Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile.

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David Bellatalla

Eugenio Ghersi Sull’Altipiano dell’Io Sottile Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933 A cura di Leana Moretti e Giuseppe Bosio


Prefazione Oscar Nalesini Copertina Giuseppe Tucci ed Eugenio Ghersi in visita al villaggio di Shipki [per gentile concessione dell’Archivio Ghersi] Curatori del volume Leana Moretti e Giuseppe Bosio Retro di copertina Carovana sul Kazam-la, 4500 metri [per gentile concessione dell’Archivio Ghersi] Progetto grafico Massimo Ippolito Stampa Litografica Editrice Saturnia S.n.c. Edizioni Montura Editing – Tasci S.r.l.

Copyright © Montura Editing 2016 Tasci S.r.l. – Via Zotti n. 29 – 38068 Rovereto (TN) Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo senza l'autorizzazione scritta dell'editore. All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system or trasmitted in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying or otherwise without the permission of the copyright holder.

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David Bellatalla

Eugenio Ghersi Sull’Altipiano dell’Io Sottile Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933



A Maria Cristina Bellatalla, una stella che continua a guidarci.



Ringraziamenti Un sincero ringraziamento va a tutti coloro che, in momenti diversi e in vari modi, hanno prestato il loro aiuto e la loro assistenza nella realizzazione di questo lavoro. In primo luogo ringrazio Oscar Nalesini per la sincera amicizia, la professionalità ed i preziosi suggerimenti per il raggiungimento della stesura finale del testo, e naturalmente un ringraziamento speciale all’I.s.I.A.O. (Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente) nella persona dell’Ambasciatore Antonio Armellini, per la gentile concessione dell’utilizzo delle foto del loro archivio. Una particolare menzione va a Donato Vinante, per il suo costante supporto, aiuto, stimolo e partecipazione alla pubblicazione del testo; senza la sua infinita e indomita costanza, questo volume non avrebbe mai visto la luce. Grazie Donato, grazie di cuore, anche a nome di Eugenio. Naturalmente un calorosissimo grazie va a Montura Editing per aver sostenuto economicamente il progetto editoriale ed aver partecipato entusiasticamente alla parte grafica del volume. Vorrei infine ringraziare Leana e Giuseppe, per la loro pazienza e professionalità nel saper gestire, passo dopo passo, la realizzazione di questo libro. Grazie a tutti coloro che parteciperanno agli incontri di presentazione del volume per il loro contributo e il loro supporto al progetto umanitario La Casa della Speranza, Centro Medico e Polifunzionale per i bambini di strada nella città di Ulan Bator, Mongolia.



Prefazione Oscar Nalesini

Il diario di Eugenio Ghersi qui proposto (e a cui continuerò a ri-

naria spontaneità della stesura e la freschezza delle annotazioni.

ferirmi per comodità semplicemente come Diario) costituisce,

Steso inizialmente di getto la sera al campo, Ghersi lo avrà si-

come a suo tempo apertamente dichiarato, le fondamenta e l’os-

stemato verosimilmente durante la traversata di ritorno, e limato

satura di Cronaca della missione scientifica Tucci nel Tibet oc-

dopo il rientro in Italia. Per Ghersi come per Tucci, l’attività dei

cidentale (1933), pubblicata dalla Reale Accademia d’Italia nel

mesi seguenti procedette a ritmi serrati. Si consideri che in capo

1934 a firma dello stesso Ghersi e del suo capo missione, il noto

a meno di un anno riordinarono la documentazione raccolta,

orientalista Giuseppe Tucci.

conclusero la pubblicazione del diario del viaggio, oltre ad alcu-

Scritto per divulgare i risultati di una esplorazione condotta per

ni articoli divulgativi, e contemporaneamente l’Istituto Nazionale

mesi attraverso terreni impervi come pochi altri, con l’obiettivo di

Luce riuscì a montare, col loro ausilio, le riprese cinematogra-

scoprire e documentare le vestigia di una civiltà, quella tibetana,

fiche girate da Ghersi in un documentario filmato sonoro di 46

allora pressoché ignota agli studiosi occidentali, questo libro è

minuti intitolato Nel Tibet occidentale.

oggi anche un testo essenziale per chiunque voglia compren-

Dicevo dell’importanza della Cronaca, e di conseguenza del

dere l’opera di Tucci. Il che, ovviamente, serve qui a sottolineare

Diario, per la conoscenza dell’opera di Tucci. Si palesa sotto di-

anche la statura di Ghersi, che lo accompagnò in quella avventu-

versi aspetti. Da un punto di vista letterario, la prosa della Crona-

ra e immediatamente dopo in Nepal assieme a Carlo Formichi1,

ca rappresenta senz’altro uno dei momenti più felici raggiunto

nonché l’importanza del suo apporto per quella come per le suc-

dalla pur abbondante produzione odeporica di Tucci. Egli vi esi-

cessive spedizioni tibetane.

bisce un sapiente uso degli strumenti da affabulatore. Come in

Il lettore vi troverà – è vero – passaggi che denunciano un rima-

nessun altro scritto del genere, qui egli ha saputo infondere nel

neggiamento posteriore al secondo conflitto mondiale, come il

testo il senso del cimento con le forze naturali, il fascino dell’av-

riferimento al Pakistan dello 8 settembre, oppure il 7 agosto dove

ventura tra paesaggi aspri e vette invalicabili, la meraviglia per la

Ghersi riferisce della biografia di Rinchen Zangpo come fosse

scoperta di luoghi bizzarri e costumi curiosi, insospettabili tesori

un evento lontano nel tempo ("pubblicata da Tucci nel 1933") e

del passato. Nulla tolgono, e, anzi, forse qualcosa aggiungono,

non risalente ad appena tre mesi prima2. Ma sono pochi inter-

le occasionali ripetizioni e qualche sbavatura stilistica.

venti circoscritti, ben identificabili, che certamente non hanno

Il lettore, se avrà la pazienza di seguire attentamente il puntuale

modificato il contenuto del Diario, lasciandone inalterate l’origi-

confronto del Diario di Ghersi con la Cronaca compiuto da David Bellatalla, scoprirà ben presto quanto Tucci fosse anche un

1  C. Formichi, Il Nepal. Conferenza tenuta all’Augusteo di Roma il 26 febbraio 1934. Roma: Reale Accademia d’Italia (Conferenze, 1), 1934. 2  Il colophon della biografia recita infatti "stampato ... nel maggio 1933-XI".

abile promotore di se stesso. Egli ha argutamente impostato la voce narrante in terza persona, rendendo meno appariscenti, a

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dispetto della loro continua presenza, i riferimenti alle proprie

modo l’impresa. Ottenne ad esempio qualche soldo da un suo

ricerche e alle proprie conoscenze religiose, filosofiche e lingui-

vecchio compagno di scuola, l’industriale Oleario Isnardi, che ri-

stiche.

compensò con il ritratto di un tibetano mentre tiene con l’etichet-

Discreto ma importante segno di una modernità, che per ne-

ta in bella vista una lattina d’olio, appunto4 . E con lo stesso mez-

cessità contingenti irrompe nella vita dello studioso, è lo sfrut-

zo – la fotografia – ringraziò per qualche ragione il CAI di Imperia.

tamento delle scene di vita quotidiana per imbastire veri e propri

Il Diario e la Cronaca sono, almeno per noi, anche una testimo-

piccoli spot pubblicitari a favore di un’azie alimentare che, pur

nianza storica di prim’ordine su un progetto di ricerca sul campo

non venendo ricordata nell’introduzione, deve averlo sostenuto

costruito nel tempo da Tucci che, dopo gli sforzi prodigati negli

nell’impresa fornendo prodotti. Così, l’annotazione di Ghersi nel

anni precedenti, entra finalmente in una fase matura. Per poterla

Diario che la sera del 2 luglio “abbiamo cenato circondati dal-

valutare con cognizione di causa, e comprendere meglio il ruolo

le donne del villaggio e solamente dopo abbiamo compreso

di Ghersi in questo capitolo della carriera scientifica di Tucci, e

che la loro presenza non era solo curiosità ma la possibilità

invero anche nei successivi, è però necessario compiere qual-

di ottenere le scatole e lattine vuote dei nostri viveri”, viene

che piccolo passo a ritroso nel tempo.

abilmente sfruttata da Tucci tramutando curiosità e interesse in

Passi incerti, perché la storia dei primi viaggi di studio compiu-

brama, e imprimendo all’evento un effetto drammatico a tutto

ti da Tucci nelle terre himalayane è ancora lacunosa: l’assenza

vantaggio della prosa e del marchio: “Dobbiamo cenare cir-

di diari, fotografie non identificabili né databili per la mancanza

condati da tutto il paese, che si diverte un mondo a vederci

di note e la maldestra esecuzione, la vaghezza nei pochi scrit-

mangiare con le posate ed i piatti. Le scatole vuote delle con-

ti sugli itinerari percorsi e sui tempi del viaggio congiurano nel

serve Cirio sono causa di violenti litigi per la gente che se le

mantenere quelle attività in una zona d’ombra, squarciata per la

contende”.

prima volta dallo sprazzo di luce che è per l’appunto la Cronaca5 .

Tucci non tralasciò nemmeno quei fatti talmente marginali da

Per quel poco che fu pubblicato, o che è oggi possibile reperire

non trovar posto nel Diario. La cena del 23 luglio diventa l’occa-

negli archivi, i primi due viaggi impegnativi organizzati da Tuc-

sione per un irresistibile crescendo insieme pubblicitario, psico-

ci furono compiuti in Ladakh nel 1928 e in Nepal nel 1929. Il loro

logico ed etnografico: “Qui Abdul potrà darci prova delle sue

scopo dichiarato era di penetrare in alcune biblioteche mona-

qualità culinarie: fino ad ora non abbiamo mangiato che cibo

stiche o private per poter studiare de visu copie di testi indiani

in scatole. Ma vivere sempre di roba in conserva non si può,

o loro traduzioni in tibetano riguardanti il pensiero buddhistico

anche se questa roba è preparata con quello scrupolo e con

e che, per varie ragioni storiche, erano introvabili nella loro terra

quell’arte che è propria di Cirio”. E prosegue spiegando meglio

originaria.

l’accaduto: “Qui a Chang troviamo per la prima volta qualche

Non pago dei ritrovamenti effettuati in quelle occasioni, o più

pollo: ma lo vendono a malincuore, perché sanno quale sarà

probabilmente stimolato dalle lacune evidenziate da quelle

la sorte di quelle povere bestie e non vogliono cooperare ...

stesse scoperte, Tucci avvertì la necessità di ampliare i propri

alla violazione del precetto dell’ahimsa, il divieto di uccidere

orizzonti, e di integrare le conoscenze storiche e filologiche

qualsiasi essere vivente. ... Probabilmente, in fondo a questo

con una ampia gamma di fonti sino ad allora poco considerate:

scrupolo eccessivo della gente, c’è una piccola speculazio-

dall’epigrafia alla linguistica, dalle tradizioni popolari all’arte. E

ne: con la scusa dell’ahimsa si vuole costringere il forestiero

per farlo era necessario esplorare ampie porzioni del mondo di

a pagar cara ogni cosa. Se debbono peccare, è bene trarre

cultura tibetana, in cui era molto difficile poter viaggiare, e ancor

dal peccato il maggior profitto. ” 3

Genio di Tucci, certo, ma a cui Ghersi seppe tenere il passo. Tro-

10

vò infatti tra le sue conoscenze chi potesse sostenere in qualche

4  O. Nalesini, "Eugenio Ghersi e gli altri. I fotografi della spedizione Tucci", in Eugenio Ghersi: un marinaio ligure in Tibet. Genova: Sagep, [2008], p. 56.

3  G. Tucci, E. Ghersi, Cronaca della missione scientifica Tucci nel Tibet occidentale (1933). Roma: Reale Accademia d’Italia, 1934, pp. 136-37.

5  Per una ricostruzione generale delle spedizioni tibetane si può consultare il mio Assembling loose pages, gathering fragments of the past: Giuseppe Tucci and his wanderings throughout Tibet and the Himalayas, 1926-1954, in Sanskrit Texts from Giuseppe Tucci’s Collection Part I, a cura di F. Sferra, Roma: IsIAO, 2008, pp. 79-112.

Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Prefazione


più complesso riuscire a farsi accordare fiducia da chi custodiva

nei monumenti principali prima che tutto svanisse, o almeno la

monasteri, templi e biblioteche.

creazione di un catalogo degli edifici monumentali e dei mano-

Sia la spedizione del 1930, che vedrà Tucci attraversare il Bal-

scritti esistenti, erano cadute nel vuoto per ragioni economiche

tistan oltre nuovamente al Ladakh, spingendosi forse sino ad

nonché culturali. La soluzione per Tucci era una sola: documen-

Hanle , sia la successiva del 1931 attraverso l'Himalaya indiano

tare in maniera più dettagliata e sistematica possibile tutto quel

sulla orme di Giotto Dainelli7 , perseguirono evidentemente que-

che trovava, perché così almeno le generazioni future avrebbero

sto obiettivo. Forse anche con una certa ingenuità. In entrambi i

per lo meno potuto avere un’idea di quel che c’era. E lo strumen-

casi Tucci stilò un programma che prevedeva l’esplorazione di

to migliore a sua disposizione, perché di rapida esecuzione e di

porzioni talmente estese di territorio da risultare praticamente

norma maggiormente fedele nella registrazione della realtà, era

irrealizzabile. Anche perché, oltre alle lunghe distanze da per-

la fotografia. Ma Giulia Nuvoloni, la moglie che lo aveva accom-

corrersi a piedi su terreni che definire accidentati è dir poco, en-

pagnato sino ad allora prestandosi a fungere da fotografa, evi-

travano fatalmente nel gioco gli imprevisti. Le ambizioni di Tucci

dentemente non era in grado di svolgere questo incarico nelle

furono ridimensionate anche da impedimenti mai chiaramente

difficili condizioni ambientali dei monumenti tibetani. Tucci, dal

spiegati, ma in cui non facciamo fatica a scorgere la nefasta con-

suo canto ha sempre detto e scritto chiaramente di essere inca-

giunzione di condizioni meteorologiche inusualmente avverse,

pace di utilizzare qualunque aggeggio meccanico, compresa la

problemi di salute, difficoltà logistiche e – non ultimi – problemi

macchina fotografica. Di qui la necessità di trovare qualcun altro.

amministrativi, dipendenti dai delicati equilibri politici in quelle

Ghersi non solo soddisfece appieno le richieste di Tucci sul pia-

terre di frontiera tra le potenze del “Grande gioco”.

no fotografico, ma introdusse a sua volta qualcosa a cui ho già

Lezioni che, d’altra parte, risultarono salutari perché insegnaro-

sopra accennato, e a cui Tucci forse non aveva prima nemmeno

no a Tucci a non sopravvalutare le sue capacità e a programmare

pensato: il cinema. Arte che Ghersi aveva praticato, e anche con

con maggiore avvedutezza gli itinerari. Prova ne sia che l’ambi-

un certo successo, come testimonia il giornalista Carlo Ridomi

zioso programma del 1931 di attraversare a piedi in qualche

che, nel 1932, viaggiò per alcuni giorni sulla cannoniera italiana

mese il territorio compreso tra Leh e i confini nepalesi studiando

Carlotto sul Fiume Azzurro, in Cina, assistendo a "gustosissimi

per via i monumenti, raccogliendo oggetti, copiando iscrizioni,

film" girati per il divertimento dell’equipaggio dal medico di bor-

richiese altre due spedizioni per essere completato. Entrambe

do: Ghersi, per l’appunto8 .

vedranno Ghersi al fianco di Tucci: quella del 1933, di cui stia-

Delle sue capacità di cineasta chiunque può rendersi conto vi-

mo per leggere il diario, e quella successiva del 1935, quando

sionando i documentari prodotti dall’Istituto Nazionale Luce:

visiteranno il binomio sacro del lago Manasarowar – monte Tise

quello sul Tibet e l’altro, di appena dodici minuti e muto, su La

(Kailasa), e siti di enorme importanza storica e artistica quali

spedizione di Carlo Formichi in Nepal. Non si tratta solo del fasci-

Khojarnath, Kyunglung, Mangnang e nuovamente Tholing e Tsa-

no suscitato in noi da animazioni provenienti da un passato che,

parang.

almeno tecnologicamente, sembra essere remotissimo. Sollevò

La ragione ultima che convinse Tucci a cercare un compagno

molta curiosità già allora, tanto che Tucci ricevette subito l’offer-

per le spedizioni tibetane fu la constatazione che il patrimonio

ta per un documentario sulla prossima spedizione.

culturale che stava cominciando ad esplorare con tanta fatica

Nel 1935 una rivista letteraria così informava i suoi lettori: La Dea

era seriamente minacciato dall’abbandono e dall’incuria, posto

delle nevi è il titolo del brillante documentario ad intreccio sui riti,

in contrade impoveritesi e spopolatesi di molto nei decenni pre-

i costumi e leggende tibetane, che Giuseppe Tucci, dell’Accade-

cedenti. Gli appelli che aveva inoltrato al governo indiano e – tra-

mia d’Italia, con l’assistenza del Capitano Ghersi, si propone di

mite questo – a quello tibetano per prevedere lavori di restauro

girare nella sua prossima spedizione all’Himalaya9. Di questo do-

6

6  Località che Tucci chiese alle autorità indiane di poter visitare quell’anno. Non sappiamo però se riuscì a visitarla. 7  G. Dainelli, Il mio viaggio nel Tibet occidentale. Milano: A. Mondadori, 1932.

8  C. Ridòmi, Ombre gialle. Viaggio nell’ultimo Oriente. Milano: Giovanni Agnelli, 1933, p. 209. 9  Pan: rassegna di lettere, arte e musica 5 (1935), p. 159. L’articolo dichiara inoltre che al progetto del documentario aveva già lavorato anche il noto scrittore Eugenio Gio-

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cumentario in realtà non si sentì più parlare, nonostante Ghersi

dalla locale Società geografica13.

avesse realizzato le riprese anche nel corso della spedizione del

A maggior ragione, dunque, devo deplorare la ristampa italia-

1935. Da allora sino alle missioni archeologiche degli anni ses-

na proposta nel 2006 col titolo irragionevolmente modificato

santa in Pakistan, il cinema diverrà elemento immancabile delle

in Dei, demoni e oracoli. La leggendaria spedizione in Tibet del

spedizioni organizzate da Tucci. Compagno purtroppo effimero.

1933, per i tipi dell’editore vicentino Neri Pozza nella collana "Il

Come le scene riprese da Ghersi nel 1935, anche i chilometri di

cammello battriano", diretta da Stefano Malatesta. È impossibi-

pellicola cinematografica impressionati da Fosco Maraini nel

le tacere della cancellazione del nome di Ghersi come coautore

1937, da Felice Boffa Ballaran nel 1939 e da Pietro Francesco Mele

e la conseguente eliminazione della pagina finale dell’introdu-

nel 1948, vincitore quest’ultimo con Tibet proibito del premio per

zione, dove Tucci lo ricorda. Egualmente inaccettabili sono i

il miglior cortometraggio alla Mostra Internazionale d’Arte Cine-

tagli arbitrari al testo, nemmeno segnalati, nonché l’omissione

matografica di Venezia del 1949, sono col tempo andati distrutti,

delle 272 illustrazioni e persino della carta geografica, senza

dispersi, smarriti.

le quali i lettori avranno incontrato qualche difficoltà nel loca-

La spedizione del 1933 spicca perciò anche per la buona sorte,

lizzare località sconosciute ai più, e a maggior ragione imma-

che ci permette oggi di avere il dattiloscritto del diario, il docu-

ginarne l’aspetto. Il saggio introduttivo di Ugo Leonzio, infine,

mentario filmato e, naturalmente, il libro. Anche quest’ultimo

serve unicamente a dare libero sfogo a fantasie mistiche ed

riscosse un immediato successo. Fu subito recensito da impor-

esoteriche; proprio quelle che Tucci aveva a suo tempo stron-

tanti riviste orientalistiche e geografiche , e nel giro di due soli

cato come fatue e fuorvianti14. Il fatto poi che l’autore all’epoca

altri anni apparvero l’edizione britannica , di recente ristampata

scrivesse per L’Unità può ben essere considerato un eloquente

in India, quella statunitense12, e quella ungherese sponsorizzata

segno dei tempi.

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11

vannetti. 10  Artibus Asiae 5, 2/4, 1935, pp. 278-87; Geographical Journal 88, 1, 1936, pp. 76-77; The Journal of the Royal Asiatic Society of Great Britain and Ireland 68, 2, 1936, pp. 313-14; Revue des Arts Asiatiques 9, p. 56; Zeitschrift der Deutschen Morgenländischen Gesellschaft 14, 1935, p. 423; Ostasiatische Zeitschrift 13, 1937, pp. 48-56.

12

11  Secrets of Tibet: being the chronicle of the Tucci scientific expedition to western Tibet, 1933. London-Glasgow: Blackie and Son, 1935.

13  Kincses Tibet: az 1933. évi Tucci-féle nyugat-tibeti tudományos kutatóút krónikája. Budapest: Franklin (A Magyar Földrajzi Társaság könyvtára), 1936.

12  Shrines of a thousand Buddhas. New York: Robert M. McBride, 1936.

14  G. Tucci, L’Oriente nella cultura contemporanea. Roma: IsMEO, 1934.

Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Prefazione


Appunti, riflessioni e perplessità dal Tetto del Mondo David Bellatalla

Si tratta della prima pubblicazione dei due diari dattiloscritti del

pagina riportati in alto. Le giornate del diario sono corredate da

Capitano Eugenio Ghersi, membro delle spedizioni scientifiche

riproduzioni fotografiche incollate alle pagine, disposte a fianco,

nel Tibet occidentale della Reale Accademia d’Italia.

sopra o sotto a quelle dei giorni a cui fanno riferimento. Si trat-

Il primo testo che andremo a prendere in esame è il diario perso-

ta soprattutto di riproduzioni di foto scattate nel 1933 dal Dottor

nale della spedizione scientifica nel Tibet occidentale del 1933;

Ghersi, che riguardano personaggi, luoghi ed oggetti descritti

si tratta di un dattiloscritto in formato A4, composto di 82 pagine,

nel testo e le didascalie sono scritte a penna (la calligrafia è facil-

rilegato artigianalmente con copertina rigida color verde milita-

mente riconducibile a quella di Eugenio Ghersi). Ci sono, inoltre,

re, in cartoncino pressato con angoli e costa rinforzati.

piccole riproduzioni di mappe, schemi, planimetrie di templi od

Il secondo è un dattiloscritto di note, appunti e riflessioni con so-

altri luoghi di culto, realizzate dall’autore di suo pugno.

venti annotazioni a penna, delle due esperienze in Tibet, rispet-

Sulla copertina è riportato con trasferibili a caldo, il titolo e l’auto-

tivamente del 1933 e del 1935; il testo è raccolto in un quaderno

re del diario: Eugenio Ghersi – Cronaca della spedizione scienti-

plastico ad anelli con pagine intercambiabili di formato A5, per

fica nel Tibet occidentale del 1933.

un complessivo di 56 pagine.

Il secondo diario è un dattiloscritto stampato su pagine a righe di

Il diario della spedizione del 1933 si presenta in una forma dav-

formato A5, per quaderni a fogli intercambiabili. Presenta alcune

vero inconsueta. I fogli sono staccati dalla copertina alla quale

correzioni a penna e appunti olografi a margine, probabilmen-

erano inizialmente rilegati tramite cucitura artigianale a filo. Le

te realizzati da Ghersi durante le riletture del testo già battuto in

pagine del dattiloscritto sono in parte tagliate a metà, come se

precedenza a macchina. Le pagine non sono numerate e sono

fossero state strappate con impeto e rabbia, ma hanno man-

scritte su entrambi i lati del foglio.

tenuto l’ordine cronologico iniziale, come risulta dai numeri di

La parte riguardante gli appunti del dottor Ghersi rispecchia esat-

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tamente il suo modo di raccontare, di descrivere e di ricollegare

Le sue esposizioni e i suoi racconti rapivano letteralmente l’in-

gli eventi, a volte anche affrontando temi molti distanti tra loro.

terlocutore di turno, coinvolgendolo totalmente, fino al punto

Il Doc (che sta per l’abbreviazione di dottore, ed è il nome con

di far perdere completamente il senso del tempo all’ammaliato

il quale mi sono sempre rivolto a lui nel lungo periodo in cui ho

ascoltatore.

avuto il privilegio di abitare nella sua casa) ha sempre amato par-

Per lui non c’era differenza tra gli ospiti eruditi e studiosi e quei

lare del suo adorato Tibet, riuscendo ogni volta a sorprendere e

visitatori, spesso anche ignari delle mirabili esperienze "tibeta-

ad entusiasmare il proprio interlocutore.

ne" vissute dal Capitano Ghersi.

Le nostre conversazioni ci trovavano sempre comodamen-

Ascoltando attentamente i suoi racconti ho provato molte volte

te seduti sull’ampio divano della sala, le sue dissertazioni

a capire quale fosse, e come funzionasse, questa sua straordi-

non avevano mai il tono cattedratico e saccente di colui che

naria capacità di saper coinvolgere chiunque in quei "racconti

sa ed è pronto a elargire nozioni e conoscenze, all’improv-

di viaggio" dove, a bordo delle sue parole, si potevano raggiun-

visato fruitore. Al contrario, il suo disquisire era sempre im-

gere gli sterminati altipiani tibetani, sentire il possente calore del

prevedibile e soprattutto, contrassegnato da continui ri-

sole sul proprio volto, percepire i capelli arruffarsi per le gelide

mandi, sospensioni e soventi interruzioni con domande o

folate di vento o persino cogliere l’odore di burro rancido dello

riflessioni rivolte al suo interlocutore il quale, inevitabilmente

tsampa (la bevanda tradizionale tibetana preparata con tè, lat-

era coinvolto a rendere la chiacchierata ancor più piacevole

te e burro rancido). È nostro desiderio (il mio, quello di Leana

e interessante.

Moretti e di Giuseppe Bosio che hanno editato e curato il testo)

Non c’è stato ospite che io abbia incontrato in casa Ghersi

quello di far sì che il lettore affronti la parte dello scritto in origi-

che non abbia sottolineato la piacevolezza e l’incanto di ogni

nale, come se stesse ascoltando la voce del Doc, in maniera da

incontro con il Doc, la sua straordinaria capacità di affasci-

lasciarsi coinvolgere pian piano e farsi trasportare su quel tap-

nare e compiacere il proprio ospite: riuscendo a farlo senti-

peto volante fatto di parole, pause e sorrisi con i quali anche le

re a proprio agio dando vita ad una conversazione inaspet-

maestose montagne e gli immensi altipiani del Tetto del Mondo,

tatamente spontanea e naturale, scevra da ogni etichetta e

sembreranno così vicini e reali come lo sono stati per Eugenio

da ogni formalismo, rispondendo alle moltissime domande

Ghersi, fino agli ultimi giorni della sua esperienza terrena.

che gli venivano poste sulle sue esperienze vissute al fian-

I due diari sono stati lasciati in eredità dall’Ammiraglio Ghersi

co del Professor Tucci, nel cuore dell’Himalaya, col piacere

allo scrivente, lasciando a quest’ultimo, la più totale libertà sul

della compartecipazione.

loro utilizzo.

Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Appunti, riflessioni e perplessità dal Tetto del Mondo


Il motivo di questa pubblicazione David Bellatalla

L’edizione del diario di Eugenio Ghersi e la comparazione con

della vita con una serenità senza confini”; il Doc la recitava

il testo ufficiale, firmato da Giuseppe Tucci e dal Capitano nella

ogni qual volta gli fosse chiesto di raccontare qualcosa sulle sue

prima stampa del 1934, è innanzitutto un omaggio dovuto al Dot-

avventure nella Terra degli Dei.

tor Eugenio Ghersi ed è inoltre dedicato a tutti coloro che, per

I nostri commenti, lungi da essere completi ed esaustivi, servo-

motivi diversi, avranno la curiosità e il piacere di compiere una

no a mettere in luce alcuni fatti, particolari circostanze, a rendere

lettura più articolata e particolareggiata del diario della spedi-

più chiare certe situazioni, a evidenziare le discrepanze tra i testi

zione scientifica, pubblicato dalla Reale Accademia d’Italia nel

e a illustrare meglio particolari eventi che altrimenti potrebbe-

dicembre del 1934.

ro essere solamente ipotizzati o dedotti dalla lettura dell’opera

Come sarà facile notare, il diario di Ghersi inizia con la data del 21

pubblicata nel 1934.

Giugno, mentre il testo ufficiale riporta come inizio, la data del 13

A supporto del commento ci sono i ricordi, le parole, i discorsi

Giugno, descrivendo il primo tratto di avvicinamento alla catena

e gli aneddoti raccontati dall’Ammiraglio Ghersi durante la mia

himalayana da parte della spedizione italiana; un tragitto svoltosi

convivenza con lui; uno dei due esploratori artefici della Crona-

inizialmente in treno da Pathankot fino alla stazione ferroviaria

ca della Missione Scientifica Tucci nel Tibet Occidentale.

di Palanpur, oggi Kangra, e poi in camion fino a Manali. Altresì, il

Ricordiamo inoltre che il dattiloscritto, è la rielaborazione e la

dattiloscritto che andremo qui a pubblicare, termina con la gior-

trascrizione finale dello scritto olografo che il Capitano Ghersi

nata del 13 Ottobre, a differenza del testo ufficiale che finisce

fece durante la spedizione del 1933 (non dimentichiamoci che

con quella del 2 Novembre e riassume sinteticamente in poche

questo è stato uno dei suoi molteplici incarichi svolti per la mis-

pagine di testo, l’arrivo della carovana alla città indiana di Simla.

sione italiana; un compito che andremo a raccontare in dettaglio

Il perché, di questa particolarissima scelta da parte del Capitano

nel prosieguo del testo).

Ghersi, lo possiamo dedurre grazie alle tante conversazioni avu-

Rimane incerta la datazione della sua stesura finale del diario,

te con lui nel corso degli anni.

che avvenne comunque molto tempo dopo la pubblicazione del

Per il Capitano era importante l’avventura himalayana; la sua av-

testo ufficiale, quando il Doc tornò in possesso del suo mano-

ventura, il suo viaggio attraverso il Tibet; poco importava al Doc

scritto, utilizzato dal Professor Tucci per la redazione finale del

il descrivere le giornate di trasferimento, fatte con ogni possibile

1934. L’augurio che ci facciamo, con la pubblicazione di questi

mezzo di trasporto per raggiungere il Tetto del Mondo; a lui inte-

diari, è quello di far conoscere a molti, un personaggio vera-

ressava solamente quel territorio, quel mondo, quella particolare

mente straordinario, un esempio di professionalità e d’integrità

esperienza che avrebbe per sempre cambiato la sua vita.

morale, un mentore, una persona di sani principi e valori morali,

A tal proposito vorremmo ricordare una sua frase ricorrente:

nella vivida speranza di poter far immaginare e rivivere per tutto

“L’Himalaya è un luogo davvero strano; lassù tra infinite pie-

il tempo della lettura, quegli straordinari racconti che tante volte

traie c’è uno strano mercato, dove puoi barattare il vortice

ho avuto l’onore e il piacere di ascoltare.

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Eugenio Ghersi

Diario

Commenti di David Bellatalla

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23 Giugno

“Quando, dopo lunghe trattative ed estenuanti discussioni, tutto è pronto per partire, anche questi chiedono un aumento del 100% adducendo al fatto che in questo mese l’Hamtah è pericoloso per le valanghe del disgelo. Tucci licenzia tutti e

riprende, con orientale pazienza, le trattative con i carovanieri di Sultampur che aveva licenziato ieri. Altre movimentatissime discussioni ed infine, un solenne giuramento sul Corano, i carovanieri accettano di partire domani. Tucci cerca di avere notizie, dai pastori e dai pellegrini, circa la possibilità di transitare con cavalli sul passo del Rohtang ufficialmente ancora chiuso.” In questo primo passaggio ritroviamo il Capitano Ghersi soffermarsi sulla decisione presa da Tucci di licenziare in tronco tutti i portatori e sottolineare il “giuramento” dei nuovi carovanieri musulmani appena assoldati, precisando che tale giuramento viene sancito in nome del Corano per avvalorare il loro impegno a portare al termine il lavoro pattuito. Anche Tucci fa riferimento a tale giuramento scrivendo che le nuove milizie assoldate si radunano al margine del bosco rivolte a Occidente (in direzione della Mecca, aggiungiamo noi) per chiedere la protezione del Profeta. Interessante è poter leggere tra le righe del testo ufficiale e osservare che l’accademico orientalista scrive : “solamente un uomo che conosca profondamente la mentalità di questa gente, può continuare a ragionar con loro senza perdere la pazienza” e ci sia consentita una banale perplessità sul termine “pazienza” utilizzato dal professore, memori dei numerosi e colorati racconti di Ghersi. Un tale uomo non poteva essere altro che lui stesso, non certo un Capitano della Regia Marina, novello esploratore del Tetto del Mondo, all’oscuro dei linguaggi e della cultura dei carovanieri appena radunati. Appare curioso che poche righe più sotto, il Tucci menzioni come il pellegrino Lama-itinerante da loro incontrato nel corso della giornata, ricordi al Capitano i sacerdoti buddisti che lo stesso aveva avvicinato durante la sua lunga missione in Cina, a bordo della motonave Carlotto, sulla quale era stato al centro di numerose avventure degne di un episodio del mirabolante Tin-Tin di Georges Remi in arte Hergè.

Tucci chiede informazioni a pellegrini provenienti dalla Spiti — Archivio Ghersi

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24 Giugno

“La carovana parte, ben ordinata, ma dopo un miglio circa alcuni cavalli partono al galoppo seminando buona parte del

carico. Una fermata di circa un’ora per recuperare i cavalli e recuperare tutto il materiale. Attraversiamo le ultime foreste dell’alta valle del Bias e verso le 12 arriviamo all’ultimo rifugio della forestale. Una nebbia fittissima incombe nella zona e Tucci decide di fare una sosta per la colazione prima di iniziare la salita al passo. Alle 13 la nebbia è quasi scomparsa e la carovana riprende la salita su di un terreno sassoso. Dopo circa un’ora la pista termina all’inizio di una incredibile scalinata in parte scavata nella roccia ed in parte fatta con grossi massi scalpellati. I cavalli, molto lentamente, riescono a superare questo primo ostacolo e riprendere la salita. Sotto una roccia biancastra visitiamo il vecchio e sacro serpente al quale tutti i viandanti lasciano, quale omaggio, una buona porzione di latte che versano in una specie di ciotola scavata nella roccia. Verso sera arriviamo ad un piccolo pianoro, sotto il Bias Rikhi e facciamo il 3° campo (circa 3000 metri di quota). Notte fredda e continui temporali.” In questa giornata si possono osservare due diversi ed interessanti accostamenti al racconto del viaggio. Ghersi si sofferma sulle tempistiche, tipico atteggiamento di un logista collaudato il cui compito è quello di annotare i luoghi, le caratteristiche del terreno su cui ci si muove, oltre agli orari e le difficoltà che contraddistinguono il procedere della spedizione. “Il rifugio della forestale” menzionato nel diario, è invece descritto come “un piccolo bungalow dell’Ispettorato delle Strade” nel testo ufficiale. Le osservazioni del Doc sul luogo sacro, la tana del serpente nei pressi di Kunda, sono ben lungi dalle precise e sistematiche annotazioni che il professore espone con dovizia e accademica precisione. Accurati sono i suoi dettagli oltre ai dotti rimandi epico-letterari sui due siti incontrati dai Nostri e non uno soltanto, come descrive il Doc nel suo diario. Il Tucci dedica una intera pagina del diario per descrivere, poco più avanti, il “kunda” (luogo sacro agli Indiani) dedicato al poeta Vyasa e la sacra tana del serpente, dove liturgie ed offerte si rendono necessarie per lo svolgimento del rito propiziatorio, al quale il devoto è chiamato nel momento in cui raggiunge il cultuale luogo nel suo pellegrinaggio.

25 Giugno

“Alle 4,30 lasciamo il campo ed iniziamo l’ultimo tratto verso il passo. Alle 9 valichiamo il Rohtang (3950 mt) la neve è solida e la carovana procede agevolmente. A nord e nord-est magnifico panorama di altissime vette. Alla nostra destra,

come una torre, si alza il grande Shigri di 6500 mt, simile per forma al Monviso. La valle del Chandra è a volte così stretta che sembra un crepaccio nella roccia. I cavalli scendono lentamente nella ripida discesa lungo un grande nevaio. Alle 11 mettiamo il 4° campo (2000 mt) su di un pianeggiante nevaio. Siamo entrati nella valle del Chandra ritenuta la più solitaria e triste valle dell’Himalaya.” È il dì del fatidico passo del Rohtang e tra le righe di entrambi i diari si coglie lo sforzo fisico prodotto durante la lunga giornata di marcia. Singolare è il confronto dell’annotazione sulle condizioni della neve. Giuseppe Tucci afferma che è ancora molto alta sul passo mentre il Doc si concentra sulla compattezza della neve gelata e sulla facilità con cui la carovana può quindi procedere. Giunti sul passo il professore ricorda che l’altezza alla quale si trovano corrisponde esattamente all’altezza del Monviso, viceversa Ghersi osserva la similitudine della silhouette del grande Shigri con il ben più familiare Monviso. Entrambi concludono la pagina del diario con la sistemazione del campo su uno spiazzo erboso, per Tucci; su di un nevaio, per Ghersi. A conferma della versione di Ghersi esiste una foto del famigerato quarto campo, e dobbiamo constatare che le tende erano state

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


sistemate proprio sulla neve. La diversa annotazione sulle condizioni della neve è ancora una volta significativa e consona alle qualità ed ai compiti dei due esploratori. Descrittiva e utile alla narrativa quella nel diario ufficiale, informativa e tecnico-logistica l’altra. Più accattivante per noi lettori è l’episodio relativo al raggiungimento del passo del Rohtang. Come accennato poco sopra, Ghersi riconduce la magnifica vista dello Shigri al ricordo del suo amato Monviso, per il professore invece è solo l’altitudine del passo a ricordare l’amata vetta come termine di misura. Permetteteci, non dobbiamo pensare che i ruoli dei nostri protagonisti si siano invertiti, bensì a rivedere cosa avvenne quando arrivarono sul passo, per capire meglio le differenze dei diari. La passione per l’alpinismo del Doc non mancava mai di farsi spazio durante alcuni dei suoi racconti e delle sue avventure negli angoli più remoti del globo. Come un provetto alpinista anche Ghersi portava sempre con se un coltello da tasca durante le sue avventure e missioni tra i cinque continenti e possiamo garantire che la sua collezione era davvero notevole. In una occasione particolarissima vissuta con lui in quel di Varese Ligure, nella provincia della Spezia dove il Doc possedeva la propria casa estiva, stavo armeggiando con lo sportellino arrugginito di una vecchia stufa di ghisa che di aprirsi non voleva proprio saperne. Fu nel forzarlo disperatamente che la lama del suo Victorinox si ruppe in due. “Oh, accidenti!” osservò Ghersi. Mi fissò per un attimo e poi ritornò con la mente a quel 25 di giugno di tanti anni fa, e fu come se dai suoi occhi uscisse un fascio di luce che andò a fermarsi sulla parete di fronte a noi. La sensazione era quella di essere di fronte alla proiezione di una vecchia pellicola nebbiosa e dalla sua voce, partirono le immagini: “Sai, quando eravamo sul Rohtang Jot; tu ci sei stato lassù, non è vero?” al mio cenno di assenso il Doc proseguì senza più fermarsi. “Sul passo Tucci mi chiese di fermarci un attimo per riprendere fiato. Da lassù, potevamo osservare la valle del Chandra e lo splendore delle vette himalayane. Tucci mi fece notare un "lahto", il cumulo di pietre sacro ai buddisti, al centro del quale vi si trovava una piccolissima costruzione, tipo una cassetta di pietra tutta circondata con brandelli di tessuto colorato, annodati qua e là, spiegandomi che si trattava di banderuole votive. Mi avvicinai a quello strano ricettacolo di offerte. Non riuscivo a scorgere cosa fosse celato all’interno della minuscola costruzione. Guardai con attenzione e rimasi colpito da uno splendido cristallo di quarzo che, ancora incastonato nella roccia alla base del luogo sacro risplendeva dei colori dell’iride. Presi allora il mio coltello da tasca ed iniziai a scalfire la roccia per tentare di estrarre il bellissimo cristallo. Dopo alcuni tentativi la lama si ruppe. Tucci, appena sopraggiunto, mi disse che la divinità mi aveva punito e che avrei dovuto fare immediatamente un’offerta per rappacificarmi con essa. Ero così giovane ed inesperto allora! Presi il mio coltello da tasca dalla lama spezzata, lo guardai per l’ultima volta e lo infilai nel fondo della cassetta di pietra. Tucci sorrise, scuotendo il suo cappello coperto di nevischio, e mi chiese in quanto tempo la carovana avrebbe raggiunto il fondo valle. Certamente ben prima del tramonto; gli risposi con fermezza mentre il mio sguardo continuava ad ammirare incantato la cima dello Shigri illuminato dal sole. Mi ricordava moltissimo il mio Monviso e le tante avventure di giovane scalatore delle Alpi Marittime.” Da questo breve racconto si evince il diverso stato d’animo dei due esploratori italiani; la mente del professore è focalizzata sull’obiettivo della spedizione, sul raggiungimento tappa dopo tappa, delle mete prefissate. Al contrario le passioni, i ricordi, riescono a far breccia nei compiti professionali del Doc rimarcandone la straordinaria personalità ed il suo particolarissimo carattere. Assieme al suo coltello da tasca, penso che una parte di lui sia ancora lassù, sul fondo della cassetta di pietra sul passo del Rohtang Jot e sorrido tra me, mentre lo scrivo.

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Passo di Rothang — Archivio Ghersi

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


Shigri, 6.500 metri — Archivio Ghersi

26 Giugno

“Carichiamo i cavalli sotto una tempesta di nevischio e fortissimo vento. Alle 10 troviamo la valle sbarrata da un nevaio

ghiacciato con inclinazione di circa 40°. Con 10 uomini, lavorando di piccozza, riusciamo a fare il passaggio per i cavalli. I bravissimi cavalli, lentamente, passano senza incidenti e così arriviamo ad un esteso nevaio solido e liscio sul quale è facile progredire. Dopo circa 500 metri il nevaio è coperto da una grande frana composta di rocce grigiastre e grandi blocchi irregolari. I cavalli faticano molto e qualche bagaglio è danneggiato per l’urto contro spigoli di roccia. Alle 16.00 alziamo il 5° campo ( 3000 mt) a ridosso di un enorme masso che ci ripara da eventuali frane. Costatiamo che oggi abbiamo percorso solo 7 chilometri.” “La pioggia inizia a diminuire” – diario ufficiale della spedizione; “una tempesta di nevischio e vento fortissimo” – diario di Euge-

nio Ghersi. Insomma, una bella differenza di vedute. Qualcuno potrebbe arguire: c’è chi si alza ottimista, chi invece non lo fa! Di certo

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non deve essere stata una giornata soddisfacente o memorabile. Il Doc conclude il suo diario constatando l’esiguo tratto di sentiero percorso nell’arco dell’intera giornata, l’emerito professore si sofferma sulla sensazione di "tristezza e solitudine" che lo circonda. Più interessante è invece osservare il Capitano Ghersi scrivere nel suo diario: “lavorando di piccozza, riusciamo a fare il passaggio per i cavalli” e riscontrare che il testo ufficiale annota le manovre necessarie per il procedere della carovana con i verbi: “tracciamo, colmiamo e spostiamo”. Possiamo dedurre che il plurale usato dal Doc valga per i portatori, per il sirdar (capo carovana) e per lui stesso, al contrario pensiamo che l’uso del plurale nel testo ufficiale valga per tutti gli altri, tranne che per il Professore. Ghersi mi raccontava come a volte avrebbe voluto rimproverare l’emerito orientalista di non aver mai sollevato una pietra, tirato una corda, smontato una tenda, sistemato una cassa o qualsiasi altro lavoro manuale si possa immaginare, per aiutare la marcia della spedizione; aggiungerebbe una mia carissima amica “ma si sa il Capo, è sempre il Capo; in ogni dove ed in ogni luogo ci si trovi...”.

27 Giugno

“Alle 9 la carovana muove. Dopo circa 3 chilometri la valle è ostruita da un’altra frana. Due ore per smuovere i blocchi più

grandi. Mentre la carovana transita, cadono altri sassi e sabbia che tuttavia non recano danni. Per evitare altre cadute di sassi Tucci decide di scendere nel fondo della valle dove un notevole spessore di neve copre il fiume. Per evitare incidenti precediamo la carovana sondando la neve. Tucci, che è in testa, sparisce improvvisamente perché caduto in una grossa buca e senza danni lo recuperiamo subito. Alle 14 inizia una fittissima pioggia mista a nevischio. Facciamo il sesto campo a 3200 metri.”

La giornata è ancora movimentata in entrambi i diari a causa delle asperità del territorio e delle condizioni ambientali che rendono particolarmente difficile l’avanzare della carovana. Il fatto saliente del giorno è sicuramente la caduta del professore in un piccolo crepaccio a fondo valle. Tucci, davanti alla carovana, come era solito fare in tali circostanze, decide di cercare un passaggio più facile e sicuro, iniziando a scendere verso il corso d’acqua sottostante, al fine di evitare pericoli e danni dovuti alle continue cadute di massi. Anche questa via alternativa presenta però i suoi problemi. L’intero fondo valle, fiume incluso, è completamente coperto da uno spesso strato di neve e ghiaccio. Improvvisamente il professore finisce in una buca nel bel mezzo del nevaio. Possibilità tutt’altro che remota per chi si muove su nevai, erosi dall’acqua sottostante, e va sondando il terreno con la piccozza per trovare un passaggio che renda possibile l’attraversamento dello stesso. Tucci, elude dal diario ufficiale l’episodio sopraccitato, rilevando la necessità di “fare molta attenzione nel proceder lungo i ghiacciai poiché il loro spessore varia secondo l’erosione dell’acqua sottostante, la lingua di ghiaccio potrebbe rompersi improvvisamente sotto il peso della carovana”. Soprassediamo con un laconico no-comment.

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Attraversamento del fiume Chandras (Spiti)

Valle del Chandra: ponte di neve sul fiume

— IsIAO

— IsIAO

Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


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Valle del Chandra, attraversamento di un torrente — IsIAO

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


Passaggio su grande frana — Archivio Ghersi

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28 Giugno

“Cielo sereno. Verso ovest si vedono le strette valli che portano all’Hamtah Pass che noi non abbiamo potuto valicare

essendosi rifiutati di partire i portatori di Sultampur e di Manali. Verso mezzogiorno la carovana è giunta sulla sponda di un grosso affluente del Chandra. Tucci ed io, per evitare il guado, risaliamo verso le sorgenti che nascono dal frontone morenico. Questa è stata una decisione sfortunata. Dopo circa 500 metri, lungo il fiume, la sponda è friabile e la parete a picco, però ci consola il fatto che a meno di 300 metri si vede un ponte di neve che congiunge le due sponde. Per coprire questo brevissimo tratto abbiamo impiegato più di due ore. Mentre scendevamo in basso, vediamo Kalil e altri uomini che risalivano l’affluente in nostra ricerca.”

