizzaiolo, per troppo tempo bistrattata dalla figura dello chef. Basti pensare al fatto che il cuoco era colui che imparava l’arte tra cucine e banchi di scuola, talvolta in rinomate accademie intitolate a mostri sacri della cucina francese o italiana, mentre il pizzaiolo si improvvisava tale emulando un parente già del “mestiere” o facendo il garzone in una pizzeria. Questa pratica esperienziale è giunta fino ai giorni nostri quando, ad un certo punto, si è iniziato a parlare di pizza gourmet. Una rivoluzione! Alcuni pizzaioli, autodidatti, in poco tempo passano dalla serie B alla champions league della ristorazione. Si inizia a parlare di cereali, delle varietà dei grani, d’impasti a lunga lievitazione, idratazioni, stili di pizza regionali, di qualità, stagionalità e ricerca delle materie prime, di territorialità degli ingredienti, di narrazione e addirittura servizio in sala. In poche parole, viene creato un nuovo trend che sposta l’attenzione del consumatore da una pizza frugale a basso costo verso un’esperienza gastronomica di alto profilo. Tutto ciò è stato determinante per tornare ad associare la ricerca della qualità al mondo della pizza, amplificando attraverso guide, riviste e programmi televisivi quella che oggi è diventata una professione altamente richiesta nel mondo del lavoro. Tuttavia, i nostri tempi ci insegnano che un professionista, in qualunque settore operi, non può essere improvvisato tantomeno in un momento storico in cui si richiede un altissimo livello di specializzazione. La formazione del pizzaiolo diventa quindi fondamentale non solo per le nuove leve ma anche e soprattutto per quei professionisti che da anni lavorano davanti a un forno. Solo lo studio e il costante aggiornamento permettono di interpretare un mercato in continua evoluzione, andando altresì ad intercettare trend e buone pratiche per una pizza sempre più sostenibile.
www.scuolaitalianapizzaioli.it
LE AZIENDE INFORMANO
AGUGIARO & FIGNA MOLINI
Via Monte Nero, 111 35010 Curtarolo, Padova 5stagioni@agugiarofigna.com +39 049 962 4611
Intervista a Riccardo Agugiaro
1. CHE PRODOTTI CHIEDE OGGI A UN MULINO UN PIZZAIOLO “GOURMET”?
I pizzaioli gourmet richiedono una varietà di farine e ingredienti di alta qualità non solo per realizzare pizze dal gusto sofisticato, ma anche per assecondare le richieste di un consumatore più attento alla salute e alla sostenibilità. Le richieste riguardano maggiormente farine con caratteristiche molto specifiche, come la linea MIA, frutto di una sapiente combinazione tra le tecnologie molitorie e la ricerca di alte prestazioni. Si tratta di un processo brevettato che associa la tradizionale macinazione a pietra con quella più moderna a cilindri, con particolare attenzione al controllo delle temperature di produzione. Una delle maggiori peculiarità delle farine MIA è quella di garantire prestazioni migliori e stabili nel tempo con sfarinati integrali o semi-integrali di granulometria mirata e precisa, più sicuri a livello igienico. Le singolari qualità proteiche di MIA si adattano ad impasti dall’amalgama poco tenace. Il bouquet aromatico sprigionato dagli impasti preparati con MIA deriva dalla varietà dei grani teneri e infonde personalità a tutte le preparazioni. MIA garantisce inoltre una capacità di conservazione superiore alla media e prevede cinque referenze che si adattano ai gusti più contemporanei.
2. CORNICIONE ALTO, CORNICIONE BASSO… COME È CAMBIATA LA PIZZA E COME SONO CAMBIATE LE FARINE PER ASSECONDARE LE TECNICHE CONTEMPORANEE?
Stiamo assistendo a un’evoluzione del settore pizzeria che comporta un adattamento delle farine alla produzione e alle preferenze del cliente finale. Le farine sono state studiate per strutturare tutti i tipi di impasto per pizza. A tal proposito, Agugiaro & Figna ha creato il marchio, ormai noto, Le 5 Stagioni, ideato appositamente per soddisfare le esigenze del pizzaiolo a 360 gradi.
3. DA QUALCHE ANNO, AGUGIARO & FIGNA STA PUNTANDO TUTTO SUL PROGETTO “PIZZA DEL CAMBIAMENTO”: CHE COS’È E CHI È IL PIZZAIOLO DEL CAMBIAMENTO?
Il Pizzaiolo del Cambiamento è una modalità di fare impresa in maniera etica, attenta, inclusiva e sostenibile, condivisa da tanti professionisti del settore, che si impegnano a perseguire un modello di ristorazione consapevole. La garanzia della qualità del lavoro in pizzeria, la promozione del benessere del lavoratore, l’approccio etico e trasparente nei rapporti con i fornitori sono i princìpi che guidano i pizzaioli nel lavoro quotidiano. A tutto ciò si aggiungono il controllo dell’origine delle materie prime, la scelta di lavorare su sistemi di cottura sostenibili e l’efficientamento della gestione delle scorte in ottica di food cost. Dal punto di vista della produzione, i pizzaioli del cambiamento oggi prestano attenzione alla valorizzazione della dieta mediterranea e alla stagionalità delle materie prime, rispettando i tempi della natura.
NATURA AD ALTA PRESTAZIONE
IL GUSTO AUTENTICO DEL GRANO. le5stagioni.it
Farine rustiche, di tipo 1 e integrali da macinazione gentile e a bassa temperatura per garantire l’estrazione di farina dai profumi e sapori più intensi. Gusto e performance per pizze dal carattere unico.
Tecno GourmeT
Il futuro del gusto
di Domenico Maria Jacobone
Nel suo libro “Il gusto come esperienza. Saggio di filosofia e estetica del cibo”, Nicola Perullo sostiene che il nostro rapporto con il cibo va ben oltre la semplice funzione nutritiva. Secondo l’autore, il gusto rappresenta la prima forma di esperienza estetica dell’uomo: un’esperienza complessa che coinvolge aspetti cognitivi, emotivi e culturali, contribuendo in modo fondamentale alla costruzione della nostra identità.
Nel corso della storia, il gusto ha attraversato un continuo processo di evoluzione, influenzato dalle scoperte tecnologiche, dai cambiamenti culturali e dalle innovazioni in cucina. Quello che mangiamo oggi è frutto di una lunga serie di trasformazioni, dalle antiche civiltà ai giorni nostri ma le prospettive future ci portano verso una svolta ancora più radicale: un’era in cui l’intelligenza artificiale (IA), la scienza molecolare e le tecnologie immersive come
la realtà aumentata (AR) e virtuale (VR) definiranno non solo cosa mangiamo, ma come percepiamo e viviamo il cibo. In questo articolo cercherò di raccontare come la tecnologia stia già trasformando il mondo culinario e quale sarà il suo impatto nei prossimi 20 anni.
Storia del gusto
L’evoluzione del gusto e delle tecnologie che troviamo nel milione e mezzo di anni che ci precedono può dare delle indicazioni su quanto sia stato profondo il cambiamento nel rapporto con il cibo attraverso l’avvento della conoscenza e delle nuove tecnologie. Per comprendere l’impatto che la tecnologia avrà sul gusto, dobbiamo prima osservare come questo si sia evoluto nel tempo. Da cacciatori che si nutrivano di ciò che offriva la natura e mangiatori di carni crude, abbiamo avuto la prima grande svolta nell’utilizzo di strumenti per sminuzzare e tagliare il cibo, poi il fuoco per cuocerlo, il calore per essiccarlo, la coltivazione e l’allevamento per garantire la sussistenza e le fermentazioni per elaborare ingredienti semplici. Nella Roma antica, il cibo era parte integrante della vita sociale e culturale, rispecchiava il ceto sociale dei consumatori e veniva arricchito dall’u-
so di spezie esotiche come il pepe, e il famoso garum, una salsa di pesce fermentato, che rappresentavano innovazioni straordinarie per la cucina del tempo.
Per contro, durante il Medioevo, la conservazione degli alimenti e l’utilizzo di spezie per mascherare il deterioramento degli ingredienti, furono tecniche ampiamente diffuse ma sicuramente si perse il “gusto” dell’esotico e la curiosità (oltre che opportunità) di consumare cibi o spezie che arrivavano da luoghi remoti. Nel Rinascimento e nelle epoche successive, la scoperta del Nuovo Mondo consentì l’avvento sul mercato di prodotti inediti che oggi sono parte della nostra quotidianità, come pomodoro, mais, patata, peperoncino e patata dolce. Inoltre, il miglioramento delle tecniche agricole trasformò radicalmente l’accesso a nuovi ingredienti e, soprattutto, cominciò ad esserci maggiore abbondanza di cibo a basso costo e disponibile per tutti i ceti sociali.
L’arrivo della Rivoluzione Industriale segnò un vero e proprio spartiacque. Con la scoperta di tecniche come la
pastorizzazione e l’invenzione del refrigeratore, il modo di conservare, trasportare e consumare il cibo subì una rivoluzione. Nel XX secolo, con l’avvento della globalizzazione, la cucina è stata sempre più contaminata da influenze internazionali, mentre la tecnologia digitale ha accelerato l’innovazione in cucina, introducendo strumenti e metodi che sarebbero stati impensabili anche solo pochi decenni fa.
L’era del tecno-gourmet
Intelligenza Artificiale e Innovazione Culinaria sono il traguardo che stiamo sperimentando in modo sempre più rilevante nel settore alimentare, aprendo la strada a una nuova era, quella del tecno-gourmet. A Dubai, per esempio, hanno già sperimentato il successo di ricette create dall’AI per pizze “personalizzate” che sono state un successo immediato. Nelle grandi catene ristorative, si utilizzano da tempo algoritmi che analizzano le preferenze del cliente e propongono combinazioni di ingredienti che potrebbero sembrare improbabili ma che rispondono a gusti individuali, creando un’esperienza culinaria unica e soprattutto un aumento delle vendite.
L’IA può anche esplorare nuovi territori nel campo della cucina molecolare, una disciplina che si concentra sulla scienza degli ingredienti e delle loro interazioni chimiche. L’idea che il cibo possa essere “costruito” a livello molecolare apre possibilità straordinarie: non solo combinare ingredienti in modo innovativo ma modificare il sapore e la percezione sensoriale attraverso processi scientifici. La manipolazione molecolare può ad esempio esaltare i composti aromatici o creare nuove consistenze, espandendo così i confini del gusto come lo conosciamo oggi.
Il futuro ci riserverà sicuramente delle sorprese: nel prossimo ventennio, possiamo aspettarci un aumento esponenziale dell’uso dell’IA e della robotica applicate alla creazione di piatti e nella gestione delle cucine, dei magazzini, dell’approvvigionamento, delle incombenze nelle preparazioni basilari e della “linea”.
L’intelligenza artificiale non si limiterà a svolgere il ruolo di “assistente” ma, con i modelli più avanzati ed addestrati, diventerà un vero e proprio “cre-
atore” autonomo. Grazie all’analisi di milioni di dati, sarà in grado di anticipare le tendenze alimentari, generare nuove ricette e persino adattare i piatti in tempo reale in base ai parametri biometrici di chi mangia. Questi algoritmi saranno in grado di ottimizzare i sapori per ciascun individuo, bilanciando nutrienti e sapore secondo specifiche esigenze nutrizionali.
Uno degli sviluppi più interessanti sarà l’integrazione della conoscenza molecolare nei processi di AI. Attraverso l’analisi delle proprietà chimiche e fisiche degli ingredienti, l’AI potrebbe essere in grado di manipolare il sapore e l’olfatto, non solo per potenziare le esperienze culinarie ma anche per creare nuovi sapori non convenzionali. La ricerca nel campo della neurogastronomia ha già dimostrato che il nostro cervello può essere ingannato a percepire sapori inesistenti attraverso stimoli sensoriali mirati. Combinando queste conoscenze con la potenza di calcolo dell’AI,
potremmo vedere la creazione di sapori che sfidano la nostra comprensione tradizionale del gusto.
