Boschilla
Ragnatele Un viaggio tra i paesi abbandonati dell’Appennino
Andrea Chiloiro, Riccardo Franchini, Giovanni Labriola e Matteo Ragno sono i componenti di “Boschilla”, un progetto di ricerca multimediale sulla montagna e sulle aree interne nato nel 2014, dopo numerosi attraversamenti a piedi, con la trasmissione radiofonica “Boschilla. Il suono del tuo passo”. Nel 2016 vince il bando FuoiRotta con il progetto “Ragnatele”. Nel 2017 vince il premio Montura e nel 2018 realizza in coproduzione con Caucaso Factory il film documentario “Entroterra. Memorie e desideri delle montagne minori”, in selezione ufficiale alla 66a edizione del Trento Film Festival e premiato come miglior documentario e migliore sceneggiatura nella 19a edizione del Lucania Film Festival.
Montura Editing è il laboratorio creativo di Montura, aperto a “nuove vie”: dalla produzione editoriale a quella cinematografica. Negli anni ha sostenuto la pubblicazione e la diffusione di decine di opere, favorendo l’esordio e l’affermazione di giovani autori.
un progetto di
in collaborazione con
Progetto a cura di Andrea Chiloiro, Riccardo Franchini Giovanni Labriola, Matteo Ragno ©2018 Boschilla Fotografia di copertina “Incendio di Verbicaro”, di Francesco Spingola, 2016 ©2018 Francesco Spingola Illustrazioni Asparago (p. 11, 49, 81, 117) Anna Pace (p. 44, 76, 108) Lucia Gargiulo (p. 157) Progetto grafico Simone Falso Editore Montura Editing - Tasci S.r.l. Via Zotti n. 29 - 38068 - Rovereto (TN) www.montura.it Stampa Litografica Editrice Saturnia - Trento Copyright © Montura Editing 2018 Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo senza l’autorizzazione scritta dell’editore.
€ 15.00
Boschilla
Ragnatele Un viaggio tra i paesi abbandonati dell’Appennino
Indice La bella ragnatela - di Simone Falso
p.
7
Introduzione p. 9 Capitolo Primo Emilia Romagna e Marche - Pietre e parole
p.
11
Ragnatela
p.
44
Abruzzo - Il Borneo teramano
p.
49
Ragnatela
p.
76
Campania - Appennino a tratti
p.
81
Ragnatela
p. 108
Capitolo Secondo
Capitolo Terzo
Capitolo Quarto Calabria - Entroterra mediterraneo
p.
117
Ragnatela
p.
157
Ringraziamenti p. 166
La bella ragnatela di Simone Falso L’amore della ricerca e il desiderio di accogliere - con sguardi puri - il paesaggio complesso e articolato di territori dimenticati e abbandonati, sono la spinta che ha permesso a quattro ricercatori di porsi nella condizione di scoprire, con uno spirito straordinario, oggi ancora raro. Le ragnatele sono sottili, articolate, complesse, micidiali e terrificanti, ma l’approccio antropologico del volume convive con la sua umile forma di raccolta di testimonianze e restituisce al lettore un’immagine che riesce magicamente ad essere contemporaneamente leggera e complessa, triste e piena di speranza. Con questo libro, l’entroterra diventa oggi nuovamente allettante: la forza che ha generato lo spopolamento non è più in grado di essere sostenuta, le grandi città non sono più terre promesse e non soddisfano più le necessità del nuovo cittadino; quest’ultimo ritrova un senso di appartenza alla natura, consuma e spreca meno, ripara, costruisce, coltiva la propria terra e preferisce amare e rispettare l’ambiente che lo circonda. La testimonianza del collettivo Boschilla, si accorda così con FuoriRotta, invitando ad una riflessione sul Viaggio, per la ricerca e la costruzione di nuove mete e di nuovi orizzonti.
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Introduzione Ragnatele è un viaggio a piedi nella geografia dello spopolamento appenninico, tra montagne minori e aree interne italiane, che si è sviluppato e concentrato in quattro zone in particolare: Emilia, Abruzzo, Campania e Calabria. Il paesaggio e i suoi abitanti ci hanno raccontato il mutare delle loro comunità e del loro rapporto con il territorio, nel costante susseguirsi di disastri, migrazioni, abbandoni e ricostruzioni. Pensiamo di aver raccolto degli appunti utili a comprendere le articolate dinamiche di queste zone, attraverso un viaggio che è andato alla scoperta non solo di una storia passata ma anche di un presente sospeso e di prospettive future. Questo libro è il frutto - insieme al documentario Entroterra. Memorie e desideri delle montagne minori - di questo viaggio di ricerca tra i paesi abbandonati dell’Appennino, compiuto nell’Agosto 2016 e vincitore, nello stesso anno, del bando FuoriRotta per viaggi non convenzionali. Ogni capitolo corrisponde a una regione attraversata ed è formato da quattro diari, che contengono brevi racconti in presa diretta, le interviste più interessanti e riflessioni successive al viaggio. L’ordine dei diari è geografico, non numerico, e segue il nostro percorso. Ogni diario è infatti associato a un numero che corrisponde a uno degli autori (anche se non si sa chi è) in modo da restituire un ritratto il più possibile corale della nostra esperienza. Alla fine di ogni capitolo si trova una Ragnatela, un approfondimento su temi e storie che sebbene indipendenti dal nostro viaggio, si incrociano e si intrecciano, con i territori da noi attraversati. 9
CAPITOLO PRIMO EMILIA ROMAGNA E MARCHE Pietre e parole
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DIARIO 2 Se dovessi fare una lista dei miei luoghi preferiti sicuramente la Valle del Santerno sarebbe nei primi posti. Questo fiume che scorre tranquillo rappresenta per chi vive, come me, a Bologna uno dei pochi luoghi in cui potersi rinfrescare durante l’asfissiante caldo estivo della conca padana. Qui l’Appennino è rimasto insolitamente basso e la valle è discretamente larga, questi sono i motivi che l’hanno resa storicamente strategica, punto privilegiato per controllare la mobilità appenninica, luogo di commerci e scambi nel passato e più recentemente teatro di uno dei più duri fronti del secondo conflitto mondiale: la linea gotica. Gli stessi motivi che prima rendevano la valle importante oggi contribuiscono al suo spopolamento e alla sua scarsa valorizzazione. *** Il territorio vicino al Santerno era contraddistinto da un popolamento sparso ma denso. Nella valle e sulle creste vicine ci sono decine di piccoli borghi che fino alla metà del Novecento vivevano essenzialmente di castagne, legna e agricoltura di sussistenza. I primi ad essere abbandonati sono i poderi piccoli più vicini al bosco e con poco seminativo, poi si svuotano anche quelli più grandi e con loro intere frazioni scompaiono. L’erosione demografica è stata in parte arginata da quella geologica, infatti l’escavazione della pietra serena, arenaria, che si realizza in questi rilievi è sembrato per alcuni decenni il solo freno possibile allo spopolamento. Per far sì che queste mon12
tagne non si svuotassero di uomini l’unico antidoto sembrava abbatterle, scavarle, dinamitarle in un processo simile a quello che avviene in altri monti (Alpi Apuane il caso più famoso) con un conflitto tra natura e uomo pieno di contraddizioni e per cui non esistono soluzioni semplici. Lo spopolamento di questa valle è un caso emblematico dei problemi dell’Appennino, I borghi abbandonati, anche in provincie come Firenze e Bologna, che hanno visto uno sviluppo industriale ed economico invidiabile, ci parlano di un progresso contraddittorio e palesano i problemi specifici delle realtà montane. Queste montagne sono il “sud” del Nord Italia, ci fanno intuire che le storie di spopolamento dell’Appennino hanno un minimo comune denominatore che è proprio la montagna. Anche delle regioni sviluppate e all’avanguardia dal punto di vista dei servizi come l’Emilia e la Toscana non sono riuscite ad impedire questo dualismo geografico-economico che ha relegato le terre più alte in una posizione marginale e subalterna. Le frazioni situate lungo il corso del fiume Santerno, nella valle, favorite dalle vie di comunicazione hanno resistito meglio a questo crollo demografico e sono ancora oggi abitate; i borghi a quote più alte si sono svuotati ed ora alcuni sono del tutto abbandonati (Brento Sanico, Castiglioncello) e altri hanno pochissimi abitanti (Casette di Tiara, Rifredo). La situazione di Casette di Tiara è una delle più critiche, stabilmente vi risiedono meno di dieci persone mentre l’estate si ripopola leggermente con il ritorno di alcune famiglie di emigrati. Casette è una piccola frazione, antica, antichissima, pare che il suo dialetto abbia origini bizantine o romagnole, qui si sono svolti sanguinosi scontri tra fascisti e resistenza; ma oggi questo angolo di storia e di cultura rischia di scomparire. Nel borgo c’è solo un’attività aperta, il ristorante “Da Sonia” gestito da una famiglia, che abbiamo avuto il piacere di intervistare, e che ha una giovane bimba, l’unica del paese e tra le poche di tutta la zona. 13
L’arrivo a Casette è strano, arriviamo in punta di piedi e in silenzio come si fa quando si entra nello spazio privato di qualcuno. Il tempo non è buono, cade qualche goccia di pioggia e il paese è tutto addobbato con dei festoni che vibrano al vento, producendo l’atmosfera malinconica di quando una festa è finita. Infatti si è da poco svolta una sagra estiva, uno dei rari momenti di ripopolamento del borgo. Abbiamo il tempo di perlustrare tutto l’abitato prima di incontrare qualcuno. La prima persona che vediamo è Leonardo, che da bravo montanaro risponde alle prime nostre domande in maniera scontrosa dicendo che non sa molto e che non c’è molto da dire, ma dopo poco inizia a sorriderci e a raccontarci con passione la sua vita e quella di questo luogo. La prima cosa che ci dice è «A Casette si sta bene», quasi come a voler subito ribaltare quello stereotipo che fa dei paesi in spopolamento una prigione per chi ancora li abita. Ci invita ad entrare da lui, per parlare più comodamente e al riparo dalla pioggia e incontriamo Sonia che prepara la pasta fresca. Li intervistiamo in cucina mentre lavorano nel loro ristorante che esiste da più di 4 generazioni. Parlateci della vostra attività e della relazione che ha con questo luogo. Sonia: Viviamo in quella casa di fronte alla chiesa dove prima c’era la trattoria. Il mio bisnonno aveva la trattoria. Noi facciamo prodotti del luogo: funghi, marroni, pasta. Uno cerca di metterci anche un po’ del suo però se non viene pubblicizzato il territorio non si va da nessuna parte. Peccato perché noi ci abbiamo messo tanto del nostro per questa piccola azienda. Non si è mai puntato a fare grandi cose ma a stare tranquilli sì, chi sta quassù vuole vivere di quello che fa in maniera dignitosa. Però siamo distanti, le strade sono tutte rotte [...] Si possono fare delle belle passeggiate, c’è anche della storia dietro, andrebbe un attimino valorizzato, 14
ma se non c’è nessuno che ti pubblicizza il territorio tu puoi fare la pubblicità al ristorante finché vuoi. Il nostro problema è quello di non poter far alloggiare le persone, perché le case sono tutte di proprietà e tutte di proprietà del bisnonno che non sono state mai vendute e sono poco frequentate. Speriamo, sembra che qualcuno le voglia vendere. Ci potete raccontare lo spopolamento del paese? Sonia: La prima gente che è andata via se n’è andata negli anni ‘50, io sono nata nel 1966, più o meno le persone sono andate via tra il ‘55 e il ‘60. Quindi quando sono nata io c’erano quei tot residenti, poi magari le mie amiche, le mie sorelle, le ragazzine che erano cresciute con me o quei due, tre ragazzini che c’erano si sono sposati e sono andati a vivere da un’altra parte. Questo mi è mancato. Le persone si sono spostate e sono andate via e a quel punto è una scelta tua, quella di rimanere. Leonardo: Il problema dell’abbandono che c’è stato qui riguarda tutte le frazioni del comune di Firenzuola, di Palazzuolo, di Marradi. Dalle frazioni negli anni ‘60 si sono spostati a Firenzuola, quando hanno cominciato ad aprire le cave, la gente dalle campagne, quelli che erano rimasti, si sono trasferiti in paese. E ora in paese non ha più senso rimanere, non c’è più lavoro, rimango solo anziani e basta. Sonia: Con tutti questi difetti che siamo rimasti a fare qui? Leonardo: Le radici, le radici! Sonia: Noi siamo cresciuti con tante persone anziane, poi sono morte, non c’è stato il ricambio e tra un po’ gli anziani saremo noi. Le persone anziane per noi sono state tanto importanti, ci raccontavano tutte le novelle, io dico sempre che siamo cresciuti a pane e spiriti. Tutti i racconti dei fantasmi davanti al camino d’inverno! Io sono paurosa perché sono cresciuta con queste storie di tutte queste visioni. Gli anziani raccontavano che avevano visto di tutto e noi siamo cresciuti credendoci: io ci credo ancora.
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Se sua figlia decidesse un giorno di andare via? Leonardo: È libera di fare le sue scelte. Sonia: Noi siamo una comunità di anziani, però siamo aperti. “Le radici sono come carie prima o poi fanno male”, non si può nascere come le querce, come siamo nati noi. Che futuro vedete per il paese? Sonia: Io non penso di rimanere qui per sempre. Fra due anni mia figlia andrà alle superiori e qui l’inverno è pesante...poi le superiori sono o a Imola o a San Lorenzo. Lui [indica Leonardo] e il fratello hanno una casa giù al livello del Santerno e dovremo spostarci lì, dove passa l’autobus e la ragazzina può andare a Imola. Perché qui, a parte quest’inverno che non c’è stata neve, gli inverni sono pesanti, ma belli eh! Leonardo: Io non vedo un gran futuro purtroppo. Anche perché si va verso l’abbandono totale. Avete visto le persone che avete incontrato? Ci sta Luciana che viene su da Imola un mese, due mesi l’anno, altrimenti c’è Primo e Livia che insieme fanno 170 anni. Sonia: No, io ci voglio ancora sperare. Leonardo e Sonia sottolineano subito come la loro sia una scelta consapevole, la scelta di restare e di investire in montagna. Quando parlano dei motivi per cui si è spopolato il paese ne parlano con ineluttabilità, descrivono una situazione senza alternative, parlano di scelte obbligate, ma il loro percorso di vita è stato diverso. La loro attività è il punto di riferimento per questa comunità di ultraottantenni, la loro bambina, l’ultima nascita in paese, è una speranza per tutti. Tuttavia non appena la figlia inizierà le superiori anche loro scenderanno per l’inverno più a valle dove i collegamenti sono migliori e dove la figlia potrà avere una vita sociale che la montagna non le consente di avere, sebbene non ne avverta ancora il bisogno: a breve giocare con anziani e animali non le basterà più. 16
Sonia, più di Leonardo, vede ancora un futuro possibile e non sta lì ad aspettarlo ma prova a costruirlo immediatamente. Ci racconta l’idea di creare un campeggio per attirare persone ma parlano anche dei problemi del turismo e della mancata promozione del territorio che rende la scelta di restare sempre più difficile. Non sono degli ultimi abitanti rassegnati, al contrario sono due persone serene e profondamente innamorate del loro luogo, che con il loro umorismo continuano ogni giorno a farlo vivere, a riempirlo di significati. Quando i microfoni sono già spenti, Sonia irrompe con una frase tanto semplice quanto forte: «La gente che è andata in città, è andata lì a fare 12 ore di lavoro al giorno in fabbrica, bisogna vedere anche loro a cosa hanno rinunciato. Che prezzo ha avuto la loro scelta?» *** Dopo la piacevole chiacchierata nel ristorante, incontriamo Primo, lo zio di Sonia. A San Pellegrino ci avevano consigliato di venire a parlare proprio con lui, considerato la memoria storica del paese. Primo ha 87 anni e vive con la moglie Livia che ne ha 82. Ci fa accomodare nella loro casa, che si affaccia nella piazzetta centrale del paese. L’intervista inizia con il racconto della seconda guerra mondiale e della resistenza partigiana. In quei tempi Primo aveva 15 anni e ricorda tutto perfettamente, manda a memoria date ed eventi. Durante quei tragici giorni, in paese vengono uccisi otto partigiani e diversi civili, le case vengono incendiate e la popolazione è costretta a rifugiarsi nei boschi e nelle caverne per quattro mesi. Ci può parlare della guerra? Primo: I tedeschi vennero su l’8 di Maggio del ‘44 e ammazzarono 8 partigiani, c’è la lapide lì sulla chiesa, l’avete vista? Poi 17
tornarono il 2 Luglio sempre del ‘44, bombardarono lì dietro e ammazzarono una mia cugina e il figlio, poi ci furono due feriti ma quelli se la cavarono. Poi tornarono il 16 di Luglio e la sentinella, qui sopra c’era una compagnia di partigiani, gli sparò e ferì un tedesco. Vennero su e misero fuoco in quasi tutte le case, la canonica bruciò tutta. Lei era piccolo? Primo: Io avevo 15 anni, mi ricordo bene, si fermarono quaggiù in quella casa sulla destra prima di cominciare la salita. C’erano quattro anziani, per non dire vecchi, e li domandarono se c’erano i partigiani e loro dissero: «No». E per l’appunto li spararono e ammazzarono tutti questi anziani e li buttarono nel fuoco. Poi dal 16 di Luglio non sono tornati più su, però incominciarono a bombardare là di fronte, sull’Appennino, dove c’erano tutte le compagnie e i partigiani scapparono, andarono verso il Monte Battaglia. Avevo anche un po’ paura. Quando vennero su i tedeschi non c’era più nessuno, eravamo scappati tutti nella macchia. Dal 2 Luglio, rientrammo a casa verso il 20 Settembre. Il 19 di Settembre passarono gli americani. Si tornò alle abitazioni, chi aveva la casa bruciata, chi non ce l’aveva... Dopo la guerra è iniziato lo spopolamento del paese? Primo: Negli anni ‘50 cominciarono ad andare via, facevano la fila [ride] chi a Prato, chi a Imola, chi a Firenze, insomma fino a fine guerra eravamo 350 nella frazione, ora siamo rimasti in 12. Andarono via quasi tutti. Io rimasi, avevo un po’ di roba, si cercò di reggere ma poi a un certo punto...Qui si lavorava il carbone, poi si incominciò a lavorare la legna, poi non andava più neanche la legna presi e andai via. Avevo quattro figli e andai a Firenze. Poi andai in pensione nel 1990 e tornai quassù con mia moglie. I figli li ho tutti a Firenze.
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Quando lei è andato a lavorare a Firenze c’era qualcosa che le mancava di qui? Primo: Sì, sì mi mancava proprio, ci stavo volentieri io quassù. Fui costretto ad andare perché levarono la scuola, avevo quattro figli. Io però non è che ci stavo volentieri a Firenze, sentivo la mancanza. Come mai è tornato? Primo: Cosa facevo a Firenze in pensione? Qua ho un po’ di marroni, ho un po’ di terra per fare l’orto, avevo la casa... Durante l’intervista avviene un imprevisto, un rumore di bastoni interrompe la conversazione. Nella casa entrano due anziane signore e prendono parte anche loro al dialogo. La situazione si capovolge, siamo entrati per fare noi delle domande ma ora è l’intero paese che ci osserva, come se fossimo noi l’oggetto da indagare e forse effettivamente è così. La nostra presenza ha attirato l’attenzione del paese e questo ci permette di rivolgere le domande, che avremmo fatto solo a Primo e a Livia, a tutta questa comunità. Si tratta di una comunità piccola ma molto coesa, gli abitanti si conoscono da una vita e sembrano avere molta confidenza tra di loro. Le due signore che sono entrate sono Luciana, che vive a Imola ma che torna durante le vacanze, e un’altra donna che vive a Casette anche d’inverno. Luciana ha 85 anni è nata qui e alla fine dell’intervista ci invita anche lei in casa sua dicendo che deve mostrarci qualcosa di speciale. Ci fa strada e apre una delle finestre che affacciano sulla Valle dell’Inferno, il panorama è bellissimo. Ci mostra questo scorcio di Appennino fiera ed estasiata, forse è proprio l’emozione di aprire quella finestra che la spinge a ritornare ogni anno, a più di 60 anni dalla sua migrazione definitiva. La piccola bellezza di una prospettiva particolare e privilegiata, che si gode solo dalla sua cucina, è il segreto che la lega a questo luogo. 19
Come si vive adesso a Casette? Primo: Adesso si vive bene con un po’ di pensione. Luciana: C’è il frigo, c’è il congelatore, c’è tutto! Che futuro vedete per questo paese? Primo: Io me lo immagino male. Livia: Gliel’ho detto anche io sai, anche io ho detto la stessa cosa. Primo: Per i giovani i lavori non ci sono. C’è la pietra che non va, la pietra serena, fino a qualche anno fa lavorano tutti lì da Firenzuola tra le segherie e le cave. Primo: I vecchi muoiono, e i giovani non vengono. Qui prima andava la legna, si lavorava il carbone ora sono rimasti solo i marroni. I giovani non hanno mica la pensione, i vecchi hanno la pensione in qualche modo campano, però i giovani se non lavorano non mangiano. E il turismo? Primo: Io non vedo una via di scampo nel turismo. C’è quel ristorante lì, può anche svilupparsi qualcosa ma io non ci credo. In queste case qui non viene più nessuno, fino a qualche anno fa venivano su il sabato e la domenica, venivano in ferie. Adesso non viene più nessuno. Luciana: Fino a che io ho le gambe e la testa io vengo. Primo: Credi di essere eterna? Luciana: Lo dico sempre quest’anno sono venuta, l’anno prossimo chi lo sa? Dei figli miei chi viene? Nessuno! A loro piace, però non vengono e cosa me ne faccio di quella casa là? Quindi siete coscienti di essere tra gli ultimi abitanti di questo paese? Primo: Io? No, no ora come ora sono il più vecchio [ride]. Luciana: Perché lei ci vive sempre [indicando un’altra signora che è entrata con lei] anche d’inverno, suo fratello ugualmente. 20
Primo: Noi abbiamo la casa a Firenze quindi non è più il caso di stare quassù d’inverno. Curioso che Luciana definisca l’abitabilità di questo paese a partire dall’arrivo di alcuni elettrodomestici (il frigo, il congelatore) che sono dei simboli della modernità, delle comodità che in questo paese non esistevano e la cui ricerca ha portato molte persone ad emigrare. Questa parte dell’intervista è molto interattiva, gli abitanti si interrompono continuamente, dialogano, si trovano in disaccordo. È una comunità che, tramite la nostra ricerca, si trova a discutere sulla sua storia e su dei temi che la riguardano, in particolar modo del futuro. Non riescono ad essere ottimisti eppure non pronunciano mai la parola abbandono, quasi per non evocarlo. Non si vogliono sentire gli ultimi abitanti di Casette, quando gli viene posta la domanda la sviano, hanno bisogno di pensare che quel luogo possa continuare anche dopo di loro. Riprendendo le parole di Vito Teti, professore di Antropologia Culturale dell’Università di Cosenza, incontrato nelle ultime tappe del nostro viaggio: Una delle domande che più ha accompagnato, ossessionato, in questi miei viaggi è cosa si possa provare a scoprire di essere l’ultimo abitante, in senso vero e non metaforico, di un paese, provare a sapere che la chiusura di quella casa, della tua casa, è concisa con la chiusura di un luogo, di un mondo.[...] Ho ipotizzato una tipologia, una possibile psicologia dell’ultimo abitante e ho concluso che forse l’ultimo abitante non esiste, che è un’invenzione di chi osserva, è una proiezione di chi si sente ultimo abitante, è comunque una condizione di cui ci si accorge poi. Una condizione che si vive o non si vive in mille modi diversi. (Vito Teti, Il senso dei luoghi, 2004)
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Conoscete il dialetto di Casette di Tiara? Primo: Io e mia moglie parliamo sempre in dialetto tra di noi, con i figli no. Luciana: È un dialetto particolare, non c’è da nessun altra parte. Primo: Si è fra il toscano e il romagnolo, ce ne sono tanti di dialetti. Ogni frazione da Rapezzo a San Pellegrino parla dialetti differenti. Luciana: E ma il Casettino è proprio di qui, fuori di qui non esiste! Un proverbio in casettino? Primo: Diglielo. Livia: Diglielo te! Primo: No dai dillo tu. Di parlare si parla però ora così non ci viene nulla... Primo esita sembra scavare nella memoria per trovare la frase giusta, si rimbalza con la moglie una possibile risposta. La nostra tensione è palpabile, e forse questo rovina il momento, siamo coscienti che stiamo per catturare qualcosa di unico, la telecamera sta per immortalare probabilmente una delle ultime volte in cui questo dialetto centenario, straordinario incrocio tra romagnolo e toscano, può essere pronunciato da uno dei suoi ultimi conoscitori. Ma niente, nè Primo nè la moglie pronunciano alcuna parola, il casettino è già morto come lingua e i morti non parlano.
