L'Architetto

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Franco Nasi

L’ARCHITETTO

Riedizione © Copyright 2015 LISt Lab Editore Prima edizione © Copyright 1964 Vallecchi Editore

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PREFAZIONE Il destino dell’architetto

L’architettura in Italia è un mestiere più complicato e difficile che altrove, eppure molti, forse troppi, vogliono praticarlo. Se essere architetto in Italia fosse difficile solo perché ci misuriamo con il più importante giacimento di arte e paesaggio del mondo non sarebbe un problema, semmai una grande responsabilità, la difficoltà deriva, invece, dal progressivo e inarrestabile declino del progetto, inteso nella sua accezione più autentica, ovvero la capacità di proiettare il futuro. Questo deficit culturale, paradossale proprio in Italia, è la vera ragione della difficoltà del mestiere dell’architetto, acuita dalla crisi che ha fatto della nostra comunità un vero e proprio proletariato intellettuale, ai limiti della soglia di povertà. Il lamento sul mancato riconoscimento del ruolo dell’architetto o della competizione con altre professioni tecniche non bastano a giustificare la profonda crisi, anzi spesso deviano l’attenzione dal punto fondamentale: l’eutanasia del progetto. L’iper-legislazione, la prescrizione regolamentare e i deliri burocratici cosa sono se non avere sostituito il progetto dello spazio con la sterile produzione di carte che dimostrino che non hai progettato nulla, se non applicato pedissequamente quanto già prescritto? L’urbanistica eterna, che trova soluzione dopo anni o decenni cos’è, se non evitare che il progetto abbia alcun effetto sulla città? E i lavori pubblici senza concorsi, dove il progetto è fatto a fettine e l’esecutivo a cura dell’impresa? Questo è lo stato del progetto in Italia e non è il risultato di un complotto pluto-giudaico-massonico, ma di un decadimento culturale e un’assuefazione al dilettantismo e all’irresponsabilità, di cui tutta la comunità nazionale è colpevole, ognuno per la sua parte. Noi compresi. Il danno peggiore, purtroppo, è alla qualità dell’habitat e del paesaggio, ovvero alla vita quotidiana dei cittadini e relativa stima della capacità dell’architettura di risolvere i loro problemi. Da questo stato di fatto ripartiamo e, per non cadere nel medesimi errori, 2


lo facciamo con un progetto. Cosa possa e debba fare l’architetto in Italia nei prossimi decenni è assolutamente chiaro. Deve concepire la rigenerazione delle città, dei suoi quartieri e spazi pubblici, declinandone il riuso con un approccio non ideologico, occupandosi di cose molto pratiche come la qualità dell’aria e le isole di calore, del rischio idrogeologico e della liquidità delle funzioni, del ciclo dei rifiuti e delle aree dismesse. Scendendo dal trono del demiurgo, illuso di poter ordinare con un solo segno processi urbani e sociali. Deve progettare la rigenerazione di 8 milioni di edifici costruiti dal 1945 agli anni ’80, avviati a fine vita, colabrodi energetici che costano venticinque miliardi all’anno di troppo agli inquilini, che crollano al primo segno di terremoto ed hanno una qualità abitativa e architettonica mediocre o infima. Mantenendoli, riusandoli, sostituendoli. Facendoli migliori. Deve declinare una nuova tutela dei beni monumentali e dei paesaggi, capace di tenere assieme restauro e innovazione, per ridare vita ai centri storici e seimila borghi abbandonati, i quali, senza chi li abita sono destinati ad una morte imbalsamata dai vincoli. Deve dare il suo contributo ideativo e tecnico per architetture pubbliche utili e prioritarie, fuori dalla logica dell’esibizione, per arricchire la vita delle comunità di spazi e luoghi utili e sereni. Le premesse politiche e normative per fare ciò si stanno lentamente consolidando, con un’azione testarda della comunità degli architetti che sta dando i suoi frutti: dal nuovo codice degli appalti al regolamento edilizio nazionale, dalle politiche del riuso a quelle sulla rigenerazione energetica, dalla nuova legge urbanistica alla semplificazione normativa per tornare a fare sì che il cliente cerchi un architetto bravo a disegnare non ad ottenere il permesso in Comune. Attorno a ciò si può costruire il futuro prossimo del mestiere, di un architetto più disponibile ad ascoltare i bisogni di chi abita e più preparato a risolvere problemi complessi e nuovi, un mestiere uguale ma differente per il quale tutte le istituzioni dalla Scuola agli Ordini, devono adeguare le proprie strutture e pratiche a questo nuovo destino. Leopoldo Freyrie, Architetto, Presidente del Consiglio Nazionale Architetti Paesaggisti Pianificatori Conservatori 3