Costruire il cibo
Il cibo del futuro potrebbe essere completamente personalizzabile, non solo per gusto, ma anche per aspetto, texture e impatto nutrizionale. La stampa 3D di cibo, già in uso sperimentale (come la “costola” di Barilla, “Blurhapsody”, ndr), potrebbe diventare uno strumento comune in molte cucine professionali e domestiche. Grazie alla stampa di materiali alimentari, sarà possibile non solo creare forme artistiche mai viste prima ma anche risolvere problemi come lo spreco alimentare e la scarsità di risorse, producendo piatti che utilizzano ingredienti sostenibili e alternativi, come proteine vegetali e insetti.
La conoscenza e la tecnologia hanno sicuramente un equilibrio fragile; infatti, nell’uso intensivo della robotica, si ri-
food passion AU TH EN TIC
Tutti i migliori ingredienti più uno... la nostra autentica passione
Rispetto per la stagionalità delle materie prime, “dalla terra in cucina”, dalla raccolta alle preparazioni sapienti, prodotti gustosi e freschi direttamente nelle tue mani. Un’attenta selezione di funghi, carciofi, pomodori, peperoni e altre specialità conservate in innovative confezioni... questo è il segreto di Demetra perchè ogni pizza diventi straordinaria.
demetrafood.it
schierebbe un paradossale rovescio della medaglia. Affidare sempre più la cucina alla tecnologia robotica e all’intelligenza artificiale potrebbe portare con sé il rischio di perdere il sapere accumulato nei secoli dall’essere umano. La cucina è un’arte che si tramanda di generazione in generazione e che riflette le tradizioni culturali di un popolo. L’atto stesso di cucinare, con le sue tecniche, intuizioni e segreti (tramandati oralmente o per scritto da nonne e mamme di tutto il mondo), potrebbe essere messo in secondo piano a favore di un’automazione che non tiene conto del legame emotivo e storico con il cibo. In un contesto come questo, la tecnologia può essere al tempo stesso una minaccia e una risorsa. L’uso di strumenti come la realtà aumentata (AR) e la realtà virtuale (VR) potrebbe rappresentare un modo per preservare le antiche ricette e i sapori tradizionali, proiettandoli nel futuro. Grazie alla VR, sarà possibile ricreare
virtualmente l’esperienza di cucinare in una vecchia trattoria italiana o in una taverna greca, dove gli utenti potranno apprendere le tecniche dei maestri artigiani e preservare quei saperi che rischierebbero di perdersi nell’era digitale. Queste tecnologie potrebbero diventare una sorta di custodi del patrimonio culinario, garantendo che le identità gastronomiche nazionali rimangano intatte, nonostante il progresso.
Allo stesso tempo, AR e VR non dovranno essere viste come un freno all’evoluzione culinaria, ma piuttosto come un mezzo per tramandare e innovare. Potranno offrire alle nuove generazioni di cuochi l’opportunità di esplorare i confini della creatività, fondendo antiche tecniche con le nuove possibilità offerte dalla tecnologia, mantenendo vivi i sapori del passato e, allo stesso tempo, spingendo l’evoluzione verso nuove frontiere gastronomiche. Il gusto del
futuro sarà pluridimensionale, risultato di una fusione tra conoscenza culinaria e innovazione tecnologica sempre più spinta. L’intelligenza artificiale, la cucina molecolare e le tecnologie immersive (come AR e VR) ci permetteranno di creare esperienze culinarie personalizzate, sorprendenti e multisensoriali. Tuttavia, sarà essenziale preservare il sapere antico, quel patrimonio culturale che rende la cucina una forma d’arte ed una dimostrazione di amore verso noi stessi ed il prossimo, non solo un processo meccanico. Per i ristoratori, il futuro offre opportunità incredibili ma anche sfide impegnative. Sarà necessario un equilibrio tra l’adozione delle nuove tecnologie e il rispetto delle tradizioni culinarie che definiscono le culture gastronomiche del mondo. In questo senso, la tecnologia non dovrà diventare un sostituto ma un ampliamento delle possibilità creative. Solo così potremo garantire che il gusto, nella sua evoluzione, rimanga sempre un’esperienza ricca di significato, capace di raccontare storie e tradizioni, anche in un mondo sempre più automatizzato.
Ristorazione domani
PIATTI GRANDI, PORZIONI PICCOLE: BASTA
di Giampiero Rorato
Dagli anni ’70 del secolo scorso, l’alta ristorazione italiana ha attraversato diverse fasi. Dapprima, c’è stata la “Nouvelle Cuisine”, importata dalla Francia da Gualtiero Marchesi, la quale insegnava a preparare piatti con prodotti freschi di mercato, meglio se radicati nel territorio, ottenuti con cotture giuste, più brevi che nel passato e soprattutto meno grassi. Negli anni ’80 si è affermata la cucina “fusion”: un sapiente assemblaggio di prodotti, accostamenti e tecniche operative per offrire ai clienti piatti nuovi, piacevoli e ricchi di fascino. Uno degli interpreti più importanti è stato Moreno Cedroni della “Madonnina del pescatore” a Senigallia. Cedroni, oltre agli eccellenti prodotti della terra marchigiana e dell’Adriatico, ricorreva alle offerte agroalimentari più interessanti provenienti da altri
continenti, il tutto fuso in modo sapiente ottenendo piatti di sicuro interesse gastronomico. Negli anni ’90 ha fatto capolino in Italia la cucina “molecolare”, il cui pioniere italiano è stato Ettore Bocchia nel ristorante “Mistral” dell’Hotel Serbelloni di Bellagio. Si tratta di una cucina che faceva largo uso delle conoscenze scientifiche sulle modificazioni delle molecole degli ingredienti che avvengono in fase di cottura. Di questa cucina, è rimasto famoso il gelato ottenuto con l’uso dell’azoto liquido ma sono molti altri i piatti che richiedevano (e richiedono) una non piccola cultura scientifica e gastronomica. Gli chef citati sono molto colti e capaci, hanno fatto scuola ed il loro contributo alla evoluzione dell’alta ristorazione italiana e delle cucine di qualità è stato molto importante e la loro influenza continua.
NEL
NUOVO SECOLO
I primi due decenni del nuovo secolo hanno visto nuove e diverse esperienze, ma soprattutto l’imporsi di mode televisive spettacolari dove spesso la forma e i colori prevalevano di gran lunga sulla sostanza e sulla correttezza alimentare. Non sono mancati, certo, nel nostro Paese, cuochi seri, preparati, importanti, capaci di offrire una cucina italiana di alta e altissima qualità.
Cito un solo nome, quello di Nadia Santini, splendida chef del ristorante “Dal Pescatore” a Runate di Canneto sull’Oglio, in quella provincia di Mantova che di ristoranti eccellenti ne ha avuto e ne ha ancor oggi parecchi.
Di Nadia Santini mi piace ricordare il suo celebre risotto mantovano che è piaciuto molto anche al grandissimo Paul Bocuse, che lo ha voluto adottare nel suo ristorante, uno dei più celebri della Francia e del mondo. Negli ultimi due decenni, accanto ad una cucina mediamente buona e a cucine banali influenzate dalle trasmissioni televi -
sive, ci sono stati ristoranti buoni e significativi. Grazie anche a personaggi importanti che dal dopo guerra molto hanno dato culturalmente alla cucina e alla ristorazione italiana - e cito per tutti Carnacina, Veronelli e Raspelli - e a prestigiose università, fra le quali ricordo quelle di Pollenzo, Parma e di Milano, la ristorazione italiana ha consolidato il suo prestigio, appagando anche i clienti più attenti non solo all’aspetto e ai sapori ma anche alle caratteristiche nutrizionali, nel rispetto delle più serie innovazioni dei più stimati bionutrizionisti presenti ormai in tutte le sedi universitarie con facoltà dedicate alle scienze alimentari. Infatti, ci sono ottimi ristoranti fra le stelle Michelin ed altri - anche se meno famosi e meno esaltati dalle guide gastronomicheugualmente di ottimo livello.
E sono proprio questi ristoranti, presenti in ogni regione d’Italia, ad attirare nel nostro Paese il folto turismo gastronomico internazionale.
PIATTI GRANDI, PORZIONI PICCOLE
Fra le bizzarre stravaganze apparse a partire dal 2000, c’è quella di piatti dal diametro sempre più lungo, come se la classe e il valore di un ristorante si misurasse dalla grandezza dei piatti e non dal loro contenuto. Mi sovviene alla mente questo esempio per soffermarmi sulla preparazione della tavola, ricordando come la vera élite dei ristoranti ama per le stoviglie la linea classica, naturalmente scegliendo fra le proposte più eleganti e raffinate. Ad esempio, per i calici preferisce quelli di vetro soffiato rispetto a quelli di vetro stampato, come era nelle case dell’alta borghesia già nel Settecento; questo per dire come la ristorazione futura, di cui esistono
già oggi importanti e qualificati esempi, baderà più all’apparenza che alla sostanza, cioè a quello che il cuoco mette sul piatto. Ma cosa si cucina oggi? Innanzitutto, la tradizione italiana (antipasto, primo, secondo, dessert), anche se oggi si preferiscono meno portate che in passato; poi, diversi ristoranti amano
servire un buon numero di assaggi, cioè piccole porzioni, anche perché attualmente di moda. Sarebbe però errato e di cattivo gusto servire piccole porzioni per di più in grandi piatti. Per fortuna anche questa strana moda va scomparendo, mentre restano in auge porzioni normali servite su piatti normali. Il futuro della cucina passa dunque per una “intelligente normalità”, nella quale la sostanza prevale di gran lunga sulla forma dove l’accoglienza, il valore dei piatti e un servizio professionale fanno premio sulla forma dei piatti, sulla grandezza dei menù e sulle chiacchiere illustrative.
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CONCLUSIONI
Da diversi anni l’ Italia ha riconquistato un prestigio gastronomico riconosciuto il tutto il mondo. Ci sono ristoranti che da molti decenni si sono imposti all’attenzione dei gourmet internazionali conservando il loro radicamento sui prodotti del territorio e i piatti della tradizione, scegliendo i prodotti migliori, affinando le preparazioni, accogliendo gli ospiti in locali molto confortevoli e di giusta eleganza, mettendo a disposizione un servizio di consolidata professionalità. Naturalmente, il costo deve essere adeguato e possibilmente non elefantiaco.
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MARZIA BUZZANCA, LA SOMMELIER PIZZAIOLA
di Giusy Ferraina
Marzia Buzzanca è una donna minuta e dalla grande forza, con un sorriso coinvolgente. Tutti la conoscono come la “pizzaiola sommelier”. Quando ti parla di pizza o la guardi lavorare, vedi la luce brillare nei suoi occhi: ha una passione tangibile, così come la voglia di condividere il suo mondo, di insegnare soprattutto a quei giovani che si avvicinano al vino o alla pizza. E ce lo dimostra con il suo nuovo progetto che ci siamo fatti raccontare.
Marzia porta con sé una grande storia: nasce in Libia, figlia di un maggiordomo e cuoco; fin da subito impara e vive l’arte dell’accoglienza e la gastronomia, un passato da profuga con l’arrivo del regime di Gheddafi. Da grande diventa sommelier e proprietaria di un’enoteca a L’Aquila, per poi interrompere la sua vita a causa del terremoto del 2009, che la porta a reinventarsi subito come pizzaiola (riapre il suo ristorante in zona rossa e non molla nemmeno per un istante). Nel 2019 si trasferisce in Trentino-Alto Adige dove proprio all’Hofstätter Garten è la prima pizzaiola all’interno di una cantina ed è proprio qui che rinasce completamente nel segno del lievito naturale e delle lunghe maturazioni a temperatura controllata. Ed è sempre qui che propone le sue pizze gourmet in degustazione, rigorosamente abbinate al vino.
Dopo Termeno si sposta a Roma per nuove esperienze, lascia i forni e si
avvicina alla sala, alla formazione, per poi tornare nuovamente in Abruzzo, questa volta a Giulianova dove è la pizzaiola executive di “Agrumi Pizza - Sushi – Drink”, un locale che mette insieme in un format unico gusti e mondi diversi. E, proprio con questo nuovo percorso, ha ricevuto il premio “Premio Pizza dell’anno 2023” del Gambero Rosso.
«È un po' difficile decifrare quale sia il mio territorio di appartenenza”, ci dice Marzia. “Sono nata in Libia, ho vissuto a L’Aquila, in Trentino, a Roma e ora ho iniziato un nuovo percorso a Giulianova. Sono una girovaga ma, a dire il vero, mi sento a casa ogni volta che mi fermo in un posto e ritorno a casa laddove c’è qualcuno che mi aspetta. E di ogni luogo, città, paesaggio, prendo il bello che mi circonda, quello che mi fa stare bene, che mi piace e mi ispira».