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DIARIO 4 Siamo a Brento Sanico, il paese sorge su un fianco della montagna, immerso tra i boschi che hanno riconquistato terreno dopo lo spopolamento, per arrivarci percorriamo qualche chilometro di un sentiero in salita, unica via d’accesso al borgo. Qualche centinaia di metri più su rispetto al paese si trova una grande cava di pietra serena che negli scorsi decenni ha sventrato la montagna ed è visibile anche dal satellite. La cava oggi è quasi dismessa, ma mentre siamo a Brento sentiamo più volte delle esplosioni di dinamite che rompono il silenzio in cui siamo immersi. La Chiesa è uno dei pochi edifici che resiste alla pressione degli agenti atmosferici ma conserva ancora la sua particolare decorazione interna, a scacchi bianchi e neri... *** Se ci sono poche speranze che il borgo di Casette di Tiara si ripopoli ancora meno ce ne sono per Brento Sanico che è dall’altra parte della valle, ormai ridotto a rudere. Chissà gli abitanti di Casette guardando Brento cosa pensano, se lo spettro dell’abbandono li inquieta o sei quei ruderi sono semplicemente entrati a far parte del loro paesaggio interiore. Le prime notizie di Brento si hanno nel 1145, quando il borgo viene segnalato come un castello degli Ubaldini, che avevano scelto quest’area per la sua posizione strategica a controllo della valle, la zona infatti prese il nome di Alpes Ubaldinorum. Brento è stato abbandonato definitivamente negli anni ‘60, 23
qui non ci è arrivata mai un’asfaltata ma questo non aveva impedito al paese di essere un punto di riferimento per tutta la valle. Con la sua chiesa e le feste da ballo, che qui si tenevano fino agli anni ‘40, Brento doveva essere proprio un centro vitale di questo pezzo di Appennino Non lo si direbbe oggi passeggiando tra i ruderi invasi dai rovi. Per trovare notizie su Brento bisogna scendere più a valle nella frazione di San Pellegrino, un piccolo gruppo di case vicino al fiume dove chiediamo le prime informazioni. Gli abitanti ci dicono che se vogliamo saperne di più riguardo lo spopolamento dobbiamo bussare ad una porta, dove vive un anziano professore che ha scritto alcuni libri sul territorio: è Piercarlo Tagliaferri che con gentilezza ci fa entrare a casa e ci offre dei biscotti locali. È una persona di una grande cultura, che ha fatto con passione il suo lavoro di maestro e che ha dedicato gran parte della sua vita a fare ricerca sulla storia del territorio. Anche lui ci racconta della seconda guerra mondiale, ci dice di come sua nonna sia sfuggita per miracolo ai campi di sterminio. Qui la guerra ha mostrato il suo volto più duro ed è rimasta impressa nella memoria delle generazioni più anziane. Ci può parlare un po’ dello spopolamento di questa zona? Piercarlo: Lo spopolamento della gente di queste zone è avvenuto quando la gente si è accorta che trasferendosi in altri luoghi poteva vivere una vita diversa, insomma ecco non è casuale, e poi vivere nella miseria. Alcuni sono venuti qui, a San Pellegrino, altri sono andati in Romagna perché offriva il lavoro. Fino ai primi anni ‘50 c’era anche la scuola, una scuola unica pluriclasse quindi comprendente tutte le classi. Scuole di campagna, e ce n’erano decine qui nel comune di Fiorenzuola, anche perché i mezzi di trasporto non c’erano, l’amministrazione comunale non era in grado di effettuare il trasporto per mancanza di fondi e le varie località avevano ognuna la loro scuola. A Brento c’era la scuola, a Casette di Tiara c’era la scuola, a Rapezzo c’era la scuola. Quin24
di erano tante le scuole uniche pluriclasse che hanno assolto un compito di educazione e anche di formazione. Si andava soltanto a piedi. C’era chi per esempio ci metteva delle ore per andare a scuola. Andare alla scuola di Rapezzo da parte di ragazzi le cui abitazioni distavano ore di cammino comportava un sacrificio notevole. Però hanno assolto il compito queste scuole di formare ed educare le persone. Educare vuol dire tirarle fuori dallo stato di ignoranza, di non conoscenza delle cose e per bambini che vivevano isolati era estremamente importante. Lo spopolamento di questi borghi si sarebbe potuto evitare? Piercarlo: Come si faceva? Si prolungava a lungo la miseria. Come si faceva a fare investimenti? Non c’erano proprio soldi. Mancavano le strade. C’è stato il piano Fanfani che ha fatto fare anche delle strade ma la gente aveva bisogno di lavorare. Mio babbo non se n’è andato, rimase qui. Dopo negli anni ‘50 è venuta l’escavazione della pietra serena che ha consentito a tutti di guadagnare qualcosa. Quindi lei ritiene che la produzione di queste cave abbia avuto un impatto positivo sul territorio? Piercarlo: Positivo perché ha permesso a tanti di lavorare e quindi ha eliminato quella disoccupazione, Firenzuola era una zona senza lavoro. Ma in parte ha causato anche una forma di inquinamento dell’atmosfera che qui con la presenza delle cave e del Consorzio ad Alta Velocità per la costruzione della ferrovia ha creato dei danni. Danni agli edifici e danni alla salute...non è tutto bello quel che riluce! Piercarlo ci parla delle contraddizioni del territorio, l’escavazione della pietra serena ha dato lavoro a tanti, come emerge in altre interviste, ma ha anche prodotto degli squilibri nel territorio. Questa zona è costellata di cave, che hanno eroso 25
nel tempo ingenti superfici di montagna che ora non possono più essere utilizzate per attività agricole e che impediscono una valorizzazione turistica del territorio. La pietra è un settore che ha consentito delle prospettive economiche e occupazionali, ma nel suo piccolo rispecchia un sistema non sostenibile a lungo termine. Le vene sfruttabili sono profonde poche centinaia di metri e una volta esaurite bisogna spostarsi e trovarne un’altra. Un operaio della cava con cui parliamo ci dice che in un raggio di 10 km ce ne saranno una cinquantina, tutte esaurite. Ora che questo settore è in crisi, cosa lascerà in eredità a questa zona? La costruzione della galleria della linea ferroviaria ad Alta Velocità, che passa proprio all’interno della montagna di Brento e San Pellegrino, negli anni scorsi ha risollevato l’economia locale, ma una volta terminati i lavori, quando gli operai se ne sono andati, la situazione è tornata come prima. Per questi monti transitavano uomini e merci, ci è passato anche Dante fuggendo da Firenze, ma oggi con la modifica delle vie di comunicazione, la costruzione di autostrade e di linee ferroviarie ad alta velocità, la valle ha perso il suo ruolo storico di zona di congiunzione tra due aree diverse. Eppure, la linea di Alta Velocità che collega Firenze a Bologna passa proprio di qui, per chi la percorre spesso è uno dei pochi punti in cui il treno emerge dalle viscere delle montagne e ci regala un brevissimo quadro di Appennino prima di rituffarsi nell’oscurità. Spostamenti veloci che non toccano i territori lenti e per cui vengono spesi capitali enormi. Forse non sono il miglior modo di sviluppare quest’Italia interna che invece ha bisogno di scuole, strade, collegamenti e nuove attività produttive. L’ultima domanda che rivolgiamo a Piercarlo è su Casette, sappiamo che lui ha svolto lì un interessante lavoro di ricerca sul dialetto, registrando preziosi audio qualche anno fa. Anche Piercarlo è una persona che ha scelto di restare in questo luogo e di investire le sue competenze e la sua passione per riscoprire 26
e valorizzare il territorio. Le sue ricerche sono fondamentali sia perché hanno registrato delle culture locali che stavano scomparendo, sia perché ogni progetto di rivalorizzazione del territorio dovrà gioco forza partire dai suoi studi. Piercarlo ci regala un libro scritto da lui che tratta proprio di Casette di Tiara, Brento Sanico e San Pellegrino, e ce ne presta altri che possono essere utili per la nostra ricerca. Tra le tante pagine sfogliate, una frase ci tornerà in mente più volte durante il viaggio: «Impedire la rimozione totale di quella “storia minima”(accadimenti, tradizioni e credenze) locale, che non si legge nei manuali in cui si narrano i grandi avvenimenti di un popolo, di una nazione». *** Onorio è un signore ottantenne che ha sempre vissuto qui e ha lavorato molti anni nell’industria dell’arenaria. È ospitale e accogliente, anche lui inizia il racconto con una storia di guerra, di partigiani e di quando i soldati americani gli hanno fatto assaggiare per la prima volta il cioccolato. Più in giù nella valle c’è anche un piccolo cimitero di guerra britannico che accoglie 287 caduti in queste zone tra il 1944 e il maggio 1945. Ci può raccontare della guerra? Onorio: In questa sporgenza di roccia qui, la notte tra il 19 e il 20 Settembre del 1944 io ero lì sotto ed arrivarono tutte queste cannonate e la mattina, siccome le famiglie si erano divise, mi ritrovai con mia madre. Strada facendo non si sentiva una fucilata, pensai: «Come mai un silenzio così visto che siamo in prima linea?». Allora ritrovammo mio padre in un grande rifugio, ad un tratto uno entrò e disse: «Ci sono gli americani!». Sopra passava una mulattiera, c’era un interprete che sapeva bene l’italiano e ci disse: «Siamo americani ma prudenza perché siamo in prima 27
linea». Mi ricordo che andai su in questa mulattiera e c’era la sfilata degli americani, uno mi guarda e mi butta un cosino così, e gli dico: «Cos’è?» e lui «È cioccolata! È roba buona da mangiare». La scartai e come era buona! Mi piace ancora la cioccolata! Conosce Brento Sanico? Onorio: Ci sono stato a ballare, si ballava nelle case. La sera ci si ritrovava, un organino e si ballava il liscio. Diverse volte ci sono andato con donne del posto. Vivevano all’incirca come coltivatori, un po’ di marroni, un po’ di grano, e poi vennero fuori le cave e allora abbandonarono Brento, si buttarono tutti nella pietra. La maggioranza venne giù a San Pellegrino, chi in Romagna chi a Prato, chi a Firenze, chi a Milano a seconda di dove hanno trovato il lavoro. Quando venne fuori in Italia la grande industria tutti si buttarono nell’industria e si incominciò a star bene, perché io c’ero a quei tempi e si incominciava a mangiare. Si arrivava a fine mese e avevi i soldini invece di fare il coltivatore... Lei che lavoro ha fatto? Onorio: Io lavoravo in quelle cave lassù, quei primi blocchi di quelle cave: ero io a mandarli via. Ma tra un po’ sarà chiusa del tutto, durerà poco poco, perché anche la pietra arenaria non è un materiale buono. Come si immagina il futuro di questa zona? Onorio: Non lo so. A me non piace stare nei paesi, ora sto bene qui lasciatemi stare qui, se a me mi portassero in un paese, come Fiorenzuola, io mi sentirei come in galera. Invece qui esco, ho il mio verde, mi metto sotto un albero... Onorio racconta il suo personale ricordo di Brento Sanico e stranamente non è un pensiero triste ma gioioso, è il ricordo delle notti passate a ballare e a divertirsi in quel paese. La nar28
razione di Onorio ripercorre i cambiamenti della montagna e della sua vita: la ricerca del benessere nel lavoro salariato, l’apertura delle cave di pietra e la voglia di restare qui anche in vecchiaia. Prima di andare via Onorio ci mostra alcuni album fotografici in cui ha raccolto molte foto delle frazioni della valle nel corso degli ultimi quarant’anni. Si vedono case ancora abitate, montagne più coltivate e cave molto più piccole rispetto a quanto non lo siano adesso. Immagini che hanno immortalato il mutamento di questi luoghi.
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DIARIO 3 Castel D’Alfero è in provincia di Forli-Cesena ma dista 70 km circa dal suo capoluogo, a due passi dal confine toscano, a tre da quello marchigiano. Oggi il borgo è abitato da solo due persone, mamma e figlio. La loro casa, che domina l’abitato dall’alto, è l’unica restaurata di recente ed ancora in buone condizioni. Il resto del borgo, una quindicina di case in stile medievale, sono perlopiù pericolanti anche se ancora recuperabili. Proviamo a parlare con la donna ma senza successo. Ci dirigiamo verso le colline circostanti, sperando di incontrare qualcuno finché il rumore di uno scalpello non ci attira verso un capannone. Facciamo così la conoscenza di Emanuele, uno degli ultimi scalpellini dell’Appennino, specializzato nella lavorazione della pietra serena. Lui e sua madre sono gli ultimi abitanti del vecchio borgo. *** Castel d’Alfero ha origine medievale e per le sue architetture di pregio è sottoposto al vincolo dei Beni Culturali che devono approvare ogni intervento edilizio nel paese, il quale conserva elementi costruttivi e decorativi databili tra ‘400 e ‘500 di particolare interesse. Sono infatti attribuiti ai maestri comacini, un gruppo di costruttori, decoratori e artisti riuniti in una corporazione di imprese edili itinerante attiva già dal VIII secolo. Tra loro ci furono i primi anonimi maestri del romanico lombardo, che hanno disseminato le loro opere in tutta l’Italia centro-settentrionale, raggiungendo perfino Germania 30
e Danimarca. L’antico castello del paese rimane a ricordare la maestria di questi costruttori. Il poggio dove sorgeva la rocca è stato rimosso per far posto alla nuova strada e l’arco dell’unico ingresso al maniero è stato abbattuto nel 1968, in un’Italia ubriaca di boom economico. Il vicino paese nuovo di Alfero e la zona circostante non sono economicamente depresse e hanno investito molto sul turismo e sulle strutture ricettive per accogliere i molti visitatori che vengono qui per i laghi, le cascate e il verde circostante. Sorprende però vedere che Castel d’Alfero non è stato inserito nella rete di valorizzazione del territorio e anche se molte persone si fermano incuriosite a guardare il “paese fantasma”, non ci sono progetti per il futuro di questa frazione. Emanuele è felice di farsi intervistare probabilmente anche per promuovere la sua attività, e ci ripete più volte che vorrebbe avere i video dell’intervista integrale per poterli pubblicare sul suo sito web. Lo intervistiamo nel cortile della sua piccola azienda, circondato dalle sue pietre e i suoi attrezzi. Ci puoi parlare del tuo lavoro? Emanuele: Io ho imparato da mio babbo, ho cominciato da piccolino, prima saltuariamente poi quando è venuto a mancare mio babbo ho preso io il suo posto. Sono 10 anni che lavoro da solo. Però questo è un lavoro che ti dà soddisfazioni personali e non economiche. Sono stato sempre appassionato, perché questo qui è un lavoro che se non sei appassionato non lo fai, perché è un lavoro talmente faticoso che non trovi proprio nessuno. Sulla pietra serena sono rimasto l’unico io, hai capito? Non c’è nessuna macchina al mondo che sostituisce la manualità perché bisogna contemplare l’udito della botta e vedere la vena come scorre nel sasso. Diciamo che ogni masso di questi qui ha una storia, cioè uno spacca in una maniera e l’altro può spaccare in una maniera opposta. Poi l’esperienza: dove prender la vena, la vena centrale, la devi vedere 31
come scorre, in base a come scorre gli devi dare la botta più o meno forte altrimenti si rompe. Questo qui è un materiale che esce solo a spacco, non si usa nient’altro tranne che martello e scalpello. Produco lastre da tetto proprio come una volta, così a mano, la maggior parte dei miei lavori è per pavimentazioni e lastre da tetto, come hai visto lì a Castel D’Alfero. Quando si è iniziato a spopolare Castel d’Alfero? Emanuele: Si è spopolato negli anni ‘75-’80, io sono nato nel ‘71. Quando ero bambino, più o meno eravamo una quarantina di persone e adesso comunque si sono spostati non molto lontano ad Alfero perché magari è un attimino più comodo. Più che altro per comodità, perché lì c’è la scuola, per uno che ha i bambini piccoli. Poi siamo a due chilometri...e poi molte persone son morte ed è andato a morire il paese. Secondo la tua esperienza lo spopolamento del paese si sarebbe potuto evitare? Emanuele: Ci voleva un intervento diciamo a livello strutturale non solo da parte dei proprietari, perché un proprietario non riesce a sostenere tutte quelle spese per fare un intervento così grande. Magari se degli enti grossi, tipo non so le Belle Arti, avessero cominciato, allora uno poteva essere motivato a rimettere a posto perché il paese veniva una chicca. Invece così ci sono dei vincoli, non si trovano i finanziamenti per sostenere le spese economiche e quindi si fa fatica. Ci vuole un vincolo ok, però anche un aiuto, cioè essere stimolati. Se non è stimolato dagli enti potenti il privato non può sostenere delle spese così. Hai mai pensato di andartene? Emanuele: No assolutamente, anzi ti dirò adesso come adesso farei fatica a spostarmi da Castel D’Alfero perché son nato lì, perché io vado su e giù tutti i giorni e vedo l’occhio della persona da fuori che viene colpita dalla bellezza del paese. A me non colpisce perché io son nato lì. 32
Come ti immagini il tuo paese tra 20 anni? Emanuele: Spero che comunque parta qualcosa di veramente bello per restaurarlo. Più che altro spero, immagino…non lo so come me lo immagino, forse ancora più, spero di no, cadente di adesso. Speriamo di no anche perché io son nato lì quindi mi dispiacerebbe proprio. La pietra serena e la sua lavorazione è un elemento molto presente nell’Appennino Tosco-Romagnolo ed Emanuele rappresenta la lavorazione tradizionale e artigianale di questo materiale. Parla della pietra serena come se fosse una persona, ripete più volte che è un materiale che si lascia intagliare solo da chi lo conosce bene, che bisogna sapere la storia di queste pietre per riuscire a spaccarle. Ci ripete che il suo mestiere, tramandatogli dal padre, non può essere fatto da una macchina perché ci vuole esperienza, non ci sono mai due pietre identiche. Pietre diverse, come i territori che cambiano ad ogni passo, non generalizzabili, che meritano interventi attenti alle specificità delle loro singole storie. Castel d’Alfero è stata fatta morire, con il suo carico di storia centenaria e con le sue architetture medievali ed ora non ci sono molte speranze per il futuro. Gli altri abitanti si sono spostati nel vicino paese di Alfero, per raggiungere le comodità e i servizi, e non sono intervenuti gli enti pubblici per manutenere il borgo abbandonato. L’ultimo scalpellino risponde con voce ferma e sicura che non ha mai pensato di andare via, forse non si è mai neanche posto il problema. Sente di appartenere a questo luogo e non vive il suo restare con malinconia, crede di avere ancora un ruolo qui. A lui, ultimo abitante, sono rimasti i segreti di queste case e di queste rocce. Prima di andare via ci tiene a farci assistere a una dimostrazione. Martello e scalpello alla mano inizia a incidere sul lato dello spessore una lastra di pietra da almeno cinquanta chili, con colpi netti e precisi, spiegandoci 33
che è il suono del colpo a fargli capire quanto scalpellare sullo stesso punto. Neanche un minuto dopo, con poche precise mosse, Emanuele divide la lastra in due metà perfette, aprendola come un libro davanti a noi. «Questo una macchina non te lo fa», dice guardando soddisfatto il risultato.
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DIARIO 1 Uno strano posto, luogo di tre confini, tra Marche, Toscana e Umbria. Siamo nei boschi della valle del Metauro, un nome quasi mitologico, in provincia di Pesaro-Urbino, vicino Borgo Pace. Oggi incontreremo due ragazzi, una coppia, che hanno abbandonato la città. Prima di arrivare nella loro casa, ci fermiamo lungo la strada vicino il fiume, che in più parti realizza piccoli salti dando vita a pozze e cascate davvero affascinanti *** Filippo e Gilda ci raccontano la loro scelta e le forti motivazioni che li hanno portati a seguire un percorso diverso e alternativo rispetto all’idea di una vita in città. Le loro parole e le loro azioni aprono a nuove prospettive. Altri ritmi e differenti priorità scandiscono la quotidianità di questi giovani ragazzi: Filippo ha 29 anni mentre Gilda ne ha 30. Il loro radicamento, è parte di quel lento e faticoso processo di ripopolamento delle aree interne, è la traccia di un nuovo impulso vitale che vede l’ambiente al centro di una nuova relazione con l’individuo. Cos’è che ti piace della tua casa? Filippo: Mi piacciono i miei animali. Mi piace la Gilda. Poi la casa è bella perché è antica, è fatta coi sassi, da persone... da persone prima di tutto. Cioè non l’hanno fatta coi macchinari, l’han fatta con le mani, coi sassi e i materiali reperiti in zona. 35
Tutta roba naturale. Non c’è cemento in questa casa. Questa casa è fatta con terra e calce. Mi piace molto anche il tetto, con queste lastre bellissime. Gilda: Poi cambia colore. Filippo: Mi hanno affascinato sin da subito. E i pavimenti! I pavimenti in pietra, queste lastrone così, quella è arte. Cioè quelle pietre sono arte non c’è un cazzo da fare. Ed è rimasta ancora come una volta alla fine, come l’avevan costruita. È vecchia ma è ancora in piedi! Gilda: Quando l’abbiamo trovata è stato un caso assurdo perché noi ne avevamo vista un’altra che ci piaceva ma era fuori portata, però doveva essere qui. Quindi a un certo punto lui ha detto: «Adesso basta andiamo lì stiamo 3 giorni, chiediamo a tutte le persone che incontriamo» Poi siamo arrivati, abbiamo parcheggiato la macchina e alle prime persone che abbiamo incontrato abbiam chiesto se per caso ci fosse qualche casa in vendita? Fortunatamente mi rispondono: «Guarda abbiamo appena cercato casa anche noi». Allora in due secondi abbiamo spiegato un po’ quali erano le nostre esigenze: cioè che fosse isolata, che avesse la sorgente, che costasse poco, con un pochino di terra. E ci hanno detto: «Secondo noi c’è qualcosa che fa per voi». Eravamo proprio su questa strada, ci hanno accompagnato, ci hanno fatto passare il fiume e ce l’hanno fatta vedere da fuori. Noi abbiamo detto questa casa è bellissima. Era da un anno che cercavamo, avevamo visto un sacco di case. Però secondo me questa ha energia, è stata vissuta da persone che l’hanno amata e si sentiva. Dava una bella sensazione già da fuori. La comunità attorno vi ha aiutato in qualche modo? Gilda: Diciamo che all’inizio erano diffidenti sul fatto che noi saremmo potuti resistere qua, perché da un certo punto di vista ci avevano inquadrato come provenienti da Rimini perché noi in quel momento stavamo di base a Rimini. E quindi praticamente si aspettavano che non saremmo resistiti neanche un inverno qua. 36
Come è stato l’inverno? Gilda: Alla fine è stato facile perché abbiamo avuto fortuna: è stato un inverno caldo. Comunque ti chiudi in casa con la legna e scaldi tutto, anzi è un momento di riposo: non fai niente, hai qualche tubo gelato ma nulla più. Quali sono stati i primi riferimenti che avete avuto nella comunità? Gilda: Beh il bar è il nucleo, dopo Gilberto il gestore ci ha proprio adottati: ci ha costruito subito il ponte che ci permetteva di venire qua anche in inverno, perché il ragazzo che aveva prima di noi questa casa ci veniva solo col bel tempo, col fiume basso. Quello lo passi anche a piedi con gli stivali…in estate. Però se vuoi vivere qua ti serve una passerella. E appunto Gilberto ha iniziato ad aiutarci, anche a fare un po’ di lavori per portare l’acqua in casa. Dopo da li si stringono anche i rapporti. Ci ha aiutato per tutto. Dopo lo abbiamo aiutato noi a raccogliere la patate. Le persone della comunità ti possono insegnare delle cose che non sono scritte in nessun libro e che dovrebbero invece insegnare a scuola, per esempio anche con gli animali noi non avevamo assolutamente nessuna esperienza e i consigli di tutti quanti al bar messi insieme e uniti ad altre fonti ti fanno da supporto in qualche modo. Dopo attraverso l’esperienza capisci e migliori, ma devi sbagliare. Prima ci dicevi che c’è stata una ricerca per questo posto, avete fatto un percorso prima di arrivare qui? Gilda: Beh sicuramente non posso identificare un momento preciso, il punto di partenza di questo desiderio di venire a stare qua e vivere nella natura. Da una parte è una cosa che mi sono sempre immaginata fin da bambina. Vivere a contatto con animali e piante, però magari potevo pensare più a un giardino, non avevo un’idea precisa. 37
Attraverso varie esperienze ci sono stati dei momenti in cui piano piano abbiamo maturato insieme la scelta e secondo me è una fortuna ed è una forza perché questa esigenza così forte combinata con un’altra stessa esigenza così forte probabilmente ci ha fatto prendere questa scelta e ce l’ha fatta vivere in una maniera che per me è stata facile, naturale, totalmente naturale come se fosse... cioè siamo arrivati qua e abbiamo iniziato a vivere in una maniera completamente diversa. A me sembra che sia questa la maniera naturale di vivere, anzi se guardo indietro non riesco a immaginarmi come ho fatto a vivere come prima. Filippo: La cosa bella è che in maniera naturale abbiamo seguito noi stessi nel profondo. Gilda: Se questa esigenza fosse nata solo da te o solo da me e uno dei due avesse seguito l’altro sarebbe stata zoppa sin dal principio e probabilmente sarebbe andata a finire male. Ti va di descriverci come sono stati questi due anni passati qui? Filippo: Eh dico semplicemente una banalità, belli…Ci hanno detto tutti faticoso, vedrete la fatica che farete, ma dipende cosa è la fatica, la fatica è relativa. Cioè io non ho sentito tutta questa fatica. Non è mai esistita la fatica in quello che ho fatto io qua! Cerco di crearmi una cosa che non mi faccia star male. Non ho sentito limiti perché me li son creato io da solo, li volevo quei limiti. Magari uno dall’esterno vede gli animali e dice “gli animali ti incatenano”! Cazzo gli animali sono le mie ali per volare, non mi incatenano gli animali. Mi piacciono, mi fan star bene..cioè è tutta relativa la visione delle cose. State meglio rispetto a prima? Gilda: Si molto meglio. Filippo: Ho un rapporto con me stesso più profondo, prima avevo la sensazione di vivere un po’ più in superficie […] Però 38
adesso mi rapporto con me stesso a 360 gradi, cioè ho più tempo e meno distrazioni esterne. Questo è cambiato sicuramente, è cambiato proprio il rapporto con me stesso. Tu Gilda? Gilda: Alla fine ci capita più o meno quotidianamente di trovarci in delle situazioni o in dei momenti in cui pensi semplicemente quanto è bello, quanto sto bene! Poi oltre alla fortuna di vivere questi momenti hai il tempo di assaporarli, secondo me è un lusso totale! Qui hai una gestione totalmente autonoma del tuo tempo nei limiti della natura, del sole e delle stagioni, però sei padrone del tuo tempo al cento per cento, nei limiti anche degli animali, ma ti puoi prendere proprio un momento quando vuoi, quando stai bene e godertelo senza nessuna scadenza. È una cosa che io magari soffrivo quando lavorato in città. Prima magari facevo anche un lavoro che mi piaceva, perché comunque a me piace disegnare e quando disegnavo avevo anche soddisfazioni da quello che facevo, però già solo il fatto di dover andare in ufficio e seguire gli orari dell’ufficio mi pesava. Adesso per me è un lusso non doverlo fare, un lusso totale! E non avrei potuto vivere diversamente, di questo sono sicura. Per cui anche prima tutte le mie esperienze mi avevano indirizzato verso delle cose che non fossero di totale “regolarità”. Poi paradossalmente qui c’è una totale regolarità perché tutti i giorni fai le stesse cose, però tutti i giorni sono diversi, ogni giorno cambia: la natura cambia continuamente, i colori cambiano, la luce. Hai modo di osservarlo da vicino ed è sempre diverso. In città è sempre uguale, la facciata della casa davanti è sempre uguale, invece qua l’albero davanti casa è ogni giorno diverso e poi comunque tutto torna con questo ciclo delle stagioni. E a me questa cosa mi dà serenità, quando torna la primavera è rassicurante, quando ricomincia tutto perché tanto lo sai che ricomincia. E quando ricomincia è bellissimo e penso che sarà così per sempre per me. Non finisce mai di stupirmi questa regolare mutevolezza della natura. 39
È interessante come ci parlavate molto del rapporto che avete con gli animali. E mi aveva colpito molto quello che dicevi delle pecore. Filippo: Sì per me è un rito quando le riportiamo a casa dal pascolo. Si entra in contatto con l’animale. La mattina li portiamo al pascolo e la sera li andiamo a riprendere, per me è quasi un rito. Perché non lo so bene però ti posso dire che quando le porto devo riuscire a entrare in contatto con loro quindi cerco di mettermi nella loro lunghezza d’onda per cercare di comunicare con loro: empatia credo si chiami...ed è bellissimo. Hai imparato da qualcuno? Filippo: Non ho imparato da nessuno, non abbiamo avuto maestri abbiam preso le pecore, il vicino ha le pecore, ho chiesto dei consigli però non è che è un maestro... Ovvio ci vuole del tempo, è difficile comunicare con l’animale però piano piano ti metti nell’ottica di capirlo di cercare di comunicare, non so come spiegarla questa cosa. La sento, la pratico, poi a volte magari sbagli cioè pensi che l’animale abbia bisogno di qualcosa e invece ha bisogno di un’altra cosa. Non so se è vero o no, questo rapporto che io penso di creare con questi animali. Credo di sì, lo sento, quindi io credo sia vero. Gilda: Sicuramente devi imparare a osservare e dopo ti insegnano loro. Filippo: Aaah sono strane di carattere eh!? Hanno un carattere particolare. Gilda: Diciamo che sono un po’ paurose! Filippo: Si esatto le emozioni le sentono fortissimo e quindi tocca andare non così forte, non bisogna essere troppo agitati perché ogni tuo piccolo movimento lo percepiscono. Quindi come viaggiare su onde più lente e anche questo mi piace, è un bellissimo modo di vivere. Anche in contrapposizione con la frenesia che c’è, che impone questo sistema capitalista. È un modo bello di vivere alla fine. Vivere sereni, senza esagerare nell’ascetismo eh! 40
Gilda: No eh. Filippo: Penso sia un po’ esagerato. Quanto c’è di estremo nella vostra scelta di vivere qui? Filippo: Da parte mia provo tanto rifiuto per la società in cui viviamo... e allo stesso tempo apprezzamento per la natura in generale. Però c’è del rifiuto sicuramente. La nostra scelta è basata sull’autosufficienza, è basata sul fatto di boicottare questo sistema capitalista, boicottare le multinazionali. Dire io non ci sto, non voglio far parte di questa cosa qua. Io mi tiro fuori, mi tiro fuori e voglio essere coerente con me stesso non voglio essere parte di questo meccanismo che state creando, che avete già creato, che fa male e sta distruggendo e rovinando la vita delle persone. Parte da questo, parte prima da un disagio provato nella società in cui vivi, poi capisci quali sono i motivi per cui c’è questo disagio e allora inizi a studiare, a guardare quali sono i motivi e quando capisci i motivi non puoi più accettarla e mi son sentito che dovevo boicottarla, boicottare tutto questo e provare a creare un’alternativa e dire agli altri che quest’alternativa è possibile, che c’è un’alternativa, essere propositivo. Prima guardavo il giornale leggevo le notizie e mi deprimevo, il più delle volte. Stavo lì a star male allora ho detto devo fare qualcosa, non devo stare qua e ho iniziato questa tipo di vita che mi soddisfa perché sono coerente con me stesso. La critica di questi giovani ragazzi alla società trova spazio e finalmente pace in una piccola comunità montana, situata dove l’Appennino marchigiano confonde i confini con l’Umbria e la Toscana. Filippo e Gilda, protagonisti a volte inconsapevoli di questa storia, ci parlano dell’importanza che ha per loro il fiume che scorre sotto casa e della ricchezza del bosco, degli animali e dei suoni della foresta. Il concetto di lusso è totalmente ribaltato dalle parole di 41
Gilda quando sottolinea con serenità che questo le è dato da una totale autonomia dei suoi ritmi, istintivamente inseguiti e ricercati nelle faccende quotidiane di una vita di montagna. La società moderna, non più accettata, lascia il gusto del rifiuto e la voglia di riconquistare gli spazi persi, sia quelli psicologico-personali di cui parla Filippo sia quelli ambientali-naturali. Gilda e Filippo sono convinti dell’idea che la montagna possa essere un valido modello economico, antropologico e culturale in grado di restituire una nuova vita a chi ne sappia riconoscerne e sfruttarne le ricchezze. Sono i nuovi abitanti della montagna. Una montagna che è punto di arrivo e non di nascita. Un desiderio da realizzare. Il rapporto uomo-territorio è ripensato con altro metro, sperimentato, come ci dice Filippo, di volta in volta e nello stesso tempo tramandato. Parte del disaccordo e del dissenso che le nuove generazioni esprimono verso una società definita “malata”, trova rifugio nel vuoto delle montagne, nelle valli, sulle serre, vicino i fiumi dentro i boschi. L’incontro con questi due giovani nell’Appennino marchigiano ci ha fatto pensare a ciò che ci ha detto durante il viaggio Vincenza Pellegrino, ricercatrice dell’Università di Parma dove insegna Sociologia della Glocalizzazione e Politiche Sociali. Vincenza Pellegrino: Che idea di futuro si consuma e si produce in questi posti? Il meridione negli ultimi 100 anni è stato invaso come tutto l’Occidente da una narrazione molto potente sul progresso. Si immaginava che nel tempo lentamente tutto si sarebbe nordizzato. Allora potevi sentirti indietro, potevi partire per accelerare il tuo tempo personale verso questo punto di arrivo. Ma che il punto di arrivo fosse la città, l’ igiene, le mattonelle, il profumo di detersivo ovunque e il lavoro fisso. Che fosse la classe operaia o che fosse l’imprenditoria intellettuale o i figli di avvocati, era molto chiaro a Sud come a Nord che la narrazione dominante sul futuro era quella del progresso, e a seconda di 42
come ci si sentiva rispetto a quella narrazione ci si posizionava in un percorso storico. Adesso, invece, la narrazione sul progresso vacilla ovunque nel mondo, proprio a Nord, per questo si aprono degli spunti di dubbio e di riflessione. Non tanto perché il Sud ha saputo contrapporre altro, questo non è vero, si tratta di elitè che hanno a un certo punto enfatizzato il ritorno alla cultura contadina come possibilità di benessere o di rallentamento. Per tanto tempo i concetti di decrescita sono stati partoriti in contesti elitari e hanno veramente riguardato pochi. Non è tanto la forza di modelli alternativi quanto la crisi del modello dominante. Per esempio i tanti studenti molto validi che non trovando posto a Nord vengono a Sud perché si vive meglio, con meno soldi e si reinventato forme d’agriturismo, forme di lavoro. Quindi è la crisi del progresso, sia nella sua accezione di crisi del capitalismo cioè meno lavoro, sia nelle forme di accezione dei figli dei primi migranti che in fondo dal consumo di oggetti non vengono gratificati, sono post-consumatori. In loro c’è questa attenzione a trovare narrazioni alternative.