IL COMPLESSO DELLA PRIMA DONNA L’architetto è un uomo che lavora continuamente per sapere che cosa deve fare. Nel nostro tempo questa non è caratteristica esclusiva dell’architetto tutti gli intellettuali sentono l’angoscia del contrasto fra ideale e realtà; resistono (o si arrendono) a quello che Elémire Zolla chiama «il processo di mercificazione della vita», per cui l’esistenza è soltanto un fatto di produzione e di consumo; si dibattono fra il rispetto della verità, che minaccia di isolarli, in una coerenza sterilmente formale, e l’aderenza al concreto, che impone loro di schierarsi al servizio del potere economico. Sono, cioè, sempre occupati a tentare di chiarire la loro funzione. Ma, per il fatto stesso che l ’architettura è quella fra le arti che più si propone fini pratici, gli architetti sono coloro che più sentono questi contrasti, e più li drammatizzano. Costruire è mettere una sopra l’altra le pietre nella caverna dell’uomo primitivo; è levare al cielo la cupola di San Pietro; è ordinare le città nel loro sviluppo; è dare (o tentar di dare) una logica al mondo. Fino a pochi anni or sono, la casa comunemente intesa, cioè «quel fabbricato di tipo urbano a più piani, dove hanno abitazione parecchie famiglie», era organizzata socialmente in senso verticale: nei primi piani (ricordate il «piano nobile»?) erano gli appartamenti per i signori; a mezza via gli alloggi per il ceto medio; lassù, nelle soffitte, o laggiù, nei «bassi», le stanze per i poveri. Oggi l’organizzazione è orizzontale: la casa è fatta per un solo strato sociale, e la differenza si pone per complessi, per quartieri, per «isole». Non diremo che sia meglio, né questa è la sede per un giudizio. Ma l’esempio pare sufficiente per capire quanta parte di noi, della vita nostra e dei nostri figli sia nelle mani degli architetti. Mani non libere. Secondo le interpretazioni più pessimistiche della nostra società, nessuno è libero, se non di morire di fame. Vorremmo dire che gli architetti non sono liberi nemmeno di morire di fame. Un pittore che vuole sottrarsi alle imposizioni della moda, a una 4


produzione dettata dai commercianti di quadri secondo i risultati delle indagini di mercato, rischia di essere escluso dal giro, di non vendere nulla; ma può continuare a dipingere. Un avvocato che sente la gioia di difendere una causa impopolare perderà magari la clientela più ricca, ma potrà sempre indossare la toga per il gratuito patrocinio. Un medico cui ripugni che il beneficio della medicina sia distribuito in maniera direttamente proporzionale al reddito del malato può mettere la sua scienza a disposizione della più desolata tribù africana: sarà privo di mezzi, ma farà sempre il medico. L’architetto se non costruisce non è architetto. E costruire non dipende da lui. Dipende da chi fornisce i capitali e da chi fornisce l’opera. Dice Hannes Meyer (l ’architetto che sostituì Walter Gropius nella direzione del famoso Bau haus): «L’architettura è un’arma. In tutte le epoche è stata adoperata al servizio della classe dominante». Questo è evidentemente un giudizio molto politico, ma il dato di fatto resta: l ’architettura è lo specchio della vita e dei rapporti sociali di un’epoca; l’architetto è il mediatore. In teoria, è facile ed è suggestivo attribuire a quest’opera di mediazione slanci missionari: «Gettare un ponte sullo sciagurato abisso tra ideale e realtà. Fu allora che la mia mente intravide l’immensità della missione dell’architetto della mia generazione», esclamò un giorno il Gropius. In pratica, la professione (intesa nella sua dimensione quotidiana, cinquemila tavoli da disegno sui quali cinquemila architetti fabbricano il loro mestiere) esige una continua opera di adattamento dell’ideale, premuto in ogni lato dalla realtà, richiede la diuturna fatica del compromesso. È la strada del male minore, dell’agire per il meglio, la strada che passa sotto le ben note forche del «se non lo faccio io, lo fa un altro peggio di me». Per giustificare, sorreggere, spiegare questo più o meno moderato pragmatismo, si spingono agli estremi limiti le ricerche formali, le indagini culturali, le implicazioni filosofiche. È stato notato (e non è osservazione 5