La documentazione fotografica di quel giorno è a dir poco strepitosa. La lettura dei diari, corredata delle immagini scattate dal Doc, fa letteralmente rivivere quel memorabile 28 Giugno del 1933. La descrizione di quelle ventiquattr’ore nei due scritti è molto simile, solo la conclusione non lo è. Tucci risolve la giornata con un commento sull’asprezza del cammino e la stanchezza provata che ha accompagnato i Nostri fino a qui; Ghersi rivolge la sua attenzione allo sforzo di Kalil e degli altri Sirdar che preoccupati per l’incolumità dei due italiani, impegnati duramente nel risalire l’affluente, sono pronti a portare l’eventuale aiuto ai due esploratori. Curiosa è questa particolare annotazione nel diario del Doc, perché evidenzia tutta la sua spontaneità, la sua generosità e la sua voglia di condividere, di partecipare agli eventi che da sempre hanno contraddistinto l’Ammiraglio Eugenio Ghersi in ogni situazione e momento della sua lunga e affascinante vita. Le annotazioni nella carta disegnata dal Doc, Foglio 2 nell’originale delle Carte della Spedizione ristampate per i tipi Sagep a pag. 41 del libro "Eugenio Ghersi un marinaio ligure in Tibet" riportano ben tre punti interrogativi in prossimità del tratto del fiume appena superato. L’utilizzo del simbolo del punto interrogativo nelle carte di Ghersi non è raro, a volte abbinato ad una quota altimetrica, altre ad un toponimo od ad un corso d’acqua. In questo caso specifico, l’allineamento dei tre punti interrogativi sta ad indicare un passaggio particolarmente proibitivo e pericoloso, come riportato nella Legenda del Foglio n°1 delle Carte (a pag. 40 del testo Sagep sopracitato), da lui stesso disegnata e redatta.

29 Giugno

“Partenza sotto la pioggia. Terreno molto accidentato, i nevai sono vecchi e presentano molti crepacci. Verso sera arri-

viamo sulla sponda del Bara Shigri che nasce dal vicino ghiacciaio e scorre velocissimo. Kalil propone di guadare domani mattina, prima del disgelo, quando la corrente sarà meno veloce. Tucci ed io, costatato che su questa sponda è impossibile sistemare il campo per via le grosse pietre cadute dal monte, decidiamo di passare subito a guado. Collegando cavalli e uomini a catena, il guado riesce senza incidenti. L’acqua è veramente fredda. Facciamo il campo n° 8 sulla sponda del fiume.” La giornata descritta nel diario del Doc è molto parca e stringata, forse un giorno non particolarmente positivo per lui. Al contrario, il diario ufficiale è parecchio articolato e ricco di dettagli interessanti. La breve sosta a Puti Runi non è neppure menzionata da Ghersi, cosi come la descrizione del campo che, come ricorda il professor Tucci nel testo ufficiale, aveva addirittura un proprio nome, essendo questo un vero e proprio postotappa “per tutte le carovane in transito sin da tempi memorabili, quando questa pista era la via più battuta tra Spiti e l’India”. L’accademico ci dà inoltre ragguagli tecnici sulla difficoltà dei guadi ad alta quota e sulle tempistiche racco-

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


mandate. Consideriamola una dimenticanza marginale del nostro logista, nel suo diario. Al contrario la Carta (Foglio 2, delle originali disegnate da Ghersi) riporta con precisione lo spostamento della spedizione e l’altitudine del Campo numero 8 a quota 3.500 metri. Possiamo per un attimo immaginare che per il Capitano la stanchezza fisica, la tensione per l’impresa di fronte alla quale si trovava in quel momento e le numerose difficoltà appena superate durante la lunga giornata, fossero state davvero importanti.

30 Giugno

“Tucci ed io siamo partiti dal campo alle 8,30 per cercare un passaggio sul ghiacciaio dello Shigri. Il ghiacciaio ha una

pendenza sui 30° e presenta vari crepacci. Per tracciare un passaggio sarebbe stato necessario un duro lavoro con risultato incerto. Tucci decide di scendere a valle sotto il frontone morenico, dalla base del frontone esce spumeggiante un

grosso corso d’acqua che si getta nel Chandra. Passaggio molto difficile per i cavalli che devono destreggiarsi tra i grandi blocchi di roccia depositati dal ghiacciaio e dalla corrente dell’acqua. Alle 17 stanchi ma soddisfatti di aver superato il primo grande ostacolo e di aver oramai la certezza di arrivare allo Spiti che geograficamente è già Tibet. Sulla sponda del fiume facciamo il 9° campo.” Forse, l’umore del Doc anche oggi deve aver giocato un ruolo importante nella stesura del suo diario. Osserviamo alcune omissioni che difficilmente possono essere sfuggite al Capitano Ghersi, se non per particolari ragioni che sfortunatamente non conosciamo. La più importante è sicuramente la totale assenza della menzione dell’incontro con un gruppo di tibetani che stanno consumando il loro misero pasto, durante la sosta sulla via di Losar. Sappiamo da Cronaca che dopo l’iniziale sorpresa e l’indifferenza dei locali davanti ai due stranieri, il freddo e sospettoso saluto tra i due gruppi si trasforma rapidamente in cordiale e vivace conversazione, non appena il professore inizia a discorrere con i tibetani nella loro lingua. Nel testo ufficiale si legge che i Nostri trascorrono insieme almeno una o due ore, consumando al loro cospetto un frugale pasto a base di carne e acciughe in scatola (particolare menzionato solo nel diario ufficiale). Ci pare così inverosimile che il Doc non ne abbia fatto parola nel suo scritto, considerate le tante risate e i commenti dello stesso ,riguardo a quei “miserabili pasti e le facce attonite dei tibetani di fronte a quegli strani cibi conservati in strane scatole di metallo”. Un’altra difformità tra i diari è relativa all’omissione nel diario del Doc della partecipazione di uno dei carovanieri alla spedizione esplorativa avvenuta alle prime luci dell’alba. Si tratta della decisione presa di comune accordo dai Nostri di muoversi davanti alla carovana al fine di trovare il miglior percorso possibile, in mezzo all’enorme massa di ghiaccio e alle ciclopiche pietre precipitate dal ghiacciaio sovrastante. Nel testo ufficiale viene menzionata la “missione esplorativa” e si puntualizza inoltre che uno dei carovanieri, il cui compito è quello di segnare con pile di pietre la pista che la carovana dovrà seguire, è partito insieme a loro. Le conclusioni dei diari riportano in pratica le stesse parole che esaltano la riuscita dell’attraversamento del pericoloso ghiacciaio e la ferma convinzione che non ci saranno più ostacoli, per raggiungere lo Spiti ed entrare finalmente in Tibet. Ancora una volta troviamo, nelle carte originali le serie di punti interrogativi con i quali Ghersi puntualizzava i passaggi e i tratti particolarmente difficili da superare “??” oppure "???" che stanno ad indicare “Strada o tratto pericoloso” come indicato nella Legenda dei simboli utilizzati. Nei racconti che il Doc faceva a proposito di queste tappe, i suoi ricordi erano inevitabilmente legati alle asperità del territorio e alle mille difficoltà con le quali la carovana aveva dovuto necessariamente confrontarsi: pietraie scoscese, ponti di ghiaccio e impervi passaggi a strapiombo su precipizi e nevai. Durante i suoi racconti, egli descriveva ogni situazione e particolare momento con dovizia di dettagli mentre con identica precisione e facilità procedeva all’elaborazione progettuale di qualsiasi arnese di sua invenzione. In quei momenti i suoi occhi si facevano sottili, semichiusi, lasciando immaginare che, mentre le mani si adoperavano solerti nella costruzione di un nuovo utensile, la sua mente stesse percorrendo lo stesso cammino di allora, rivivendo per il piacere personale e dell’ascoltatore, quegli indimenticabili momenti.

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1 Luglio

“Questo è l’ultimo campo nella valle del Chandra. Prima dell’alba i cavalli sono pronti ed iniziano la salita verso le sorgenti

del Chhota Shigri per trovare un punto per l’attraversamento del fiume. A sole tre miglia dal campo, su di un ponte di neve, la carovana passa facilmente sulla sponda destra e s’inizia così la lenta ascesa verso il passo. Verso le 12 valichiamo il passo del Kanzam (4500 mt) che divide la valle del Chandra da quella dello Spiti. Sul passo un cumulo di sassi (lhato) sostiene un ramo secco dal quale sventolano numerose strisce di stoffa (long-ta). I buddisti e bon-po che valicano il passo lasciano, in segno di omaggio e ringraziamento, alla divinità del passo, una striscia di stoffa del proprio abito e lanciano anche un grido di saluto (so-ya-la-so). I nostri carovanieri mussulmani passano in silenzio. Dopo il tramonto arriviamo finalmente al primo villaggio dopo otto giorni di cammino nella valle solitaria. Mettiamo il 10° campo (3900 mt) all’inizio del villaggio di Losar.”

Ci sono giornate storte anche per gli accademici di fama mondiale. Il testo ufficiale inizia la stesura della giornata di questo primo di Luglio, con parole che non lasciano presupporre nulla di buono per il proseguimento della stessa. Nelle parole del dattiloscritto di Ghersi, non c’è nessuna traccia di negatività o di pessimismo. Al contrario Tucci sembra particolarmente adirato dalla prima all’ultima riga di questa pagina del diario. L’accademico sembra trovare sollievo solo di fronte ai cumuli di pietre e ai sacri “lahto”, in prossimità del passo sul quale si concede un momento di sosta e di appagamento emotivo di fronte a quello che lui stesso definisce “una visione da sogno”. Si concede anche ad alcune riflessioni, sul possibile significato di queste pietre e dei petroglifi ivi osservati. Il Doc, con il suo stile inconfondibile, si lascia trasportare dai racconti e dalle spiegazioni, certamente concesse dal compagno d’avventura, ricorda il fatidico grido emesso dai fedeli buddisti e dei seguaci della tradizione Bon, in segno di riconoscenza allo spirito del passo. Sottolinea inoltre il totale silenzio dei carovanieri mussulmani nel superamento del sacro luogo. È il finale dei diari ad essere il pezzo forte della giornata. Era consuetudine del Professor Tucci mandare il Capitano Ghersi davanti alla carovana, quando costatava che quest’ultima non avrebbe raggiunto il campo prefissato prima del tramonto. Il Doc doveva allora lasciare il gruppo e partire assieme a un paio di carovanieri, carichi delle tende e dell’attrezzatura, per raggiungere il più in fretta possibile il posto tappa prefissato e sistemare il campo per l’arrivo dell’accademico e del resto della carovana. Rileggendo i due diari con questa precisazione, si conviene facilmente sul motivo per cui il Capitano Ghersi nel suo scritto parli della sistemazione del campo subito dopo il tramonto. L’illustre orientalista cita la brillantezza di Venere tra gli astri quando arriva alle tende – già montate dal Capitano, aggiungiamo noi – per far notare l’ora tarda e rimarcare in modo sarcastico l’approssimativismo e la poca affidabilità della guida locale che in quella lunghissima giornata lo aveva fatto davvero arrabbiare. Abbiamo a lungo discusso e riso, lo confessiamo, leggendo che nel diario ufficiale della spedizione e anche nella ristampa per i tipi Neri-Pozza del 2006, per quanto incompleta e ignobilmente mutilata e riadattata, si parli di una giornata, quella iniziata e terminata male, datata “31 giugno”. Righe straordinarie e degne di lode, ma dubitiamo fermamente che l’illustre professore, sia riuscito anche ad aggiungere un intero giorno al periodo di rotazione del nostro pianeta attorno al sole, nell’anno 1933. Il Doc annota nel dattiloscritto la data primo di Luglio e noi seguiremo da qui in avanti il calendario del suo diario, mentre il testo ufficiale riporta la straordinaria data del 31 Giugno!

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


2 Luglio

“Losar ha già tutte le caratteristiche tibetane pur essendo politicamente territorio indiano. La valle è ampia e anche il

fiume si divide in vari corsi. Le case sono una ventina tutte quadrate o rettangolari a due piani. Il piano terreno è un unico lo-

cale adibito a stalla per le pecore, al piano superiore c’è l’abitazione che generalmente è composta di due tre locali, uno dei quali è riservato alla cappella. Il piano terreno non ha finestre. Al piano superiore, l’abitazione, ha due o tre finestre piccole di ampiezza regolare. Il locale più grande, dove vive praticamente tutta la famiglia, è la cucina. Due o tre piccoli locali sono per deposito di materiale vario (orzo, farina, chang, ecc.). Una spaziosa veranda innanzi alla cappella (gon-kang). Tutte le case hanno il tetto piano formato da uno strato di sterpaglia di erba secca che può avere uno spessore da 30 cm a due metri secondo le varie regioni più o meno fredde. Tra lo strato di sterpaglia ed il piano portante c’è uno strato consistente di sterco di Yak, battuto, che assicura l’impermeabilità del tetto. Ad una cordicella di lana tesa tra le due bacchette sono appese varie stoffe colorate (dharani). Al mattino buona parte del villaggio è intorno al nostro campo. Tra i curiosi c’è il medico al quale Tucci rivolge un saluto in correttissimo tibetano e quindi inizia un animato dialogo tra lo stupore dei presenti. Anche due (trapa) sacerdoti prendono parte alla conversazione e lasciando il campo invitano Tucci a partecipare alla funzione religiosa che avrà luogo al tempio prima di mezzogiorno. Alle curiosissime donne tutto interessava ma la loro ammirazione è rivolta all’enigmatica chiusura lampo delle tende. Nella mattinata abbiamo visitate alcune cappelle private. Nella cappella di un sacerdote Tucci ha notato una thanka (pittura su tela) di notevole interesse ed offre subito ben 160 rupie in argento per l’eventuale acquisto. Il sacerdote, molto garbatamente, non accetta la cospicua offerta raccontando che suo padre, morente, gli disse la prosperità dei campi del villaggio è legata a quella tanhka e che quindi quella sacra immagine non deve assolutamente lasciare la casa. Nel tardo pomeriggio arrivano al campo i sacerdoti del Gompa (monastero) in abito da cerimonia e berretto giallo della setta, per offrire una danza simbolica in onore di un ci-lim-pà (uomo che viene al di là delle montagne) che è così grande conoscitore della loro religione. Questa sera abbiamo cenato circondati dalle donne del villaggio e solamente dopo abbiamo compreso che la loro presenza non era solo curiosità ma la possibilità di ottenere le scatole e lattine vuote dei nostri viveri. A tarda notte, con grande cautela, alcuni sacerdoti vengono al campo offrendo oggetti di culto e libri. Anche il medico offre per poche rupie d’argento, alcuni libri del suo mestiere.” Entrambi gli scritti seguono lo stesso canovaccio: descrizione dell’abitato di Losar, il numero di case, il tempio, le caratteristiche delle abitazioni, gli incontri con i locali e la visita delle cappelle private e delle loro biblioteche. Incominciamo a capire che effettivamente questa pagina del testo ufficiale è stata riscritta da Tucci prendendo copiosamente dagli appunti olografi di Ghersi, ne deduciamo quindi che il Professore dopo averla certamente vagliata, decise di lasciarla esattamente come stava, aggiungendovi note esplicative riguardo alla storiografia della religione locale e pochi altri elementi di carattere prettamente accademico. Questa maniera di agire è una realtà importante, alla luce della comparazione degli scritti, perché non nasconde la stima dell’accademico verso il giovane Capitano della Regia Marina e della quale il Tucci non ha mai fatto mistero, basti notare ciò che avvenne, quando il suo giovane compagno di viaggio non poté seguirlo nelle missioni successive al 1935; l’accademico dovette sostituirlo con ben altre quattro persone che assolvessero tutti i compiti egregiamente svolti dal Doc nelle missioni precedenti. La Cronaca dedica quasi mezza pagina del diario, per meglio chiarire la strategia operativa messa in atto per agevolare il recupero di preziosi manoscritti e di oggetti sacri. Ci spiega come, la maggior parte dei tibetani viva soggetta al dominio spirituale del Lama, fornendo interessanti chiarimenti sull’abuso di questo termine, da parte dei “grvapa” (semplici monaci), desiderosi di accattivarsi il rispetto e la venerazione dei locali. Il racconto si sofferma soprattutto sui primi ritrovamenti di testi interessanti per lo studio, come l’antica xilografia dell’epopea di “Keser di gLin” (si tratta del personaggio epico di Gesar o Geser) e di alcune biografie di santi tibetani.

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Mentre nella “Cronaca della Missione” ci si dilunga su delucidazioni interessantissime sui testi recuperati, il Capitano Ghersi nel suo diario si sofferma appena sulla danza cerimoniale preparata per accogliere il forestiero: il misterioso Lama-Tucci, grande conoscitore del Buddismo e della storia locale. Notiamo in queste pagine, una discrepanza tra le date e gli scritti nei due diari: le 160 rupie offerte per l’acquisto del prezioso tangkha e la motivazione del tassativo rifiuto da parte del proprietario, nel testo ufficiale sono menzionate nella chiusura del giorno 1 Luglio. Il Capitano Ghersi lo annota nella giornata del 2 Luglio, aggiungendovi una particolareggiata descrizione di alcuni colorati episodi che meglio aiutano a capire l’atmosfera e il comportamento dei locali nei riguardi dei Nostri. Questa differenza ci dà adito per formulare un’ipotesi che giustifichi il motivo per cui Ghersi, ha raccolto nel suo diario gli eventi delle due giornate, nella data del 2 Luglio. Nel trascrivere molti anni dopo, il Diario di viaggio dalla forma olografa a quella dattiloscritta, si accorse del clamoroso errore di date (31 Giugno – del quale si è fatto cenno nel nostro commento del giorno 1 Luglio), ma essendo oramai impossibile, visti gli anni trascorsi dalla pubblicazione del testo, modificarne l’imprecisione, molto probabilmente ritenne più doveroso ritoccare il suo personale diario, facendo così ricombaciare gli avvenimenti delle due diverse giornate. Se, consideriamo invece l’idea che tutto quanto ci è stato raccontato dal Capitano possa essersi svolto all’ambito di una sola giornata, si potrebbe avanzare l’obiezione relativa allo svolgimento della cerimonia durante la mattinata, alle danze sacre e profane svoltesi nel pomeriggio presso la loro tenda, come si legge nel testo ufficiale del ’34, e a tutti gli incontri e le missioni investigative svolte dai Nostri nello stesso lasso di tempo, quale contraddittorio e prova eloquente dei due giorni trascorsi a Losar. Purtroppo dai filmati di Ghersi girati in queste date, non si riesce a scoprire l’arcano. Le uniche immagini che abbiamo a disposizione, sono solamente quelle di un breve frammento che si riferisce alle danze di alcuni religiosi, e nelle quali si osserva un gruppo di monaci che danzano davanti ad una nutrita banda di monaci-suonatori, in una radura al di fuori del monastero, senza poter evincere alcun riferimento temporale in base alle ombre dei soggetti ripresi. Se la nostra prima ipotesi fosse giudicata non esatta, allora effettivamente la giornata dei Nostri dovrebbe essere definita davvero campale considerando l’intera mole di lavoro svolta dai due esploratori! Diamo dunque la possibilità al lettore, di fare qui la propria scelta di pensiero e chiediamo venia a tutti coloro che non sono d’accordo con le nostre conclusioni. Continuando la comparazione: nel testo ufficiale è descritta la giornata come interamente trascorsa a Losar, con dovizia di particolari sulla cerimonia dei monaci, presso il piccolo tempio e sul lavoro di cineoperatore del Capitano (ovvi sono i rimandi alla documentazione fotografica e al filmato preparato dall’Istituto Luce che vi invitiamo a visionare) e sulla curiosità che la macchina da presa suscita sui locali.

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


Kamzam-la, 4.500 metri — Archivio Ghersi

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Il tempio di Losar — Archivio Ghersi

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


Danza di monaci a Losar — Archivio Ghersi

Pellegrini in transito a Losar diretti a Saltanpur — Archivio Ghersi

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Danza di monaci a Losar — Archivio Ghersi

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


Monaco di Losar (Spiti) con abbigliamento per la danza — IsIAO

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Preghiera incisa su un muro mani a Losar — Archivio Ghersi

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


Losar (Spiti): Tucci legge le iscrizioni su un muro mani — IsIAO

Losar (Spiti): iscrizioni su un muro mani — Archivio Ghersi

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3 Luglio

“Mentre la carovana era pronta per lasciare il campo sono arrivati i sacerdoti del capitolo per offrire a Tucci i semi con-

sacrati chiedendo la sua benedizione. Come se fosse la cosa più naturale e logica, Tucci, con aria solenne, posa la mano destra sul capo dei Lama genuflessi. Alle 9 la carovana attraversa il fiume. Un cavallo che si è trovato in difficoltà nella corrente, viene prontamente aiutato dai Lama che si gettano in acqua incuranti della temperatura e della pesante tonaca. Alle 14 facciamo il campo 11 (3800 mt) a Kioto. Più che un villaggio è una località dove alcune casette e qualche tenda denotano un’impensabile miseria e isolamento. Da qualche giorno, abbiamo camminato e lavorato tra i 3500 e 4000 metri di quota e il nostro ritmo respiratorio e arterioso è nella norma, si può quindi dedurre che la nostra assuefazione all’ambiente è stata raggiunta e si può prevedere che non avremo disturbi nelle prossime altitudini più elevate.”

La fatidica giornata del 3 Luglio, dove finalmente i diari ritornano ad avere la stessa data e a raccontare gli eventi in maniera congrua, si apre con l’arrivo dei monaci al campo degli italiani e con la richiesta di benedizione al “Lama Rin-po-che” (la gemma dei Lama, come veniva chiamato il professor Tucci dai sacerdoti tibetani). Successivamente i diari descrivono diversamente alcuni dettagli e avvenimenti accaduti. Dopo aver menzionato l’episodio dei monaci che si gettano, vestiti della pesante tunica, nelle acque del fiume incuranti del pericolo e della temperatura dell’acqua per salvare un cavallo della carovana in difficoltà (“toltasi la tunica rossa, si cacciano nudi nell’acqua freddissima per condurre i nostri cavalli dove il guado offra minori pericoli” si legge nel testo ufficiale) il Capitano si sofferma sulla condizione fisica e sull’adattamento alla quota dopo questo primo periodo di sforzi e permanenza ad altitudini notevoli, svolgendo diligentemente anche il suo compito di medico della spedizione italiana nel Tibet Occidentale. Nel testo ufficiale si cita invece la breve tappa ad Hansi e la successiva visita alle due famiglie e al loro “tempietto con umilissima suppellettile religiosa” che si trovano a Kioto.

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


Vecchio che prega con il mulinello a Kioto — Archivio Ghersi

Donna di Kioto intenta a filare la lana — IsIAO

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Kioto — Archivio Ghersi

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4 Luglio

“Alle ore 7 leviamo il campo, il cielo è sereno e la temperatura 6°C. Attraversiamo il fiume Parilungbi che in questo punto scorre lentamente. Inizia una zona di sabbia rossa finissima che rende faticoso il passo. Oltrepassata una collinetta roccio-

sa, entriamo con sorpresa, in una vasta zona verdissima di erba rigogliosa e fitta siamo a 4100 metri di altezza. Una breve sosta in questo imprevisto paradiso verde. Un’altra collinetta e ricompare la sabbia rossa. Una lieve salita per raggiungere il passo Kibar (4200 mt). Dopo circa un miglio, la pista immette in uno spaccato roccioso strettissimo nel quale i cavalli con il carico passano su misura. Superato quest’ostacolo, troviamo all’uscita di questa strettoia, un canalone che scende, con fondo di ghiaia, a forte pendenza. Per ogni cavallo abbiamo impiegato quattro uomini due davanti e due dietro per scendere fino alla sponda del fiume. Abbiamo impiegato circa un’ora per superare 60 metri di discesa. Proseguiamo per circa tre miglia lungo il fiume e poi per un ripidissimo sentiero la carovana raggiunge il pianoro di Kibar, dove innalziamo il 12° campo (4020 mt.).” Ecco i commenti di questa giornata di trasferimento. I Nostri sottolineano il continuo mutare del paesaggio, delle gioie e delle pene dell’attraversamento di questo tratto della valle dello Spiti. Dalla piacevole sosta sul soffice prato erboso dove animali e carovanieri possono riposare, al pericoloso e terribile tratto lungo rocce scoscese e angusti passaggi (le immagini scattate durante questa giornata parlano da sole – ben cinque sono i punti interrogativi utilizzati nella carta tracciata da Ghersi per evidenziare la pericolosità del tratto appena superato) per arrivare fino a Kibar. Il diario della spedizione menziona la breve tappa al piccolo abitato di Tumlè (una capanna e due tende) e al tentativo di fare visita al locale “stregone” Bon, fedele seguace della dottrina di Gzen-Rab di Zan Zun. Per loro sfortuna lo sciamano è assente e la moglie non consente agli sconosciuti di varcare la soglia della misera abitazione, nella quale l’accademico sperava forse di poter trovare qualche cimelio o testo interessante sulla dottrina Bon e dei sui particolarissimi mistici.

La spedizione valica un passo — Archivio Ghersi

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5 Luglio

“Kibar è situata su un costone roccioso privo di qualsiasi forma di vegetazione. L’unico tempio antico è distrutto, rimane

solamente qualche metro di muro perimetrale. Visitiamo due templi che essendo di recente costruzione non offrono alcun interesse. I sacerdoti di Kibar sono molto sensibili al suono delle rupie d’argento1. Tucci ha acquistato libri ed io due lampade a burro2 in argento. Nel pomeriggio visitiamo alcune cappelle private. Verso sera abbiamo avuto la visita del Chansod del monastero di Kyi dove arriveremo dopo domani. Note: [1] Percosse e gettate in aria si stabilisce dal suono la validità. [2] Il burro è usato come olio.” I templi di Kibar non sono molto interessanti, lo deduciamo da entrambi i diari. A tal proposito Tucci avanza l’ipotesi della loro distruzio-

ne quale inevitabile risultato dell’invasione dell’esercito di Zorawar, il grande generale al servizio del Raja Singhhindu di Marmathi che tra il 1841 e il 1842 intraprese la sua campagna militare lungo il corso del fiume Indo fino a Purang. Noi dubitiamo che il generale e le sue truppe abbiano raggiunto Kibar, località decisamente fuori mano rispetto all’itinerario seguito dall’esercito nel tentativo di invadere il Tibet occidentale e aggiungiamo inoltre che tale monastero non rivestiva alcun interesse politico-strategico per la campagna militare di Zorawar. Molto più interessante è invece la visita alle cappelle private specialmente quella della famiglia Cianciublin, una delle poche famiglie nobili del paese. L’arrivo nel pomeriggio del Chansod (amministratore e quindi anche contabile) del monastero di Kyi, sembra essere l’evento più importante del giorno nei diari di entrambi gli esploratori. Il testo ufficiale ricorda che il Chansod appena incontrato è una vera personalità, ha viaggiato fino a Lhasa, s’intende di molte cose e non disdegna di fare qualche buon affare con i Nostri. Il Capitano annota l’acquisto di alcuni libri da parte del Tucci e di due lampade in argento alimentate a burro di yak, da parte sua. Interessante è l’accenno dell’acquisto delle due lampade d’argento fatte dal Doc in quella giornata, particolare che non possiamo tralasciare avendo avuto occasione di poter ammirare per lungo tempo i due cimeli sul ripiano in marmo del camino, nel grande salone di casa Ghersi. Il diario ufficiale si chiude facendo intendere al lettore come, anche in queste remote regioni del mondo, il denaro sia in grado di poter aprire molte porte, anche le più sacre.

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Campo 12° a Kibar (4.020 metri) — Archivio Ghersi

Un lhato all’ingresso del monastero di Kibar — Archivio Ghersi

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6 Luglio

“Tucci io e tre uomini partiamo per Chikim ripassando per quella orrenda strada di ieri. Il villaggio è antichissimo e fuori

dalle carovaniere. Visitiamo le case più ricche dove possiamo senza difficoltà fotografare libri di particolare interesse e tangka di notevole valore. Tucci riesce ad acquistare un Lakching (copertura in legno per libro sacro) che da un primo esame delle incisioni potrebbe essere opera di un artista indiano salito all’altipiano nel periodo del grande Padmasanbava. Nel pomeriggio siamo ritornati al campo di Kibar.” Chiunque abbia preso parte ad una spedizione con una carovana al seguito sa benissimo che prima di muovere avanti e indietro animali e carico, c’è bisogno di una vera ed importante motivazione. Ghersi puntualizza che lui, il professore ed altri tre uomini hanno fatto una deviazione per investigare e trovare oggetti e reliquie lasciando al campo sirdar, carovanieri, animali e il carico. Nel diario ufficiale si menziona la visita a Chikim senza ragguagli sul numero dei partecipanti ma focalizzando lo scritto sulla possibilità di fotografare, acquistare libri sacri e antiche reliquie. Interessantissimo è l’excursus nel testo ufficiale sulla personale ricerca dedicata alla medicina tradizionale tibetana, sull’importanza di una catalogazione precisa delle erbe e su di un’auspicabile studio comparato con la medicina scientifica occidentale tale che porti ad un reciroco vantaggio di conoscenze e un benefico utilizzo in ambito curativo. Stranamente il Doc, ufficiale medico nonché dottore della spedizione, in questa giornata non ne fa menzione alcuna. Eppure sovente Ghersi amava ricordare le strane pozioni, le bizzarre ricette nonchè le cure e le terapie delle quali era stato testimone sul Tetto del Mondo. I suoi racconti sulle avventure dei dottori tibetani visti all’opera in tante occasioni erano sempre precise dettagliate e scevre da qualsiasi pregiudizio.

7 Luglio

“Tucci rimanda la partenza perché oggi è giorno di festa essendo la vigilia di luna piena. Kalil è stato invitato da Tucci

a portare l’omaggio di tre rupie (com’è d’uso) al medico di Kibar con la preghiera di portare al campo un campionario delle erbe o minerali medicamentosi in uso e loro impiego. Tucci, in tutti i viaggi, ha sempre raccolto erbe o altre sostanze ritenute medicamentose avendo il desiderio di fondare in Roma un primo centro di studi sulla medicina tibetana ed

orientale. Tucci oggi ha aggregato alla carovana (con adeguata ricompensa) un simpatico Lama del monastero di Kaze che potrà coadiuvarlo nella ricerca, e forse con maggiori facilitazioni, nei monasteri che visiteremo. In occasione della festa del villaggio il medico, che è anche il custode del tempio, offre un pranzo a tutti i fedeli. Noi siamo stati invitati. Alle 16, sullo spiazzo sotto il tempio, i sacerdoti muniti di grossi tamburi a piede e piatti, richiamano i fedeli al tempio. In breve quasi tutti i fedeli del villaggio sono sul piazzale davanti al tempio, mentre all’interno del Gompa i sacerdoti hanno dato fiato alle trombe e battono con violenza sui grossi tamburi. Sul terrazzo le donne, nell’attesa, filano la lana. I giovani aiutano per preparare i vari recipienti di rame per il thè e chang1. I sacerdoti che si produrranno nelle simboliche danze escono dal tempio, si siedono in terra al centro del terrazzo ed iniziano monotone preghiere al suono attutito dei tamburi. Inizia subito la distribuzione del Tsampà (the, farina d’orzo, acqua e soda) servito nelle tradizionali tazze di legno rivestite interamente di lamina d’argento. Il te tibetano (tsampà) è veramente disgustoso ma per ovvie ragioni abbiamo dovuto abituarci a deglutire simile orrenda bevanda. Due sacerdoti rientrano nel tempio e dopo breve tempo ritornano sul terrazzo e al ritmo dei piatti e tamburi, iniziano un’elegante danza con spade. Terminate le danze i giovani distribuiscono altro tsampà. Si sentono intanto suono di piatti e preghiere provenienti dall’interno del tempio. È iniziata la fun-

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zione per preparare la discesa della divinità nella persona che dovrà sostenere la lotta contro gli spiriti maligni. Il posseduto dalla divinità (il medico Lama) esce dal tempio armato da una grande spada in una mano mentre nell’altra tiene una fiaschetta contenente chang. I tamburi, le trombe e i campanelli producono un frastuono assordante. Il danzatore è immobile in posizione di guardia. Improvvisamente inizia una violentissima scherma, pesanti fendenti cadono sugli spiriti maligni che evidentemente reagiscono con altri colpi che il danzatore abilmente ripara con la spada. Dalla fiaschetta beve alcuni sorsi di chang. I fedeli lo incitano alla lotta. Improvvisamente il danzatore si ferma, abbassa lentamente la spada, e cade a terra apparentemente privo di sensi. I Lama assistenti lo trasportano a braccia nel tempio. I giovani portano grandi brocche di chang. I fedeli eccitati dal chang e dalla vittoria iniziano i cori di ringraziamento alla divinità. A tarda sera si sentono ancora, in lontananza, alcuni gruppi di fedeli che cantano in onore della divinità protettrice del villaggio. Note: [1] birra d’orzo” Oggi è un giorno di festa. Ghersi apre la pagina del suo diario scrivendo che il professor Tucci decide di rimandare la partenza da Kibar al giorno successivo, mentre nel diario ufficiale non si fa alcun riferimento al cambio di programma. Il Doc recupera la dimenticanza del giorno prima annotando la costante ricerca di piante medicamentose e di testi sulla medicina tradizionale da parte dell’eminente accademico e ci ragguaglia persino sul futuro progetto del professore stesso di voler aprire un centro studi sulla medicina tibetana e orientale nella città capitolina. Tra gli episodi più interessanti della giornata fa spicco la figura del nuovo personaggio appena assoldato dalla spedizione italiana: si tratta di un simpatico Lama dell’ordine del monastero di Kaze. Il suo compito sarà quello di agevolare il professore nella ricerca (e soprattutto nell’acquisizione, diciamo noi) di preziosi testi e manoscritti dalle biblioteche dei templi che visiteranno. È curioso notare come i Nostri raccontino in maniera diversa “l’arrivo” di questo nuovo partecipante. Mentre il diario ufficiale si apre con il vocabolo “aggreghiamo” alla spedizione un giovane Lama, senza specificare come ciò sia avvenuto, il Doc esplicitamente scrive che “il Tucci assolda” il giovane Lama con una “adeguata ricompensa” (e noi immaginiamo che si sia trattato di sonanti rupie d’argento) che conferma quanto constatato nelle giornate precedenti, sul fervido interesse per il denaro da parte di alcuni religiosi. Sullo svolgimento della complessa cerimonia svoltasi nel pomeriggio, le pagine dei diari si assomigliano molto, tranne che per la figura del principale officiante, quello per cui la folla di persone si è radunata fuori dal tempio. Il Doc lo definisce “medico-Lama” mentre il professore usa i termini “stregone-Lama-medico”. Facciamo chiarezza. La cerimonia, immortalata con scatti e riprese meravigliose, ricorda da vicino una cerimonia di possessione e trance, tipica della tradizione sciamanica himalayana. Ne possiamo essere assolutamente certi dalle parole utilizzate nel diario ufficiale, dove il professore scrive che gli spiriti invocati, dovranno discendere nel corpo dell’officiante al fine di combattere demoni e folletti che minacciano la vita delle persone, la prosperità dei loro animali, nonché la fertilità dei loro campi. Le fasi culminanti del rito, descritte nei due testi, ripercorrono esattamente le tappe caratteristiche di un rituale sciamanico con tanto di svenimento conclusivo da parte del celebrante.

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Una bella famiglia di Kibar — Archivio Ghersi

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Kibar (Spiti): danza di uno sciamano — IsIAO

Kibar (Spiti): banchetto per la festa della luna piena — IsIAO

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Kibar: distribuzione di tsampa e chang — Archivio Ghersi

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Bambina di Kibar — Archivio Ghersi

Il Lama del monastero di Kaze ingaggiato da Tucci a Kibar — Archivio Ghersi

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8 Luglio

“Alle ore 9 partiamo per il grande monastero di Kyi. A mezzogiorno sistemiamo già il campo 13 (3800 mt) su di un pianoro alle falde di una collina. Il monastero è costruito in vetta di una montagnola di forma perfettamente conica. Il monastero è

amministrato dal Chansod che noi abbiamo già conosciuto a Kibar e che attualmente è anche capo interinale dello Skushok assente. Lo Skushok (reincarnazione di Rinchenzampo) è minorenne ed attualmente è studente a Thashilumpo.” Deduciamo dagli scritti che la giornata del Capitano deve essere stata impiegata in faccende logistiche. Il campo appena collocato si trova sul fondo valle mentre il monastero di Kyi è costruito proprio sulla cima di una collina che si distacca dal crinale spartiacque; facile supporre che il Capitano abbia trascorso la giornata per sistemare al meglio il campo, intento a fissare le tende in modo sicuro grazie a superbi marchingegni da lui stesso inventati per evitare che i paletti di fissaggio potessero saltare a causa di forti e improvvise raffiche di vento. Inoltre la sua giornata deve essersi esaurita nel riorganizzare il materiale a loro disposizione, mentre quella del professore interamente votata alla preparazione della visita al monastero. Visita che si preannuncia interessante, considerato che si tratta del luogo dove abita la reincarnazione del grande Rincenzampo, colui che attorno all’anno Mille tradusse i testi buddisti indiani in lingua tibetana, contribuendo in maniera fondamentale alla diffusione della dottrina del Buddha in tutto il Tibet occidentale. Tucci nel diario ufficiale si sofferma sulla figura del giovane Skushok del monastero di Kyi, in quanto “tulku” (incarnato) e “bodhisattva” (colui che rinuncia alla beatitudine del Nirvana e fa voto di rimanere in questo mondo per fornire con l’esempio e la parola gli esseri umani), dando ragguagli preziosi per meglio comprendere l’importanza di queste figure nella teologia, nella gerarchia e nella storia del buddismo lamaista.

9 Luglio

“Alle ore 9 iniziamo la ripidissima salita verso il monastero. Poco prima di giungere all’entrata incontriamo un pellegrino che procede verso il basso con una singolare e complicata serie di posizioni. Inizia pregando in posizione eretta indi, s’in-

ginocchia e prega brevemente, si sdraia bocconi con le braccia protese in avanti strisciando con le palme delle mani sulla terra. Si rialza, fa due passi in avanti, e ricomincia (se la sua meta è il monte Kailasa o il lago di Manasarovar io penso che impiegherà circa tre anni per porre a termine alla sua penitenza). Entriamo nel monastero ricevuti dal Chansod che ci guida, attraverso vicoli e scale semibuie, sino ad un terrazzo alla sommità del monastero dove troviamo, già preparato, tutto il necessario per il tè (tsampa). Il Chansod mette una stola bianca (Kata) al collo di Tucci, tradizionale segno di omaggio. Per la prima volta, da quando siamo entrati nel Tibet Indiano, ho costatato come sia rigorosamente applicata, anche nei minimi particolari, la gerarchia. A Tucci il thè è stato servito in una tazza di giada con coperchio d’argento, a me in una tazza d’argento senza coperchio, ed al Chansod in una tazza di legno ricoperta internamente con lamina d’argento. Anche il mio cuscino è più basso di quello di Tucci. I giovani sacerdoti ci osservano con molta curiosità. Il Chansod ha organizzato sul terrazzo una danza simbolica. Il complesso dei suonatori è composto da 14 persone. Tutti gli strumenti musicali ammessinecessari alla liturgia sono presenti. Perfetto il sincronismo della danza con il ritmo musicale. Tutti i danzatori portano bellissime maschere mostruose o benigne ed indossano costumi di seta cinese. Prima di lasciare il monastero il Chansod offre a Tucci alcuni oggetti di culto che afferma siano di sua proprietà.” L’incontro con il “pellegrino” (nel testo ufficiale si tratta di un “Lama itinerante”) apre le pagine di entrambi i diari. Mentre il Doc fornisce ragguagli sulla particolare tecnica del “kiancià”, pellegrinaggio-prosternazione-genuflessione, l’accademico chiosa sull’episodio

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con il pagamento di una rupia al pellegrino, per “compensare” il sacrilegio perpetrato con le riprese e le fotografie scattate dal Capitano Ghersi al devoto tibetano in pellegrinaggio. Il ricevimento preparato dal Chansod del monastero di Kyi per i due stranieri è descritto dettagliatamente in entrambi i diari. Non poche sono le discrepanze: il “kata”, la sciarpa bianca in seta o cotone, utilizzata in molteplici occasioni e rituali nel buddismo lamaista che, secondo il diario ufficiale del Professor Tucci, il Chansod mette al collo di entrambi gli ospiti, mentre nella versione di Ghersi solo al Professor Tucci; il disgusto del Capitano Ghersi per il tè tibetano che egli è costretto a bere per non offendere il padrone di casa (lo si legge nel libro Cronaca, mentre lo ritroveremo rindondande solo in seguito nelle pagine del diario del Doc, che ci raccontano tutto il suo disgusto per la tradizionale bevanda tibetana) e ancora come nel diario di Ghersi si legge della vendita di alcuni oggetti sacri che lo stesso Chansod offre all’accademico, puntualizzando che tutto ciò avviene all’interno del monastero subito dopo lo svolgimento delle danze rituali. Nel testo ufficiale si ritrova invece, proprio nell’ultimo paragrafo di questa giornata, l’inattesa visita del Chansod presso la tenda dei Nostri, avvenuta dopo il tramonto, e della conseguente “offerta” da parte della stessa autorità tibetana di alcuni oggetti sacri di sua proprietà. A tale riguardo possiamo affermare, senza ombra di dubbio, che si trattò piuttosto di una vera e propria vendita, ricordando che l’offerta di oggetti personali era il modo più consueto per affermare che tali cimeli potevano essere venduti liberamente dal proprietario senza infrangere alcun vincolo monastico e sacroreligioso, inoltre le parole del Tucci “quando le poche persone del villaggio si sono ritirate e l’oscurità tutto nasconde” ci confermano come suddette compravendite avvenissero in modo confidenziale, lontano da occhi indiscreti. In ultimo, solamente nel testo ufficiale viene menzionata la visita da parte di August Hermann Francke, risalente al 1909 e sottolineato quanto il ricordo di quel missionario, originario della Slesia, per anni alle prese con la traduzione in tibetano della Sacra Bibbia fosse ancora presente in alcuni anziani del villaggio. Precisiamo inoltre che per la prima volta nella stesura del diario ufficiale, la mano scrivente non pare essere né quella del Tucci, né quella del Ghersi ma di una terza voce narrante. In realtà si tratta, a nostro avviso s’intende, di una licenziosità poetica, adottata dall’eminente professore nell’elaborazione finale del testo pubblicato.

Lama della setta dei Perfetti — Archivio Ghersi

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Campo 13 a Kyi, 3.800 metri — Archivio Ghersi

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Veduta del monastero di Kyi, 4.100 metri — IsIAO

Kyi (Spiti): un pellegrino avanza prostrandosi a terra — IsIAO

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Kyi (Spiti): danza monastica — IsIAO

Kyi (Spiti): danza monastica — Archivio Ghersi

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Kyi (Spiti): danza monastica — IsIAO, Arch. Ghersi

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10 Luglio

“A) ...alle 9 partiamo per Kaze. Percorso breve e facile. Alle 15 abbiamo già alzato il nostro 14° campo (3750 mt) in vicinanza delle poche casette di Kaze.

B) Alle ore 12 valichiamo il passo (4200 mt), e dopo una breve discesa arriviamo in vista del monastero che si presenta come una fortezza medioevale, mura altissime costruite sull’orlo di dirupi profondi. Le mura sono colorate a strisce di colore rosso, blu, bianco dall’alto al basso. Giunti a meno di 50 metri dall’entrata del monastero il nostro Lama avverte Tucci che alla nostra sinistra c’è un Mani di notevole lunghezza... il Mani è un muretto alto circa un metro e largo +50-100 cm. La lunghezza è varia. Tutte le pietre che sono appoggiate sulla parte alta portano incise preghiere, e talvolta notizie varie di carattere religioso. In vicinanza di alcuni monasteri i Mani sono talvolta composti da 108 Ciorten (Mc-od-rten in tibetano). Quando si deve oltrepassare un Mani, bisogna procedere avendo il Mani sulla propria destra.” Abbiamo un problema tecnico-interpretativo da superare. Nel testo dattiloscritto di Eugenio Ghersi la pagina che riporta la data del 10 Luglio manca della parte iniziale – dove si trova abitualmente il numero della pagina nel dattiloscritto – presumiamo si tratti della pagina mancante numero 37. Nel proseguimento della stessa pagina, è stata dattilografata l’intera giornata dell’11 Luglio. Il problema sorge con la pagina successiva, la numero 38, dove il Capitano inserisce assieme allo schema del “mani” (muretto sacro) e dell’ingresso del monastero di Kaze, una parte scritta, priva di data che riporta la descrizione degli avvenimenti accaduti tra le ore 12 e un’ora imprecisata del pomeriggio, di un giorno che supponiamo sia il giorno 11 Luglio – nel nostro testo contrassegnato con il paragrafo B – giorno peraltro che nel testo ufficiale non esiste. Infatti, la cronaca ufficiale ci aiuta parzialmente a capire l’arcano, poiché concentra le due giornate in un unico passaggio contraddistinto dalla data: 10 Luglio, riprendendo poi il resoconto della spedizione con la data del 12 Luglio. Analizzando il testo del Tucci, che si dilunga su descrizioni e delucidazioni che si riferiscono al monastero di Kaze e agli eventi storici a esso collegati, ritroviamo alcuni elementi che ci possono aiutare a comprendere il susseguirsi degli eventi, in quei due fatidici giorni. La marcia del giorno 10 Luglio è stata sicuramente breve, si ritrova in entrambi i diari ed è anche facile dedurlo dall’osservazione attenta delle carte topografiche disegnate dal Capitano. Tucci menziona l’episodio del rituale al quale è chiamato ogni devoto pellegrino e cioè quello di girare attorno al “mani”, situato di fronte all’entrata del monastero e lo pone cronologicamente dopo la discesa, da un faticoso e ripido passo (a 4.100 mt). Sappiamo che un centinaio di metri prima di arrivare al passo, “la compagnia” compie una breve sosta per rifocillarsi. Il professore annota che il Lama è stremato non solo per lo sforzo fisico e per l’elevata temperatura ma anche per un malore allo stomaco, dovuto probabilmente al formaggio appena consumato cortesemente offerto dai Nostri. L’accademico si dilunga sul particolare annotando che il Lama, trova sollievo ingerendo una roccia friabile trovata lungo il cammino. È lo stesso Lama a consigliare ai Nostri di masticare il gambo dei cardi selvatici per lenire la tremenda sete. L’episodio è lo stesso che il Capitano Ghersi riporta viceversa, nella data del giorno 11 Luglio. La dovizia di dettagli è tale che non v’è alcun dubbio si tratti della stessa vicenda; la breve sosta verso mezzogiorno, a un centinaio di metri dal valico, la temperatura di 55°C, la masticazione di una pietra friabile da parte del Lama e il famoso midollo dei cardi che il Lama consiglia ai Nostri vivamente, di ingerire per combattere l’arsura. Dopo quest’analisi dettagliata, possiamo avvalorare la nostra ipotesi come sostenibile e che la pagina senza numero del dattiloscritto sia effettivamente la trentasette. Così come possiamo affermare che la pagina 38 del diario di Ghersi sia stata scritta relativamente alla sola giornata del 10 Luglio, dal superamento del passo all’arrivo davanti al monastero di Kaze. Abbiamo quindi riportato una seconda volta il paragrafo, inserendolo cronologicamente all’interno del diario del Capitano, nel giorno 11 Luglio, contrassegnandolo con la lettera C.

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


11 Luglio

“Alle 8,30 partiamo per il monastero al quale appartiene il nostro Lama ingaggiato dalla carovana a Kibar. Noi, il Lama e

due uomini iniziamo la salita per un sentiero ripido e sassoso che rende faticosa la marcia. A mezzogiorno ci fermiamo ad un centinaio di metri dal passo per una breve sosta (la temperatura è di 55°) il nostro Lama rompe alcuni sassi e ne ingurgita alcuni pezzetti assicurando che sono ottimi per migliorare la respirazione a quest’altitudine, ed a noi offre il midollo dei cardi selvatici, ottimo dissetante e dal benefico effetto sulla respirazione. C) Alle ore 12 valichiamo il passo (4200 mt), e dopo una breve discesa arriviamo in vista del monastero che si presenta come una fortezza medioevale, mura altissime costruite sull’orlo di dirupi profondi. Le mura sono colorate a strisce di colore rosso, blu, bianco dall’alto al basso. Giunti a meno di 50 metri dall’entrata del monastero il nostro Lama avverte Tucci che alla nostra sinistra c’è un Mani di notevole lunghezza... Il Mani è un muretto alto circa un metro e largo 50-100 cm. La lunghezza è varia. Tutte le pietre che sono appoggiate sulla parte alta portano incise preghiere, e talvolta notizie varie di carattere religioso. In vicinanza di alcuni monasteri i Mani sono talvolta composti da 108 Ciorten (Mc-od-rten in tibetano). Quando si deve oltrepassare un mani, bisogna procedere avendo il Mani sulla propria destra. All’entrata siamo ricevuti con particolare cordialità dal Chansod e dai 18 monaci del monastero. Nei tempi andati i monaci erano, a quanto si dice, oltre 200. Circondati dai monaci, attraversiamo spaziosi cortili ed ampie scale per giungere poi ad una grande sala dove troviamo pronto il tè e ciuly (1). Dopo il tè i monaci si ritirano per preparare una danza in onore di Tucci. La danza è apprezzabile, eseguita con molto impegno, ma certamente modesta in paragone a quella di Kyi. Nelle biblioteche e nelle cappelle Tucci non ha trovato opere di particolare interesse. Tucci prima di lasciare il monastero ha deposto davanti ad un altare un discreto numero di rupie quale segno di devozione. Al tramonto siamo già al campo.”