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RAGNATELA La pietra serena
«Sono qui con i ragazzi, andiam su verso lo scavo», scandisce Andrea alla radio della sua macchina per comunicare ai colleghi che ci stavamo avvicinando alla zona d’estrazione. Il pick-up avanza sobbalzando tra cumuli di brecciolino bianco, blocchi di pietra di tonnellate ancora da tagliare ed una quantità di mezzi pesanti tra gru, caterpillar, escavatori, scalpelli meccanici, tutto avvolto da un’aria polverosa, satura di pulviscolo bianco, inevitabile scarto del processo d’estrazione. Arriviamo sul posto, un enorme strato di arenaria affacciato a picco sulla valle completamente portato a nudo dai lavori di scavo, un’unica enorme mattonella di pavimento che sporge dal fianco della montagna, pronta a essere tagliata in blocchi e ridotta a misura d’uomo. Siamo in uno dei principali luoghi di produzione della pietra serena, un materiale a cui il territorio dell’appennino tosco romagnolo è estremamente legato. È una formazione marnosaarenacea depositatasi durante il miocene, tra i 25 e i 5 milioni di anni fa, epoca in cui diverse ondate di fauna dall’Asia e 44
nord Africa popolò l’Europa di proboscidati, rinocerontidi, giganteschi ruminanti e diverse decine di scimmie antropomorfe, mentre ciò che sarebbe stata la pietra serena si depositava lentamente in ambiente marino. L’Appennino lentamente affiorava dal mare sotto le spinte tettoniche, e la sua contemporanea erosione ha prodotto sedimenti che si sono accumulati nell’avanfossa appenninica, un bacino prospiciente la catena in formazione, in un Mediterraneo che si ritrovò più volte isolato dall’Atlantico quando i livelli dei mari erano più bassi, riducendosi per evaporazione e favorendo il processo di deposizione. Si accumulano cosi, strato dopo strato, molte delle formazioni sedimentarie dell’Appennino, compresa ciò che sarà poi chiamata pietra serena, un’arenaria grigio scura, usata dai locali da tempi antichissimi. Gli etruschi la usarono già nel IV secolo a.C. per le mura difensive di Fiesole, uno dei loro centri più fiorenti, alleato dei Romani già dal III secolo, che la utilizzarono invece per il tempio di Marte a Firenze. Nonostante si sfaldi facilmente se esposta agli agenti atmosferici è perfetta per gli interni, e se la grana è fine la si può scolpire con tanti piccoli dettagli, qualità che venne ampiamente sfruttata durante il rinascimento. Con Brunelleschi, che ne fece uno dei suoi materiali più classici, la pietra serena visse la sua epoca d’oro. Il suo colore scuro risaltava perfettamente sugli intonaci bianchi, dando il via all’uso della dicromia grigio-bianco che divenne tipica dell’architettura rinascimentale. Si diffuse cosi, tra la Toscana e l’Emilia Romagna, dai pavimenti e porticati di centinaia di chiesette e casolari sparsi alle grandi opere rinascimentali, finché l’attività di estrazione conobbe un nuovo impulso nel secondo dopoguerra. A partire dagli anni ’50, le cave si moltiplicarono, i sistemi di estrazione vennero modernizzati, e l’attività diede lavoro a una buona parte delle persone del luogo. Tra i primi operai 45
c’era Onorio, che abbiamo intervistato, che a 13 anni lavorava nei primi scavi, all’inizio di una nuova era della pietra serena, quella moderna. Durante il boom economico la domanda era alta e le cave lavoravano a pieno regime, ma le vene sfruttabili, spesso profonde poche decine di metri, si esaurivano in fretta, costringendo le compagnie estrattive a cercarne una nuova. Quando siamo stati con Andrea sul sito di scavo, ci ha mostrato il luogo della prima escavazione, una cava esaurita sul versante opposto della valle. «Quello lì è il punto zero» ci dice, il primo pezzo di montagna andato via con i metodi estrattivi moderni. Per farci un’idea gli chiediamo quante vene esaurite ci sono approssimativamente nel raggio di 10 chilometri. «Mah, direi una cinquantina», ci risponde lui con la faccia di chi in qualche modo si rende conto che non può andare avanti in eterno. Oggi il mercato è in crisi, tanto quello degli artigiani e scalpellini quanto quello a scopo edilizio, la globalizzazione ha investito anche loro con materiali d’importazione più economici. Una crisi che va di pari passo con quella demografica di queste aree marginali. Diversi musei d’Europa e non solo, hanno scelto la pietra serena per ristrutturazioni e ampliamenti, come il Museo d’Arte contemporanea di New York, o il Museo d’Arte minori e applicate di Londra (Victoria and Albert Museum), dove la pietra serena contribuisce all’allestimento di uno spazio espositivo che ospita 4 milioni e mezzo di oggetti d’arte, dalla gioielleria contemporanea ai violini originali di Stradivari. Nei primi anni 2000, Steve Jobs notò la pietra serena durante un viaggio in Italia e la volle come pavimentazione degli Apple Store, dando un po’ di ossigeno al settore anche se per poco. Le attività sono crollate, Andrea non è affatto positivo sul futuro dell’azienda. «Per ora resistiamo. Lavoriamo un po’ con il brecciolino, con i blocchi per scogliere e argini. Siamo in trattativa con gli Arabi però, per l’EXPO 2020, a Dubai». La pietra serena potrebbe così avviarsi, anche se zoppicante, verso la sua era post-moderna, 46
partecipando alle mastodontiche costruzioni avviate per l’evento, una cementificazione di proporzioni demenziali che comprende, tra le altre cose, il futuro grattacielo più alto del mondo e un aeroporto da 160 milioni di viaggiatori l’anno, con annesso un quartiere grande quanto Torino (case già in vendita, ad un prezzo di partenza di 76mila dollari). Ed è solo una parte del lungo catalogo di infrastrutture faraoniche e futuristiche che gli Emirati intendono portare a termine per un EXPO il cui tema è idee green e sostenibilità. Meno nobile di un’opera di Brunelleschi probabilmente. Resta difficile allora immaginare il futuro di questa pietra, di queste cave sparse nell’Appennino, sulle quali si intrecciano attraverso il tempo arte, lavoro, benessere e speculazione. Di certo rimarranno elementi connaturati, imprescindibili se si vuole raccontare la vita e la storia di questo territorio. Sassi e pietre che, al contrario di quello che si può pensare, non hanno mai smesso di muoversi e di parlare.
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CAPITOLO SECONDO ABRUZZO Il Borneo teramano
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DIARIO 3 Discendendo dalla cresta montana, ci ritroviamo a Valle Castellana, il comune più importante della valle, l’unico in cui sono presenti alcuni servizi: posta, alimentari, tabaccaio e due bar. Una sosta obbligata per fare la spesa, ricaricare macchina fotografica e cellulari e goderci ciò che in montagna più ci manca: caffè e birra. Valle Castellana è l’abitato più grande e il punto di riferimento delle frazioni sparse nella zona, nonostante appaia come un pugno di case su una lieve altura, quasi inghiottite dai fittissimi boschi che la circondano: castagni, querce, faggi, ontani e un ricco sottobosco favoriti dall’abbondanza d’acqua caratteristica delle valli fresche e ombrose di questa zona della Laga. *** Ultimo paese del regno Borbonico prima dell’inizio dello stato Pontificio, Valle Castellana era terra di confine abitata da pochi pastori e boscaioli, uno dei teatri del brigantaggio post-unitario. In quei turbolenti anni che precedettero e seguirono il 1861, bande armate di rivoltosi si davano alla macchia tra questi boschi e attraverso le montagne passavano il confine con lo Stato della Chiesa dove le truppe del nascente Regno d’Italia non potevano raggiungerli. Nonostante la marginalità e l’asprezza del territorio, Valle Castellana contava 3531 anime l’anno in cui l’Unità fu proclamata. E il paese crebbe, lento ma costante per quasi tutto il secolo successivo, attraversando due guerre e l’occupazione nazifascista. Fino agli anni ‘50, durante 50
i quali si superarono i 5000 residenti. Poi una rovinosa frana demografica. Nel 2016, anno del nostro viaggio, ne rimangono solo 969. 0ggi è un luogo che a dispetto della sua bellezza non ha alcun tipo di struttura ricettiva ed è rimasto decisamente fuori dai circuiti turistici, conservando un’atmosfera veracemente rurale, senza b&b o negozietti di prodotti tipici, se non l’unico emporio da cui si serve l’intero paese. Da qui, il primo bancomat, benzinaio o supermercato disponibile è a Teramo, 40 km a sud-est o ad Ascoli Piceno, 25 Km a nord. Nei giorni precedenti passati nei piccoli borghi della zona, diverse persone incontrate ci hanno consigliato di passare dal ristorante “Lo Scuppoz”. «Cucina locale fatta bene» ci dicono, «Il titolare è un vero personaggio». Scendiamo da Laturo e continuiamo sulla Strada Provinciale 49, parallela al torrente Castellano che segna con il suo corso il confine Marche-Abruzzo. Manca ancora qualche ora al crepuscolo, ma i monti proiettano già le loro ombre su tutto il paesaggio: il sole è ormai calato, a ovest, dietro i crinali di Monte Calvo. In una valle che si sviluppa in direzione nord-sud come questa, le creste segnano un secondo orizzonte per il sole e sembra di avere un tramonto anticipato dai rilievi, preludio al tramonto del mondo. Dopo un ponte e due strette curve a gomito, delle casette a schiera di un color rosa pacchiano segnano l’inizio del paese, insieme alla caserma dei carabinieri palesemente troppo grande per un abitato che non arriva a mille persone, con un pigro gendarme appollaiato nel gabbiotto all’ingresso. Poco più avanti, il primo bar e un bivio stradale con indicazioni. “Teramo 40 km” tenendo la sinistra, a destra una manciata di minuscole frazioni: “Pietralta 9 Km”, “S. Martino 10 km”, “Morrice 8 Km” e “Locanda Scuppoz 150 m”. L’ingresso del locale affaccia su una piazzola-parcheggio circondata da aiuole, con una bella tettoia in legno. Sul fondo della piazzola, ai piedi di una collinetta, un piccolo monu51
mento con una stella rossa e la targa “In memoria di Pacifico Cicconi”. Nevio, il gestore, nonostante sembri indaffarato, si presenta e ci dà subito prova della sua affabilità offrendoci la possibilità di montare la tenda di fronte il ristorante. Mentre mangiamo ci colpisce l’atmosfera conviviale che si respira in questo posto, Nevio si dimostra in effetti una persona simpatica e istrionica che intrattiene i clienti tra conversazioni politico-filosofiche, battute, racconti della sua vita e storie locali. Colpiti dalla sua verve decidiamo di intervistarlo, anche perché con la sua storia di emigrazione e di ritorno per gestire una delle poche attività della zona, ci sembra un personaggio che può dirci molto su questo territorio. Dopo una cena a base di funghi e castrato alla brace ci sistemiamo fuori per l’intervista. Nevio esce con tre birre per mano ed è l’inizio di una lunga notte di alcol e storie. Come ci aspettavamo, si rivela un fiume in piena. La presenza di persone interessate ai suoi trascorsi sembra stimolarlo molto, come se fosse per lui occasione di esprimere concetti e pensieri maturati in anni di riflessioni e che raramente si trova a condividere. Iniziamo chiedendogli qualcosa sulla sua attività. Nevio: Questa è una attività che fu creata dai miei genitori, io ho preso le loro redini. Fu fatta nel 1985, il vero intento dei miei genitori non era tanto il lucro ma valorizzare il posto. L’eredità che tante volte in questi tempi difficili mi trovo a raccogliere dai miei genitori è quella di valorizzare il posto, ma tante volte, da parte degli organi superiori, questo discorso non viene recepito. Perché effettivamente viviamo in una società profondamente individualista e questo pensiero è ricascato anche sulla gente che vive qui. Ormai il senso di società, il senso di comunità che deve crescere, il senso di territorio - se mi consentite - è andato letteralmente a farsi fottere [...] Questa zona è stata sempre il confine culturale. Il famoso confine culturale tra l’allora Regno di Napoli e l’allora Stato della 52
Chiesa, con l’Unità furono unificati questi due stati, stati divisi da millenni. Difatti tante volte anche noi quando ci rechiamo nelle Marche ci chiamano i “regnicoli”, quelli del Regno. L’Abruzzo è sempre stato considerato cultura meridionale. Però ancora oggi il fatto di essere questo confine tra Italia meridionale e Italia centrale per noi pesa. Pesa anche nei costumi. Il capoluogo non è accessibile dobbiamo andare nelle Marche. Questo fatto ancora oggi alla popolazione di Valle Castellana pesa. Tu sei nato qui? Nevio: Si io sono nato qui, vissuto qui, ho vissuto un paio di anni a Caracas, poi dopo sono tornato dal Venezuela e ho conosciuto mia moglie che è rumena e ancora sono felice della scelta che ho fatto, essere ritornato [...] Io da piccolo mi sono fatto affascinare dal socialismo reale, dal socialismo vissuto, che qua in Italia neanche a parlarne. Da piccolo mio fratello mi faceva ascoltare Radio Tirana in italiano. Io sono cresciuto, 12-13 anni avevo, con i discorsi di Radio Tirana. Erano dei discorsi profondissimi... Parlaci un po’ di Caracas. Cosa ti ha portato in Venezuela? Nevio: Studiavo filosofia. Caracas...[sospira]Caracas è bellissima. Qualche volta ho nostalgia di Caracas. Mi dispiace ma non ero fatto per stare lì. È stato come un amore adolescenziale di cui rimane il ricordo però alla fine non te ne frega più di tanto. Ci sono state delle motivazioni in particolare per la tua migrazione? Te ne sei andato perché tutti se ne andavano? Nevio: Mai pensato questo. Però pensi tante volte da ragazzo che la tua vita forse non è qui, che il tuo destino è altrove. Invece sono ritornato sempre qui. Significa che qualcuno mi ci vuole no? Parlando di questa valle, Nevio la definisce come un confine culturale, passato e presente, qui inizia il meridione con tutto il suo carico di problemi. Guarda queste montagne con atten53
zione e non le vive come una prigione, per quanto cosciente che abbiano limitato le sue possibilità. Come tante altre persone incontrate lungo il viaggio anche lui è partito in cerca di un’altra vita, covando la sensazione che il suo destino potesse essere altrove. Forse è questa la sua ricchezza più grande, essere innamorato di un luogo in maniera orgogliosa, non nostalgica. Una persona che guarda il mondo dal suo guscio di noce e immagina l’Albania, il Venezuela dove ha studiato e che dopo tutto torna sempre qui, per amore o per maledizione. Prova nostalgia di Caracas, quando ne parla per un attimo si ferma come per ricordare, poi continua a ripetere che non era il posto per lui. Le montagne sono l’orizzonte dei suoi viaggi reali e di fantasia, la particolare angolazione dalla quale guarda il mondo. La conversazione arriva spontaneamente sul tema dello spopolamento. Nevio vuota il bicchiere, accende l’ennesima sigaretta e assume un tono più serio e riflessivo, confermandoci il suo interesse per questi temi, che hanno influenzato e influenzano la sua vita qui. Nevio: Per quello che riguarda lo spopolamento è un discorso molto più sociologico che razionale, mi ha capito? Questo è il discorso: la gente si è fatta attrarre dal benessere. Dal lusso. Dal quieto vivere che ti dà la cittadina di provincia. Il desiderio magari motivato, per questioni familiari, di non far crescere i figli rurali ma di farli crescere cittadini ha contribuito e contribuisce ancora oggi allo spopolamento In poche efficaci parole Nevio delinea le motivazioni culturali dello spopolamento. Le radici della marginalità di queste zone le individua nel processo di unificazione italiano. «Siamo vittime di un pensiero cavouriano» ci dice. L’Unità è stata come un’esplosione in montagna che ha destabilizzato i precedenti assetti economici e culturali. Ma ora quello stesso benes54
sere, quello stesso consumismo che attraeva tanti verso le città nel dopoguerra, diventa per le nuove generazioni, il motivo di un convinto ritorno alla montagna. Nevio: C’è un altro aspetto da considerare secondo me: le persone che dopo vanno a vivere in città, vivendo in città secondo me si riscoprono rurali e di montagna perché subiscono la pressione della città. Mentre l’uomo degli anni ‘50-’60 spopolava e conquistava passo dopo passo il benessere tanto agognato, il ragazzo di oggi che spopola va in città, trova d’impatto questo benessere e si rende conto che non lo può vivere, non lo può sopportare, e fa ritorno. Bisogna considerare che gran parte dei giovani che sono rimasti qui hanno fatto delle esperienze di migrazione, chiamiamole così. Vivendo alcuni anni in città poi sono ritornati, hanno visto che la montagna a modo suo offriva di meglio. Nevio spiega che in fondo chi è tornato lo ha fatto in maniera più consapevole e critica. Le stesse caratteristiche delle città che prima erano motivi di attrazione a favore del modello urbano oggi sono fonte di repulsione. Chi fugge oggi dalle città cerca altri modelli di consumo e di relazione. Nevio: Io so per certo una cosa che la montagna è un’opportunità, non è una sfiga come ci vogliono far credere... E tu quando lo hai capito? Nevio: Da piccolo, mi rimase impresso un discorso di mio zio. Era padovano lui, veniva dalla pianura. Quando veniva quassù in montagna gli sembrava di aver scoperto un mondo nuovo. Diceva sempre, non mi posso mai scordare: «La montagna è ricca». A me questa frase, in fondo in fondo, mi è sempre risuonata dentro il cuore e nel mio cervello...La montagna è ricca...La montagna è ricca! EUREKA!
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Finiamo l’intervista alle 3 e mezza di mattina. Il tavolo è una distesa di bottiglie vuote. Aiutiamo Nevio con il vetro e ci congediamo con gli ultimi saluti e l’ultimo giro di liquore alla genziana, tipico della zona, di sua produzione. *** Quasi 20 giorni dopo il nostro incontro con Nevio siamo in Calabria, e i monti della Laga sono ormai lontani. Durante queste tre settimane abbiamo salito i 2912 metri del Gran Sasso, attraverso un’Irpinia polverosa e arsa dal sole, fatto due volte scalo a Potenza per soste strategiche, e ripartiti poi per la Calabria, ultima regione del nostro viaggio. Siamo a Verbicaro, in provincia di Cosenza, la mattina del primo dei terremoti che hanno sconvolto l’Italia centrale tra fine estate e l’autunno 2016. Una scossa 6.0 di magnitudo alle 3:36 del mattino. Ci avviamo di corsa al bar in piazza, alla ricerca di un giornale. L’epicentro è stato individuato tra Arquata del Tronto e Accumoli, una sessantina di chilometri a nord-ovest da Valle Castellana. Tanti temi, tanti discorsi di questi giorni tornano purtroppo improvvisamente attuali: cosa è successo ai paesi che abbiamo visto? Come stanno le persone che abbiamo intervistato? Come funzionerà la ricostruzione? La montagna teramana come affronterà l’emergenza? Il pensiero va subito a Nevio, ci sembra il caso di fargli una telefonata. Risponde dopo pochi squilli e nonostante tutto sembra tranquillo e felice di sentirci. «Vi ho pensato molto da quando ve ne siete andati», dice ridendo. Nevio ci parla della situazione con la calma di chi ha già vissuto eventi del genere. «Quest’area è classificata come zona sismica 2» ci spiega: «Sono abituato a dormire in macchina qualche giorno, una volta ogni 3 o 4 anni...»
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DIARIO 4 Doveva essere una delle zone più segnate, piena di borghetti, di sentieri e collegamenti. Dovevamo scendere il versante sud del monte che osserva Settecerri, certo, ma la mappa non era chiara e ci siamo trovati dinanzi a tre sentieri che prendevano direzioni differenti, tutti e tre senza indicazioni. Poi, erbacce, rovi e cespugli hanno complicato la scelta. Alla fine Laturo, chi se l’aspettava un paese così grande! Peccato non averci trovato nessuno. Si continua verso Valzo, Olmeto, direzione Valle Castellana... *** Il risveglio a Valle Castellana, stamane, non è stato dei migliori. Il giorno prima, sul sentiero, abbiamo preso la pioggia tutto il pomeriggio e al mattino siamo ancora umidi e infreddoliti. Ma il vero problema, che ci mette a disagio, è l’indecisione. Dobbiamo scegliere se tornare a Laturo (che avevamo trovato vuota) e incontrare Federico che ci aspetta lì dopo pranzo; oppure essendoci già stati, continuare sul percorso a sud, verso il Gran Sasso, e cambiare territorio (e magari clima!). Dopo un’accesa discussione scommettiamo sul restare, sulla calma, convinti che l’unico modo per comprendere qualcosa della zona è ripercorrerla in un altro modo. Rinforzare alcune relazioni avviate. Magari avremo più fortuna. Decidiamo quindi di risalire verso Laturo. 57
*** Laturo è uno dei borghi abbandonati più grandi nei dintorni di Valle Castellana, è un abitato di una certa consistenza, circa trenta case e due chiese, che viveva principalmente di pastorizia. Dopo l’abbandono definitivo negli anni ‘70 molti edifici sono crollati e il borgo fino a poco tempo fa era totalmente inaccessibile, ricoperto da una fitta vegetazione. Qualche inverno prima del nostro arrivo, un ragazzo Federico Panchetti - percorrendo questo stesso sentiero scopre per caso il paese, se ne innamora e comincia una lenta ma determinata opera di recupero del borgo. Federico fonda l’associazione “Amici di Laturo” e inizia a raccogliere fondi per comprare e restaurare, con l’aiuto di alcuni abitanti della zona, alcune case. Realizza nel paese un museo all’aperto, recupera gli orti e li rinsalda, riporta l’acqua nel paese riattivando i fontanili, riporta vecchi abitanti nel loro luogo di nascita, dopo decenni. Federico non vive ancora stabilmente a Laturo, ma lavora costantemente sul territorio perseguendo questo obiettivo. Lo abbiamo contattato per farci raccontare il suo progetto, per ascoltare la sua scelta di vita. Così ci siamo incontrati a Laturo e abbiamo realizzato una lunga intervista. Intervistare Federico è stato faticoso, né per colpa del suo carattere né a causa delle nostre domande, ma semplicemente perché la decisione di incontrarlo significava (per noi) tornare indietro nel percorso, allungare i tempi, ritardare la tabella di marcia. Eravamo già passati da lì, ma senza riuscire a incontrarlo. Inoltre nei giorni precedenti aveva piovuto molto ed eravamo riusciti a realizzare solo un paio di interviste. Per fortuna, in maniera affatto facile, ci siamo resi conto che bisognava tornare indietro, che bisognava concentrarsi sulle relazioni che avevamo già costruito: meritavano più tempo. 58
Per fortuna abbiamo appreso la prima lezione del viaggio alla prima “grossa” difficoltà. Nelle parole di Federico questa lentezza e questa cura con cui abbiamo capito di doverci relazionare al territorio ritornavano continuamente. Federico: Mi è scattato qualcosa dentro dovevo iniziare a pulire Laturo, tutti gli accessi e dovevo capire dove era il fosso, come lavavano i panni, se quel fontanile aveva un collegamento. Allora sono stato qui 2 mesi, ho preso le ferie con la mia ex compagna all’inizio, con gli amici che poi mi hanno seguito in questo progetto. Ho iniziato a pulire, in 3 mesi, tutto a mano in silenzio perché le motoseghe all’inizio non ce l’avevamo e non volevo disturbare, perché io non conoscevo nessuno qui, non conoscevo la realtà, non conoscevo i pastori, non conoscevo i vicini di casa quindi ero un abusivo che occupava una stalla. Mentre parliamo siamo infatti seduti proprio dinanzi alla prima delle quattro case restaurate dall’associazione messa in piedi da Federico, chiamata il Gafio, dal nome del balcone di origine longobarda che la caratterizza e che rappresenta anche una costruzione tipica della zona. E come sei riuscito da abusivo a realizzare tutto questo? Federico: Abbiamo cercato di costruire una struttura che riuscisse ad essere autonoma. Noi qui a Laturo ci sostituiamo al comune, che comunque conosciamo e con cui dialoghiamo, li rendiamo partecipi degli eventi che facciamo, invitandolo nelle occasioni di cerimonia. L’associazione serve proprio per sostituire il comune che in questo posto non può venire, non ha la strada, non viene, non hanno mezzi. Il bello di questo posto è che dopo esser stato ricopreto dai rovi per vent’anni, ora ci sono due diari riempiti in quattro anni pieni pieni. Gli eredi che tornano in paese dopo quarant’anni di 59
abbandono, vengono alla messa...e quindi molti si commuovono. Soltanto questa cosa che fa tornare gli eredi a vedere il loro posto perché è fruibile, è bello! In più tutta la sentieristica collegata a Laturo è stata riaperta anche per svariati chilometri, quindi cavalli e biciclette possono percorrerla. Federico in pochi anni ha restituito questo luogo alla collettività, anche agli ex abitanti che ormai lo consideravano perso. L’abbandono evoca delle sensazioni potenti in tutti, non solo nei locali, le rovine trasudano storia, smuovono paesaggi interiori inediti, spesso, come nel caso di Federico, generano la voglia di conoscere meglio quel luogo e magari di riviverlo. L’abbandono esercita questa attrazione forse per la sua capacità di contenere tutte le storie che hanno attraversato un territorio, per la sua potenzialità di stimolare speranze e diverse idee di futuro per questi borghi, e per se stessi. L’obiettivo di Federico non è aprire un’attività economica che generi profitto, ma avviare un percorso di riscoperta di saperi e conoscenze locali, con lo scopo di incentivare un turismo sostenibile e rispettoso. La bellezza degli Appennini sta proprio nel loro non essere una montagna da cartolina, non c’è la natura delle Alpi, non ci sono grandi vette che attirano gli alpinisti o i grandi paesaggi innevati ideali per lo sci. Il turismo invernale con i suoi impianti di risalita e i suoi hotel, non ha mai attecchito più di tanto in questa Italia interna. Per scoprire gli Appennini bisogna perdersi tra le sue strette valli, i suoi remoti paesini; per apprezzare queste montagne ricche ma poco appariscenti bisogna immergersi in quel mix particolare di odori, sapori, dialetti, mestieri tradizionali, storie antiche e piccole specificità che contraddistinguono questo territorio. Federico sceglie Laturo per avviare il suo progetto perché si tratta di una montagna minore, non valorizzata in cui è possibile ancora realizzare un’autentica vita di montagna. 60
Federico: Montagna minore perché per me in questi posti riesci ancora a respirare un’aria genuina perché comunque l’antropizzazione montana ha portato il cemento, ha portato la viabilità, le piste da sci, ha portato comunque a raggiungere la meta in maniera facile. Per me quella non è una montagna che mi riesce a dare qualcosa ma è solamente una prolunga della città. E quindi io vorrei valorizzare queste zone, ovviamente non per tutti, queste sono montagne per chi ama il silenzio, il buio, non ti devi annoiare qui, qui non ci si annoia perché c’è sempre qualcosa da fare. Quindi montagna minore io la vedo in questo senso, una montagna non sfruttata che è giusto vivere però in punta di piedi e in silenzio. Diciamo che la montagna degli anni 2000 non può essere la montagna di chi la viveva nel passato. Quelle comunità così numerose che vivevano in montagna sono finite. Perché comunque il mondo è mutato, è cambiato e quindi per forza la montagna deve essere vissuta come attrattiva turistica intelligente, non massificata. Però cosa manca? Manca la cultura, chi amministra questi territori non ha mentalità così aperta da avere delle visioni del genere. Progetti simili per me dovrebbero essere sostenuti, con degli esempi che esistono anche in altri parchi in Italia. Chi ci rappresenta però non ha una cultura per capire cose simili, il 90% dei soldi vanno in infrastrutture, in sport invernali, in cose del genere. L’intervista di Federico si chiude con una vena di pessimismo: è venuto a Laturo per impostare un suo personale cambio di vita ma ancora non ci è riuscito del tutto. Federico sente la necessità di tornare a dei ritmi di vita diversi, avverte l’alienazione che provocano quei modelli di consumo urbani che sono stati la causa dello spopolamento delle montagne. Vorrebbe, trasferendosi a Laturo, recuperare un altro rapporto con la natura e imparare un saper fare pratico che la città non ti fa apprendere. La riscoperta di queste aree e attività, 61
l’arrivo di energie giovani con idee innovative, come quelle di Federico, possono essere delle importanti risorse per la montagna teramana. Simili progetti vanno sostenuti, ma dato che Federico non è in grado di stanziare grandi capitali privati, come fa invece chi investe nel “turismo della domenica”, non riesce ad accedere ai finanziamenti europei. Questi esempi rendono evidenti le criticità dei progetti di sviluppo di queste zone. Se progetti genuini e consapevoli non riescono a trovare spazio allora si consegna la montagna alla grande speculazione privata e all’abbandono. Come ti immagini Laturo tra 20 anni? Federico: Non riesco a contagiare meglio le persone, non vedo giovani che sono disposti a dire: «Compro, ti vengo ad aiutare, sto con te, lascio il lavoro». Per adesso in 5 anni non è successo. Se così dovesse essere per me Federico è una meteora e a Laturo ritorna tutto come prima, penso. Sono un po’ pessimista su questa cosa. Forse il rivedere in questo posto un minimo di amicizia, di fratellanza, di spirito di sacrificio, di rimettere qualche allevamento, di partire a piedi per andare a fare un mercato ad Ascoli per vendere quattro oggetti e tornare con 20 euro, queste cose qua se non ho altre persone la vedo un po’ dura. Poi magari vedrete dei bellissimi eventi, vedrete il borgo animato in alcuni momenti, però viverci poi sobbarcarsi i problemi quotidiani è una cosa per adesso di due o tre persone e in futuro credo idem. La montagna del 2000 non può essere un luogo di isolamento, ma deve essere globalmente connessa, un luogo non solo legato al passato ma all’avanguardia nel progettare il futuro.
