Socrate ha perso? | Riflessioni sul ruolo degli intellettuali
Voci che gridano nel deserto di Andrea Kerbarker
C
aro Lupo, ho letto con il consueto interesse le tue considerazioni sulle idee nell’epoca postideologica che stiamo attraversando, e per una volta non sono troppo d’accordo. Non mi pare infatti che oggi in Italia le idee degli intellettuali latitino in maniera particolare. Anzi, mi sembra che le molte tribune più o meno improvvisate offerte dalla rete permettano oggi anche agli intellettuali di esprimersi su tutto con grande frequenza. Per cui delle opinioni degli intellettuali è pieno il Paese, incluse le prime pagine dei giornali. E se così non fosse, in fondo avrebbe ragione Silvano Petrosino: è una questione che potrebbe interessare gli stessi intellettuali, ma il resto del mondo lo archivierebbe volentieri nella indimenticata rubrica “E chi se ne frega” lanciata dall’intellettualissimo settimanale Cuore. Il problema, piuttosto, è che di queste idee in Italia non importa nulla a nessuno. Gli intellettuali italiani parlano, si riuniscono, dibattono, e non c’è persona che ascolti. Sono, insomma, voces clamantis in deserto, molto più di un tempo. Perché quando noi eravamo ragazzi, ce le ricordiamo bene le reazioni alle parole degli intellettuali: se Sciascia diceva dei “Professionisti dell’antimafia” o Pasolini si inventava il concetto di “Palazzo” tutti sentivano il bisogno di intervenire, partecipare, esserci. Oggi, niente. Un silenzio che di per sé è già un giudizio: di indifferenza. Su questo atteggiamento di solito vengono espresse due spiegazioni. Da un lato si dice che è un fenomeno internazionale, e non riguarda solo noi. Mica tanto. Se all’estero parla un Peter Handke (che, nell’esprimere idee aberranti, rivendica proprio un ruolo intellettuale e artistico: di scrittore, non giornalista, e la differenza conta), un McEwan o un Houellebecq, le idee suscitano subito grande dibattito e senso di partecipazione. Da noi, come detto, no. In questo, credo, la contemporanea diminuzione delle ideologie e dell’audience ha contato moltissimo: perché soprattutto in Italia gli intellettuali spesso si sono spesi al servizio delle diverse ideologie – oggi che le idee vengono formate sulle sensazioni e non sulla profondità l’intellettuale interessa poco, per non dire nulla. La seconda spiegazione ha a che fare con il clima più generale. C’è in giro un’avversione alle élites che non può non comprendere gli intellettuali: d’altronde, nell’opinione pubblica che ragiona in termini di “Uno vale uno” non si capisce bene che valore possano avere gli studi, o la cultura in generale (almeno non c’è nessuno che quando sente la parola carica la pistola – ma temo che sia perché in fondo non ne vale la pena, per qualcosa che così pochi ascoltano). E questo è un problema più serio, che non riguarda solo chi studia, ma la classe dirigente in generale. Con almeno due certezze: che solo un Paese che riscopra il significato di una leadership vera e carismatica può ritrovare lo slancio perduto da tempo; e che in questo scenario gli intellettuali hanno un ruolo centrale, non fosse altro perché tutte le statistiche ci dicono
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