Iniziamo dalla fine. Le biblioteche del monastero di Kaze non sono particolarmente interessanti, Tucci le definisce “povere”, ciò nonostante i Nostri non tornano al campo a mani vuote. Ancora una volta è il professore a scrivere sul diario ufficiale a proposito del Lama che li accompagna, e come lo stesso lo aiuti ad acquisire qualcosa di interessante. Come Ghersi sovente raccontava, il professor Tucci, il cui rango in Tibet era quello di un “Lama Rimpoche”, non poteva certo comportarsi da mero “compratore” di testi ed opere artistiche delle biblioteche e dei templi che visitava. Svolgere queste missioni delicate, era compito di chi lo accompagnava. Tucci valutava e dava istruzioni precise al suo accompagnatore (il Lama di Kaze, oppure il Capitano Ghersi) che eseguiva la trattativa e l’acquisto. Il Doc amava questi momenti in cui, come diceva lui, “il grande orientalista si comportava come un comune mortale” e ancora lo descriveva in questo modo: “a volte era così rapito dalla possibilità di possedere questo o quell’antico manoscritto, che smaniava come un ragazzino in un negozio di giocattoli, tirando la madre per il vestito perché così comprasse il tanto desiderato balocco”. Nel nostro caso è curiosissimo vedere come l’accademico riesca ogni volta a descrivere tali situazioni, senza macchiare l’immagine del “Lama Rimpoche”. La riga del diario ufficiale che ritroviamo subito dopo l’acquisizione di “qualche cosa di interessante” dalla biblioteca del monastero, ci informa della generosa donazione fatta dalla spedizione italiana, giustificandola come “contributo al convento ed ai suoi pochi abitanti”. Veniamo al tragitto della giornata. Il motivo della scelta, infelice diremmo noi, del primo itinerario trova invece una ragionevole spiegazione. Ghersi scrive che la partenza del giorno 11 Luglio avviene attorno alle ore 8,30 della mattina, i Nostri hanno quindi a disposizione l’intera giornata per la visita del monastero, ma invece di dirigersi direttamente verso di esso, direzione Est-Nord-Est, puntano evidentemente a Nord per raggiungere il valico sul costone che delimita ad oriente la valletta del fiume Shilla. Tucci nel diario ufficiale scrive che le ricerche al fine di raccogliere preziose informazioni sulla presenza di un tempietto Bon nella valle

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dello Shilla svolte dal fido Norbu, uno dei sirdar della carovana, “persona intelligente e capace” come lo definisce l’accademico nel diario ufficiale, sono risultate negative e che lo stesso “ritorna stanco di sera dalle sue esplorazioni” con un amaro “nulla di fatto”. La frase appena citata la si trova all’inizio della pagina ufficiale del giorno 10 Luglio e questo avvalora la nostra ipotesi che l’intera giornata trascorsa sia stata unicamente una tappa di avvicinamento. Analizzando in maniera più approfondita le carte tracciate dal Capitano, possiamo capire meglio quanto sia avvenuto. Studiando la carta topografica contrassegnata come Foglio 4, si nota come il percorso che dal campo 14 porta verso il monastero di Kaze, segua due vie, una per l’andata ed una diversificata per il ritorno. Uno dei tracciati scavalca, per ben due volte, lo spartiacque a Sud della vetta del Dangmacha (5.100 mt.), l’altro invece segna un percorso più diretto, passando a mezza costa, evitando valichi e attraversamenti. Seguendo le note dei due diari deduciamo che il primo tragitto appena riportato, nel quale sono citati il valico a 4.100 metri e l’insopportabile calura, sia stato quello di andata, mentre per quello del ritorno sembra sia stato seguito itinerario più diretto e ripido, tant’è che nel diario ufficiale si parla di un ritorno verso le tende “scendendo giù a precipizio”. Con ogni probabilità la spedizione italiana cercava di raccogliere il maggior numero di informazioni, sfruttando al massimo il tempo a disposizione. Raggiungere il monastero su questa via avrebbe quindi consentito di esplorare lo spallone orientale della valletta dello Shilla e ad avere una discreta panoramica di questa parte dello Spiti, sia per motivi cartografici e logistici ma soprattutto per poter svolgere una ricerca visiva del piccolo abitato di Lanja e del tempietto Bon. Quel tempietto che riteniamo fosse particolarmente importante per le ricerche del professore e che il giorno precedente, mentre il resto della carovana muoveva verso Kaze, il prode Norbu, era andato inutilmente a cercare e che non venne mai trovato. Osserviamo una piccola e quasi insignificante dissomiglianza tra i due diari; nella descrizione del monastero di Kaze, l’indicazione dei colori della strisce decorative verticali sui muri del complesso architettonico, per il Tucci sono “bianche rosse e nere”, mentre per Ghersi “rosso, blu, bianco”. Ben sappiamo che questo particolare non è né di importanza vitale, né di interesse scientifico o storico, ma vuole solamente attenersi alla realtà dei fatti come meritano le due memorie. Facciamo inoltre presente che nel documento filmato della spedizione italiana montato dall’Istituto Luce pochi anni dopo il loro ritorno in patria, la visita al monastero di Kaze precede erroneamente quella del villaggio di Kyi. Fu proprio Ghersi ad accorgersi di quell’errore. Stavamo guardando una copia di quel filmato, riversato su una cassetta VHS, di quelle immagini che egli stesso aveva girato cinquant’anni prima, quando, ad un tratto balzò dalla poltrona e puntando l’indice contro il teleschermo disse: “Ma chi diavolo mai ha montato le immagini in quel modo? Come si può fare un errore del genere!” e scuotendo la testa precisò che il monastero di Kaze cronologicamente seguiva quello di Kyi e non viceversa.

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


Schema dell’ingresso del monastero di Kaze — Archivio Ghersi

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Monastero di Kaze, 4.100 metri — Archivio Ghersi

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


Kaze: danze monastiche — Archivio Ghersi

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12 Luglio

“Breve marcia da Kaze a Lithang. In una zona erbosa facciamo il 15° campo (3600 mt).” I casi sono due: o questa giornata non deve essere stata particolarmente stimolante per il Capitano Ghersi, oppure il suo umore deve aver contribuito alla cancellazione mentale degli avvenimenti del giorno. La breve e facile marcia di fondo valle è invece particolarmente significativa per il Professor Tucci che non solo trova grande sorpresa nell’apprendere che nell’abitato di Lithang il monastero appartenga alla scuola buddista dei Nigma-pa (la scuola de “gli antichi”) e più precisamente ad un sottogruppo degli stessi che si auto-definisce Drongcen (“dei perfetti”) bensì per il lungo colloquio avuto con uno dei monaci, che fornisce al Tucci singolarissime informazioni sulla teologia e filosofia di questa particolare scuola di pensiero buddista. La parte centrale del diario ufficiale è per noi una delle più accattivanti dell’intero libro. Il professore manifesta tutta la sua ammirazione per il modello religioso orientale, quello più vero e profondo, che riconduce l’essere umano verso il ricongiungimento con verità eterne e trascendenti, lontane anni luce dall’effimero e dal fenomenico che imprigionano l’Occidente in un eterno purgatorio.

13 Luglio

“La carovana al comando di Abdul (il cuoco), parte per Drangkar mentre noi, il Lama di Kaze e Kalil, partiamo per Lhalung

dove arriviamo nel pomeriggio. Facciamo il 16° campo (3900mt). Abbiamo portato un solo cavallo con le tende e lo stretto necessario per un giorno. Verso sera visitiamo il tempio, attribuito a Rinchenzampo, ed io fotografo tutti gli affreschi e statue che Tucci ritiene di maggior interesse. Su di un altare Tucci nota una piccola statua in legno di notevole fattura e probabile opera di un artista indiano. È una statua che merita di essere esaminata e studiata con molta attenzione. Potrebbe risalire ai tempi della rinascita del buddismo in Tibet quando l’espandersi della civiltà mussulmana ha spinto i seguaci del Budda a salire sull’altopiano. È evidente che acquistarla sarebbe stato impossibile.” È il giorno in cui Ghersi si cimenta con le apparecchiature fotografiche per immortalare opere d’arte in ambienti quasi privi di luce naturale e di rimando, affrontare tutte le problematiche per produrre scatti leggibili in luoghi semioscuri perchè possano essere poi studiati dal professore, una volta rientrati in Italia. Ci raccontava il Doc a suo tempo, che ogni qual volta dovesse far uso dei sali di magnesio, per poter avere la luce sufficiente a scattare una fotografia, l’ambiente si riempiva di fumo, tutti i presenti fuggivano ed era necessario attendere alcune decine di minuti prima di poter scattare la successiva. Aggiungeva inoltre, che la luce diffusa del “lampo di magnesio” in piccoli ambienti, era migliore di quella ottenuta da una lampada elettrica, data l’omogeneità della diffusione; al contrario la luce elettrica della torcia produceva un fascio di luce potente ma concentrata. Come sottolinea Oscar Nalesini, nel testo dedicato ad Eugenio Ghersi, il compito di fotografo della spedizione era tutt’altro che semplice. Lo sviluppo della pellicole avveniva di sera, all’interno di una tenda nel campo appena sistemato. Il Capitano aveva realizzato un manicotto di tela nera che utilizzava quando le pellicole venivano estratte dalle macchine fotografiche e caricate nel tank per lo sviluppo. L’altitudine e le basse temperature della notte influivano sui bagni e sui tempi dello sviluppo. La dimestichezza e la professionalità del Capitano in questo preziosissimo lavoro, sono state oggetto di ammirazione da parte di molti studiosi tra i quali vogliamo ricordare Deborah Salter-Klingburg docente e ricercatrice presso l’Università di Vienna. Ancora Nalesini, evidenzia come l’opera fotografica di Ghersi andò ben oltre la documentazione dei monumenti e delle opere d’arte, il suo spirito era mosso dalla medesima pulsione investigativa che animava Tucci. L’archivio che oggi porta il nome del grande orientalista italiano, conta oltre 16.000 scatti, molti dei quali realizzati dal nostro Capitano, e risulta essere ancor oggi, materiale di grandissima

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


importanza per lo studio storico e culturale di quelle regioni. Durante la giornata, nella quale il resto della carovana prosegue il percorso prefissato verso Drangkar, il Nostro piccolo gruppo raggiunge l’abitato di Lhalung. Il motivo di questa separazione è la visita al tempio di cui il Professore aveva recuperato le preziose informazioni nel testo dello Shuttleworth (Memories of the Archealogical Survey of India) e nel quale lo studioso inglese descrive l’importante collezione d’opere d’arte ivi conservate. Tra tutti i capolavori fotografati quel giorno, uno in particolare colpisce i Nostri. Si tratta di una statua in legno del Buddha, “messa in un cantuccio” come laconicamente si legge nel testo ufficiale, sottolineando che “par essere con ogni probabilità” una scultura di fattura indiana, probabilmente coeva allo stesso periodo di fondazione del tempio. Il tentativo di acquisto della statua non va a buon fine, in quanto l’opera sacra è considerata dai Lama locali la raffigurazione della deità protettrice del tempio e dell’intero villaggio; venderla sarebbe un vero sacrilegio. Ma a tal proposito, il nostro “Lama Rimpo-che” Giuseppe Tucci, tiene in serbo il profetico asso nella manica.

14 Luglio

“Prima del sorgere del sole Tucci fa chiamare il Lama di Kaze al quale racconta che durante la notte ha avuto una visione

della divinità che gli ha espresso il desiderio di seguirlo nel suo pellegrinaggio e poi nella sua cappella privata (Roma). Le

statue delle divinità che conservano integralmente la consacrazione, possono spostarsi liberamente senza limiti di tempo e di spazio. Il capitolo impressionato e sorpreso da questo racconto, dopo aver consultato gli anziani, decide di interpellare direttamente la divinità. Questa mattina il vecchio sciamano del villaggio sarà chiamato al tempio. Noi siamo stati invitati alla complicata cerimonia durante la quale la divinità esprimerà direttamente la sua volontà. Alle ore 10 tutti sono al loro posto. Davanti all’altare2 è lo sciamano che sarà posseduto dalla divinità. A semicerchio, in torno allo sciamano, il capitolo4. Al di là dell’altare la divinità (la statua in legno)1. Nell’angolo a sinistra dell’entrata Tucci7 e Ghersi6. Alla parete sinistra il decano degli anziani5. In quest’aria di mistero, nel tempio semibuio, Tucci è, come sempre, sereno e tranquillo, mentre io, che per la prima volta sto per assistere ad una cerimonia eccezionale, sento una certa emozione. Sull’altare sono ben disposti i vari strumenti della liturgia buddistica sacra e magica: il kangling, il damaru, il porbu, e le stoffe colorate. Lo sciamano indossa una tunica bianca con bordi rossi alle maniche ed al bordo inferiore ed in testa una parrucca multicolore di piccole trecce. Nella mano destra tiene un fascio di canne che termina in alto con una corona d’argento dalla quale pendono strisce di stoffa colorata. I Lama assistenti hanno ciascuno uno strumento, un damaru, un campanello, i piatti, un tamburo grande, e un cimbalo. La funzione inizia con un caratteristico rullo del tamburo e quindi di tutti gli strumenti. Le nostre orecchie europee non riescono ad afferrare un ritmo ma solamente un gran rumore. Lo sciamano è seduto su un cuscino davanti all’altare, immobile in profonda meditazione. Gli assistenti, ogni tanto, gli spruzzano in viso acqua benedetta e gli offrono chang contenuto in una fiaschetta ornata da quattro piccoli teschi. Il suono dei vari strumenti diviene assordante mentre i monaci pregano ad alta voce. Lo sciamano improvvisamente scatta in piedi e viene preso da violento tremore, il viso rivolto in alto, contratto, ed occhi chiusi. Si nota alle tempie notevole sudorazione. Durante questa fase di grande eccitazione gli assistenti tentano di farlo bere ma non ci riescono e si sente solamente il battere del becco dell’ampolla sui denti. Gli assistenti gli porgono un piatto colmo di grani d’orzo dal quale egli ne preleva una manciata con la mano sinistra. Lo sciamano fa un giro su se stesso e getta intorno i semi d’orzo chiudendo poi spasmodicamente la mano. Gli assistenti gli afferrano la mano che riescono ad aprire con difficoltà e con grande emozione contano, più volte, i semi d’orzo rimasti. Dopo qualche minuto lo sciamano comincia a parlare a denti stretti, velocissimo, con voce stridula. Noi abbiamo l’impressione che i sacerdoti del capitolo non abbiano afferrato il significato di quelle indecifrabili parole, ma tuttavia tutti esprimono segni di reverente

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omaggio essendo quella voce, la voce della divinità. Un sacerdote copre con una garza bianca la statua di legno che si trova al di là dell’altare e la porge allo sciamano. Lo sciamano fa alcuni giri su se stesso e poi lentamente si dirige verso Tucci consegnandogli la statua. Lo sciamano apre gli occhi e cade a terra. Tucci, con la massima naturalezza, si pone la statua sul capo e rimane in profonda meditazione. La statua, tra lo stupore e la desolazione dei Lama, scende di sua propria volontà al nostro campo. Il pianto di alcuni vecchi mi ha profondamente commosso. La fede di questi uomini, la cieca fiducia nei Lama e nello sciamano è veramente incredibile. Nella notte Kalil si è recato dallo sciamano recando un omaggio del devoto Tucci.”

Schema della cerimonia svoltasi nel tempietto di Lhalung

La giornata è memorabile. Gli avvenimenti sono degni di una sceneggiatura cinematografica. Evento principale di queste pagine dei diari è sicuramente la cerimonia officiata dallo sciamano-stregone svoltasi al tempio. Per noi, l’evento fondamentale è lo stratagemma, l’asso nella manica, il cavallo di Troia escogitato dal Lama Rimpoche Tucci, per non lasciarsi sfuggire la preziosa reliquia. All’inizio di entrambi i diari si fa subito riferimento al sogno che il professore ha avuto nella notte appena trascorsa. Personalmente ci colpisce, nella descrizione del sogno, la precisa destinazione che “la statua” intende comunicare tramite il Lama Rimpoche a tutti gli abitanti del villaggio: all’interno del piccolo tempio buddista nella casa di Roma dell’accademico. E ci mancava solo che la divinità menzionasse anche il numero civico dell’abitazione, precisiamo noi. Nelle righe del dattiloscritto del Doc ci sembra comunque di cogliere la fervida volontà di giustificazione dell’evento, attraverso le frasi che seguono l’enunciazione del professore. La capacità, propria delle statue consacrate (che il Capitano definiva come “vive” durante i racconti agli estasiati auditori nel suo salotto), di potersi spostare fisicamente, avveniva attraverso un’interazione con gli esseri umani, comunicando loro intenzioni e fornendo indicazioni precise attraverso sogni e visioni (ricordiamo al lettore che secondo l’antica credenza tibetana il principio vitale della divinità contenuto all’interno di una statua consacrata, conseguita attraverso un particolarissimo rituale, comunica con i comuni mortali tramite la possessione di un officiante in stato di trance). Il nostro dottore sembra qui esserne davvero convinto, di certo questo bagaglio di informazioni faceva parte delle

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


nozioni che doveva aver appreso dall’accademico durante quel periodo di convivenza, ipotizziamo noi. Nel testo ufficiale ritroviamo le parole che richiamano al significato più profondo del sogno di Tucci sottolineando che “il caso è grave” e “bisogna interrogare direttamente gli dei”. La descrizione della cerimonia da parte del Capitano è anche riportata con uno schema sulla precisa collocazione dei personaggi e della parafernalia all’interno della sala dove si compie il rituale sciamanico; questo è il significato dei numeri scritti tra parentesi nel dattiloscritto. Entrambi i diari espongono la rappresentazione delle varie fasi del rito che riconducono inequivocabilmente agli usuali passaggi o fasi di una cerimonia d’invocazione e possesso, dove l’officiante-sciamano è in stato di trance. Sprofondando nella lettura di entrambi gli scritti, ove sono elargiti generosamente dettagli e particolari del rituale, si ha un quadro davvero particolareggiato e completo dell’evento al quale i Nostri hanno assistito. Nelle frasi del Capitano Ghersi è facile cogliere tutta l’emozione e l’eccitazione, quasi empatica, allo svolgersi degli eventi, altrettanto osserviamo più distacco ed analisi in quelle dell’accademico, avvezzo e profondo conoscitore di quelle inconsuete situazioni. Appassionante è il momento del passaggio della statua dalle mani dello sciamano in trance, a quelle dell’accademico seraficamente seduto; l’officiante durante la cerimonia si avvicina a Tucci e gli pone la statua sopra la testa, cadendo poi in uno stato di profonda meditazione. Nonostante il professore in quel preciso momento, sia in uno stato di “profonda meditazione”, è in grado di osservare e ricordare in seguito, dando parere positivo alla voce nella Cronaca per tutti quegli eventi che in egual maniera si trovano nel diario del Capitano. Sull’utilizzo e sull’importanza degli appunti di Ghersi nella stesura del diario ufficiale e viceversa, possiamo osservare due passi di questa memorabile giornata che offrono molteplici spunti interpretativi. Nel momento del rituale, nel quale gli assistenti dello stregone-sciamano cercano di farlo bere del chang, entrambi i diari riportano esattamente le stesse parole “il batter del becco dell’ampolla sui denti dello stregone”; e ancora al termine della cerimonia, entrambi scrivono le testuali parole “la statua scende di sua propria volontà al nostro campo”. Ma è la conclusione del diario del Doc che ci lascia senza parole. Quando descrive la missione che il Tucci affida a Kalil, l’arcano ci appare svelato, soprattutto se confrontato con quanto scritto nel diario ufficiale. L’accademico scrive che nella notte il fido Kalil “si reca” (lo manda Tucci stesso, diciamo noi) “di nascosto” (poiché nessuno possa vederlo, aggiungiamo) “perché” lo stregone “non abbia di che lamentarsi”; mentre Ghersi scrive, “recando un omaggio del devoto Tucci” (possiamo facilmente interpretare la frase del Doc e capire di cosa si trattasse). “Devoto” è il vocabolo che ci lascia un tantino perplessi. Ironico o sarcastico? Oppure semplicemente un aggettivo dovuto? Le parole “nella notte” e “di nascosto” costituiscono la molla delle nostre perplessità. È altrettanto vero che nel diario ufficiale il professore si dilunga sugli eventi delle giornate del 15 e 16 Luglio, i cui echi riprenderemo in seguito, sottolineando che queste genti amano forse più il denaro che i loro stessi dei, ma anche che sono terrorizzati dallo scandalo per la vendita di oggetti sacri, aggiungendo subito dopo che ad “una buona offerta in denaro alla fine non sanno resistere” e che comunque le loro coscienze sono presto rappacificate, a patto che non ci siano stati testimoni oculari al loro “venale” peccatuccio.

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Drangkar — Archivio Ghersi

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


15 Luglio

“Al sorgere del sole lasciamo il 16° campo di Lhalung ed in tre ore ritroviamo la nostra carovana nel 17° campo (3900 mt) a Drangkar, capitale dello Spiti. Questo grosso villaggio è situato sulle rocce appuntite e contorte che sovrastano il fiume

a strapiombo. Drangkar ha subito l’invasione di Zarovar ed ha riportato danni gravissimi che non sono mai stati riparati. Del castello reale rimane solamente qualche rudere. Tra le macerie qualche casa è stata malamente riparata. Nel tempio ho fotografato tutti gli affreschi una volta splendidi ed ora completamente rovinati dall’acqua che da anni filtra dal tetto che nessuno ha mai riparato. Di due grandi figure, a lato dell’altare, sono rimasti solamente alcuni frammenti in discrete condizioni. Da alcuni particolari Tucci pensa di poter identificare le due pitture, quella di destra dell’altare al grande Padmasanbava e l’altra a Tanzanrapa. Al tempo dei vari reami del Tibet anche lo Spiti aveva un re che risiedeva a Drangkar nel grande castello attualmente distrutto. L’attuale re (Nono) vive nei dintorni di Kaze in una sua proprietà ed il suo potere è solamente teorico.”

I brutti di Po — Archivio Ghersi

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Donna di Kioto intenta a filare la lana — IsIAO

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


16 Luglio

“Tra questa gente della capitale non è possibile acquistare libri ed oggetti vari, sono tutti

riservatissimi. I sacerdoti sono disposti a cedere anche oggetti di culto purché il trapasso di proprietà sia fatto nella massima riservatezza.” In queste due giornate, che ritroviamo nel diario ufficiale riassunte nel solo giorno del 15 Luglio, pas-

sando quindi direttamente alla data del 17, si trovano interessanti descrizioni delle opere conservate in quello che rimane dei templi di Drangkhar. Il professore sottolinea che oramai si tratta di una capitale fittizia senza più quell’antico potere e predominio indiscusso sull’intera regione dello Spiti, in auge nel periodo che ha preceduto l’arrivo dell’esercito di Zorawar. Per avvalorare meglio la propria tesi, l’accademico sottolinea che il Nono (il re) di Drangkhar vive nella propria abitazione, con la famiglia e non abita più nell’antico castello-fortezza, ridotto ad un misero rudere. Si rammarica inoltre delle condizioni degli affreschi, che anche il Doc menziona nel suo diario, osservando come le precarie condizioni del tetto siano il motivo del loro inevitabile deterioramento. Delle due grandi figure menzionate dal Capitano, Tucci non fa parola, si sofferma invece sulla descrizione di altre opere ritrovate nei piccoli templi e nelle cappelle-altari votivi disseminati qua e là nel villaggio. Nello scritto ufficiale si fa cenno a pregevoli idoli in bronzo e legno che l’accademico ritiene siano tipiche di una vera e propria arte locale “che perpetua tradizioni antiche”. Nel diario del giorno 16 Luglio del Capitano Ghersi, ritroviamo le affermazioni fatte dal professore a proposito delle modalità di acquisto di opere d’arte in queste contrade. Non si fa però alcuna menzione su quanto fosse stato concordato tra l’officiante e l’accademico, per rendere il “trapasso”, come lui lo chiama, della preziosa statua dal Tibet alla dimora romana. Saggiamente, il Tucci nella Cronaca sottolinea quanta pazienza sia necessaria e quanto tempo occorra per poter conquistare la fiducia e la simpatia dei locali, al fine di raggiungere l’obiettivo prefissato: tornare in Italia con materiale di studio altrimenti irreperibile. Conclude osservando come il lento procedere della spedizione, abbia quindi un giustificato motivo.

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17 Luglio

“Alle 9 lasciamo il campo e dopo una tranquilla marcia mettiamo il 18° campo (3600 mt) a Po. Malgrado l’altitudine qui a Po troviamo rigogliosi alberi di albicocca. Le donne e gli uomini di questo villaggio sono particolarmente brutti e le donne,

dato il clima temperato, lavorano a torso nudo mostrando disgustosi seni cadenti e flosci. I giovanissimi sono sporchi e vestiti di stracci ma tuttavia allegri e gioviali.” I denominatori comuni dei due diari sulla giornata che vede la spedizione italiana raggiungere l’abitato di Poh, sono sicuramente riconducibili a tutte le annotazioni sui caratteri antropologici e fisici dei suoi abitanti. “Le donne sembrano streghe e gli uomini hanno facce da patibolo”, si legge nel testo ufficiale del Tucci che più avanti rincara la dose aggiungendo che si tratta delle persone più brutte mai incontrate sino ad allora. Effettivamente, le fotografie del Doc che abbiamo potuto studiare ci mostrano personaggi non certo hollywoodiani e dobbiamo convenire con il professore che osservando i caratteri somatici e gli aspetti degli abitanti di Poh, questi hanno ben poca affinità con le caratteristiche fisiche dei tibetani. Quando abbiamo rivisto quegli scatti insieme, il Capitano non riusciva a trattenere un sorriso sarcastico osservando i ritratti e senza remore rompeva il silenzio sentenziando: “Erano davvero brutti! Mi ricordo che alcuni di loro non li ho fotografati perché l’obiettivo si chiudeva rifiutandosi di scattare, nessuno che non li abbia mai visti, potrebbe credere alla loro bruttezza!”. Ghersi conclude la sua breve giornata con una delucidazione positiva almeno sul carattere degli abitanti, mentre l’accademico aggiunge qualcosa di interessante su visite inaspettate. Tra le righe vogliamo leggere che all’epoca le notizie in Tibet viaggiassero più velocemente dei pacchi prioritari e delle consegne dei corrieri internazionali ai nostri giorni. Il pacco prioritario e cioè la notizia che fossero arrivati dei forestieri a caccia d’opere d’arte ed oggettistica sacra, aveva fatto il giro della valle tanto velocemente da richiamare presso i Nostri, personaggi di ogni sorta. Tali venditori all’incanto, avrebbero ceduto ai due esploratori merci che fossero state, anche solo vagamente capaci di suscitare l’interesse degli stranieri. Di fatto il diario ufficiale si conclude con la visita del “Nono” di Spiti che porta con se abiti da “Mandarino cinese” per essere venduti. Ritorniamo con la mente alle parole del professore, sulla smodata brama di denaro che adombra la magica atmosfera e la “santità” di alcuni abitanti di queste lande desolate ed aggiungiamo come le stesse osservazioni si ritrovino similmente nel Milione di Marco Polo nel capitolo “Del Thebet”; deduciamo che col passare dei secoli, le abitudini sul Tetto del Mondo hanno subito ben pochi cambiamenti.

18 Luglio

“Alle ore 8 partiamo per Tabo. Ad un miglio circa da Po il sentiero, che normalmente viene usato per raggiungere Tabo,

è scomparso per la piena del fiume. Torniamo indietro e risaliamo su di un pianoro che termina improvvisamente in una spaccatura della roccia stretta e profonda. La discesa è veramente difficile i cavalli fanno miracoli di equilibrio ed uno alla volta aiutati da quattro uomini scendono provocando una continua caduta di sassi e di un grande polverone. Io sono sceso in fondo per fotografare la discesa della carovana ma poi ho dovuto ripararmi da un lato per evitare grossi blocchi di roccia che rovinavano dall’alto. In un’ora e mezza la carovana ha superato questo imprevisto ostacolo. Prima di giungere al fiume i carovanieri debbono colmare con sassi profonde buche e notevoli dislivelli. La carovana prosegue facilmente lungo la sponda destra del fiume che in questo tratto scorre velocissimo. Verso le 12 attraversiamo, con facile guado, un’affluente dello Spiti ed entriamo così nell’ampia valle di Tabo. Mettiamo il nostro 19° campo (3400 mt).”

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


L’avventura continua, i Nostri con dovizia di dettagli annotano le mille peripezie ed i problemi inaspettati che la carovana deve affrontare e superare, per poter proseguire la propria marcia. La documentazione fotografica del Doc, alla quale il professore fa riferimento nel diario ufficiale della spedizione, documenta eloquentemente le difficoltà ed i travagli della carovana per procedere lungo territori al limite delle possibilità. Si sprecano, in entrambi i diari, gli aggettivi quali: “impressionante, minaccioso, terribile, difficile, durissimo, impervio” per descrivere le condizioni del percorso affrontato, sino a leggere sul testo ufficiale la frase “un piede in fallo e la fine è sicura”, monito questo che non lascia alcun dubbio sulle difficoltà ed i pericoli appena superati.

Lungo la strada tra Po e Tabo — Archivio Ghersi

Grotte nei pressi del monastero di Tabo — Archivio Ghersi

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Il 19° campo a 3.400 metri — Archivio Ghersi

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


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19 Luglio

“Il villaggio di Tabo è formato da poche casette circondate da modesto orticello con poche piante d’orzo. Grandioso il

monastero circondato da un muro alto circa due metri e mezzo. Nel recinto del monastero si contano 15 grandi chorten.

Il monastero in passato è stato sede di numerose comunità di monaci e Lama ed è attualmente custodito da un laico e da due modestissimi monaci. È stato particolarmente facile ottenere il permesso di visitare e documentare con foto pitture e libri senza limitazione. Oggi, per desiderio di Tucci, ho fatto una minuziosa pianta dei vari templi e posizione dei grandi chorten.” La prima giornata trascorsa a Tabo vede impegnati i Nostri in uno dei luoghi più importanti della spedizione. Il monastero fondato da Rinchenzampo è stato per secoli uno dei centri più importanti per la diffusione della dottrina buddista in tutto il Tibet occidentale; nonché il luogo di elezione per asceti e mistici di quel particolarissimo modello/aspetto tantrico della dottrina buddista, che tanto ha interessato gli studi dell’accademico italiano. Il Tucci nel diario ufficiale di questa giornata sottolinea la necessità di preparare nuove mappature del complesso monastico in quanto quelle realizzate dal Francke risultano essere imprecise o troppo approssimative. Le parole di Ghersi: “per desiderio di Tucci”, dette a proposito del compito di dover ridisegnare planimetrie dettagliate dei luoghi sacri dell’area di Tabo, devono essere lette come una richiesta ufficiale fatta dal Professore, Capo-Spedizione, al Capitano suo subordinato. Una tra le mansioni del Doc durante la missione era proprio quella di cartografare e mappare templi e monasteri, su indicazione del Tucci. Le sue mappe, raccolte in undici tavole manoscritte, le numerose planimetrie ritrovate nel testo ufficiale ed alcune qui, per la prima volta fedelmente riprodotte, rappresentano una documentazione di straordinaria importanza per lo studio in quanto sono spesso corredate da simboli, note, appunti che costituiscono un vero e proprio racconto in forma grafica della spedizione scientifica.

Monastero di Tabo — Archivio Ghersi

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


Il monastero di Tabo — Archivio Ghersi

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20 Luglio

“Questa mattina ho iniziato la documentazione fotografica delle statue e delle pitture. Le statue sono trenta, tre di grandezza naturale, colorate in giallo, turchino, rosso e verde. La documentazione fotografica è molto lenta poiché, essendo le cappelle semibuie, è necessario eseguire le riprese con il lampo al magnesio che produce notevole quantità di fumo e per mancanza di ventilazione ristagna a lungo nel locale. Nel pomeriggio sono salito sulle colline ad ovest del monastero per visitare le numerosissime grotte scavate nel tufo. Alcune sono vecchie Zamkan riconoscibili dal muretto che chiude ancora, in parte, l’entrata. Le altre furono probabilmente la residenza estiva dei monaci. Nel terreno sabbioso, in fondo ad alcune grotte, ho rinvenuto, ad una profondità di circa 20-30 cm. qualche tsa tsa ed alcuni fogli di manoscritti.” La precisa e dettagliata descrizione delle opere d’arte ritrovate nel monastero di Tabo, sono il centro nelle pagine del diario ufficiale della spedizione che raccoglie le due giornate del 19 e 20 Luglio in un unico capitolo. Mentre il professor Tucci rimarca l’importanza dei ritrovamenti, gli errori di classificazione e quelli interpretativi fatti dal missionario tedesco, annotando le necessarie puntualizzazioni sul significato e sul valore delle statue e degli affreschi rinvenuti, il diario del Capitano si concentra sul suo personale incarico all’interno della spedizione: fotografare dalle alture attorno a Tabo, il monastero ed i suoi dintorni. Dobbiamo dedurre che si tratti ancora una volta di un incarico affidato al Doc dal professore e non certo di una sua iniziativa personale. La fase esplorativa al gruppo di “Zamcàn”, (celle per la meditazione ove i Lama e gli asceti potevano trascorrere anche più di un anno in completo ritiro dalla vita monastica), viene liquidata nel diario ufficiale con la frase: “Adesso tutto è deserto e in abbandono. Come se un vento di distruzione sia passato su queste contrade...”. È intrigante osservare come l’accademico concluda il diario della giornata con il paragrafo dedicato agli tsa-tsa; descrivendone concetto, forma, composizione e tenendo presente di quanto, la raccolta di questi oggetti di studio stia incrementando, omettendo di citare l’autore degli ultimi ritrovamenti delle preziose reliquie. Il Capitano Ghersi ci ricorda nel suo diario di tali ritrovamenti, avvenuti all’interno degli zamcàn sulle alture attorno al monastero di Tabo da lui appena visitati, assieme alla scoperta di fogli manoscritti, parte di preziosi volumi ormai perduti. Gli occhi del Doc si facevano fessure quando raccontava delle sue avventure in Tibet e in una caldissima sera d’estate sul terrazzo della sua abitazione si spalancarono letteralmente quando iniziò a rammentare alcuni momenti della spedizione del ’33: “Spesso ho rischiato l’osso del collo arrampicandomi in luoghi dove solo le aquile ed i falchi possono edificare il loro nido. Tucci era terrorizzato dall’idea di spingersi lungo quei precipizi. Ti confesso che qualche volta ho pensato di lasciarci la pelle. Ogni tanto le mie arrampicate non portavano a nulla ma altre volte la soddisfazione di trovare sepolta sotto la sabbia oppure abbandonata nella cella di un eremita, una statua, un manoscritto o un oggetto di culto, dava un senso a tutti quei rischi che avevo appena corso!”.

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


Tabo (Spiti): celle in grotta vicino al monastero — Archivio Ghersi

Tabo (Spiti): sculture alle pareti del tempio — IsIAO

Statua centrale di Sarvavid-Vairocana — Archivio Ghersi

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ksitigargha

akasagarbha

padmapani

Sculture nella sala dell’assemblea nel monastero di Tabo — IsIAO

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


21 Luglio

“Lasciamo il campo di Tabo portando con noi antichi manoscritti ottenuti (pagando in rupie d’argento in numero dispari)

dal custode laico del monastero. Breve marcia fino a Lori dove, a soli 3300 mt, poniamo il nostro 20° campo sotto grandi alberi di albicocca. In questo piccolissimo villaggio troviamo solamente le rovine di un tempio che Tucci ritiene sia stato costruito da Rinchenzampo (risulterebbe dalla biografia del grande Lotzava tradotta da Tucci).” La parte più affascinante della lettura comparata dei due diari, è senz’altro quella d’avere la possibilità di capire meglio come si siano svolte le numerose vicende di quei giorni memorabili. La marcia breve, e quindi le poche ore necessarie per raggiungere il villaggio di Lari, debbono aver concesso ai Nostri parecchio tempo per la colazione, lo smontaggio del campo e la sistemazione della carovana prima di lasciare Tabo. Ecco che allora ci sembra di poter vedere con i nostri occhi l’arrivo al campo del custode del tempio, pochi minuti prima che la spedizione si prepari a smontare il campo e iniziare la propria marcia. Egli porta con sé gli antichi manoscritti, gli stessi che Tucci aveva visionato nel giorno precedente e molto probabilmente, aveva indicato al custode come opere molto interessanti. Nel diario ufficiale testualmente si legge: “Siamo riusciti a trovare testi letterari e liturgici che ci hanno permesso di identificare il ciclo religioso effigiato in queste pareti”. Il pagamento deve essere avvenuto all’interno della tenda, lontano da occhi indiscreti per soddisfare gli interessi venali del custode e nel rispetto della sacralità dei luoghi, al fine di scongiurare ogni formula superstiziosa.

22 Luglio

“Appena giorno lasciamo Lori. Dopo poche miglia arriviamo sulla sponda del fiume Spiti, dove il sentiero si riduce ad un cornicione scavato nella roccia che non permette ai cavalli di passare con il carico. Scarichiamo tutte le casse che i caro-

vanieri portano a spalla per un centinaio di metri. Riordinata la... [parte della pagina mancante. NdA] ...il sole è al tramonto quando la carovana entra nella valle del Pare-chu. La zona è coperta da pietrame di pomice grigia e nerastra tra molte infossature di antichi soffioni. Alle 18 alziamo le tende del nostro 21° campo (3800 metri) in un piccolo pianoro a ridosso di grossi e rossi blocchi di roccia.” Sfortunatamente, per noi, una parte di questa pagina del dattiloscritto di Ghersi è mancante. Nella prima parte ricostruiamo facilmente le difficoltà incontrate dalla carovana, molto simili in entrambi i diari. Tucci scrive sul testo ufficiale della necessità di dover scaricare i cavalli e portare il carico a braccia, perché risulta particolarmente difficile far passare i loro animali attraverso un tratto di sentiero decisamente precario. La parte mancante della pagina di diario riguarda, con tutta probabilità le fasi del giorno di cammino nelle quali i Nostri esploratori si fermano per consumare rapidamente il loro pasto e successivamente intraprendono la ricerca delle iscrizioni menzionate dal Francke nel suo memorabile Antiquities of India in Tibet – Volume I. Sappiamo dal testo ufficiale che solo una delle due iscrizioni storiche viene trovata dai ricercatori italiani nei pressi di Hurling. Le terribili condizioni di questo trasferimento, possiamo rintracciarle nel passo della Cronaca che testualmente riporta: “Anche noi [Tucci e Ghersi. NdA] per dissetarci dobbiamo raccogliere nelle nostre fiasche la torbida acqua del Karitha, nera come inchiostro e melmosa”. Depressioni, antichi crateri di soffioni boraciferi e calde sorgenti solforose sono il territorio nel quale la carovana si muove e dove al termine della lunga giornata disporrà il suo ventunesimo campo.

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23 Luglio

“Leviamo le tende alle 10. La carovana incontra qualche difficoltà per attraversare il fiume Chaladdokpo. Sulla sponda si-

nistra del fiume il sentiero entra in un corridoio strettissimo ed i cavalli riescono a passare procurando solamente qualche danno alle cassette per strisciate contro le pareti rocciose. All’improvviso questa strettoia termina in un pianoro erboso in fondo al quale si vedono le case di Chang. Il villaggio, pur essendo a 3800 metri, è circondato da ampi terrazzi coltivati ad orzo. Chang è il villaggio più orientale dello stato di Bashahr verso Spiti. In questa zona orientale il lamaismo confina con l’induismo ed ambedue sono inquinate dalle religioni animistiche dei primi abitanti di queste isolate valli.” Sappiamo che la partenza è stata ritardata perché i cavalli erano stati portati dal buon Kalil, la sera precedente, sui pascoli freschi dell’abitato di Chang. Di buon ora era partito dal campo per andare a riprenderli ma il tratto di strada e soprattutto le bizze dei cavalli che non ne volevano sapere di lasciare quel “verde paradiso” appena trovato, avevano costretto la carovana a rivedere l’orario della partenza, come si legge chiaramente nelle righe della Cronaca. Gli animali, carichi delle pesanti casse della spedizione, trovano grande difficoltà nel percorrere a ritroso lo stretto e sinuoso sentiero che scende al letto del fiume Chaladdokpo. Nel testo ufficiale si parla di un tratto di percorso faticoso, noiosissimo e non privo d’avventure, senza però menzionare il nome dell’affluente dello Spiti, appena attraversato. Ghersi al contrario, lo ricorda nel suo dattiloscritto, omettendo volutamente l’episodio sul salvataggio del professore che scivolato accidentalmente nel canalone in prossimità di un terrificante precipizio, venne salvato da uno dei carovanieri. Tale racconto il Doc ci fece una sera mentre commentavamo alcune delle foto scattate durante la missione del ‘33. Le fotografie raffiguravano un angusto e ripido passaggio a precipizio sul fiume, e fecero scattare in lui la molla dei ricordi. La sua voce si alzò di un tono quando, nella descrizione dell’accaduto, rivisse per un attimo l’agghiacciante ricordo, poi tornò ai suoi decibel ed accompagnando con un laconico sorriso concluse: “...il primo dei nostri carovanieri lo raggiunse proprio mentre il terreno si stava sbriciolando sotto i suoi piedi. La sua fine sarebbe stata inevitabile. Gettata rapidamente una corda di sicurezza, gli tese la mano e lo salvò per un pelo!”. Il campo viene sistemato all’ombra di un filare di alberi al centro dell’abitato dove finalmente i Nostri hanno la possibilità di comprare un pollo, dando così la possibilità al cuoco Abdul di far sfoggio di tutte la sue doti culinarie. Il professor Tucci si dilunga sulle caratteristiche fisiche dei locali e sul loro insolito e trasandato abbigliamento, motivandolo alla vicinanza geografica con l’area indiana del Bashahr e sottolineando la loro peculiare strategia per farsi lautamente pagare il veniale “peccato” degli stranieri: l’uccisione del pollo. Entrambi gli scritti concludono la giornata, soffermandosi sui diversi aspetti del sincretismo religioso presente in questa regione, dove influenze induiste e buddiste si confondono con le tracce di un ben più antico credo animista. Il Doc era particolarmente incuriosito dalle antiche reminiscenze di quelle credenze che lui stesso amava definire “animistiche”, soprattutto per quel loro curioso aspetto “magico e sbalorditivo, nonchè delle pratiche medicamentose ad esse associate”. Nei suoi racconti c’era sempre tutta la perplessità e lo stupore, di fronte ad episodi dei quali era stato testimone oculare durante le due spedizioni in Tibet e dei quali aveva poi voluto raccontare nel suo diario “Sull’altipiano dell’Io sottile”. Lo affascinava soprattutto cercare di capire come le grandi religioni, quali l’Induismo e il Buddismo che nel corso dei secoli erano penetrate in queste contrade, avessero contribuito solamente a dare un senso dottrinale e liturgico a quelle antiche pratiche di guarigione della tradizione “animistica” dei popoli sul Tetto del Mondo.

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


Chang (Spiti): oggetti liturgici in un tempio — IsIAO

24 Luglio

“Visitiamo il vecchio castello ridotto ormai ad un rudere. Successivamente ci rechiamo al

vecchio tempio che troviamo aperto ed incustodito. Nell’interno un indescrivibile disordine. Sul pavimento numerosi vasi di terra rovesciati, sotto un tavolino alcune tazze in legno ed argento, poco distante tre lampade in argento e un tamburo, un vaso per offerte in argento di eccezionale grandezza, un altare in legno intarsiato, un campanello (Tril-bu) ed infine un grande tamburo a piede. Invano abbiamo cercato il custode. Nella foto qui accanto si può vedere la magnifica e grande coppa per le offerte (in argento), l’altare con il Tril-bu, il grande tamburo e l’incredibile disordine. Uno strato di polvere copre tutto, segno evidente che nessuno da molto tempo, si è più curato del vecchio tempio. L’infiltrazione dell’acqua ha completamente distrutto tutti gli affreschi e solamente qualche frammento rimane a testimoniare l’ormai lontana esistenza delle pitture.”

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Poche le note di questa giornata. I due diari sono molto simili nella descrizione della visita al tempio dedicata alla grande “Pal-den Lamho” (la protettrice, la Grande Madre, creatrice e distruttrice), eccezione fatta per le osservazioni artistiche del Professore, relative agli affreschi delle divinità infernali. In base ai manoscritti trovati sul posto, egli riesce a identificare che si tratta dei noti “Narang”, le divinità connesse al culto dei morti e al sacro rituale funebre del “P’o ba”. Come l’attento lettore potrà osservare, nel diario del Capitano si parla di una foto menzionata accanto allo scritto che sentenzia lo stato di abbandono del complesso monastico e il disordine vigente, dovuto all’incuria. In realtà nel diario giornaliero del Doc non appare alcuna foto. Abbiamo quindi l’opportunità di argomentare come effettivamente il diario scritto di proprio pugno dal Ghersi durante la spedizione nel 1933, sia stato poi ripreso e infarcito d’informazioni dallo stesso, dopo la pubblicazione del volume da parte della Reale Accademia e più precisamente, nell’istante in cui da scritto olografico stava per divenire il dattiloscritto che noi custodiamo oggi tra le mani e che per la prima volta viene dato alle stampe.

25 Luglio

“Breve marcia di tre ore per arrivare al villaggio di Nako che è formato da tre borgate si-

tuate su tre costoni del sacro Leopurgyul. Sopra di noi s’innalza il sacro monte sede del dio Purgyul protettore di Nako. Prima di giungere nella prima borgata incontriamo il capo del villaggio (il Lamberdar) che con altre persone ci accoglie festosamente. Arrivati su di un praticello, in riva ad un laghetto, alziamo il 23° campo (3800 mt).” È una giornata facile questa, il trasferimento dura solo tre ore ed il 23° campo viene sistemato in prossimità di un lago. Lo stesso è interamente circondato da alberi di albicocco che deve aver fatto dimenticare, almeno per il momento, il duro cammino e le fatiche dei giorni appena trascorsi. La grande vetta del Purghiul che supera gli oltre seimila metri di quota, esalta i Nostri. Tucci dedica due interi paragrafi alle sue riflessioni sulla toponomastica della vetta e del temutissimo dio ad essa collegato, ma soprattutto si sofferma sul confronto tra la sua teoria con le ipotesi di altri studiosi occidentali. L’accademico espone la propria tesi sul particolare toponimo supportandola con i testi ritrovati a Nako, nei quali la vetta viene trascritta con il termine Pu Yul, in altri con Spur K’yul, a riconferma delle contaminazioni della lingua tibetana con la lingua indiana, e specifica che entrambi i vocaboli identificano sia la stessa divinità che il luogo geografico. Ghersi si limita ad una breve descrizione del paesaggio e licenzia brevemente la pagina, annotando la cordialità degli abitanti per poi, come da consuetudine, cronologicamente registrare il numero del campo e l’altitudine raggiunta.