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DIARIO 2 Nella Laga ci si perde. Ieri abbiamo seguito per ore un sentiero che forse non esisteva e che alla fine ci ha riportati al punto di partenza. La vegetazione è rigogliosa mentre i percorsi sono poco o per nulla battuti, situazione paradossale nella terra da cui appena 50 anni fa partiva il Tratturo Magno, le carte in situazioni del genere servono a poco. Ma oggi ci riproviamo, il nostro obiettivo è arrivare a Valle Pezzata uno dei paesi abbandonati più isolati della zona, raggiungibile solo attraverso due evanescenti sentieri. Ieri sera ci siamo accampati nella piccola piazza di Stivigliano, un borgo totalmente disabitato, servendoci di un vecchio forno per cucinare, che forse un tempo veniva utilizzato da tutta la piccola comunità: storie di antichi rapporti di vicinato. Non facciamo in tempo a metterci lo zaino in spalla per partire che veniamo colti da una pioggia fragorosa che ci inzuppa completamente in pochi minuti e che ci accompagnerà per tutta la giornata. Decidiamo di incamminarci comunque, questa volta la direzione per Valle Pezzata è quella giusta e dopo poco tra la foresta intravediamo il piccolo borgo con il suo aspetto fragile e precario, avvolto dalla nebbia creata dall’umidità. Del paese diviso in due frazioni è rimasto ben poco, ma da un rudere vediamo uscire del fumo dal camino. Dopo qualche minuto un solitario abitante ci viene ad accogliere; è giovane forse 20 anni appena, ci invita ad entrare in casa e noi infreddoliti e provati dalla pioggia battente 63
accettiamo. L’edificio sembra in piedi per miracolo, ad ogni passo scricchiola e noi ci distribuiamo ai quattro angoli della stanza per non gravare troppo il peso in un punto. Il ragazzo, che si chiama David, è qui con alcuni amici e si fermeranno solo per l’estate. Ci dice inoltre che c’è un’altra persona che vive qui da parecchi anni – Arthur - l’unico rimasto di un progetto di ecovillaggio avviato nel 2009 e fallito quasi subito. Tutti a Valle Castellana ci avevano parlato di Arthur, il polacco, che suscita la curiosità di molti paesani con il suo stile di vita “estremo”. Mentre andiamo via, sempre sotto la pioggia, penso che qui le case cedono molto velocemente battute dalle intemperie e assalite dalla vegetazione, eppure c’è ancora vita tra i ruderi pericolanti. Vite solitarie fatte di silenzi condotte da eremiti moderni, che spesso abbiamo incontrato nei nostri viaggi provando a farci spiegare la loro scelta. L’Appennino è pieno di storie così, sentieri personali per vivere appieno queste montagne minori, alla ricerca di una vita ad altri ritmi, con diverse priorità, per trovare un angolo di natura da custodire con gelosia, attirati inevitabilmente, come noi, dall’abbandono. *** Raggiungiamo il monte Cordella ai cui piedi si trova lo stazzo estivo del pastore Gino Monti. Federico, durante la nostra intervista, l’aveva chiamato avvisandolo del nostro arrivo, perché secondo lui da persone come Gino c’è tanto da imparare: questi ultimi pastori sono i custodi di un sapere pratico ma anche filosofico che è la vera vita di montagna. Arriviamo 64
al crepuscolo, udendo da lontano i campanacci delle sue vacche. i pascoli e le vette circostanti disegnano panorami mozzafiato. *** Gino è uno degli ultimi pastori dei Monti della Laga, nato e cresciuto a Laturo. In paese ci hanno consigliato di parlare con lui, così un pomeriggio prendiamo la strada delle montagne per raggiungere la località la Cordella a 1100 metri dove Gino pascola il suo gregge. Al nostro arrivo veniamo accolti da un branco di maremmani, che Gino richiama prontamente permettendoci di avvicinarci a una delle due strutture presenti nel suo alpeggio. Uno è il laboratorio dove Gino produce formaggio, l’altro stabile serve da ricovero per la notte. Nell’alpeggio Gino ha un centinaio di pecore, qualche mucca e qualche cavallo che riporta giù ogni inverno nella sua casa attuale a Villa Lempa. Gino: Qua c’era un sacco di bestiame e quelli che ne avevano parecchio andavano alle Puglie, nella zona di Foggia. Lei ha mai fatto la transumanza? Gino: Io sono arrivato fino a Termoli a piedi. Si facevano 7-8 km al giorno perché prima c’erano i tratturi. Il primo tratturo partiva da qua, dai monti della Laga, uno a San Grabiele, sul Gran Sasso c’è n’erano 5 mi pare. Io avevo 13-14 anni, siamo arrivati fino a Termoli, Campomarino, più giù non sono andato. E adesso non si fa più così la transumanza? Gino: No, no adesso si sposta tutto con gli autotreni. I tratturi non ci sono più, sono tutti lavorati, è tutto finito. Le strade sono piene piene di macchine, adesso non passi più. Verso il ‘60-’65 65
si passava ancora sulle strade dell’Adriatico, perché passava una macchina ogni quarto d’ora, ogni mezz’ora; invece adesso dove passi più? Ora le pecore vengono tutte caricate con gli autotreni. Ne sono rimaste poche. Qui c’è un paese, San Vito, dove c’erano 20 000 pecore adesso ne saranno rimaste 2000-3000 Perché è cambiato? Gino: Perché questo lavoro il giovane non lo fa più. Anche se il lavoro non è pesante è però impegnativo. A Pasqua e a Natale non ci sono ferie. Siamo rimasti noi di 60, 70 anni. Finiti noi finisce anche questo mestiere. Lei ha sempre fatto questo mestiere? Gino: Si, come mio nonno, mio bisnonno, mio padre, poi io. Adesso i miei figli fanno tutto un altro lavoro perché non è più il caso. Prima ci si campava, adesso non si riesce neanche a recuperare le spese, non puoi tirare avanti. E dopo si abbandona, va a finire così. Come si immagina questo suo mestiere? Gino: No il mestiere è finito, le cose vanno sempre al peggio perché io sto vedendo anno per anno sempre peggio, rimarranno solo le grandi aziende. Penso che andrà sempre peggiorando. Gino ha circa 60 anni e appartiene all’ultima generazione di pastori teramani che hanno fatto la transumanza fino in Puglia. Ha vissuto il cambiamento non solo del suo paese natale, Laturo, ma anche del suo mestiere. Le strade hanno sostituito i tratturi e adesso è difficile spostare il gregge anche per pochi chilometri. La transumanza organizzava il popolamento e il territorio. Dal massiccio del Gran Sasso e dai Monti della Laga partivano i tratturi che arrivavano al mare, questi cammini erano la principale arteria commerciale della regione, dunque su questi 66
percorsi nascevano i borghi appenninici. I tratturi principali erano 3 ed erano larghi più di 100 metri, poi c’era tutta una rete di tratturi più piccoli detti bracci che servivano a collegare i percorsi principali e le aree interne. In autunno e in primavera si poteva osservare questa gigantesca migrazione di pecore che a volte contava migliaia e migliaia di capi di bestiame tutti in movimento nello stesso periodo. Il territorio doveva organizzare questo passaggio, e lo faceva con una nutrita serie di norme, divieti e tasse. Bisognava allestire luoghi di ricoveri e ristoro per uomini e bestie, era anche l’occasione per commerciare e scambiare. Adesso invece, come ci racconta Gino, neanche sulle montagne abruzzesi c’è più spazio per i pastori. Il tipo di pastorizia che si praticava qui oggi non è più competitivo per il mercato moderno. Gli spazi sono stretti, è impossibile applicare i criteri di efficienza dei grandi allevamenti, il territorio non si presta a logiche di produzione intensiva. Gino teme che le piccole aziende tradizionali e locali come la sua siano destinate a finire, anche perché non c’è stato un ricambio generazionale con dei giovani disposti a fare i pastori. La sua tradizione familiare di pastorizia finirà con lui, i figli fanno tutt’altro lavoro. L’intervista a Gino, e quelle agli altri pastori, sono perciò delle testimonianze preziose di un mondo che sta scomparendo e che tra pochi decenni non sarà più documentabile. Quando Gino non ci sarà più questo suo alpeggio ritornerà selvatico, su alla Cordella non ci sarà più quel punto di riferimento che tutti qui in valle conoscono. Quanti pastori sono rimasti in questa zona? Gino: Prima, prima, eravamo quasi tutti, mettiamo il 6070 percento, parecchi lavoravano quando sono stati fatti i rimboschimenti, parecchi hanno lavorato con le pinete. Poi sulle cave hanno preso la breccia per fare la diga là sotto, e con i carrelli passavano a Settecerri, dove siete stati voi, andavano a finire giù in valle. 67
Molti dopo sono partiti chi in America, chi a Roma, e quelli rimasti qui in zona sono andati tutti quanti più in basso, chi ad Ascoli, chi a Teramo, tutto è un po’ più spopolato. A Laturo ci stavamo in una ventina di famiglie, la più piccola era di 10 persone, la più piccola. Vallepezzata ci stavano una decina di famiglie. Tutti questi paesetti erano tutti pieni. Anzi si campava meglio qua prima che più in basso, perché in basso stavano tutti i contadini e dovevano spartire con il padrone. Qua erano tutti quanti uguali, i soldi non giravano, giravano poco giusto per la sopravvivenza. Durante tutto l’autunno si facevano le provviste per l’inverno. Qui si andava avanti con le castagne, ed era la metà del cibo [sorride]. Qua sai che si comprava? Sale, una candela per la notte, fesserie, un po’ di caffè. Allora quei quattro soldi bastavano, non è come adesso che prendi 1000 euro e dopo mezz’ora non ce li hai più [ride]. Prima le bollette non c’erano, per la luce si usava una piccola candela, l’acqua la prendevi da tutte le parti, l’immondizia non la dovevi pagare, il televisore non c’era, la radio non c’era, si andava avanti così […] All’epoca i sentieri erano tutti aperti, perché qui si transitava solo con i cavalli e a piedi. Leofara ce l’abbiamo dritto davanti, per andare là c’erano 5 sentieri, ma ora se ce la fai con la cartina ne puoi trovare solo uno! Ci sta solo questa strada! Le prime righe di questa parte di intervista descrivono con poche e semplici parole gli sviluppi della montagna nello scorso secolo. La fine della pastorizia, che qui era il lavoro più diffuso, l’arrivo dell’idroelettrico e dei rimboschimenti che creano un minimo di occupazione e il tragico epilogo dell’emigrazione di massa. Chi parte va in America o a Roma, chi resta comunque si sposta a quote più basse. Una vita povera e faticosa con una scarna dieta a base di castagne, ma tutto ciò che era necessario per vivere si rimediava tra queste montagne. «Qua erano tutti quanti uguali, i soldi non giravano» sono frasi che ci parlano di 68
una montagna povera ma più egalitaria, di regimi di proprietà diversi e di relazioni comunitarie più solidali. Gino ci descrive un paesaggio scomparso, mentre noi in questi giorni abbiamo faticato a trovare dei sentieri ancora percorribili. Ci racconta di quanto questo territorio fosse attraversato da una fitta trama di cammini che oggi non esistono più. Questo tipo di conoscenza del territorio è andato perso, non ci si sposta più a piedi; tendenzialmente chi vive in montagna oggi non conosce bene i boschi che ha dietro casa, non ha più motivo di attraversarli da quando le strade hanno standardizzato la nostra mobilità. Ci parli un po’ di Laturo? Gino: La casa lunga che sta davanti alla fontana era tutta di proprietà nostra. La nostra famiglia era grossa, era di 18 persone. A Laturo l’ultima famiglia è andata via nel ‘73. Si è cominciato ad andare via verso il ‘50-’55, dopo mano mano lo spopolamento c’è stato verso il ‘60, ‘62-’63. Erano rimaste un paio di famiglie fino al ‘73 poi è finito tutto...Là non ci si entrava più, per fortuna Federico e i ragazzi ci stanno danno una pulita, prima era tutto una spina, non ci si entrava più! Gino ci saluta tornando dal suo gregge, a distanza dirige i cani per radunare le pecore, utilizzando quella straordinaria lingua fatta di suoni spezzati che solo i pastori conoscono e si tramandano di padre in figlio. Ci permette di trascorrere la notte nel suo rifugio mentre lui torna a casa. Ci rivediamo il mattino seguente, scambiamo qualche altra parola prima di ripartire mentre facciamo colazione. Gino è una persona serena e profonda, questo mestiere forgia uomini particolari, abituati alla solitudine e al silenzio.
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DIARIO 1 Scendiamo dai monti, con in mente le ultime immagini del gregge di Gino e dei suoi cani pastore maremmano. Il sentiero è una lunga discesa che porta nei pressi di Leofara, piccola frazione di Valle Castellana. Sono stanco, ma incontriamo una strada con diversi tornanti e alcune indicazioni per il paese che ormai è prossimo. Decidiamo di fermarci a questo bivio: la stanchezza quasi ce lo impone e l’orario lo permette. È ancora mattino presto sono le 10:00. Il programma di oggi è…camminare…fino a fine mese con in testa il progetto. Appoggio lo zaino, lo maledico ridendo e mi ci appoggio sopra. Una meritata seduta. Penso a rilassare i muscoli e la schiena, mi idrato e riprendo energie. Poco vicino a noi c’è una struttura, pare essere una vecchia stazione turistica in disuso allora decido di avvicinarmi e capire qualcosa in più. Noto una porta aperta e alcuni vestiti messi ad asciugare. Capisco che c’è qualcuno e che può essere un’ottima occasione per lavarmi un minimo e recuperare qualche informazione per i nostri prossimi attraversamenti. Busso. «C’è qualcuno?»” Non risponde nessuno, allora entro. Un grande camino centrale aperto da più lati attira la mia curiosità. Mi faccio avanti e scorgo una grande sala comune e una piccionaia al livello superiore. Ascolto dei rumori che mi guidano verso una stanza, li seguo e vedo una cuoca alle prese con la pulizia della cucina. Lei mi vede, entrambi sorpresi ci presentiamo. 70
Cinzia ha i capelli rossi, occhi chiari, una piccola statura e l’accento campano. Fa l’attrice di teatro e oggi la cuoca. «Ciao, chi sei? E che ci fai qui?» esclama Cinzia. Le rispondo che sono nel mezzo di un viaggio. «Siamo diretti in Calabria…per fine mese!» Le chiedo qualche informazione sulla zona e sulla sentieristica di cui le non sa molto ma ci invita ad uno strano evento culturale che si svolgerà di sera nei boschi di Vallenquina vicino Leofara. È un evento che si svolge da vent’anni dice. Ci salutiamo e mi regala un grosso grappolo d’uva che condivido con i miei compagni di viaggio. Nel pomeriggio decidiamo di andare a questo avvenimento nel bosco. Si tratta di uno spettacolo teatrale itinerante. La cosa ci affascina. *** Lo spettacolo de “La Notte delle Paure” quest’anno metteva in scena Shakespeare e si svolgeva a Vallenquina. Dopo la performance ci siamo fermati a mangiare con gli attori ed abbiamo avuto modo di intervistare il regista Gianluca e Francesca dell’associazione “I’Fere”. Raccontateci cosa è “La Notte delle Paure”. Francesca: Ormai 22 anni di Notte delle Paure, 22a edizione. Nasce da racconti, gente del posto che intende portare avanti la memoria storica dei luoghi, quello che era il racconto degli avi, che hanno riportato da generazione in generazione. Gianluca: Delle nonne, delle bisnonne, delle loro paure. Francesca: Che nascono dall’esperienza no? Gianluca: È nato per ri-raccontare i disturbi percettivi. A un 71
certo punto della notte vedevi un’ombra e sembrava un lupo o sembrava un fantasma, allora è diventato un racconto pauroso da fare ai bambini a tavola. Da qui a un mito e dal mito a una narrazione teatrale di qualcosa che era il focolaio di una volta...e dopo è diventato Shakespeare perché sono finiti i racconti e ci abbiamo messo i classici. Io faccio la regia, ho curato l’allestimento e abbiamo messo in scena Shakespeare. É la prima, oggi, quindi siete fortunati perché c’è un’emozione particolare alla prima, una tensione di portare per la prima volta qualcosa che è stato maturato nei giorni. In questi giorni abbiamo dormito pochissime ore. Shakespeare è molto natura nelle sue parole, nei suoi testi, nelle cose che tocca, che suona. Questa è drammaturgia contemporanea e antica, anche del ‘600, in mezzo ai boschi. Di solito si fa nei teatri vellutati, qui l’abbiamo fatto in mezzo al velluto delle foglie. Teatro mentuccia e cicoria è buonissimo, tu passi e senti quest’odore di ginestre, già quella è sinestesia! […] Ma qui è il punto: lo spettatore costruisce insieme a noi lo spettacolo, con la sua immaginazione, la sua fatica, il suo camminare, il suo sentire i profumi e noi diamo degli stimoli come può essere un albero, una quercia, un tramonto. Un po’ di vento che gli passa addosso, un po’ di freddo fuori. Tutte queste condizioni ovattate in un teatro qui sono esperienze vive e quindi sei costretto a interagire con queste. Anche noi attori dobbiamo competere con una quercia oppure allearci con una quercia, se no perdi perché vince lei. Il paese di Vallenquina è riconoscibile anche a distanza grazie al suo castello in stile neogotico: il Castello Bonifaci una costruzione degli inizi del Novecento. Vallenquina è un piccolo agglomerato di case oggi disabitato e con una sola famiglia che vi risiede più o meno stabilmente, le costruzioni sono tutte ristrutturate e si sviluppano intorno al castello. Qui ha luogo la rappresentazione teatrale: “La Notte delle Paure”, 72
uno dei pochi eventi estivi della Laga. Questo spettacolo mette in scena le paure, i racconti, le favole di questa zona e si svolge interamente nel bosco. Le varie scene sono dislocate lungo il sentiero, che si percorre di notte, e lo spettatore per seguire lo spettacolo è “costretto” a camminare per più di un’ora. È un evento legato a questi luoghi e alle loro popolazioni: prima dello spettacolo teatrale ci sono tre settimane di laboratorio che cercano di coinvolgere la popolazione locale. La performance ha proprio lo scopo di riscoprire certi luoghi e le loro storie di paura, facendo interagire abitanti locali, attori e visitatori nella cornice suggestiva dei boschi e dei borghi teramani. Ma chi viene alla fine a vedere questo spettacolo? Francesca: Di fatto il nostro pubblico è un pubblico che ha imparato a vivere l’esperienza, non è un pubblico qualunque, era un pubblico qualunque, è un pubblico che sa adesso. Gianluca: Piano piano hanno incominciato ad apprezzare un certo tipo di teatro, un certo modo di stare con gli altri, di rispettare l’ambiente, di amare l’ambiente, i posti abbandonati ripopolati da fantasmi teatrali il territorio si ripopola di finzione che poi è l’unica verità che c’è. È bella questa cosa. Ci sono i sassi, gli alberi e i personaggi che sbucano dalle finestre. Dalle parole degli autori capiamo che “La Notte delle Paure” non è altro che la narrazione teatrale del focolaio di una volta e che ha lo scopo di recuperare quei racconti che, tramandati oralmente, erano il frutto di un’esperienza viva e di una conoscenza del territorio. Le favole hanno la funzione di fissare nella memoria collettiva posti e avvenimenti che seppur rielaborati dalla fantasia raccontano sempre la storia di una comunità. Le storie di paura ambientate nel bosco erano una maniera per le popolazioni locali di addomesticare quel luogo, questi racconti servivano per spaventare i più piccoli ed insegnarli a non sottovalutare la potenza misteriosa della 73
natura, queste favole erano il simbolo della frequentazione e del rapporto quotidiano tra gli uomini e i loro boschi. Che legame ha “La Notte delle Paure” con questo posto, con i suoi abitanti e in particolare con i paesi abbandonati? Francesca: Una delle motivazioni di questa manifestazione è proprio quello di riscoprire dei luoghi magari cosiddetti minori in cui forse non sareste mai capitati: Vallenquina è uno di questi. Aree minori, Monti Della Laga, la Laga Selvaggia, la Laga Sperduta, la Laga dei sentieri che non si trovano ma ci sono, la Laga dell’acqua, un territorio ricco d’acqua che ha favorito l’insediamento umano sparso. Francesca: Però c’è il limite sociale, il fatto che in questi giorni si rivive, si festeggia, si porta in scena, si collabora. Però succede che finisce lo spettacolo e questi posti tornano ad essere non frequentati e semi abbandonati. Questa è un po’ la sofferenza che il territorio vive, è quello che io percepisco da tempo. Gianluca: Diciamo che gli abitanti di questi posti si sentono prima eccitati dalla situazione e poi abbandonati un’altra volta. Quindi da una parte li ricorda che questo paese poteva essere vivo, dall’altra però quando te ne vai rimane un po’ di nostalgia, un po’ di tradimento, li avevi illusi in qualche modo che potesse tornare vivo e poi quando te ne vai lasci la solitudine. Nel rispondere alle nostre domande Francesca esplicita quello che è lo scopo de “La Notte delle Paure”: riscoprire le montagne minori. Non è un caso che questo gruppo di giovani attori abbia scelto proprio questo luogo per mettere in scena il loro spettacolo. Avrebbero potuto scegliere altri contesti, più turistici, più sponsorizzati, la loro manifestazione sarebbe probabilmente molto più famosa di quanto non lo è adesso. Invece hanno scelto di investire in questa zona, con la volontà di sedimentare un lavoro paziente e duraturo che si alimenta nella relazione con le comunità locali. Costruendo 74
questi spettacoli partendo dal luogo, dalla sua natura fisica e dalla sua essenza antropologica, l’associazione “I’Fere” prova a restituire un senso nuovo a questi paesi, provando a ricucire quel legame, che la modernità ha interrotto, tra comunità e luoghi.
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RAGNATELA Emidio di Treviri. Sul Fronte del sisma
Il nostro viaggio è durato molto più di un mese, in tutti i sensi, e continua ancora oggi a farci percorrere e ripercorrere l’entroterra italiano. Incontri, intrecci, relazioni e collaborazioni che si susseguono, che ci cambiano e ci trasformano. Nelle pagine che hanno raccontato il nostro incontro con Nevio a Valle Castellana abbiamo accennato ad un evento che ha segnato profondamente il nostro progetto, coinvolgendoci emotivamente, tanto. Sono gli eventi sismici che hanno colpito l’Appennino centrale tra l’estate e l’autunno del 2016 e nell’inverno del 2017. La notte del 24 Agosto, quando la terra iniziò a tremare, ci trovavamo in provincia di Cosenza, tra i boschi dell’Orsomarso. L’indomani mattina ci affrettiamo a contattare, con paura e impazienza, le persone incontrate durante il nostro tragitto compiuto tra Ascoli e il teramano, tra la valle del Fiume Tronto e la valle del torrente Castellano. Solo 10 giorni prima 76
eravamo proprio lì cercando di cogliere dinamiche e processi del passato che adesso, con il sisma, divenivano l’immediato presente. Il nostro viaggio prendeva una nuova direzione, acquistava un significato più profondo. Nei giorni successivi al terremoto comprendevamo in maniera più pregnante i territori attraversati, le ricerche che avevamo appena realizzato, le memorie e i desideri che avevamo raccolto. *** Così tra l’autunno e l’inverno dello stesso anno entriamo in contatto con Emidio di Treviri. Come recita il suo blog: Il progetto di ricerca “Emidio di Treviri” nasce nel dicembre 2016 da una Call for Research lanciata grazie alle Brigate di Solidarietà Attiva, un’associazione ispirata alle società di mutuo soccorso proletario di inizio Novecento, che interviene in contesti d’emergenza promuovendo solidarietà dal basso e autogestione. Molti dottorandi, ricercatori, professionisti e accademici hanno aderito all’appello dando vita a un’esperienza di ricerca collettiva e autogestita capace di produrre conoscenza critica dal basso. Scienziati sociali, architetti, psicologi, urbanisti, antropologi, ingegneri, giuslavoristi etc. si sono impegnati a coordinarsi in maniera orizzontale per costruire un’inchiesta sociale sul post-sisma del Centro Italia che ha colpito quattro regioni durante tre momenti intensi (agosto 2016; ottobre 2016; gennaio 2017).