Sono molto belle le parole di Marzia e ci fanno capire subito la sua energia positiva, la sua propositività all’inclusione e alla condivisione. In fondo, niente di diverso da ciò che la pizza è, al di là di impasti e condimenti.
Marzia, come ti sei avvicinata al mondo della pizza?
Per necessità. Avevo aperto la pizzeria contemporanea con lievitazione naturale per le mie intolleranze. La pizzaiola ufficiale era mia nipote che, dopo il terremoto de L’Aquila, non è riuscita a tornare. E io che non avevo mai fatto una pizza mi sono trovata ad affrontare quella situazione. Così, sono andata da Simone Padoan, che aveva trasformato mia nipote da pizzaiola classica a gourmet, ho preso appunti per tre
giorni e poi, tornata a casa, ho iniziato a sperimentare. E, mentre impastavo, lottavo con la burocrazia per riaprire il locale colpito dal sisma.
Dopo diversi anni torni in Abruzzo: com’è stato questo ritorno? Cosa ti mancava della tua terra?
Un ritorno complesso, costellato di vicende di vita più e meno piacevoli, che si è arricchito con le cene a quattro mani in forma itinerante dove ho portato un po’ di me e della mia pizza in giro, prendendo anche tanto dei posti dove sono stata. Ho riscontrato un grande cambiamento nella ristorazione, tante innovazioni, mi sono avvicinata alla formazione dei ragazzi di “Alt”, lavorando con Niko Romito, al servizio di sala; ho toccato con mano da più punti di vista questo nostro mondo e mi sono resa conto di quanto siano anche cambiati
i clienti. Un periodo molto pratico che mi ha permesso di studiare e allo stesso tempo cercare la mia identità, perché parallelamente ho sempre alimentato il desiderio di riaprire un posto tutto mio. La mia terra non mi è mai mancata veramente, perché l’ho sempre portata con me, l’ho sempre ritrovata nel mio lavoro, nelle materie prime e, se sentivo nostalgia degli amici o della città, sono corsa a riabbracciarli. Forse, una cosa che mi accade molto spesso con L'Aquila, è sentire forte la mancanza della città, di quei muri, quelle case ancora un po' sofferenti e puntellate.
Ora sei a Giulianova: riparti dalla pizza con un nuovo progetto, “Agrumi”. Ci racconti come funziona questo mix tra pizza, sushi e mixology e com’è nata quest’idea?
Sì, ho deciso di accettare la proposta di Alessandra Ciafardoni, sommelier dell'olio e barlady e del suo compagno Luca con l’obiettivo di portare qui ad “Agrumi” il mio bagaglio di esperienza e magari poter tramandare a questi giovani ciò che so e che ho collezionato nel tempo. Il progetto di “Agrumi Pizza Drink Sushi” mi è sembrato da subito interessante. Qui ci sono le mie pizze in teglia studiate nei topping, valorizzate ancora di più con l’olio extravergine d’oliva che io amo, c’è il sushi di Rasel Dewan, sushiman dallo stile fusion; e poi i cocktail. Non mancano ovviamente i vini, considerato il mio passato e la mia filosofia non poteva essere altrimenti. E ci sono anche i classici della cucina territoriale. Insomma, un locale fusion nel vero senso della parola.
Tu sei una pizzaiola sommelier: cosa ci dici dell’abbinamento pizza-vino?
Per quanto mi riguarda il mio personale progetto pizza-vino, nasce nel 2007 e, da allora, è sempre stato per me un messaggio da portare avanti. Oggi possiamo dire che finalmente ha preso piede: la pizza si è evoluta nella direzione della cucina e, quindi, ci si può divertire di più con gli abbinamenti che diventano interessanti e originali.
“Gli tisti della pizza”
Tante idee da assaporare ogni mese con i nostri dodici “Artisti della pizza”. Novembre è stato dedicato al nostro caro pizzaiolo Giovanni Gargiulo.
Ogni morso è un viaggio attraverso la croccante crosta esterna, l'abbondante farcitura e la morbidezza interna dell'impasto appena sfornato, la scelta perfetta per coloro che desiderano un pasto abbondante e soddisfacente senza compromettere il gusto e la varietà.
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Io, per esempio, prediligo le bollicine: sono una grande appassionata; un buon Trento Doc o un Franciacorta, ma anche una bollicina abruzzese, visto che ultimamente ci sono dei veri e propri capolavori qui e lo dico con orgoglio. Da “Agrumi”, per esempio, abbiamo molte referenze locali.
Qual è la tua pizza del cuore? E quella che bisogna provare da “Agrumi”?
Non sono capace a scegliere la mia pizza preferita per non far torto alle altre. Se invece mi chiedi di consigliarne una in particolare, in questo momento ti direi “La principessa”, con mozzarella, formaggio vaccino di grotta, prosciutto cotto affumicato, carpaccio di tartufo nero e cristalli al Montepulciano di Marina Cvetic; ovviamente, non può mai mancare il mio giro d'olio e del pepe
aromatico, ma non piccante. Una pizza abbastanza complessa che regala croccantezza, sapidità, il senso di affumicato, tutto in grande equilibrio. Quando la preparo, è anche bella da vedere con tanti colori, con prevalenza di rosa e queste lamelle di tartufo che la fanno sembrare la corona di una principessa. E da qui il nome. E poi c’è “Dedicata al Mare”, che ha vinto il premio Pizza dell’anno Gambero Rosso 2023, con ,ozzarella, paccasassi del Conero, nocciole tostate, pangrattato, pepe marischa, timo limonato, alici di Sicilia e nebulizzazione di anisetta Rosati.
Visto che mi hai nominato la pizza “Principessa”, parliamo di pizza e donne. Fino al 2022 sei stata l’unica donna nella top 100 dei pizzaioli italiani: hai avuto difficoltà come donna nel fare questo lavoro e importi in questo settore?
Nelle cucine, con i miei colleghi, in linea di massima sono stata sempre stimata e non sottomessa. Bisogna ammettere che la donna trova difficoltà in qualsiasi sfera lavorativa quando riveste un ruolo tendenzialmente maschile: vive con il mantra di dover dimostrare sempre di essere all’altezza. Così come si avverte una certa difficoltà per alcuni dipendenti, specie i giovani, di trovarsi sotto il coordinamento di una donna. Io sono felice di essere stata un’apripista in questo. Tuttora noto una mentalità maschilista forte: nonostante i passi in avanti ci sono ancora scogli da superare.
La tua idea di pizza di oggi e di domani?
La mia idea di pizza di oggi è farla bene, quella di domani farla meglio!
Dove sta andando secondo te la pizza?
Sicuramente verso l’alta ristorazione.
CORNICIONE ALTO E ALVEOLATO, BASE CROCCANTE.
LA NUOVA FARINA PER UNA MERAVIGLIA DI PIZZA
storie di pizza
IL PIZZAIOLO TECNOLOGO SALVATORE KOSTA
“Ognuno di noi lavora ogni giorno per diverse ore, chi più chi meno, ma il punto è che spendiamo molto del nostro tempo a lavorare ed è proprio per questo che bisogna fare ciò che si ama. Quando lavoravo al mattino in ufficio e la sera facevo gli impasti, nella prima parte
di Noemi Caracciolo
della giornata ero sempre stanco e, nella seconda, invece, mi riprendevo. Ero arzillo, pieno d’energia. Ero felice!”.
Parole di Salvatore Kosta, proprietario di “Kore” a Torre Annunziata (Na), un tecnologo alimentare che non nasce come pizzaiolo ma che, essendo sempre stato appassionato del mondo alimentare – come la sua laurea dimostra – ha deciso di abbandonare la scrivania per il banco, quello da pizzaiolo.
Salvatore, grazie alla sua verve da innovatore e voglia di creare, ha iniziato sperimentando impasti a casa sua, per poi portarli nelle pizzerie, insegnare e, alla fine, aprire dei locali nei quali era lui stesso a stendere e infornare le sue pizze. «Durante gli studi mi sono occupato anche di farine e impasti, ma non specificamente. Pensa, la mia tesi era sul limoncello. Per tanti anni mi sono occupato di altro, di cose che non c'entravano niente con la mia laurea. Ero nell’ambito della sicurezza sul lavoro e non mi piaceva per nulla, però mi serviva per vivere. Ho fatto un lavoro durissimo. Pensai di cambiare e così, tramite Internet, iniziai a entrare in dei gruppi di cucina e impasti. Si parlava di cose di cui io ero ero a conoscenza: enzimi, farine, lieviti», mi racconta Salvatore.
Avevi mai impastato qualcosa?
Mai. Partecipando ad un evento dove c'erano alcuni pizzaioli amici miei, che erano delle star, stavano sul banco e impastavano, mi resi conto che molti di quelli che fanno questo mestiere – almeno all’epoca – non sapevano spiegare ciò che stavano facendo. Pensai che io invece avrei saputo farlo. Iniziai a impastare a casa con la planetaria e pubblicai ciò che facevo, ma aggiungendo anche la spiegazione tecnica. Un consulente notò il mio lavoro e, senza conoscermi, mi chiese se volessi occuparmi di impasti presso una pizzeria senza pizzaiolo: “Villa Giovanna” a Ottaviano. Io, che nel frattempo mi ero appassionato a tutto ciò, fui felicissimo; tra l’altro, era anche inerente a ciò per cui avevo studiato. Così, andai a fare consulenza, senza mai aver toccato o cotto una pizza. Nel frattempo, avevo anche stretto amicizia con Ciro Salvo e, quando gli portai il mio impasto e lo vidi trasformarsi in una pizza, mi sentii l’uomo più felice del mondo. Nel periodo di Villa Giovanna mi chiamavano “Doctor Pizza”: facevo gli impasti, ma la sera
non stavo al banco, indossavo il camice da laboratorio e spiegavo alle persone cosa stessero mangiando. Piaceva, si sentivano coccolate. Dopodiché, iniziammo a fare anche dei corsi amatoriali e un imprenditore di Aversa mi chiese di aprire una pizzeria insieme. Non avevo soldi ma mi voleva lo stesso al suo fianco. Aprimmo “La grotta del buono”, una struttura magnifica. Facevamo numeri eccezionali: dalle 300 alle 400 pizze a sera e lì iniziai a entrare nella parte pratica. Qualche sera stavo anche al banco e ci rimasi due anni. Poi, un altro imprenditore volle aprire un’altra pizzeria a Nola con il mio nome: “Impastili by Kosta”.
Tu sei appunto un laureato, pizzaiolo, tecnologo alimentare e istruttore, si può dunque affermare che studio e pratica sono importanti in egual misura?
Io sono sempre stato appassionato di alimenti; già quando andavo a mangiare la pizza con gli amici ero quello che rompeva le scatole: “questo è cancerogeno, questo è così, quello è colì” e per questo ho scelto il mondo della tecnologia alimentare. Nel tempo, poi, sono rimasto affascinato dall’idea di poter creare qualcosa da zero e con la particolarità di saper dare una spiegazione di ciò che stai creando. Inoltre, mi è sempre piaciuto “trasferire” questi contenuti agli altri. Tornando alla tua domanda, credo che siano sullo stesso livello e debbano andare di pari passo. Se sai ciò che avviene in un impasto, saprai anche rimediare e capire perché magari è collassato o non è cresciuto. L’ho sempre detto che i pizzaioli dovrebbero andare prima a scuola a imparare cosa sono farina, lievito, sale e come funziona l’impasto e solo dopo mettere le mani sul banco. Invece fanno il contrario.
Cosa pensi di chi ancora fa l’impasto “a occhio”?
Per me è un’offesa alla categoria. Il mondo dell’arte bianca, della pizza e panificazione è fatto di chimica, fisica, microbiologia e un sacco di cose che sono fondamentali e si devono conoscere. “A occhio” per me non ha senso: significa risolvere il problema lì per lì ma non capirai mai cosa è successo.
Adesso forse sì, ma se avessi chiesto a un pizzaiolo 7-8 anni fa cosa fosse il glutine, non avrebbe saputo rispondermi. Idem per le proteine, che danno estensibilità all’impasto. Sono cose che poi ti aiutano a fare meglio il tuo lavoro.