Il sacro Leopurghiul, sede del dio Purghiul — Archivio Ghersi

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26 Luglio

“Visitiamo il tempio, di modesta grandezza, ma che conserva affreschi che Tucci ritiene del XV secolo. In questo tempio

è oggetto di venerazione una pietra verde che presenta delle irregolari erosioni attribuite dalla tradizione, all’impronta del

piede di Padmasambhava. Nella parte sud ovest del villaggio visitiamo un altro tempio che si ritiene costruito da Rinchenzampo. Fotografo tutti gli affreschi su una pentade relativamente ben conservata. Il sacerdote che ci ha accompagnati ci conduce a vedere una sacra impronta oggetto di grande venerazione. Sulla superficie orizzontale di una pietra verde si trova un’incavatura (50x30 cm) che la tradizione attribuisce all’impronta delle dita del dio Purgyul. Per fotografare questa impronta scavalco la pietra e subito mi rendo conto, dall’espressione di dolorosa sorpresa del Lama e dal mormorio di tutti i presenti, di aver commesso un atto non lecito. (mappa del monastero) Tucci pensa che i sacerdoti siano preoccupati, non tanto per il mio atto sacrilego, ma per l’eventuale punizione del Dio contro di loro anche se indirettamente responsabili di quanto è avvenuto. Mentre ritorniamo verso il campo un colpo di vento solleva una nuvola di polvere ed una sottilissima lamina di mica si conficca nella cornea dell’occhio destro. Durante la notte, davanti allo specchio, dopo varie anestesie locali e numerosi tentativi sono riuscito a rimuovere la scheggia.” La visita alle grandi pietre verdastre con le impronte della mano di Padmasambhava e quella del dio Purgyul di Nako sono sicuramente gli eventi più importanti del giorno per entrambi i diari. Costatiamo come la Cronaca differisca dal diario: nel caso della prima pietra, sul testo ufficiale si legge che si tratta dell’impronta della mano di Padmasambhava, mentre il Capitano la descrive come l’impronta di un piede della stessa divinità. Proseguendo, la seconda pietra per il Tucci rappresenta l’impronta del piede del Dio Purghiul, mentre il Doc ci dice che si tratta di “un’impronta delle dita” della divinità, non specificandone la parte anatomica di appartenenza. A seguito di questa nota, ci pare di ricevere un’ulteriore conferma a quanto abbiamo scritto nel nostro commento del giorno 24 Luglio. In questo caso non si tratterebbe di un’aggiunta fatta dal Doc alle sue note, bensì di un possibile errore di trascrizione occorso, passando dalla stesura a mano a quella dattiloscritta del diario in questione. Il Tucci apre la pagina del giorno 26 Luglio, scrivendo due interi paragrafi della Cronaca, sull’impronta della mano e dedica gli ultimi cinque all’ispezione e alla descrizione dell’impronta del dio locale Purghiul, inserendo in calce il racconto dell’incidente capitato a Ghersi, collegandolo a un atto sacrilego. Mentre nel diario del Nostro l’incidente occorso non pare averlo intimorito o scosso poi così tanto, nel diario ufficiale l’accademico sottolinea più volte le pene sofferte dal Doc, prima e durante la notte, e indica soprattutto la sua preoccupazione sul fatto che il dio “offeso” stia mettendo in atto la propria vendetta. Addirittura la pagina conclusiva del testo culmina con una frase minacciosa riferita al dottor Ghersi, “Comincia a pensare che se il dio inizia le sue vendette, in questo modo egli andrà certamente a finire molto male.” Bisognerebbe, a questo punto, valutare quanta sia l’ironia e quanto il timore che l’inevitabile punizione possa condizionare il futuro del Capitano. A nostro parere gli elementi da prendere in esame, all’interno della frase, sono entrambi presenti ed egualmente validi; l’ironia, giocherebbe a favore di una scaramantica situazione venutasi a creare; il timore, deriverebbe dalla consapevolezza di aver urtato la suscettibilità del divino Purghiul, padrone assoluto di quei territori.

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Monastero di Nako — Archivio Ghersi

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27 Luglio

“Alla partenza i Lama che sono venuti al campo per salutare Tucci, sono apertamente soddisfatti di constatare che la

vendetta del dio è caduta solo sul diretto responsabile. Maggior soddisfazione avrebbero avuta se avessero saputo che questa mattina Kalil smontando la mia branda ha trovato uno scorpione velenoso tra la coperta ed il lenzuolo. Ancora poche miglia ed entreremo nella valle della Sutlej. Alle 10 la carovana si ferma perché a circa 1000 metri sta precipitando sul sentiero una grossa frana che produce un gran polverone. Fortunatamente i massi più grandi hanno scavalcato la strada. Terminata la caduta del pietrisco, la carovana riprende la marcia. Verso le 14 troviamo un modesto spazio tra le rocce sotto il villaggio di Tashigang, dove possiamo fare il 24° campo (3700 mt). Sembra veramente incredibile che degli uomini abbiano scelto, come loro sede, una zona dove è difficile trovare pochi metri di piano. Il villaggio è tutto scale e ripide viuzze. Appena il campo è sistemato noi iniziamo la salita di una lunga scalinata che termina al Gompa. Lo Skushok è nato 700 anni or sono e per varie incarnazioni (Sansara) è tuttora capo del Gompa. All’entrata del tempio siamo ricevuti da un cortesissimo vecchio Lama, in attesa di essere ricevuti dallo Skushok. Sul terrazzo dove siamo in attesa, entrano ed escono numerose capre. Preceduto da un servo, arriva l’incarnato che va incontro a Tucci come se lo avesse già conosciuto. Mentre l’incarnato e Tucci iniziano una probabile discussione su argomenti di mistica ed altri incomprensibili problemi religiosi, io mi allontano per documentare con fotografie e cinematografie questo eccezionale villaggio. Scendendo verso il campo Tucci mi dice che è riuscito ad ottenere il permesso di vedere il raro esemplare di un Rukien custodito nel tempio. Il Rukien è un particolare addobbo formato da ossa umane finemente lavorate. Le ossa lunghe sono sezionate per il lungo e per il traverso in modo da ottenere dei pezzi di circa 10 cm x 3-4 cm. I vari pezzi sono uniti da catenelle formate da piccole ossa. La collana è formata da 108 rondelle ossee ricavate da parietali e frontali del cranio. Il Rukien, generalmente, viene indossato dal Lama nella terrificante prova del Ciod. La prova del Ciod è un tentativo che un Lama esegue per raggiungere l’illuminazione per via diretta senza ulteriore Sansara. Tutte le offerte assai generose, fatte da Tucci per ottenere il trasferimento del Rukien nella cappella del pellegrino Tucci sono state gentilmente non accolte.”

Decisamente si tratta di una giornata che ha suscitato nell’animo degli esploratori due ben diverse impressioni. Il testo ufficiale riparte con le osservazioni, sulle conseguenze della scheggia di mica conficcatasi nell’occhio del Capitano e che rendono “ogni attività cinematografica” sospesa per l’intera giornata. Affermazione totalmente contraddetta dal diario del Nostro. Tutta l’attenzione di Ghersi è concentrata sull’incredibile bellezza del paesaggio, sulla posizione del particolare villaggio e sul suo lavoro di documentazione fotocinematografica (alla faccia dell’attività sospesa, menzionata nel diario ufficiale!). Per Tucci gli interessi sono altri e le annotazioni riportate sulla Cronaca, lo dimostrano. Le sue riflessioni e le complesse delucidazioni sulla filosofia buddista, sulle leggi che determinano il funzionamento della Natura ed infine l’incontro con il reincarnato (lo Skushok) del monastero di Tashigang, sono il perno attorno quale ruota per intero il suo scritto. Altra annotazione dell’accademico è quella riferita allo stupore e all’ammirazione del Capitano Ghersi che per la prima volta, si trova di fronte ad un reincarnato di oltre settecento anni; nonostante il Professore faccia osservare come il Doc non sia, né buddista, né assolutamente convinto in queste trasmigrazioni dell’anima, rimarca quanto questa particolare figura abbia notevolmente colpito il suo compagno di viaggio. Appuriamo invece dalle parole del nostro dottore, che l’incontro con lo Skushok-reincarnato, per quanto sia da lui reputato importante, rivestano meno interesse del particolare “ruchien”, l’abito confezionato con ossa umane, per la singolare celebrazione del rito del “Ciod” (Gcod), cerimonia atta a trovare la “via diretta” per il Nirvana (ma questo sarà uno dei sui pezzi forti su cui ci dilungheremo in seguito). Per pura citazione, veniamo a riscontrare che all’interno del tempio, le “pecore” del testo ufficiale, si sono trasformate in “capre” nel

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diario del Doc, dubitiamo che la magia del luogo abbia dato origine a uno sdoppiamento di vedute e vogliamo assolvere entrambi gli esploratori; comunque sia, sempre di ovini si tratta! Un’ulteriore nota può essere fatta sulla discrepanza, tra testo ufficiale e dattiloscritto, a riguardo della sistemazione del campo. Mentre per il Tucci è Kalil che si occupa di andare a sistemare il campo proseguendo con la carovana, intanto che i Nostri continuano le loro visite e le loro osservazioni sui luoghi di maggior interesse, per il Doc è “solo dopo aver sistemato il campo” che le esplorazioni prendono il via. Evinciamo perciò, ancora una volta, come il Ghersi svolgesse vari compiti all’interno della spedizione senza alcun risparmio di energie.

Tra Tashigang e Namgia

Namgia

— Archivio Ghersi

— IsIAO

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Ritratto maschile, forse un portatore della spedizione — IsIAO

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


28 Luglio

“A mezzogiorno lasciamo il campo diretti a Namgia ultimo villaggio della parte orientale del Kunavar...” [Manca la pagina 56, del dattiloscritto originale. NdA] Breve il diario ufficiale della spedizione e purtroppo manca la pagina 56 del dattiloscritto. Con l’aiuto della Cronaca proseguiamo. Le asperità del territorio sono messe in risalto dal Professor Tucci, mentre le dinamiche degli spostamenti della spedizione, caratterizzano la brevissima del Nostro. L’accademico in questa pagina tira le somme, riepilogando che senza eccezioni tutti i templi, tutti gli affreschi e tutte le opere d’arte importanti che si trovano nella valle dello Spiti e del Chandra, siano state immortalate dal Capitano Ghersi. Ad ulteriore riprova che il giorno precedente, il Doc aveva svolto interamente, il suo dovere di fotografo e cineo-peratore della spedizione Tucci, anche con “un occhio bendato” (aggiungiamo noi). [Manca la parte del foglio che riporta la data che noi riteniamo, con sicurezza, essere quella del 29 Luglio, come tra poco esporremo. NdA]

“Alle 13 Abdul con quattro cavalli ed alcuni portatori di Namgia partono per Poo con le cassette da depositare in casa dello Zialdar. Tutto il villaggio è in gran movimento per la raccolta dei ciuly e per la mietitura dell’orzo. Intorno al campo abbiamo trovato alberelli di melo con frutti acerbi ma deliziosi dopo un mese di scatolame.” Sappiamo, senza alcun dubbio che queste poche righe di Ghersi riguardano la giornata del 29 Luglio, perché ritroviamo le stesse informazioni nell’apertura del testo ufficiale della spedizione che manca solo di specificare come, Abdul e parte della carovana si avviino, all’ora di pranzo, per l’abitato di Poh. Nel diario ufficiale, ci si concentra soprattutto sulla descrizione dell’ambiente circostante, elogiando il lavoro e la paziente operosità dei suoi abitanti e inoltre si esalta la loro straordinaria capacità di aver saputo ricavare terrazze e piccoli appezzamenti coltivabili, nel bel mezzo di quelle aspre montagne. Il testo si dilunga inoltre sulla descrizione delle caratteristiche somatiche dei locali e sulle loro qualità di agricoltori o meglio ancora, lavoratrici, poiché come ben specificato dal testo, sono prevalentemente le donne a svolgere la parte più importante nel lavoro dei campi. Cronaca termina con la descrizione di due personaggi: Devichand e Tenzin. I due entreranno presto a far parte della spedizione, giacché assolvono il lavoro di corrieri postali, quindi esperti conoscitori della via carovaniera che conduce fino a Gartok. Ghersi conclude la sua parte con un accenno al cibo in scatola, consumato per gran parte del viaggio. La nostra domanda a questo punto, pare più che lecita: di quale scatolame si parla? Rispondiamo: Acciughe, sardine, pomodori pelati, piselli, carne in scatola dell’Esercito Italiano, frutta sciroppata, pasta Buitoni, cioccolato Perugina e olio d’oliva. Sappiamo con esattezza che la ditta Cirio, fu uno dei finanziatori della spedizione Tucci, anche se gran parte delle risorse economiche pervennero da un tal, Prassitele Piccinini, un industriale farmaceutico milanese, amico del professor Tucci. Ghersi raccontava, spinto dalla nostra avida curiosità, di come il Professore più volte, gli chiedesse se per caso tra le sue conoscenze non ci fosse anche qualche buon samaritano. E fu così che per la spedizione successiva, quella del 1935, Ghersi si accaparrò il dottor Carlo Isnardi, proprietario dell’omonima casa produttrice del famoso olio d’oliva di Oneglia, il quale prese parte alla sponsorizzazione del progetto in virtù dell’amicizia esistente tra le due famiglie originarie della città del Ponente Ligure. Come dettagliatamente descritto da Oscar Nalesini, nel suo Assembling lost pages, gathering fragments from the past pubblicato dall’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente dell’Università Orientale di Napoli, il professor Tucci negli anni cinquanta così scriveva “...del resto, come in tutte le mie precedenti spedizioni ho sempre provveduto con i miei propri mezzi” accentuando come, attraverso la vendita di articoli e di parte del materiale fotografico raccolto durante le missioni, venissero in parte, finanziate le spedizioni successive. La cessione del materiale era orientata alle riviste scientifiche e specializzate del settore, agli editori di volumi enciclopedici e persino ad alcune aziende del settore alimentare.

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Gli archivi fotografici delle aziende: Buitoni, Perugina e Cirio conservano immagini pertinenti a quegli anni; ritratti di uomini e donne tibetane che tengono in mano scatole e lattine dei loro prodotti, commissionate molto probabilmente per qualche loro bizzarra e stravagante campagna pubblicitaria.

30 Luglio

“Giornata dedicata al controllo del materiale e riorganizzazione delle scorte. Nel riordinare lo scatolame abbiamo costatato che alcune lattine sono esplose, forse per il calore e per le altitudini raggiunte.”

La giornata è raccolta in tre righe nel diario di Ghersi ed in sole quattro in quello ufficiale che abbiamo potuto constatare essere, normalmente di parecchio più lungo del testo del Doc. Dobbiamo presumere che si tratta di una giornata di riposo, quindi priva di particolari interessi per la spedizione scientifica. L’unico particolare degno di nota è che il Professor Tucci evidenzia il sistematico controllo delle scorte viveri e la loro ridistribuzione nelle singole casse calcolando l’esatto quantitativo di cibo in scatola sufficiente per quindici giorni, in ognuna di esse. Questo sarebbe il commento che ci si potrebbe aspettare da un logista della spedizione, ma nella pagina del Capitano Ghersi non si fa alcun riferimento alla conta. Il Doc si sofferma unicamente sulla sorpresa pertinente alle scatole di pomodori che sono “letteralmente esplose” per via dell’altitudine. “Il cioccolato della Perugina si era dapprima completamente sciolto e successivamente risolidificato prendendo la forma del fondo della cassa, incollandosi al legno della stessa. Non sai quante volte abbiamo dovuto separare schegge di legno dal cioccolato rimosso con i coltelli dal fondo delle casse. Moltissime scatole di pomodori e piselli erano scoppiate, costringendoci ad un lavoro paziente per recuperare il recuperabile e ridisporlo in alcune latte o scatole che fortunatamente avevamo conservato...” Queste sono le parole di Ghersi mentre raccontava l’episodio della fatidica scoperta al momento dell’apertura delle casse. Generalmente questa storia sorgeva spontanea dalle labbra del Doc, nel momento in cui qualche ospite chiedeva spiegazioni sui due piccoli e strani attrezzi metallici che il Capitano conservava in una delle vetrine, nel lungo corridoio nella sua abitazione spezzina. Erano due strani apriscatole, modificati con particolari saldature e con l’aggiunta di altre parti metalliche che egli stesso aveva forgiato appositamente per le spedizioni in Tibet. Le aveva eseguite per rendere i due utensili estremamente robusti ed efficienti, onde evitare qualsiasi problema con l’apertura dei barattoli nello sperduto cuore dell’Himalaya. Possiamo garantire con un certa gratitudine, che ancora oggi quegli attrezzi funzionano a meraviglia.

31 Luglio

“Al mattino visitiamo la casa di un signorotto di nobile famiglia originaria di Rampur. Nella sua cappella ci sono alcune

thanka di notevole interesse ma data la sua posizione sociale è stato inutile fare offerte. Nel pomeriggio sono arrivati al nostro campo due inglesi che avrebbero l’intenzione di tentare, per la prima volta, la scalata del Leo-Purgyul. Noi facciamo loro i nostri sinceri auguri per l’impresa ma io li informo di cosa è successo a me per aver solo scavalcato l’impronta del dio Purgyul.”

Questa pagina si caratterizza unicamente per due aspetti secondari ma non del tutto irrilevanti. Il primo concerne quanto abbiamo già in precedenza accennato, riguardo all’utilizzo degli appunti di Ghersi da parte del professore nella stesura del diario ufficiale, e viceversa. Nella prima riga di entrambi i diari, ritroviamo esattamente la stessa frase. Quello che ci colpisce è l’utilizzo dello stesso inusuale

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vocabolo “signorotto”, e poche righe più sotto si legge ancora “...la sua posizione sociale”. Questa constatazione ci rimanda alle perplessità e riflessioni esposte precedentemente. Certamente Tucci utilizza gli appunti di Ghersi per la stesura finale del testo, mentre il Doc recupera anni dopo informazioni dalla Cronaca della missione italiana nel Tibet occidentale, per abbellire il suo brogliaccio. Il secondo motivo è quello che si riferisce alla visita degli alpinisti inglesi che in serata raggiungono il campo dei Nostri esploratori. Sono diretti alla prima conquista della vetta del Leopurgyul, la prima assoluta alla sacra montagna. Per il Doc sono soltanto due, mentre per il professore sono in tre. Rimandiamo i curiosi, se lo desiderano, a verificarne il vero tra le pubblicazioni anglosassoni di quel periodo.

1 Agosto

“Il Lambardar nella sua casa ha opere in legno lavorato molto antiche e tra queste una bella finestra probabile opera di

artisti di Ka-nam operatori di quell’arte Himalayana ora scomparsa. Al tramonto, con molta cautela, la finestra è arrivata nella mia tenda dove io procederò ad accurato imballo.” La finestra di legno pregiato, finemente lavorata dai carpentieri-artisti della scuola di Kanam è l’argomento primario dei due diari. Tucci naturalmente dedica una pagina intera alla descrizione particolareggiata degli intagli lignei, della loro affiliazione artistica e del loro significato simbolico. Il Doc non tralascia l’evento ma riduce la notizia riferendo de “l’arrivo”, nella notte alla sua tenda, della finestra corredata da numerosi libri e manoscritti “venduti” di nascosto dal Lamberdar di Namgia. Il Professore invece si dilunga sull’episodio e sottolinea ancora una volta quanto “il denaro faccia gola anche a lui”, riconfermando che queste “strane compravendite” avvengano soltanto dopo il tramonto, per evitare il giudizio negativo e l’infamia d’indesiderati testimoni. Ghersi ci raccontava che lo smontaggio e l’imballo della famigerata finestra lo tennero occupato quasi per l’intera notte: “Oltre cinque ore di lavoro, accidenti!”. Ci piace pensare che tutto ciò avvenisse mentre il professore, pacificamente disteso sulla sua brandina s’era beatamente addormentato, leggendo alcuni passi del Trattato fra il Tibet e il re del Ladakh, riportato in uno degli ultimi libri appena acquisiti.

2 Agosto

“Durante la notte abbiamo udito il lugubre suono del Kangling e del Damaru accompagnati da monotone ed interminabili

cantilene. Dal nostro Lama abbiamo appreso che la riunione notturna è stata una cerimonia d’esorcismo officiata dall’in-

carnato di Tashigang appositamente venuto a Namgia. Con nostra sorpresa, di buon mattino, arriva al campo un servo del Lama di Tashigang, con grande borsone di pelle di yak, e chiede di entrare nella tenda di Tucci. Chiusa la tenda il fidato servo del Lama estrae dalla borsa il noto Rukien dicendo che il suo padrone lo manda a Tucci, in visione, affinché possa con calma studiarlo. Questo è un ipocrita mezzo per offrirne la vendita. Dopo riservate offerte e contro offerte, il raro Rukien entra nelle nostre casse per 650 rupie d’argento.” Come precedentemente anticipato, ritorniamo a parlare del prezioso ruchien. Il suo acquisto è senz’altro l’evento della giornata dove finalmente l’accademico realizza uno dei suoi sogni: avere, nella sua collezione privata di rari oggetti del buddismo tibetano, anche quel particolarissimo abito cerimoniale. Osserviamo con attenzione che i ruoli dei Nostri sono qui perfettamente scanditi. Ghersi, logista e contabile della spedizione, annota il ragguardevole costo del pregiato oggetto nel suo diario, mentre il Professore ci informa delle infinite “offerte e contro-offerte fatte

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segretamente” tra lui e il messo dell’abate di Tashigang, per giungere finalmente all’acquisizione del famigerato abito cerimoniale. Tucci ha dedicato diverse pagine dei suoi trattati alle origini, alla liturgia e al significato del rituale del Ciod ed ha dettagliatamente descritto anche l’abito utilizzato dall’officiante nella sacra cerimonia: il ruchien. Si tratta di una veste realizzata riunendo piccolissime parti di ossa umane, finemente lavorate per ottenere placche e piccole sfere perforate e collegate tra loro tramite cordicelle e fili. Le placche più grandi sono generalmente scolpite riproducendo immagini sacre delle divinità dei cicli del tantrismo più esoterico, iconografie di Heruka, Samara e Hevajra. Tali figure sono sempre circondate da minuziose raffigurazioni delle loro Dakini e da altre divinità minori legate al culto dei morti, e all’ascesa mistica dell’officiante.

3 Agosto

“All’alba l’incarnato, accompagnato da tutto il villaggio con canti e suoni, parte a cavallo facendo ampi segni di benedizione. Alle otto la carovana muove verso la vicina frontiera, teorica, tra il Tibet indiano e il Tibet occidentale. Alle 13 entriamo

nel canalone di Shipki dove il sentiero scompare in mezzo a grossi blocchi di roccia caduti dalle pareti della montagna. L’altro sentiero per Shipki che sale al passo è ripidissimo e non transitabile per i cavalli. Mentre Kalil ed i carovanieri iniziano il lavoro per aprire il passaggio alla carovana noi e Tenzin iniziamo la salita verso il passo. Alle 16 entriamo nel villaggio di Shipki prima località della provincia nord-occidentale del governo di Lhasa. Tucci nel 1931 è già stato in questo villaggio, dove cadde ammalato e fu curato da un Lama locale. In breve tempo buona parte del villaggio è intorno a Tucci per porgergli il benvenuto. Alle 18 il sole è tramontato e la temperatura scende rapidamente mentre noi siamo ancora in tenuta di marcia con calzoni corti e camice. Dopo mezzanotte arriva il Lambardar di Namgia, che era partito con la carovana, e ci comunica che la carovana arriverà domani avendo trovate gravi difficoltà lungo le sponde del fiume e nel canalone. Tenzin ha raccolto della sterpaglia e sterco di yak e così abbiamo il conforto di un buon fuocherello. Verso l’una un amico del Lambardar viene ad offrirci ospitalità in casa sua. La padrona di casa ci guida tra scalette e corridoi sino alla cappella privata, dove hanno preparate per noi spesse coperte di lana. Sarebbe stata una notte di breve ma piacevole riposo se un’armata di inqualificati insetti non ci avessero procurato dolorose e pruriginose punture.” Seguendo il percorso della carovana con il supporto informatico di Google Earth, che consigliamo vivamente ai lettori di fare per avere una sorprendentemente chiara immagine della via dove i Nostri si avventurarono quasi un secolo fa, possiamo constatare come ancora oggi, il sentiero che da Namgeal porta a Shipki, scompaia di fronte al piccolo corso d’acqua, lasciandoci intendere quali siano state le difficoltà che uomini e animali abbiano dovuto affrontare per superare quel tratto di sentiero e risalire al passo sani e salvi. È molto probabile che questo sia proprio il tratto in cui uno dei cavalli è precipitato con il suo carico. Vogliamo chiarire una volta per tutte, e questa pagina ce ne da lo spunto, che per raccontare alcune parti del lungo viaggio il Professor Tucci adotta una terza voce narrante, della quale abbiamo fatto accenno nelle primissime pagine del commento, e che quest’ultima deve essere considerata come licenza letteraria dell’accademico ai fini di rendere più avvincente l’intero racconto. Finalmente anche nel diario del Capitano ritroviamo la figura del buon Tenzin, che finora era stato menzionato solo nel testo ufficiale. Dobbiamo supporre che “il postino”, esperto conoscitore del territorio ed assoldato dalla spedizione italiana, sia diventato a tutti gli effetti, la nuova guida dei Nostri almeno fino a Gartok. Per la prima volta entrambi i diari si soffermano sul trascorrere della notte e lo fanno in maniera non distante. Insonne ed interminabile per il Tucci, che riporta testualmente “...un esercito di bestioline imprecisate morde anche attraverso i vestiti”; caratterizzata da “dolorose e pruriginose punture” per il Doc. Per la prima volta, ed ancora in entrambi gli scritti, viene descritto l’abbigliamento adottato dei nostri esploratori durante la marcia: camicia a mezze maniche e pantaloni corti sotto al ginocchio, i knickerbockers o pantaloni alla zuava. Sorridiamo al pensiero, considerando l’abbigliamento altamente tecnico che oggi abbiamo a disposizione per affrontare un trekking.

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Per ogni tipo di escursione, a qualsiasi latitudine ci esporremo, qualunque sia l’altitudine che noi andremo a sfidare, grazie a rinomate aziende del settore troveremo sempre il prodotto e l’indumento più adatto. Questo ci permette di fare una semplice riflessione: quando avvolti nella nostra giacca a vento imbottita con in tasca uno scaldino chimico, quando nel nostro zaino oltre al cibo e alle barrette energetiche certamente non ci siamo dimenticati di mettere il telefono cellulare, quando ai nostri piedi calziamo confortevoli scarponi rivestiti in materiale impermeabile e ci lamentiamo comunque di sentire freddo, ripensiamo per un attimo alla determinazione, alla tenacia, alla forza e di quanto grande sia stato lo spirito di sopportazione che ha accompagnato questi impavidi viaggiatori del primo Novecento. Se proveremo a farlo seriamente, ci renderemo conto delle difficoltà enormi che hanno superato e di quale sia stato il principio materiale di adattamento di tutti quei personaggi che hanno contribuito a scrivere pagine nuove nella storia dell’esplorazione ed ai quali dobbiamo gran parte delle nostre conoscenze. Il diario ufficiale della spedizione riporta i giorni del 3 e del 4 Agosto nella stessa pagina, noi li scindiamo, come ha voluto fare a suo tempo il Doc.

La spedizione Tucci attraversa un burrone tra Namgia e Shipki — IsIAO

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La salita verso il passo di Shipki — IsIAO

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La salita dal passo di Shipki — IsIAO

Giuseppe Tucci ed Eugenio Ghersi in visita al villaggio di Shipki — Archivio Ghersi

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4 Agosto

“Alle prime luci, infastiditi e assonnati, usciamo all’aperto e subito troviamo il Lama di Kaze ridotto in cattive condizioni dal freddo e dalle punture d’insetti. Alle 11 arriva la carovana e Kalil riferisce che ha impiegate sei ore per superare il ca-

nalone avendo dovuto sgomberare il sentiero da grossi massi nella ripidissima discesa verso il fiume. Un cavallo, per il franamento del sentiero è precipitato nel fiume con tutto il carico ed è scomparso. Con il cavallo caduto nelle acque della Sutlej, abbiamo perduto tutto il materiale di pronto soccorso ed i medicinali più una cassetta di viveri. Pomeriggio di riposo per uomini e cavalli.” In questo paragrafo, possiamo osservare come i Nostri abbiano svolto attività diverse l’uno dall’altro. Dopo il racconto dell’avvenuta perdita del cavallo durante il percorso accidentale, il Doc ha trascorso la giornata in compagnia di Kalil e dei carovanieri, facendo il punto sulla morte del quadrupede e sulla perdita di tutto il materiale medico di pronto soccorso (sappiamo con certezza dalle parole di Ghersi, che Tucci portava con sé una piccola e personalissima busta di pelle, contenente farmaci e pomate che rimangono a quel punto del viaggio, l’unica fonte di medicinali disponibile in caso di emergenza). Diversità tra i testi: nella cronaca ufficiale si parla della perdita di un cavallo comunicata dal Lambardar in persona la sera prima, mentre nel diario del Capitano la notizia è comunicata dallo stesso capo carovaniere, quando quest’ultimo raggiunge il villaggio di Shipki alle undici della mattina seguente. La nostra interpretazione in merito potrebbe essere che il Tucci non abbia fatto menzione a Ghersi dell’accaduto durante la conversazione avuta durante la serata con il Lambardar, per motivi che al momento ignoriamo. Oppure, si può anche ipotizzare che entrambe le versioni siano valide, considerando che il Lama di Kaze potrebbe aver comunicato l’accaduto e che Kalil, al suo arrivo a Shipki in tarda mattinata, abbia ritenuto opportuno di riferire ai diretti superiori maggiori dettagli sull’accaduto, essendo egli stesso il responsabile della carovana al momento della sventura. In questa giornata il Professore si dilunga sulla visita del Lama di origini mongole, lo stesso che lo curò nella spedizione del 1931, che vive in un eremo proprio sopra il villaggio e che ha voluto fare visita alla sua vecchia conoscenza, il “cilinpà” (letteralmente: coloro-colui che sta al di fuori, che viene da oltre le montagne).

5 Agosto

“Dopo colazione la carovana parte per una località che i locali chiamano Kiuk. Noi ci attardiamo per fotografare alcune

iscrizioni sulle pietre di alcuni Mani. Quando arriviamo a Kiuk, troviamo il 27° campo (3180 mt) già in ordine sotto gli alberi.”

Per quanto breve sia questa giornata in entrambi i diari, ci pare interessante rilevare come il tempio di Puri, fondato dal grande Rinchenzampo, venga menzionato solamente dal professore, aggiungendo infine che questo si trova di là dal fiume, dove solo un misero ponte di corde lo attraversa. Effettivamente se seguiamo la descrizione del cammino della spedizione e confrontiamo i diari con la mappa di Google Earth, possiamo osservare come durante la discesa da Shipki, i Nostri lasciata momentaneamente la carovana, si siano soffermati sui numerosi “mani” per studiarne le incisioni più importanti e una volta raggiunto il piccolo villaggio di Shi Bu Quicun, abbiamo costatato l’effettiva distanza che li separava dal tempio di Puri. Una deviazione a questo punto del viaggio avrebbe comportato un’inevitabile nuova tappa, ma soprattutto e in quel preciso momento, sarebbe stato impossibile comunicare a Kalil e agli altri, già in cammino sul sentiero diretto a Kiuk, la loro improvvisa decisione di cambiare percorso, per fare visita al piccolo monastero. Detto ciò, è chiaro che la decisione presa è stata quella di proseguire il loro viaggio come da programma, lasciandoli forse con il ramma-

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rico e l’amaro in bocca per non aver potuto raggiungere il Gompa di Puri.

6 Agosto

“Abdul e la carovana partono alle 10 per Tiak mentre noi, Kalil, il Lama e due uomini con tende e cucina deviamo per Ser-

kung dove dovremo trovare, secondo informazioni avute a Shipki, un tempio che, secondo la tradizione, sarebbe stato costruito da Rinchenzampo. A Serkung troviamo solamente una cappella privata dell’unica famiglia di una certa importanza priva di qualsiasi interesse. In questo piccolissimo villaggio facciamo il 28° campo (3100 mt.)”

Rinchenzampo, il suo nome riecheggia così prepotentemente nella mente dell’accademico che la carovana si separa nuovamente. Kalil e gli altri proseguono lungo il percorso prestabilito in direzione di Tiak lungo il corso della Sutlej, mentre i Nostri e il Lama di Kaze si dirigono al piccolo villaggio di Serkung (SÈergong nelle odierne mappe) dove, secondo informazioni raccolte, dovrebbe trovarsi un altro tempio costruito durante la vita del grande traduttore. Nel testo ufficiale si menziona che: “Noi, [Tucci, Ghersi. NdA] Kalil e il Lama di Kaze” partono dall’ultimo campo, portando con sé unicamente “le tende e la cucina”, senza fare alcun riferimento ai due carovanieri. È prevedibile pensare che comunque i conducenti dei cavalli, che trasportavano la cucina da campo e le tende, si siano incamminati con loro verso il famigerato tempio, come annotato nel diario del Capitano. Purtroppo entrambi i diari si chiudono commentando la grande delusione. Nessun tempio, l’unico edificio religioso al quale fanno visita nella giornata è solamente un piccolo “tempietto” (testo ufficiale) “una scialba cappella privata” (nel diario del Doc), desolato e privo di oggetti di grande interesse, un luogo che non ha nulla a che fare con la solennità del grande traduttore, vanificando tutte le aspettative dei Nostri.

7 Agosto

“Alle 9 ritorniamo verso la Sutlej seguendo la sponda destra del fiumiciattolo che scorre sotto il villaggio. Giunti alla Sut-

lej, troviamo un ponte per pecore costruito da travi di diversa lunghezza assicurati alle sponde da muri a secco e grosse pietre congiunti da una stretta passerella di tavole. Il guado non è possibile data la profondità e violenza della corrente. Scarichiamo i cavalli ed uno alla volta, con molta prudenza riusciamo a portarli sulla sponda destra. Portiamo a spalle il nostro bagaglio e riprendiamo la marcia risalendo il ripido costone. Alle 14 raggiungiamo il nostro 28° campo a Tiak (3200 mt) che Abdul ha sistemato sotto grandi alberi di albicocca. Dall’altra parte del fiume si vede un piccolo gruppo di casette che, secondo le informazioni avute, dovrebbe essere il nucleo principale dell’antico villaggio di Radnis, dove nacque Rinchenzampo. Tucci rinuncia alla visita del villaggio di Radnis poiché bisognerebbe rimandare la nostra partenza. Nel tempio di Tiak tutti gli affreschi e le statue risalenti al tempo dei re di Guge sono ormai distrutti. Ben conservata, perché in bronzo, una statua di Padmasanbava con gli occhi d’argento. Dalla biografia pubblicata da Tucci nel 1933 si apprende che il grande Lotzava Rinchenzampo è nato a K’yun-ven nel Guge. Varie zone del Guge portano il nome di K’yun-ven. Radnis, dove il Lotzava ha costruito un tempio, si trova in una di queste zone ed è quando logico pensare che questo sia il suo luogo di nascita. Secondo informazioni avute da Lama Kanam, nel tempio di Radnis si troverebbero ancora ben conservati affreschi del 1000 al tempo della rinascita del Buddismo in Tibet per opera di Rinchenzampo e del re di Guge. Tucci ritiene sia indispensabile visitare e studiare gli affreschi di Radnis in una prossima spedizione.”

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La tappa a Tiak (oggi Dia) è motivata dalla visita all’ennesimo tempio dedicato a Rinchenzampo. Ancora una volta l’insoddisfazione è il commento che ritroviamo in entrambi i diari. Deturpato, in rovina, manomesso, distrutto, questi sono gli aggettivi usati dai Nostri per descrivere il tempio di Tiak, nel quale solo alcuni stucchi di notevole esecuzione e la statua in bronzo dagli occhi in argento raffigurante il grande Padmasambhava, sopravvivono allo scempio. Il professore fa notare l’insolita pianta del tempio a croce “greca” e rileva come una tale architettura non sia per nulla casuale ma riproduca esattamente il diagramma dei Mandala. Altra importante informazione ci proviene dal diario ufficiale che annota la presenza di numerosi chorten e mani, tutto attorno al tempio. Abbiamo cercato invano, tramite supporto informatico, di individuare il tempio di Tiak e i suoi “numerosi chorten” ma siamo giunti alla conclusione che tutto sia stato completamente cancellato durante la recente costruzione di alcuni edifici, voluti dalle autorità cinesi. Veniamo ora a ciò che accade al villaggio di Radnis. Questa volta i ruoli, quello del ricercatore e quello del logista, s’invertono. Tucci liquida in una riga del diario la descrizione della mancata visita a Radnis con la frase “vorremmo visitare il villaggio ma il fiume troppo gonfio e violento non permette il guado”. Il Capitano Ghersi ammette che il luogo appena mancato deve essere particolarmente importante per le loro ricerche, ed infatti termina il suo scritto riportando il commento dell’accademico (che non appare nella Cronaca) “Tucci ritiene sia indispensabile la visita a Radnis”, durante la loro prossima spedizione in Tibet.

8 agosto [Manca l’inizio della pagina. NdA]

“... su terreno pianeggiante e spesso troviamo sorgenti limpidissime e fresche. Quasi all’improvviso la valle si allarga ed

i cavalli faticano a procedere su terreno acquitrinoso. Infangati e stanchi alle 14 facciamo il 30° campo (3500 mt) a Miang. Il villaggio sembra disabitato. Più tardi Kalil ci riferisce che nel villaggio vi sono solamente vecchi e qualche bambino mentre tutte le donne sono al lavoro sui campi od ai pascoli con le pecore. Gli uomini validi sono tutti morti tre mesi or sono mentre sul passo tentavano di soccorrere una carovana bloccata dalla neve. L’unico Lama del villaggio si è ritirato in un zamcàn sopra il villaggio e vi rimarrà per un anno per ottenere dalle divinità maggior protezione per Miang. Il muro che chiude lo zamcàn ha una piccola apertura attraverso la quale la popolazione del villaggio od i viandanti possono introdurre cibi ed acqua. La chiusura volontaria negli zamcàn è effettuata generalmente, non per espiazioni di colpe, ma per profonda meditazione e pratica di alto- yoga. Alcuni asceti riescono ad ottenere un dominio dello spirito sul corpo ma noi occidentali non ne conosciamo ancora fisiologicamente la spiegazione. Due sono i fenomeni che personalmente ho constatato, l’iperpiresi volontaria (il forte aumento della temperatura del corpo) e la variazione volontaria del ritmo cardiaco. Il TU-MO’ (l’iperpiresi) permette al Lama di restare nudo sulla neve e sul ghiaccio in occasione di particolari funzioni. Altro potere eccezionale (personalmente non costatato) è quello dei LUNG-GOMPA’ che possono camminare per oltre 40 ore senza fermarsi e rifocillarsi. Miang è villaggio antichissimo attualmente ridotto ad una ventina di case. Su di un promontorio roccioso sono i ruderi di un grande castello che domina la valle. Nella nostra visita al castello non abbiamo trovato né iscrizioni né oggetti. La base dei muri periferici è formata da grandi pietre sovrapposte a secco grossolanamente scalpellate mentre per i muri interni hanno impiegato blocchi regolari di mota impastata con sterpaglia, cotti al sole. Il nostro Lama, sapendo che i ritrovamenti di oggetti (come ts’a t’sa, libri, ecc.) sono sempre generosamente ricompensati, è divenuto attivissimo. In un chorten, al centro del villaggio, ha trovato antichi manoscritti con interessanti notizie relative al re del Ladakh, conquistatore del regno di Guge. Tucci riesce ad acquistare alcuni Tontè, che molto difficilmente si

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riescono ad ottenere, essendo amuleti potentissimi. I Tontè sono oggetti trovati nei campi che non potendo identificarli vengono considerati caduti dal cielo.” La parte iniziale di questa pagina del diario del Capitano Ghersi è andata perduta. Dalle note ufficiali sappiamo che nella mattinata la spedizione risale agevolmente il sentiero che da Tiak porta a Miang. Tucci osserva le numerose fonti di “freschissima” acqua e il significato magico-religioso che tali sorgenti rivestono per le popolazioni locali, come ad esempio il culto per Jalamati, divinità ben nota tra i seguaci della religione Bon e divenuta in seguito parte del pantheon e della tradizione buddista guarda caso per opera del solito Rinchenzampo. A questo punto i diari si soffermano su alcune descrizioni della vita ascetica di Lama e monaci nei loro eremi, gli zamcàn. L’accademico puntualizza le straordinarie capacità di controllo sulla mente e sul corpo da parte degli asceti e dei “fenomeni ipnotici e medianici” dei quali sono capaci. Il Doc conferma di aver personalmente costatato due fenomeni: l’iperpiresi e il controllo volontario sul battito cardiaco, aggiungendo della particolare figura del “Lung-gon-pa”, una persona che in stato di trance è in grado di poter camminare a passo veloce per due intere giornate senza mai fermarsi per mangiare, bere o riposare. Ci raccontava Ghersi, nelle ore con lui trascorse a rimembrare straordinarie esperienze, di aver avuto l’occasione di poter vedere un Lung-gon-pa, durante la spedizione del 1935 e di aver osservato come questi si muovesse molto rapidamente tenendo stretto nella mano destra un caratteristico pugnale ricurvo, quale simbolo identificativo, per non essere disturbato o fermato durante il suo sacro procedere. L’unica differenza che possiamo osservare tra le due cronache in questa giornata è la seguente: nel testo del Capitano si menziona Kalil come latore della terribile disavventura accaduta pochi mesi prima a tutti gli uomini del villaggio, mentre nel testo ufficiale è citata “una vecchia”, arrivata al campo dei Nostri per vendere legna da ardere, che li informa della presenza di una grotta poco lontana, dove si trova un Lama-eremita in esilio per espiare la sciagura capitata (presumiamo quindi, che sia stata l’anziana donna a raccontare loro di quale sventura si tratti, fornendogli tutti i particolari del caso). Entrambi i diari terminano questa giornata convergendo sulla necessità di compiere futuri studi medico-scientifici, tanto da poter ottenere spiegazioni e vantaggi da queste peculiari conoscenze. Interessante è il commento di entrambi i testi sull’attività del Lama di Kaze, nel momento in cui i Nostri si trovano all’interno di sacri edifici, castelli o grandi ricettacoli di offerte: chorten. Ghersi evidenzia l’abilità del Lama da loro assoldato nel saper segnalare reperti interessanti e di quanto questa sua qualità sia indissolubilmente collegata a generose ricompense. Ed ecco che come per magia, compare il manoscritto sulle sei leggi di Naropa, contenente riferimenti storici a Senge Namgyel re del Ladakh, che conquistò il regno di Guge ponendo fine alla dinastia di sovrani locali. Mentre il Tucci si limita a sottolineare come il buon Lama di Kaze, “faccia ricerche con molta cura e perizia”. Il rinvenimento e l’acquisizione dei “Tontì” (Tucci) “Tontè” (Ghersi) – si tratta di manufatti preistorici, considerati oggetti sacri caduti dal cielo dalla popolazione locale e per questo da essi gelosamente conservati come preziosi amuleti – chiudono le pagine dei rispettivi diari. Annotiamo come ancora una volta l’accademico sorvoli nel suo scritto dell’acquisto di questi ultimi, come invece viene riportato sul dattiloscritto del Nostro logista.

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Tucci esamina i manoscritti a Miang — Archivio Ghersi

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Tucci esamina gli acquisti a Miang — Archivio Ghersi

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Resti umani sul luogo del “funerale celeste” a Miang — Archivio Ghersi

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9 Agosto

“Mentre torniamo verso il campo, dopo aver visitato alcuni zamcàn, ci colpisce un forte puzzo proveniente dalla nostra

destra. Fatti pochi passi, lateralmente alla strada, troviamo un braccio di donna con braccialetto al polso e più avanti la testa avvolta nelle sue trecce nerissime. A circa dieci metri il tronco aperto dallo sterno al pube. A breve distanza troviamo le gambe e l’altro braccio. Nell’alto Yang-tze-kiang già avevo avuto incontri di questo genere ma erano cadaveri squartati per condanne o per opera di briganti mentre nel Tibet è normale forma per eliminare i cadaveri. In Tibet, per mancanza di legno od altro combustibile, la cremazione è riservata ai grandi Lama e d’altra parte la sepoltura è vietata. Oggi è l’ottavo giorno della morte della donna e grazie al nostro Lama abbiamo ottenuto l’invito alla cerimonia funebre che avrà luogo oggi stesso, nel pomeriggio nella sua casa.” Su di un terrazzino provvisoriamente coperto con una coperta di lana troviamo gli invitati che allegramente bevono Chan e mangiano ciuly. Al centro un piccolo altare con tutti gli strumenti sacri necessari. In un angolo un grande recipiente di Chan e tsampà. Il titolare del tempio è, come abbiamo già saputo, in meditazione nello zamcàn sopra il villaggio e quindi la funzione sarà celebrata da un laico abilitato. Il celebrante inizia la funzione ponendosi sul capo un Ringa (una corona che porta incise o pitturate su cinque tavolette i cinque Buddha supremi) mentre nella mano destra tiene il Vajra e nella sinistra il campanello. Sull’altare è già pronto il Torma (forma conica d’impasto di farina d’orzo). Mentre tutti gli strumenti producono un frastuono assordante, il celebrante, ad alta voce, invita l’io cosciente a non reincarnarsi e progredire per lo stato intermedio di Amitaba. Pochi minuti di silenzio ed il celebrante annuncia che l’io cosciente della defunta ha lasciato la casa. I familiari incominciano a distribuire chan e tsampà così in grande allegria termina la cerimonia funebre.”

È il giorno della macabra scoperta, pezzi di un cadavere sono sparsi lungo il sentiero percorso dalla spedizione italiana. Come il Professore spiega nelle pagine del diario ufficiale, si tratta di un’antichissima tradizione in uso soprattutto tra i Dokpa e i nomadi di queste regioni, un funerale che ha come principale significato quello di evitare che il principio vitale del defunto non abbandoni le proprie spoglie mortali dopo il trapasso, ostacolando così il raggiungimento del nirvana. Lo squartamento del cadavere, i “rituali delle pie bugie”, come il Doc amava definirle, e le cerimonie conclusive tra l’ottavo e il quarantottesimo giorno dalla dipartita, avevano lo scopo di agevolare questo distacco favorendo il ricongiungimento del principio vitale con il nirvana. Confrontando i due diari si riesce ad avere un’idea precisa sullo svolgimento del rituale e sull’uso delle parafernalie per esso necessarie. Il Tucci si sofferma sui significati e sui valori simbolici degli strumenti utilizzati, fornendo un’interessante delucidazione sul concetto di “ritorno” del principio vitale, attraverso la consapevolezza del ricongiungimento tra la verità del vuoto e l’upaya, la prassi necessaria da seguire per l’ottenimento del completo distacco del principio vitale dalla vita terrena. A noi sorprende che Ghersi usi il termine tibetano di “tormà”, per indicare la formella di burro e farina dove l’anima della defunta dovrà discendere per effetto del rituale, mentre nel testo ufficiale l’accademico si limita a una superficiale descrizione della stessa con le parole “rozza figura... modellata con farina e burro”; siamo infatti abituati all’uso di termini tecnici da parte di Tucci e alle ben più semplici delucidazioni del Doc, e non viceversa.