Un’esperienza e un lavoro che è risultato fondamentale nel racconto e nelle analisi dei processi del post-sisma: Per oltre un anno più di 50 ricercatrici e ricercatori di diversa formazione disciplinare, videomaker e reporter
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hanno lavorato in maniera autorganizzata e volontaria all’analisi del post-sisma del 2016 e 2017, nel tentativo di contribuire sia rispetto alla ricerca di base, quindi per il progresso scientifico, quanto soprattutto alla produzione di strumenti utili per la lotta dei terremotati e delle popolazioni delle aree interne a decidere sui propri territori. È per questo che, sin dal suo esordio, la volontà del gruppo è stata orientata a costruire un percorso militante, basato su un continuo confronto e un attento lavoro sul campo al fianco di coloro che erano coinvolti nei processi del post-disastro.
Emidio si è (auto)organizzato in sei gruppi di lavoro: RN01. SALUTE, che ha analizzato gli effetti della gestione del postsisma sulla qualità della vita biologica, psicologica e sociale; RN02. GOVERNANCE, che ha realizzato una mappatura delle architetture del potere, ricostruendo il quadro complessivo della catena di comando; RN 03 TERRITORIO, impegnato a comprendere il caos abitativo generato dalla gestione del postsisma; RN04. RURALE, che ha condotto un’analisi delle conseguenze dello spopolamento e della crisi post sisma sulle micro-economie locali; RN05. CULTURA MATERIALE, che ha raccontato la materialità ferita dei territori colpiti, ripercorrendo le tracce di una memoria individuale e collettiva; RN 06. PSICOLOGIA E COMUNITA’, una ricerca-azione sulle fratture comunitarie generate dalla gestione del post sisma. Emidio è cresciuto e continua a crescere. È stato presente a conferenze, seminari, assemblee e dibattiti, e soprattutto continua ad essere presente sul territorio al fianco delle popolazioni colpite dal sisma. A inizio estate 2018 è uscito “Sul Fronte del sisma. Un’inchiesta militante sul post-terremoto dell’Appenino centrale (2016-2017)”, lavoro che raccoglia i primi due anni, circa, di ricerca realizzato da Emidio di Treviri, 78
edito dalla casa editrice romana DeriveApprodi. Di seguito le parole che aprono il volume: Il nome del gruppo di ricerca è legato a quello di sant’Emidio d’Ascoli, martire cristiano venerato in particolar modo nell’area dell’Appennino centrale italiano, come protettore dei terremoti. Perseguitato dai romani e amato dai più deboli della società picena, fu condannato alla pena capitale dal prefetto Polimio nel 303 a.C. La leggenda narra che a seguito della sua decapitazione, dal sangue sgorgante sia nata una pianta di basilico mai appassita. Il basilico, che copiosamente copriva la tomba del martire nonostante l’oscurità cui era costretto, ancora oggi viene portato in piazza dagli ascolani ogni 5 d’agosto, giorno della festa del patrono. Per noi è diventato simbolo di ostinatezza e dell’estremo tentativo di mettere radici anche in condizioni avverse. Gli ascolani sono devoti a sant’Emidio anche per il terremoto del 1944, quando, durante i rastrellamenti tedeschi contro le brigate partigiane sul Colle san Marco, un sisma paralizzò l’offensiva dei nazifascisti, i quali, non conoscendo il fenomeno naturale, pensarono di essere al centro di un bombardamento alleato, in realtà mai avvenuto. I partigiani poterono così approfittare del momento per guadagnare il fianco della montagna e svincolarsi dalla manovra a tenaglia. Abbiamo preferito attribuirgli la sua località d’origine, Treviri, quella che gli diede la vita, piuttosto che Ascoli, quella di santificazione, dove trovò la morte. La stessa Treviri che, qualche secolo più tardi, diede i natali a Karl Marx, scienziato e filosofo cui siamo ugualmente affezionati.
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CAPITOLO TERZO CAMPANIA Appenino a tratti
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DIARIO 4 Dai boschi dell’Abruzzo alle aride colline in provincia di Benevento. La prima impressione giunti ad Apice è stata un po’ destabilizzante, entriamo in un nuovo territorio, una nuova scenografia, nuovi punti di riferimento. Ci avviciniamo in sordina, intrufolandoci nel paese vecchio. Da quello nuovo, invece, a pochi chilometri di distanza, udiamo le prove dei fuochi d’artificio. Oggi è festa, è San Rocco. Tra muretti e recinzioni ci ritroviamo nel centro storico di Apice. È il paese abbandonato più grande incontrato fino ad adesso. *** Apice è un comune di 5700 abitanti della provincia di Benevento, il centro storico del paese è stato abbandonato dopo il terremoto del 1980 e il paese nuovo, con lo stesso nome, è stato ricostruito a 2 km di distanza sulla collina di fronte. Il borgo abbandonato è recintato, tranne una piccola parte in cui sono in corso delle ristrutturazioni, ma riusciamo ad introdurci lo stesso. Apice, a prima vista, ci è sembrata una cartolina degli anni ‘70. Il mix di calcestruzzo e pietra antica rimanda alla brusca interruzione e fotografa, fermandolo in un istante lungo 36 anni, il cambiamento che stava avvenendo in Italia in quel periodo. Molte case sono aperte, alcune ancora arredate, poche sono davvero ridotte male o pericolanti nonostante i fenomeni sismici e il lungo abbandono. Mentre facciamo un giro per le rovine precluse al pubblico, incontriamo qualche 82
turista e alcuni locali, tra cui due carrozzieri che lavorano ancora nel paese vecchio. Un ragazzo ci dice che se vogliamo avere delle notizie sul paese abbandonato dobbiamo tornare il giorno dopo e incontrare il barbiere Tommaso, l’unico che dopo il terremoto ha rifiutato di spostarsi per mantenere aperto il suo negozio ad Apice Vecchia. Passiamo, così, la serata tra le strade in festa di Apice Nuova. È San Rocco e tra bancarelle, musica e panzerotti fritti ci godiamo la strana situazione. Lungo il nostro viaggio, fra i paesi abbandonati dell’entroterra italiano, è la prima volta che ci troviamo in mezzo a un po’ di confusione, e forse non ce ne dispiace. Per la notte, stanchi e un po’ provati, optiamo per un posto poco confortevole, per quanto suggestivo, e così posizioniamo i materassini sul “morbido” asfalto ai piedi del castello federiciano che domina Apice Vecchia. La mattina successiva incontriamo il barbiere 70enne Tommaso Conza (anche il paese epicentro del terremoto irpino che ha distrutto la vecchia Apice si chiama Conza). La sua bottega è quasi ai piedi del castello. Fuori sentiamo discutere animatamente, ma in maniera amichevole. Un signore ha appena finto di farsi radere la barba. Le pareti del corridoio di ingresso sono addobbate con vecchie foto di Apice. Ci presentiamo a Tommaso che si rende subito disponibile a parlare con noi. Come mai ha deciso di tenere aperta questa attività nel centro storico? Tommaso: Per me è una grande storia, sono 50-60 anni che io lavoro in questo paese. Ho servito i padri, i figli, ora i nipoti: per me è un amore fare questo mestiere, lasciare la mia attività sarebbe proprio perdere una vita [...] Apice era un paese grande, grosso, molto abitato. Faceva 7-8000 abitanti tra campagna e paese. Era un paese orgoglioso aveva lavoro. L’elemento principale era l’agricoltura. 83
Il barbiere era uno degli elementi principali, tutti si riversavano là il giovedì, la domenica, il sabato e si discuteva del più e del meno. Si diceva “le notizie vere si sanno dal barbiere”. Qua era popolatissimo, il sabato e la domenica era qualcosa di meraviglioso. Amiamo questo paese, io perlomeno personalmente. Ho detto agli amministratori: «Io voglio restare qua e basta». Nel centro storico, la stessa parola lo dice, c’è una storia. È qui che abbiamo vissuto. Io specialmente conosco il paese pietra per pietra ho lottato qua da solo per restarci. Non è che non mi piace il paese nuovo, io ci abito anche, però per me il vecchio resta la mia radice. Tommaso ci racconta di come la sua attività fosse un punto di riferimento per il paese vecchio, non la vuole trasferire perché sente comunque di avere un legame con il centro storico, anche se vive ormai nel paese doppio. Prima Apice era un centro importante della provincia beneventana. Luogo di agricoltura e allevamento, ma anche di eccelse produzioni artigianali, Tommaso ci racconta che fino agli anni ‘60 le persone della zona venivano qui per cercare lavoro. Poco dopo, la conversazione si sposta sul motivo dell’abbandono ed emerge come il terremoto in realtà abbia stimolato un processo già in atto da molti più anni. Come mai è stato abbandonato il centro storico? Tommaso: Allora la trasformazione di questo paese è dovuta al trasferimento totale del paese in seguito al terremoto. Qui abbiamo avuto due terremoti, non so se conoscete, il terremoto dell’Irpinia dell’80 e quello del ‘62. Allora si è cominciato a costruire ad Apice nuova. Per lei è stato un fatto inevitabile trasferirsi ad Apice Nuova oppure si poteva rimane qua? Tommaso: No, rimanere qua no, anche se il piacere era nostro 84
di rimanere qua, però con il nuovo sviluppo il paese era piccolo, non aveva spazi per far abitare la gente. A destra c’era il fiume, qua c’era un ruscello, non ti potevi espandere. Allora si è creduto opportuno di andare dall’altra parte, al di là del fiume, dove c’è una bella collinetta e il paese ora è grandioso. Qua non c’era posto, eravamo tutti stretti. Anche se le cose erano bellissime perché ci conoscevamo l’uno con l’altro, hai capito? Come sono le relazioni nel nuovo paese? Tommaso: Prima c’era più amicizia, adesso ci siamo un po’ allontanati, il paese è molto largo e allora l’amico che c’avevi adesso lo vedi da lontano, non so, ti ci devi dare un appuntamento, ci vediamo al bar...Ecco perché ci siamo allontanati. La gente è cresciuta e il largo ci voleva e l’unica posizione è quella che abbiamo noi adesso, una grande realtà. Anche se per noi di una certa età ci fa un po’ effetto, non è che ci siamo rimasti male ma è come se ci fossimo allontanati, si sono persi gli usi e i costumi, quelle cose belle sai? Quelle feste, quelle sagre... Come ho detto, i nuovi rapporti non sono male sono solo un po’ più distanti, distanti come la larghezza del paese e distanti tra di noi. Nel nostro paese nuovo, per fare una passeggiata bisogna programmarla...stando distanti si perdono i contatti con la gente. Perlomeno si sta avverando un mio piccolo sogno: stanno restaurando il castello, un castello famoso del XII secolo. Riapre qualcosa di nuovo, le piccole bottegucce, si apre il castello, ci sono delle sale conferenze, ci sono tante cose insomma e noi speriamo che qualcosa di nuovo venga fuori. Come se lo aspetta il centro storico tra 20 anni? Tommaso: Non mi aspetto che torni ad essere abitato, però che non lo dimentichino, ecco: se si perdono gli usi e i costumi di un paese è finita la storia. Un albero senza radici non va, non cresce, ecco le radici degli apicesi sono qui nel centro storico. I giovani di oggi non hanno colpa, poverini, perché loro non sono nati qui. 85
Però i loro genitori, i loro parenti conoscono la nostra storia e non dovrebbero far dimenticare. Ecco questo è quello che direi io per il futuro. Dal colloquio con Tommaso emerge che l’abbandono del vecchio abitato è stato più dovuto ad esigenze di espansione urbanistica che al terremoto. Infatti passeggiando per il centro storico ci sorprende vedere come molte case siano rimaste quasi intatte nonostante l’evento sismico e quasi 40 anni di abbandono. Ripensare la vita in altri spazi è stato il motivo del trasferimento, case sovrappopolate in condivisione con altre famiglie e animali rappresentavano un simbolo di arretratezza. Il paese per ragioni geografiche, stretto tra un dirupo e il fiume, non aveva la possibilità di sviluppare una periferia dove potessero sorgere nuove abitazioni più consone ai nuovi canoni della modernità. Quindi molti abitanti hanno colto “l’occasione” del terremoto per rincorrere nuove idee di sviluppo, benessere e comodità riedificando completamente il paese. Come è già avvenuto in altre interviste come causa dell’abbandono viene spesso indicato l’evento calamitoso, sebbene la ragioni siano spesso più articolate e complesse. Il disastro spiega, offre una motivazione di forza maggiore all’abbandono, gli fornisce un senso che giustifica le persone a non indagarne le cause più profonde. La ricostruzione ha degli effetti, ovviamente, disgreganti. Nel nuovo doppio anche se ci sono più servizi mancano gli spazi di aggregazione. Per le generazioni più anziane il paese vecchio rappresenta il luogo della memoria, il doppio è un posto senza storia. Tommaso non rimpiange il trasferimento, lo ritiene necessario. «La gente è cresciuta e il largo ci voleva» dice nell’intervista, ma prova nostalgia verso quelle relazioni di vicinato, gli usi e le feste di Apice Vecchia che con la ricostruzione sono andati persi. La domanda che sorge spontanea in casi come questo, in cui 86
la popolazione è tutto sommato contenta di vivere nel nuovo paese è: perché le ricostruzioni devono avvenire sempre con una cesura netta verso il passato? Riedificare il paese, anche se la comunità rimane compatta come in questo caso, ha sempre un costo in termini culturali, produce sempre degli scompensi a cui poi è difficile rimediare. Non si potrebbero prendere in considerazione questi elementi quando si trasferisce un paese cercando di pensare oltre a case più grandi (spesso molto apprezzate dagli abitanti) anche tutta una serie di relazioni, legami e saperi che non vengono tutelati? Tommaso nutre molte speranze verso la ristrutturazione, finanziata dalla Comunità Europea, del castello e di parte del centro storico, finalmente in qualche modo il borgo diventa di nuovo fruibile dalla comunità. Spera che nel futuro si recuperi parte della memoria legata ad Apice Vecchia e che questa conoscenza possa diventare patrimonio anche dei più giovani.
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DIARIO 3 L’entroterra campano è una zona strana dell’entroterra italiano. A partire dalla provincia di Campobasso, scendendo verso Benevento, Avellino e Battipaglia, la cresta appenninica cessa di essere un continuum ben identificabile. A guardarla da google maps si frammenta in piccoli massicci calcarei di deposizioni mesozoiche (l’era dei dinosauri per intenderci), isolati, separati da ampie vallate densamente coltivate e antropizzate e per lo più sconosciute al grande pubblico: i Monti del Maltese, i Monti del Partenio, il massiccio di Taburno Camposauro, i Monti Picentini, tutti sparsi in territorio campano. La nostra meta è in provincia di Benevento: Tocco Caudio, ai piedi del versante sud dei monti Taburni. Ci arriviamo attraversando le infuocate colline del beneventano, a 38°C all’ombra. Durante l’estate è impossibile non notare le palizzate di legno con centinaia di foglie di tabacco ordinatamente appese ad essiccare, una coltura tipica di questa zona fin dal ‘700, quando venne importato dal Brasile. *** Fa caldo, il sole del primo pomeriggio di Agosto ci fiacca e arriviamo a Tocco Caudio quando il paese è deserto, le persiane delle case sono abbassate e qualche macilento cane randagio si trascina alla ricerca di un poco d’ombra. Sembra un western e invece è la provincia interna di Benevento. Un anziano barista, che 88
qualcuno chiama “l’americano” per la sua lunga permanenza oltreoceano, dispensa birre ai pochi presenti; qui in questo gruppo di case degli anni ‘70 che guardano il borgo abbandonato incontriamo Marcello. *** Tocco Caudio è un comune di circa 1500 abitanti nel beneventano alle pendici del massiccio del Monte Taburno, con una storia antichissima, probabilmente insediamento già dei Sanniti. Anche la sua natura sismica si perde nella storia. Il borgo è stato più volte ricostruito, si ricorda ad esempio il terremoto del 1465 che distrusse completamente l’abitato. Questo non impedì al paese di continuare ad essere un centro importante della zona, luogo di scambi e di produzioni agricole d’eccellenza e sede nel 1600 addirittura di un’università. Nel suo passato glorioso il paese era arrivato a contare ben 12000 abitanti. Ora invece a Tocco, ci dice Marcello, un abitante, ci arrivi solo se ci vuoi davvero andare e una volta arrivato non capisci neanche bene dove sia il paese. Lo spopolamento e la crisi delle aree interne del secondo dopoguerra anche qui hanno portato molta gente ad emigrare, ma il vero colpo di grazia al centro storico, oggi completamente abbandonato, lo hanno dato i due sismi del 1962 e del 1980. Già dal primo terremoto molti abitanti avevano lasciato il borgo, tra cui la famiglia di Marcello, per ricostruire sulle loro terre fuori dal paese, ma nel 1980 l’intero paese venne dichiarato inagibile costringendo i pochi ancora rimasti, circa un centinaio, a trasferirsi altrove. Qui a Tocco l’abbandono sembra essere una malattia. Il vecchio borgo è praticamente distrutto e i crolli quasi intaccano l’ultima periferia del paese, la parte più bassa, dove le case vuote si confondono tra quelle abitate. Il resto degli abitanti sono 89
dispersi in un raggio di 27 chilometri in varie frazioni, quasi a fuggire dalla maledizione del vecchio centro. Marcello è nato nel borgo antico e ci parla di comunità dispersa ed effettivamente è così. Girando, dopo questo viaggio, l’Italia per presentare il nostro film “Entroterra. Memorie e desideri delle montagne minori” siamo stati fermati più volte alla fine della proiezione da persone originarie di Tocco visibilmente commosse per aver rivisto il loro paese nelle riprese. Abbiamo incontrato tocchesi a Milano, a Firenze, a Bologna e chissà quanti ce ne sono in Germania, Canada, Usa, Argentina; un piccolo paese che lascia le sue tracce ovunque in uno scenario globale. Per usare le parole del professore Marco Armiero, storico dell’ambiente, incontrato durante il nostro viaggio: Marco Armiero: Quando penso all’Appennino interno mi piacerebbe moltissimo che ragionassimo sulle migrazioni. Che significa collegare un paesino sperduto dell’Appennino interno a Boston, alle miniere di carbone in Pennsylvania, al disboscamento nello stato di Santa Caterina in Rio Grande do Sul in Brasile, a Melbourne in Australia? Che potrebbe significare raccontare questi posti sperduti come posti dove si intrecciano mille traiettorie diverse? Qui vale veramente quello che diceva un geografa, Doreen Massey: lo spazio non è mai quello che tu vedi ma è l’intreccio di tutte queste traiettorie che si mischiano e si ricompongono continuamente dentro lo spazio. Allora questa cosa uno pensa che funzioni bene su Londra o New York, ma che significa vedere questa cosa da un paesino dell’Abruzzo? Da un villaggio dell’Irpinia o anche da un villaggio dell’Alto Veneto? Come questi posti siano collegati dentro un assemblaggio globale di capitale, di corpi, di persone, di natura. ***
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Marcello è uno di quegli incontri casuali che ti aprono le porte del paese e della comunità che fino a quel momento era rimasta abbastanza restia a stabilire qualunque contatto con noi. Nella prima parte dell’intervista è presente insieme a Marcello un altro signore anziano anche lui nato e cresciuto a Tocco Vecchia. Mentre ci raccontano la loro storia stiamo guardando il paese vecchio da una delle nuove frazioni, il borgo abbandonato è ben visibile da tutte le contrade nuove in cui si è scisso. Lei è nato a Tocco vecchio? Abitante 1: Si io sono nato lì, dove manca quel pezzo di casa, là vicino a quel muro. C’è la storia che dice “Tocco Caudio è un paese antichissimo che è situato su una massa tufacea spoglia e corrosa dalle ingiurie del tempo e dalle emissioni telluriche”. Negli anni ‘70 ci abitavano, poi nel 1980 ha fatto il terremoto e ci siamo trasferiti al paese nuovo. Si salvò solo quel tocco di case, Qua ognuno si è fatto la casa dove voleva, hanno dato dei contributi dello Stato e c’è stata la ricostruzione. Marcello: Si è sparpagliato il paese, è esteso 27 Km quadrati, noi arriviamo quasi sul casertano, arriviamo nell’avellinese.... quel nucleo di case lì, è comune di Tocco Caudio. Abitante 1: Non è stato più formato il paese, ognuno ha avuto il contributo e la casa l’ha costruita in campagna e il paese è sparpagliato. Marcello: Ognuno si è fatto la casa dove teneva il pezzo di terra. Il vero errore è quello di aver distrutto un paese e non averne costruito uno nuovo. Perché là per esempio in quelle case lì ci sono 300 abitanti, ci sono altre frazione di 100 abitanti, 150 abitanti e quindi abbiamo perso un poco il senso della comunità, non abbiamo più luoghi di incontro, luoghi di ritrovo. Non abbiamo più una piazza per esempio dove ritrovarci, invece lì la domenica mattina arrivava tutta la gente dalla campagna. Il paese era stretto e sembrava ci fossero una miriade di persone. E quindi tu 91
parlavi con gli anziani della campagna, ti interessavi di quello che succedeva all’esterno del paese. E poi c’era questo senso comunitario di una famiglia unica, noi siamo stati molto campanilisti, nel senso buono del termine, noi siamo fieri di essere tocchesi per un semplice motivo che non siamo un paese di passaggio. Qua se ci vuoi venire ci devi venire apposta perché siamo chiusi, dal punto di vista delle strade. Prima sentivamo di avere radici comuni, ora si sono disperse. Abitante 1: Questo paesello si trova nella Valle Vitulanese e in questa valle c’erano 4-5 paesi, nel raggio di 4-5 chilometri, e ci conoscevamo tutti. Cosa si è guadagnato con la ricostruzione? Marcello: No, no, qua chi ci ha guadagnato sulla ricostruzione sono stati i tecnici, i tecnici hanno guadagnato moltissimo. Quindi l’abbandono del paese è stato causato dal terremoto? Marcello: Dal terremoto, anche se la maggior parte della gente già si era trasferita nelle campagne. Perché qua il primo terremoto fu nel ‘62, quindi già nel ‘62 iniziarono a ricostruire fuori sito, quindi già si iniziarono a sviluppare le contrade. Nell’80 quando fece il terremoto la maggioranza si era trasferita già al paese nuovo. Come ci dice l’abitante 1 e come poi ribadirà Marcello, il paese ha un’antica storia di terremoti, le persone sono coscienti di questo pericolo eppure non c’è stata la possibilità o la volontà, dopo il sisma dell’Irpinia, di continuare a vivere a Tocco Vecchio. I contributi per la ricostruzione stimolano un’edilizia incontrollata e mal governata dagli organi competenti. Si spingono le persone a ricostruire nei loro terreni fuori dal paese, senza un piano urbanistico che immagini o realizzi un nuovo centro abitato. Come dice Marcello il vero errore è 92
quello di aver distrutto un paese e non averne costruito uno nuovo. Tocco Vecchia è stata fatta semplicemente crollare, le nuove case anonime sono state costruite in 38 frazioni diverse, sparpagliate in un area di quasi 700 ettari. Il senso di comunità è stato letteralmente sconvolto dalla dispersione del nuovo paese che ha reso gli abitanti distanti e isolati. Le strade strette, le piazzette, i balconi del paese vecchio, racconta Marcello, parlano di altre relazioni e di altri affetti. Come ci dirà qualcun altro più avanti lungo il viaggio «Le case si possono ricostruire, mentre gli affetti no». La valle nel passato era una fitta trama di paesi collegati tra loro, in cui le relazioni erano giornaliere e avevano come punto d’incontro la piazza e le strade del centro storico. Il disastro ha incrinato una struttura di sentimento, modificando il paesaggio quotidiano, facendo emergere sensazioni di disorientamento. La comunità locale sembra averci guadagnato poco dalla ricostruzione, eppure tutti hanno accettato in fretta di edificare le loro case altrove. Come e sotto quali spinte un comunità prende queste importanti decisioni può essere uno stimolante campo di ricerca applicabile ai nuovi contesti in cui sono in atto le ricostruzioni post-sisma. Marcello ha una cinquantina di anni e il giorno dopo decide di accompagnarci a visitare Tocco Vecchio per portarci a vedere la casa dove è nato. Per entrare bisogna scavalcare una recinzione; al paese, come in molti altri casi, è vietato l’accesso per motivi di sicurezza e per evitare furti. Ma l’effetto è quello di precludere quei luoghi al libero accesso, quasi come per rimuovere quella memoria passata e inquietante che è l’abbandono. Questa parte dell’intervista è stata realizzata tra le strade ormai invase dai rovi di Tocco Vecchio. I progetti di riqualificazione non sono mai partiti? Marcello: No, noi una volta abbiamo tentato ma stava arrivando gente di Casal di Principe che aveva messo gli occhi su 93
questo paese per un affare da circa 80 milioni di euro. Allora uno si chiede ma se uno ha 80 milioni di euro li viene ad investire a Tocco Caudio? Era una rete di riciclaggio [...] Qua per esempio ci abitavano 3 o 4 famiglie in un vico di questi. Qua abitava mia nonna, bisognava salire quella scala si andava sopra e quello era il pollaio per le galline, e io sono nato qui in quella stanza lì sopra. Che effetto ti fa vederlo così? Marcello: Eh, eh, qualche piccola fitta insomma, forse grande. [...] C’era molto artigianato però è sparito nel periodo che va dagli anni ‘70 agli anni ‘80. Qua prima noi avevamo noci, castagne, pere, mele, ora è rimasto poco. Fanno pure la sagra del fagiolo, si sono inventati la sagra del fagiolo...Ma prima praticamente vivevano di agricoltura nonostante la terra fosse un poco arida, poco luminosa, riuscivano a vivere di agricoltura. Ora abbiamo pochissimi agricoltori nonostante a livello nazionale ci sia un ritorno alla terra. Quindi la zona era già in spopolamento prima del terremoto? Marcello: La maggior parte degli emigrati di questo paese vivono in Toscana, zona di Empoli, Scandicci, Casilina. Noi abbiamo una contrada bellissima, è una conca si chiama l’Acqua Santa, praticamente c’è rimasta una sola famiglia. Era una delle contrade più abitate di Tocco. Se ne sono andati tutti in Toscana ed è rimasta una sola famiglia. I vecchi abitanti ci tornano qua? C’è una festa? Marcello: I vecchi tornano a San Cosmo per la festa patronale, è molto sentita. Di fatti questi mandano molti soldi dall’estero per far fare la festa...i vecchi abitanti si, americani, australiani. Però non esiste più una comunità, esiste solo durante la festa patronale 94
che ti rivedi con la gente che è andata via, solo lì recuperi qualcosa delle tue radici e vivi di ricordi. Dici “ti ricordi 20 anni fa, 30 anni fa” queste cose qui. Forse più di rimpianti che di ricordi si dovrebbe vivere. Tu eri qui quando c’è stato il terremoto? Marcello: No, io stavo giocando a carte e stavo vedendo la partita. Prima se vi ricordate la Rai dava o il primo o il secondo tempo delle partite di calcio di serie A verso le 19, 19:15 che poi è l’orario del terremoto. E che ho fatto? Poiché tenevo mia nonna, la prima cosa, ho abbandonato le carte e sono andato su al paese a prendere mia nonna e l’ho portata giù insomma con i massi che cadevano con la terra che tremava... brutta esperienza. Dopo l’80 è rimasto qualcuno? Marcello: No, no, non è rimasto proprio più nessuno è stato evacuato completamente tant’è che molte persone dormivano nell’edifico scolastico. Ma poi la vera ricostruzione, il nucleo maggiore, è dove siamo stati ieri dove c’è quella comunità di migranti, perché lì l’amministrazione ha espropriato i terreni e vendette i suoli ai titolari di contributi. Quando sono arrivati qui i migranti? Marcello: A Tocco? A Tocco sarà un mesetto e mezzo. E secondo te è pronta la popolazione per un rapporto di questo tipo? Marcello: No, no culturalmente arretrata ha pregiudizio soprattutto [ride] ha dei pregiudizi nei confronti di chi è diverso. Il territorio subisce l’evento sismico nel momento di sua maggiore debolezza, mentre sono già in atto spopolamento e crisi economica. L’agricoltura e l’artigianato, settori trainanti 95
dell’economia locale non producono più reali alternative occupazionali e il paese non riesce a sfruttare quelle che da sempre sono state le sue risorse. Gli emigranti mantengono un legame con il paese d’origine, ritornano e inviano soldi per organizzare la festa di San Cosmo. Per Marcello la festa diventa il momento dei rimpianti perché rende evidente una storia di speculazioni, attese ed opportunità perse. Dopo averci accompagnato per i ruderi del paese vecchio, Marcello intercede per noi con il parroco del paese, per farci montare la tenda sotto una tettoia della chiesa, praticamente nella piazza principale. Ma va bene così: è tardi e il meteo porta pioggia.