Parlami dei tuoi impasti.
A Nola avevamo due forni, uno elettrico e uno a legna. Durante un corso di formazione mi resi conto che nella pizzeria ospitante, dove c’era un forno a legna, mettevano poca legna e quindi era sempre “basso”.
Così, quando i ragazzi cuocevano la pizza, la lasciavano dentro un bel po’ di minuti e all’uscita aveva un cornicione ben pronunciato, croccante e al taglio il trancio rimaneva dritto, quindi era una napoletana “crunch”.
Pensai di riportare il concetto a Nola e nacque la “Napcruch”, così per caso: una napoletana croccante che prevede prima un passaggio nel forno a legna e poi in quello elettrico. Naturalmente non potevo inventare un forno basso, così pensai di prendere il panetto della pizza in pala – idratato al 70-80% -, stenderlo sottile senza metterci nulla sopra se non un velo di pomodoro sulla retina e, poi, dritto nel forno a legna. Quando il cornicione si era gonfiato e leggermente colorato, la passavo nel forno elettrico senza retina a 300-320°, stava a contatto con la pietra e quindi sotto si cuoceva diventando croccante e sopra si colorava ancora di più. Prima di metterla nel forno, ci mettevo
gli ingredienti. Oggi molti la stanno facendo e la chiamano “a cascata”, perché passano da 450 ° a 300°. La faccio da molto prima che si parlasse di due o tre cotture. Le persone si stancano di mangiare sempre la stessa cosa e le stesse consistenze: a me è sempre piaciuto creare e fare qualcosa di diverso. Riguardo la pizza in pala, ho creato un nuovo impasto, con una tecnica che si chiama “sponge”, un preimpasto freddo. Fino a 5 o 6 anni fa nessuno usava la biga o il poolish mettendolo in frigo e mettendoci il sale, io invece l’ho fatto. È un prodotto che si presenta molto alveolato, croccante, friabile, ma più che altro puoi farcirlo a mo’ di panino. Preparo queste precotture e, una volta raffreddate, le abbatto e congelo se non servono e, quando viene il cliente, metto il prodotto direttamente in forno a 250°, dove perde il freddo e continua a cuocersi. La farcisco in mille modi diversi. Poi la rimetto in forno con la farcitura che guarda verso l’alto e l’altra parte con la mollica che guarda in basso, così che diventi croccante sia sopra che sotto. Unisco le due parti, taglio e metto a tavola. Le persone hanno un qualcosa che – mangiando con le mani – si sbriciola proprio come un cracker ed è ciò che piace di più. Gli ingredienti vengono cotti non a 400°, ma a 250°: sono già cotti, ma non subiscono lo shock termico del calore e hanno un gusto differente. Io ho semplicemente aumentato l’idratazione dell’impasto, che è sempre quello della pala all’80% e l’ho cotto a 250°.
Molti ti definiscono un pioniere, un innovatore nel mondo della sperimentazione dei lievitati: quali sono gli elementi che contraddistinguono il tuo essere “sempre un passo avanti”?
Il rischio. Faccio prove quando non dovrei, tipo il sabato. Ciò che mi ha sempre contraddistinto è il non “adagiarmi sugli allori”. Molti mi dicono che sono pazzo perché vado avanti. La materia è vasta, possono esserci tante combinazioni che possono darti risultati differenti. Io lo faccio prima per me stesso, per non annoiarmi e poi mi piace che le persone possano provare qualcosa di diverso.
Sì, ma com’è nata l’idea dello sponge?
Quando lavoravo a Mariglianella e vivevo a Torre Annunziata è nata una necessità; in pratica sono circa 40 minuti di auto tra un posto e l’altro. I metodi indiretti consistono nel mettere insieme gli ingredienti e completare l’impasto il giorno dopo, non subito. La caratteristica di questi impasti, che hanno tanto lievito e stanno a temperatura ambiente o a 18°C, è che corrono veloci. In quei 40 minuti poteva succedere di tutto e, se non fossi arrivato in tempo, l’impasto sarebbe finito nella spazzatura. Così pensai di preparare un impasto che anche se fosse stato pronto, non sarebbe esploso: acqua,
farina, lievito e sale, che nei preimpasti di solito non viene usato e naturalmente frigo. Lo sponge è nato così. Se vai su internet lo trovi e il nome è quello perché ha la struttura di una spugna ma non è il mio: io ho aggiunto sale e 50% di acqua e un determinato tipo di lievito. Non è chiaramente l’unico metodo per fare un preimpasto, lo dico sempre ai corsisti che la ricetta perfetta non esiste: bisogna cercarla e creare il proprio impasto. Quando leggo che la biga o il poolish vanno fatti in un solo modo, un po’ mi incavolo perché significa che non è stato compreso quanto sia vasto il mondo dell’arte bianca.
Però ci saranno degli elementi principali dai quali dipendono digeribilità e gusto della pizza.
Quello della digeribilità è un luogo comune: non ho mai sentito dire “mi è rimasto il pane sullo stomaco”. Non credo dipenda dall’impasto ma da quello che ci metti sopra o da quanto hai bevuto. L’ingrediente principe per gusto e struttura è la farina. Naturalmente, se voglio fare la pala, la teglia o il padellino ci vuole tanta acqua e quindi una farina forte che abbia tante proteine per poter assorbire. Usare la farina integrale al 100% darebbe tanto gusto ma non la struttura particolare e leggera al morso. Io, dunque, gioco con i blend di farine, tipo un 50 % di farina forte per dare supporto, un 20% di integrale e il 30% di tipo due. La farina è fondamentale e non bisogna lesinare sul prezzo.
E le cotture quanto incidono sugli impasti?
Qui può entrare in gioco la pesantezza di un impasto, la digeribilità ecco. Se mi cuoci una napoletana a 450° e hai preparato un impasto idratato oltre il 75% perché vuoi fare il “bellino”, non si gelatinizzerà l’amido e quindi si butterà in corpo una pizza cruda. Inoltre, se non gelatinizzi l’amido, che è zucchero, nello stomaco sarà attaccato dai lieviti e questo creerà gonfiore. Cuocendo maggiormente, crei i metaboliti, cioè le sostanze aromatiche e quindi più gusto. La crosticina del pane e della pizza è ciò che da sapore, è la caramellizzazione degli zuccheri. Per il cornicione della napoletana non mi spingerei a dire questo perché viene cotta poco ma anche se non c'è stata la reazione di Maillard, usando una buona farina, sarà saporita lo stesso.
La tua nuova pizzeria si chiama
“Kore”, cosa significa?
È l’insieme dell’inizio e della fine del mio nome: “Ko” e “re”, ma “core” in inglese significa “fulcro” e io lo collego all’impasto, che per me è la parte fondamentale di una pizzeria, il fulcro appunto di un buon prodotto. Inoltre, ricorda anche il cuore e serve anche quello, insieme alla passione. Che pizza mi faresti assolutamente assaggiare?
Una che ho fatto in estate: “Brace”, una pala farcita con peperoncini del fiume, provola e – messi all’uscita – un prosciutto cotto arrostito che si chia -
ma brace e un formaggio affumicato. Per la classica, ti farei mangiare una con crudo e scaglie. O ancora con la crema di zucchine e un salume, una pancetta macerata nel Barolo con un sapore molto molto delicato. La mia preferita in pala è quella con la scarola. Ma anche una che adesso non faccio più, la “Girasole”: crema di pomodorini gialli, pomodori gialli, pepe, provola, fiori di zucca per richiamare la forma del fiore e noci sbriciolate all’uscita.
Quindi segui la stagionalità e prepari tu le farciture?
Assolutamente sì. Io adoro la pala perché hai la possibilità di non buttare al vento i prodotti cucinati, come le creme: hanno un sapore diverso sulla pala rispetto alla pizza napoletana. Molti pizzaioli non la amano ma io non sono d’accordo. Le preparazioni non le faccio tutte perché non ho molto tempo ma, se devo fare qualcosa di particolare, sì. Comunque mi faccio aiutare molto dal Bimby.
Progetti futuri?
Io amo insegnare ed essere circondato da persone che sono contente di ascoltare e capire ciò che dici. Avendo avuto una brutta esperienza con il lavoro precedente, mi piacerebbe creare una sorta di scuola dove accogliere ragazzi, persone che vogliono realmente fare questo lavoro. Darei lustro a questo mestiere. I ragazzi dovrebbero venire a imparare, ma seriamente! Non come nelle scuole dove si pagano un sacco di soldi e si mette solo mano sul banco senza trasferire alcun tipo di teoria. Creare insomma un punto di ritrovo nel quale poter parlare di impasti.
storie di pasta
QUANDO LA CUCINA DIVENTA EMOZIONE
PUNTO NAVE, MONTERUSCIELLO
di Antonio Puzzi
Ha da poco conquistato il primo posto come Miglior Ristorante di Pesce nella classifica “50 Top Italy” ma Punto Nave a Monterusciello, sull’incantevole litorale flegreo, è nato nel 1989 dalla volontà di una famiglia di sommozzatori che ha trasformato la passione per il mare e la cucina in un’avventura gastronomica.
All’inizio, era un punto di ritrovo per i pescatori flegrei, che si riunivano per gustare insieme il frutto del loro pescato. Oggi, dopo oltre 30 anni di esperienza, si distingue per la capacità di combinare tradizione e innovazione, mantenendo sempre al centro la qualità della materia prima.
A guidarlo oggi sono Daniele e Simone Testa che, con Serena Iammarino, animano un luogo che merita di essere visto dal vivo. Ecco, perché, per rispettare le volontà dell’azienda non troverete in queste pagine le foto del locale ma solo dei piatti e, ovviamente, dei padroni di casa.
Come fate a farvi riconoscere nel ricco panorama ristorativo del territorio?
Il nostro punto di forza risiede nella freschezza del pesce che serviamo, grazie alle nostre paranze che ci permettono di selezionare direttamente il pescato. Questo ci consente di offrire ai nostri clienti piatti che raccontano la nostra storia, arricchiti da un tocco internazionale che abbiamo acquisito attraverso viaggi e esperienze culinarie. Per noi, è fondamentale rispettare il mare e trasmettere questo valore nei piatti che proponiamo.
Quanto conta oggi la bellezza di un piatto, oltre alla sua bontà?
L’estetica di un piatto ha acquisito una grande importanza nell’epoca moderna, in cui l’immagine gioca un ruolo essenziale nell’esperienza culinaria. Tuttavia, per noi l’aspetto visivo non è fine a se stesso: ogni piatto che prepariamo è pensato per esaltare la qualità e la freschezza degli ingredienti. L’obiettivo è offrire ai nostri ospiti un’esperienza che coinvolga tutti i sensi, facendo in modo che la bellezza del piatto accompagni i sapori autentici e profondi, legati al nostro territorio e alla nostra storia.
storie di pasta
Si parla sempre più di cibo, lo si fotografa sempre di più, ma… il cliente è più consapevole di ciò che gli arriva in tavola?
Assolutamente sì, notiamo un crescente interesse da parte dei nostri clienti verso ciò che consumano. C’è una maggiore attenzione alla provenienza del cibo e ai metodi di produzione, specialmente quando si tratta di pesce. Questo ci stimola a mantenere un dialogo trasparente e aperto con chi ci visita, illustrando con orgoglio il percorso che porta i nostri prodotti dal mare alla tavola.
Riteniamo che questo sia un aspetto essenziale della nostra cucina, basata sulla qualità e sulla stagionalità delle materie prime.
Quanto conta la sostenibilità e la responsabilità ambientale nelle ricette di “Punto Nave”?
La sostenibilità è il cuore pulsante del nostro lavoro quotidiano. Gestendo direttamente il nostro pescato, possiamo seguire rigorosamente i fermi biologici e le regole
che tutelano le risorse ittiche, contribuendo così alla protezione degli ecosistemi marini. Collaboriamo con fornitori che adottano pratiche di pesca sostenibili e ci impegniamo a ridurre gli sprechi in cucina. Per noi, sostenibilità significa rispettare i ritmi della natura e garantire la massima qualità senza compromettere l’ambiente.
Forni Valoriani, da oltre 100 anni al vostro servizio
Ci regalate una ricetta di “Punto Nave”?