che richieda particolare acutezza) che oggi l’architetto, più che progettare, discute; più che costruire, scrive. Discute e scrive con quel caratteristico linguaggio a chiave, nel quale sembra cercare non tanto una forma di comunicazione, ma la corazza per proteggere le proprie idee, e i propri errori, contro ogni contaminazione profana. Da questa condizione - comune agli intellettuali, ma tipica degli architetti - deriva, attraverso il processo di semplificazione caratteristico del nostro tempo di frettolosi rapporti umani, quella che è «l’opinione degli altri» sugli architetti. Per l’opinione corrente, l’architetto è un uomo di mezza età, più giovane che vecchio e comunque giovanile, che divide con l’intellettuale generico l’uso degli occhiali dalla grossa montatura nera, la presunzione, i capelli tagliati corti o lasciati lunghi sulla nuca, molte simpatie per l’anarchismo non disgiunte da contenute manifestazioni di gradimento per le principali comodità borghesi. Ma si discosta dallo «snob» per qualche particolarità: l’uso più frequente della farfallina al posto della cravatta lunga, il brillio e la vivacità delle immagini nel discorso, l’abitudine di masticare il cannolo della pipa spenta, l’abilità nel sostenere contemporaneamente con eguale squisitezza di argomenti due tesi opposte. Depositario del gusto, che sovente distilla con lo strofinare il pollice e l ’indice della mano destra, accompagnando il gesto con espressioni assai meditate, come «Una cosa veramente chic», oppure: «Così funziona tutto» (in questo caso, la mano acquisterà un lieve movimento rotatorio), è considerato il più adatto a tener alto il tono dei salotti, come quelle polveri che si mettono nell’acqua, per renderla frizzante. Ma guai a prenderlo sul serio «Hin pien de stori - ci ha detto perentoriamente un vecchio commendatore milanese. - E fan spéndon mucc de danée. El vor met on bel ingegner?», «Sono pieni di fisime, e fanno spendere una montagna di soldi. Vuol forse confrontarli con un buon ingegnere?»: non è soltanto l’opinione dei commendatori. Ce lo conferma Walter Gropius: «Il cliente privato medio sembra considerarci rappresentanti di una professione voluttuaria, cui si ricorre soltanto se si dispone di alquanto denaro extra da impiegare in abbellimenti. Non sembra che egli ci consideri essenziali allo sviluppo edilizio quanto il costruttore e l’ingegnere». 6


Insomma, tutti mostrano di giudicare l’architetto un oggetto di lusso, che si tiene sul mobile più bello della società, perché le dia un tono sol con la sua presenza. Un uomo d’estro, quando si occupa di disegno industriale o di arredamento; un artista, quando si occupa di architettura; un filosofo, magari, quando si occupa di urbanistica; ma lontano sempre dalla realtà, immerso nell’astrazione. Quanto questa «idea d’architetto» corrisponde alla sua effettiva figura? Ed è mai possibile estrarre da questa varia umanità una figura-tipo? «Noi abbiamo il complesso della prima-donna - ci diceva sorridendo un architetto.- La cosa che ci preme di più è essere diversi dai nostri colleghi». arte e carta bollata Se si fa una questione generale, una questione, appunto, d’arte, è chiaro che siamo tutti architetti (potenzialmente), come tutti siamo poeti o pittori (potenzialmente). Parlando al primo convegno nazionale degli studenti d’architettura nel 1955, a Roma, il professor Carlo Ludovico Ragghianti espresse la sua perplessità per aver udito da persona autorevole questo giudizio: «La facoltà di architettura è o deve essere una scuola dove con metodo critico si formano degli architetti artisti», e commentò: «Nessuno si aspetta che la facoltà di lettere produca poeti. L’artista non è prodotto di scuola, di educazione, di proposito». Nel 1956, il premio Olivetti per l’architettura fu assegnato al professor Carlo Scarpa, veneziano. L’Ordine interprovinciale di Venezia protestò, perché Scarpa non è architetto e non può esercitare la libera professione,non essendo iscritto all’albo. Il professor Ernesto Rogers, direttore di Casabella-Continuità, oppose: «Non si deve giudicare l’arte con la carta bollata». L’architetto Luigi Zuccoli replicò: « Lodevolissimi gli autodidatti, ma facciamo attenzione, perché seguendo il filo del tuo ragionamento si arriva a sciogliere gli Ordini professionali. Gli uomini non hanno le alucce rosa o azzurre...». Ragionevolmente, Rogers concluse: «Logico che non si può costruire un sillogismo: poiché Carlo Scarpa è architetto senza avere titoli di studio, ergo chi non ha titoli di studio è architetto». 7