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DIARIO 1 Il massiccio del Taburno emerge dalla piana beneventana quasi come un intruso nel paesaggio, un frammento di Appennino alla deriva arrivato in pianura chissà come. Nel complesso, è formato da sei monti, il Camposauro, il monte Alto Rotondi, il Sant’Angelo, il Gaudello il Pentime,e il Taburno, che sfiorando i 1400 metri è la più alta del massiccio. Qui più che in altre zone appenniniche, si sente l’influenza del Mediterraneo: ai castagni, lecci e carpini, si aggiungono olivi e vigneti, coltivati qui fin da epoche preromane, insieme a piante più tipiche della macchia mediterranea che insieme ai faggi delle quote più alte e le abetaie introdotte dai Borboni nell’800 creano un mosaico vegetazionale estremamente variegato. Racchiusa all’interno del massiccio, il Piano Melaino è una perfetta zona per una notte in tenda, un dolce avvallamento carsico prodotto dall’erosione dell’acqua piovana che ha formato una suggestiva piana, con un vasto pascolo circondato da bosco misto. *** 14:15, non è il miglior orario per camminare sotto il sole e a stomaco vuoto. Incontriamo sulla strada una scritta che preannuncia il paese di Cautano, rapidamente ci infiliamo tra le due grandi montagne. Forse il paese è in festa o lo sarà presto, grande movimento per le strette vie e alcuni operai intenti a fissare sui lampioni catene di luci colorate. Tutto ciò mette 97
un forte appetito e notiamo una bottega ancora aperta. Nel banco frigo sono contenute delle mozzarelle ne prendiamo quattro e le mangiamo subito come fossero mele. Soddisfatti, ci dirigiamo verso la piazza del paese per capire che aria tira. Entriamo nel bar tutti e quattro compreso il cane. Chiedo informazioni riguardo strade e sentieri dai quali è possibile raggiungere il Taburno, il ragazzo del banco ci risponde indicandone alcuni e dicendo che campeggiare in quelle aree non è un problema. Chiediamo delle birre e ci confrontiamo per pianificare le prossime notti in questa zona. Lentamente si avvicina un uomo, mani grandi e busto largo. Chiede del nostro viaggio e ci offre un caffè, poi ci parla un po’ di lui.Mario Savoia vive a pochi chilometri dal paese, ci invita a vedere il luogo dove lavora la pietra. Con lui parliamo soprattutto del suo lavoro e della storia della montagna del Taburno. *** Mario è un artigiano locale. Tramite il suo lavoro vorrebbe creare sia una fonte occupazionale per i giovani, in modo da frenare l’emigrazione, sia valorizzare il territorio. Tra le sculture che ci mostra, due le più interessanti: una rievoca l’avvenimento delle forche caudine e l’altra è un calco bronzeo di una vecchia maga di questa zona. Tu cosa fai qui? Lavori la pietra? Mario: Si io lavoro la pietra da più di 40 anni. Quando avevo 12, 13 anni durante il periodo estivo andavo nella bottega dal mastro a imparare il mestiere e sono stato qui a imparare per 2-3 anni da mastro Rocco, un uomo molto grande poderoso fisicamente 98
[…] Nel tempo ho continuato a sperimentare con la pietra fino ad avere l’intenzione di fare una scuola di scultura. La pietra, lavorarla a livello artigianale, ornamentale può essere una risorsa, potrebbe diventare anche una fonte di occupazione. Quindi l’idea di questa scuola mira soprattutto a creare lavoro. Perché noi non possiamo sperare che vengano a metterci le fabbriche, anzi ci auguriamo che non le vengano a mettere perché altrimenti rischiamo di perdere anche questo piccolo angolo di paradiso. In che modo il tuo lavoro ha a che fare con il territorio circostante? Mario: Con l’associazione culturale “Pietra Mania”, gestita da me da vari anni, riprenderemo l’anno prossimo nel 2017 cercando di fare proprio delle rievocazioni storiche sia per quanto riguarda il brigantaggio sia per quanto riguarda i sanniti. Perché questa zona è stata anche il teatro delle Forche Caudine, la famosa umiliazione di Roma che i sanniti imposero ai romani per punizione. Sul Taburno anticamente ci si andava solo con muli, asini, ed è stato sempre un rifugio di persone che scappavano, fuorilegge oppure dei briganti, i quali ne hanno fatto il loro rifugio personalizzato perché i gendarmi non potevano accedere facilmente a questa montagna, non avendo mezzi a disposizione dovevano raggiungerla sempre a piedi. In un certo senso non solo il Taburno ma tutto il Sannio avrebbe tante cose da dire, poco pubblicizzato perché abbiamo secondo me una categoria di rappresentanza politica molto debole in campo nazionale. Ma soprattutto la regione Campania ha fatto poco per questo entroterra che secondo me è una cosa straordinaria, sia per quanto riguarda questi segni di agricoltura ancora sani e sia per quanto riguarda diciamo proprio l’acqua, l’aria, il clima e la vegetazione.
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A Mario piace ricordarci che queste montagne erano frequentate da ribelli, fuggitivi e briganti che sfruttavano la conoscenza del territorio per sfuggire alla legge. In qualche modo ci narra altre storie, alternative ai racconti ufficiali di luoghi che hanno molto da dire ma che rimangono inespressi, non pubblicizzati; da alcuni punti di vista è meglio così pensa Mario, meglio che non ci siano industrie ad inquinare questa terra. Finché certe risorse come la terra, l’aria, i fiumi e i boschi vengono tutelati c’è sempre la speranza di ripartire. Mario è affascinato dalla storia di questa montagna che ricorda tramite le sue opere, una montagna che ora, per la verità, è molto poco frequentata. Mario: Per me vivere qua significa soprattutto sacrifici perché qui il territorio offre poco, purtroppo l’economia della zona è un po’ martoriata, ma non ci sono fabbriche fortunatamente. Però vivere qui, ripeto, con tanti sacrifici, è sempre meglio che vivere in altre zone inquinate. Perché ci sono due aspetti della medaglia c’è una aspetto negativo e c’è quello positivo in quanto è vero che non c’è economia però abbiamo un’aria bellissima, un buon clima, il verde, quindi non abbiamo grossi inquinamenti. Abbiamo un’aria che si può respirare anzi qui credo che sia adatto proprio per far trascorre alla gente un periodo per purificarsi, disintossicarsi. Cioè per la gente che vive nelle grosse metropoli qui è l’habitat ideale per disintossicarsi.[...] Hai detto che adesso la montagna è in uno stato di abbandono? Mario: Abbandono significa anche bellezza, nel senso di abbandono al crescere spontaneo della montagna. Però abbandono significa anche che ci sono persone che pensano di andare a scaricare qualcosina. Quindi abbandono significa soprattutto non controllo del territorio, perché questa è una zona che andrebbe controllata soprattutto dalle istituzioni in quanto si nota di tanto 100
in tanto anche qualche aggressione al territorio magari qualcuno scava, qualcuno taglia i boschi abusivamente. Ci sono ancora questi segni che secondo me dovrebbero essere molto, molto controllati cosa che manca, questo è il senso dell’abbandono negativo. Perché ripeto l’abbandono naturale sarebbe molto bello perché non andando ad aggredire la montagna quello sarebbe un abbandono naturale, cioè far crescere la vegetazione. Se c’è aggressione è un abbandono pericoloso. Addentrandoci sui sentieri del Taburno abbiamo notato che le persone si affollano solo nelle aree pic-nic che sono raggiungibili con l’automobile, lasciando in natura una grande quantità di rifiuti; mentre non esiste una rete sentieristica fruibile e segnalata. La montagna viene vissuta solo con i pranzi della Domenica, nessuno più si addentra nei suoi boschi o ne conosce le storie. È questo l’abbandono pericoloso di cui parla Mario, quello provocato dalla disattenzione, dalla non conoscenza del proprio territorio che genera il mancato rispetto degli equilibri ambientali, che invece prima erano considerati una risorsa preziosa. L’abbandono in sé avrebbe anche degli aspetti positivi, permetterebbe alla natura e al bosco di ricrescere spontaneo, i fiumi non sarebbero inquinati, gli animali potrebbero riprodursi spontaneamente. Invece dopo questo tipo di abbandono spesso insorgono fenomeni come: diboscamento, le discariche abusive, l’erosione incontrollata delle pendici montane, bracconaggio. Questo succede perché nessuno si occupa più di quella montagna, nessuno ne ha più a cuore la salute e la riproducibilità. Queste aree interne diventano terra di confine in cui è lecito inquinare e speculare perché nessuna comunità si sentirà ferita per questo, anche se ne subisce i danni. Se la montagna, il bosco non vengono più percepite come zone produttive, o come il prolungamento dello spazio di vita quotidiano di quelle comunità che li vivono, allora nessun proget101
to di tutela può salvare queste zone dal degrado. Come ci ha detto il professore Marco Armiero: Marco Armiero: Abbiamo un sacco di cose in Italia e soprattutto nelle aree interne ed è chiaro ed evidente che queste cose non sono valorizzate, che non c’è un ragionamento su queste cose. Però quando io dico valorizzato mentre lo dico mi spavento, se valorizzato vuol dire che qualcuno arriva e decide il valore di quella cosa meglio tenerle non valorizzate, il valore di quella cosa è data dalla comunità che l’ha creata.
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DIARIO 2 Sono montagne brulle quelle intorno a Romagnano, una terra semiarida di pastori e briganti. Nel vallone al di sotto del paese c’è un ponte che attraversa il fiume Platano, la leggenda dice che di lì sia passato Annibale con il suo carico di uomini ed elefanti. *** Romagnano a Monte è un piccolo comune di meno di 400 abitanti, a nord-est del Parco del Cilento e a Sud dei Monti Picentini. Il paese vecchio è stato abbandonato dopo il terremoto dell’Irpinia del 1980 ed è stato edificato in tre diverse località: Ariola (Romagnano nuova) a pochi chilometri di distanza dal vecchio borgo, Romagnano Scalo, giù nella valle e Palazzo. Ancora oggi è molto dissestata e lunga la strada per raggiungere il paese abbandonato, che si trova arroccato su uno sperone roccioso a picco sulla valle del Fiume Platano che segna il confine tra Basilicata e Campania. Arriviamo a Romagnano in un torrido pomeriggio di Agosto, la vegetazione intorno al paese è bruciata dando quell’impressione desertica tipica dei paesaggi meridionali. Il borgo è silenzioso e ingabbiato da una vera e propria armatura di impalcature, le case puntellate a vicenda si sorreggono in una precarietà esistenziale. Questi ponteggi sembrano ragnatele che avvolgono il paese diventando metafora di un tempo sospeso. Passeggiando per Romagnano Vecchia mi diviene chiaro quanto la retorica intorno ai paesi abbandonati che li rappresenta come luoghi di mistero e di fantasmi, sia un discorso che punti 103
a rimuovere dalla memoria collettiva tanti piccoli drammi che contraddistinguono la storia di questi luoghi. Un dramma fatto di emigrazione, di speranze deluse, di speculazioni sulla vita della gente, la sofferenza di uno sviluppo atteso e mai arrivato. Come di consueto, facciamo un giro tra i ruderi, ci dividiamo ognuno immerso nei suoi pensieri, entriamo in case, fienili, stalle, chiese, cantine e camere da letto protette da un silenzio mai immobile. Il riecheggiare di campanacci ci indica la presenza di un gregge. Subito dopo incontriamo Giovanni, un pastore sessantenne che ha vissuto qui fino al terremoto, lo accompagna un ragazzo che però non vuole parlare con noi. Peccato perché sarebbe stata una buona occasione per cogliere il suo punto di vista su questo mestiere, infatti è il primo pastore molto giovane che incontriamo dall’inizio del viaggio. Giovanni ci dice che il ragazzo non è un suo parente e che gli dà una mano con il gregge quando non va a scuola, ha la passione per questo mestiere ma allo stesso tempo non vuole abbandonare gli studi. Giovanni dice di essere d’accordo con questa sua decisione, lui che da analfabeta non ha mai potuto studiare si rende conto che per fare il pastore nel 2000 ci vuole anche la scuola. Come era prima il paese? Giovanni: C’erano le terre, prima lavoravano tutti quanti, ora non si lavora. Si andava a piedi, prima c’erano i ciucci, gli asini, c’erano le moto agricole, comunque la gente si muoveva. Nelle terre si mieteva il grano i vecchi nostri prima stavano anche la notte in campagna per mietere il grano. Dicevano che questi paesi qua venivano costruiti sulle cime proprio per potersi guardare dai briganti, dicevano [...] Chi lavorava con una ditta, chi la terra, chi il pastore, io il pastore lo sto facendo adesso, ora che sono vecchio. Io sono stato in Germania. Per lavoro sono emigrati in tanti e tanti da qua.
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Che lavoro facevi in Germania? Giovanni: Ho lavorato nella Volkswagen, 5-6 anni poi sono tornato e ho sempre lavorato. Hai imparato il tedesco? Giovanni: Io sono analfabeta come dovevo imparare il tedesco? Imparavo il necessario [ride]. Io ho solo un nipote, un figlio di mia figlia, che è emigrato, ha fatto i concorsi all’estero e l’hanno chiamato in Germania, lavora nell’università in Germania. Come si è iniziato a spopolare il paese? Giovanni: Si è iniziato a spopolare con il terremoto e chi se ne è andato a Torino, chi a Milano, chi in Svizzera, qualcuno in Germania, ancora adesso ci stanno famiglie intere che stanno là. [...] Queste case qua, la sera del terremoto ne è caduta una sola poi dopo il paese è stato in abbandono: 36 anni, 23 Novembre 1980. Una casa sola, la parte di sopra. Quassù c’era la casa mia l’avevo finita 3 anni prima del terremoto, nel ‘77, avevo la casa fatta nuova che se uno va a vedere è ancora intatta, ma purtroppo ce ne andammo. Lei era qua durante il terremoto? Giovanni: Eravamo nel bar, mi stavo prendendo il caffè, mi sono avvicinato vicino al bancone e c’era un cane, un cane lupo come quello [indica un cane pastore], lui se ne accorse per primo. Vedemmo che si mise in movimento, se ne andò la luce poi uscimmo nella piazza davanti al bar. Il paese nuovo è stato costruito subito dopo il terremoto? Giovanni: No, dopo il terremoto hanno fatto i prefabbricati, poi dopo hanno costruito le case, ma nelle case siamo andati oltre 10 anni dopo.
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Vi hanno dato dei contributi? Giovanni: Hanno fatto la casa nuova, comunque mi hanno dato la casa là. Chi tiene mantiene, ma che vuoi fare! Poi diciamo là ha più vie di uscita il paese, hai capito? Qua non c’erano strade... Lei viene spesso qui al paese vecchio? Giovanni: Io sto sempre qua tutti i giorni. Ma per le pecore? Giovanni: E che devo venire a fare? [ride] Non hai nemmeno con chi parlare se vieni solo... Che differenza c’è tra il paese nuovo e il paese vecchio? Giovanni: Io mi trovavo più qua, eravamo più abituati, eravamo cresciuti più qua da piccoli. Ora quando vengo qui è tutta un’altra cosa, avevamo la montagna di fronte...insomma eravamo cresciuti più qua. Dopo in un secondo tempo era pure per dare un poco di uscita in più al paese, perché lì c’era più movimento, più strade invece qua... Contro lo stereotipo che descrive l’entroterra del Sud come immobile, Giovanni ci racconta una montagna vissuta e produttiva. Ci parla del suo passato di emigrazione, qui non si trovava più lavoro e come tanti altri è andato in Germania a lavorare in fabbrica. Il terremoto ha accelerato questo processo di spopolamento. Come per Tocco Caudio, la ricostruzione a Romagnano non segue una coerenza, gli abitanti vengono divisi in due località, molti emigrano e i prefabbricati fanno ancora parte del paese nuovo. Le baracche del terremoto sono il simbolo di tante zone interne sospese nella precarietà di ricostruzioni mai finite. Anche nel caso di Romagnano la comunità locale non ha avuto 106
voce in capitolo nella ricostruzione. Giovanni dice: «Chi tiene, mantiene», come per dire che chi ha il potere prende le decisioni. Il paese nuovo è comunque percepito come un miglioramento perché è più raggiungibile e più comodo. La natura arroccata del borgo, come per Tocco ed Apice, non consentiva un’espansione urbanistica, la posizione che per secoli era stata considerata strategica ora viene avvertita come un limite. Il pastore comunque ci dice che quelli della sua generazione non si sono mai abituati del tutto al nuovo paese. Giovanni continua a portare le sue pecore qui, è il testimone della morte graduale del borgo, vede questo luogo profanato dai ladri e dai vandali. Ci racconta della festa della Madonna del Carmine che si svolge nel periodo primaverile: la tradizione prevede che il quadro della Madonna passi prima da Romagnano Scalo per poi ritornare dopo un mese a Romagnano a Monte. Un rito che unisce due comunità e che assomiglia molto alle processioni che dalle montagne scendono verso i doppi sulle marine. Romagnano come tutta questa zona della Campania ha una lunga storia di terremoti, anche recenti e devastanti, la cui memoria va coltivata perché costituisce il più basilare strumento di prevenzione. Potrebbe essere importante recuperare anche gli antichi saperi di costruzione, le case scavate nella roccia che hanno resistito meglio del cemento armato a numerosi eventi disastrosi.
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RAGNATELA Tocco d’Africa
“Tutta la mia vita in un folio” era questa la scritta fatta con un pennarello che solcava la vernice gialla scrostata del muro della sala da pranzo del centro d’accoglienza in cui siamo entrati a Tocco Caudio. Quella scritta, per me che ho lavorato per un breve periodo nell’accoglienza, sintetizza quella vita di attesa, discriminazione e solitudine che i migranti spesso si trovano a subire. A contatto con i migranti ho provato a comprendere le loro motivazioni e le loro aspettative, scoprendo che non erano così diverse dalle mie, semplici ragazzi con la sacrosanta aspirazione ad avere una vita migliore; come ci ha detto la professoressa Vincenza Pellegrino: «Una ricerca di senso che nasce da uno scollamento tra aspettative incubate e quello che ci offre il presente». Vivendo la loro quotidianità mi sono promesso di raccontare i loro disagi e le loro privazioni per contrastare il clima razzista e xenofobo dilagante nel nostro paese, per smentire con la mia esperienza pratica tutte le menzogne che vengono raccontate sull’accoglienza e per resta108
re umani e non indifferenti verso il più grande dramma della nostra contemporaneità. Più volte ho ripensato alla prima volta in cui sono entrato in un centro d’accoglienza, proprio lì a Tocco Caudio durante il viaggio, non sapendo che quei luoghi sarebbero stati anche parte del mio futuro, non sapendo che voci e problemi simili li avrei sentiti molte altre volte. *** Sul finale dell’intervista Marcello nomina una comunità di migranti che è da pochi mesi ospitata in una delle frazioni del paese nuovo di Tocco Caudio, in un centro di accoglienza. Incuriositi dalla situazione decidiamo di andare a vedere e conoscere questi richiedenti asilo e dato che non ci sono controlli all’ingresso riusciamo ad entrare nella struttura (un CAS) per provare a parlare con qualcuna delle persone ospitate. Marcello ci spinge a varcare la soglia, non eravamo pronti a quest’incontro e prima di poter pensare a quali fossero le domande più opportune da porre ci troviamo in una situazione che non riusciamo bene a gestire. Si tratta di una sessantina di migranti, quasi tutti dell’Africa subsahariana occidentale che alloggiano in una piccola casa, dopo aver parlato con alcuni di loro ci portano da un ragazzo che riusciva a comunicare in inglese. Saliamo delle scale buie su cui sono assiepati decine di ragazzi alcuni ci vengono incontro incuriositi altri chiudono le loro stanze e ci spiano da dietro le porte diffidenti. Realizziamo così la più strana intervista del viaggio in tre lingue diverse. Decidiamo di non riprendere l’incontro, di cui prendiamo solo l’audio, per non mettere in difficoltà i ragazzi che accettano di essere intervistati, sappiamo che per loro esporsi pubblicamente in una situazione di simile precarietà è un forte rischio. In una decina si radunano intorno a noi e ci comu109
nicano il loro disagio, sono esasperati, qui dentro si sentono come in galera: cibo cattivo e nessuna cura medica, non hanno possibilità di spostarsi o di lavorare. Isolati senza operatori che sappiano comunicare nella loro lingua o che gli insegnino l’italiano, senza sapere cosa faranno o dove saranno in futuro, il presente è fatto di giorni tutti uguali in attesa di un “folio”, l’ennesima pratica burocratica di cui non capiscono il senso. Non riescono facilmente a spostarsi nei paesi vicini per mancanza di mezzi pubblici, e fanno difficoltà a relazionarsi con la comunità locale perché non conoscono la lingua. Il centro sembra essere un contesto avulso, una bolla, rispetto alla realtà circostante, sono costretti a passare le loro giornate senza stimoli in attesa di non si sa bene cosa. È un incontro che ci lascia scossi, non sappiamo cosa trarre da quest’esperienza né come mostrargli la nostra vicinanza. Ce ne andiamo con un generico “buona fortuna”. Stranamente tra di noi non parliamo subito di quello che accaduto, come facciamo dopo quasi ogni intervista, lasciamo passare del tempo per rifletterci su. La sensazione è quella di aver incontrato una di quelle tipiche esperienze di accoglienza sbagliata, ghetti di montagna periferici, un altro problema in una zona già precaria. Migranti parcheggiati in un edificio lontano dalle altre persone con pochissime possibilità di integrarsi nel già debole tessuto sociale ed economico del paese. Può nascere solo odio, diffidenza e razzismo da gestioni simili. Invece di creare nuovi cittadini attivi, che in questi luoghi sarebbero linfa vitale, si fanno sentire ancora più marginali i locali a cui si lancia la nuova sfida di accogliere questa gente senza i mezzi per poterla affrontare. Le nostre previsioni e quelle di Marcello si rivelano purtroppo esatte. Nel mese di Febbraio 2017 il sindaco di Vitulano, un comune a soli 10 km da Tocco Caudio, ha protestato contro l’arrivo di nuovi richiedenti asilo nel suo territorio, facendo sbarrare l’accesso alla strada della struttura che avrebbe dovuto 110
ospitarli. Il sindaco ha detto ai giornalisti, che nonostante la zona del Sannio sia da sempre ospitale, questi piccoli paesi ora non sono in grado di garantire un’accoglienza degna per altri migranti. *** Del resto se la montagna continua ad essere un luogo di marginalità, di disservizi e di isolamento anche per le popolazioni locali, che infatti continuano ad emigrare, è difficile immaginarla come un luogo accogliente per chi viene da altre parti del mondo e che si sposta magari con gli stessi sogni di modernità e benessere di chi è partito da qui. Bisognerebbe cambiare i meccanismi economici e sociali delle aree interne per riuscire ad integrare persone nuove motivate a rimanere, per salvare queste montagne “ricche di vita e prive di corpi”. Da quanto emerge nelle nostre interviste l’accoglienza di migranti in montagna è un opportunità, ma ad oggi non molto concreta. Da quello che hanno detto gli intervistati, e in base alle impressioni che sono state raccolte nell’unico centro di accoglienza, i migranti vivono la montagna come un luogo di segregazione. L’inserimento di stranieri in queste piccole comunità dovrebbe essere realizzato con la collaborazione della popolazione locale e con l’arrivo di altri progetti di sviluppo calibrati che ridisegnino il vivere in montagna. Per frenare lo spopolamento è necessario attivare delle strategie plurali e diversificate, è offensivo pensare che queste persone possano stare meglio in montagna solo per riempire i vuoti delle aree interne. Le vecchie pratiche di ospitalità del viandante, del forestiero che in certi luoghi vengono ancora praticate, come abbiamo potuto sperimentare durante il nostro viaggio, potrebbero essere delle importanti risorse per costruire dei percorsi partecipati di accoglienza dei migranti. 111
Di seguito riportiamo uno stralcio di un’intervista realizzata al professor Vito Teti a proposito del tema montagne e accoglienza. Quali limiti ha l’accoglienza di migranti in questi paesi di montagna? Vito Teti: Queste sono aree che potrebbero riscoprire in una vocazione di accoglienza e di ospitalità una ragione d’essere, quindi da questo punto di vista ben vengano le esperienze di accoglienza di immigrati nei paesi. Nel caso di Riace che ho seguito dall’inizio e di altri paesi della provincia di Cosenza, senza un po’ di manodopera straniera, senza le badanti avrebbero avuto una vita molto più difficile […] Ragioniamo in maniera diversa anche dicendoci cose scomode: li metti nelle case, li fai lavorare, gli dai un prospettiva altrimenti è un ghetto. D’inverno adesso in quartieri vuoti e strade vuote porti cento immigrati. La gente comincia ad avere paura, a non uscire, a interrogarsi: perché? Che economia portano questi qua? Che integrazione fanno? E quindi è un gioco al massacro perché anziché far diventare l’accoglienza e l’integrazione una risorsa, passeranno piuttosto i discorsi alla Salvini, ma non solo perché la gente è xenofoba e cattiva ma perché è questo modello di accoglienza che non funziona. Dopodiché io non penso che tutti i paesi possano essere riempiti attraverso l’arrivo degli immigrati, non credo a questo modello ma a interventi plurali, più diversificati zona per zona: qui ci può essere l’arrivo degli immigrati, lì ci può essere la riscoperta del fagiolo unico che diventa attrattivo ed esportabile anche fuori, lì c’è la cascata che non hai in nessun’altra parte del mondo. Creare delle reti tra questi paesi. Quindi le vie di un possibile ripopolamento potrebbero essere tante e diversificate però ci vuole un progetto politico generale, ci vuole un’idea del territorio in cui abiti, ci vuole un’altra idea dell’interno e della montagna quindi ci vorrebbe una classe politica capace di guardare le cose in maniera diversa, di mettere in discussione questo modello di sviluppo. 112
Riace è una cittadina calabrese divenuta simbolo di integrazione, infatti dal 2004, per contrastare quello che sembrava un inesorabile processo di spopolamento del paese, il sindaco ha avviato un programma d’accoglienza per richiedenti asilo ospitando in questi anni circa 6000 migranti di 20 nazionalità diverse. Quelle case ormai vuote a causa di chi era emigrato oltreoceano ora potevano rivivere grazie a chi attraversa il Mediterraneo negli anni 2000. Attualmente il paese è abitato per metà da riacesi di nascita e per metà da stranieri. Il sindaco di Riace Domenico Lucano è stato duramente attaccato dal ministro dell’interno Matteo Salvini e la conseguenza immediata è stato il blocco da parte di prefettura e governo dei fondi indispensabili per mandare avanti questa esperienza che oggi è seriamente minacciata e rischia di scomparire condannando questo paese allo spopolamento. Anche Badolato, Caulonia, Sant’Alessio in Aspromonte, Soverato sono paesi del’entroterra calabrese che contrastano lo spopolamento con l’arrivo di migranti, ospitano diversi progetti SPRAR che hanno consentito una ripresa del centro storico oltre che delle reti sociali indebolite e una rivitalizzazione dell’economia locale. Anche il futuro dei mestieri tradizionali può vedere nell’arrivo degli stranieri un antidoto alla scomparsa definitiva, ce lo insegnano ad esempio i pastori rumeni che abbiamo incontrato in Abruzzo nel nostro viaggio e che portano avanti questo lavoro antichissimo sostituendo le giovani generazioni locali andate altrove. C’è da chiedersi se le nostre montagne possano dare delle risposte a quella ricerca di senso che muove le migrazioni di chi attraversa il Mediterraneo oggi, le nostre montagne sono un’opportunità per loro come lo è stata l’America per molti degli emigrati italiani? Se il motore principale di ogni partenza è la distanza che percepiamo tra la nostra quotidianità e il modello culturale di cui subiamo l’influenza, c’è da doman113
darsi come le nostre montagne possano essere attrattive. La prospettiva con cui in tanti decidono di migrare spesso risente della medesima rappresentazione culturale: cercare una possibile integrazione nei centri urbani, quel , quegli oggetti di consumo, quei servizi che rappresentano degli status symbol dell’Occidente. Da questo punto di vista la professoressa Vincenza Pellegrino ci ha fornito delle interpretazioni molto interessanti che riportiamo qui di seguito. Vincenza Pellegrino: In realtà ciò che muove le migrazioni, direi in quasi tutti i contesti, è una ricerca di senso, cioè uno scollamento tra aspettative incubate mediaticamente, per catene, per generazioni, uno scollamento tra le aspettative e ciò che invece la vita dove si vive propone. Questa spinta di ricerca, di senso esistenziale è sempre il motore primo delle migrazioni quasi sempre, tranne per le migrazioni forzate che adesso tornano in questi ultimi anni [...] Abbandono, migrazioni e ripopolamento a me subito non suona benissimo per la mia esperienza, per il desiderio dei migranti, per quello che si trascina con sè. Penso che essendomi occupata di migrazioni, le persone hanno voglia comunque di arrivare e di vivere nei contesti che loro hanno nella mente, che sono quelli urbani, quelli di possibilità di servizi per i propri figli. Difficile pensare e quindi ripilotare il desiderio degli altri anche se gli dai una collocazione materialmente percorribile. Il non sapere una lingua in un posto lontano, non sapere come muoverti. Io ho vissuto esperienze un po’ traumatiche della collocazione dei richiedenti asilo in piccoli paesi, questo è vero. Dall’altro lato è anche vero che proprio questa esperienza di tenuta fisica: aspettare la corriera, saper percorrere sei chilometri per arrivare nell’altro paese, la capacità della vita e della rianimazione del paese nelle persone migranti effettivamente è forte, è maggiore, è più intergenerazionale, è più autorganizzativa...Quindi loro sono una risorsa per i paesi bisogna vedere se i paesi nostri sono una risorsa per 114
loro. In questo ancora una volta la fa da padrone secondo me la politica, l’ottica, la dimensione anche organizzativa. Perché è vero che le comunità poi si creano spontaneamente ma è anche vero che se c’è una cultura dell’accoglienza che ti mette a disposizione molto concretamente corsi di lingua per le mamme, pullman, cioè se c’è il tessuto elastico si crea e si compensa anche l’aspettativa di vivere altrove e crea qualcosa di vitale. Se c’è invece questo ripopolamento un po’ immaginario e bucolico, che poi nei fatti è isolamento di chi è appena arrivato, non ci credo tanto. Quindi ci vuole una politica forte allora si... Non ci sono strategie univoche per salvare i borghi di montagna, il tempo dei miracoli in cui i santi patroni intervenivano per salvare i paesi è ormai finito, forse però delle madonne e dei cristi neri potrebbero arrivare dalle coste come è successo tante volte in passato. L’arrivo di migranti non è la migliore nè l’unica soluzione per salvare l’Appennino dall’abbandono, ma in un periodo in cui i porti e i mari chiudono se non vogliamo che anche i nostri paesi dell’interno chiudano definitivamente forse dobbiamo interrogarci su come e in che modo farli essere accoglienti verso lo straniero.