Uno dei piatti che più rappresenta la filosofia di Punto Nave è l’arroz de marisco, che proponiamo ogni giovedì. Questo piatto è ispirato a un viaggio che abbiamo fatto nel Parco naturale dell’Albufera, vicino Valencia, dove abbiamo scoperto
l’autenticità della paella. Durante quel viaggio, ci siamo imbarcati con Martin, un pescatore locale, per esplorare le sponde del lago Albufera, luogo di nascita della paella. È lì che abbiamo imparato che la vera paella valenziana
storie di pasta
non è quella di mare, come spesso si crede, ma una preparazione a base di pollo, coniglio, taccole e lumache. Da questa esperienza è nato il nostro arroz de marisco, che rende omaggio alla tradizione spagnola ma celebra i sapori del mare. La chiave del piatto è la semplicità e l’equilibrio tra pochi ingredienti di altissima qualità, che creano un’armonia di sapori autentici e raffinati.
Ogni giovedì invitiamo i nostri clienti a vivere con noi un piccolo viaggio attraverso l’aroma delle risaie spagnole, servendo l’arroz in padella, proprio come si fa nella tradizione. Il nostro consiglio? Gustate il piatto direttamente dalla padella, mescolando la parte croccante del fondo, il socarrat, con quella più morbida. E, per un tocco di freschezza, qualche goccia di limone farà emergere tutto il sapore del mare.
di Noemi Caracciolo
Carlo Le Rose è uno chef di origini calabresi che, dopo diverse esperienze all’estero e un buon percorso di studi, è tornato in patria con tanta passione da ammaliare chiunque mangi i suoi piatti.
La sua passione nasce da bambino, osservando la nonna ai fornelli, della quale ricorda con affetto il pane che preparava in casa, che profumava di semplicità. Una peculiarità che Carlo vuole riportare nelle sue preparazioni, attraverso il “calore di una cucina accogliente e ricca di tradizioni”. La parola d’ordine per il suo lavoro è “emozione”, è ciò che lo chef vuole comunicare. Per lui il cibo è qualcosa di profondo: mangiare va aldilà del puro e semplice atto di nutrirsi, è piuttosto un modo per nutrire l’anima attraverso un’esperienza sensoriale unica. Attento alla stagionalità, alla genuinità e al territorio, Carlo propone una cucina accessibile a tutti, pensata non per dimostrare chissà che, ma solo per deliziare chi la assaggia.
Carlo, raccontami la tua storia.
Ho iniziato la mia formazione presso una scuola alberghiera in Calabria e, una volta completati gli studi, mi sono trasferito in Toscana, dove ho lavorato in diverse strutture come “La Loggia” del Piazzale Michelangelo e “Villa Olmi”, anch’essa a Firenze. Sono poi andato in Scozia e ho intrapreso un percorso studio-lavoro; dopo un anno e mezzo, sono tornato a Firenze come sous-chef al fianco dello chef Franco Carnevale presso “La Loggia”. Queste esperienze lavorative hanno fatto si che maturassi. Ho imparato ad affrontare opportunità e sfide con un approccio diverso, più serio e consapevole, dando maggior valore alla mia formazione professionale. Ecco che la mia decisione di frequentare scuole di cucina – come l’Accademia Italiana Chef di Empoli e l’A.L.M.A. di Gualtiero Marchesi, nella quale ho partecipato a due omonime “monografie” – è stata molto naturale. Nel 2013 mi sono trasferito in Romagna: ho fatto diverse esperienze in numerosi alberghi e ristoranti della Riviera, tra cui “Da Guido” a Miramare di Rimini e “Dallo Zio” sotto la guida di Giuliano Canzian. Negli anni, ho collaborato con diversi franchising del mondo della ristorazione. Questi ultimi mi hanno dato la possibilità di migliorare le mie abilità, sia in termini di velocità che di gestione di un elevato numero di coperti.
È arrivato poi l’interesse per il tema delle intolleranze alimentari e ho attivamente partecipato a convegni e fiere, oltre al fatto che ho iniziato a realizzare piatti specifici e tenere corsi per amatori e professionisti. La sete di crescita – non solo lavorativa, ma anche personale – mi ha spinto nel 2021 a seguire un corso presso la scuola di cucina
A.L.M.A., è stata una sfida personale grazie alla quale ho avuto la possibilità di perfezionare le mie competenze e ampliare la mia visione di una cucina trasversale, ricercata e al contempo semplice. Attualmente sono tecnico dimostratore e resident chef presso “Dulca”, azienda riminese e collaboro con diverse realtà del territorio in qualità di consulente e docente per corsi di cucina professionali o amatoriali.
Ricordi il primo piatto che hai
realizzato? E ce n’è uno in particolare il cui profumo ti evoca bei ricordi passati?
Il primo piatto che ho realizzato è stata una zuppa di lenticchie con castagne e porcini, mentre il piatto o – meglio - il prodotto che mi ricorda il passato è il pane fatto in casa da mia nonna. Il suo profumo mi ricorda la campagna, la libertà, la semplicità.
Parlami della tua cucina: la definiresti gourmet? E cosa vuoi raccontare attraverso di essa?
La mia cucina si fonda su un concetto di semplicità e accessibilità, è pensata per le persone.
Non cerco di stupire con piatti troppo complessi o sofisticati ma di creare sapori che siano immediati e autentici. Ogni piatto nasce con l’intento di raggiungere un equilibrio dei sapori e la stagionalità gioca un ruolo fondamentale. Credo fortemente che i prodotti di stagione siano più ricchi di gusto e che con essi si possano ottenere piatti più genuini e nutrienti. Nel mio lavoro mi impegno a trasmettere emozioni attraverso i sapori. Voglio che chi assaggia i miei piatti provi il calore di una cucina che è accogliente e ricca di tradizioni.
So che sei appassionato anche di lievitati: come nasce questo interesse?
E in che misura sono importanti studio e pratica in questo ambito?
Sono particolarmente appassionato del mondo dei lievitati, un ambito che sto approfondendo intensamente. È una sfida che richiede pazienza, attenzione ai dettagli e una continua sperimentazione. Un processo in cui la conoscenza tecnica si sposa con l’intuizione: dedico molte ore sia alla lettura che alla pratica quotidiana, mettendo letteralmente le mani in pasta ogni giorno. I lievitati non sono solo un cibo, sono un simbolo di trasformazione e pazienza, due qualità che considero essenziali nella mia cucina.
storie in cucina
A cosa pensi quando cucini?
Parlami di ciò che ti guida
nell’esprimere la tua arte.
Quando sono in cucina, provo una sensazione di libertà assoluta, di spensieratezza. È come se tutto il resto scomparisse e l’unica cosa che conta fosse il gesto creativo. La natura è la mia principale fonte di ispirazione e cerco di riprodurre nei piatti ciò che osservo intorno a me. Ogni stagione offre colori, profumi e ingredienti diversi e io cerco di portare questi elementi nei miei piatti. Voglio esprimere la mia creatività e il desiderio di spingermi oltre i limiti, esplorare nuove idee, senza mai dimenticare l’importanza delle radici e delle tradizioni culinarie.
Voglio che ogni piatto parli all’anima di chi lo assaggia, portando con sé un’esperienza sensoriale che richiami la bellezza e la libertà che trovo nella natura.
Come ti poni rispetto alla scelta delle materie prime?
Uno dei princìpi fondamentali della mia cucina è il rispetto per il territorio e per le materie prime. Credo fermamente nell’importanza di utilizzare una filiera corta, privilegiando prodotti a km 0 e sostenibili. Ogni ingrediente ha una storia e io voglio raccontarla attraverso i miei piatti connessi con la terra e le tradizioni locali.
Scegli due piatti che maggiormente ti piace preparare e raccontameli.
Amo preparare pane, olio e pomodoro: è un abbinamento che propongo molto volentieri anche perché mi ricorda la mia infanzia e poi il cappellaccio con finferli e mazzancolle, un piatto che dedico alla Romagna, un connubio tra la vastità del mare e la tradizione dell’entroterra.
“Famola strana! Alla ricerca di prodotti gourmet?!
di Caterina Vianello
Che il mondo della pizza oggi guardi moltissimo alla cucina è ormai dato per acquisito, al pari della notevole ricerca in tema di impasti. Non a caso si parla di “pizza gourmet” e di pizze che sono veri e propri “piatti d’autore”, capaci di rivaleggiare con quelli degli chef del fine dining. Abbiamo messo in fila una serie di esempi, per raccontare quali siano gli ingredienti più insoliti usati dai pizzaioli e di come questi ultimi siano riusciti a renderli “accessibili” al grande pubblico.
Conciato Romano
Presidio Slow Food, prodotto dall’azienda agricola Le Campestre della famiglia Lombardi, il Conciato Romano è un formaggio di pecora antichissimo, la cui tecnica di lavorazione deriva dalle civiltà agropastorali. La chiave è la stagionatura, o meglio l’affinamento, da un minimo di 7 mesi a un massimo di 24 mesi in anfore di terracotta, con l’aggiunta di erbe aromatiche che gli conferiscono un sapore unico ed un profumo intensissimo. In grado di polarizzare il gradimento anche se assaggiato da solo, diventa ancora più “selettivo” se utilizzato in cucina. Ecco perché abbiamo deciso di trattarlo tra gli ingredienti “particolari”, anche se si tratta di formaggio. Tra chi ha saputo trattarlo e valorizzarlo, vi è uno dei maestri incontrastati della pizza in Italia e a livello internazionale, come Franco Pepe. La sua pizza con il Conciato è contemporaneamente un omaggio alla tradizione, guardando alla Mastunicola – considerata la prima pizza napoletana – e anche una valorizzazione di un prodotto del territorio. Con origini che stanno a metà strada tra la storia e la leggenda, la Mastunicola era un disco di pasta condito con strutto, pepe, formaggio grattugiato e basilico. Il nome deriverebbe secondo alcuni da Mastro Nicola, un maestro pizzaiolo che l’avrebbe inventata.
Secondo altri, invece, sarebbe stata la presenza del basilico tra gli ingredienti –in dialetto napoletano vasunicola – a dare origine, dopo una storpiatura – al nome Mastunicola. Sia come sia, Pepe ha riletto la tradizione, apponendo una firma autoriale e sostituendo al posto del pecorino che si aggiungeva un tempo, il Conciato. Nel bilanciarlo, ha scelto la sugna di suino nero casertano (ingrediente non facilmente utilizzabile se accostato alla pizza) e i fichi, che in stagione vengono aggiunti freschi, altrimenti in confettura.
Piccione
Altro ingrediente tra i più divisivi, è certamente il piccione. Vero banco di prova del talento di uno chef è la cottura, che deve trovare il corretto bilanciamento tra la morbidezza (senza sfiorare la crudità) e la giusta consistenza che permette di apprezzarne il sapore, evitando che le carni si secchino. Colpo da maestro è poi riuscire a non limitarsi solo al petto ma a usare anche il resto, come coscia e fegato, sempre più spesso proposto in versione “rocher”. Ebbene, tra i pizzaioli che più hanno innovato in ricerca, tecnica e abbinamenti c’è senza dubbio Simone Padoan, che dal suo laboratorio creativo a San Bonifacio ha fatto scuola. Sua è la pizza “Piccione al forno, fior di latte, petto di piccione al forno a legna, fagiolini neri, coscia confit e ristretto al Campari”. Un piatto in cui dolcezza e tono amaricante si fondono e compensano perfettamente.
Quinto Quarto
Una volta erano considerati scarti. Stiamo parlando delle parti meno nobili che finivano sulla tavola di chi non poteva permettersi tagli migliori e più cari. Ora vivono un momento di grande riscoperta e sono considerate una prelibatezza: parliamo delle frattaglie, note anche come quinto quarto. Trascurate e relegate alla cucina povera, ora entrano a pieno titolo nei menu “gourmet”: trippa, rognoni, reni, polmoni, cuore, fegato, animelle, lingua e coda. Inserirle in una pizza sembra un’impresa impossibile, tanto è difficile riuscire ad apprezzarle anche in cucina. Eppure, qualcuno ci è riuscito: si tratta di Francesco Martucci che ai Masanielli ha portato una pizza dal nome “Quinto Quarto” che vede tra gli ingredienti: ragù di pomodoro san Marzano Dop, lingua, cuore, coda e diaframma, oltre a pecorino dei monti Lattari gran riserva.