10 Agosto

“Alle 9.00 lasciamo il campo di Miang ed iniziamo la marcia verso il passo di Shirang. Verso le 13, dopo una lunga e ripidissima salita, arriviamo su un pianoro verde malgrado l’altezza (4300 mt). Tucci decide di fare qui il 31° campo così i cavalli

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potranno usufruire del buon pascolo. Sul lato nord il pianoro termina in un profondo canalone nel quale, probabilmente, sotto la neve ghiacciata sono i resti di generosi uomini di Miang. Vicino al nostro campo si sono accampati dei pellegrini e si sentono le loro monotone litanie.” Le parole del diario di Ghersi che si riferiscono ai “resti di generosi uomini di Miang”, trovano spiegazione nel breve passo del diario ufficiale: sono i resti delle “...vittime cadute nella insidiosa lotta con la montagna che i Tibetani eternamente combattono”. Come leggiamo nel diario giornaliero del Doc, assieme ai Nostri sull’altipiano si accampano alcuni pellegrini che presto intonano una litania per lo spirito del passo Shirang che dovranno presto attraversare. Il Professore trascrive la sommaria traduzione del breve poemetto, nel quale si chiede la grazia allo spirito dimorante sul passo che costantemente chiede nuove vittime per placare la sua inesauribile sete di vite umane. L’ultima analisi su questa breve pagina è costruita sulla decisione di fare un campo intermedio senza dover affrontare il passo nella stessa giornata. Prendiamo come punto fermo che la risoluzione sia frutto del solo Tucci. Nel suo testo scrive chiaramente che nonostante ci sia ancora tutto il tempo necessario per superare il passo “...risolviamo di fare il campo su questo spiazzo...” – e cioè di fermarsi per sistemarvi il 31° campo – “... poiché non pare che sull’altro declivio troveremmo acqua e pascolo... ”. Ma come poteva sapere Tucci della mancanza di acqua e pascoli per i loro cavalli sull’altro versante del passo? Informazioni dei nuovi “postini” assoldati, potremmo azzardare. Inoltre, leggendo la pagina successiva del testo ufficiale, scopriamo che dopo il passo vi è una ciottolosa discesa che porta la carovana presso un fiume. Allora potremmo pensare che forse il professore aveva calcolato che il tempo necessario per il superamento del valico montano e la successiva discesa al fiume, avrebbe richiesto un maggior numero di ore rispetto a quelle di luce ancora disponibili. Oppure ragionare sul fatto che probabilmente, le nuove “guide” avevano passato all’accademico ragguagli tanto precisi da non lasciare dubbi sul da farsi. Ovviamente si tratta solo di semplici congetture, ciò che vogliamo sottolineare è come la figura di Giuseppe Tucci debba essere considerata determinante e autoritaria per tutte le decisioni vitali della spedizione anche sul piano logistico e di come le sue decisioni fossero inappellabili. Forse questo è il motivo per il quale il Capitano Ghersi scrive nel suo diario che “Tucci ha preso la decisione” e non entrambi.

11 Agosto

“Al sorgere del sole si vedono ancora le vette bianche del Leo-Purghyul. Alle 7 la carovana è pronta ed inizia la salita per il passo. Il terreno è buono e la salita uniforme. Alle 13 valichiamo il passo dello Shirang (4920 mt) coperto da spesso strato di neve a tratti ghiacciato. In lontananza si vedono i campi coltivati di Nu. Mentre poniamo il 32° campo (4130 mt) inizia una fredda pioggerella. Verso mezzanotte una forte grandinata e furioso temporale. Chankù per la prima volta ha dormito nella mia tenda.” [Chankù è il molosso tibetano che accompagna Tucci nella spedizione. NdA] La descrizione della giornata è molto simile nei due diari, se non fosse per la posizione del villaggio di Nu. Mentre il Doc afferma che una volta raggiunto il fatidico e temutissimo passo, è possibile scorgere in lontananza i campi coltivati dell’abitato di Nu, l’accademico si dilunga per ben due paragrafi sulle preoccupazioni e sulle perplessità dovute al fatto di non riuscire a vedere tracce dell’abitato, una volta superato il passo. Seguendo il cammino della spedizione su Google Earth, dobbiamo costatare che è in sostanza impossibile scorgere l’abitato e i campi terrazzati di Nu dalla piccola radura sul passo di Shirang e che i continui saliscendi descritti dal Professore in Cronaca, sono effettivamente quelli che il sentiero percorre per alcuni chilometri fino al villaggio. In effetti solamente dopo aver valicato l’ultimo di questi interminabili saliscendi è possibile osservare i campi coltivati e il paesello di Nu. Nel testo di Ghersi per la prima volta si menziona il cane di Tucci “Chankù”, finora citato solo una volta nel testo ufficiale nella giornata del 13 Giugno.

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Castello di Nu — IsIAO

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Castello di Nu — IsIAO

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12 Agosto

“Sulle alture intorno si vedono ruderi di antichi forti o castelli. Il Lambardar del villaggio, che Tucci aveva invitato al cam-

po, aveva promesso che oggi pomeriggio ci avrebbe accompagnati alle rovine dei castelli più grandi, ma all’ora stabilita si è presentato al campo dicendo che non poteva mantenere la promessa fatta poiché aveva saputo che noi avremmo fatto ricerche, forse anche tra i sassi delle rovine causando, quasi certamente, la liberazione di alcuni spiriti maligni che da anni sono nei castelli. Noi e due nostri uomini abbiamo visitato alcuni dei castelli o forti ed abbiamo fatto qualche scavo, ma abbiamo trovato solamente ossa umane, tutti scheletri senza la testa. Tucci dice che i crani non si trovano quasi mai poiché sono ricercati per la costruzione del Damaru. Ritornati nel villaggio, visitiamo i due templi che conservano ancora, in discrete condizioni, vari affreschi. La documentazione fotografica è difficile per la predominanza di colori particolarmente scuri.”

Nonostante i consigli del Lambardar, “un ometto storpio e guercio”, com’è descritto nelle pagine del testo ufficiale, i Nostri sono oggi concentrati sull’esplorazione e sulle ricerche archeologiche dell’enorme castello di Nu. La foto numero 135 nel testo originale riporta l’aspetto e l’imponenza delle rovine, oggetto dell’indagine, sfortunatamente non siamo riusciti a identificare i resti dell’enorme castello sulle mappe Google Earth. Il Foglio n.8, ove il Capitano ha tracciato l’itinerario della spedizione, non ci aiuta nella ricerca. Demandiamo a curiosi e appassionati l’interessante indagine. In entrambi i testi, due sono i momenti rilevanti narrati: il primo è l’esplorazione delle antiche tombe Mon (Kalmon), che secondo i locali si troverebbero proprio sotto le mura delle fortezze. Dapprima entrambi gli scritti si fermano sul ritrovamento di scheletri umani privi di teschi (eloquenti sono le immagini girate dal Doc) e che probabilmente sono stati adoperati per la realizzazione di strumenti rituali (come il damaru e il ruchien). Il secondo: gli affreschi dei piccoli templi nel villaggio. Tucci spende due pagine del diario ufficiale nell’esposizione particolareggiata degli affascinanti dipinti del diciassettesimo secolo, tenendo presente quanto nell’arte di Guge sia tipico utilizzare le tinte scure. Proprio per questo motivo, oltre che a essere completamente ricoperti di una patina lucida e riflettente, il Doc trova estremamente difficile immortalare con la macchina fotografica le preziose opere.

13 Agosto

“La carovana parte per Gumphug. Noi ci attardiamo per visitare un forte costruito su di uno sperone roccioso sul fiume

che essendo lontano dal villaggio potremo esplorare tranquillamente. Questo forte è costruito con una tecnica diversa da

quello di Miang. Le mura sono in pietra non scalpellata. Dagli scavi che abbiamo fatti abbiamo trovato frammenti di vasellame in terracotta ed alcune punte di frecce in ferro ben lavorate. Verso mezzogiorno raggiungiamo il nostro 33° campo (4350 mt) nelle vicinanze del tempio di Gumphug. Nel pomeriggio andiamo a visitare un vecchio Lama che gode fama di grande cultura. Il vecchio ci riceve nella sua cappella privata con grande gentilezza. Sino a tarda sera Tucci esamina libri e thanka, di grande interesse. Ho fotografato circa cinquanta fogli di manoscritti che Tucci ha scelto nella biblioteca.” Nel testo del Capitano Ghersi, la giornata del 13 Agosto è sintetizzata tra osservazioni sui ruderi della fortezza, ritrovamenti di alcuni reperti archeologici e il suo lavoro di fotografo su testi e tangkha di notevole qualità. Il Tucci si dilunga su ognuno di questi punti con approfondite osservazioni. Soprattutto sulle probabili attribuzioni delle costruzioni architettoniche e sulle contaminazioni culturali dovute alla presenza dei Mon, identificando con tale termine tutti i “non tibetani”, molto probabilmente invasori stranieri (noi, riteniamo si riferisca ai Mongoli che avevano occupato militarmente la zona ai tempi delle invasioni tra il XIII e XV secolo). Per quanto concerne la

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descrizione dei tangkha, i dipinti sacri eseguiti su seta o altri tessuti pregiati, il professore non ha alcun dubbio nel ricollegare queste opere con una scuola autoctona, priva di qualsiasi contaminazione cinese, riconducibile a forme e simbologie tantriche, originarie dell’India settentrionale.

14 Agosto

“Con un Lama di Gumphug, mentre nevica forte, partiamo per raggiungere uno Zamkam dove vive da molti anni un eremi-

ta. Seguendo uno strettissimo sentiero, scavato nella roccia, arriviamo alla grotta del vecchio Lama. Nell’interno una notevole quantità di manoscritti in notevole disordine. Tucci impiega oltre due ore per esaminare una parte di tutto il materiale allo scopo di fare un’offerta per i manoscritti più interessanti. Dopo varie offerte, il vecchio offre di cedere in blocco tutta la sua biblioteca. Una soluzione non prevista che si risolve con modica spesa.”

Più che la visita all’eremita nel suo zankam svoltasi assieme al Lama di Gumphung, la giornata riporta come avvenimento più importante l’acquisizione di preziosi manoscritti, tra i quali alcuni testi liturgici della scuola Bon-po. A noi pare intrigante il passo del diario ufficiale, nel quale il Professore rimprovera l’eremita per l’incuria con cui i testi sacri sono conservati; ci sembra particolarmente efficace la strategia con la quale l’accademico riesce a stabilire una sorta di sudditanza da parte dei nativi che spesso si risolve con l’acquisizione dei reperti più importanti da parte dei Nostri. Come osserva il nostro Capitano, questa avviene sovente con modica spesa in cambio di un cospicuo bottino. Ghersi tralascia completamente la storia relativa alla grande pietra incontrata lungo l’avvicinamento allo zankam e verso la quale il Lama mostra particolare devozione. Al contrario Tucci ci racconta che la pietra fu posata in sito da un pellegrino penitente e che l’impronta, lasciata sul possente macigno dalle spalle dello stesso, ne è la palese testimonianza.

15 Agosto

“All’alba partiamo in rombo verso est e dopo poche miglia arriviamo ad un esteso pianoro sabbioso, ondulato con qualche cespuglio del tipo desertico. Chankù per la prima volta ha dato segni di nervosismo avendo avvistato un branco di lupi che velocemente si allontanava verso nord. Io ho avuto la netta impressione che questi lupi siano notevolmente più piccoli dei nostri. Dopo una collinetta entriamo in una valletta, dove troviamo numerose tende di lana bianca e di lana nera. Noi facciamo il 34° campo (4600 mt) tra le tende dei mercanti e pastori e del loro bestiame (cavalli e pecore). Qui ogni anno si riuniscono i mercanti indiani ed i pastori e mercanti tibetani per i loro scambi e commerci. La merce più abbondante è il sale che è contenuto in sacchetti di lana che le pecore trasportano sul dorso. Il sale è, in pratica, la moneta corrente. Qui i tibetani scambiano le lane e il sale con i mercanti indiani che portano uva secca, stoffe ed oggetti in alluminio.” Nel testo di Ghersi, c’è la vivida descrizione delle merci e prodotti che i mercanti tibetani, ladaki e indiani scambiano in questo strano mercato chiamato Dongbara, nel bel mezzo del nulla. Curioso è leggere tra le annotazioni del Doc, l’uso del sale come moneta di scambio, altrettanto interessante è la varietà dei prodotti venduti o acquistati da mercanti che arrivano fin quassù. Rimane ignoto il motivo per cui sia stato scelto un luogo così insolito per allestire un tale mercato. Neppure nel diario ufficiale troviamo la logica spiegazione sull’infelice scelta della località; le frasi del professore si limitano a riconoscere questo sito, come uno dei tanti “luoghi di confine” dove si svolgono i mercati stagionali. I testi pongono infine l’accento sulle rigide temperature e sull’altitudine particolarmente elevata. L’accademico aggiunge che forse si tratta della “fiera più alta del mondo”: 4.600 metri di altezza.

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Il nostro Lama di Kaze guida un nostro uomo alla ricerca di tsa-tsa in un antico ciorten di Luk — Archivio Ghersi

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Dongbara, mercantidi sale — IsIAO

Il mercato annuale nella valle di Gumphug, 4.600 metri — Archivio Ghersi

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Il mercato annuale nella valle di Gumphug a 4.600 metri — Archivio Ghersi

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Ritratti maschili — Archivio Ghersi

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16 Agosto

“Tucci ritarda la partenza per incontrare ancora i pastori ed i mercanti tibetani che provengono da tutte le zone del Tibet

occidentale ed ottenere informazioni utili per il percorso verso Gartok. A mezzogiorno la temperatura è scesa a -2°C . Alle

13 partiamo mentre grandina con violenza. La carovana passa il Karum (4820 mt) nel silenzio di un’abbondante nevicata. Verso le 17 facciamo il 35° campo nel villaggio di Luk in vicinanza di un fiume.” Potremmo considerarla una giornata di riposo, se non fosse per l’attraversamento del Passo del Karum, prossimo ai cinquemila metri di quota, necessario per raggiungere la piccola località di Luk. Il Capitano Ghersi motiva la sosta prolungata sul gelido altipiano attribuendola a una ragione logistica: la volontà di Tucci di raccogliere il maggior numero possibile d’informazioni sulla via per Gartok. Noi ci domandiamo: e le loro guide? I famigerati postini assoldati per il suddetto scopo? Perché chiedere altre informazioni, quando con loro ci sono sottoposti che già conoscono la strada? Ritorniamo alle nostre affermazioni e congetture fatte sulla decisione della sosta prima di raggiugere il villaggio di Nu. Tucci non fa parola di questo delicato argomento, si limita a trascrivere nelle pagine del diario, l’interessante visita al mercato che lui stesso definisce “eterogeneo”, ove stoffe, oggetti in alluminio, lane e sale sono venduti e acquistati da numerosi mercanti. Più avanti nel testo scopriremo l’arcano. Ci sono irrilevanti diversità tra gli orari nei quali la carovana leva le tende da Dongbara (le tredici per Ghersi, verso mezzogiorno per il testo ufficiale) e l’arrivo al campo numero 35 (verso le diciassette per il Doc, alle sedici per la Cronaca).

17 Agosto

“Dai numerosi e grandi ruderi si può dedurre che Luk è stata in passato un importante centro commerciale e religioso. Le

case ancora abitate sono ben tenute, pitturate di bianca calce ed i tetti hanno spessi strati di sterpaglia per la difesa contro il clima rigido di questa zona. Intorno numerosi chorten, su di una collinetta spicca uno di loro colorato di rosso vivo. Ho visitato alcuni chorten, i più lontani ed isolati e sono tornato al campo con numerosi tsa tsa ben conservati e di ottima fattura. Il nostro Lama, ormai privo di scrupoli ritorna al campo con notevole bottino. Per la prima volta troviamo grosse difficoltà per ottenere la visita al grande tempio. Nel tempio non ci sono sacerdoti e la custodia è affidata ad un laico che oggi è assente e la moglie non vuole prendersi la responsabilità di aprire. Solamente il giovane nipote, addolcito dalle solite rupie, convince la zia a concederci l’entrata al tempio ma alla condizione di essere accompagnati dalla vecchia. Lascio sull’entrata la vistosa macchina da presa e conservo nel giubbotto la piccola macchina fotografica. Tucci, da devoto pellegrino, depone una rupia davanti ad ogni altare visitato e fa accendere, con il dovuto obolo, una lampada votiva alla divinità protettrice. Il tempio è ben conservato ed in ordine. La vecchia ormai rassicurata dalla devozione di Tucci si allontana per qualche tempo e così riesco a fotografare alcuni grandi affreschi.” Giornata sicuramente avvincente per diversi motivi. I tesori d’arte conservati nel tempio di Luk sono sicuramente il pezzo forte e più importante in questa giornata. Il Tucci dedica un’intera pagina del diario ufficiale per descriverne il pregio, l’importanza e l’ottima conservazione. Bizzarra è la storia dell’improvvisata del custode del tempio e della consueta manovra di aggiramento, lastricata di rupie indiane, che consente ai Nostri di riportare a casa materiale fotografico d’inestimabile valore. Secondo evento per importanza è l’esplorazione dei numerosi chorten e il conseguente ritrovamento di pregevoli tsa-tsa. Il diario ufficiale parla di un’esplorazione fatta “insieme” e svolta con estrema cautela, il Doc ci racconta invece come nella realtà tali

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azioni “esplorative” si svolgessero in maniera diversa. Il Capitano amava raccontare di come il Professor Tucci pianificasse queste delicatissime esplorazioni in modo da evitare ogni possibile nefasta conseguenza. Generalmente si faceva accompagnare dal Lama di Kaze presso un luogo pubblico, lontano dalle zone esplorative e iniziava la conversazione con i personaggi più illustri del villaggio al fine di attirare l’attenzione e la curiosità degli abitanti. Proprio in quei momenti, Ghersi partiva per le missioni e gli incarichi che l’accademico gli aveva in precedenza commissionato. Lontano da sguardi indiscreti, il Nostro riusciva ogni volta a svolgere egregiamente il proprio compito e tornava al campo con quanto l’accademico aveva ardentemente desiderato. Pur non essendo un egocentrico, mentre narrava questi episodi con un sorriso appena accennato, il suo sguardo si riempiva di orgoglio e noi si restava ad immaginare la sua figura furtiva entrare e uscire velocemente tra le rovine di un tempio, oppure rovistare in qualche chorten semidistrutto con la sua immancabile macchina fotografica a tracolla e una bisaccia sempre colma. Memori di ciò che abbiamo appena raccontato, ecco che il finale del diario di Ghersi ci svela il vero motivo per cui Tucci si era trattenuto sul gelido altipiano a raccogliere informazioni sull’itinerario verso Gartok. Nel testo si legge che il fiume Op non ha ponti e che la corrente è particolarmente forte, tanto da impedire qualsiasi tipo di guado. Solo dopo le prime gelate di fine Settembre sarebbe stato possibile attraversarlo. La via proposta dalle sue guide era dunque valida, non una via diretta verso Est in direzione di Toling, Tsaparang e Gartok, bensì una deviazione verso Nord per ovviare all’attraversamento del temibile fiume. L’accademico aveva voluto tastare il polso ed avere conferme. Il diario ufficiale si conclude con prospettive ottimistiche relative al percorso che i Nostri dovranno affrontare. Nonostante l’inevitabile dispendio di tempo e fatiche per raggiungere il cuore dell’antico regno di Guge lungo la via alternativa, nel testo si prospettano tutti i vantaggi nel poter visitare ulteriori luoghi e monasteri che riserveranno certamente affascinanti sorprese.

18 Agosto

“Partiamo appena fa giorno. Arrivati al fiume Op non possiamo tentare il guado data la forte corrente e così iniziamo la

risalita verso le sorgenti in cerca di un guado possibile. La temperatura varia sensibilmente da una valle all’altra con sbalzi

di 9 – 12 gradi. A tarda sera facciamo il 36° campo (4500 mt) in vicinanza del fiume. Oggi abbiamo percorso 22 chilometri sempre oltre i 4000 metri. Il nostro campo è già nell’ombra mentre a sud ovest l’Himalaya ormai lontana mostra una serie di altissime vette ancora illuminate dal sole (tra cui spiccano le vette del Nanda Devi e del Dalavaghiri). Questa sera il martello per battere i pioli delle tende è particolarmente pesante.” Ecco i diari di una giornata particolarmente impegnativa dal punto di vista fisico. Le parole di Ghersi sono eloquenti, la distanza percorsa e le condizioni nelle quali i Nostri si avventurano, sono a dir poco estreme. Tucci parla di sensazione di soffocamento, mentre con la carovana procedono verso Nord ad un’altitudine media di 4.500 metri. Salite e discese, temperature che raggiungono i 54°C al sole e ancora la mancanza di acqua, i gelidi venti che tagliano il volto, rendono arduo l’attraversamento delle profonde gole che i Nostri devono continuamente superare. La carovana percorre in quella giornata e in quelle condizioni, un complessivo di oltre ventidue chilometri. Osserviamo che tra i due diari c’è una sostanziale differenza e che tale difformità si può facilmente osservare nelle carte topografiche disegnate da Ghersi. Il Doc nel suo dattiloscritto parla della discesa al fiume Op e dell’infelice riscontro dell’impossibilità di guadarlo; nel diario ufficiale e nelle carte raffigurate dal Capitano Ghersi non c’è traccia dell’avvicinamento al suddetto fiume. Due sono le possibili conclusioni. La prima potrebbe essere che effettivamente il Professore avesse voluto verificare, toccare con mano, quanto asserito dai mercanti e cioè la reale impossibilità di guadare il fiume, e nel caso mettere in conto il notevole dispendio di tempo e di energie per scendere e risalire poi verso Nord, fino a trovare un punto più idoneo per il guado. La seconda risoluzione riguarderebbe un itinerario che i Nostri potrebbero aver seguito tenendosi a metà strada tra l’altipiano e la valle dell’Op, un percorso che poteva dar loro la possi-

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bilità di valutare la presenza di un possibile “attraversamento” e che di fatto non trovarono. Questa marcia a mezza costa, li avrebbe costretti a quei continui saliscendi descritti nel diario ufficiale.

19 Agosto

“Alle 8 i cavalli sono carichi e moviamo verso la sponda di un affluente dell’Op, risaliamo per un breve tratto verso le sorgenti e facilmente risaliamo sull’altra sponda agevolati da una grande frana che ha coperto il fiume. Iniziamo una ripidissi-

ma salita su terreno durissimo e privo di qualsiasi vegetazione. Verso le 12 raggiungiamo il passo di Sumur (4900 mt) e facciamo una breve fermata per la colazione. La carovana scende agevolmente verso la grande valle compresa tra la catena di Sumur e quella di Jangtang. Alle 14 facciamo il 37° campo (4600 mt) in vicinanza del villaggio troglodita di Sumur. Tutte le abitazioni sono scavate nel tufo e solamente alcune hanno un muretto all’entrata. Attualmente Sumur è deserta perché tutti, uomini, donne e bambini, sono sui maidan con le pecore al pascolo. Abbiamo visitato alcune abitazioni ed abbiamo rilevato che le varie grotte sono in comunicazione tra di loro con gallerie interne. Tutta la zona è priva di vegetazione salvo qualche cespuglio proprio delle zone desertiche. In vicinanza del campo passano alcuni Kiang che Chankù tenta inutilmente di rincorrere. Il Kiang è un elegante quadrupede, che a quanto mi risulta, vive solamente sul grande altipiano tibetano. Il Kiang ha il corpo snello del cavallo e le orecchie sono lunghe come quelle dell’asino, ma sottili e mobilissime. Il pelo è rasato di colore marrone chiaro, vive in branchi e pare non sia addomesticabile e per questo è ritenuto il cavallo degli dei.” Giornata di trasferimento senza particolari sussulti. Entrambi i testi concordano sulle caratteristiche del territorio e sul superamento di passi e fiumi. L’unico lieve disaccordo è in merito all’ora di arrivo al campo: le 14.00 per il Doc, le 15.00 per il Professore. A proposito delle difficoltà del percorso e dei continui ostacoli che la spedizione supera quotidianamente, il Tucci scrive un bellissimo paragrafo che sottolinea il particolare atteggiamento dei tibetani di fronte alla natura. Rimarca come nessuno di loro pensi di correggerla o modificarla ma piuttosto di come l’individuo si adatti, o addirittura subisca la forza della natura stessa. L’ostacolo non è mai visto come “esterno”, bensì come “interiormente rivisitato”. Scrive infine che in queste contrade non vi è traccia della lotta contro la natura per assoggettarla al volere dell’essere umano, come avviene purtroppo in tutto l’Occidente. Ancora l’accademico ci informa che le scorte di cognac sono ormai terminate e che il Capitano Ghersi impiega le ore di riposo costruendo un alambicco per estrarre la poca quantità di alcool contenuta nel chang (birra d’orzo tibetana), ottenendo così un distillato che a quanto scrive “riesce a meraviglia”. Sulle capacità tecniche e sull’abilità del Doc nel saper realizzare qualsiasi tipo di attrezzo o strumento capace di ovviare a ogni necessità o impedimento, potremmo spendere pagine e pagine senza mai esaurire aneddoti e odissee. Eugenio Ghersi era un connubio di praticità, ingegno e determinazione, un esempio e un monito per tutti noi.

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


Passo di Sumur — Archivio Ghersi

Paesaggio dell’altopiano di Sumur — IsIAO

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Verso Jangtang — Archivio Ghersi

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


20 Agosto

“Giorno di riposo per gli uomini e i cavalli.” Giornata trascorsa interamente presso il villaggio di Sumur. Demandiamo ai lettori di trovare le parole che mancano dal diario di Ghersi nei paragrafi del diario ufficiale, relative al giorno 20 Agosto. Là troverete la descrizione del villaggio di Sumur e la visita alle abitazioni scavate nel tufo con l’aggiunta del ritrovamento di alcuni manoscritti connessi alla mistica e alla liturgia buddista avvenuto in uno dei due piccoli tempietti del misero villaggio. E nel caso foste impossibilitati a farlo, non arrovellatevi! Poco più esiste di quello che abbiamo appena riportato.

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21 Agosto

“Partiamo all’alba ed iniziamo la marcia in una zona desertica sabbiosa. Dopo solo due ore la temperatura ha già raggiun-

to i 40°C. Intorno solamente grandi dune bianche che si susseguono come onde di un mare solidificato. Sul pianoro duro come il fondo di un lago prosciugato la temperatura è tropicale. Per la prima volta osserviamo il fenomeno del miraggio. La carovana che ci precede di circa un miglio sembra avanzi in un tranquillo lago ed i cavalli appaiono stretti ed alti come cammelli. Verso le 9 la temperatura scende sensibilmente e la luce tende al viola. È stato facile realizzare che sta iniziando un’eclissi di sole. In breve la temperatura scende ulteriormente ed anche la luce. L’eclissi è quasi totale, pur essendo un fenomeno naturale, esercita anche su di noi una certa impressione dovuta forse all’eccezionale ambiente in cui ci troviamo. La reazione al fenomeno è terrorizzante per i cavalli e per gli uomini non musulmani come Tenzin ed altri quattro carovanieri. Cinque cavalli si allontanano al galoppo scaricando tutto il carico, mentre Tenzin ci scongiura di aiutare il sole nella sua lotta contro Raghu, il mostro celeste che tenta di inghiottirlo. Tucci ed io scarichiamo le nostre pistole contro Raghu. Quando Raghu abbandona il sole, ritorna la luce ed il caldo, apparentemente più forte di prima. Occorre circa un’ora per riordinare la carovana. Nel tardo pomeriggio facciamo il 38° campo (4500 mt) nel villaggio di Jangtang. Il villaggio è in completa rovina ed i pochi abitanti vivono in grotte del tipo di quelle di Sumur. Nelle rovine del tempio troviamo solamente i resti dei rosoni che un tempo adornavano le statue.” Trattasi di una giornata particolare, non fosse altro che per l’eclisse di sole quasi totale che costringe i Nostri a dover sparare colpi di rivoltella verso il cielo, accontentando e rinfrancando gran parte dei loro carovanieri. Per noi è invece decisamente interessante perché si tratta di uno degli spostamenti più difficili dell’intero viaggio dal punto di vista dell’orientamento. Raggiungere Jantang non è facile lungo quell’itinerario. Ci si muove su un altipiano quasi interamente ricoperto di dune e totalmente privo di qualsiasi riferimento geografico che possa fornire indicazioni per la corretta direzione da seguire. Mentre il Doc nel suo diario pare più interessato alle notevoli variazioni climatiche e al fenomeno dei miraggi, nelle parole del professore si legge tutta la sua ansia, per non dire l’angoscia di smarrire “la pista”. Nel diario ufficiale si parla di una via spesso incerta, una “pista senza una vera e propria meta” e ancora, di un territorio dove “le ossa umane sparse lungo la via raccontano le tante tragedie ignorate di antiche carovane”. Dalla maniera in cui Tucci descrive l’ambiente e dal tono usato nello scritto, deduciamo che l’accademico in quei momenti non si sentisse per nulla tranquillo. Solo Ghersi, da buon logista della spedizione scientifica, si preoccupa di tenere il conto dei cavalli che, come impazziti si sono allontanati a causa dell’eclissi solare, nonché dal carico disperso e da dover recuperare in gran fretta, tra smarrimento e preghiere dei carovanieri che patiscono l’evento come “ira divina”. L’arrivo a Jantang è per Tucci una vera liberazione; ne esalta la rassicurante atmosfera descrivendo il fiume che lo attraversa, i verdi campi terrazzati che lo circondano e la cordiale accoglienza da parte dei locali. Diventa persino affascinante la visita ai numerosi chorten e alle rovine del tempio di Chaggo, di cui oggi rimangono solo le tracce del muro perimetrale e dal quale recupereranno qualche t’sa t’sa, anche se di pregio poiché di antica fattura.

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


Jantang — Archivio Ghersi

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Veduta di Jangtang — IsIAO

Abitazioni in grotta a Jangtang — IsIAO

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


Paesaggio nei pressi di Jangtang — IsIAO

Jangthang: alcuni stupa — IsIAO

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22 Agosto [Parte iniziale mancante. NdA]

“...con 6 ore di ritardo poiché nella notte... [altro passo mancante dal dattiloscritto. NdA] ...ieri hanno prelevato alcuni dei

nostri cavalli che pascolavano liberi. I nostri uomini seguendo le piste sono riusciti a recuperarli. Nella mattinata in attesa

di riordinare la carovana, con il nostro Lama, visitiamo quest’antico villaggio. La collina è come un alveare, un centinaio di grotte si sovrappongono e si congiungono con complicati corridoi. Troviamo solamente qualche vecchia ed alcuni bambini, tutti gli altri sono sui maidan con le mandrie di pecore. Alle 13 partiamo per Rabgyeling e facciamo il 39° campo (4100 mt) sulla sponda del fiume. Verso sera abbiamo la visita di un ufficiale tibetano che, portando gli auguri del governatore provinciale di Shangtzedsong, gentilmente chiede i nostri documenti. Tucci presenta tutti i documenti che ci autorizzano ad arrivare sino alla capitale del Tibet occidentale: Gartok. Tucci secondo le consuetudini tibetane scrive un lungo messaggio di auguri e ringraziamenti al governatore unendo le solite rupie in numero dispari. L’ufficiale soddisfatto riparte a cavallo per la capitale.” Incredibile notare come le notizie letteralmente volassero in quelle remote regioni, tra le più isolate dell’intero pianeta. La visita del militare che arriva al campo dei Nostri, sperduto nel bel mezzo dell’altipiano, stupirebbe chiunque tranne il Professor Tucci e il Capitano Ghersi che annotano l’avvenimento senza mostrare alcuna sorpresa per l’ispezione. Curioso come nel testo ufficiale ci si dilunghi sulla descrizione dell’ufficiale della milizia tibetana, sulle armi in sua dotazione, sul suo aspetto fisico, sul particolare abbigliamento, descrivendo persino i dettagli dell’orecchino in argento e turchese appeso all’orecchio sinistro. Similmente è riportato nei diari anche il primo incontro dei Nostri con i famigerati briganti del Tibet, che rubando alcuni dei loro i cavalli li costringono a una sosta forzata. Incontro finito bene, anzi benissimo diremo noi, grazie all’abilità dei carovanieri nelle vesti di esperti investigatori che leggendo le tracce dei loro animali sul terreno polveroso, riescono a riportare a casa il maltolto senza spargimento di sangue. Il Doc conservava nella sua biblioteca, in un album fotografico, la foto di un gruppo di briganti immortalati durante la spedizione del 1935, di fianco ad un’altra fotografia dello stesso formato che ritraeva un gruppo di militari tibetani. Di sovente il Doc invitava il suo ospite, intento a sfogliare le pagine dei suoi album, a riconoscere quale dei due fosse il gruppo dei malfamati ladroni e quale, quello delle milizie regolari; ogni volta e inevitabilmente, Ghersi doveva accennare a un ironico ma rispettoso sorriso, correggendo la risposta del suo confuso visitatore.

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


Il monastero di Rabgyeling — IsIAO

23 Agosto

“Davanti all’acqua limpidissima del Rabgyeling-chu trascurando l’altezza e la temperatura mi sono tuffato nel fiume con

camicia e calzoni ed ho nuotato così per la prima vota a 4700 metri di altezza. Nel pomeriggio il Chansod del monastero accompagnato da due Lama è venuto al campo portando l’invito del Khampo per una visita al monastero. Alle 17 ci rechiamo al monastero e all’entrata siamo ricevuti con molta cortesia dal Chansod che attraverso corridoi e scale scarsamente illuminate ci accompagna alla sala dove il Khampo ci concederà udienza. Nella sala ho subito notato due bassi tavolini sui quali sono due tazze per il te, una tazza è di giada con coperchio d’argento e supporto in argento e l’altra è d’argento senza coperchio. È evidente che la prima è per Tucci e la seconda per me. Anche il cuscino di Tucci è più alto del mio. La rigida gerarchia tibetana è così scrupolosamente rispettata. Il Khampo siede immobile su un grande cuscino e tiene le mani infilate nelle maniche come si usa in Cina e parla a bassa voce e fa brevi domande a Tucci circa la nostra provenienza e dove siamo diretti. Tucci lascia un generoso omaggio di rupie, sempre in numero dispari, e subito iniziamo la visita al grande monastero. Accompagnati dal Chansod, visitiamo per primo il tempio, non molto antico, che tuttavia contiene opere di pregevole valore artistico. La grande libreria contiene i 108 volumi del Kangyur stretti in artistici Lakchin, ed un’infinità di opere relative al lamaismo. Visitiamo quindi il tempio più grande ricco di thanka, statue e affreschi. Nella parte più alta del monastero visitiamo un piccolo tempietto, dove sono conservate, in discreto disordine statue, thanka ed oggetti di culto. Ritorniamo al campo con un’abbondante documentazione fotografica.”

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Si tratta di una grande giornata. La frase conclusiva del diario ufficiale dice testualmente che dopo aver trascorso queste prime ventiquattr’ore a Rabgyeling, il mondo sembra essere lontano come “un sogno della giovinezza”. Parole notevolmente poetiche, aggiungiamo noi. A riguardo cogliamo l’occasione per sottolineare come nel testo ufficiale, siano numerosi i passi letterari nei quali si ritrova una fortissima carica emotiva. Il contesto non ne è la ragione, lo si ritrova in circostanze estranee le una alle altre. Siano esse pertinenti alle descrizioni del paesaggio o dei personaggi appena incontrati, oppure siano paragrafi dedicati ai resoconti ed alle avventure vissute dai nostri esploratori. Molto probabilmente tali licenze letterarie sono da attribuirsi al Tucci in quanto, una volta prese annotazioni sommarie lungo il viaggio, ha poi avuto tutto il tempo necessario per rielaborare le brevi riflessioni fermate nei suoi appunti furtivi. Tranquillamente seduto alla scrivania nello studio della sua casa romana, man mano che procedeva alla costruzione del testo, il professore poteva così elaborare e arricchire di particolari la loro Cronaca, avvalendosi naturalmente del contributo del diario olografo del Capitano. Non sono certo i nostri complimenti di oggi che l’accademico e il Doc andavano cercando, ma ci teniamo a scriverlo soprattutto in considerazione del fatto che stiamo analizzando e comparando il diario di Ghersi con un testo scientifico. È un giorno in cui i Nostri vivono momenti particolarmente significativi: dal bagno del Doc a 4.700 metri di altezza, che come ricorda il professore non ha eguali sul pianeta, alla visita del tempio di Rabgyeling e dei suoi tesori artistici, fino all’incontro con il Khambo (Khampo nel diario del Doc, è una sorta di abate, il Lama con il rango più alto all’interno del monastero), che ha fatto preparare appositamente per loro un ricevimento di tutto riguardo. Per la prima volta il Tucci omaggia la raffinatezza dell’oggettistica di uso quotidiano del popolo tibetano (quello benestante, s’intende!) dedicando due pagine del diario ufficiale all’elenco ed alla descrizione di tazze, teiere, tavolinetti e cuscini ricamati. Il Capitano annota la scrupolosa gerarchia per l’uso delle diverse tazze, per la fattura e le altezze dei cuscini nonchè per la dislocazione dei posti a sedere pertinenti al diverso rango degli ospiti. Della visita del tempio e dei suoi tesori è interessante notare come il professore lasci intuire che tutto ciò sia stato reso possibile in considerazione del prestigio e della reputazione che lo accompagnano. Inoltre ci fa sapere che un contegno “compassato... è studiato per evitare ogni possibile discussione” e critica da parte dei Gelug-pa, (che ritenevano la moralità e la dottrina dei monaci di questo monastero un tantino libertina, aggiungiamo noi). Il Doc non perde occasione per ricordarci dell’obolo in rupie d’argento lasciato sul tavolino finemente intarsiato, quale prezzo del biglietto d’ingresso per la visita al tempio e il permesso per le fotografie. Anche Tucci scrive nelle pagine del diario di “un certo gruzzolo di monete d’argento” lasciato sul tavolo, ma solo come doveroso omaggio per le albicocche, i datteri, le noci e l’uva servite durante il convivio pomeridiano. Il Capitano ci parla dei 108 volumi del Kangyur conservati nella biblioteca del tempio, mentre il professore precisa che si tratta dell’unica copia finora trovata, stampata nel monastero di Derge. All’accademico non sfugge, tra l’altro, la particolare architettura dei templi e la loro disposizione che rende possibile la rapida trasformazione da luogo di culto, in una fortezza inaccessibile. Si dilunga persino sulla descrizione di una galleria scavata nel basamento del tempio più alto, al fine di poter attingere ad una fonte d’acqua in caso di attacco militare. La documentazione fotografica raccolta da Ghersi in questa giornata è a dir poco: grandiosa.

24 Agosto

“Pur essendo a 4500 metri la carovana procede a buona andatura verso Serka. Facciamo una breve fermata per visitare le

rovine di alcuni castelli e chorten. Alle 16 alziamo il campo di Serka (temperatura 40°C; altitudine 4500 mt).”

Tappa di trasferimento; le rovine e i castelli di cui Ghersi parla nella sua brevissima pagina, sono quelli dell’abitato e della fortezza di

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


Raksa, ancora oggi riconoscibile vicino al piccolo villaggio e del complesso monastico di Shisa, questo purtroppo oggi totalmente scomparso. Non abbiamo informazioni sul monastero di Shisa perché sfortunatamente il Lama che ne custodisce le chiavi si trova a Drangkar nel momento in cui i Nostri arrivano al sito. Ahimè, non esiste nessuna documentazione fotografica del monastero, né tanto meno delle opere della scuola Sakya che si trovavano al suo interno. Nel testo ufficiale si parla di antichi tsa-tsa ritrovati su entrambi i lati del fiume, risalenti al X e XI secolo.

25 Agosto

“Con una brevissima marcia entriamo nella valle del Trape-chu e facciamo il 41° campo a circa dieci miglia da Shangtzedsong capitale estiva di Tsaparang. Nel pomeriggio mentre ero diretto verso le rovine di un castello, ho scoperto numerose

grotte scavate nella collina di tufo. Alcune hanno i soffitti coperti di spessi tratti di fuliggine, evidente segno che furono abitate per lungo tempo. Tutte le varie grotte comunicano tra di loro con corridoi bassi e stretti. Un corridoio in salita ripida era parzialmente ostruito da sabbia ed attirò la mia attenzione. Risalendo carponi per circa quattro metri, arrivai in una grotta di notevole dimensioni dove, ammucchiati alla rinfusa, c’erano centinaia di tsa tsa e centinaia di fogli manoscritti tra i quali alcuni scritti con caratteri in oro su carta blue scura. All’inizio dei capitoli, dipinti a colori, figure di Buddha od altre divinità. Tucci facilmente riconosce che i manoscritti appartengono parte al Kanghiur e parte al Tanghiur. Gli tsa tsa sono di varie epoche ed alcuni sono attribuibili al periodo di Padmasanbava (X secolo). Oggi la temperatura ha subito sbalzi eccezionali (da +35°C a – 9°C).” “Esploriamo attentamente e facciamo esplorare dai nostri uomini tutte le caverne”. Sono queste le parole usate nella Cronaca, mentre in quelle del diario giornaliero del Doc, troviamo solamente l’uso della prima persona singolare per descrivere il lavoro di ricerca svolto nelle anguste grotte scavate nell’antico villaggio di Trape. Spesso e volentieri, Ghersi ci raccontava degli incarichi di esplorazione ricevuti e del suo prodigarsi sino a che le ricerche non avessero portato a risultati, anche minimi, commissioni che il Professor Tucci gli affidava, compiti che un Lama-rimpoché non poteva certo svolgere. Nel testo ufficiale è riportato che tali abitazioni e anfratti spesso si trovano a picco su strapiombi, dove il terreno facilmente “si sbriciola e si sfalda sotto i piedi, mentre vi si cammina”. Dubitiamo che Kalil e gli altri abbiamo aiutato il Capitano in questa delicata operazione esplorativa, supportati anche dalle parole di Ghersi che ricordava come solo in rarissime occasioni era stato accompagnato da qualcuno dei carovanieri durante tali sopralluoghi. I ritrovamenti ed i reperti recuperati dal Doc, raggiungevano poi le tende dell’accampamento con non poca difficoltà e fatica, dove venivano ispezionati dal professore. L’accademico, nelle sue piene facoltà di esperto, valutava cosa fosse “interessante” e quindi messo in salvo nelle casse, e cosa dovesse essere invece riportato indietro. Nel diario ufficiale si legge inoltre che grazie a questi recuperi, i Nostri salvano dalla distruzione solo quei fogli che sembrano essere maggiormente degni di studio. È un’affermazione che divide tutt’ora studiosi, appassionati, ricercatori, tibetologi, buddisti e curiosi. Al momento preferiamo astenerci da commenti fini a se stessi e limitarci ai fatti, alla documentazione fotografica, al preziosissimo video, alla bibliografica raccolta e all’oggettistica, portata in Italia dai Nostri che sarebbe altrimenti andata perduta e che oggi viene messa a disposizione per chiunque ne faccia giustificata richiesta.

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26 Agosto

“Oggi la carovana ha marciato quasi sempre nell’acqua dovendo attraversare numerose volte il Trape-chu che scorre lentamente ma irregolarmente nella valle. Alle 14 alziamo il nostro 42° campo (4650 mt) nella pianura ai piedi della collina dove

una volta esisteva la capitale Shangtzedson attualmente ridotta ad un imponente cumulo di rovine. Solamente il tempio, sul costone della collina è ancora in discrete condizioni. L’antica città è completamente disabitata, il governatore ed i suoi collaboratori risiedono nella pianura in discrete abitazioni. Alle 15 due servi del governatore vengono al campo portando a nome del padrone, farina d’orzo, the caldo, e burro. Poco dopo arriva l’ufficiale che abbiamo già conosciuto a Rabgyeling il quale in segno di personale simpatia porta un uovo per me e un uovo ed un tontè per Tucci. Abdul esaurite le scorte di sterpaglia ha usato per la prima volta l’argal.” Eccoci di fronte ai due differenti mondi che ci vengono raccontati dagli occhi dei Nostri. Ghersi telegrafico annota i movimenti ed il terreno su cui si muove la carovana, il Professor Tucci si dilunga sulla toponomastica e sulle delucidazioni storiche della contrada che stanno attraversando. Il Doc scrive sul suo diario di come la città sia in completa rovina e di come solo il tempio rimanga in condizioni discrete, mentre l’accademico ci da precisi ragguagli sul castello di Shangtze, precisando che non si tratta di “uno dei soliti castelli o monasteri fortificati” bensì di una fortezza reale dalle proporzioni “immense”. Ancora una dimostrazione, se mai ce ne fosse stato bisogno, di una profonda conoscenza della storia e della tradizione tibetana che ritroviamo nelle pagine di Cronaca dove il professore ci ragguaglia con la precisa descrizione della residenza-capitale estiva del signore di Tsaparang. Sintetizzando, ci spiega come il Tibet occidentale abbia la sua capitale a Gar (Gartok) e sia suddiviso in quattro province (Tsaparang, Rudok, Dava e Purang) amministrate dai loro rispettivi prefetti o Zonpon; senza tralasciare la menzione dei due territori che godono di una semi-autonomia, Sarang e Chumurti, e per questo motivo chiamati Rùpon. A questo punto i due diari ritornano ad essere piuttosto simili riportando la descrizione della visita dell’ufficiale tibetano già incontrato a Rabgyeling e dei doni che porta con se, soprattutto a riguardo delle uova (sono due; e delle quali sappiamo che almeno una è passata nelle mani del Doc quale dono personale), una vera rarità in Tibet e infine del tontè, del quale non viene fatta menzione nel testo ufficiale. È curiosa la prima citazione dell’“argal”, combustibile ottenuto dall’essiccamento dello sterco di cavallo, che viene acquistato dai Nostri (pagandolo a caro prezzo come sottolinea il testo ufficiale) presso lo stalliere del governatore. Un’ultima annotazione: per il Doc l’arrivo e la sistemazione del campo avviene alle ore 14.00, mentre per il professore la stessa avviene all’incirca alle ore 11.00. Se escludiamo un possibile errore da parte di uno dei due esploratori, possiamo pensare che la differenza di orari riportati nei diari sia con ogni probabilità riconducibile al fatto che per l’ennesima volta la carovana sia stata lasciata indietro mentre Tucci, Ghersi e il Lama di Kaze, avviatisi direttamente verso Shangtze, vi fossero giunti qualche ora prima di essa.

27 Agosto

“Alle 11 andiamo a far visita al nuovo governatore (Zonpon) arrivato recentemente da Lhasa. Siamo ricevuti con grande

cortesia nella grande sala del suo ufficio. Lo Zonpon è giovane, simpatico e di aspetto aristocratico, per l’occasione ha indossato l’abito tradizionale cinese e copricapo mandarinale, collana ed anelli. Fatti i convenevoli d’uso, rivolge a Tucci varie domande sullo scopo del nostro viaggio, la nostra provenienza e dove diretti. Accoglie con evidente piacere l’invito a colazione al nostro campo per domani. Nel pomeriggio facciamo visita di omaggio alla moglie del precedente Zonpon (già rientrato a Lhasa) indaffarata per preparare il viaggio per la capitale. La Zonponessa è molto lusingata della nostra

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


visita. È una donna elegantissima e di bell’aspetto. Belle collane di turchesi, sul classico abito multicolore dell’aristocrazia tibetana. Congedandoci Tucci le esprime i nostri auguri per un felice viaggio di ritorno alla capitale.” Ben poche le note a questa pagina di testo. Pagina dei diari pressoché identica, se si esclude la dettagliata descrizione fatta da Tucci per gli abiti, i gioielli e gli accessori dei due ospiti (Garpon e consorte) a cui i Nostri fanno visita. Da entrambi i diari manca l’acquisto dell’abito tibetano “multicolore” fatto da Ghersi presso la casa della nobildonna e del quale noi abbiamo notizia dalle dirette informazioni del Capitano, fatteci confidenzialmente a suo tempo. Il Doc teneva molto a questo abito e lo conservava perfettamente curato e ricoperto da un copriabito di tela cerata, all’interno dell’armadio nella sua camera da letto. Prima di passare a miglior vita, si curò personalmente di informarmi dei suoi ultimi voleri: essere vestito di quell’abito al momento dell’inumazione e far incidere sulla propria lapide il sacro mantra “Om Mani Padme Hum”, lo stesso che aveva trascritto ricalcandolo su carta copiativa, da una pietra trovata su uno dei mani presso Shangtze.