Alla periferia di Milano, verso San Donato, c’è un grattacielo: quattro esagoni di ferro, in alluminio e vetro. L’hanno progettato Oliveri, architetto siciliano, e Marcello Nizzoli. Nizzoli è un uomo chiuso, schivo, che fatica a parlare di sé. Emiliano, cominciò come pittore. Poi si è occupato di pubblicità e di industrial design: una delle macchine per scrivere disegnate da lui è esposta a l Museum of Modern Art di New York. Oggi è arrivato all’architettura. La sua vita è esemplare, per chi voglia conoscere le esperienze, gli interessi, le vocazioni di un architetto moderno. E non è «architetto». Tutti, appena vogliamo affacciarci al mondo dell’architettura, incontriamo un nome: Edoardo Persico. Nacque a Napoli nel febbraio del 1900. Era biondo e inquieto. A diciannove anni, aveva finito gli studi di legge, ma non discusse la sua tesi sul diritto di sciopero: andò a Parigi a fare il giornalista; nel 1924 a Mosca, segretario dell’ambasciatore italiano; nel 1925 a Torino, per scrivere in una soffitta un romanzo, “il porto lontano”, che Piero Gobetti voleva pubblicare, e lui, insoddisfatto, bruciò. Gli amici dovevano silenziosamente aiutarlo (e ben sa la madre dello scrittore e il regista Mario Soldati). Trovò un posto come manovale alla Fiat, nei mesi in cui stava sorgendo lo stabilimento del Lingotto. Erano i tempi delle prime costruzioni «razionali»: Trucco-Matté, Sartoris, Levi-Montalcini, Pagano, Terragni, Sottsass. E ne fu conquistato. Le sue opere furono tutte effimere (la sala delle Medaglie d’Oro alla Mostra dell’Aeronautica del 1934, il Salone d’onore della sesta Triennale, qualche negozio); ma la sua presenza nell’architettura, fino all’improvvisa morte, nel 1936, fu viva, stimolante, e decisiva. Anche lui, non era un «architetto». Converrà allora capovolgere la prospettiva: da una questione generale, d’arte, passare a una questione particolare, tecnica. E dire: l’architetto è quel professionista che la legge autorizza a costruire edifici. Sennonché, la legge autorizza a costruire edifici anche gli ingegneri e, entro certi limiti, i geometri. Quanto abbiamo di più perfetto in materia di suddivisione delle varie categorie professionali (le norme dell’Istituto centrale di statistica per la compilazione dei censimenti) colloca gli architetti non già fra gli scultori e pittori (che sono nella classe: «professioni inerenti l’esercizio di at8


tività letterarie, pubblicistiche e artistiche», insieme con le soubrettes, i giornalisti, i disegnatori di arredamento, gli scenografi, i poeti e i domatori di leoni), ma nella classe: «professioni amministrative, tecniche ed operative», dove si trovano stretti compagni dei veterinari, degli agronomi, dei chimici, degli ingegneri, dei geologi. Quando si scende a successive selezioni, però, non riusciamo a trovare gli architetti da soli, professione conchiusa. Li troviamo (gruppo 8.08) sempre insieme con gli ingegneri edili. Anche da questa parte - strettamente tecnica - non v’è possibilità, dunque, di una definizione precisa, specifica. Esclusiva. Ma allora, chi è l’architetto? Converrà risalire un poco nel tempo. E cominciare, come nelle favole, con: «C’era una volta...».

