Socrate ha perso? Riflessioni sul ruolo degli intellettuali - inserto del Magazine Presenza 1-2-3 20

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Socrate ha perso? | Riflessioni sul ruolo degli intellettuali

No, il dibattito sugli intellettuali no di Silvano Petrosino

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l più delle volte sono gli intellettuali a interrogarsi sul “ruolo degli intellettuali “; agli altri, a dire il vero, non gliene importa granché. E in effetti un simile interesse – quello degli intellettuali per il “ruolo degli intellettuali” – ha, in un certo senso, uno strano “sapore”, visto che l’intellettuale – ammesso e non concesso ch’esso esista – non fa l’intellettuale, non svolge il lavoro di intellettuale, ma è un professore di questa o di quest’altra materia, insegna in questa o quest’altra università e/o istituzione culturale, scrive su questa o quest’altra rivista, e se è un intellettuale lo è sempre e solo in e attraverso quell’insegnamento o quella pratica di scrittura. Nessuno può definirsi intellettuale e nessuno fa il lavoro dell’intellettuale, e per fortuna, visto che non a caso il termine assume spesso il significato di “astratto”, “fumoso”, “inutile”. In quel magnifico testo che è Lezione (Einaudi 1981) Roland Barthes scrive: «L’“innocenza” moderna parla del potere come se esso fosse uno solo e indivisibile (...) E se invece il potere, come i demoni, fosse plurimo? Esso potrebbe allora dire: “Il mio nome è Legione”; ovunque, in ogni dove, vi sono capi, centri di potere, siano questi imponenti o minuscoli, gruppi di oppressione o di pressione; ovunque si odono voci “autorizzate”, che si autorizzano a farsi portavoce del discorso di ogni potere: il discorso dell’arroganza (...) Certuni si aspettano che noi intellettuali ci si mobiliti a ogni occasione contro il Potere; ma la nostra vera battaglia è altrove; essa si svolge contro i poteri, e non si tratta di una battaglia facile». Non si sarebbe potuto dire meglio; ecco un testo, tra molti altri, che attende solo di essere letto, riletto e magari anche meditato. In effetti l’intellettuale, se e quando è tale, non contribuisce alla vita culturale di un Paese quando va in televisione o quanto marcia alla testa di un corteo o quando firma un manifesto in difesa di questa o quest’altra minoranza, ma quando lotta contro la “microfisica del potere” in quei luoghi feriali costituiti da un’aula universitaria (lezione) o da una sala in un centro culturale alla periferia di una città (conferenza). È nel modo di parlare, di insegnare e scrivere, ogni giorno e non solo alla domenica, in “ogni dove” e soprattutto al di fuori di ogni visibilità mediatica, che un intellettuale lotta contro il “discorso dell’arroganza” e gli infiniti capi e capetti che affollano le nostre giornate, dimostrandosi proprio per questa ragione, quasi sempre suo malgrado e in verità senza minimamente volerlo, un autentico intellettuale. C’è della grossolanità nel concepirsi un “intellettuale” e nel rivendicare con insistenza il valore del proprio contributo che si è pronti, fin troppo pronti, ad offrire; un vero intellettuale non attende il consenso dei media e non cerca il riconoscimento del “grande pubblico” per dimostrarsi ed essere tale, anche perché egli non sente

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