Cocomero
Se il dibattito in merito al rapporto tra ananas e pizza sembra finalmente superato, lentamente e di nascosto un altro frutto ha conquistato la scena, facendo meno rumore soltanto perché il frutto tropicale ci aveva distratti. Si tratta del cocomero, che pare impossibile pensare in un contesto diverso da quello delle calde serate estive, come conclusione rinfrescante. Pier Daniele Seu ha trasformato l’umile cocomero in un ingrediente su cui si sono accesi i riflettori, facendoci fare un viaggio attorno al mondo: la sua pizza si chiama “Valeria a Dubai”, è vegetariana e vede salsa di pomodoro arrosto, cocomero arrosto, feta, olive, crema di aglio nero, gel di cocomero piccante, olio all’aglio, origano fresco e secco. Un saliscendi di sapori e consistenze che schiva l’arma a doppio taglio dell’acquosità del cocomero.
Salmerino
Parente del salmone e capace di evocare immediatamente panorami montani con acque incontaminate di laghi e fiumi, il salmerino ha carni sode, tenere, magre e asciutte. Tra gli ingredienti ittici sulla pizza, non è esattamente il primo a cui penseremmo, guardando piuttosto ai crostacei, di più facile presa. Eppure, la sua delicatezza lo rende capace di trasformare una pizza in un vero piatto d’autore. Renato Bosco, che non a caso si fa chiamare “pizzaricercatore” l’ha usato per la sua “Salmerino”: impasto con riso Artemide, crema di ricotta, zucchine, salmerino, uova di salmerino. Un capolavoro di delicatezza.
Bottarga d'uovo
Dal mare al cortile. Com’è possibile pensare e realizzare una bottarga di uovo di gallina? In effetti, abituati a tonno, muggine o cefalo, e alla sapidità delle loro uova, sembra impensabile riuscire a produrre qualcosa di simile da un uovo di gallina. Eppure, con pazienza, sale e zucchero, il risultato è ottenibile perfino a casa. Luca Pezzetta, nella sua pizzeria “Clementina” ha in carta la “Capricciosa a mo’ di pezz”: vede l’uso di pomodoro Migliarese, mozzarella di bufala, carciofo alla giudia, prosciutto di Parma 18 mesi, olive Leccino disidratate, funghi e bottarga d’uovo di gallina. Un viaggio in Italia ad alto tasso di sapore.
Misticanza e fiori eduli
Al ruolo della misticanza abbiamo già dedicato pagine qualche tempo fa, sottolineando come un abbinamento di erbe, foglie e vegetali in genere, possa accendere di sapore una pizza, tra acidità, dolcezza e piccantezza. Ora aggiungiamo anche i fiori, non certamente per una mera questione estetica ma perché hanno anch’essi un ruolo fondamentale. Giancarlo Casa e Sergio Natali de “La Gatta mangiona”, hanno ormai da anni compreso il valore di piante e fiori e, grazie alla collaborazione con lo chef Igles Corelli, autorevole firma della cucina contemporanea, hanno creato “La pizza di Igles”, con fiori eduli, pomodori confit speziati e (poca) mozzarella.
Frutti di bosco
Dopo il cocomero, ecco un altro frutto o meglio un’intera famiglia che difficilmente riusciremmo ad immaginare sulla pizza. Scontata in pasticceria, meno in cucina, quella dei frutti di bosco è una famiglia numerosa e variamente composta, ma soprattutto rischiosa da gestire sapientemente: dai colori, al gusto (dolce, acido), alla consistenza, tutto porta ad abbandonare la sfida. Eppure, le potenzialità sono davvero notevoli. Non è allora un caso che a cimentarsi con questa prova sia un pizzaiolo come Denis Lovatel che conosce bene i boschi e la montagna e che è riuscito a tradurne il carattere sulla pizza. La sua creazione si chiama “Bosko” e vede fiordilatte, cuore di burrata, amarene o frutti di bosco, capocollo artigianale.
Napoli - Amatrice andata e ritorno senza glutine
Pomodori del Piennolo, provola affumicata di Agerola e guanciale di Amatrice
By &
Grazie alla decennale partnership tra Dr. Schär – leader del glutenfree – e Rossopomodoro – catena di ristoranti pizzerie ambasciatori della cultura gastronomica napoletana – in circa 30 locali del brand partenopeo si può gustare la miglior “pizza verace” gluten-free Quality by Schär in tutta sicurezza.
preparazione:
1. step:
Ingredienti pre-impasto liquido (giorno prima)
900g acqua fredda a 4°C, 500g Pizza Mix Schär, 10g lievito di birra fresco
preparazione pre-impasto:
Impastare in planetaria con paletta in prima velocità per circa 3 minuti, ovvero per il tempo minimo necessario per sciogliere il lievito e stemperare il Pizza Mix Schär. Mettere l’impasto in una scodella e coprirla con pellicola; bucare leggermente la pellicola e mettere in frigo lasciando fermentare a 7°/8°C per 12 ore.
2. step:
Ingredienti impasto generale
Tutto il pre-impasto liquido
400g Pizza Mix Schär, 40g di sale fino marino, 50g di olio di semi di mais.
preparazione impasto generale:
1. step:
mettere in planetaria tutto il pre-impasto utilizzando la paletta, aggiungere il Pizza Mix Schär e far girare velocemente per 4 minuti.
2. step: a 4 minuti aggiungere tutto il sale a pioggia.
3. step: a 5 minuti attivare la 2° velocità e versare lentamente tutto l’olio. In totale la lavorazione non deve superare i 10 minuti. Spegnere e lasciare riposare per 5 minuti. Trasferire l’impasto in un contenitore dedicato e far riposare per almeno 2 ore con coperchio.
Suddividere in pagnotte di circa 320g, metterle in un contenitore leggermente infarinato con Farina di riso Schär e coprire con altra tavola. Far riposare per 2 ore.
farcitura:
Eliminare la cotenna dal guanciale e tagliarlo a listarelle di circa mezzo centimetro. Lasciarlo sfrigolare in una padella a fuoco moderato, finché la parte grassa non diventerà trasparente. Non serve aggiungere altro olio, dato che cuocerà già nel suo grasso. Versare il grasso all’interno di una scodellina. Rimettere il guanciale sul fuoco per renderlo croccante per qualche minuto, poi spegnere la fiamma e conservare il guanciale a parte. Nel frattempo tagliare la provola a dadini e i pomodori del Piennolo a metà.
preparazione pizza:
Prendere delicatamente un panetto lievitato dal contenitore, passarlo velocemente nella Farina di riso Schär e metterlo sulla pala dedicata, leggermente infarinata con la stessa farina. A mani unite, spingere con le dita dal centro verso l’esterno, in modo che i gas si concentrino nel bordo, formando il cornicione.
guarnitura:
Versare al centro prima la provola, poi il guanciale, i pomodori del Piennolo e infine dare una spolverata di pecorino grattugiato.
cottura:
impalare la pizza con pala alluminio dedicata e poi infornare facendo scivolare velocemente la pizza sul piano refrattario. Far cuocere per 120 secondi in forno a legna a 380°C.
Servire con una generosa grattugiata di pecorino e delle foglie di basilico.
tempi di preparazione:
Pre-impasto 12 ore – impasto finale 4 ore circa + guarnizione 30 minuti
ingredienti:
Impasto alla napoletana per 6 pizze grandi
1000g Pizza Mix Schär
900ml acqua fredda a 4°C
10g lievito di birra fresco
40g di sale fino marino
50g di olio di semi di mais q.b. Farina di riso Schär per lo spolvero
per la guarnizione:
400g pomodoro del Piennolo DOP,
300g guanciale di Amatrice, 600g provola affumicata di Agerola, 100g di olio EVO, q.b. pecorino romano DOP
La zucca
Pochi sono gli ortaggi che finiscono per diventare il simbolo di un mese del calendario: tra questi, un posto di assoluto rilievo spetta alla zucca, solare regina incontrastata del grigiore di novembre. Parlarne al singolare è riduttivo: sono infatti 500 le varietà, che fanno riferimento a 15 specie, di cui le commestibili si contano letteralmente sulle dita di una mano: la cucurbita pepo, la cucurbita maxima, la cucurbita moschata, la cucurbita ficifolia e la cucurbita argyrosperma. Nonostante nell’antichità pre-colombiana fosse già presente, era
di Caterina Vianello
Utilizzata già dagli Egizi, dai Greci, dagli Etruschi e dai Romani, non dava particolari soddisfazioni in cucina se ci atteniamo alle testimonianze degli autori del passato: insipida e legnosa, la zucca “europea” non lascia un gran segno nella storia gastronomica. Ben diversa la sorte di quella d’oltreoceano: appartenente al genere Cucurbita, viene importata in Europa dall’America nel XVI secolo dai coloni spagnoli, conquistando progressivamente tavole e palati. Dimostra sin da subito una notevole versatilità, tanto che a leggere le ricette dei secoli passati si po-
Cotta al forno, fritta, marinata o lessata, come protagonista di risotti e zuppe, ridotta in purea per gnocchi, paste ripiene, torte e frittelle, infine candita: la zucca può attraversare a testa alta l’intero menù, dall’antipasto al dolce. Per valorizzarla al meglio, però, è bene scegliere quella le cui caratteristiche si adattano al piatto che vogliamo preparare. Per questo, ecco una carrellata sulle varietà più note.
Zucca Mantovana
Mantova è terra di elezione per la zucca, tanto che la sua unicità le ha garantito il riconoscimento nel 2004 come Prodotto Agroalimentare Tradizionale. Chiamata anche “Cappello del prete”, per la sua caratteristica forma a turbante, ha colore verdastro e forma irregolare, particolare che la rende piuttosto difficile da sbucciare. La fatica è però ricompensata da un inconfondibile ed elegantissimo gusto dolce e da una polpa, di colore giallo-arancio, soda, asciutta e poco fibrosa. In cucina è la “condizione necessaria” per i tortelli, da servire ovviamente con burro fuso e salvia.
Zucca marina di Chioggia
Varietà di “Cucurbita maxima” dall’aspetto inconfondibile grazie ad una superficie scura, color grigio-verde, irregolare e bitorzoluta, ricoperta di bozzi e “verruche”. Al taglio, rivela una polpa arancio brillante, dolce, compatta e zuccherina. Tipica del Veneto e dei terreni vicini al mare, deve la sua bontà proprio alla complessità di sfumature di sapore che il terreno le conferisce. Perfetta per ripieni e risotti, dà il meglio anche negli gnocchi.
Zucca Delica
Polpa asciutta, molto profumata, compatta, capace di unire la consistenza della castagna e l’aroma di frutta secca, povera di acqua e con un sapore pieno, intensa e delicata allo stesso tempo. Buccia verde scuro, leggermente irregolare a livello cromatico, con striature biancastre, forma tondeggiante appiattita ai poli. Se dovessimo trovare la zucca perfetta, probabilmente sarebbe lei, la “Delica”. Coltivata soprattutto nel Nord Italia - ma diffusa anche in altre regioni - in cucina è trasversale: dalla pasta fresca ripiena al pane, dai dolci agli gnocchi, è praticamente una garanzia di successo.
Zucca Americana
Chiamata “Tonda Padana”, ha trovato territorio d’elezione nelle province di Mantova, Cremona e Reggio Emilia. Riconoscibile per la buccia liscia, costoluta e striata, nei toni del verde e dell’arancio, ha medie dimensioni, un grosso peduncolo legnoso e una forma tondeggiante. Si consuma praticamente tutta: dai semi, da aggiungere a zuppe, pane e insalate, alla polpa, protagonista di ripieni e mostarde, non a caso tipiche di queste zone.
Zucca Butternut o Violina
Cucurbita moschata originaria degli Stati Uniti, in Italia viene anche chiamata “violina” perché, se tagliata longitudinalmente, ricorda appunto lo strumento musicale. Dalla forma a pera, ha buccia liscia (che, nel caso della Violina, è costoluta e raggrinzita) e di colore arancione chiaro. Il peso è contenuto, di solito attorno al chilo. Particolare non secondario è la facilità di sbucciatura, che rende la conquista della polpa - di colore arancione vivace - decisamente accessibile. La caratteristica al palato è una dolcezza accennata che, unita alla sua consistenza cremosa, la rende perfetta per la preparazione di minestroni, zuppe e vellutate ma anche per crostate, purè e marmellate.