A TU PER TU CON GLI INGEGNERI Una volta, c’era «l’architetto facciatista». Un uomo, che da ragazzo aveva rivelato le sue vocazioni artistiche infittendo di disegni i margini dell’odiato libro di matematica, e dai genitori solerti era stato avviato alle «Belle Arti», con la speranza che fosse un genio. Sarebbe diventato allora l’Architetto con la A maiuscola, destinato a occuparsi dell’Architettura con la A maiuscola: i grandi edifici monumentali, con i grandi scaloni, i grandi colonnati, le grandi sale. Come la maggior parte dei suoi colleghi, invece, non essendo un genio, si riduceva a fare «il facciatista»: a essere, secondo una felice espressione di Ferdinando Reggiori, presidente del Consiglio nazionale degli architetti, «il sarto che rivestiva l’organismo ideato dall’ingegnere». È molto facile capire come si produsse questo fenomeno. Noi oggi guardiamo volare «Sputnik», «Esplorer» e «Lunik»: ci entusiasmano e ne ricaviamo anche la sensazione che qualcosa cambierà, del nostro vivere, che un giorno i rapporti umani muteranno, muteranno certi valori tradizionali. Ma l’esistenza procede sostanzialmente uniforme: il domani è sempre 9


uguale all’oggi, soltanto che fra tre mesi, o tre anni, o trenta, una serie di lunghi giorni uguali ci avranno portato in un mondo tutto diverso. Sono i posteri, siamo noi, che oggi possiamo segnare la data di nascita della «rivoluzione industriale», possiamo elencare, come fa Bruno Zevi nella sua Storia dell’architettura moderna, l’anno del primo ponte in ferro, della prima latrina moderna, del primo ascensore, l’anno del cemento armato o della produzione massiccia dell’acciaio. Immersi nel loro presente, gli architetti (che credevano di farsi scudo delle definizioni del Vasari e del Baldinucci: «bellissime arti», «le belle arti ove s’adopra il disegno») segnarono il passo nell’Ottocento. E avanzarono, armati della tecnica, gli ingegneri. «I creatori della nuova architettura sono gli ingegneri» proclamò Henry van de Velde nel 1889, pochi anni dopo che John Ruskin aveva detto: «Nessun uomo può essere un architetto, se non sia un metafisico». Non che fosse nata una figura professionale nuova: era l’ingegnere che assumeva il titolo e le funzioni dell’architetto. In Italia questo sdoppiamento si espresse nella scuola: da una parte i Politecnici, alla cui affermazione sono legati i nomi del Cremona, del Brioschi, del Colombo; dall’altra gli istituti di Belle Arti. Questi producevano gli «artisti architettonici della forma», quelli ottimi tecnici, non sempre artisticamente preparati. Di qui la formazione - nella pratica professionale quotidiana - del tandem: ingegnere che fa l’edificio, architetto che disegna la facciata (con tutte le eccezioni individuali del caso, naturalmente). Daniele Donghi, nel Manuale dell’architetto (1905) affermava: «Le scoperte di nuovi materiali, quelle nel campo dell’elettricità, le nuove applicazioni della luce e del calore, lo sviluppo dell’igiene pubblica e privata, i nuovi metodi di cura e di ricovero, l’imperioso dovere di soccorrere la miseria, l’obbligo dell’istruzione, lo sviluppo dei commerci hanno man mano ampliato la lista delle condizioni a cui deve soddisfare un’opera architettonica, tanto che si comprende facilmente come l ’ideatore e il costruttore di essa debba possedere un voluminoso bagaglio di cognizioni. Perciò non possono chiamarsi architetti coloro che sono lanciati nel mondo da certi nostri istituti, creatori d’illusioni».