28 Agosto

“Puntualissimo, con la guardia del corpo, lo Zonpon arriva al nostro campo alle 13. Abdul per l’occasione ha preparato

una colazione fuori ordinanza. Molto apprezzate le nostre verdure, gli asparagi bianchi, le olive sott’olio ed infine il cognac. Abituato ai ciuly secchi tibetani, trova squisita la nostra frutta sciroppata. Lentamente con aria misteriosa mi porge una vecchia pistola con la preghiera di metterla in condizione di funzionare. Rimane a conversare con Tucci sino alle 15. Lo Zonpon e la scorta lasciano il campo e noi subito ci avviamo verso la vecchia città sulla collina. È inspiegabile che fra tanta rovina sia ancora in buone condizioni solamente il tempio. Io faccio ampia documentazione fotografica degli affreschi che Tucci ritiene di maggior interesse. Alcuni sono di eccezionale grandezza. Verso sera arriva al campo un ufficiale che porta a Tucci una lettera di presentazione dello Zompon per il Khampo di Toling dove noi saremo tra qualche giorno. Sulle colline intorno nevica forte.” A “mezzogiorno preciso”(secondo la Cronaca di Tucci) oppure “puntualissimo... alle 13” (come afferma Ghersi), o comunque sia stato, entrambi i diari aprono menzionando l’ora di arrivo del prefetto al campo dei Nostri. La colazione con l’alto funzionario viene descritta in termini leggermente differenti nei due testi. Mentre il Doc scrive del particolare apprezzamento del Garpon per i cibi in scatola italiani, il Tucci sottolinea come il governatore è perlopiù interessato alla sola posateria. Successivamente, durante la visita al tempio, l’accademico annota l’importanza degli affreschi del XVI secolo appartenenti alla scuola di Guge, ivi conservati e non risparmia giudizi e drastici commenti sul monaco che li accompagna durante la visita affermando che “...ha più della bestia che dell’uomo”. Nessun cenno nel testo ufficiale alla rivoltella che il funzionario tibetano porge al Doc con la preghiera di sistemarla e renderla nuovamente efficiente, compito ovviamente espletato confermiamo noi, grazie alla colorata narrazione che ci fece il Capitano (il funzionario tibetano conservava gelosamente alcune pallottole per la sua pistola all’interno di un grande “Gau” che portava al collo assieme con amuleti e formule magiche) durante una di quelle tante serate passate a frugare tra i suoi ricordi di viaggio. Interessante la citazione dedicata alla lettera consegnata ai Nostri, in tarda serata. Nel testo ufficiale si scrive comprensibilmente che si tratta di una lettera di presentazione per il Khambo di Toling che il prefetto fa consegnare al Tucci e nella quale “si raccomanda il pellegrino europeo” lodandone “le virtù” lasciando intendere che si faccia riferimento esclusivamente al Professor Tucci, mentre dall’ultimo paragrafo del diario del Capitano possiamo congetturare che si tratti di una raccomandazione fatta per entrambi. Assolutamente strepitose sono le immagini raccolte da Ghersi in questa giornata.

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29 agosto [Parte iniziale della pagina mancante. NdA]

“... tsa tsa e per la prima volta colorati. Verso le 12 facile guado e ripassiamo sulla sponda destra del fiume. Alle 16 ponia-

mo il 43° campo (4650 mt) a Shang, dove tra le rovine di due castelli e di grandi chorten troviamo tre casette dei pochi abitanti del villaggio. Inutile visitare i ruderi dei castelli essendo ormai un cumulo di macerie mentre sono ancora conservate due piccole cappelle. Un laico custode delle cappelle non ha fatto alcuna difficoltà ad aprirci. Nella cappella più piccola sono buttati alla rinfusa manoscritti ed alcune thanka. Per poche rupie il custode ci ha lasciato libera scelta.” La marcia prosegue lungo il Trape-chu. La parte mancante del dattiloscritto di Ghersi doveva molto probabilmente riportare dell’esplorazione effettuata tra i resti e le rovine adiacenti all’abitato di Kun Lan, in quanto è riportato del ritrovamento di numerosi tsa-tsa colorati anche nel diario ufficiale. L’esplorazione alle due cappelle di Shang gettano nello sconforto il professore che dedica un’intera pagina del testo ufficiale per ricordare l’opera certosina di abili amanuensi nel trascrivere le pagine di opere immortali come il Kangyur e il Tangyur, e nel vederle gettate alla rinfusa nell’angolo di un tempio sconsacrato, accumulate disordinatamente nelle buche di tufo di una grotta abbandonata o accatastate tra le rovine di chorten, che provocano in lui un profondo dispiacere. Rivedendo quanto scritto più sopra, dobbiamo dire che troviamo confortante il fatto che l’accademico abbia potuto recuperare e mettere in salvo molte di queste opere, con ogni probabilità oggi sarebbero andate perdute, e poco ci costa annotare come nei due testi venga diversamente enunciato l’episodio. Nel testo Cronaca non si fa menzione dell’acquisto di questi manoscritti ma solamente vi si legge che “non è difficile persuadere il vecchio custode che tener oggetti sacri con tanta esecranda incuria è peccato più grave del venderli a persona che ne avrebbe maggior rispetto”, mentre nel diario del Capitano viene riportato che “per poche rupie” i manoscritti finiscono nelle casse della spedizione. Il testo ufficiale si chiude concentrando gli ultimi paragrafi sulle pessime condizioni metereologiche, “vento di uragano” che “scuote e percuote le tende” e sul cammino attraverso il deserto che ancora li attende.

Abitazioni in grotta a Jangtang — IsIAO

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


30 Agosto

“Riposo per gli uomini e per i cavalli. Ritorniamo ancora sulle rovine dei castelli solamente per la documentazione foto-

grafica.”

Ecco la giornata di riposo, si fa per dire, in quanto si tratta di svolgere attività esplorative e di ricerca. Per il Doc è il momento di andare ancora in missione immortalando quanto di più significativo vi si possa trovare; per l’accademico è il momento di studiare e catalogare le opere finora raccolte. A discapito dei diari dobbiamo quindi considerare la giornata del 30 di Agosto un meritato riposo solo per i carovanieri e per gli animali.

31 Agosto

“Alle 8,30 la carovana si muove e dopo poche miglia inizia la lunga salita verso il Passo del Laoche. I cavalli risentono dell’altezza e la marcia è molto lenta. Alle 15 poniamo il 44° campo (4900 metri) in vicinanza di un fiume probabile affluente del Trape. La temperatura è di 4°C. Chanku è nel suo habitat più favorevole e dimostra la sua esuberante energia rincorrendo dei kiang che s’erano avvicinati al campo. Dopo il tramonto nella mia tenda la temperatura è di -2°C.” Nessun dubbio che il passo che i Nostri stanno affrontando sia particolarmente difficoltoso in considerazione dell’altitudine e delle asperità del terreno sul quale si stanno muovendo. Al momento della salita al passo nessuno dei due esploratori era sicuro di dove esattamente si trovasse il fatidico Laoche-La. Neppure la pia visita alla sacra e venerabile pietra che si trova sul primo valico che i Nostri raggiungono, il cosiddetto “sigillo di Padmasambhava”, aiuta il professore a capire se il passo Laoche-La sia nelle vicinanze o chissà dove. Il Capitano non fa cenno nel suo diario della “venerabile” pietra ma ne ritroviamo però la fotografia in cui viene immortalata a pagina 268 del testo ufficiale. Le carte non aiutano i Nostri, i nomi dei fiumi non corrispondono, le distanze e le valli non sono riconducibili alle mappe in loro possesso e il Tucci, particolarmente preoccupato chiede delucidazioni sull’ubicazione del passo ad alcuni pastori e nomadi incontrati lungo il cammino. Il risultato finale è quello di confondere ulteriormente le idee del professore sull’esatta posizione del convoglio. L’unico ad essere a suo agio in quelle estreme condizioni climatiche sembra essere il cane di Tucci: Chankù, il quale si diverte a rincorrere gli asini selvaggi nei pressi della carovana.

1 Settembre

“Partiamo verso le 10 a causa di qualche difficoltà per caricare i cavalli (temperatura –8° C). Due carovanieri accusano ce-

falea ed i cavalli salgono molto lentamente ed a piccole tappe. Alle 13 valichiamo il passo (5550 mt). Con una ripida discesa

scendiamo a 5400 mt, dove facciamo il 45° campo. Nevica e fa molto freddo. Chanku ha dormito all’aperto sotto una spessa coltre di neve. Il 46° campo (5400 mt) è sulla sponda di un fiume. Alle ore 21 nella tenda la temperatura è di -8°C.” Entrambi i diari riportano dei sintomi del “mal di montagna” tra alcuni dei carovanieri (il testo ufficiale lo fa anche al termine della giornata del 31 agosto). Tucci sembra aver finalmente capito dove la carovana si trovi esattamente nel momento in cui scrive “di risalire la valle del Sumna”, giungendo finalmente agli oltre 5.000 metri del Laoche-La.

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A mezzogiorno l’intera carovana è sull’agognato passo proprio nel bel mezzo di una tormenta di neve. La discesa è rapida e possiamo facilmente capirne il perchè, e il campo viene posto a 5.200 metri di altezza su di un piccolo spiazzo mentre inizia a nevicare, nelle parole del professore ritroviamo ancora la sensazione di insicurezza e timore come sottolineato dalle parole del testo “qui davvero si sente la solitudine; luogo più triste e melanconico non si potrebbe immaginare” [Pagina mancante del dattiloscritto con la giornata del 2 Settembre. NdA] Molto probabilmente per la difficoltà dovuta all’altitudine e alle terribili condizioni atmosferiche con il conseguente rallentamento delle attività, il Doc racchiude gli avvenimenti del 2 Settembre nella sua giornata del 1 Settembre, dove annota che “Il 46° campo ( 5400 mt) è sulla sponda di un fiume...”. Questo particolare avvalora ancora una volta la tesi sostenuta precedentemente, una sorta di rielaborazione del testo nel passaggio tra la versione olografica a quella dattiloscritta. In effetti, come avrebbe potuto Ghersi scrivere dove avrebbero piantato il loro 46° campo scrivendo del giorno precedente all’avvenimento?

3 Settembre

“Oggi la marcia è caratterizzata da dei sali e scendi di valletta in valletta, infatti, noi siamo diretti a Sud-Est mentre le valli

sono orientate a Nord-Est. Tre lupi osservano la carovana da un centinaio di metri e Chankù velocissimo, li ricorre e scompare con loro oltre la collina. Superato il costone dell’ultima valletta, entriamo nella grande valle della capitale del Tibet occidentale. Su di un piccolo pianoro poniamo il nostro 47° campo (4730 mt) ultimo prima di raggiungere la nostra meta più orientale della spedizione. Temperatura –11° C. Dal campo si vede, nella vastissima pianura il fiume Gartang che scorre lentamente in vari rami e laghetti verso nord-ovest portando l’acqua dal sacro Manasarovar al grande Indo a nord dell’abitato di Gargunsa.”

La giornata del 2 Settembre riportata nel testo ufficiale è molto breve e si sofferma sulle condizioni atmosferiche, sulle temperature particolarmente rigide, sulle fatiche finora affrontate e sull’ennesimo campo fissato questa volta ad oltre 5.000 metri di quota. Del giorno successivo possiamo osservare come il freddo sia particolarmente pungente per tutti, tranne che per Chankù impegnato a dare la caccia ai lupi. La vista della valle del fiume Gartang rinfranca i Nostri, adesso pronti alla discesa verso la capitale del Tibet occidentale.

4 Settembre

“Nella notte Chankù è rientrato con un orecchio lacerato. Rapida discesa nella pianura di Gartok che è compresa tra la ca-

tena del La-dakh e dell’Himalaya a nord-ovest e la catena del Kailasa e della Transhimalaya a sud-est. Le ultime due miglia

verso Gartok sono faticose per gli uomini e per i cavalli dovendo procedere nel fango e nei vari rami del Gartang. Alle 13 alziamo il 48° campo (4530 mt) a Gartok capitale del Tibet occidentale e meta della prima parte della spedizione.” Nella Cronaca le giornate del 4, 5 e 6 Settembre sono raccolte in un’unica pagina senza fare riferimento alle date. È possibile comunque avere un’idea generale degli avvenimenti in senso cronologico, comparando il testo ufficiale con il diario di Ghersi che invece riporta una per una le giornate e gli episodi ad esse collegati. Chankù e il suo orecchio malandato sono le prime osservazioni del Doc, mentre per il professore sono le rovine di un grande castello che i Nostri scorgono non appena discesi nella valle del Gartang. Il Tucci dedica quasi un’intera pagina del libro per immortalare la bellezza ed il fascino del paesaggio e ad elogiarne poeticamente tutti i suoi aspetti

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


nella coinvolgente luce del tramonto. Interessantissimo è il parallelismo tra le parole di Ghersi che scrive di essere giunti alla conclusione della prima parte della spedizione e quelle dell’accademico che invece sottolinea di aver raggiunto il limite estremo orientale del loro viaggio di ricerca e di esplorazione. Possiamo supporre che per il Doc si trattasse della tappa spartiacque di un’avventura giunta adesso a metà del suo percorso e che certamente avrebbe riservato ancora mille sorprese e avventure; mentre per l’accademico sembra più plausibile pensare che questa tappa sia il vero e proprio inizio del ritorno verso casa. Osservando attentamente su Google Earth il tratto di fiume che la spedizione ha dovuto superare per raggiungere Gartok, è facile immaginare le difficoltà descritte in entrambi i diari per il superamento del corso d’acqua che si dipana in mille rivoli ed acquitrigni proprio in prossimità della capitale.

Gartok: la guardia del corpo — Archivio Ghersi

Gartok, la residenza del Garpon — Archivio Ghersi

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Gartok, le donne più eleganti della capitale — Archivio Ghersi

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


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5 Settembre

“Oggi l’alza bandiera è fatto con maggiore solennità. Sono presenti tutti gli uomini che con noi hanno camminato e faticato, rispettando i patti fatti a Manali con il giuramento sul Corano.

Gartok capitale estiva (la capitale invernale è Gargunsa) è una vasta tendopoli, tende bianche degli indiani e tende nere dei tibetani. Due solo sono le case in muratura, quelle dei due Zanpon. Noi sistemiamo con cura il nostro campo dato che la nostra permanenza sarà di qualche giorno. Tramonto irreale per l’incredibile azzurro del cielo.” Ci colpiscono le parole del testo ufficiale, relative al momento dell’alza bandiera. Solo adesso scopriamo che tutti i santi giorni la spedizione italiana ha osservato questo particolare protocollo tipicamente militare, prima di levare il campo ed iniziare la propria marcia. Andando a rileggere le pagine precedenti, possiamo supporre che solo i due italiani provvedessero al cerimoniale della bandiera e che solamente in particolari occasioni, “lo stato maggiore” della carovana (Kalil, Abdul, Tienzin, il Lama di Kaze e altri tre carovanieri, come possiamo osservare nella fotografia numero 196 a pagina 274 del testo ufficiale) si radunassero sull’attenti per espletare il saluto fascista al tricolore (“salutiamo romanamente” si legge nella Cronaca). Precisazioni geografiche necessarie: Gartok è il nome della capitale del Tibet occidentale e come sarebbe facile pensare, dovrebbe trattarsi di una città. In realtà sia il Capitano Ghersi che il Professor Tucci ci informano che si tratta di due sole case in muratura, di qualche capanna e di un certo numero, “abbastanza instabile” dice il Tucci, di tende! Le due case appartengono ai due funzionari, i Garpon appunto. Il nome della località dove i Nostri fanno il 48° campo è Gar, come quello del paese che si trova più a Nord verso il Ladakh. I due paeselli si distinguono con i due suffissi di “gunsa” e “ryarsa” rispettivamente “estiva” e “invernale”. Le due località sono dunque le due capitali stagionali di un’immensa regione del Tibet che la città di Lhasa amministra e controlla grazie al lavoro di due funzionari in carica per soli tre anni. Il Tucci ci ricorda che nel testo di Ippolito Desideri che visitò Gartok nel lontano 1715, si menziona la presenza di una vigorosa guarnigione militare qui distanziata e che al momento pare essere solo un lontano ricordo.

6 Settembre

“Il governo del Tibet Occidentale è esercitato da due Garpon di pari autorità. I due governatori hanno sempre identità

di vedute nell’arte di sfruttare al massimo le risorse del paese durante i tre anni del loro incarico. Oggi siamo andati a far

visita di omaggio al Garpon presente in Gartok, l’altro è assente e lo sostituisce la moglie. Nella sala più grande della sua residenza ci riceve con squisita cortesia e dimostra soddisfazione per la nostra visita. Le ormai consuete domande sul nostro viaggio e gli auguri per il nostro felice ritorno in India. Il solito orribile thè con abbondantissimo contorno di frutta secca. Al tramonto è venuto al campo il vice Garpon in visita di restituzione presentandoci i due figli del Garpon, giovani studenti a Lhasa.” Il Professor Tucci dedica ampio spazio del diario ufficiale ai due Garpon; della precisa descrizione dei loro compiti, dell’importanza del ruolo di questi funzionari e dei loro sottoposti, senza tralasciare la rispettosa visita alle loro rispettive dimore. Cita inoltre il prezioso testo-guida sul pellegrinaggio al Manosarovar e Kailash donato al Tucci da uno dei due Garpon; lo stesso libro che sarà poi consultato per la preparazione dell’itinerario ai sacri luoghi, che raggiungeranno due anni più tardi. Ghersi ci ricordava che in più occasioni durante il suo secondo viaggio in Tibet, Tucci non risparmiava parole di elogio per quel “benedetto libro”. La loro esplorazione del 1935 nella regione del Manosarovar, soprattutto anche grazie alle preziose informazioni contenute

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


in quel testo “pieno di informazioni geografiche e storiche del massimo interesse” come si legge sul testo ufficiale, si svolse per l’appunto senza problemi di orientamento. La visita serale del vice Garpon accompagnato dai due figli del funzionario che studiano per diventare monaci, chiude entrambi i diari.

7 Settembre

“Nel pomeriggio siamo andati a far visita alla moglie del Garpon assente. La Garponessa è una donna molto elegante,

disinvolta, simpatica. Racconta a Tucci dei suoi viaggi nelle varie province ed in particolare di quello più scomodo e lungo da Lhasa a Gartok. Forse per curiosità esprime il desiderio di far colazione al nostro campo.” La visita alla “Garponessa”, come la chiamano i Nostri, è l’evento del giorno. Gli apprezzamenti per descriverla si sprecano in entrambi

gli scritti; sicuramente dev’essere stata donna dotata di grande personalità, il fatto stesso che anche il Professore riporti l’esplicito desiderio della nobildonna di fare colazione con i due stranieri ci lascia intuire tutta la peculiarità di questa singolare signora in uno dei luoghi più remoti del mondo, ci rammarichiamo di non aver mai visto una sola foto che la raffigurasse. Al contrario sono sicuramente di eccezionale valore fotografico-documentaristico tutte le immagini del Nostro autore che ritraggono scene di mercanti della zona intenti a trattare sui prezzi delle loro merci.

8 Settembre

“Il 25 settembre inizierà la grande fiera annuale di Gartok, e molti indiani, tibetani e ladaki sono già arrivati. Gartok si trova

sulla grande carovaniera che dal Tibet meridionale porta dapprima a Leh e prosegue poi per il Pakistan. Abbiamo visitato molte tende dei mercanti indiani e dei mercanti-pastori tibetani. Gli indiani portano sul mercato oggetti d’uso (coltelli,

chiodi, tazze in alluminio, stoffe colorate, ecc.) i tibetani portano lana greggia, scarpe di cuoio di yak, sale, coperte di lana extra pesante ecc. L’attività commerciale continua sino a notte inoltrata e si vedono passare da una tenda all’altra gli indiani con le loro pesanti lampade a petrolio e i tibetani con le traballanti luci a burro. Oggi Kalil ha sentito dire che è in arrivo un famoso Lama di Kam diretto verso Gargunsa per ritirarsi in uno zamkam per un lungo periodo di meditazione.” Il Professor Tucci descrive dettagliatamente le mercanzie vendute al mercato di Gartok e persino della visita annuale del commissario inglese che protegge gli interessi dei sudditi di sua Maestà fino quassù, sul Tetto del Mondo. L’accademico dedica l’intero capitolo del giorno 8 Settembre alle ore trascorse in conversazione con il famoso Lama di Kham, discepolo prediletto del grande Palden Devaghiazò.

9 Settembre

“Tucci riesce facilmente ad avvicinare questo famoso Lama con il quale passa molte ore, seduti in terra, sviscerando

complicatissimi argomenti di mistica ascetica.”

Il Capitano Ghersi riporta la suddetta conversazione nel brevissimo passaggio del giorno 9 Settembre. Di seguito ritroviamo in un unico

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passo le giornate dal 10 al 13 Settembre per il dattiloscritto di Ghersi e quelle dal giorno 9 al giorno 13, nel testo ufficiale. Prima di entrare nello specifico sulla conversazione avuta tra i due saggi, possiamo pensare che nell’elaborazione del diario personale il Capitano abbia volutamente aggiunto dell’incontro, riportandolo come unico avvenimento del giorno 9 Settembre. È più facile pensare che questo sia invece avvenuto il giorno precedente, considerando che l’accademico riporta nella prima riga di Cronaca, alla data 8 Settembre, l’arrivo a Gartok del famoso Lama. L’importante conversazione avvenuta tra i due è davvero speciale. Invitiamo caldamente il lettore a soffermarsi su questi passi che possiedono al loro interno una qualità di linguaggio davvero notevole, forbito ma altresì affascinante, frasi formulate in maniera che difficilmente vi capiterà di leggere ancora. Nelle parole dell’accademico si legge tutta l’ammirazione verso questo Lama con espressioni davvero toccanti. I due discorrono di mistica, di piani inesplorati della psiche, parlano di chiavi di lettura di testi ermetici, di livelli di coscienza e conoscenza della mistica buddista. Quando al termine dell’appassionante incontro, il Lama invita il Tucci a seguirlo per dodici anni di meditazione ascetica necessari per fare esperienze che lo condurranno alle rivelazioni più alte, l’accademico ritorna tra noi comuni mortali e conclude con una frase davvero significativa, esattamente nel momento in cui i due si congedano, notificando che l’asceta si incammina verso il proprio eremo mentre lui torna al campo per riordinare la carovana e preparare la via del ritorno; è stata quella, una vera e propria scelta di vita per il grande orientalista!

10 / 11 / 12 / 13 Settembre

“Giorni di riposo in attesa dei nostri uomini che da Rampur devono portare i sacchetti di rupie necessarie per il ritorno.

Nel Gartang ho visto guizzare pesci di notevole grandezza ma noi, ossequenti ai principi religiosi lamaisti, abbiamo promesso che mai avremo ucciso animali se non per legittima difesa. Tucci ha raccolto precise notizie sulla via da seguire per raggiungere Toling ed ha scelto quella più breve del Bogo-la.”

Sono giorni di riposo per il diario del Doc; sono invece giorni di sosta forzata, come inequivocabilmente sottolineano le righe d’apertura nella Cronaca, per il nostro accademico. Questo diverso approccio di fronte all’indubbia situazione di attesa, lo si può riscontrare facilmente comparando i due testi. Sappiamo da entrambi gli scritti che i Nostri non potranno ripartire fino a quando non faranno ritorno a Gartok i due uomini della loro carovana, mandati da Tucci a Rampur per recuperare i denari necessari a dar seguito alla spedizione. Ghersi, non sembra minimante preoccupato o ansioso nelle giornate trascorse a Gartok, mentre tra le righe del testo ufficiale si legge soprattutto della noia e dell’ozio che pervadono il Professore in queste giornate. Il Tucci ravviva le pagine del testo ufficiale con il solo racconto dell’improvvisata del loro cuoco, che prepara inaspettatamente per i due italiani, un bel pesce appena pescato con le sue stesse mani; sappiamo però dal testo ufficiale che quel pesce “... è talmente mucillaginoso e pieno di spine che non riusciamo a mangiarlo”. Si legge inoltre degli incontri avuti con i carovanieri di passaggio a Gartok finalizzati a raccogliere informazioni utili sulla via più rapida per raggiungere Toling, al fine di recuperare i giorni perduti nell’attesa delle rupie d’argento.

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Gartok, movimenti per la fiera

Mercante

— Archivio Ghersi

— Archivio Ghersi

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Mercante — Archivio Ghersi

Tucci e un figlio del garpon (governatore) di Gartok — Archivio Ghersi

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


Il fratello dello dzongpon in abito da cerimonia — Archivio Ghersi

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Donna dell’ aristocrazia di Gartok — Archivio Ghersi

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La moglie del prefetto di Davadzong

Donna dell’aristocrazia di Gartok

— Archivio Ghersi

— Archivio Ghersi

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Gargtok, pellegrini — Archivio Ghersi

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


I cavalli sono pronti per lasciare la grande pianura — Archivio Ghersi

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14 Settembre

“Gli uomini con le rupie sono arrivati allo spuntar del sole e così alle 12 la carovana inizia il ritorno. Abbiamo due cavalli di

meno forse sprofondati nella palude del Gartang dove erano al pascolo libero. Ripassiamo i vari rami del Gartang e verso sera facciamo il campo sulla sponda di un piccolo fiume (49°campo a quota 4650 mt).”

Brevissime entrambe le pagine dei diari. Il professor Tucci si rammarica per la lentezza dei due uomini di ritorno dalla missione (“ ...e si che... ci eravamo raccomandati che ci raggiungessero nella maniera più celere”) e scalpitando vuole immediatamente riguadagnare il tempo perduto. Inoltre nel testo ufficiale si legge testualmente che in questa parte del mondo “chi portasse con sè solo moneta cartacea potrebbe morire di fame”. Dopo l’arrivo dei due carovanieri da Namjia in tarda mattinata, Tucci decide di partire (attorno alle ore dodici si legge su Cronaca) per recuperare il tempo perduto e dare il via alla prima tappa di avvicinamento al Passo del Bogo. Entrambi registrano la perdita di due cavalli, probabilmente morti nelle paludi melmose del Gartang, ma lo fanno senza troppe preoccupazioni o dispiacere. Il Doc ha sempre sospettato, ce lo precisava nelle sue narrazioni, che i due cavalli non fossero morti o svaniti nel nulla, ma semplicemente che fossero stati venduti da uno dei carovanieri all’insaputa di tutti gli altri. Nel suo scritto ritroviamo infatti il vocabolo “forse” nel quale vogliamo leggervi tutta la sua perplessità, mentre nel testo ufficiale il Tucci scrive “mancano due cavalli che i carovanieri ritengono siano sprofondati nei paduli melmosi del Gartang” limitandosi a prenderne semplicemente atto. Di fatto nei racconti successivi alla Missione, il Doc ha sempre parlato e sottolineato del decesso e della perdita di un solo animale durante l’intera spedizione, quello caduto rovinosamente nel burrone con tutto il carico, sempre più convinto che i loro animali fossero stati meschinamente venduti.

15 Settembre

“Oggi i cavalli sono in buone condizioni dopo 13 giorni di riposo nella pianura di Gartok e quindi tenteremo di salire

alla quota più alta possibile per rendere meno faticoso l’ultimo tratto di salita per il passo. Prima del tramonto abbiamo raggiunto la quota di 5300 metri e facciamo il 50° campo su un pianoro al limite del nevaio. Questa sera a cena abbiamo festeggiato il primo campo del nostro ritorno (50°) con un bicchierino di acquavite di nostra produzione (distillata dal cian con un alambicco costruito con lattine di prodotti Cirio)."

È il momento dei festeggiamenti per il 50° campo, il primo sulla via del ritorno. Ghersi svela il segreto di come ha realizzato l’alambicco con il quale distillare la birra d’orzo (il tradizionale chang) utilizzando le latte vuote delle confezioni di pomodori della Cirio (che rammarico per noi, non avere neppure una foto del Doc all’opera davanti all’alambicco). Il percorso è particolarmente duro ma sono soprattutto, la presenza dei lupi, la desolazione dell’ambiente e il senso di abbandono che l’accademico annota nelle brevi righe del diario ufficiale di questa giornata. Ci sembra giusto sottolineare come nel testo del Doc si faccia riferimento al tentativo di salire il più in alto possibile sfruttando le rinvigorite condizioni fisiche dei cavalli, al fine di accorciare la marcia del giorno successivo, atta al superamento del passo. Chiunque abbia fatto esperienza in alta montagna sa benissimo cosa significhi avere davanti a se un passo di quasi 6.000 metri da dover superare. Disporre un campo alla quota più alta possibile per accorciare la distanza dalla cima, equivale alla somministrazione di potenti tranquil-

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lanti per la notte e quindi di poter riposare adeguatamente in vista dello sforzo necessario per il giorno successivo. Ghersi temeva il Bogo-La; lo temeva più di qualsiasi altro passo superato fino ad allora e ce lo raccontava spesso, quando ricordava che il Tucci aveva preso la decisione di avventurarsi su quel passo per recuperare il tempo perduto a Gartok, arrischiando l’intera carovana in un’avventura e una sfida che nessuno aveva preventivato. La fortuna aiuta gli audaci, avrebbe forse commentato il professore.

16 Settembre

“Alle 11,30 molto lentamente la carovana valica il Bogo-la 5900 metri. Mentre i cavalli riprendono fiato, noi ammiriamo il panorama che certamente non dimenticheremo mai. Ad est-nord-est la catena della Transhimalaya con il sacro Kailasa

(sacro per i buddisti, indiani e bon-po, i buddisti e indiani salgono al passo del Kailasa da ovest verso est, i bon-po da est verso ovest) ed a sud ovest, da uno strato livellato di nuvole emergono le vette più alte del grande Himalaya. Sopra di noi un cielo di un azzurro intenso. La carovana inizia la discesa. A 4800 metri facciamo il 51° campo. Si respira meglio.” È il grande giorno, il superamento del Bogo-La, alla quota di quasi seimila metri. Seguendo il cammino della spedizione su Google Earth si può osservare come la salita al passo sia stata lunga e faticosa. L’intero crinale non presenta la tipica spaccatura che spesso agevola gli alpinisti nel riconoscere la direzione da prendere durante la salita. Si tratta di una cresta pressoché continua con minimi salti di quota. Dobbiamo dedurre le difficoltà dei Nostri nel aver identificato il punto preciso dove poter valicare, per poi ridiscendere rapidamente nella valle che li condurrà all’abitato di Dongbo. Soltanto il fantastico scenario che i due italiani scorgono appena raggiunto il passo risolleva il loro morale. Entrambi incantati dallo scenario mozzafiato, dedicano qualche minuto alla contemplazione della catena Himalayana e lo riportano con parole molto simili nei loro diari. Aggiungiamo che il “si respira meglio”, pensiero fattosi parola nel diario del Doc e che comodamente ricolleghiamo alla facilitazione del respiro dovuto ad una quota inferiore alla quale i Nostri si trovano issando il campo numero 51 (a 4800mt), si riferisce altresì allo stato d’animo del Capitano per lo scampato pericolo nel superamento del Bogo-La. Non dimentichiamoci che con questa quota i nostri intrepidi alpinisti hanno raggiunto la massima altitudine del tragitto esplorativo e l’emozione è davvero tanta; la leggiamo tra le righe e vorremmo con tutto il cuore riascoltare ancora quella voce così avvincente mentre scandisce quegli elettrizzanti momenti della loro impresa.

Il passo di Bogo, 5.900 metri — IsIAO

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Il passo di Bogo, 5.900 metri — Archivio Ghersi

17 Settembre

“Marcia facile e veloce lungo il fiume. Alle 12 facciamo già il 52° campo nel villaggio di Dongpò (4300 mt) rivediamo gli

alberi ed i piccoli campi di orzo. Entrando nel villaggio costatiamo che la gentilezza e l’interesse possono coesistere. Le donne, per antico costume, all’arrivo di forestieri stendono sul terreno un pezzo di stoffa con sopra spighe di orzo. Il forestiero commosso dell’omaggio depone a sua volta un numero dispari di rupie.”

I campi coltivati ad orzo, i terrazzamenti di saggina, le prima case e soprattutto la presenza umana sono quanto di meglio in questo momento i Nostri possano desiderare. Il piccolo abitato, un feudo del monastero di Toling dove la spedizione è diretta, è un antico villaggio dove, quel che resta di templi e chorten, sta ad indicare un fausto ma lontano passato. Il Professor Tucci annota la differenza della tipologia dei monili usati dalle donne locali per indicare il netto cambiamento incontrato e ci ragguaglia sulla differente area di influenza culturale tra la valle del Gartang appena lasciata e quella dove adesso si trovano; la catena montuosa che i Nostri hanno appena attraversato, risulta essere quindi uno spartiacque anche dal punto di vista culturale. Ed ecco allora che le donne al lavoro nei campi abbandonano la loro occupazione appena scorgono l’arrivo degli stranieri, recuperano umili strisce di tessuto che subito depositano a terra e le ricoprono di spighe d’orzo e fiori, come vuole la tradizione locale in onore dei visitatori che a loro volta corrisponderanno al loro gesto con sonanti rupie: “gentilezza” ed “interesse” amabilmente convivono in queste regioni.

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18 Settembre

“Noi ed il nostro Lama ci attardiamo per visitare alcune rovine che si trovano a poche centinaia di metri dal nostro sentie-

ro. Troviamo un villaggio semidistrutto e disabitato, e grandi chorten gravemente danneggiati. Nelle basi troviamo alcune

cellette contenenti tsa tsa ben conservati e di ottima fattura. Riprendiamo il cammino e dopo mezzora circa raggiungiamo la carovana che si trova ferma in una strettoia dove i cavalli con il carico hanno difficoltà a progredire. Modificato il carico si riprende la discesa in questo labirinto desolato. Usciti da questa zona lunare entriamo in una grande valle desertica al centro della quale si scorge il grande monastero di Toling. Alle 15 arriviamo sulla sponda destra della Sutlej dove troviamo un ponte di catene. I cavalli affiancati da quattro uomini passano uno alla volta sulla sponda sinistra senza togliere il carico. Alle 16 facciamo il nostro 53° campo (3670 mt) in vicinanza di una grande tenda, dove i monaci del monastero sono impegnati in canti e preghiere.” Le rovine del tempio di Drinsa, dove i due esploratori ed il Lama di Kaze si fermano per svolgere le loro investigazioni, è ancora visibile su Google Earth. Il ritrovamento di alcuni tsa-tsa esalta il professore che sottolinea nel diario ufficiale come si tratti dei più antichi ritrovati finora. Il percorso che la carovana oggi attraversa è “lunare” per il Doc, “lontano da qualsiasi fantasia possa immaginare” per il Professor Tucci, che descrive in forma quasi poetica le angosce delle altitudini superate assieme alla dimensione mistica dell’animo umano nei momenti più esasperanti; lo fa attraverso formulazioni letterarie che scorrono ancor più travolgenti della Sutlej. Deduciamo attraverso queste parole che i Nostri sono ormai sicuri di poter completare la loro impresa senza altre difficoltà. L’arrivo alla Sutlej è una vera consacrazione di quanto appena detto sopra. Si parla in entrambi gli scritti del celebre ponte a catene con grandi maglie in ferro fatte a mano che non presentano alcuna traccia di ossidazione, una “vera rarità”, come sottolinea l’accademico. La carovana attraversa il ponte che oscilla pericolosamente sotto il peso dei cavalli, del loro carico e degli uomini che lentamente accompagnano un animale per volta nell’attraversamento svolto “con grande cautela”. Oggi un grande ponte in cemento armato con tanto di strada asfaltata e guard rail metallico attraversa il grande fiume, privandoci di quella sana indigestione di poesia che abbiamo appena fatto; fortunatamente quel memorabile ponte a catene c’è ancora, poco più in là, contrassegnato da centinaia di bandiere di preghiera che ricordano l’importanza, la sacralità e l’antichità di quest’opera.

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Ponte di catene sulla Sutlej — Archivio Ghersi

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


Deserto sulla via per Tholing — Archivio Ghersi

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Deserto sulla via per Tholing — Archivio Ghersi

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


Deserto sulla via per Tholing — Archivio Ghersi

Veduta dall’alto del monastero di Tholing, 4.670 metri — IsIAO

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Tenda di preghiera — Archivio Ghersi

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


Monaci in preghiera — Archivio Ghersi

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19 Settembre

“Verso le 10 Tucci invia al monastero il nostro Lama per consegnare al Khampo la lettera di presentazione dello Zonpon di

Tsaparag. Alle 12 viene al campo il Chansod con due servi che portano frutta secca come vuole la consuetudine. Dopo un

lungo colloquio con Tucci ed i tradizionali convenevoli ci comunica che il Khampo ha concesso l’autorizzazione a visitare il monastero senza specificare se ci sarà permesso fotografare o disegnare pitture e statue. Il Chansod, prima di lasciare il campo esprime un insolito e inspiegabile desiderio, provare a sparare con le nostre pistole e conoscerne il funzionamento. Il suo desiderio è immediatamente soddisfatto. Oggi non si può entrare nel monastero essendo in corso alcune funzioni religiose, e quindi io inizio a fotografare le varie parti esterne del monastero, i grandi chorten ed il mani di 108 piccoli chorten costruito a nord-ovest del villaggio. Il piccolo villaggio di Toling è praticamente una dipendenza del monastero essendo abitato dai laici del monastero stesso.” Un’altra differenza andiamo a sottoporvi; il Professore, nelle oltre due pagine del diario ufficiale relativo alla giornata del 17 Settembre, si dichiara soddisfatto di aver ottenuto l’autorizzazione dal Chansod di Toling non soltanto per la visita all’intero monastero, cosa per altro vietata a qualsiasi straniero per volere ed ordine diretto del sommo Dalai Lama, ma di aver concordato con chiare promesse il permesso di riprendere e fotografare le opere più importanti in esso contenute. Ancora una volta dobbiamo dedurre si tratti di un lauto pagamento in rupie d’argento che desumiamo dalla seguente frase:“ ma dopo molta insistenza e chiare promesse ogni cosa vien concessa”. Ghersi annota invece che l’autorizzazione alla visita è stata ottenuta ma che per quanto riguarda le riproduzioni fotografiche ci troviamo di fronte ad un nulla di fatto. E ancora; nel testo ufficiale il Tucci sottolinea come anticamente l’abitato di Toling fosse ben più esteso ed importante di quanto non lo sia oggi. Rovine di abitazioni, fortezze, templi e monasteri sono ancora visibili sulla parte meridionale del convento, mentre il Doc congeda il villaggio come una piccola dipendenza del monastero stesso. Lasciamo al lettore le più diverse interpretazioni in merito. Ci pare rilevante ricordare che i Nostri si trovano, in questo preciso momento, davanti al Khambo più importante dell’area e che persino gli alti funzionari tibetani, quali i Garpon, debbono inchinarsi di fronte alla sua presenza. Nello specifico, si tratta di un dottore proveniente dal grande monastero di Depung (famoso complesso monastico vicino a Lhasa), il suo rango e la sua educazione ne ingigantiscono l’importanza e il potere. Il Doc inizia il suo lungo lavoro di foto-cineoperatore attorno all’area del monastero tra “mani” ed “interminabili” chorten. Sono davvero spettacolari le riprese cinematografiche del complesso monastico, immortalate da diverse angolazioni, e degli esterni dei templi ripresi mentre il Professor Tucci si aggira curioso tra cortili ed angiporti. L’archivio fotografico della giornata è a dir poco meraviglioso.

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


Mani di 108 chorten — Archivio Ghersi

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Chansod — Archivio Ghersi

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


L’abate del monastero di Tholing — Archivio Ghersi

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Tholing, Tempio Bianco, dipinto di Prajoaparamita — IsIAO

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


Buddha nel monastero di Tholing — Archivio Ghersi

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Monaci del monastero di Tholing — Archivio Ghersi

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


Seminaristi — Archivio Ghersi

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20 Settembre

“L’amministrazione e la disciplina sono di competenza del Chansod mentre il potere spirituale è del Khampo (spesso è

un Bodhisatva). Alle 15 andiamo a far visita al Khampo che ci riceve nella sua tenda. Solito orribile the e frutta secca. La conversazione di Tucci col Khampo dura circa due ore ed è seguita con curiosa attenzione dai Lama presenti. Prima di accomiatarsi Tucci presenta al Khampo il libro della biografia di Rinchenzampo (protettore del monastero dove ci troviamo) scritto da Tucci in tibetano ed edito a Roma. Il Khampo legge con grande attenzione e subito esprime la sua meraviglia e ammirazione. Successivamente esprime ancora la sua sorpresa per questa biografia del grande Lotzava fatta da un laico, non tibetano, in correttissima scrittura tibetana ed assolutamente completa. Dopo tanti elogi noi ritenevamo scontata l’autorizzazione alla documentazione fotografica nelle varie cappelle. Non potendo entrare nel monastero nel pomeriggio sono salito sulla montagna sud-ovest di Toling, dove sono numerosissime grotte. Visitando una delle grotte ho notato un triangolino di carta che spuntava dalla sabbia del pavimento. Scavando nella sabbia è stato facile estrarre un foglio manoscritto con una figura di una divinità colorata di straordinaria bellezza. Scavando ancora ho rilevato che nella sabbia ad una profondità di 20-30 centimetri si trovavano tanti fogli ed alcuni ancora contenuti nei loro lakchin. Al campo Tucci ha riconosciuto che il foglio apparteneva ad un volume del Kanghiur, antica edizione. Nella notte con Kalil sono salito varie volte alla grotta ed abbiamo portato al campo tutto il materiale che abbiamo potuto estrarre. Tucci ha scelto tutto il materiale che ha ritenuto interessante e nella notte successiva io e Kalil abbiamo riportato il materiale non scelto nella grotta e rimesso nello stesso posto e ricoperto con la sabbia.” Si tratta di una pagina importante perché ancora una volta abbiamo le versioni distinte di avvenimenti influenti, soprattutto quelli che riguardano i compiti non ufficiali del Doc quali, l’esplorazione di luoghi particolarmente impervi e il recupero di materiale liturgico da templi sconsacrati, ruderi, grotte e rovine di ogni genere. Nel diario ufficiale si parla sempre usando “noi siamo, noi abbiamo...”, come se ogni esplorazione si fosse svolta fianco a fianco con il Professore. In realtà che le cose si siano svolte in modo sostanzialmente differente lo sappiamo dai racconti di Ghersi, nei quali ci aveva narrato di queste sue missioni in solitaria a caccia di tesori e che solo in rari casi il Doc veniva accompagnato dal fido Kalil, giustificando tali perlustrazioni in coppia, con valide motivazioni delle quali non stiamo qui a dilungarci ulteriormente. Comparando i due testi possiamo ipotizzare che nel pomeriggio del 20 Settembre, il Professore si sia avventurato con il Lama di Kaze nella facile esplorazione dell’antico Gompa sulla cima delle montagne argillose che circondano il monastero, dove al momento si stavano svolgendo importanti funzioni religiose, mentre il Doc fosse invece occupato sulle alture a Sud-Ovest, per cercare reperti nell’area più antica di Toling.Siamo certi che il Capitano svolga quella missione senza Tucci perché quando egli stesso rinviene diversi fogli di preziosi manoscritti che solo più tardi, al campo dei nostri come si legge nel suo diario, verranno mostrati al professore. Se fossero stati insieme nel momento del ritrovamento, non avrebbe avuto alcun senso il “portarli sino al campo per farli esaminare” e ancora, che solo “dopo averli attentamente studiati, Tucci ne confermi la notevole importanza”. L’accademico con ogni probabilità ricompone le due missioni esplorative in un’unica avventura ed inserisce il ritrovamento dei preziosi fogli nell’ultima parte della sua fase investigativa. La conclusione della pagina di Ghersi, come potrete notare, è ancora una volta la prova inconfutabile di quanto affermato sinora considerato che nel testo ufficiale non viene minimamente menzionato l’incarico commissionato dal professore al nostro Capitano. Un attento esame va riservato alle parole con cui Ghersi scrive dell’omaggio della biografia di Rinchenzampo fatta dal Tucci al Khambo di Toling. Si tratta più precisamente dei primi due volumi della monumentale Indo-Tibetica che il Tucci stava preparando in quegli anni, il primo dei quali contiene in appendice la biografia dell’illustre e sacra figura, scritta in “perfetto tibetano”.

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


21 Settembre

“Verso le 9 il Chansod viene al campo a comunicarci che il Khampo ha concesso di fotografare o disegnare senza limi-

tazioni ogni parte del monastero. Oggi ho fotografato statue, affreschi e libri per circa 6 ore. Dopo il tramonto entriamo

nel Serkan dove, sino ad oggi, nessun laico è stato mai ammesso. Il Serkan è la parte più importante del monastero ed è costruito in tre piani sul modello del famoso tempio di Odantapuri in India.” La giornata è dir poco memorabile. Dopo aver ottenuto il permesso per poter fotografare senza limitazioni l’intero complesso monastico, i Nostri si avventurano in uno dei luoghi più sacri e segreti di tutto il Tibet. Ghersi immortala ogni singola opera conservata nel sacro monastero. Il Professore dedica ben nove lunghe pagine di diario per descrivere i tesori in esso conservati. Ci dice inoltre che la loro guida è brava e intelligente, che si tratta di un “Ghelon” di origini mongole, il quale ha studiato nella famosa scuola monastica di Tashilunpo. Il valore dell’archivio fotografico realizzato dal Doc è inestimabile, soprattutto in considerazione del fatto che la maggior parte delle opere immortalate, sono oggi in gran parte andate perdute a causa della furia iconoclasta delle milizie cinesi durante l’invasione del 1959. L’accademico corregge gli errori dello Young identificando nelle figure di Lokapala, quelle che lo studioso inglese riteneva fossero immagini di Shiva; e altrettanto vale per le valutazioni errate del padre portoghese De Andrade riguardo le immagini dell’arcangelo Michele, riconducibili inequivocabilmente ai Kor-bo, raffigurazioni di divinità terrifiche comunissime nelle entrate dei templi buddisti. Il Serkàn è il Sancta Sanctorum del monastero, mai visitato prima da alcun forestiero; Tucci è letteralmente esterrefatto dalla quantità e qualità delle opere in esso conservate, mentre il Doc fotografa ogni più modesto dettaglio delle opere in sito. Non ci dilungheremo oltre, se non per rimarcare l’audacia ed il valore dei due esploratori italiani, sottolineando come siano stati i primi stranieri ad aver visitato quel luogo davvero speciale, coronando la Missione come si erano prefissi di fare. Di conseguenza lasciamo al lettore le riflessioni sull’effettivo valore delle fotografie realizzate dal Capitano Eugenio Ghersi, dando merito al Professor Tucci, quale profondo conoscitore del popolo Tibetano e della religione buddista, di essere stato un capace e perfetto diplomatico che con tatto e intelligenza ha saputo portare a termine uno dei principali obiettivi della missione scientifica.

22 Settembre

“Alle 10 ci rechiamo al monastero per ringraziare il Khampo. Ci riceve molto cordialmente e prima di congedarci pone le

mani sul capo di Tucci in segno di personale benedizione. Alle 12 una brevissima marcia e facciamo il 54° campo (3550 mt) sotto la collina di Tsaparang, la vecchia capitale del regno di Guge. La città che era sulla collina è completamente distrutta, solamente alcuni templi conservano ancora un tetto.”

La visita per i saluti al Khambo è contrassegnata dal “cinlab”, la sacra benedizione che viene impartita dall’alta carica buddista, posando le mani sul capo del fedele. Nel diario ufficiale il professor Tucci scrive che il dignitario dà la sua benedizione agli esploratori italiani e testualmente vi si legge “impone sul capo di uno di noi le sue mani dandoci il cinlab” mentre nel dattiloscritto di Ghersi si legge chiaramente che la sacra benedizione è impartita solamente all’accademico. Tsaparang era la capitale del regno di Guge ma all’arrivo dei Nostri, della città e dell’antica opulenza ne restano solo ricordi. Il centro era famosissimo per il suo mercato, dove commercianti provenienti dalla Cina, dall’India e dal Kashmir affluivano numerosi per vendere e comprare ogni genere di mercanzie. Nelle immagini cinematografiche della marcia verso Tsaparang osserviamo un Tucci in splendida forma che si muove agilmente sugli impervi sentieri; forse la soddisfazione per la riuscita della spedizione, soprattutto per il materiale artistico recuperato aveva rinvigorito l’accademico che fiero e soddisfatto, affrontava l’ultima parte del viaggio.