Zucca Berrettina Piacentina
Diffusa nella provincia di Piacenza e nel mantovano, ha forma simile a quella di un berretto o di un turbante, con un rigonfiamento sulla sommità e superficie irregolare. Può raggiungere dimensioni medio-grandi. Per molti versi ricorda la varietà di Chioggia: la buccia è scura, verde o grigiastra, mentre la polpa è di colore giallo-arancio. Soda, compatta e farinosa, è l’ideale per tortelli e risotti, ma è ottima anche semplicemente cotta in forno, con un filo d’olio e un po’ di sale.
Zucca Lunga di Napoli
Dimensioni impegnative quelle della “cucozza zuccarina”, che può misurare tranquillamente 70 cm di lunghezza (ma si arriva anche al metro) e 20-25 di diametro, per un peso di 20 kg. Quasi completamente priva di cavità interne, ha buccia che gioca con toni del verde, a contrasto con una polpa di colore arancio brillante, quasi rosso. Soda, dal sapore leggermente muschiato, rende bene cotta al vapore, come condimento per la pasta, in zuppe e anche cruda in insalata.
Zucca Trombetta d’Albenga
Forma allungata, ritorta e con una estremità rigonfia: il fascino e la bellezza della Trombetta di Albenga contrastano con la complessità del suo “trattamento” e della sua lavorazione. Considerata a metà strada tra la zucca e la zucchina, può essere raccolta e consumata seguendo sia la stagionalità della zucca – quindi a maturazio-
Zucca di Castellazzo Bormida
Prodotta principalmente in Piemonte, nei comuni in provincia di Alessandria e nelle vicinanze del fiume Bormida, ha dimensioni considerevoli, buccia scura e spessa con escrescenze e solchi e polpa giallo aranciata. Il sapore è particolarmente dolce, dettaglio non trascurabile nel caso in cui si vogliano preparare torte, biscotti e confetture.
Zucca di Piozzo
Dimensioni ridotte – circa 400 i grammi di polpa – per una zucca appartenente alla specie della “cucurbita maxima”, della quale conserva le caratteristiche di gambo cilindrico e consistenza simile al sughero. Polpa carnosa e compatta, è perfetta per il risotto, sia tagliata a dadini, sia resa in crema, rilasciando peraltro un colore acceso molto invitante. Ha un sapore delicato, tendente al dolce e può essere anche impiegata anche per gli gnocchi, insieme alle patate.
Zucca Hokkaido
Molti i nomi per uno stesso ortaggio: chiamata anche zucca castagna, potimarron oppure uchiki kuri o red kuri, la zucca Hokkaido prende il nome dall’isola giapponese di cui è originaria. Ha la buccia di colore arancione acceso e forma a pera o cipolla. Le dimensioni sono contenute, arrivando a pesare 1 kg circa. Ha polpa farinosa, asciutta e molto lavorabile: adatta a crostate, purè, gnocchi, si può anche mangiare cotta a pezzi in forno, senza togliere la buccia ma solo lavandola.
® BORN TO BURN
di Alfonso Del Forno
Il senza glutine di Luca Tudda
Luca Tudda, pizzaiolo calabrese di talento, ha saputo trasformare una passione in una missione che va oltre la semplice preparazione della pizza. La sua storia comincia da bambino, quando giocava con gli impasti della nonna, per poi trasformarsi in un percorso di studio e ricerca nel settore della pizza, culminando nella specializzazione nella pizza senza glutine. Oggi, Luca è il fondatore di “Amonoglù”, un'innovativa azienda che si dedica alla produzione di pizze senza glutine di alta qualità, mantenendo l'artigianalità del prodotto.
Nato nel 1991, Luca ha sempre avuto una passione innata per la cucina, ma mai avrebbe pensato di farne una carriera. Dopo aver frequentato il liceo classico, il suo percorso sembrava orientato verso l’avvocatura ma il richiamo dell’arte bianca si fece sentire durante una stagione estiva, quando ebbe l’occasione di lavorare in una pizzeria. Affascinato dal mondo della pizza napoletana, decise di
intraprendere questa strada con determinazione. La sua formazione prese vita a Napoli, presso l’Associazione Verace Pizza Napoletana (AVPN), il punto di riferimento per chiunque voglia apprendere l’arte della pizza tradizionale. Dopo aver acquisito le competenze tecniche e perfezionato la sua maestria, Luca tornò nella sua terra d’origine, la Calabria, per aprire la sua pizzeria. Così, nel 2014, a soli 23 anni, fondò “A’mmasciata”, una pizzeria napoletana autentica situata a San Marco Argentano (Cosenza), portando un pezzo della tradizione napoletana in Calabria.
L’obiettivo di Luca Tudda con “A’mmasciata” era chiaro fin dall’inizio: mantenere la purezza della tradizione napoletana, rispettando i rigidi parametri del disciplinare della pizza STG (Specialità Tradizionale Garantita). Nel corso degli anni, ha dimostrato una coerenza straordinaria nel non piegarsi alle mode o alle tendenze del momento, scegliendo di rimanere fedele alla sua filosofia: esaltare la qualità delle materie prime, portando sul piatto l’essenza della pizza napoletana. “A’mmasciata” è diventata un punto di riferimento non solo per i calabresi ma per tutti gli appassionati di pizza, guadagnandosi il riconoscimento di pizzeria associata AVPN.
Il locale è noto per la qualità dei suoi topping, che includono ingredienti selezionati del territorio calabrese, integrando così l’autenticità partenopea con l’identità locale.
Uno dei progetti più ambiziosi
di Luca è stato l’introduzione della pizza senza glutine, un prodotto che ha richiesto anni di studio e perfezionamento.
“I clienti mi dicevano che non riuscivano a trovare una pizza gluten-free che fosse buona come quella tradizionale,” racconta Luca “e questo mi ha spinto a sviluppare una soluzione”. La vera sfida era mantenere la qualità artigianale e, al tempo stesso, creare un prodotto che potesse essere conservato a temperatura ambiente per lunghi periodi. Dopo aver frequentato numerosi corsi e aver consultato esperti da tutto il mondo, Luca è riuscito a sviluppare una pizza senza glutine e senza lattosio, capace di mantenere tutte le caratteristiche di un prodotto artigianale, ma con una lunga shelf life. Da questa intuizione è nata “Amonoglù”, una startup che oggi
fornisce basi per pizza senza glutine a pizzerie e ristoranti, non solo in Italia ma anche in paesi come Giappone, Spagna e Germania.
Nel 2024, “A’mmasciata” celebra i suoi primi dieci anni di attività con una serie di eventi speciali che stanno vedendo la partecipazione di ambassador dell’AVPN, chef, pasticceri e sommelier. Questi eventi, iniziati nel mese di luglio, per terminare a dicembre, stanno trasformando la pizzeria in un vero e proprio hub esperienziale, dove il mondo della pizza si incontra con la sperimentazione culinaria e le nuove tendenze.
Luca Tudda si dice orgoglioso del percorso compiuto, sottolineando come la pizzeria abbia saputo mantenere la sua identità forte in un territorio, quello calabrese, che inizialmente sembrava distante dalla tradizione napoletana.
“Siamo riusciti a creare un punto di riferimento per gli amanti della pizza e questi dieci anni sono solo l’inizio di un cammino che ci porterà ancora più lontano,”afferma Luca.
La passione per il senza glutine ha portato Luca Tudda a esplorare ulteriori frontiere. Oltre a fornire basi per pizza senza glutine, Luca sta lavorando a una linea di prodotti gluten-free che includeranno anche snack e altri impasti, mantenendo sempre lo stesso livello di artigianalità e qualità.
Il sogno di Luca è quello di rendere accessibile a tutti una pizza di qualità, senza compromessi, anche a chi soffre di intolleranze alimentari. In questo, la sua filosofia rimane immutata: valorizzare le persone e le loro esigenze, offrendo loro un prodotto che rispetta la tradizione ma che guarda al futuro.
Luca Tudda rappresenta un esempio di come l’innovazione possa convivere con la tradizione. La sua storia è quella di un pizzaiolo che ha saputo costruire il proprio successo con dedizione, studio e amore per il proprio lavoro, e che oggi, grazie ad “Amonoglù” e “A’m-
Pizza classica e gourmet
a cura della Dott.ssa
Marisa Cammarano, biologa nutrizionista
La
pizza è il piatto più amato dagli italiani e non solo. Anzi, è una vera e propria istituzione, nonché un vanto della cucina italiana. Al tempo stesso, la pizza è oggetto di molti pregiudizi, che ruotano attorno alla salute. Secondo le credenze più popolari, la pizza è buona e vale la pena di essere consumata, ma allo stesso tempo fa male e fa ingrassare. E’ doveroso, però, dire che nessun piatto fa ingrassare in quanto tale e che ogni pietanza può rientrare in una dieta equilibrata, se consumata nelle giuste dosi. Infatti, prima di farsi cogliere da dubbi e preoccupazioni, occorre far mente locale sugli ingredienti che compongono una pizza. In una pizza “base”, per esempio, come la margherita, troviamo la farina, il lievito, il sale, l’olio, il pomodoro e la mozzarella.
Sono, tutti, alimenti semplici e genuini, che certo non lasciano presagire, nemmeno nella peggiore delle ipotesi, a chissà quale impatto negativo sulla salute. Dunque, se si guarda agli ingredienti ed al loro impatto sull’organismo, si scopre che la pizza è in realtà un piatto completo, ossia formato da tutte quelle sostanze importanti per un’alimentazione sana.
Certo, apporta molti carboidrati, forniti dalla farina, che sono il carburante principale per il corpo. I carboidrati complessi della farina rilasciano energia lentamente, mantenendo i livelli di zucchero nel sangue stabili. In media, per realizzare una pizza sono necessari 120-150 gr di farina. Ma troviamo, anche, le proteine, fornite dalla mozzarella (100 gr di mozzarella apportano 28 gr di proteine). Non mancano nemmeno le vitamine ed i sali minerali. Tra queste spiccano la fondamentale vitamina D, un toccasana per il sistema immunitario, il calcio, che fortifica le ossa, il basilico ed il pomodoro che forniscono la vitamina A e la vitamina C, che impattano sulle performance visive e sulle difese immunitarie. La salsa di pomodoro, inoltre, è ricca di licopene, un potente antiossidante che aiuta a combattere i radicali liberi nel corpo. Più o meno tutti gli ingredienti, ad esclusione delle farine, apportano sostanze antiossidanti, che aiutano a prevenire la formazione dei tumori. L’olio deve essere sempre extravergine di oliva in quanto fornisce grassi benefici, che impattano positivamente sulla salute del cuore, pur aumentando l’apporto calorico.
A proposito, qual è l’apporto calorico di una pizza? Nella sua forma base, priva di condimenti particolari, va dalle 800 alle 1000 kcal. Il “trucco” sta nel considerare la pizza un piatto completo, che da sola può fornire l’energia e le sostanze nutritive di un pasto intero. Tuttavia, i condimenti giocano un ruolo fondamentale ai fini nutrizionali, non necessariamente negativo. Alcuni gusti di pizza, con l’aggiunta di specifici ingredienti, completano ulteriormente un piatto che è già ricco di suo.
Se per esempio si opta per una pizza rucola, grana e prosciutto crudo, si aggiungono in un colpo solo il calcio e la vitamina D del grana, oltre alle fibre, alle vitamine della rucola e alle proteine del prosciutto crudo. Certo, l’apporto calorico aumenta, ma aumenta anche l’apporto nutrizionale. Oltre ai benefici nutrizionali, la pizza ha un ruolo importante nella socialità e nel piacere del cibo. Condividere una pizza con amici e famiglia può migliorare il benessere emotivo e creare momenti di convivialità. Intanto, negli ultimi anni nel mondo della ristorazione si assiste ad un cambiamento sostanziale per tutto ciò che riguarda la generale attenzione nella scelta delle materie prime. Il mondo della pizza non è sicuramente escluso da questi cambiamenti. Da questi stimoli e queste tendenze, si è giunti lentamente a quel fenomeno che oggi prende il nome di pizza gourmet, un modo diverso e moderno di preparare la pizza con un'attenzione particolare alla sua lievitazione, digeribilità ed alla scelta dei suoi semplici ingredienti.