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questo ucciderà quello Il momento era particolarmente drammatico per la professione. Si stava forse realizzando nella pratica quotidiana quello che in più vasto orizzonte aveva previsto don Claudio arcidiacono: «Ceci tuerà cela», la stampa ucciderà l’architettura? È un capitolo di Notre Dame, di Victor Hugo, il capitolo che tanto Impressionò Wright giovinotto. «Dall ’origine delle cose fino a tutto il secolo decimo quarto dell’era cristiana - dice l’arcidiacono - l’architettura è il gran libro dell’umanità, l ’espressione principale dell’ uomo nei suoi diversi stati di sviluppo, sia come forza, sia come intelligenza... Fino a Gutenberg, l’architettura è la scrittura principale, la scrittura universale. Nel secolo decimo quinto tutto cambia. Il libro sta per uccidere l’edificio. Sotto la forma di stampa il pensiero è più imperituro che mai, è volatile, imprendibile, indistruttibile. Al tempo dell’architettura, esso si faceva montagna, e si impadroniva di un secolo e di un luogo; ora si trasforma in uno stormo di augelli, si sparpaglia ai quattro venti e occupa ad un tempo tutti i punti dell’ aria e della terra... Ridotta a se medesima, l’architettura chiama manovali in mancanza di artisti. Il vetro prende luogo dell’invetriata, allo scultore succede lo scalpellino». Suggestione letteraria, indubbiamente, che denuncia in quella di Gutenberg la prima macchina posta sul cammino dell’arte. Ma in termini concreti ripropose il problema, nel 1911, al Congresso internazionale di architettura di Roma, la relazione dell’architetto Baroncini: «Vogliamo netta la distinzione fra ingegneri e architetti. Siamo convinti che il pubblico debba stabilire fin dalle origini didattiche una precisa distinzione fra il professionista atto a segnare le strade e i ponti, contare i gelsi, fare le ferrovie, tracciare le fogne, studiare i motori, e l’altro che dovrà mantenere nelle costruzioni la fisionomia dell’arte italiana...». E il francese Louis Bonnet aveva segnalato l’altra faccia della medaglia: «È nata una folla di falsi architetti i quali hanno convinto il pubblico che gli architetti-artisti non curano i particolari della costruzione e non fanno gli interessi dei clienti». Il congresso si concluse approvando un ordine del giorno di Albert Louvet: 11


«Il diritto di portare il titolo di architetto sia riservato a chi l’abbia ottenuto in seguito ad esame regolare sostenuto presso un istituto artistico, tecnico e scientifico. Che il titolo sia posto al medesimo livello di quello di dottore in lettere, in scienze, in medicina. Che le scuole d’architettura possano essere diverse in ciascun Paese pur dentro le medesime regole generali. Che si possa entrare in una scuola d’architettura soltanto dopo avere ottenuto nelle scuole precedenti la stessa cultura generale richiesta per le altre professioni liberali». Più liricamente, Gustavo Giovannoni, che al problema della formazione degli architetti dedicò gran parte delle sue energie, parlò di «cinque valigie». Inaugurando il centotrentottesimo anno dell’Accademia di scienze, lettere e arti di Palermo, nel 1956, il professor Salvatore Caronia Roberti le ha ricordate ad una ad una: «Il bagaglio occorrente all’architetto moderno deve risultare di cinque valigie: la prima è una cultura vasta e varia non inferiore a quella di alcun altro professionista; la seconda è una preparazione artistica completa, iniziata fin dall’adolescenza, che gli renda congeniali le altre arti; la terza è una preparazione scientifica e tecnica che nel campo delle costruzioni civili non sia inferiore a quella dell’ingegnere; la quarta è la conoscenza della storia dell’ arte e quella approfondita della storia dell’architettura; la quinta è pratica, fatta di esperienza, per affrontare i problemi correnti dei cantieri, dell’amministrazione, dei riflessi economici delle costruzioni». Dopo tanti anni di premesse, arrivò finalmente il tempo delle decisioni. Fu il 9 febbraio 1923 che si alzò alla Camera l ’onorevole Emanuele Finocchiaro Aprile (ingegnere). «Dal 1866 a oggi - disse – incessantemente ingegneri e architetti hanno reclamato che la professione sia regolata da norme giuridiche. Dapprima si ebbe l’opposizione degli architetti, i quali temevano che le norme regolatrici della professione di ingegnere potessero comunque essere lesive delle ragioni di indipendenza e di libertà dell’arte. Era quella una preoccupazione ingiustificata, perché nessuna classe di professionisti, per cultura e per comunanza di lavoro, è meglio preparata della classe degli ingegneri ad essere la naturale sostenitrice dei giusti diritti degli architetti. Anzi, si deve riconoscere che fu in parte dovuto 12




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