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Tsaparang, palazzo reale — IsIAO

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


Tsaparang, statua del Buddha nel cosiddetto Tempio Rosso — IsIAO

Tsaparang, Tempio Rosso, architrave lignea della porta di ingresso — IsIAO

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Tsaparang, otto cimiteri — IsIAO

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


23 Settembre

“In vetta alla collina l’imponente palazzo reale conserva solamente i muri perimetrali e nelle cappelle, senza tetto, si ve-

dono i resti di affreschi ed i piedistalli delle statue. Gli abitanti di questa città fantasma sono due, un ufficiale e un custode laico. Alla porta del primo tempio il custode rifiuta di aprire ma poi addolcito con il solito mezzo, consegna le chiavi ma lui rimane fuori per timore di spiriti maligni che lui assicura siano nel tempio da molti anni. Delle pitture murali rimane ben poco mentre sono in discreto stato alcune statue. Più in alto entriamo in un grande tempio, dove al centro c’è un gigantesco Buddha in bronzo dorato in ottime condizioni di conservazione. In discrete condizioni i grandi affreschi ed alcune statue alle pareti. Stupendi le travi del soffitto dipinti con motivi religiosi e geometrici. Nelle vicinanze troviamo un altro piccolo tempio che il custode sconsiglia di entrare essendo sede di una divinità terrifica molto vendicativa. Anche in questo caso consegna le chiavi e rimane fuori. La stupenda porta in legno è chiusa da un chiavistello con forma di una divinità non identificabile perché priva di gambe e di braccia. Tucci pone il solito obolo davanti ad una gigantesca statua di Maitreya, il Buddha del futuro. Io fotografo tutte le statue ed affreschi che Tucci ritiene interessanti. Nei dintorni delle rovine del palazzo reale Tucci ha notato un chorten che in cima ha una croce. Tucci è molto soddisfatto di aver, per puro caso, trovato il Chorten con la croce e così poter, dopo tanti anni, spiegare l’errore nel quale è caduto lo Young che riteneva quella croce la testimonianza della conversione al cristianesimo del re di Guge per opera del gesuita De Andrade intorno al 1580-90. Il chorten termina in alto con una colonna a 13 ombrella e 13 ruote ed in cima alla 13° ruota c’è la mezza luna che sorregge il sole. La luna ed il sole sono di stucco e sono sorretti interamente da due asticelle una verticale ed una orizzontale. Con il passare degli anni il sole e la luna di stucco vengono demoliti dalle intemperie mentre le asticelle in croce restano. [parte del dattiloscritto mancante. NdA] [24 Settembre? NdA] ...alle 15 facciamo il 55° campo (3500 mt) a breve distanza dal fiume in vicinanza di ruderi che secondo informazioni avute dovrebbero essere i resti dell’antico villaggio di Chabrang.” Il luogo descritto in queste pagine dei diari è davvero un posto particolarissimo. I due esploratori sembrano essere più amareggiati e dispiaciuti che incuriositi e appassionati alla visita delle rovine. Nel diario ufficiale il Professore chiosa su come si possa riassumere la visita a Tsaparang nella frase “scendiamo al campo sconsolati e tristi come succede a chi ha visto la morte”. Non potrebbero esserci parole più eloquenti, aggiungiamo noi. Ghersi parlava raramente di Tsaparang e quando lo faceva lo ricordava come un luogo tetro e triste, un luogo dove la sofferenza ed il malessere parevano esserne gli unici abitatori. Le paure del custode, le truci leggende, le maledizioni delle divinità e gli spiriti di demoni locali rinchiusi nelle buie e remote cappelle, nonché le raffigurazioni e le “immagini di creature mostruose con teste ferine e dozzine di braccia protese da uno stesso corpo che brandiscono minacciose armi di ogni sorta” come si legge testualmente su Cronaca, accompagnano i Nostri in questa particolarissima giornata. In entrambi i diari troviamo il riferimento alla famigerata “croce” (ovviamente immortalata dal Nostro fotografo a pagina 347 di Cronaca), citata dallo Young nel suo articolo scientifico del 1912, che secondo lui avvalora l’incontestabile testimonianza della penetrazione, nel Tibet occidentale del Cristianesimo nel XV secolo, grazie all’infaticabile opera dei missionari portoghesi guidati da padre De Andrade. Riconosciamo in entrambi i diari il sapore di un’evidente delusione provata dal Tucci nel constatare il veniale errore di valutazione fatto dallo Young. I diari riassumono le giornate del 23 e del 24 Settembre in un’unica pagina. A differenza dal dattiloscritto del Doc (del quale purtroppo ne manca una piccola parte) nel quale si parla di una marcia di spostamento da Tsaparang verso i ruderi di Chabrang, il diario ufficiale non ne fa alcun cenno e non riporta alcuna notizia di spostamenti dall’abitato di Tsaparang; possiamo ritenere che la suddetta marcia sia realmente avvenuta come si evince osservando attentamente le carte tracciate dal Capitano Ghersi e dalla comparazione con le tappe successive nelle pagine che seguono in entrambi gli scritti.

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Schema della parte sommitale e struttura interna del Chorten a Tholing — Archivio Ghersi

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Tsaparang, Tempio Bianco, statua di Hayagriva — IsIAO

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Tsaparang, decorazione del soffitto nel Tempio Bianco — IsIAO

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Tsaparang, Candamaharasananel tempio di bDe-mchong — IsIAO

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25 Settembre

“Partenza alle 9. Per qualche chilometro seguiamo il fiume e poi iniziamo una ripidissima salita seguita da una altrettanto

ripida discesa. Facciamo il 56° campo (3500 mt) in una desolata zona di campi abbandonati e case in rovina. Questo triste villaggio è Toshang. Fra tanta rovina sono ancora in piedi due casette, due templi e grandi chorten. Visitiamo il tempio più antico che secondo la tradizione risalirebbe ai tempi di Rinchenzampo, il grande Lotzava. Nel tempio, vicino all’altare buttati in un angolo, fogli del Kanghiur manoscritti ed un Lakchin con intarsiata la pentade suprema. Tucci ha parlato con i due sacerdoti del tempio ed ha costatato a che punto è giunto il degrado culturale in alcune classi di sacerdoti. I due Lama del tempio non sono in grado di leggere i sacri testi. Secondo Tucci sono di una profondissima ignoranza.” Il Professor Tucci risolve le due tappe del trasferimento da Tsaparang fino al villaggio di Toshang in un unica giornata. L’accademico si limita ad una descrizione sommaria delle opere contenute all’interno dell’antico tempio, parla del ritrovamento del Lob-shing (Lakchin, la copertura in legno finemente intarsiato dei testi canonici buddisti), delle pagine del Kanghiur e di altri importanti scritti, tutti in stato di completo abbandono. Racconta inoltre dell’incontro con i due monaci “ignoranti che non sanno né leggere, né scrivere”, soffermandosi sulla successiva esplorazione dei chorten e sul ritrovamento di alcune pagine del sacro Tanghiur, sicuramente anteriori al XV secolo.

26 Settembre

“Oggi attraversiamo forse la parte più isolata del Tibet occidentale. Partiti dalla triste Toshang valichiamo un piccolo

passo poi un pianoro, un facile guado di un fiumiciattolo, un altro passo e poi una ripida discesa sul villaggio di Puling. Questo è il nostro 57° campo (3600 mt). Questo piccolo simpatico villaggio è circondato da campi coltivati con grande cura. Nel secolo dei grandi progressi meccanici è commovente vedere questi contadini arare con aratri di legno un terreno così arido e sabbioso.”

Ghersi si occupa della descrizione dell’itinerario, mentre il professore ci informa della visita ad alcune rovine poco più a Sud del villaggio di Toshang, del ritrovamento di alcuni tsa-tsa, di qualche manoscritto e di frammenti di statue. Soprattutto ci parla dell’incontro con un Lama della scuola dei Sakya-pa, in pellegrinaggio verso l’India. Elogia l’erudito Lama per le sue conoscenze letterarie aggiungendo che quest’ultimo viaggia portando con sé rari libri pertinenti al culto di Vaisravana. Quei testi sono per Tucci “estremamente interessanti”, tanto da avviare una lunga contrattazione fino a spuntarne l’acquisto. “Non è soltanto un pellegrino, ma un mercante” leggiamo inoltre sul testo ufficiale a proposito di questo Lama. Tucci prosegue raccontando dell’interesse e della curiosità dimostrata dal Lama-mercante per il ruchien, quello comperato dal professore durante il viaggio. L’insistenza del pellegrino fa si che l’accademico gli mostri la sacra reliquia, noi desumiamo che lo stesso istante, sia stato ripreso nelle immagini cinematografiche girate dal Doc e montate presso l’Istituto Luce, poiché nel documento filmato ritroviamo il suddetto ruchien poco prima delle vedute panoramiche di Toling e Tsaparang. L’accademico prosegue scrivendo del nuovo incarico da lui affidato al Lama di Kaze: raggiungere il piccolo villaggio di Khartze, valutare, copiare eventuali iscrizioni e studiare le opere conservate nel tempio. La scelta è motivata dall’impervio percorso e dalla distanza del villaggio, che costringerebbe la carovana ad un ulteriore ritardo sulla tabella di marcia. Ghersi senza risparmio alcuno, immortala l’intera giornata fotografando persino gli arcaici attrezzi agricoli con cui lavorano i contadini di Puling (foto 256 e 257 a pagina 356 del testo ufficiale).

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27 Settembre

“Partiti dal 57° campo valichiamo dopo poche miglia un piccolo passo e poi per un monotono susseguirsi di pianori e

vallette raggiungiamo la valle dell’Op affluente sinistro della Sutlej. L’affluente di destra, che porta lo stesso nome è quello che abbiamo attraversato con un a certa difficoltà, nel viaggio di andata prima del passo di Sumur. Facciamo il 58° campo (4000 mt) ad un miglio dal fiume.” Lunga tappa di trasferimento e ben poche sono le cose da annotare. Anche il Professor Tucci si limita, con le poche righe del diario ufficiale, a descrivere l’ambiente geografico e il logorio esasperante della lunga marcia per raggiungere il fiume.

28 Settembre

“Attraversato il fiume, la carovana deve fare un’arrampicata difficile per raggiungere il passo. Rapida discesa ed alle 14 fac-

ciamo il 59° campo (3800 mt) nel piccolo villaggio di Rildigang. I pochi abitanti hanno un aspetto triste come la natura che li circonda. Il medico, certamente anche sciamano, acconsente di accompagnarci a visitare l’antica cappella del villaggio.” Finalmente i Nostri arrivano a Rildigang. La prima osservazione che ci pare importante sottolineare, è l’impressione suscitata dagli abi-

tanti del luogo nei Nostri esploratori. Se per Ghersi è la loro indole triste e malinconica, forse dovuta alla desolazione del territorio nel quale vivono, ad impressionarlo, per il Professore si tratta invece del loro specifico carattere ostile, aspro e scontroso. Accompagnati dal medico del villaggio, seguiti dal solito stuolo di curiosi, raggiungono il piccolo Gompa dove l’accademico rimane sorpreso nel trovare una statua del Gran Misericordioso (è sempre lui: Rincenzanpo) insieme a quella di Avalokiteshvara sull’altare centrale. Conclude il suo breve scritto lasciando aperta la domanda su quale connessione possa mai esservi tra: la figura di Rinchenzampo affiancata a quella del grande Buddha Supremo in questo tempio e la vicinanza geografica al paese di Radnis, luogo natale del grande traduttore, ove tra l’altro si trova la stessa identica statua votiva in avorio.

29 Settembre

“Attraversiamo il fiume di Rildigang e raggiungiamo il passo dal quale si vedono nitidamente i monti Gumphug dove noi nel viaggio di andata abbiamo fatto il 33° campo. Scendiamo in basso, attraversiamo la valle e riprendiamo la salita verso

il passo. Alle 14 valichiamo il passo (4900 mt) e facciamo un breve riposo per i cavalli. Dal passo vediamo le bianche vette del Leo-Purghyul. Riprendiamo la marcia ed in breve siamo a Ri, dove facciamo il 60° campo (3600 mt). I sacerdoti del tempio ci hanno accolti molto freddamente quasi sospettosi. Entrati nel tempio Tucci, depone una rupia per ogni altare per accendere le lampade votive e subito il sorriso appare sulle labbra dei sacerdoti ed il più anziano dice che lui stesso ci guiderà per una visita di tutte le cappelle del tempio. Ho fotografato quello che resta ancora delle splendide opere di abili artisti del passato ed ora tutto sulla via della completa distruzione. In questo villaggio, fuori dalle vie delle carovaniere il buddismo non è riuscito a sradicare le vecchie credenze animistiche del passato ed, infatti, nel centro del villaggio c’è un lhato dipinto di rosso, sede di una divinità venerata ed assai temuta che certamente non fa parte del pantheon buddistico.” L’antico paese di Ri è già stato allertato dell’arrivo degli stranieri ma tutta la loro iniziale diffidenza e i loro sospetti per questi “cilinpà” svaniscono non appena il Tucci rende omaggio, con offerte di sonanti rupie a tutte le statue votive del tempio. Anche il superbo astro-

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logo del paese si dimostra allora amichevole, invita i Nostri a visitare l’intero complesso monastico e persino ad un sopralluogo nella sua cappella privata. Il professore scrive che il grande tempio, ormai sulla via di una irreparabile rovina, poteva in passato reggere il confronto con i ben più noti templi di Toling e Tsaparang. Entrambi gli scritti si concludono con la descrizione del lhato al centro del paese, dedicato alla figura di Rolpa, una divinità locale temuta e venerata, un classico esempio di sincretismo religioso tra le figure dell’antica religione di quest’area del Tibet e il Buddismo che ha accolto, spesso trasfigurando e ingentilendo queste divinità terrifiche e inquietanti nel suo complesso e articolato pantheon.

30 Settembre

“Ieri notte, secondo le accuse fatte, alcuni uomini sarebbero colpevoli di rapporti molto intimi con ragazze del villaggio.

In un paese dove è in uso la poliandria questo fatto non dovrebbe essere molto importante tuttavia con 6 Anna per ogni ragazza l’incidente è chiuso. La carovana parte per Sarang mentre noi proseguiamo lungo un costone roccioso che termi-

na con uno strapiombo sulla valle di Sarang. Sul bordo del precipizio è il piccolo tempio di Chusu custodito da un vecchio apatico e triste sacerdote. Il tempio è in pessime condizioni, libri manoscritti e tangkha ammucchiati come spazzatura. Ho fotografato molto materiale. Non abbiamo asportato nulla. È triste pensare che tanto materiale storicamente importante andrà, tra non molto, inevitabilmente distrutto. Per un rovinoso sentiero scendiamo sino al fiume che facilmente attraversiamo. La nostra carovana è certamente già arrivata da tempo a Sarang ed infatti sulla riva destra troviamo due cavalli e due uomini inviati dal principe di Sarang per facilitarci la ripida salita al villaggio. Tucci a Manali aveva stabilito che noi saremo andati sempre a piedi durante tutto il percorso della spedizione allo scopo di mettere tutti gli uomini nelle stesse condizioni di fatica ed ottenere così disciplina ed obbedienza. Alle 18 raggiungiamo il 61° campo a Sarang (3500 mt).” Paese che vai, usanze che trovi. I Nostri sono alquanto sorpresi per tutto il trambusto causato dall’avventura amorosa che durante la notte ci deve essere stata tra uno dei loro carovanieri e una giovane donzella del posto. In un paese dove vige la poliandria, l’episodio non dovrebbe suscitare tutto quel clamore che al contrario, sin dalle prime ore del mattino, movimenta la consueta quiete dell’abitato di Ri. I due diari discordano in alcuni punti. Per il Tucci si tratta di uno dei loro sirdar mentre nel testo del Doc non si fa riferimento al responsabile dell’atto anche se si capisce chiaramente che debba trattarsi di uno dei loro carovanieri, in quanto l’aitante nobile tibetana chiede ai Nostri di essere compensata per quanto accaduto. Il Doc liquida l’accaduto in una riga del diario specificando la cifra con cui il problema viene risolto (5 Anna – moneta emessa in India durante la colonizzazione britannica il cui valore corrispondeva ad un sedicesimo di Rupia) mentre nel testo ufficiale il diverbio si conclude solo in serata quando la spedizione raggiunge Sarang e sistema il campo. In quel preciso momento i nostri vengono raggiunti da alcune donne di Ri. Dopo una furiosa lite tra uno dei sirdar e una delle “gentildonne”, onde evitare ulteriori clamori e spiacevoli conseguenze, il Tucci “sborsa a malincuore” qualche rupia. Ben più interessante ai fini del testo sono: la descrizione delle condizioni dei due templi di Chusu e il materiale artistico e sacro che vi si trova. Il Tucci parla di una situazione di totale desolazione, di preziosi tangkha arrotolati e gettati a terra nella più totale incuria. Il Doc pare più colpito dal fatto che i preziosi manoscritti, i tangkha e gli oggetti di culto, andranno inevitabilmente perduti; ci pare di cogliere tutto il suo rammarico per non averle “asportate” e messe in salvo nelle casse della spedizione. E il Lama di Kaze che fine ha fatto, ci domandiamo noi? Perso nel villaggio di Kharze? Solo nel testo ufficiale si dedica una riga alla missione del poverello “del nostro Lama ... nessuna notizia”.

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1 Ottobre

“Il principe di Sarang è effettivamente il discendente dei re che dominavano questa regione a sud della Sutlej, ma attual-

mente egli è solamente un signorotto che tuttavia mantiene una parvenza di organizzazione reale. Il principe è un uomo di

circa 40 anni di aspetto bonario ed insignificante. La moglie ha l’aspetto sveglio ed intelligente come quasi tutte le donne tibetane. Il principe porta un vistoso copricapo cilindrico con una grande fascia dorata. Il principe ci riceve in una sala del secondo piano della sua residenza avendo al suo fianco il suo ministro ed il Lama. Dopo i soliti convenevoli e cerimoniali d’uso, Tucci gli domanda se è possibile prendere visione di alcuni antichi documenti relativi al regno dei suoi antenati. Il principe ammette di averli ma di non poterli mostrare, tuttavia per dimostrare la sua benevolenza ci autorizza a visitare, senza limitazioni, i templi di Sarang. Un vecchio Lama, mal in arnese, ci accompagna nelle varie cappelle che, pur essendo antiche, secondo Tucci non presentano particolare interesse. Nel tardo pomeriggio arriva al campo il principe accompagnato da due ufficiali. A bassa voce chiede a Tucci di entrare nella tenda. Chiusa la serratura lampo della tenda, sicuro di non essere osservato da occhi indiscreti, estrae un grosso rotolo avvolto in un sacchetto di stoffa rossa. Tucci era certo di vedere documenti di grande valore storico, invece è solamente un decreto di Lhasa del 1700 che concede alla sua famiglia l’intero feudo di Sarang. Il principe sperava certamente in un buon affare monetario e Tucci in un’interessante scoperta relativa alla storia dei re di Sarang.” Allettantissima è la giornata appena trascorsa; molti sono gli spunti da prendere in esame. Ci soffermeremo prima di tutto sul diario ufficiale, sulla precisazione del professore che ci ragguaglia sulla questione del re. Si tratta in realtà di un principe, figlio di un ben più modesto Rupòn (che in lingua tibetana indica una figura militare, equiparabile ad un nostro colonnello dell’esercito). Per la prima volta ci sembra di cogliere nelle parole dei Nostri, ma soprattutto in quelle del Tucci, una certa ilarità e canzonatura nel descrivere alcune delle persone incontrate in questa giornata. “Ci fa ridere la sua faccia poco intelligente”, è l’espressione usata dall’accademico per descrivere il signorotto locale a cui fanno visita; “un vecchio bolso”, rappresenta il Lama che siede al suo fianco ed infine “il prete cencioso, vecchio come un Matusalemme, pare non capisca un gran che”, è la descrizione riservata al custode dei templi di Sarang. Il pezzo forte della giornata è sicuramente legato all’episodio della visita del “nobile” ed alla diaria a lui corrisposta avvenuta in gran segreto, all’interno della tenda dei Nostri. Lo pseudo-principe (il “principotto” come lo definisce il Tucci) fa visita ai Nostri e porta con sé, solo in visione s’intende, il prezioso documento che nel pomeriggio l’accademico aveva chiesto inutilmente di poter vedere ottenendo come risposta un diniego motivato dal “grande valore” dell’opera conservata. Si può facilmente riscontrare nelle parole del Doc, al termine dell’incontro nella loro tenda, il rammarico da parte di entrambi per lo svanire delle reciproche speranze. A questo punto Tucci menziona per la prima volta, nel testo ufficiale, la parola “tariffario”, con la quale rimarca tutta la sua delusione. Egli ci fa sapere, ma soprattutto lo chiarisce al “principotto”, che le cifre pagate dai Nostri variano a seconda della tipologia e dell’utilizzo del materiale: una certa cifra per la semplice visione dell’opera, un’altra (ovviamente si sarà trattato di una somma maggiore della prima) per poterla fotografare ed una terza opzione, aggiungiamo noi a questo punto, un ammontare ancora superiore per l’acquisto della stessa. Rileviamo che solo nel testo ufficiale viene trascritto dell’arrivo “a notte fatta” del Lama di Kaze con le relative informazioni sui templi di Khartze. Quindi il testo ufficiale si conclude con il cruccio, questa volta del Professore, di non poter raggiungere e visitare il paese di Radnis, il famigerato villaggio natale di Rincenzampo. Ciò è dovuto all’impossibilità di guadare la Sutlej, ancora troppo impetuosa in questo periodo dell’anno, seguendo la via che conduce a Serkung.

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Principe di Sarang — Archivio Ghersi

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


Sulle rocce lungo la Sutlej — Archivio Ghersi

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2 Ottobre

“Passiamo sulla sponda destra del fiume di Sarang ed iniziamo una ripidissima salita verso un passo e poi rapida discesa

verso la Sutlej. Verso sera arriviamo sulla sponda sinistra del fiume e costatiamo che il piccolo ponte non è transitabile per i cavalli. Scarichiamo i cavalli e gli uomini portano a spalla tutto il materiale sulla sponda destra, dove facciamo il 62° campo (3200 mt). Due uomini restano con i cavalli sull’altra sponda.” Sembra di leggere la descrizione di due diverse giornate della spedizione. Per Ghersi il problema, l’unico della giornata, è il difficile guado del fiume al quale gli animali sono costretti: il trambusto per scaricarli e portare il carico in spalla dall’altra parte attraversando il traballante ponticello di corde e inoltre la necessità di dividere il gruppo tra una riva e l’altra della Sutlej per motivi di spazio. Nelle frasi dell’accademico c’è solamente la fatica, il pericolo di frane che potrebbero rovinare da un momento all’altro con nefaste conseguenze e soprattutto l’angoscia per il tortuoso, impervio e scosceso sentiero che la carovana dovrà percorrere il giorno dopo per risalire fino allo Shirang-La.

3 Ottobre

“Appena fatto giorno i cavalli, a nuoto, passano il fiume ed alle 9 la carovana può già ripartire. Al tramonto valichiamo il passo dello Shiran e subito dopo facciamo il 63° campo esattamente nello stesso punto, dove nel viaggio di andata abbia-

mo fatto il 31° campo. Abdul ha fatto la cucina nello stesso punto di allora ed ha trovato le scatolette vuote della carne del Regio Esercito Italiano che avevamo consumate in questo punto.” Sono ancora la fatica e le pene della salita a caratterizzare lo scritto del Professor Tucci, mentre Ghersi ci appare di buon umore, puntualizzando che dopo più di un mese si ritrovano esattamente nel luogo dove avevano accampato il giorno 10 Agosto. Sappiamo dai racconti dal Doc che la carne in scatola insieme al cognac-cordiale erano state tra le prime scorte a terminare durante quel lungo viaggio, ecco forse spiegato il motivo dell’osservazione nel suo diario, delle lattine vuote ritrovate sotto il passo dello Shirang.

4 Ottobre

“Dal passo dello Shiran sino a Namgia siamo sulla stessa carovaniera che abbiamo percorso all’andata. Ripassiamo per

Tiak dove facciamo il 64° campo. Qui dobbiamo abbandonare tre cavalli che non sono in condizioni di proseguire.”

Tappa davvero lunghissima, stimiamo noi, seguendo il percorso e il sentiero attraversato dai Nostri su Google Earth. Si tratta di circa 50-60 km, quasi il doppio della media di una normale tappa. Entrambi i diari sono brevissimi e stringati, puntualizzando sulla necessità di abbandonare tre cavalli della loro carovana che “non potevano più fare un passo” come si legge testualmente nel diario ufficiale. Inoltre veniamo a conoscenza che in questa giornata vengono assoldati una ventina di uomini per agevolare il trasporto a spalle del carico nelle zone più impervie. L’arrivo a Shipki avviene a notte ormai fatta (lo sappiamo unicamente dalle note del diario ufficiale).

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


5 Ottobre

“Shipki 65° campo. Salutiamo per l’ultima volta il sacro Leo-Purghyul. Rifacciamo quel difficile sentiero che nel percorso di andata abbiamo perduto un cavallo precipitato nel fiume.”

Ancora poche righe per entrambi i diari. Interessante l’annotazione nostalgica dell’accademico che saluta il villaggio di Shipki paventando l’ipotesi che si tratti dell’ultima volta che i Nostri vedranno questo luogo, destinato purtroppo ad essere dimenticato anche dalla storia e dagli uomini.

6 Ottobre

“Campo a Namgia dove l’amico Lambardar, che ci ha accompagnati dal 28 luglio sino ad oggi, ritorna al suo villaggio.” A questo punto i due diari iniziano ad accorpare più giorni nella stessa pagina e solamente nella data del giorno 13 ottobre, gli scritti torneranno per l’ultima volta a correre in parallelo. Il giorno 6 Ottobre ad esempio viene menzionato da Ghersi in questa breve frase del suo diario, mentre viene letteralmente tralasciato nel testo ufficiale.

7/8 Ottobre

“Campo 67° a Dabling, grosso villaggio sulla sinistra della Sutlej. Tucci ha qui ritrovato un Lama suo vecchio amico che

possiede, nella sua cappella privata, una notevole quantità di libri e manoscritti. Tucci, per l’ultima volta per questa spedizione, può ancora passare alcune ore tra libri e manoscritti di notevole interesse.”

Le pagine del diario ufficiale riassumono i giorni 7 e 8 Ottobre per descrivere del meticoloso lavoro di ricerca tra i numerosissimi testi; si tratta di opere liturgiche, di canoni buddisti, di trattati sull’esegesi dei libri sacri e di glossari che fanno parte della straordinaria biblioteca del Lama, vecchio amico del Professore Tucci. Interessante per noi sono le parole del Capitano che ricorda come questa sia praticamente l’ultima volta che il Professore può consultare un’interessante collezione di antichi testi sul buddismo. In effetti solamente la piccola biblioteca del tempio di Kanam, raggiunta pochi giorni più tardi, sarà l’ultimo luogo da esplorare alla ricerca di qualche testo o manoscritto interessante. Il testo ufficiale si dilunga, naturalmente, sulla descrizione delle opere letterarie più importanti ivi ritrovate e sul grande disordine che regna sovrano in questa preziosa biblioteca. Su Cronaca si legge che ci vorranno due giornate per fare la cernita dei testi di maggiore interesse.

9/10/11/12 Ottobre

“Breve marcia fino al Poo (68° campo a 3000 mt). Lo Zialdar che ha custodito in casa sua tutto il materiale che gli avevamo

mandato da Namgia il 29 Luglio, ci accoglie con grande entusiasmo e cordialità. Qui sosteremo per alcuni giorni per riordinare il materiale da imballare.

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Tutto quanto è depositato nella casa dello Zialdar. In questo villaggio di confine praticamente termina la spedizione Tucci al Tibet occidentale e tra una ventina di giorni saremo nella capitale estiva dell’Impero Britannico: Simla. Qui salutiamo i nostri bravissimi cavalli che hanno superato incredibili difficoltà ed hanno raggiunto altezze che forse erano oltre il limite delle loro possibilità fisiche.” Il viaggio del Doc è ormai terminato. Leggendo e rileggendo l’intero diario si evince come questa pagina e la successiva del dattiloscritto siano il commiato del Capitano alla spedizione in Tibet. Nonostante manchi ancora un mese all’imbarco sulla nave diretta in Italia, il vero viaggio, l’avventura che lascerà per sempre un’impronta indelebile nell’animo di Eugenio Ghersi, si conclude in queste tiepide giornate autunnali. Ghersi da buon logista annota tutto il lavoro di catalogazione, imballo e preparazione del materiale raccolto dalla spedizione per il successivo trasferimento a Simla, mentre il diario ufficiale prosegue con la dettagliata descrizione dei rituali e dei culti delle genti di Poo, sulle loro origini storiche e sulle differenze linguistiche tra le diverse aree della Sutlej.

Il Kaliganga comincia a scorrere tra le foreste dell’India — Archivio Ghersi

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


13 Ottobre

“Con i nuovi cavalli la carovana raggiunge velocemente Kanam (69° Campo). Visitiamo l’ultimo tempio lamaistico, dove Tucci mi accompagna a vedere la vecchia biblioteca dove per anni l’ungherese Csoma de Koros ha studiato si vecchi testi tibetani per compilare la prima grammatica tibetana. OM MANI PADME HUM” Kanam è un luogo famoso soprattutto per aver ospitato per molti anni Csoma De Koros, il grande studioso ungherese alle prese con la monumentale traduzione e l’analisi del canone buddista (il Kanghyur, “che anche oggi resta opera fondamentale” – si legge su Cronaca). Partito da Budapest all’età di ventiquattro anni percorse a piedi gran parte del continente Euroasiatico per giungere in queste contrade, alla ricerca dell’origine della lingua magiara. Fu il primo occidentale a leggere e studiare l’intera opera del canone buddista (il Kanghyur 108 volumi e il Tangyur 224 volumi) e trascorse gli anni tra il 1827 e il 1830, proprio nella stessa casa dove al momento si trovano i Nostri. I due templi che si trovano a Kanam non sono di grande interesse per l’accademico che risolve la loro esplorazione in due corti paragrafi. La frase “OM MANI PADME HUM” con cui il Capitano Ghersi conclude la giornata del 13 Ottobre è la prova di quanto abbiamo scritto nel commento della pagina precedente. La frase in sanscrito si traduce letteralmente: “Salve o Gioiello nel fiore di Loto”; ma al di là della traduzione letteraria, il suo significato è fortemente simbolico ed è usato nel buddismo per poter sviluppare la virtù della compassione nella coscienza umana. Si tratta di una frase molto cara al Doc, e per meglio comprendere quale significato e importanza essa avesse per il Capitano Ghersi, vorremo ricordare che come sua ultima volontà egli la volle incisa a grandi caratteri sulla propria lapide di ottone. L’elenco delle località attraversate durante la missione e il breve glossario sono le pagine conclusive del suo dattiloscritto. L’avventura per Ghersi si era davvero conclusa, in cuor suo la spedizione scientifica con l’amico Giuseppe Tucci finiva qui, nel piccolo villaggio dell’Alto Bashahr, tra quelle stesse mura che avevano ospitato il grande ricercatore ungherese per tre lunghissimi anni. Non sappiamo esattamente se nel testo olografo, il Doc avesse continuato la stesura del diario sino alla città di Simla, anche se non abbiamo alcun dubbio sul fatto che egli abbia assolto in modo egregio tutti i suoi compiti (l’archivio fotografico conservato ne è la prova) per i successivi duecento chilometri che separano Kanam dall’antica capitale del protettorato inglese nell’India del Nord.

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Data non riportata

“Dopo Kanam facciamo ancora 14 campi di trasferimento per Simla (2147 mt) tra le montagne del Siwalik. Campo 70° Jangi Campo 71° Pangi Campo 72° Chini Campo 73° Rogi Campo 74° Urni Campo 75° Wangtu Campo 76° Taranda Campo 77° Saraanh Campo 78° Gaura Campo 79° Rampur Campo 80° Nirt Campo 81° Kanegar Campo 82° Narcanda Campo 83° Theog SIMLA” I quattordici campi successivi sono riassunti in questa riga nel diario del Capitano, mentre nel testo ufficiale ci saranno ancora quattro pagine di scritto, riassunte con le date “14-16 ottobre Chini”, la successiva “18 ottobre” e infine “2 novembre Simla” nelle quali si legge testualmente “il Buddhismo lamaistico finisce qui... il regno Lamaistico qui muore e si perde nell’Induismo” nella pagina del 14-16 Ottobre. Ancora più eloquente la frase “Siamo al termine del viaggio. La marcia prosegue regolarmente fino a Simla, ove arriviamo il 2 novembre” scritta nell’apertura della pagina conclusiva di Cronaca della Spedizione Italiana nel Tibet Occidentale. OM MANI PADME HUM.

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Diario inedito della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933


Cartine all'interno del manoscritto

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La spedizione Tucci-Ghersi al completo. Da sinistra : Abdul, Tenzin, Kalil, Tucci, Ghersi, Lama di KazeLambardar-Sheik. In basso, da sinistra: Chanku, Quopi. — Archivio Ghersi

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Cartine del percorso


Cartine del percorso Archivio Ghersi

Cartina d'insieme

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Foglio 1

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Cartine del percorso


Foglio 2

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Foglio 3

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Cartine del percorso


Foglio 4

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Fogli 5 e 6

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Cartine del percorso


Foglio 7

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Foglio 8

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Cartine del percorso


Foglio 9

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Foglio 10

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Eugenio Ghersi. Sull’Altipiano dell’Io Sottile — Cartine del percorso


Foglio 11

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LocalitÃ

AMRITZAR

KALAT BRIDGE

MANDI

SARANG

BIAS

KAMZAM LA

MANALI

SERKA

BIAS RIKHI

KAZE

MIANG

SERKUNG

BOGO LA

KARITNA

NAKO

SHANGTZEDSONG

CHABRANG

KARUN

NAGAR

SHANG

CHANDRA

KATRAIN KI

NAMJAL

SHIPKI

CHANG

KIBAR

NU

SHIRANG

CHIKIM

KIUK

OP

SPITI

CHOTA SHIGRI

KIOTO

PALAMPUR

SULTANPUR

DOMBO

KOKSAR

PARECHU

SUMUR

DRANGKAR

LAOCHELA

PO

SUTKEJ

GARTANG

LEOPURGHIUL

PULING

TABO

GARTOK

LHASA

RADNIS

TASHIGANG

GUMPUGH

LORI

RABGYELING

TIAK

HAMTAH PASS

LOSAR

RI

TOLING

JANTANG

LUK

RILDIGANG

TRAPE CHU

KAILASA

LITANG

ROHTANG

TZAPARANG

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Glossario

ARGAL: escremento di Yak usato come combustibile.

KANGHIUR: la sacra scrittura di 108 volumi.

ARHAT: colui che si è liberato dal Samsara.

KANGLING [4]: risale ai tempi dei Bompo ed è una tromba

BODHISATTVA: Arhat che rinuncia al nirvana per aiutare i fratelli non ancora illuminati. CHANG: birra d’orzo. CHORTEN-CIORTEN (sancrito) MC’OD RTEN (tibetano) [1]: costruzione di particolare forma e di varie grandezze. Generalmente sono eretti per ricordare speciali avvenimenti e ringraziamenti a divinità. Rare volte come tombe per famosi Lama. In una celletta della base sono conservati manoscritti e tsa tsa.

in onoredella divinità. LAKCHIN: custodia per manoscritti o stampati ed è formata da due tavolette di legno di 68x24 e dello spessore di 2 cm. LAMA: TRAPA (1° grado di sacerdote) — LAMA (sacerdote che ha completato tutti gli studi e relativi esami per essere ammesso al culto) — BODHISATTVA (sacerdote che ha raggiunto lo stato di ARHAT e rinuncia al Nirvana per aiutare i fratelli incerti e dubbiosi) — LAMA INCARNAZIONE DI DIVINITÀ (Dalai Lama incarnazione di

CILIMPA: tutti i non tibetani (quelli al di là delle montagne).

Avalokitesvara Panchen Lama incarnazione di Amitaba).

CIOD: complicata ed esoterica funzione per raggiungere

LUN-GON-PA: marciatori in stato di ipnosi (possono

in via breve l’illuminazione.

coprire percorsi di 70-100 km senza fermarsi).

DAMARU [2]: doppio tamburo formato da calotte di

MANI-KURLO [5]: mulino delle preghiere. È un contenitore

cranio umano unite per il centro. Due palline di cuoio

cilindrico (rame-argento) 5 cm di diametro e 9 cm di lunghezza.

appese ciascuna ad un filo fissato tra le calotte, possono

Il coperchio è decorato con simboli mistici con al centro un

battere le due superfici del tamburo quando si agita lo

pomo a fior di loto di 3 cm. Il cilindro porta lateralmente un

strumento in un movimento alternativo di rotazione.

anello dal quale pende una catenina di circa 10 cm che termina

DORJE [3]: simbolo del metodo. Deriva dall’arma di

con una sferetta di piombo. Il contenitore è forato secondo

Indra che squarciava le nubi per liberare le acque. Il sacerdote con il Dorje squarcia le nubi dell’oscurità e del dubbio per raggiungere l’alta conoscenza. DZONG: fortezza. DZONG-PO: governatore militare e civile. GOMPA: monastero.

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ricavata dal femore di una vergine sacrificata in primavera

l’asse verticale centrale ed è infilato su una verghetta di ferro fissata su lungo manico di legno. Imprimendo al cilindro un movimento rotatorio si elevano al dio tante preghiere quante sono scritte nel rotolo di carta contenuto nel cilindro stesso. PURBU [6]: pugnale di legno per combattere i demoni. PENTADE SUPREMA: Amitaba-AkhobiaAmogasiddi- Padmasanbhava-Vairocana.


RUCHIEN: paramento sacro composto con ossa umane

e leggermente conica. Con apposite funzioni e preghiere

lavorate ed intarsiate. La collana del Rughien è fatta con

il sacerdote riesce a convincere lo spirito del defunto ad

108 rondelle ricavate dal tavolato osseo del cranio.

entrare nel Torma e poterlo quindi consigliare sulla via migliore per raggiungere almeno il paradiso intermedio

SAMSARA: nascita rinnovata (incarnazione); l’io

di Amitaba. Anche i sacerdoti usano il Torma per fare

cosciente può incarnarsi in qualsiasi essere.

domande o chiedere consigli alla divinità protettrice.

THANKA: pittura su tela.

TSAMPA: farina d’orzo.

TANGYUR: commento alla sacra scrittura (volumi 224).

TRIL-BU: campanello per le funzioni.

TORMA: impasto di farina d’orzo, burro, acqua che il sacerdote modella a forma approssimativamente cilindrica

[1]

TZAMKAM: grotta o caverna per periodi di meditazione e prati.

[2]

[3]

[5]

[4]

[6]

207



Sull’Altipiano dell’Io Sottile Eugenio Ghersi

“Quel grandioso altipiano che si estende dalle catene del KUANLUNG (dall’Altyn-Tag e dal Nan-Shan a nord) ed a sud dall’immenso

Himalaya e dall’occidentale Karakorum, alle orientali e degradanti catene del SECIUEN (attraverso le quali, le imprecisate fonti dello

JANTSEKIANG si riversano nella pianura cinese), è chiamato TIBET, Tubat dai cinesi, Budiul dai Tibetani. L’altipiano si estende per circa 2.000.000 kmq ad un’altezza media da 4500 a oltre 6000 metri sul livello del mare. Il Tibet è emerso dal mare nel cretaceo. Numerosi sono i fossili marini che vi si trovano. La regione centrale è ricca di grandi laghi salati e privi di emissari visibili. Il lago meno elevato è il KUKUNOR a 3200 metri ma esteso per ben 4800 km mentre il TENGRI-NOR meno esteso, è il più elevato (4630 m). Secondo in altezza, è il sacro venerato MANASAROVAR o Mapham (4600 m). Il Manasarovar (70 km di circonferenza) è sacro ai buddisti, agli antichi Bompò ed anche ad alcune sette indiane. Numerose sono in quei luoghi le bande di rapinatori. Grazie a sorgenti calde il lago non ghiaccia mai. Dal bacino del Manasarovar nascono i sacri fiumi dell’India. Il Brahmaputra o Tsampò che corre parallelamente alla catena dell’HI-MALAYA sino alla foce, nel golfo del Bengala, la Sutlej che scorre verso nord-ovest per gettarsi nell’INDO (nel Pakistan), il Gartang primo affluente dell’INDO che praticamente può considerarsi la sua sorgente. La popolazione tibetana si ritiene sia intorno ai due milioni di unità, però è quasi tutta distribuita lungo la valle del BRAHMAPUTRA e nei grandi centri di LHASA e SHIGATSE, dove sono anche case in muratura, mentre la maggioranza della popolazione è nomade e vive in tende di lana nera. Il limite delle nevi in estate è molto alto, i nevai delle zone centrali non scendono mai al di sotto dei 4900/5000 metri, mentre nelle zone periferiche il limite scende anche a soli 3800 metri. Naturalmente anche la flora segue limiti corrispondenti ed, infatti, si possono trovare alberi di albicocco a 3700 metri, orzo a 4500 e rododendri e cardi a 4800 metri. La fauna, limitatissima, è rappresentata in primo luogo dal bue lanoso, lo Yak, animale robustissimo e resistentissimo alle basse temperature delle grandi altitudini. Lo Yak vive bene tra i 3000 e i 5500 metri, soffre al di sotto dei 2000 metri, mentre tollera benissimo, anche da carico, i 6000-6500 metri. Vive allo stato brado, ma è suscettibile di addomesticamento; è un animale a velocità costante sia a carico completo che a vuoto, tanto in pianura che in salita. Riesce a procurarsi il cibo necessario anche in difficili condizioni ambientali, scava la neve e rompe il ghiaccio per brucare il lichene dalla roccia sottostante. Lo Yak fornisce ai tibetani pelli per vestiti, cuoio per calzature, lana per le tende e per le corde e coperte ed infine il preziosissimo combustibile per riscaldamento e cucina con il suo STERCO (Argal). (In alcune zone povere del centro nord anche le tasse possono esser pagate con misure di sterco di YAK). Altro animale, base dell’economia tibetana, è la pecora che fornisce ottima lana e la finissima lanugine conosciuta sotto il nome di

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Kashmira. Produce ottimo latte che viene utilizzato totalmente per la produzione del burro (il burro viene utilizzato per l’alimentazione e per l’illuminazione dei templi e delle abitazioni in sostituzione dell’olio che qui non esiste). Le mandrie di pecore sono poi adibite ai grandi trasporti di SALE (salgemma) mediante due piccoli sacchetti di lana messi a mo’ di basto (in diverse regioni anche il sale è usuale moneta di scambio). Il KIANG è curioso animale che, a quanto mi risulta, vive solo sul grande altipiano tibetano. Ha il pelo rasato di colore marrone chiaro, snello velocissimo, il suo corpo è simile al cavallo ma le sue orecchie sono lunghe (come quelle dell’asino, per intenderci) ma sottili e mobilissime. Vive in branchi e non è addomesticabile (viene infatti ritenuto una cavalcatura per le divinità). I LUPI sono in piccoli branchi di piccola taglia e direi non molto aggressivi. Altro animale importante è il MOLOSSO DAI 4 OCCHI (una razza canina che ha sopra agli occhi due macchie gialle, spiccando sul pelo foltissimo e nerissimo). La razza è chiamata CIANTANG, vive allo stato brado ma è addomesticabile (con cautela!). Vive bene da 5000 a 6000 m, dorme all’aperto, non abbaia e quando è legato parte all’attacco solo quando è certo di addentare l’estraneo che si sia avvicinato troppo. Il leopardo delle nevi l’ho incontrato una sola volta a 5900 metri mentre lentamente superava un passo. La sua pelliccia è bianca e le macchie caratteristiche del leopardo sono appena accennate. Raro è l’AVVOLTOIO gigante o Gipeto che può volare sino ai 7000 metri. La CORNACCHIA gigante può raggiungere anche gli 8000 metri. L’unico essere vivente, tuttora in discussione, è lo Yeti, più conosciuto come abominevole uomo delle nevi. Già dal 1700 l’esploratore tedesco Schilberger parlò di un essere antropomorfo incontrato sull’Himalaya. Altre simili segnalazioni sono del 1800 e del 1900. Le prime impronte attribuite allo Yeti furono rilevate dalla spedizione all’Everest di Howart-Bury nel 1921 a 6912 m. sul passo Lhakpa. Nessun paese al mondo è pieno di leggende, paure, superstizioni come il Tibet, dove tutto è regolato da spiriti ora benevoli ora, maligni, e dove il lamaismo, erede dell’animistica religione Bompò, nulla ha fatto per tranquillizzare l’animo dei tibetani. Tutti credono nell’esistenza delle divinità terrifiche, del malocchio, dei diavoli incarnati in animali od in uomini e quindi la certezza sull’esistenza dello Yeti è più che naturale. Ho percorso 4800 km in due anni rimanendo sempre tra i 4600 ed i 6200 metri ed ho trovato molte impronte di animali ma tutte attribuibili a specie conosciute. Nessuna spedizione, anche espressamente organizzata per la ricerca dello Yeti, è mai riuscita a documentare con prove sicure la presenza di un essere simile all’uomo, ma solamente animali classificabili tra le varie specie di scimmie. Sull’altipiano dell’Himalaya vivono grosse scimmie che talvolta sono obbligate a salire oltre i 5000 metri per trasferirsi da una valle all’altra in cerca di cibo. Le impronte segnalate dai vari esploratori non sono tutte uguali per forma e quindi si dovrebbe pensare che esistono Yeti di razza diversa. La grandezza delle impronte (35x15) non ha alcun valore, infatti, ho più volte costatato che un’impronta umana lasciata sulla neve, nella stagione estiva, s’ingrandisce con il passare dei giorni, senza alterarsi nella forma ed infine divenuta enorme svanisce. Il fenomeno è dovuto al fatto che a 5000/6000 metri, in clima secco i cristalli di neve, per azione del calore solare, passano direttamente dallo stato di ghiaccio a vapore acqueo senza liquefarsi. Le impronte di piedi nudi sulla neve, anche a grandi altezze (specie sui passi), non sono da prendersi in considerazione poiché i seguaci delle sette esoteriche di Milarepa esercitano il TUMO (iperpiressia volontaria che permette loro di camminare scalzi sulla neve e fondere il ghiaccio con i piedi nudi). Le scarpe di Yak hanno talvolta le suole talmente sottili che possono lasciare sulla neve l’impronta dell’alluce e di una o due delle altre dita (impronta a tre dita simile a quella dello Yeti). Le testimonianze visive poi, non sono attendibili, poiché oltre i 5000 metri, le alterazioni circolatorie della retina provocano incredibili errori stereoscopici, cromatici e di giudizi volumetrici anche a brevi distanze. Concludendo credo si possa affermare che lo Yeti sia rappresentato da qualche grossa scimmia oppure orso. Nel passato esistono notizie molto vaghe dell’altipiano tibetano e si pensa possano trattare l’argomento, quelle date dall’astronomo-fisico e geografo TOLOMEO nel I° sec. dopo Cristo. Tolomeo, infatti, parla vagamente dei MONTI EMODI ed IMAIOS, della PORTA di PIETRA (che potrebbe essere la carovaniera del PAMIR) e dei BANTI, probabili primi abitanti dell’altipiano provenienti forse dalla Mongolia. Le prime sicure notizie sul Tibet, sono state portate in Europa da un frate italiano, GIOVANNI DA PIAN del CARMINE, missionario

