Socrate ha perso? | Riflessioni sul ruolo degli intellettuali
Vincere la tentazione di salire in cattedra di Gabrio Forti
L
a parola ‘intellettuale’ (prima ancora di chi impersoni la categoria) non gode di buona fama (e di buona stampa). E ciò ben prima dell’odierna “era dell’incompetenza”, per dirla con Tom Nichols. Le ragioni sono molte e note. Tra esse, non v’è dubbio, gli esempi di “cortigianeria” che la storia, antica e recente, ci ha restituito a profusione: la soggezione al Potere, certo, e all’ambigua fascinazione esercitata su certi ‘intellettuali’ di rango dalla forza e dalla violenza di Stato, ma anche a ben precise militanze ideologiche. Non ha aiutato, poi, la pervicace incapacità di scendere dal piedistallo e comunicare, se non con la proverbiale casalinga di Voghera, con un pubblico appena più ampio di quello dei salotti bene o dei convegni accademici. Forse però, più che della condizione degli intellettuali, sarebbe meglio preoccuparsi, come faceva il Manzoni nella Storia della colonna infame, dell’«effetto» e dell’«intento del lavoro intellettuale», specie nelle materie «più importanti e necessarie all’umanità», tra le quali lo scrittore annoverava le questioni di giustizia. Proprio per tale preoccupazione il premio Nobel Paul Krugman, «dopo l’anno così sconfortante» che aveva visto l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, raccomandava agli accademici di professione di vincere la tentazione di «prendersela comoda e non fare la fatica di tradurre astrazioni in cose più concrete, che la gente possa comprendere»: «la cosa peggiore di tutte è quando si sale in cattedra, quando si sostiene qualcosa facendo leva sulla propria autorevolezza». Sottolineava, in particolare, l’importanza di «individualizzare, focalizzare l’attenzione sulle storie di singole persone», perché questo «è il modo in cui si relaziona la maggior parte delle persone. Bisogna andare sul personale, ed è una cosa che anche gli intellettuali pubblici devono trovare il modo di fare». Ciò anche perché «le persone hanno poco tempo e un intervallo di attenzione limitato e si distraggono facilmente se partite per la tangente»: «dobbiamo impegnarci a dire la verità e nient’altro che la verità, ma non necessariamente tutta la verità. A volte è una distrazione». Il problema del «poco tempo», della «distrazione», resta il terreno su cui oggi, a parere di chi scrive, il lavoro intellettuale è chiamato a ingaggiare la battaglia della vita (per sé e per tutti noi), il cui esito dipenderà dalla sua capacità di esercitare con l’esempio quella che Nietzsche, nel Crepuscolo degli idoli, ha chiamato la «propedeutica prima alla spiritualità»: il «non reagire subito a uno stimolo, ma padroneggiare gli istinti che inibiscono e precludono», l’«imparare a vedere, abituare l’occhio alla pacatezza, alla pazienza, al lasciar venire-a-sé le cose; rimandare il giudizio, imparare a circoscrivere e abbracciare il caso particolare da tutti i lati». L’autonomia dal flusso turbinoso dei tweet e dei click, dei like, l’esercizio assiduo di pacatezza e pazienza, è la sfida di oggi; soprattutto per le università, chiamate
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