Le voci dell’Università Cattolica
I filosofi e l’ingiusta accusa di diserzione di Ingrid Basso
S
e è vero che la filosofia “lascia tutto com’è”, secondo la celebre affermazione di Wittgenstein, se è vero che non è nella sua natura il mutare o addirittura il poter mutare gli stati d’essere, ma soltanto descriverli, o descrivere il linguaggio stesso che li esplicita, allora l’accusa di diserzione nei confronti dell’impegno politico ai danni dei filosofi – gli “intellettuali” per antonomasia – non avrebbe ragion d’essere. Questo per ragioni strutturali intrinseche alla natura stessa del filosofare in primis, e poi per ragioni etiche, nella misura in cui a chi spetta di leggere la realtà non dovrebbe competere di intervenirvi, pena una sorta di “conflitto d’interessi”. La seconda ragione è quella che sembra fondare la cosiddetta trahison des clercs di Jules Benda. Non a caso, tra i modelli di intellettuale propugnati da Benda troviamo Kant, secondo il quale «non c’è da attendersi che i re filosofeggino o che i filosofi diventino re, e neppure è da desiderarlo, perché il possesso della forza corrompe il libero giudizio della ragione». D’altronde già Plutarco, nel raccontare la vita di Pericle, commentava che la vita di un filosofo dedito alla speculazione e di un uomo politico non sono la stessa cosa: «Il filosofo muove la sua mente verso nobili fini, senza bisogno, per far ciò, di strumenti e materiali esterni; invece l’uomo politico deve mettere le proprie virtù a contatto con le basse esigenze dell’uomo comune». E se ci si chiede, in tutto ciò, che ne sia stato della radicale proposta platonica che vedeva coincidenti la figura del sovrano reggitore della polis e quella del filosofo, si può rispondere che quello platonico era uno stato ideale, giammai reale. Abbiamo dunque due piani, quello del pensiero e quello della prassi, quello della cultura e quello della politica, e se ci ritroviamo a porre l’interrogativo del loro rapporto è soltanto perché la condizione nella quale viviamo non ci soddisfa. Ecco allora il perché, dinanzi alle situazioni di crisi, dell’accusa agli intellettuali di volta in volta di silenzio o di sterile lamentosità, di opportunismo o di diserzione, se non di disagio, disorientamento o di decadenza. Tali accuse si fonderebbero però, notava Bobbio – che sulla relazione tra intellettuali e potere fu interpellato in occasioni innumerevoli – sull’equivoco di un’ingiustificata antinomia tra le posizioni estreme e unilaterali della politica intesa come pura potenza (posizione incarnata da Machiavelli), da cui la scissione netta tra politica e cultura, e quella della politica come pura eticità (posizione resa emblematica da Hegel), in cui politica e cultura coincidono. Due posizioni in cui il rapporto mezzi-fini è distorto: nel primo caso il mezzo – la politica – è elevato a fine in se stesso, nel secondo caso è invece scambiato con il fine. Con la consueta pacatezza, è Aristotele che può aiutarci a dirimere la questione, spiegando che la politica ha un valore solo strumentale, è una tecnica che consente
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