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alla Corte del GRAN KHAN dei Tartari nell’anno 1245. MARCO POLO, nel suo Milione, dedica tre capitoli al Tibet, non sono molto precisi, poiché il suo viaggio da TREBISONDA a PECHINO passa per il PAMIR, a nord dell’altipiano e quindi scrisse di cose sentite e non di quelle realmente viste. ODORICO da PORDENONE nel 1314 è stato il primo europeo a visitare veramente il Tibet. Nel 1624 il portoghese ANTONIO DE ANDRADE riesce a visitare la Corte reale di Gughe a TSAPARANG nel Tibet occidentale. Nel 1716 il gesuita IPPOLITO DESIDERI è stato il più accurato e preciso esploratore dell’altipiano. Dal 1740 al 1770 alcuni missionari Francescani italiani sono stati tollerati dalle autorità lamaistiche, ma non lasciarono, malgrado la loro lunga permanenza, notizie ed osservazioni interessanti. SVEN-HEDIN dal 1899 al 1908 che esplorò a lungo l’altipiano, scoprì la catena della Transhimalaia Del Kailasa determinando le sorgenti del grande Brahmaputra e dell’Indo. De Filippi nel 1913 e Dainelli nel 1930 portarono notevole contributo all’esplorazione del piccolo Tibet e del Karakorum. Dal punto di vista archeologico-religioso TUCCI dal 1929 in poi è stato il più grande studioso del Lamaismo e dell’arte tibeto-indiana Per poter spiegare le attuali condizioni culturali, artistiche e politiche del Tibet, è necessario fare un passo indietro in INDIA, da dove il LAMAISMO ha preso origine. Nel 563 a.C., nel parco reale di Lumbini presso la città di Kapilavatsu (Serai nepalese) nacque il futuro Budda, principe ereditario dei SACHIA della famiglia dei Gotamidi, chiamato SIDARTA. Il padre di Budda era il Re SUDDODANA e la madre MAYA. Budda si sposò giovanissimo con la cugina YASODARA dalla quale ebbe un figlio RAULA. All’età di 35 anni avendo veduto per la prima volta un vecchio ed un morto, pensò improvvisamente, dove sarebbe andata l’anima dopo la morte del corpo. In un primo tempo, per cercare la via della verità provò a seguire la ben nota via della PENITENZA, dei cilici, dei digiuni, arrivando sino al limite della vita, ma concluse che lo SPIRITO diveniva sempre più debole e quindi con l’indebolirsi del corpo lo SPIRITO VITALE non riusciva ad avere il dominio del corpo né la forza necessaria per seguire le PROFONDE MEDITAZIONI. Passò quindi, dopo aver rinvigorito il corpo, alla più pura ed ALTA MEDITAZIONE. Così, all’improvviso, arrivò all’ILLUMINAZIONE, al RISVEGLIO, alla VERITÀ. Trovò con il PRINCIPIO COSCIENTE, che l’anima è immortale e che tutto è fatto e voluto dall’ENTE COSMICO ASSOLUTO, che nulla si può creare e nulla si può distruggere, che tutto al mondo altro non è che il continuo TRASFORMARSI sempre delle stesse cose create dall’ENTE ASSOLUTO. Le diverse cose altro non sono che le stesse cose disposte diversamente. Tutto proviene dall’ENTE COSMICO ASSOLUTO e tutto ritorna all’Ente a ciclo esaurito. La Beatitudine ETERNA, la pace assoluta e l’assenza di ogni dolore, questo è il NIRVANA o SHUNIA che s’identifica con l’Ente cosmico assoluto. MICHELE KERBAKER, nel 1897, nell’introduzione alla traduzione in italiano della BAGAVAGITA, con poche parole dava un’idea abbastanza chiara dell’ideologia Buddista e scriveva: “la materia cosmica addensandosi forma via-via delle nebulose e quindi agglomerati e poi stelle e pianeti che dopo infiniti giri, in infinite orbite, si frantumano e si dissolvono in minutissime parti ritornando allo stato di nebulosa cosmica, perdendo quindi ogni individualità e quindi, vengono temporaneamente a far parte del nulla cosmico, nel vuoto assoluto”. Dopo ERE COSMICHE, di miliardi di anni, le nebulose si riuniscono intorno ad un minuscolo e misterioso centro e via-via si riformano stelle e pianeti che iniziano un NUOVO CICLO. Così, nella metafisica buddistica, l’Ente supremo produce le basi semplici dalle quali prendono origine tutte le cose esistenti che, dopo un determinato ciclo si disintegrano per ricongiungersi all’Ente Cosmico dal quale, in tempi successivi si addenseranno nuovamente per riprendere una serie di nuove esistenze. Per il Buddismo non è esatto dire che ogni uomo possiede un’anima, ma è un’anima che talvolta POSSIEDE UN UOMO (infatti, può possedere qualsiasi essere vivente). Il principio cosciente che guida l’uomo, ha una fascia di azione delimitata dal KARMA (destino – libero arbitrio), ma può tuttavia seguire, invece della via centrale della fascia karmica, anche le vie laterali che non essendo le migliori, rendono più difficile e più lungo il cammino verso la perfezione o l’illuminazione necessaria per morire definitivamente, cioè unirsi all’Ente supremo in modo così intimo

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da perdere la propria individualità e quindi raggiungere in quell’annientamento la pace assoluta, l’assenza totale di dolore, il NIRVANA. Com’è riportato nel MAHABARATA (il più grande poema epico del mondo, 200.000 versi) il principio cosciente è come un seme, che a seconda del terreno dove viene gettato germoglia, bene in terreno fertile, poco o male in terreno arido. Come il concime è nutrimento per il seme, così la MEDITAZIONE è nutrimento per l’anima. La meditazione lunga e profonda deve portare ad uno sviluppo spirituale tale da dominare totalmente il corpo fisico. Pochi sono gli uomini che riescono a raggiungere, talvolta a rischio della vita, tali altissimi vette e questi uomini sono da considerarsi SUPERUOMINI, che nel Tibet vengono chiamati BODHISATTVA, impropriamente conosciuti in Occidente come Budda viventi. I BODHISATTVA avendo raggiunto l’ILLUMINAZIONE, la VERITÀ, non hanno più nessun obbligo di rimanere sulla terra e possono abbandonare il corpo (morire) a loro volontà (per raggiungere il Nirvana) o possono continuare il loro ciclo terreno allo scopo di guidare i propri fratelli imperfetti sulla via dell’illuminazione e della salvezza dell’Eterno relativo perché ciclico. Queste idee grandiose furono portate per la prima volta sull’altipiano dall’apostolo buddista PADMASAMBAVA nel secolo 8° dell’era cristiana. Prima dell’arrivo al Tibet di Padmasambava, la religione dell’altipiano era quella professata dai BOMPO. Il Pantheon Bompo era affollato da divinità terrifiche e vendicative che, i Bompo, cercavano di tenere a bada con sacrifici umani e formule magiche. È naturale che Padmasambava, allevato alla scuola filosofica indiana e braminica, nulla avrebbe ottenuto dagli incolti tibetani, se non avesse tollerato, con larghezza, cerimonie già in uso presso i Bompo. Padmasambava con pazienza ed intelligenza riuscì a far breccia tra le popolazioni dell’altipiano e ad iniziare dal nulla il Buddismo Tibetano, ossia il LAMAISMO. Il Lamaismo è derivato dalla scuola buddistica del MAHAYANA o grande carro, scuola molto aderente alla predicazione del Budda che per l’inquinamento con la preesistente religione Bompò, ne è risultata una religione mista, esoterica, ed un po’ lontana dall’Hina-yana. Verso la fine del 900 il Buddismo Tibetano era in netto regresso per tre principali ragioni: 1° Un RE ateo ( Landarma); 2° La profonda ignoranza dei tibetani che non riuscivano ad afferrare l’idea buddistica; 3° La reazione dei Bompò, che si vedevano danneggiati dalla nuova religione indiana. Nel 1000 appare sulla scena tibetana il più grande apostolo del Buddismo il Lotzava RINCENZAMPO, il traduttore per eccellenza. Rincenzampo aveva capito che il buddismo mai sarebbe penetrato sull’altipiano, senza prima elevare la cultura dei tibetani in modo da metterli in condizioni da esser ricettivi alla filosofia buddistica. A questo scopo egli tradusse dal sanscrito ben 158 opere mistiche indiane di grande valore come la PRAJNAPARAMITA per gli intellettuali, mentre per la grande massa del popolo, al quale bisognava mostrare segni visibili della grandezza del Buddismo, iniziò la costruzione di templi, mani, chorten, ecc. Mentre Padmasambava 200 anni prima fondava l’esoterica setta degli GNIMAPA detta dagli antichi o BERRETTI ROSSI, inquinata dalle magie dei Bompò, Rincenzampo fondava invece l’ortodossa setta dei KADAMPA, più aderente alla predicazione del Budda e ricca delle esperienze della mistica indiana. Padmasambava fu anche il creatore della lingua e della grammatica tibetana (nel Tibet esistevano solo dialetti incomprensibili da regione a regione). La diffusione del buddismo nel Tibet è stata favorita anche dal progressivo aumento in India della pressione Islamica e del risveglio dell’Induismo. Molte opere indiane sono state, in quel tempo, trasportate sull’altipiano, dove noi abbiamo avuto la fortuna di ritrovarle, sepolte sotto la sabbia, od occultate in caverne, in perfetta conservazione. Dopo Rincenzampo i contatti con l’India aumentarono notevolmente e vediamo quindi l’epoca dei grandi GURU quali MILAREPA ed il riformatore TZONGAPA fondatore della potentissima setta dei KAGIURPA o BERRETTI GIALLI. Nel 1200 il potere religioso incominciò ad influire notevolmente su quello temporale dei vari “reucci” tibetani ormai in netto declino. Nel 1270 l’Imperatore cinese KUBILAI crea il GRAN LAMA, il capo religioso dei SACHIAPA, che reggeva il monastero di Lhasa. Nel 1577 il principe mongolo ALTAN KHAN nomina il Gran Lama Di Lhasa DALAI LAMA. Così a poco a poco, senza scosse, il potere temporale si trasferisce dai RE al DALAI LAMA di Lhasa. Il Consiglio dei Lama di Lhasa per aumentare il prestigio del Dalai Lama (che come capo dei Sachiapa era già Bodhisattva) trovarono, dopo complicate ricerche, che il dio misericordioso AVALOCHITESVARA aveva scelto come incarnazione il Dalai Lama. Per eliminare

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il pericolo di dover condividere il potere con il gran Lama Monastero di TASCILUMPO in SHIGATSÈ, il consiglio dei Lama trovò che AMITABA (che con AKHOBIA – AMOGASIDDI – PATNASAMBAVA – VAIROCIANA) rappresenta la pentade buddistica suprema, ed aveva scelto come incarnazione il TASCILAMA, capo del monastero di Tascilumpo. Con quest’accorgimento raggiunsero lo scopo prefisso, infatti, essendo AVALOCHITESVARA un’emanazione di AMITABA, risultava evidente che il Dalai Lama era di rango inferiore e quindi doveva limitare il suo potere alle povere cose del mondo e cioè il solo potere temporale, mentre il Tascilama, spirito di Amitaba, doveva occuparsi delle cose più importanti e cioè del potere spirituale. Il Tibet, sino alla caduta dell’Impero Cinese è stato sottoposto all’autorità di Pechino. Nel 1904 dopo la famosa spedizione inglese a Lhasa, il governo del Dalai Lama ha cercato di rafforzare i rapporti con l’India nel tentativo di allontanarsi da Pechino. Con l’avvento della Repubblica Cinese nata dal dissolvimento del corrottissimo Impero Cinese, il dott. SUNIATSEN, primo Presidente della Repubblica, impegnato a rimettere l’ordine nel vastissimo territorio cinese, trascurò per anni il Tibet tanto più che allora non esistevano vie di comunicazione tra la Cina ed il Tibet. In questo periodo il Dalai Lama riuscì ad ottenere dal Governo inglese una specie di protettorato e ad avere nella capitale una rappresentanza inglese. Dal 1912 al 1951 il Tibet è stato praticamente indipendente ed è stato un periodo di pace. Nel 1951 la Repubblica popolare ha iniziato l’occupazione del Tibet per stabilire una volta per sempre che tutto il territorio dell’altipiano è geograficamente e politicamente, cinese. Il governo di Pechino ha subito iniziato i lavori per congiungere, con una camionale, il Sechuan con Lhasa portando nel cuore della sacra capitale del Lamaismo, quel tanto di progresso moderno che sarà l’inizio di un inquinamento grave e forse mortale per la spiritualità altissima dei Lama, degli asceti, dei Bodhisattva. Il Governo cinese ha obbligato alla fuga il Dalai Lama trattenendo invece il Tascilama (capo spirituale) in modo da non offendere le grandi masse di buddisti sparsa in Estremo Oriente. Questa è in breve la storia del Tibet, il paese più povero del mondo ma dove i valori dello spirito sono arrivati al massimo livello. La popolazione religiosa varia dal 15% al 70% in alcune regioni. Per ogni famiglia è grande onore che uno o più figli entrino in monastero e, per le famiglie più povere, la lama in casa porta anche dei vantaggi materiali. La popolazione civile è quasi tutta costituita da pastori nomadi che menano una vita, per noi occidentali, inverosimile. Il popolo dell’altipiano è da molti anni in notevole diminuzione per diverse cause: una delle quali è l’altissima mortalità infantile, dovuta in parte alle pessime condizioni igieniche e parte in causa delle antiche usanze tra le quali quella di immergere i neonati nell’acqua dei fiumi (2°C circa) per provarne la resistenza e la virilità anche per rendere omaggio al Dio fiume (residuo della religione Bompo). Altra causa è la poliandria che, come noto, non favorisce la natalità. La poliandria è derivante dal matriarcato che ancor oggi, impera su buona parte del Tibet. Quando una donna si sposa, sposa tutti i fratelli della famiglia con la quale intende imparentarsi. È evidente che per noi non è facile concepire una famiglia di tal genere dove i figli chiamano Madre l’unica donna di casa e Papà tutti i maschi. Le donne sono, nella vita pratica, decisamente più svelte ed intelligenti degli uomini. Nell’amministrazione della famiglia, le donne impiegano i mariti giovanissimi quali custodi di mandrie, i vecchi alla sorveglianza dei figli ed alle preghiere e i più idonei ai doveri coniugali. Le donne hanno molta autorità ma pagano di persona lavorando molto e praticando anche lavori pesanti, che ben presto fanno sfiorire la giovinezza della donna orientale e della tibetana in particolare. La donna non è ammessa, come in quasi tutte le religioni del mondo, alla partecipazione diretta alla religione. Solo gli uomini possono essere sacerdoti mentre loro sono declassate a funzioni (pur essendo classificate suore) particolari, in occasione di esami per iniziazioni superiori di alcune sette esoteriche. Tra la popolazione civile, l’attività religiosa non è particolarmente attiva, è più che altro un misto di paura e di dovere e di rispetto alle tradizioni. La paura è un residuo della religione Bompo, religione animistica. Il dovere è conseguenza della rigida e patriarcale educazione della famiglia. Il rispetto alle norme delle varie sette è dovuto al potere assoluto del clero. Per queste ragioni tutti, perlomeno esteriormente, osservano

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le principali regole di osservanza religiosa. Uomini, donne e bambini portano al collo un GAU (reliquiario in argento-rame, ferro ed anche oro) contenente uno TSATSA (medaglione confezionato con terra impastata con polvere di cremazioni di Lama morto in odore di santità e cotto al sole). In tutte le famiglie si trova almeno una ruota per le preghiere (cilindro metallico contenente un rotolo di carte di riso con su scritto mille volte una preghiera lamaistica (OM MANI PADME HUM). Questo cilindro è montato su di un perno e lateralmente un altro piccolo perno di piombo appare con agganciato un laccio di cuoio ed è quindi facile con un lieve movimento di rotazione della mano far ruotare il cilindro. Ogni giro da destra a sinistra sono MILLE preghiere che salgono verso le divinità. Il sistema è comodo poiché si può pregare anche con la mano sinistra e lavorare con la destra. Generalmente sono gli uomini e le vecchie che pregano con il mulinello, le donne valide lavorano nei campi o sono impegnate dalle faccende di casa. La grande massa della popolazione è estremamente povera e vive in condizioni che in nessun’altra parte del mondo sarebbe accettabile. La base dell’alimentazione è il TSAMPA, una mistura di thè cinese, farina di orzo, sale e soda, una poltiglia semifluida di orrendo sapore per chi non assuefatto. In casi di relativo benessere, si possono trovare piccole albicocche secche provenienti dagli altipiani inferiori ai 4000 metri, carne affumicata di pecora, gambi di cardo selvatici ed infine ciapati (ciambelle sottili di farina di orzo cotti su pietre). Sino al 1959 il Tibet è stato governato dal potere assoluto del Dalai Lama di Lhasa, capo indiscusso dello stato teocratico di tutto l’altipiano. Sino al 1959 i monasteri erano ben 2.711 con circa 120.000 religiosi ed in più un numero non ben precisato di Lama itineranti o dei piccoli villaggi sperduti nel vastissimo territorio. Sino a quel tempo si può affermare che le costruzioni in muratura erano per il 90% di proprietà dei monasteri, piccoli e grandi fabbricati per conventi, scuole per religiosi, abitazioni di Lama, chorten, mani, lakan ecc. Molti terreni appartenevano ai religiosi e venivano coltivati con una specie di mezzadria. I contadini, oltre alle tasse dovute al governo centrale di Lasa, pagavano le decime al monastero locale. Nel XV° secolo alcuni monasteri avevano una forza di oltre 5.000/7000 monaci organizzati in vere fortezze. Era naturale che strutture di tali capacità avessero un sistema di pianificazione quasi militare. Il monastero di POTALA, sede del Dalai Lama, costruito dal 1645 al 1694 è composto da Mille camere, 10.000 altari e ben 200.000 statue più thanka ed affreschi. Possiede un esercito formato quasi tutto da ex novizi giudicati, per varie ragioni, non idonei alla carriera religiosa. Questi monaci mancati, trasferiti nelle file dei soldati, hanno un particolare coraggio ma non sono ben visti dalla popolazione, poiché hanno delle qualità che più si addicono ai briganti che ai militari. Il lamaismo derivato dal Buddismo Mahaiano (del Grande Carro) è diviso in molte sette delle quali solo tre sono le più diffuse: la setta degli antichi dai Berretti Rossi di PADMASAMBAVA, la setta dei riformati ortodossi dei Berretti Gialli di Tzongapa e la setta degli esoterici o magici di MILAREPA. La maggioranza dei monaci rappresenta una massa abbastanza grigia che adempie con più o meno fede alla missione di Lama e talvolta, direi, la professione di Lama. Da questa popolazione religiosa emergono solamente pochi veri maestri coltissimi e profondi teologi. Alcuni di questi poi, con costanza, volontà eccezionale e sacrifici raggiungono quelle eccelse vette spirituali che trasformano il Lama in Bodhisattva. I Capi dei monasteri possono essere di tre specie: può essere un KAMPO, capo religioso eletto dalle autorità centrali di Lhasa; può essere un BODHISATTVA incarnato di un grande Lama, in questo caso la nomina non è governativa ma per incarnazione trovata e constatata dal consiglio dei Lama; può essere un TULKU ovvero l’incarnazione di una divinità ed anche in questo caso, la nomina è trovata per incarnazione come nel caso precedente. La disciplina e l’amministrazione del monastero è tenuta da un funzionario laico, il CHANSOD. Il titolo di Lama compete ai monaci che hanno portato a termine gli studi teologici con successo dopo vari anni di TRAPA od aspiranti Lama. Vediamo ora, come avvenga la successione del capo di un monastero che sia un Bodhisattva od un TULKU. Essendo il Bodhisattva o Tulku incarnato di principi coscienti perfetti è necessario che il corpo del nuovo Capo del monastero alberghi lo spirito cosciente del predecessore e quindi, dobbiamo conoscere il processo dell’incarnazione. Quando lo spirito cosciente del Bodhisattva o Tulku abbandona il corpo mortale, fa in modo di lasciare il corpo immobile, con il volto ri-

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volto verso la regione dove egli stesso ha scelto il nuovo corpo per la sua reincarnazione. Il consiglio dei Lama nomina una commissione incaricata di rintracciare il corpo incarnato. La Commissione inizia la ricerca non prima di un anno in modo da permettere al neonato incarnato un minimo sviluppo fisico che gli permetta di manifestare in qualche modo di possedere lo spirito cosciente del precedente Bodhisattva o Tulku fisicamente morto. In generale il riconoscimento avviene nel modo seguente: la commissione passa di villaggio, in villaggio ed ogni volta riunisce tutti i bambini nati nello stesso giorno ed ora della morte fisica del Bodhisattva o Tulku. Ad ogni bimbo vengono mostrati vari oggetti appartenuti al defunto. Il bambino che indica o sceglie tutti gli oggetti appartenuti al Bodhisattva e scarta quelli di altra provenienza quello, è il nuovo incarnato. Dato che è praticamente impossibile che questo avvenga logicamente passano diversi anni prima che si arrivi ad una scelta. Generalmente, passano dai 7 ai 12 anni prima di ritrovare il nuovo incarnato. Quando la commissione esamina un ragazzo di 7 o più anni ha il compito più facile poiché, oltre che a chiedere la scelta degli oggetti, può anche fare domande inerenti. Il ragazzo è consapevole di ciò che gli sta succedendo; i parenti sanno perfettamente cosa si cerca e si può anche pensare che sia possibile una certa preparazione e pressione da parte loro sul ragazzo, tanto più che, raramente un Bodhisattva si reincarna in un poveraccio. Si dice che un solo caso sia rimasto famoso ed unico nei secoli scorsi, in una provincia di Kam. In quest’orientale provincia, era vacante da 6 anni il posto di Capo del monastero, un Bodhisattva. Il Capo amministrativo del Monastero, trovandosi in viaggio per visite a monasteri dipendenti, si fermò una sera presso un accampamento di nomadi chiedendo ospitalità per la notte. Verso sera, mentre stava parlando vicino al fuoco nella tenda, estrasse dalla cintura una tabacchiera per annusare la sua solita presa, ma nello stesso istante, un piccolo di sei anni che era in braccio alla madre disse: “Come ti permetti tu, amministratore disonesto, di adoperare la mia tabacchiera, prelevandola dal monastero, senza domandarne il permesso al Consiglio dei Lama? Ti sei dimenticato che da 6 anni il Consiglio ha le funzioni di Reggente?” Il Chansod cadde in adorazione del piccolo implorando il perdono e la benedizione. Il piccolo portato, con tutti gli onori del caso nel suo monastero iniziò, così la propria carriera di Incarnato. Talvolta si verificano paradossi inverosimili, come accadde nel monastero di KUM-BUM dove il Bodhisattva di Rincenzampo era un vecchio decrepito, mentre quello di suo padre, era invece un ragazzino di 7 anni. La ricerca dell’incarnazione del Dalai è sempre laboriosissima poiché la politica e gli intrighi deviano lo spirito cosciente ad incarnarsi più da una parte che dall’altra. Arriviamo così, non dilungandoci oltre, sino all’attuale Dalai Lama che è lo spirito cosciente di Avalo-chitesvara, aveva tendenze... mentre Amitaba, il Taschi Lama era... [L’originale del testo manca di alcune parti. NdA] La cosa che più interessa è stabilire sino dove arriva veramente lo sviluppo spirituale dei grandi Lama e dove invece è autosuggestione o imbroglio. La maggioranza della popolazione è senza dubbio sincera ed adempie con scrupolo tutto quanto è indicato dalla religione ed anche tutto ciò che è stato tramandato dalle antiche tradizioni Bompo. Il Tibet è il paese degli eccessi, tutto è fuori misura. I pellegrini buddisti che effettuano un giro intorno al sacro monte KAILASA, quando giungono al passo, m.4900, si sottopongono all’estrazione di un dente sano da offrire alla divinità del passo, incastrandolo nelle fessure delle rocce. Su alcune piazzole appositamente preparate, le donne sacrificano le loro trecce e le inceneriscono quale offerta alla divinità. Poco sotto il passo (4500 metri) i fedeli s’immergono nell’acqua (2°C°) di un piccolo laghetto, recitando una breve preghiera e con gli abiti ghiacciati riprendono il cammino per completare il pellegrinaggio con il “pericrama” del Lago Manasarovar. I pellegrini che non resistono e muoiono sul posto vengono considerati dei fortunati, avendo avuto il privilegio di morire sul sacro Kailasa. I cadaveri vengono squartati e dispersi secondo la regola. I Sadu e gli asceti appartenenti generalmente alla setta dei perfetti della scuola esoterica di Milarepa, approfittano dei ghiacciai di Kailasa per effettuare il TUM-MO, che è una delle più note manifestazioni di alta Yoga. L’asceta che esegue il TUM-MO deve essere già in possesso del SAMADI, ossia la capacità di poter regolare a volontà il centro della termoregolazione e della frequenza cardiaca. L’asceta nudo, in posizione eretta, si pone a piedi giunti e scalzi su di un lastrone di ghiaccio e rimane immobile ad occhi chiusi, con l’espressione del viso contratta. Dopo un periodo relativamente breve si può ben notare che i piedi affondano lentamente nel ghiaccio. L’asceta si rianima e sembra svegliarsi da una specie di stato ipnotico tornando alla normalità. Questo fenomeno di termoregolazione

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volontaria non è ancora fisiologicamente spiegabile dalla scienza moderna, mentre è di semplice comprensione per i mistici tibetani. Nel corpo umano esistono cellule immortali (cromosomi) che hanno la divina facoltà di sviluppare altre cellule immortali, anche di sesso diverso e quindi hanno un’ enorme energia allo stato potenziale. Con esercizi lunghissimi (tre anni, tre mesi e tre giorni, passati nel buio di una grotta) eseguiti per ottenere il controllo sulla respirazione, rimanendo sempre a bassissime temperature, l’asceta riesce a captare l’energia latente di queste cellule e a trasformarla in energia termica. L’energia latente di queste cellule, che dovrebbe normalmente provocare l’estasi carnale dell’amplesso, arrivando in una data zona del cervello, viene, dalla volontà (Samadi) dell’asceta, viene deviata nella zona della termoregolazione che fisiologicamente produce la vasodilatazione periferica, mentre il calore perduto viene alimentato dall’energia delle cellule immortali. Questo sarebbe il TUM-MO mistico, poiché ottenuto artificialmente con lungo esercizio e volontà. Il TUM-MO esoterico invece, è quello che si produce spontaneamente durante le meditazioni di asceti in caverne con temperature polari, anche l’astinenza sessuale favorisce il TUM-MO esoterico. Altra manifestazione di SAMADI è il lavaggio dell’intestino, abbastanza facile da spiegare fisiologicamente ma per noi impossibile da eseguire. L’asceta si pone a gambe incrociate in un recipiente largo e basso (spesso fatto con pelle di pecora e stecchi) nel quale viene versata una certa quantità di acqua. Dopo profondissimi atti respiratori l’Asceta blocca i muscoli dell’addome, rilascia gli sfinteri anali, solleva il diaframma e con una profondissima espirazione riesce ad assorbire nel retto oltre 2 litri d’acqua. Altro fenomeno eccezionale è il LUNG-GUM-PA o marcia ipnotica. Pochi sono i monasteri che hanno una scuola per i Lama LUNG-GUMPA e rarissimi sono i Lama che riescono dopo anni a diventare dei LUNG-GUM-PA. Esploratori diversi hanno ipotizzato che il fenomeno del LUNG-GUM-PA potrebbe essere dovuto a lievitazione od a trasporto di corpo fisico su un supporto ectoplasmatico. La questione pur essendo straordinaria è più semplice. I LUNG-GUM-PA sono uomini di eccezionale robustezza fisica, apparato polmonare efficientissimo, brachicardici ed con una lunghissima preparazione psico-fisica praticata in seno a scuole rigorosissime. Coprono distanze notevoli non tanto per la velocità del loro cammino ma per la regolarità e la continuità di questo. Senza fermarsi, senza mangiare o bere possono marciare per oltre 70 ore a passo svelto. Dato che non si possono disturbare nel loro percorso, poiché si dice che toccandogli, o rivolgendogli la parola si provocherebbe l’uscita dal loro corpo dello spirito della divinità che li sorregge nella dura fatica e quindi uno shock tale da poterne provocare la morte, mai si potrà sapere se quell’apparente stato ipnotico sia reale oppure falso. Durante la marcia in una mano impugnano il PURBA o pugnale magico mentre l’altra mano rimane nascosta nelle pieghe della tonaca. Il pugnale viene adoperato come se si appoggiasse nell’aria a mo’ di bastone e nello stesso tempo pronunciano in continuazione formule esoteriche e quindi incomprensibili. I LUNG-GUM-PA sono impiegati per i messaggi urgenti tra monasteri sprovvisti di RUNG-GI-TEN-LA. I vecchi esploratori e studiosi del Tibet hanno parlato dei fenomeni telepatici e parapsichici molto sviluppati tra i Lama, ma ora bisogna distinguere in modo più particolare i vari fenomeni che tanto interesse hanno sollevato in occidente. La telepatia è a tutti conosciuta pure come la trasmissione del pensiero mentre poco nota è la tele-veggenza. Quest’ultima facoltà è la più sviluppata e la più nota tra i Lama che hanno raggiunto il più alto grado di Samadi. Il giovane destinato a diventare un futuro tele-veggente viene affidato ad un maestro che in futuro sarà il suo partner in tutte le sue varie esperienze di Samadi. Dopo anni di studi, meditazione ed esercizi il maestro e l’allievo presteranno la loro opera in un monastero. Non ho mai assistito al momento in cui il maestro all’allievo o l’allievo al maestro si accingono a trasmettere un ordine e quindi non posso riferire se in quel momento avvenissero modifiche dello stato fisico di uno dei due. Posso invece descrivere un tutti i minimi particolari ciò che avviene quando un tele-veggente si appresta ad iniziare il fenomeno. Per i Cristiani l’anima è nel nostro corpo ma non è precisato in modo anatomico, dove si trovi e non è precisato in che momento lasci il corpo per salire davanti al giudice celeste. Per i Lamaisti la questione è semplice, poiché partono da presupposti ben chiari. L’anima o principio cosciente è l’ospite temporaneo di un corpo qualsiasi e nel caso in cui si trovi nel corpo di un uomo ha una sede ben precisa: L’Io cosciente. Quest’ultimo si trova in una vena (sarebbe un condotto venoso-nervoso) che dal vertice della testa scende al perineo (forse negli organi genitali). I Lamaisti ritengono quindi che questi due centri siano funzionanti in tandem. Il principio cosciente ha infinite possibilità che l’uomo normale non riesce a realizzare per l’insufficienza di alcuni organi non educati quali il diaframma, il fegato, i polmoni, il cuore. Con l’esatta

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respirazione e con l’esatta concentrazione della meditazione, l’io cosciente, può estendersi in diversi modi. Come gli occultisti parlano di ectoplasma, cosi i lamaisti parlano di IO SOTTILE ovvero di una massa psichica che esce dal corpo e si allontana rimanendo tuttavia in collegamento con la sua base (la vena nervosa) per mezzo di un infinitamente sottile filo che si potrebbe chiamare psico-ectoplasmatico. L’IO SOTTILE si allontana ad una distanza che è proporzionata allo stato di SAMADI ed ad una velocità simile a quella del suono. L’IO SOTTILE ha eccezionali possibilità perché vede, sente e ricorda. Diversi sono i metodi per provocare l’uscita dell’io sottile ma ad una uscita avvenuta, il corpo del soggetto che l’ha emesso presenta sempre le stesse alterazioni fisiche. Lunga è la preparazione per ottenere lo stato di trance del Lama destinato ad emettere il proprio Io Sottile, sono lunghe ore di canti e recitazioni di preghiere spesso incomprensibili, accompagnati dal suono di strumenti musicali sacri (Tril, Damaru ecc.). I corpi di due Lama in stato di trance che ho potuto esaminare presentavano rigidità muscolare totale, insensibilità cutanea, assenza dei normali riflessi, bradicardia, abbassamento della temperatura (34°-35°) ritmo respiratorio da 12 a 14 battiti al minuto. Indagare soggetti di questo genere è cosa rara perché è difficilissimo ottenerne il permesso, siccome i Tibetani sono certi che l’eccitazione di un corpo, in questa eccezionale stato psicofisico, provocherebbe l’immediato rientro dell’io sottile e quindi uno shock talmente grave da provocare la morte fisica della persona in oggetto di studio. Di molti altri casi, sul fenomeno dell’IO SOTTILE, ho sentito narrare da Lama di vari Monasteri e naturalmente mi sono rimasti spesso dubbi sulla veridicità. Tralascio quindi tutti i casi sentiti limitandomi a ricordarne due soli che ho personalmente constatati e dei quali, malgrado tutta la mia attenzione, non sono riuscito ad individuarne l’eventuale trucco. Il primo caso è avvenuto nella valle di Ragbyeling, dove un Tulku che si trovava in ritiro in un Zam-kam avendo saputo che dopo qualche giorno avremmo valicato il passo, volle per onorare Lama Rimpocè (Il Prof Tucci), fornirci esatte notizie sulla situazione me-tereologica al di là del passo, naturalmente a mezzo dell’Io Sottile. Dal Zam-Kam, dove noi eravamo accampati, per poter arrivare al passo (5000 m) erano necessarie non meno di 5 giornate di marcia. Il Tulku, che pare avesse già raggiunto un altissimo grado di Samadi entrò in trance senza bisogno di cerimonie o pratiche esoteriche ed in breve tempo ci comunicò che al di là del passo erano arrivati pastori nomadi da oriente ed indicò per giunta il numero approssimativo degli animali e degli uomini ed anche il posto che la carovana aveva occupato! Durante la salita noi trovammo, al di sopra dei 4500 metri, neve vecchia senza alcun segno lasciato da uomini o animali, questo dimostrava che da molto tempo nessuno era salito o disceso. Arrivati al pianoro dopo il passo trovammo la carovana dei pastori e le loro mandrie che secondo le loro affermazioni erano arrivati in quel campo da otto giorni! Il secondo caso si è verificato mentre eravamo nel monastero di Toling per occuparci delle solite ricerche archeologiche. Dopo cinque giorni dal nostro arrivo assistemmo alla partenza di una numerosa carovana formata da uomini del monastero con animali da soma che servivano per portare mercanzie al mercato di Gartok nell’alta valle dell’Indo. La nostra permanenza a Toling si prolungò oltre il previsto avendo io trovato, nelle caverne sulle montagne vicine, un’intera biblioteca dell’antico monastero, probabilmente sotterrata durante le invasioni musulmane provenienti dal Kashmir. Il nostro ritardo sul previsto fu quindi di circa 10 giorni, quindi la carovana partita, avrebbe dovuto essere a circa 100-120 km da Toling. Il mattino della nostra partenza ci recammo a salutare il Khampo del monastero per ringraziarlo della sua cortesia. Dopo il cerimoniale di saluti il Khampo disse: “Durante il vostro viaggio verso Gartok incontrerete la mia carovana che torna indietro, l’ho richiamata ieri”. Noi partimmo senza dare alcun segno di credulità a quanto affermato dal Kampo. Dopo tre giorni in un pianoro sotto un passo trovammo accampata tutta la carovana del monastero. Il Lama capo-carovana si lamentava vivacemente per l’ordine di rientrare al monastero. Come nell’altro caso sopracitato, il mistero rimane. Come ho già detto prima al riguardo dei cadaveri che vengono squartati e dispersi, vorrei provvedere a rendere chiaro il motivo per cui questo avviene; è una ragione molto importante. Ho avuto la fortuna di assistere alla morte ed alle funzioni funebri di una madre di famiglia, quindi ho potuto seguire tutto anche nei minimi particolari. Ora mi taccerete di essere un tantino crudo, se siete deboli di stomaco sorvolate sulle righe seguenti ma... fatevi coraggio per favore e continuate a leggerle, vi accorgerete alla fine, di quale apertura

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mentale vi avrò fornito! Durante lo stato agonico, lo spirito coscienza che sta per abbandonare il corpo, si trova in stato di estrema debolezza, specie se è uno spirito cosciente imperfetto e pertanto, non ha la forza necessaria per scegliere la giusta via nell’aldilà. Per guidare questo spirito debole e indeciso interviene il Lama, il quale legge al moribondo tutti i consigli contenuti nel grande libro dei morti. Quando il Lama accerta che lo spirito cosciente ha lasciato il corpo, ordina l’immediato allontanamento del corpo dalla casa ed i parenti cercano di portarlo il più lontano possibile. Il cadavere, deposto sul terreno viene abilmente amputato degli arti e della testa, mentre il torace e l’addome vengono dischiusi dal Lama, con un particolare coltello. Gli arti e la testa vengono poi affidati ai vari congiunti i quali partono in direzioni opposte per arrivare il più lontano possibile gli uni, dagli altri. La cerimonia apparentemente macabra e crudele è suggerita invece da grande affetto per la persona scomparsa. È risaputo che lo spirito potrebbe tornare a reincarnarsi nello stesso corpo e continuare a soffrire in questo nostro mondo terreno quindi, con lo smembramento, si cerca di impedire la dannosa manovra di ritorno e perciò si facilita l’ascesa dello spirito al Paradiso di Amitaba anticamente del Nirvana. Allo stesso tempo, lo spirito debole e indeciso potrebbe incarnarsi in altro corpo (umano od animale) e tornare a soffrire in terra, è quindi necessario procedere alla cerimonia del pranzo funebre e delle pie menzogne. Così, il Lama riunisce tutti i congiunti nella camera più della casa e sopra una sorta di altarino, modella, con farina d’orzo una statuetta di circa 20 cm (TORMÀ) ed invoca lo spirito dello scomparso o scomparsa che sia, ad entrare nel TORMÀ. Dopo che il Lama ha verificato che lo spirito sia realmente penetrato nel Tormà, e solo allora, hanno inizio le pie menzogne. Nel caso particolare che ho seguito, la prima menzogna è stata proferita da uno dei mariti ed è stata la seguente: “ Tu sei stata fortunata a lasciare questo tuo ormai, orribile corpo che nessuno di noi mariti più apprezzava e sappi che tutti noi, figli compresi, abbiamo dato un grosso respiro di sollievo per la tua dipartita. Non tornare, avresti delle amare disillusioni, tua figlia è andata via portandosi tutto quanto tu avevi avuto in dote. Anche i vicini di casa dicono di averti sopportata solamente per riguardo verso di noi.” Queste crudeli menzogne servono a convincere lo spirito a non tornare e ad entrare nel paradiso di Amitaba. Questa pratica è però in netto contrasto con i principi buddisti, secondo i quali nessuno può lasciare questa terra definitivamente se non ha raggiunto la perfezione. Questo conferma come il Buddismo tibetano (lamaismo), ha dovuto accettare alcune delle tradizioni Bompo e diverse antiche abitudini locali. La cerimonia termina con un lauto pranzo e bevute di Chang. Anche il Tormà, abbandonato dello spirito del defunto, viene distribuito come ultimo piatto. Quanto detto, sino ad ora, si riferisce al vecchio Tibet Lamaistico in via di scomparsa. Nel 1950, il governo cinese ha ordinato la rioccupazione del territorio tibetano che sin dal 1905 è stato una sorta di protettorato inglese. Ho detto rioccupazione, poiché il Tibet è sempre stato geograficamente e politicamente Cinese. Davanti alle avanzate delle truppe cinesi il Dalai, Capo temporale del Tibet, si ritirò in India e molti monaci arrivarono anche in Svizzera. Il Taschi Lama, Capo spirituale, rimase invece al proprio posto e pare che il Governo Cinese lo abbia riconosciuto come ultimo Capo non rieleggibile. Dal 1965 il Tibet è denominato T.A.R. (Tibetana Autonoma Regione) sotto il controllo del P.C.C. Nel 1979 il Comitato Rivoluzionario Tibetano è stato sostituito dal Presidente del T.A.R., una sorta di Governatore. Il Governo cinese ammette che durante l’occupazione del Tibet sono state uccise 87.000 persone tuttavia, secondo altre fonti i caduti durante la Rivoluzione culturale, i morti sarebbero stati circa 200.000. In 90.000 c.a sono fuggiti in India, tra i quali 3.000 Lama. Molti dei Lama rimasti in Tibet sono ritornati allo stato laicale. Numerosi monasteri furono distrutti perché centri di resistenza, altri per recuperare materiale idoneo a nuove costruzioni, altri ancora, infine distrutti dalle Guardie Rosse durante la rivoluzione culturale. Oggi i monasteri sono solo 9. Non è più permesso entrare negli ordini monastici ed i Lama, oggi ancora tollerati, sono in via di estinzione. Potala, l’imponente palazzo del Dalai Lama, è attualmente Museo del Buddismo e fino ad oggi non è stato ancora aperto agli studiosi. Il palazzo è stato costruito tra il 1645 ed il 1694, ha 1000 camere, 10.000 altari, e 200.000 statue. Alla manutenzione sono adibiti 100 operai e costa allo stato 67.000 dollari all’anno. Il popolo del T.A.R. è stimato intorno ai 1.740.000 individui ed è in aumento poiché, nel T.A.R., non è in vigore il controllo

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delle nascite come lo è invece nel restante territorio cinese. Le tasse sono minori rispetto a quelle vigenti nella Repubblica Cinese. Attualmente i cinesi in Tibet sono, tra militari e civili, circa 300.000, le fattorie circa 200.000 (i beni ecclesiastici sono stati espropriati). La modernizzazione del Tibet costa alla Repubblica Cinese circa 350.000 dollari l’anno. I contadini, per il 97% lavora nelle comuni e sono pagati in natura, possono ricevere in denaro liquido un massimo di 40 dollari all’anno. Prima del 1950 esistevano solo le scuole religiose. Attualmente le scuole laiche sono 100 e gli studenti 280.000. Il nuovo governo cinese ha intenzione di riportare il Tibet alla vecchia coltura lamaistica non per un motivo di “ripensamento” ma esclusivamente per ragioni turistiche. Il Governo di Pechino ha infatti riaperto i seminari e sta rimettendo in ordine i principali monasteri, gravemente danneggiati dalla rivoluzione culturale che ha impedito alla Cina di progredire sia nelle scienze, che nell’agricoltura. Nelle province più lontane del nord, forse l’antico lamaismo potrà ancora riprendersi ma a Lhasa, oramai inquinata da 300.000 cinesi, il Lamaismo sarà ridotto ad essere una semplice curiosità da vendere ai turisti. Gli studiosi che ancora vorranno trovare i segni dell’antica religione lamaistica dovranno, sempre che ne possano ottenere il permesso, recarsi nelle difficili Valli dell’alto Brahmaputra, od Indo, o Sutlej.”

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Glossario

ALONG: orecchino circolare.

DUNTOB: stregone magico.

AM-CHI: medico.

DOBDOB: soldatacci dei monasteri (in genere religiosi bocciati).

AK-DORJE: simbolo della folgore.

DOKPA: pastore.

ARGAL: escremento secco degli Yak (combustibile).

GYALING: tromba d’argento.

BODHISATTVA: arnat che rinuncia al Nirvana e rimane

GON-KANG: tempio di casa.

nel Samsara per aiutare i fratelli non illuminati. BARDO: sacro libro che si legge ai moribondi per aiutarli nella reincarnazione. CHE-MO: pittore-maestro. CHANG: birra d’orzo. CHAPATI: pane non lievitato cotto su pietra. CHORTEN: costruzione propiziatoria o voto.

GOMPA: monastero. GHELUPÀ: sette dei Gialli (Tsong-Khapa). GOMTCEN: eremita. GEYOGS: seminaristi poveri che in cambio di lezioni e viveri si sottomettono ai vari servizi per i monaci. HINAYANA: scuola buddistica conservatrice

CHUBA: veste lunga femminile.

detta del “Piccolo Veicolo”.

CHILIM-PA: forestieri.

HLAM: scarpe di lana e cuoio.

CIOD: Cerimonia (piuttosto complicata) per

HIK-FET: parola magica che il sacerdote grida

raggiungere in via breve il Risveglio.

in presenza del cadavere per facilitare l’uscita

DRI: femmina di Yak. DZONG: fortificazione. DZONG-PONS: governatore civile e militare. DRI-DUG: coltello sacro. DAMARU: doppio tamburo sacro. DZA-SA: comandante dell’esercito. DELOG: colui che ritorna dall’aldilà, (probabili casi di morte apparente).

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GYERPA: contadino proprietario.

dello spirito dal cranio del defunto. JESCE’: filosofo. KARMA: paragonabile al Libero Arbitrio. Il Karma termina solo in chi si è liberato del Samsara. KARSO: cerimonia riparatrice. KATA: sciarpa bianca di seta che si offre in omaggio. KANGYUR: sacra scrittura-Volumi 108. KANLING: tromba sacrificale ai Naga (ai tempi di Bonpo’)fatta con femore di vergine.


KYILKHOR: cerchio magico.

RAGDONGS: trombe lunghissime.

KYANGS: asini selvatici.

ROLANG: cadavere che si rialza (il sacerdote presente per farlo

LAMA: i Lama si dividono in: Lama incarnati (Dalai LamaTachi-Lama), Bodhisattva, capi di monaci, Lama Non incarnati (novizi-e non) consacrati a capo di monasteri.

ritornare cadavere deve amputargli la lingua con un solo morso). SAMASARA: nascita rinnovata (incarnazione). TRI-PITAKA: Vinaya (disciplina), Sutra

LHA-KANG: tempio.

(predica), Abhidhamma (metafisica).

LUNG-TA: bandierine o strisce di stoffa che si

TUNG-CHEN: Come Ragdongs.

mettono sui passi di montagna o sulle case. LUNG-GOM-PA: marciatori in stato d’ipnosi. MAHAYANA: scuola buddistica magicosacerdotale detta del “Grande Veicolo”. MANI-KORL: mulinello delle preghiere. MENDAN: muro o sassi allineati con scritto “OM MANI PADME HUM”. MOPA: chiaroveggente. NIRVANA: sprofondamento nel nulla. NALDJORPA: asceta con poteri magici. PANG-DEN: grembiule (parte integrante dell’abito femminile). PAOS: donna che può auto ipnotizzarsi. PATRUK: copricapo femminile.

TRI: pugnale. THANKA: pitture su tela raffiguranti divinità. TRANKA: moneta in argento. TANGYUR: commento alla sacra scrittura. TORMÀ: piccola sagoma, simile ad una statuetta, fatta con farina. Il sacerdote può fare entrare in questa statuetta lo spirito del defunto per convincerlo a non ritornare in quella casa. TRAPA: sacerdote. TSAMPA: farina d’orzo. TRIL-BU: campanello sacro. TARCHO: bandiera con stampe. TULKU: Bodhisattva. TUMO: facoltà di variare la temperatura

PURBU: pugnale magico (in legno).

corporea secondo la propria volontà.

RUGYEN: paramento sacro fatto con ossa lavorate.

TZAM.KAM: caverna per meditazione.

RII-GOMPA: demoni della montagna.

OBO: cumulo di sassi su di un passo.

RIG-CHUNG: seminaristi.

SO-YA-LA-SO: saluto di omaggio agli dei superando un passo in montagna.

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Sommario

Prefazione Oscar Nalesini

09

Appunti, riflessioni e perplessità dal Tetto del Mondo David Bellatalla

13

Il motivo di questa pubblicazione David Bellatalla

15

Diario Commento di David Bellatalla

17

Cartine del percorso

193

Località

205

Glossario

206

Sull’Altipiano dell’Io Sottile di Eugenio Ghersi Glossario

209 220


Il diario di Eugenio Ghersi qui proposto costituisce, come a suo tempo apertamente dichiarato, le fondamenta e l’ossatura di Cronaca della spedizione italiana nel Tibet occidentale, pubblicata dalla reale Accademia d’Italia nel 1934 a firma dello stesso Ghersi e del suo capo missione, il noto orientalista Giuseppe Tucci. Scritto per divulgare i risultati di una spedizione condotta per mesi attraverso terreni impervi come pochi altri, con l’obiettivo di scoprire e documentare le vestigia di una civiltà, quella tibetana, allora pressochè ignota agli studiosi occidentali, questo libro è anche oggi un testo essenziale per chiunque voglia comprendere l’opera di Tucci.”

— Oscar Nalesini


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