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CAPITOLO QUARTO CALABRIA Entroterra mediterraneo
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DIARIO 4 Nel 1911 scoppia una rivolta a Verbicaro. La popolazione insorge contro lo Stato e le autorità locali perché li ritiene responsabili di avvelenare l’acqua della fontana pubblica e quindi di provocare un’epidemia di colera che aveva ucciso 22 persone. La folla assalta con roncole e zappe la caserma dei carabinieri e il comune, uccidendo un segretario comunale e interrompendo tutte le linee di comunicazione del paese. La rivolta verrà sedata solo con l’arrivo dell’esercito. Fino agli anni ‘50 alcuni dizionari italiani riportavano il termine verbicarismo come un sinonimo di arretratezza e di istinti primitivi. Come tante altre rivolte contadine, questi eventi straordinari manifestano una situazione di conflitto sociale latente, frutto della marginalizzazione e dello sfruttamento di queste zone da parte del potere centrale. La rivolta di Verbicaro richiamava l’attenzione sui problemi delle aree interne smorzando gli entusiasmi dell’unificazione e della nazionalizzazione. Popolazioni che appartenevano a un mondo che conoscevano lo Stato sotto forma di esattori delle tasse, poliziotti, soldati e prigioni. *** Verbicaro è un comune dell’entroterra calabrese, nell’Alto Tirreno cosentino, e ancora oggi conta circa 3000 abitanti. Tuttavia il suo centro storico versa in una situazione di abbandono pressoché totale. Verbicaro ha una storia antichissima, il suo nome probabilmente deriva dalla parola latina pastore, 118
che ci racconta della vocazione produttiva della zona: soprattutto allevamento e viticoltura. Il centro storico di Verbicaro - degno di un dipinto di Escher con le sue scale dalle prospettive impossibili - è un vero spettacolo che lascia sbalorditi i pochi visitatori che lo scoprono. Nonostante la sua bellezza, nonostante si trovi nel Parco del Pollino, nonostante qui si svolga nella settimana Santa l’antica processione dei battenti, nonostante sia terra di vini e di sapori speciali, Verbicaro non è un paese turistico. La parte vecchia del paese, situata su un promontorio roccioso carbonatico, oggi conta pochissimi abitanti, molti sono emigrati a nord e all’estero, mentre altri hanno semplicemente costruito le loro case nella parte nuova che fa da cintura all’antico abitato. L’abbandono del centro storico di Verbicaro è avvenuto a causa delle spinte migratorie del secolo scorso ma anche perché mutando gli standard abitativi e di vita, quelle vecchie case non sembravano più adattarsi alle idee di progresso che si stavano affermando. Il risultato, come in molti altri luoghi, è stato l’abbandono del centro storico e allo stesso tempo il proliferare di soluzioni abitative abbastanza discutibili e poco montane, come palazzine di sei piani e villette a schiera. Quel che è peggio è che parte consistente del paese nuovo è stato costruito in zona franosa, con gravi problemi irrisolti ancora oggi; per cui le vecchie case abbandonate da cinquanta anni continuano a rimanere in piedi mentre a crollare sono i palazzi nuovi edificati con molti sacrifici economici. Verbicaro può essere l’esempio di tante storie di spopolamento di centri storici: a metà del Novecento c’è stato un momento in cui quelle case e quegli spazi tradizionali vennero percepiti come tuguri da cui scappare. Ripercorriamo le trasformazioni di questo paese a partire dalla voce di Felice Spingola ex sindaco di Verbicaro - studioso di sociologia ed economia dell’ambiente e con un passato lavorativo anche in organismi internazionali come FAO e UNICEF - che ha 119
avviato diverse iniziative per recuperare il centro storico, oltre ad essere un grande conoscitore della storia del borgo. Ma Spingola non è semplicemente un tecnico o un amministratore, prima di tutto è un verbicarese. È uno dei pochi che vive nel centro storico, ha speso molti dei suoi anni da sindaco a cercare di rivalutare questa zona del paese e a monitorare i crolli nella parte nuova. Spingola ha dovuto governare da amministratore i complessi fenomeni che abbiamo incontrato continuamente durante il nostro viaggio: spopolamento, ricostruzioni frettolose e abusive, dissesto idrogeologico, crisi del tessuto economico, sfaldamento dei legami comunitari. Come è iniziato lo spopolamento di questa zona? Felice: I grossi spopolamenti di queste aree interne si originano dopo l’Unità d’Italia. Per il Sud è tragico, perché il Sud ha una guerra civile quella del brigantaggio che dura più di 2 decenni, prima che ne vengano a capo i piemontesi con i massacri ormai noti. Il periodo post-unitario, il brigantaggio, la chiusura di Moggiana, la distruzione sistematica del tessuto produttivo meridionale porta alla grande migrazione. Dalla Calabria migrano quasi un milione di persone, di cui 800 mila sono in maggioranza dell’area del nord della Calabria. Questo determina un impoverimento ulteriore del meridione e delle aree interne del meridione e qui si ha la grande migrazione. La grande migrazione a cui si aggiunge nel secondo dopoguerra l’altra grande emigrazione che è quella verso il Nord, verso la Svizzera, la Francia, il Belgio, la Germania. Quelli che migrano, almeno gli americani nel caso specifico di Verbicaro, ma è comune anche ad altre situazioni, questi che migrano in California spesso partivano e non sapevano neanche dove andavano. Erano convinti che l’America fosse tutta New York e poi si ritrovavano in Brasile, in Argentina, in Uruguay, Paraguay, Venezuela queste sono situazioni abbastanza diffuse, la catena emigratoria entra in gioco dopo quando c’è già qualcuno della 120
famiglia che è lì e richiama un altro dicendo: «Vieni qua che c’è da fare». Invece i primi che partono, partono non sapendo neanche dove vanno. Ed è una situazione che genera un legame con il paese di origine molto forte, perché parte il padre che ha lasciato la moglie con i figli, quello che ha lasciato i figli piccoli e la moglie incinta, ma sono casi che andrebbero raccontati come casi di vita, io ne sto raccogliendo alcuni che sono romanzi. Sono elementi della quotidianità che hanno segnato e ancora segnano, ci sono ancora figli di emigranti della prima migrazione negli Stati Uniti che sono ormai vecchi, ma che hanno questo segno pesante, questa ferita dentro, di questi genitori che partivano che non hanno mai più rivisto, mai più rivisto. Un forte legame con il paese di origine che adesso viene riscoperto dalla seconda e dalla terza generazione. Gli emigrati fanno una grande operazione: quella delle rimesse, e mandano i soldi alle famiglie di origine e questi la prima cosa a cui pensano è quella di uscire dalla miseria in cui avevano vissuto soprattutto in quello che consideravano un bene straordinario che era l’abitazione. La tipologia abitativa delle case di Verbicaro, vengono definiti in anni successivi nel ‘53 nell’inchiesta sulla miseria di Rossi Doria, Verbicaro viene definito caso limite d’Italia. Abitazioni strettissime, quando arrivavano a 20-30 metri quadrati 8-9 persone vivevano in quelle condizioni. Non c’era il bagno, se tu lo racconti ai figli che non c’era l’acqua corrente nelle case, c’era la fontana pubblica dove c’era la fila di 20-30 donne. Quindi arrivano queste rimesse e c’è un primo sviluppo al di là del centro storico quello millenario e sono le cosiddette case degli americani. Con la prima ondata migratoria, prodotta dalle conseguenze dell’Unità d’Italia, cambia il modello abitativo di Verbicaro. I primi emigranti inviano del denaro, le rimesse, alle loro famiglie che sono rimaste in paese. I soldi vengono subito utilizzati per quello che veniva considerato il bene primario: la casa. Verbicaro, nonostante lo spopolamento, conosce uno svilup121
po edilizio incontrollato che genera disequilibri. Gli emigranti costruisco con tipologie e materiali nuovi, ma insieme alle abitazioni cambiano anche gli spazi di relazione. Le caratteristiche scale del centro storico erano un prolungamento dello spazio domestico, erano un luogo in cui coltivare i rapporti di vicinato. Il cambiamento risponde a delle esigenze reali e ora più di prima avvertite come pressanti: lasciare quegli spazi miseri, sovraffollati e malsani del centro storico. Felice: Il sud emigra in maniera forte, sono le scelte politiche di quegli anni e quella scelta dualistica grande industria a Nord e il Sud completamente eliminato da qualsiasi potenzialità di sviluppo industriale, salvo delle situazioni a macchia di leopardo. La grande emigrazione post seconda guerra mondiale fa emigrare migliaia e migliaia di persone cioè Verbicaro aveva 7000 abitanti, 5600 formalmente, ed era un centro vivace dal punto di vista produttivo le persone venivano a lavorare da fuori a Verbicaro, c’è stato anche un momento di quartieri occupati da emigranti che venivano da altri posti. Il taglio dei boschi aveva portato anche gente dall’Austria. C’ era vivacità. I vigneti, il vino di Verbicaro rimane noto in tutto il mondo. Una volta tu ti giravi qui e vedevi solo vigneti. Quindi c’è stata una destrutturazione del tessuto economico-sociale di quegli anni però dall’altra parte arrivavano queste risorse. Queste risorse dove sono finite? Dove sono state impiegate? In questi palazzoni che voi avete visto che credo come esempio sia il più dissennato possibile, come riutilizzo di queste economie. Qui diventa una tragedia, consentendo questo tipo di edilizia, è una cambiale firmata in bianco dagli emigranti e dagli amministratori dell’epoca sulla testa delle generazioni future dei verbicaresi. Però nel caso particolare di Verbicaro la situazione è ancora più tragica perché questo sviluppo edilizio dissennatamente viene consentito in un’area franosa. Cioè, c’è una legge nazionale che dice che quest’area di Verbicaro era in dissesto idro-geologico e quindi non ci si poteva costruire. Il piano è stato realizzato 122
esattamente dove una legge nazionale diceva di non farlo. Immaginatevi quando si sono cominciati a lesionare i primi palazzi, noi abbiamo demolito, io personalmente ho dovuto incominciare a demolire palazzi di 6-7 piani dopo 19 giorni che ero diventato sindaco. Ora immaginatevi il carico di sofferenza umana che c’è dietro, non solo economica, umana cioè uno che è emigrato, che ha messo i soldini uno dopo l’altro in fila per costruirsi una casa più grande, più comoda per sè e per i figli. Abbiamo fatto, più che gli amministratori, gli assistenti sociali in quegli anni insomma. Non esisteva la Protezione Civile, che viene dopo, non vi dico la guerra con il governo centrale. Perché è facile dire: «La casa l’hai costruita tu, sta crollando, la demolisci tu a spese tue e sono cavoli tuoi dove andare ad abitare». Cioè lì non c’è stata la capacità politica di governare un processo che era straordinario che avrebbe veramente potuto cambiare queste cose. L’unica parte stabile del paese che si svuotava era il centro storico. Voi immaginate un intervento di recupero del centro storico anziché andare a fare le case popolari. Insomma sono problematiche di connivenze ecc...Capite che in contesti come questi tu hai un sedimentarsi di problematiche da 200-250 anni a questa parte che sono andate progressivamente ad aggravarsi. Cioè se noi avessimo speso 1/10 dei soldi che abbiamo dovuto spendere per le demolizioni, per le ricostruzioni e per rendere fruibile dalla collettività quegli spazi che hai distrutto. Verbicaro era un centro economico vivace e popolato, che soffre nel Novecento la crisi delle aree interne e del Sud dovuta a scelte politiche che eliminavano qualsiasi possibilità di sviluppo industriale per questi territori. Per i verbicaresi a inizio ‘900 la possibilità di emigrare oltreoceano diventa la via obbligata per uscire dalla miseria, dall’ignoranza, dall’isolamento. Ma nonostante la marginalità politica ed economica arrivano dei soldi a Verbicaro, sono le rimesse che gli emigranti mettono da parte a costo spesso di massacranti turni in fabbrica e 123
inviano in paese per permettere alla famiglia di costruire una casa nuova. La nuova edilizia degli anni ‘60-’70 è una forma, forse l’unica, di investimento sul territorio, ma questa mole di denaro produce purtroppo scompensi e tragedie. La parte nuova del paese viene costruita in una zona geologicamente instabile, da sempre non edificata. La fiducia nel progresso e nella tecnologia non prendono in considerazione le conoscenze edilizie tradizionali, si costruiscono palazzi in aree che non li possono sostenere. Di questa edilizia dissennata sono colpevoli le amministrazioni locali di quegli anni che per ignoranza lasciano costruire ovunque, e lo Stato che non governa questo fenomeno. I risultati sono sconvolgenti. Così gli unici capitali che affluiscono a Verbicaro vengono sprecati, mentre il centro storico muore lentamente: i soldi vengono spesi per costruire e demolire dei palazzi che non durano più di qualche decennio. Felice da ex sindaco ci sottolinea l’importanza di restituire quei vuoti, prodotti dall’abbandono e dalle nuove demolizioni, alla cittadinanza. Quegli spazi devono tornare a far parte del paese, c’è la necessità di ricomporre le macerie. Felice: C’è un uso anche politico di alcuni trasferimenti dell’abitato, da un punto di vista sociologico ma anche storico-antropologico smembrare una comunità, toglierla dal suo contesto di vita, portarla in un altro contesto lì c’è la destrutturazione delle relazioni umane. Questo avviene in tante situazioni, avviene nelle situazioni di emergenza come i terremoti. Quando tu pigli e sposti un gruppo perché quello è un paese distrutto dal terremoto, ci sono situazioni di relazioni umane che saltano, che creano anche problemi di tipo sociale e personale. Non so se voi avete il dato, dopo il grande terremoto di Reggio e Messina l’aumento delle malattie mentali fu esponenziale. La gente usciva dalle macerie e non ritrovava più la piazza, non ritrovava più la fontana dove andava a prendere l’acqua insieme agli altri, non ritrovava la cantina dove andavano a bere il vino, non ritrovava più la panchina dove 124
si sedeva. E questo è legato ad emergenze tra virgolette naturali voglio dire. Lei che prospettive vede per il centro storico di Verbicaro? Felice: Io non sono molto ottimista sulla cosa, vedo la possibilità, la potenzialità ma queste potenzialità come dicevo prima richiedono che ci sia una convergenza sinergica di diversi elementi, se c’è un privato da solo non ce la fa in un contesto di questo genere, se c’è il pubblico da solo non ce la fa perché ci vorrebbero 2-3 finanziarie per rimettere in moto queste cose. Ma invece in una sinergia diffusa potrebbero incominciare ad esserci inversioni di tendenza.[…] Il mio pessimismo su queste problematiche deriva dal livello di ignoranza in aumento nei contesti locali. Perché? Perché i meglio se ne vanno, mi ci metto anche io nella mediocrità, se restiamo i mediocri in questi contesti è chiaro che in maniera mediocre analizziamo la situazione e reagiamo in maniera altrettanto mediocre. Prendi la grande migrazione di fine ‘800 che spopola interi paesi ma soprattutto i paesi più poveri e da quei paesi più poveri partono i meglio, non partono i disgraziati, una situazione simile ai migranti che abbiamo in questo momento. Certo nella massa c’è anche chi non sa leggere e scrivere, ma tra i migranti arrivano ingegneri, dottori, gente laureata, comunque diplomata. Andate a vedere invece un esempio al contrario, a Soverato con l’arrivo dei curdi. Il centro storico viene rivitalizzato attraverso proprio l’espressione delle capacità, delle manualità, delle conoscenze e delle competenze degli immigrati, una risorsa straordinaria che ha ripreso il paese, l’economia […] Guarda, la questione è grossa non è liquidabile facilmente. Ma se tu non conosci un luogo, la storia di un posto, se non gli attribuisci valore, quello per te non conta nulla. Io difendo un luogo se quel luogo lo conosco e gli attribuisco valore, io non dico che bisogna amarlo che poi si finisce anche per amarle le cose proprio perché gli attribuisci valore [...] 125
La mia paura più grande è la scomparsa della memoria. Con il tempo ci si potrebbe dimenticare che qui è una situazione in evoluzione silente e quindi crolla l’attenzione rispetto alla problematica e si ricomincia abbastanza facilmente, si ricomincia come prima ecco. Un pazzo che arriva domani è capace di costruire di nuovo qua. Se questo tipo di azione, di cultura si rompe si interrompe è facilissimo tornare indietro. Mentre prima il processo della conoscenza era dato dal vissuto quotidiano, cioè tu difendevi il fiume perché nel fiume ci vivevi, se qualcuno ti buttava la ruota della macchina o del camion nel fiume e tu lo vedevi gli facevi un mazzo così perché quell’acqua tu la bevevi, perché quell’acqua la utilizzavi, perché tu ci andavi a pescare. C’era un rapporto con il tuo ambiente di vita quotidiano e quindi te ne derivava conoscenza, se uno strappava una pianta che era fondamentale che ci fosse, perché era importante per tutti che ci fosse o era importante per lui che ci fosse...ti faceva il mazzo. Questo oggi non succede più perché il rapporto con il proprio ambiente di vita è abbastanza banalizzato o comunque delegato a qualcun altro a custodirlo. Spingola non è molto fiducioso sul futuro di Verbicaro, ci sono i soliti problemi degli atti di proprietà che si sono persi e che bloccano le possibilità di rivalutazione del borgo, ci vorrebbe una sinergia di intenti, che coniughi pubblico e privato. Qualche importante segnale di rinascita c’è stato ma la cosa fondamentale per l’ex sindaco è mantenere viva la memoria, soprattutto degli errori passati. Se si perde quel rapporto quotidiano con il territorio si rischia di ricommettere gli stessi sbagli. Viviamo in una società in cui la relazione con il mondo naturale viene delegata a qualcun altro, non ci sentiamo più responsabili di quello che ci sta intorno. Dal rapporto con il tuo ambiente di vita quotidiano ti deriva conoscenza, un tipo di sapere che potrebbe essere integrato con gli studi accademici e sperimentali proprio per affrontare simili problematiche. 126
Tali ricerche potrebbero guidare gli amministratori nel loro compito di venire incontro alle esigenze dei cittadini e allo stesso tempo svolgerebbero il ruolo di riattivare quei canali della memoria e della consapevolezza della popolazione locale. Mentre realizziamo l’intervista, le montagne dietro Verbicaro stanno bruciando da diverse ore, è chiaramente un incendio doloso. La cenere e la puzza di fumo hanno invaso il paese, in aria non c’è nessun canader, il fuoco viene spento solo molte ore dopo da un provvidenziale acquazzone. Il signor Spingola ci dice che qui la terra si distrugge per poco, l’incendio probabilmente è opera di qualche pastore che vuole ricavare nuovi pascoli o di qualche piccolo interesse individuale. Sono delle azioni senza senso che danneggiano tutti, generate dall’ignoranza e dal mancato attaccamento al proprio territorio.
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DIARIO 3 Avevamo letto più volte del paese di Cirella, antico abitato calabrese distrutto tre volte, di cui oggi rimangono solo delle suggestive rovine. Arrivando sul posto si intuisce subito quanto potesse essere strategico come insediamento fortificato: arroccato sulla cima di una collina, tra il mare e l’entroterra montuoso, da qui si domina l’intera costa tirrenica calabrese. Scendiamo verso il mare, sulla costa sottostante, vicino il paese di Diamante, per concederci l’unico bagno a mare di questo viaggio. Dalla spiaggia di ciottoli grigi, con un pedalò, una canoa o una mezz’ora di nuotata, si può arrivare al piccolo isolotto di fronte la spiaggia, che ospita le rovine dell’antica torre difensiva, da cui partiva l’allarme per le incursioni via mare. *** Turghud Alì, conosciuto come Dragut, arrivò a Cirella quando era all’apice della sua carriera di corsaro e militare navale ottomano. A quell’epoca ricopriva le cariche di pasha di Tripoli e di comandante in capo dell’imponente flotta dell’impero ottomano, dopo il ritiro di Khayr al-Dīn “Barbarossa” nel 1544. Aveva già alle spalle una lunghissima lista di razzie ed incursioni in tutto il Mediterraneo. Temuto e rispettato, era considerato un navigatore e stratega militare tra i più abili del suo tempo. Francesco Balbi, militare e scrittore italiano che combatterà contro le armate di Dragut a Malta nel 1565, riporta nella sua cronaca dell’assedio le parole di un ammiraglio francese 128
che lo descriveva come «una carta vivente del mediterraneo, abbastanza abile sulla terraferma da reggere il confronto con i piu raffinati generali della sua epoca. Nessuno e più degno di portare il nome di re». Sulle coste e le isole italiane non c’era paese o villaggio che non conoscesse il suo nome e la sua fama, in un’epoca in cui le invasioni “turchesche” spingevano intere comunità a cercare riparo verso l’interno e a costruire molti di quei “paesi fortezza” che oggi sono trai i borghi più belli d’Italia. Dragut attaccò centinaia di insediamenti costieri durante la sua lunga attività, in particolare sulle coste ligure, toscana, calabrese, siciliana e pugliese. E poi incursioni in Corsica, Sardegna, Spagna, Nord Africa, Dalmazia e Albania. La sua potenza divenne tale che Carlo V in persona affidò il compito di catturarlo alla flotta genovese della famiglia nobiliare dei Doria, conosciuti dai musulmani dell’epoca con una fama non dissimile da quella di cui godeva Dragut presso i cristiani. Riuscirono nell’impresa nel 1540. Al largo della Corsica, di ritorno dopo una razzia sull’isola toscana di Capraia, Dragut fu circondato, catturato e ridotto in catene come rematore sulla nave di Ginetto Doria. Non fu condannato a morte, forse per timore di ritorsioni da parte dei turchi sui prigionieri cristiani, e dopo quasi 4 anni da schiavo tornò alla ribalta quando Barbarossa pagò un riscatto di 3500 ducati d’oro per la libertà del suo luogotenente. Negli anni che seguirono Dragut arriverà ai massimi vertici della marina militare ottomana e continuò a imperversare per tutto il Mediterraneo. Le sue imprese sulle coste italiane hanno lasciato il segno, come testimoniano decine di storie, miti e toponimi la cui origine e riconducibile ad un’incursione della “spada vendicatrice dell’Islam”, come fu soprannominato. Durante il ‘500, gli attacchi dei mori spinsero i governanti di ogni regno della penisola a costruire decine di torri di avvistamento lungo le coste, molte delle quali sono ancora in piedi, a scrutare silenziose un mare ormai privo 129
di queste insidie. Anche vicino Cirella ce n’è una, sulla costa, costruita su un isolotto di roccia calcarea alto non più di 40 metri, separato da poche centinaia di metri d’acqua dalla costa antistante, una spiaggia di ciottoli grigio-neri perfettamente levigati dal mare. Una torre robusta, a pianta quadrata e con mura spesse, costruita in un ottimo punto di osservazione. Dalla sua sommità, guardando a est in un giornata limpida, e possibile vedere gran parte della costa tirrenica calabrese snodarsi in direzione nord-sud e le verdi montagne dell’entroterra. Verso ovest, nient’altro che mare fino alla Sardegna. Ma il 2 agosto 1557, nessun allarme partì dalla torre dell’isola e i corsari di Dragut occuparono il porto appena sbarcati, senza incontrare alcuna resistenza. Irruppero nel paese dalle tre porte che ne consentivano l’accesso dando inizio al saccheggio, mentre dai velieri le cannonate spianavano la strada per l’assalto via terra. Secondo la tradizione orale, i turchi non arrivarono subito in massa. Una piccola scialuppa con pochi uomini scivolò silenziosa fino all’isola della torre, e la figlia del guardiano fu rapita. Ricattato, l’uomo venne costretto a non dare l’allarme, permettendo ai corsari di sorprendere nel sonno il paese. La donna sarebbe stata risparmiata grazie ad un voto fatto alla Madonna dei fiori di Cirella, ma la città fu devastata e 72 persone tra uomini e donne furono deportate e ridotte in schiavitù. I saraceni ripartirono e i pochi sopravvissuti tornarono a Cirella. I campi furono riseminati e le case ricostruite, ma non fu nè la prima nè l’ultima calamità, naturale o umana, a colpire il paese. Quasi cent’anni dopo l’incursione di Dragut arriverà la peste e più tardi ancora il terremoto. Il bombardamento del 1808 da parte della marina britannica contro l’avamposto francese stanziato nel paese segnò la fine del borgo, e gli abitanti ricostruirono un nuovo insediamento sulla costa. In quanto a Dragut, troverà la morte 9 anni dopo l’assalto di Cirella, durante una delle battaglie più imponenti della storia del Mediterraneo: il grande assalto di Malta, con il quale 130
l’impero ottomano sperava di conquistare una delle isole più strategiche del “mare chiuso”. Quando la notizia dell’assedio arrivò in continente provocò il panico in giro per l’Europa: se i musulmani fossero riusciti a conquistare l’isola spazzando via lo storico ordine dei cavalieri maltesi, che da decenni contrastavano gli ottomani, sarebbe stato un durissimo colpo per l’Europa cristiana. Rinforzi navali furono inviati da Spagna, Francia, Messina, Genova, Sicilia. Nel contingente spagnolo c’era anche l’archibugiere Francesco Balbi, il cui diario, ripreso e pubblicato nel 1568, diventerà la principale fonte storica della battaglia. Nel settembre del 1565 gli ottomani iniziarono la ritirata, dopo quasi 5 mesi di assedio. Le perdite furono consistenti per entrambi gli schieramenti, almeno 10000 tra cavalieri, soldati e civili maltesi, e 30000 tra gli assedianti turchi. Tra questi c’era Turghud Alì, la spada vendicatrice dell’islam, ucciso da una scheggia provocata da una cannonata. *** La storia travagliata di Cirella la fa apparire oggi come una sorta di archetipo dell’abbandono, un luogo in cui la storia in qualche modo si è accanita, creando uno dei classici casi in cui l’uomo tende a vedere l’ombra di un fato ineluttabile. Non era destino per Cirella. Ma dietro questo destino apparentemente monolitico ed inesorabile, così come dietro miti e tradizioni, ci sono i complessi processi storici che plasmano popolazioni e territori, culture e paesaggi, come dimostra la storia di Dragut. Durante il nostro viaggio, attraverso lo spopolamento appenninico, abbiamo incontrato un antico caso di abbandono e distruzione la cui storia incrocia quella di uno dei più noti e influenti navigatori, e con lui la grande storia del Mediterraneo del ‘500, mare tra mondi in conflitto e ibridazione reciproca continua. 131
Abbiamo avuto il piacere di parlare di Cirella anche con il professor Vito Teti. Lei si è occupato della storia di Cirella? Vito Teti: Cirella è uno dei borghi più belli e suggestivi in abbandono, è quasi una sorta di cartellone di ingresso in Calabria per chi viene da Nord e quindi è anche una sorta di metafora di una terra di bellezze e di rovine. Sicuramente c’è un insediamento molto antico di epoca greco-romana, sicuramente ha avuto una bella storia nel medioevo, sicuramente è conosciuta come la città distrutta 3 volte e ricostruita 3 volte. La ricostruzione è andata avanti fino a quando poi la gente non ha incominciato a scendere lungo le coste. A seguito, poi, di un bombardamento degli inglesi a inizio ‘800 si spopola definitivamente. Però è un luogo con una sua struttura urbanistica, architettonica, interessante. I ruderi sono anche molto belli quindi può essere guadagnata a percorsi turistici, credo che vengano fatti degli spettacoli, c’è un rapporto tra le popolazioni e questi luoghi abbandonati.