La particolarità è proprio quella di utilizzare prodotti di nicchia e marchiati da riconoscimenti: Dop, Igp e Pat. Sono pizze particolari che possono cambiare anche per gli ingredienti dell'impasto.
La pizza gourmet è divenuta un modo diverso di assaporare la pizza, un'esperienza lenta e differente dal classico modo in cui di solito ci si approccia a questo pasto, solitamente più veloce e semplice.
Con il termine gourmet (letteralmente buongustaio) si indica solitamente una preparazione alimentare legata all'utilizzo di ingredienti di prima scelta, associati all'alta cucina. Associato alla pizza, questo termine sta ad indicare una preparazione realizzata con materie prime di prima qualità e/o con processi di produzione innovativi e all'avanguardia.
Le caratteristiche
che accomunano una pizza gourmet sono:
Ingredienti di qualità
Lievitazione/maturazione lunga
Innovazione
Utilizzo di materie prime ricercate, locali, a Km 0 oppure biologiche.
Estetica e equilibrio del gusto sono altre due caratteristiche imprescindibili.
Sulla pizza gourmet tutto può trovare spazio, dalle verdure alla frutta, secca e fresca, dall’ampio mondo degli affettati a quello dei formaggi.
E poi ancora aromi, spezie e pregiati prodotti locali che richiedono ricerca e dedizione. Gli ingredienti andranno equamente distribuiti su ogni fetta. Questo tratto estetico è uno degli elementi che distingue la pizza gourmet rispetto da quella tradizionale. Una pizza gourmet è da provare: non ci sono i classici carciofini, non ci sono i classici funghi in latta. I porcini saranno freschi, i salumi di prima qualità, la mozzarella sarà un ottimo fiordilatte o una bufala di qualità, il pomodoro un San Marzano e così via per tutti gli ingredienti. Il risultato non sono pizze.
Sono esperienze sensoriali, profumo, gusto e consistenze sono studiati per emozionare. Oltre gli ingredienti è la fantasia a fare da padrona.
redazione@ pizzaepastaitaliana.it
Spett. redazione, qui sembra che basti tagliare a spicchi una pizza per farla gourmet. Potete spiegare a un “ignorante” come me, con trent’anni di attività alle spalle, che cosa rende una pizza davvero gourmet? La classica Margherita non è forse una pizza gourmet?
(Carlo, Modena)
Risponde Giusy Ferraina
Caro Carlo, bella domanda la tua. Però dovremmo prima capire cosa sia veramente una pizza chiamata “gourmet”, in anni in cui questa parola è stata usata per qualsiasi cosa che si distaccava dal classico, dal consueto, dalla tradizione. Innanzi tutto, questo termine, ripreso dal francese, significa “buongustaio, fine intenditore di cibi e di vini”; dalla stessa sua definizione si intuisce che forse il suo utilizzo era più comune nell’ambito della cucina creativa mentre ben si discostava dalla pizza. Poi, anche la pizza è diventata gourmet, quando tale Simone Padoan negli anni 2000 decise di trasformare la pizza in una proposta gastronomica innovativa, semplicemente sostituendo i soliti prodotti utilizzati dai pizzaioli - di qualità non proprio eccelsa - con ingredienti selezionati, di territorio, artigianali e soprattutto freschi, abbinati in modo studiato. Insomma, con lui la pizza diventa campo d’incontro tra l’artigianalità del pizzaiolo e la creatività dello chef. Non una via di mezzo, ma una visione del tutto nuova della pizza, rivoluzionaria per quegli anni, che ha saputo conquistare le generazioni dei pizzaioli a venire. Padoan da molti è stato definito l’inventore della pizza contempora-
nea: da lui e con lui inizia un movimento importante per il mondo pizza.
Il gourmet di ieri potrebbe essere la pizza "contemporanea", che abbraccia impasti, lievitazioni, idratazioni, cucina e non ha mai sostituito la pizza della tradizione che rimane sempre fedele a sé stessa, nella sua essenza e nel concetto, ma ha saputo sempre adattarsi nel tempo alle novità, ai prodotti e alle nuove generazioni di pizzaioli.
Forse mi verrebbe da dire che la parola “gourmet” viene associata alla pizza con troppa facilità. Si pretende di fare pizze gourmet solamente perché si utilizzano ingredienti ricercati ma senza saperli usare, abbinare e soprattutto valorizzare o - ancora - quando su una pizza troviamo combinazioni poco razionali, ad alto tasso di creatività, che però al nostro buongustaio non danno emozione, non regalano gustosi equilibri. In questo caso - e ce ne sono tanti in giro – non siamo difronte ad una pizza gourmet, ma semplicemente ad una pizza sbagliata. O, ancora meglio, come spesso e ironicamente dico: davanti ad una pizza “vorrei ma non posso”.
Pertanto, prima di capire se la pizza gourmet si deve tagliare a spicchi, mangiare con le mani, intera o condividere,
capiamo se siamo davanti ad una pizza definibile veramente come tale. E ti dirò di più: l’aggettivo gourmet, usato per riferirsi a ciò che non è classico ma creativo, più vicino alla ristorazione e di qualità, termine un po’ enogastronomicamente da fighetti, ha un po’ stancato. Concordi? È più bello parlare di pizza moderna, di pizza di territorio, di pizza creativa. Anche perché, dopo circa 20 anni dall’innovazione Padoan, darei per scontato l’utilizzo di ingredienti di alta qualità, biologici e di piccoli fornitori locali, di ingredienti che sappiano raccontare il territorio, come l’altro grande maestro Franco Pepe ci ha insegnato. E ora, veniamo al nocciolo della questione.
Da quanto detto finora, risulta abbastanza logico che anche una pizza Margherita può essere gourmet, se fatta ovviamente con un’ottima mozzarella e non con quei fiordilatte di gomma; con pomodori selezionati tra gli innumerevoli biotipi che Madre Natura ci offre, con un giro di olio extravergine d’oliva da cultivar che esaltano il pomodoro e l’impasto. Gli ingredienti - come vedi - sono gli stessi ma li abbiamo scelti con cura, con l’obiettivo di dare dignità a quella che potrebbe sembrare una semplice Margherita, che tutti sappiamo essere la regina delle pizze. Se poi vogliamo esagerare, esistono le rivisitazioni della Margherita, le personali interpretazioni di una classica pizza che, per magia, diventa speciale, gourmet come ci piace tanto dire. Come? Con l’utilizzo di tecniche di cottura e di trasformazione; pesto di basilico o gel di basilico al posto del basilico fresco; pomodorini gialli, rossi, in versione confit, canditi, cotti o crudi, in salsa o interi; creme di formaggio, stracciate o burrate al posto della mozzarella. Anche qui gli ingredienti sono
sempre gli stessi, così come la risultante di sapore: il dolce del pomodoro, il fresco del basilico, la rotondità dell’olio e il grasso della mozzarella; tutto partecipa a un’estetica diversa e a sensazioni palatali diverse, più raffinate, eleganti, nuove sicuramente e capaci di regalare anche delle emozioni, per poi rimandare ad un sapore immediato e riconoscibile che è quello della Margherita. Tutto ciò si può definire gourmet? Direi di sì. Ciò che è la “classica Margherita”, come tu la chiami, è a mio avviso un concetto teorico da manuale o da disciplinare nei casi della pizza napoletana ma che, nella pratica del gusto, si eleva, prescinde dalla forma e diventa idea. Passiamo ora alla questione degli spicchi e, in modo provocatorio, ti dico che se parliamo di pizza in teglia gourmet, più che a spicchi la tagliamo in tranci. Nel nostro caso, lo spicchio è simbolo della pizza e di ciò che essa rappresenta: la condivisione e la convivialità, una divisione in spicchi che permette a più persone di assaggiare la stessa cosa, di goderne insieme e poi di ricamarci sopra volendo.
L’idea della pizza gourmet “spicchiata” risponde poi al concetto della degustazione (sempre condivisa) e dei percorsi di degustazione, altra cosa che il mondo pizza ha preso in prestito dalla ristorazione. Se prima ognuno ordinava e mangiava la sua bella pizza per intero, oggi in diverse pizzerie c’è la possibilità di assaggiare pizze diverse, nuove e originali; per intenderci: non classiche, condividendole con gli altri. La pizza “gourmet” in questione arriva al tavolo già spicchiata, che sia classica, contemporanea, padellino o romana e, senza usare coltello e forchetta, ognuno può prendere e mangiare la sua parte. Molto pratico e molto funzionale, perché ogni spicchio rappresenta un
boccone e, di conseguenza, un’esperienza.
La divisione in spicchi ha poi un’altra ragione d’essere, che risponde in modo efficiente alla creatività del pizzaiolo.
La divisione sta a monte della farcitura, del topping: ogni spicchio viene condito in modo indipendente proprio per far sì che su ogni singola fetta triangolare ci siano tutti gli ingredienti che compongono la pizza e con un morso se ne possa sentire il sapore nel suo insieme, senza dover tagliare da soli e ricomporre i singoli ingredienti sul pezzo che andremo a mettere in bocca. E, poi, sfido chiunque a tagliare a spicchi una pizza al padellino senza far cadere gli ingredienti del topping o rovinarne la composizione. Come nel design, oltre al bello c’è anche la sua funzione: lo spicchio non è solo in questo caso scenografico ma sposa un concetto di gusto, praticità e condivisione di esperienza.
Robin
Food
Un nome, una garanzia di successo, si potrebbe dire.
E, in effetti, è ciò che pensa anche Robe’, il protagonista di questo agile e breve racconto di Maurizio De Giovanni che, da bravo napoletano “figlio ‘e ndrocchia”, capisce che la chiave del successo non sta tanto nel saper cucinare quanto nel nome che dà a un piatto, che deve riuscire a far innamorare. Esattamente agli antipodi (o forse no) dell’idea di Bill Gates secondo cui “content is the king”.
In un mondo che si affida a false credenze (come quella delle 7 strisce per la pastiera) e ha bisogno di eroi anche in cucina, Maurizio De Giovanni racconta Napoli e la sua cucina, catapultandoci nel meraviglioso mondo di una ristorazione dove a farla da padrone è soprattutto l'arte di arrangiarsi. Tra lasagne con le polpette e pastiere, genovesi e gattò, si svelano le rocambolesche imprese di Roberto e della sua Marianna che, con astuzia femminile, saprà ribaltare le sorti di un'osteria sull'orlo del fallimento.
a cura della redazione
artista troppo prematuramente scomparso. Il film si apre con una signora non più giovanissima che racconta che, per fare la Genovese, “ce vo’ nu poco d’uoglio ‘e cchiù”, a indicare un senso della misura che non può essere descritto ma che deve arrivare da dentro. La scena finale è invece affidata alla voce di Renato Carpentieri che legge un testo di Benedetta Palmieri: “Napoli è sveglia, sta per soffiarsi di dosso la foschia mattutina quando qualcosa la insospettisce. Respira più volte, più o meno profondamente, decisamente qualcosa non le torna. L’odore del ragù non c’è, non lo sente, eppure qualcosa sente. […] Per un attimo si sente straniera in casa propria. E le giungono afrori di spezie lontane. Ma poi le si conficca nelle narici l’acutezza dei fiori di garofano e avverte qualcosa di familiare. E lei sorride, ripensando alla pozione che un tempo i suoi vicini salernitani preparavano per risvegliare gli appetiti, ma quelli sessuali: zenzero e chiodi di garofano, cannella, pan grattato e acqua di rose. Poi annusa l’inconfondibile aroma della paprika, dolce e stuzzicante, denso da essere carnoso.
E finalmente le spezie del suo passato e del suo presente si combinano in un unico odore, che è quello dello Zighinì. È quello che stanno cucinando, adesso lo sa. In questa domenica mattina rivede l’arrivo silenzioso dei suoi primi etiopi, eritrei, la investono odori antichi e recenti e una triste tenerezza. È domenica mattina: l’odore dello Zighinì si sostituisce a quello del Ragù, lo precede, si confonde con esso. È domenica, è ora di pranzo e lei affonda le mani in quello spezzatino piccante e se lo infila in bocca insieme alla collosità straordinariamente anonima dell’injera”.
Per assaporare ancor di più la cucina partenopea, il libro è accompagnato da una breve guida alla lettura con le ricette