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DIARIO 1 Arriviamo a Cavallerizzo Nuova di mattina, le strade grandi e spaziose dividono in isolati un pugno di case tutte uguali, tutte bianche, molte delle quali sembrano poco vissute. Sono delle piccole palazzine di due o tre piani, dei perfetti parallelepipedi, come tanti scatoloni bianchi poggiati sul lato corto disposti ordinatamente in fila. Il tutto restituisce una strana atmosfera. La prima impressione è stata quella di entrare in un gigantesco e anonimo modellino lego, come se l’intero paese fosse stato recentemente tirato fuori dal cellophane e piazzato lì, su una collina della valle. Ad aumentare questa atmosfera irreale, una struttura e una distribuzione spaziale che sembra non avere un senso, senza una piazza principale, una chiesa o un qualsiasi punto di riferimento tra le schiere di case identiche. Entriamo in un bar, dove la TV accesa continua a dare notizie drammatiche sul terremoto in centro Italia, chiediamo del paese vecchio e ci viene detto che ci abita ancora qualcuno ma che comunque non si può andare perché per entrare in paese bisogna chiedere l’autorizzazione ai carabinieri. *** Di Cavallerizzo di Cerzeto non sapevamo molto oltre al fatto che nel 2009 una frana aveva distrutto parte dell’abitato e che un nuovo paese, poco distante, era stato costruito a tempo di record. Ci interessava particolarmente però in quanto caso 133
di abbandono di gran lunga più recente tra quelli attraversati. C’è persino un video su youtube che riprende in diretta la frana, 53 minuti di filmato in cui una lingua di terra zuppa d’acqua inizia a scorrere verso valle come un denso fiume marrone, trascinando qualunque cosa sul suo corso. Non sapevamo ancora quanto Cavallerizzo fosse un “caso limite” in Italia, e quanto gli interessi e le dinamiche che hanno accompagnato la ricostruzione siano stati distruttivi per la comunità molto più della frana stessa. Le persone con cui parliamo sembrano soddisfatte della ricostruzione e non parlano volentieri del vecchio paese, dicono che comunque era impossibile continuare a viverci dopo la frana. Tra queste persone c’è Fiore, un anziano signore di 70 anni, che è il più loquace di tutti e che accetta di farsi intervistare. Fiore è nato a Cavallerizzo ma è emigrato per molti anni a Milano per poi tornare al paese solo in vecchiaia. Dice di essere un parente dell’ultima abitante di Cavallerizzo Vecchia: Liliana. Come vedremo la loro narrazione dell’accaduto è molto diversa. Come era Cavallerizzo Vecchia? Fiore: Il paese era un paese bello, con povera gente, gente che lavorava, gente che aveva animali, si arrangiavano insomma. Famiglie numerose, la nostra famiglia era di 9 poi c’erano altre famiglie che avevano 14 figli, 12 figli. Tanti sacrifici qua, lavoro non ce ne era, solo con le mani: braccianti, boscaioli e il resto seminavano, un po’ di agricoltura ma lavoro non ce ne era, si lavorava così a giornata. La raccolta degli ulivi, seccavano i fichi, li vendevano, animali, tacchini, maiali. Poi in tanti emigrarono, sebbene innamorati del paese. Anche lei è emigrato? Fiore: 40 anni a Milano, tanti! Avevo 17 anni. Mio padre in Argentina, quando io ero a Milano lui era già in Argentina, 134
qui c’era la mamma con altri 8 figli. Un fratello partì anche in Argentina a Buenos Aires...1948 mio padre, 1951 lui. Papà è tonato nel ‘71-’72. Tanta gente di Cavallerizzo è emigrata? Fiore: Si, in Argentina parecchi, la maggior parte tutti a Lomas andavano, c’erano anche cugini di mio padre e parenti. Qua si è spopolato, sono andate via parecchie famiglie. Ci può raccontare della frana? Fiore: Nel 2005 venne la frana e la gente era tutta sfollata chi andava a destra e chi a sinistra e sono andati tutti in affitto a Cerzeto o a San Giacomo e poi chi dormiva nelle scuole, chi in chiesa, insomma si sono adattati. Nelle baracche non hanno voluto andare, volevano solo le case nuove, hanno insistito e hanno avuto la soddisfazione di farsi fare le case, il merito è dello Stato. Lì l’uomo più importante fu Guido Bertolaso. Per Cavallerizzo Nuovo è rimasto il secondo papà di tutti, generosissimo, uomo grande, generoso, volenteroso. Hanno incominciato nel 2006 a mettere il primo mattone e dopo hanno incominciato a costruire mattone su mattone e nel 2011 hanno consegnato le case nuove. Tutti soddisfatti! Chi piangeva a destra e chi piangeva a sinistra dalla soddisfazione. Oggi è chiamata la cittadina bianca del Sud, è bellissima, ha tutte le comodità: con le macchine si gira dentro, camion e altri veicoli, mentre nel Cavallerizzo Vecchio non passava neanche una bicicletta, solo la strada provinciale c’era e non c’erano altre entrate. Qui son tutti contenti, sono tutti soddisfatti. Alcuni no, sono voluti rimanere nelle case vecchie di Cavallerizzo, li hanno dato il permesso e sono lì. È stato difficile avere le case nuove? Fiore: No, no, hanno sempre lavorato professionisti, volenterosi e fino al 2011 hanno sempre lavorato. Tutti contenti erano. 135
Tutti gli abitanti stanno bene nel paese nuovo? Fiore: Stiamo bene qui, alcuni vorrebbero andare là ma hanno perso. Io non c’ero e non lo so il motivo per cui volevano andare là. Che vai a fare nelle case vecchie? Per costruire un ponte e tutto il resto avrebbero speso molto di più, molto di più! Qui è una cittadina, che c’è lì invece? Ma la vita quotidiana è diversa tra un paese e l’altro? Fiore: No qui si sono adeguati tutti, perché hanno tutte le comodità, non manca niente. C’è la chiesa, c’è tutto, la farmacia, non manca niente, la posta, quasi tutti hanno la macchina e io sono felice e contento. Il senso di comunità è rimasto anche nel paese nuovo oppure c’è qualcosa che si è perso? Fiore: No, no non si è perso niente, lì erano pastori e qui sono rimasti pastori, erano affezionati e stanno bene: hanno gli animali, pecore e capre. Chi ha la terra fuori in periferia cresce il maiale come ce l’aveva anche prima, le galline bisogna portarle fuori perché qua è una cittadina e questee cose non vanno più bene. Lì invece, nel paese vecchio, ci si arrangiava insomma, ecco...Qui non brontola nessuno, nessuno può dire niente, c’è tutto quello che vogliono: c’è il riscaldamento, c’è il gas che lì non c’era, manca il lavoro però. Fiore parla del passato agricolo del territorio, famiglie numerose che vivevano con poco. Molti scelgono di emigrare per poter mantenere la famiglia al paese, tra questi c’è suo padre che lascia la moglie per andare in Argentina. Anche Fiore ed altri suoi fratelli sono costretti ad emigrare. Poi la discussione si sposta sulla frana. All’evento segue un momento in cui la popolazione appare smarrita fino all’intervento provvidenziale dello Stato. Effettivamente in tempo brevissimo vengono consegnate le nuove case, dall’allora pre136
sidente della Protezione Civile Guido Bertolaso, ritenuto da Fiore una persona encomiabile che ha fatto tanto per Cavallerizzo. Il racconto sembra descrivere una storia a lieto fine: il paese è stato ricostruito, grazie a dei tecnici competenti, e la popolazione è tutta soddisfatta. A questo punto emergono alcune contraddizioni. Proprio tutti felici, del nuovo paese, non sembrano, come scopriremo dopo. Fiore prima dice che il trasferimento è andato bene a tutti, ma qualche rigo dopo sostiene che alcuni non hanno voluto abbandonare Cavallerizzo Vecchia e che altri vorrebbero tornarci. Lui non capisce il motivo di questa decisione. Mentre il paese vecchio era stretto e difficile da raggiungere, Cavallerizzo Nuova invece, dal suo punto di vista, è una vera cittadina con tutte le comodità possibili. Molti dei vecchi abitanti si sono adeguati al mutamento, anche se hanno dovuto rinunciare a tenere gli animali nel paese. Questo aneddoto ci dice qualcosa in più sul cambiamento nella mentalità dei cittadini di Cavallerizzo Nuova: ora avere animali non è più decoroso come vivere in un paese stretto e antico. Alcuni come Fiore, forse perché è emigrato per tanti anni, non sembrano avere un particolare legame affettivo con il vecchio borgo, per loro probabilmente è stato meglio così. In fondo la frana non sembra il motivo principale dell’abbandono. Nonostante gli abitanti del doppio abbiano cercato più volte di dissuaderci decidiamo di andare a vedere comunque il paese franato, per sicurezza non chiediamo l’autorizzazione a nessuno in modo che non ci venga negata. Troviamo il cancello che dovrebbe delimitare l’accesso al paese aperto. Intorno, diversi segnali di divieto e pericolo, insieme ad un pannello arrugginito con la scritta “comunità arbëreshë”, con l’immagine di una donna in vestiti tradizionali, a ricordare un retaggio culturale a cui la frana ha dato il definitivo colpo di grazia. Dopo poche centinaia di metri ci troviamo nel centro del borgo. La parte del paese più in alto, quella di più recente 137
costruzione è la cosiddetta zona rossa, l’area maggiormente colpita dalla frana dove sono crollate alcune case, mentre la parte più in basso, che comprende piazza principale e chiesa, non ci sembra essere particolarmente danneggiata. L’abbaiare incessante dei cani ci guida verso casa di Liliana, che insieme al figlio è l’unica a vivere stabilmente a Cavallerizzo Vecchia. Altri abitanti tornano solo durante l’estate. *** Liliana ci accoglie iniziandoci subito a raccontare la storia del paese, anticipando ogni nostra domanda. È una signora energica e combattiva, la sua intervista è un po’ confusionaria perché ci sommerge di informazioni facendoci spostare da una parte all’altra del paese per farci conoscere altri abitanti, per mostrarci lo stato delle abitazioni e farci vedere il generatore che usa per la luce, visto che il comune le ha staccato tutti i servizi. Il prezzo per vivere nella casa in cui si è nati comprende per lei migliaia di euro di gasolio all’anno. Liliana crede, non senza ingenuità, che la nostra ricerca possa cambiare qualcosa nel futuro di Cavallerizzo, ci tiene molto a diffondere il più possibile quello che sta accedendo qui, in questo momento noi con un microfono e una telecamera rappresentiamo un’occasione inaspettata. Quella che ci racconta è una storia drammatica. Ancora oggi si trascina in litigi e dissidi tra ex compaesani e in una lunga battaglia legale che vede opposta la comunità di Cavallerizzo Vecchia allo stato italiano. Liliana ci porta a conoscere altri abitanti emigrati al nord che tornano in estate e che non hanno mai accettato di trasferirsi nel doppio. Ci offrono del vino rosso e ci chiedono di non inquadrarli insieme alla casa. C’è un’ordinanza, ci confermano. In teoria in paese non ci si potrebbe nemmeno entrare.
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Ci potete raccontare della frana? Liliana: Si diceva che dall’oggi al domani ci sarebbe stata una frana, però nessuno ci credeva. Infatti dei geologi sono venuti due giorni prima e hanno detto ad un’abitante di Cavallerizzo: «Domani, dopodomani quando la strada comincia ad alzarsi date l’allarme e uscite dalle case». Al che il 7 Marzo del 2005, la mattina presto si è sentito un boato e la gente è scappata. Per fortuna non c’è stato nessun morto perché la gente era prevenuta. Abitante 1: Quello che era successo era dovuto al tubo dell’Abatemarco che porta 60 litri al secondo e arriva fino a Cosenza nella rete idrica. Di fatti questo è chiamato l’acquedotto colabrodo! Dopo una settimana hanno fatto i lavori e non c’è stato più nèessuna frana né si è mosso niente dalla parte sud del paese. Lì era una zona ricca di acqua ma non edificavano proprio perché chi si era insediato qua aveva capito che lì c’era il rischio. Soprattutto se metti peso costruendoci sopra, anche perché lì sotto c’è argilla. Infatti si è alzata la falda e l’argilla è scesa, è scivolata. Le case si sono piegate a monte non è che sono crollate verso il basso, si sono piegate verso il monte. Così dopo noi abbiamo messo i mezzi per capirci meglio, perché il comune non ha fatto niente, non si è costituito neanche parte civile per sapere le cause della frana da dove venivano. Qualcuno addirittura diceva che la montagna stava scendendo. Liliana: E tuttora lo dicono. Abitante 1: Non può essere che se si muove una montagna, come la muovi quella montagna lì? Liliana: Cade tutto l’Appennino! Quindi cosa è successo dopo la frana? Abitante 1: Dopo noi abbiamo fondato un comitato che anche io avevo sostenuto agli inizi. È venuta la Protezione Civile e ha fatto un primo progetto. Quello non è un progetto, quello era una fotocopia di San Giuliano non so se ci siete stati? Ci sono le stesse strutture che hanno fatto qui. 139
Liliana: Si sono pagati 2 volte, era un progetto per San Giuliano di Puglia. È avvenuta la frana e l’hanno portato qua, tutto un fregamento di soldi. Abitante 1: Solo di progettazione 11 milioni. Prima di iniziare i lavori, prima di presentare il progetto definitivo che avrebbe dato inizio ai lavori, noi ce ne siamo accorti e abbiamo detto basta. Liliana: Allora si sono riuniti a Catanzaro, c’era il vescovo, il nostro parroco, che faceva parte del comitato, se non che sono partiti tondi e arrivano quadri. Abitante 1: Praticamente senza domandare a tutti i cittadini se erano d’accordo per la nuova ricostruzione là sotto. Liliana: Hanno deciso loro! Sono tornati e hanno detto: «Noi dobbiamo fare così». Il comitato ha concordato: «Il paese è in frana non si può abitare, ce ne dobbiamo andare». Noi ci siamo opposti e abbiamo fondato l’associazione. Ci ha detto il nostro geologo che il centro storico di Cavallerizzo è su una roccia che non ha niente a che vedere con le case crollate. Abitante 1: Hanno fatto il paese senza avere i requisiti, perché non c’è l’impatto ambientale per il paese nuovo. Nonostante loro siano abusivi, ci impediscono di stare nel vecchio paese. Io faccio i permessi e vengo qui tutti i giorni perché questa è casa mia. A Cavallerizzo non ci si può arrivare senza un permesso? Abitante 1: Oddio, qui vengono tutti però, per quello che mi riguarda, io senza permesso non ci posso venire perché noi siamo stati denunciati, perché abbiamo violato secondo loro l’ordinanza. La gente che vive nel paese nuovo come si pone nei confronti della vostra scelta? Abitante 1: Con molta gente siamo amici, però loro hanno rinnegato, hanno rinnegato dove sono nati cioè le loro origini le hanno rinnegate. Gente che si vende per cosa poi non lo so. Io non ci sono mai entrato in quel paese, né quando lo hanno fatto, né 140
dopo, non ci sono mai entrato e quindi non so come lo hanno fatto. Comunque, nonostante io abbia detto che non volevo la casa fatta là sotto, loro l’hanno ricostruita. Liliana: Ne hanno fatte 40 in più. Tutte vuote. Loro dicono che stanno nella pace degli angeli però hanno un rimorso, stanno soffrendo e sono proprio loro a dire al sindaco di non dare la luce al vecchio borgo. Altrimenti questo paese era pieno! Sai quanta gente avrebbe lasciato quelle case e si sarebbe di nuovo trasferita qui.? Però hanno fatto la permuta, una volta presa quella casa dovevano lasciare la propria. Abitante 1: Hanno delocalizzato ma il paese vecchio è tutto in piedi! Per interessi di costruzione certamente, non so neanche quanti soldi hanno speso per ricostruire! Quanto è importante rimanere qui per voi? Abitante 1: Io ci sono nato. Liliana: Io sono di Cosenza e ho sposato un arbëreshë. Ci sono venuta che avevo conosciuto mio marito a 16 anni, ci sono nati i figli, ci sono cresciuti, ci sono ricordi. Poi io sono per la giustizia, non è giusto delocalizzare un paese per vendicarsi! Come nel caso di Verbicaro negli anni ‘70, si sono edificate le nuove abitazioni nella zona geologicamente più instabile, in cui in teoria sarebbe stato vietato costruire. Solo queste abitazioni sono state effettivamente danneggiate, contrariamente ai toni catastrofici che avevano usato i media all’indomani della frana, parlando di un intero paese spazzato via. Come ci spiegherà il professor Teti, la storia di Cavallerizzo era da secoli legata al pericolo della frana, quindi il centro storico era stato effettivamente costruito nella zona più solida. La frana ha danneggiato gravemente una ventina di case corrispondenti a circa l’11% del patrimonio abitativo del paese. Viene fondato un comitato che riunisce tutta la popolazione e che ha lo scopo di dialogare con le istituzioni per decidere il da farsi. A questo 141
punto succede qualcosa, il comitato concorda con la Protezione Civile il trasferimento e la riedificazione del paese ma una parte degli abitanti nutre dei grossi dubbi sul progetto e sul sito della ricostruzione. Questi abitanti contestano la decisione presa dal comitato e dalle istituzioni e decidono di ritornare al paese vecchio fondando un’associazione, “Cavallerizzo Vive”. Questa parte della comunità rifiuta di abbandonare le vecchie case sostenendo, su parere di diversi geologi, che il centro storico del paese è stabile mentre il nuovo doppio sta per sorgere su una zona più franosa. Intanto inizia la costruzione di Cavallerizzo Nuova in località “Pianette”, il costo complessivo dell’operazione è di 52 milioni di euro per 260 abitazioni. Liliana dice che quel progetto di ricostruzione è identico a quello applicato dopo il terremoto di San Giuliano di Puglia (CB), per lei Cavallerizzo è stata solo una prova preliminare di un modello speculativo post-sisma, che sarà poi applicato all’Aquila. Quella classe politica, mobilitata dall’emergenza, aveva già in mente il progetto di ricostruzione, poco importa se circa la metà della comunità non riconoscesse il nuovo paese. L’emergenza viene gestita in maniera autoritaria dalle istituzioni, non si cerca un dialogo con le diverse componenti della cittadinanza. Chi si adegua al nuovo paese riceve la casa nuova, chi si rifiuta di abbandonare la vecchia Cavallerizzo viene denunciato. Le case vengono fatte per tutti, anche per Liliana che in quel luogo non ci ha mai messo piede. Viene sovrastimata la popolazione di un paese che era già prima della frana in forte spopolamento. In risposta all’atteggiamento delle istituzioni, chi rimane a Cavallerizzo Vecchia disconosce totalmente il nuovo paese, non lo vanno a vedere neanche nel momento in cui viene completato. In questo momento le ripercussioni di questa vicenda iniziano a diventare pesanti per la comunità di Cavallerizzo, tra parenti e vicini di casa iniziano a sedimentarsi dissapori, invidie, odi. Chi vive nel doppio accusa gli altri di essere ancorati ad un passato ormai morto; per Liliana e l’A142
bitante “1” sono gli altri ad aver disconosciuto le loro radici. Diventa difficile agire in simili contesti per provare a risanare questi conflitti. Le stesse figure, ovvero Bertolaso e lo Stato, elogiati da Fiore come efficienti e generosi, sono nell’intervista di Liliana i colpevoli della delocalizzazione e dello smembramento del paese. Chi ha rifiutato di trasferirsi non riconosce i modelli abitativi del paese nuovo, contestando proprio quegli spazi larghi che nell’intervista di Fiore sembravano essere tra i miglioramenti più positivi del doppio. Le comunità di origine albanese avevano una diversa concezione del vicinato chiamata ditonia che non viene rispettata nella ricostruzione. L’intervista si trasforma presto in una discussione aperta tra gli abitanti del vecchio paese, tutti partecipano aggiungendo dettagli e informazioni personali, restituendo un interessante racconto corale della situazione del paese. Interviene un altro abitante di Cavallerizzo Vecchia, un cugino di Liliana emigrato a Genova da giovane, anche lui parte dell’associazione per il ripristino del vecchio borgo. Dopo cosa è successo? Come siete tornati a Cavallerizzo Vecchia? Liliana: Io sono per la giustizia e giustizia sarà fatta certamente! Sono qua che ci dormo da 7 anni, però prima di riappropriarmi della casa ho mandato un fax, che ho conservato, a Bertolaso: “Caro Bertolaso io oggi stesso mi riapproprio della mia casa, a mie spese e a mia personale responsabilità”. Poi ho telefonato e mi ha risposto la segretaria e ho chiesto: «Avete ricevuto il fax?». «Sì, sì, ma il dottor Bertolaso né vi può dare il permesso per poter stare né vi dice di andare via, ha detto fate come volete». Ci tengo a precisare che il giorno che sono venuta c’era il cancello là, l’avevano chiuso con il lucchetto, sono andata al comune e ho fatto una rivoluzione, volevo le chiavi. E allora faccio una cosa, mi sono armata di sbarre di ferro e ho rotto il primo lucchetto. Il secondo giorno è stato messo un altro lucchetto, poi ne hanno 143
messo uno grosso. Ho fatto fatica, ho fatto la mano storta, ma li ho rotti tutti quanti. C’è pure sull’articolo del giornale che ho rotto 5 lucchetti [ride]. Ho sfidato lo Stato e ogni volta che veniva Bertolaso qua, gli dicevo: «Dottor Bertolà, ma vedete un pochino il paese come è!». Mi sono arrivate multe e multe, ma io non le pago. “Male non fare paura non avere” dico io. Ho litigato con prefetti, carabinieri, ho litigato con tutti, Comunque chi viene trova sempre qualcuno qua, se andate lì sotto [nel paese nuovo] non trovi proprio nessuno. Quindi lei sia con la luce sia con l’acqua si fornisce autonomamente? Liliana: Si, ieri per esempio ho sentito del terremoto e ho acceso il generatore, però non lo posso tenere 24 ore su 24. Il sindaco non dà il permesso per far venire gli operai. Avevo chiamato il direttore generale dell’ENEL, mi ha detto: «Si signora sono venuto a Cavallerizzo. Immediatamente è venuta la guardia e ha detto che se avessimo attaccato la luce ci avrebbero fatto la multa, perché è un paese evacuato e quindi non può entrare nessuno». Per l’acqua, ivece, lì sopra in alto c’è una sorgente. Ci potete raccontare della vostra battaglia legale? Liliana: E insomma stiamo facendo una lotta, dopo 2 anni abbiamo fatto ricorso al Tar del Lazio e abbiamo vinto, perché manca la valutazione dell’impatto ambientale. Al consiglio di Stato abbiamo vinto un’altra volta e poi la regione attualmente ha detto che non è importante questo documento e adesso l’avvocato sta facendo l’altro ricorso. Manca la valutazione di impatto ambientale, perché Bertolaso diceva che veniva costruito come era il paese e invece ci sono cupole a non finire. Non era luogo dove poter fabbricare perché era il prolungamento della frana di Cerzeto. È più sicuro il centro storico che quello nuovo. Abitante 2: La frana c’era da quando io ero giovane, sono partito a 18 anni in aviazione e lì c’era la frana. Una zona chiamata 144
“le lacche”... perché l’Abatemarco, che passa di là, si diceva avesse una perdita ed è scivolato, ma solo 28 case hanno subito il danno. Guardate questa! [indica la sua casa effettivamente in buone condizioni] Sono tutte così. Mi cacci via e non mi dai proprio niente? Gli altri per 9 anni hanno preso anche un’indennità di soldi dallo Stato e noi che siamo residenti fuori, chi a Milano, chi a Torino, nemmeno un filo di capelli. Cosa si è perso nel paese nuovo? Liliana: Non c’è niente, non ci sono ricordi, non ci sono le tradizioni le usanze, si è perso tutto. Cavallerizzo ha 5 ditonie. Ditonie in albanese cosa significa? 3-4 case e poi una piccola piazzetta dove un giorno faccio il pane io e lo do ai vicini, e un giorno qualcun’altro. Ed erano tutti questi vecchietti e giovani, tutti raccolti nella propria ditonia. Nel paese nuovo, c’è soltanto cemento. Io non ci sono andata e quando passo per andare a Cosenza giro la testa, non voglio nemmeno vedere. Pensa che il senso della comunità arbëreshë si sia perso nel paese nuovo? Liliana: Si sono fatti tutti signori, litigano tra di loro a chi ha la casa più grande. Bertolaso diceva che avrebbe fatto 5 ditonie però là ci sono soltanto muri, case tutte uguali. Quale ditonia? Quale ditonia è stata rispettata? E fra di loro c’è anche l’invidia. Hanno fatto soltanto quelle strade larghe larghe e le case piccole e basse, senza balconi, tutte finestre piccoline dove non ci sono le sporgenze. Come vi immaginate il paese tra 20 anni? Liliana: Non lo so, io sto pregando i giovani di continuare la battaglia.... Abitante 1: Ormai qui è finita, anche se noi abbiamo ancora la speranza di ritornare. Abitante 2: Speriamo che continuino la battaglia i miei figli, 145
perché a loro piace venire qua, perché siamo in campagna ma in 20 minuti sei al mare. Ma adesso come si fa senza luce? Senza acqua? È una vergogna! Abitante 2: Gli stessi paesani di qui per far vedere che la frana ha distrutto le case, per l’ingordigia di prendere la casa nuova, hanno spaccato tutto: piastrelle, sanitari, tutto. Ma penso che tanti si stanno pentendo, A questo punto della discussione Liliana tira fuori dalla borsa un ritaglio di giornale, lo dispiega e lo mostra alla nostra telecamera guardando fisso nell’obiettivo. Il titolo recita: “Sia maledetto chi non sa difendere la propria terra”. Cos’hanno perso quelli che sono andati via? Liliana: Hanno perso la pace in famiglia, perché tra fratelli e sorelle non si parlano. Sia maledetto chi non sa difendere la propria terra. Liliana caparbiamente decide di tornare al paese vecchio, per farlo è disposta a sfidare le autorità, infatti rompe il cancello che preclude l’ingresso e tiene testa a carabinieri e tecnici che gli intimano di andare via. Per ostacolare il ritorno degli abitanti dell’associazione “Cavallerizzo Vive” le istituzioni negano qualsiasi servizio al paese minacciando di denunciare addirittura i tecnici dell’ENEL qualora avessero riattivato la luce elettrica. Evidentemente la decisione di Liliana di non spostarsi e l’azione legale intrapresa dall’associazione intacca gli interessi di alcuni gruppi di potere locali e nazionali, altrimenti sarebbe difficilmente spiegabile un simile accanimento verso una maestra di elementari in pensione la cui unica colpa è quella di voler rimanere a casa sua, che per altro è rimasta in perfette condizioni. Gli abitanti di Cavallerizzo Vecchia si auto-organizzano e provvedono autonomamente alla fornitura di luce ed acqua. Liliana è diventata un esempio per molti dei 146
suoi paesani che non hanno gradito la costruzione di Cavallerizzo Nuova. Molti dei membri dell’associazione “Cavallerizzo Vive” sono famiglie di emigrati al Nord o all’estero che tornavano in paese durante le vacanze. Dietro questo attaccamento degli emigrati al luogo natio, un legame addirittura maggiore rispetto a quello che manifestano alcuni locali che hanno invece accettato le case nuove, entrano in gioco anche delle ragioni di interesse. Infatti gli emigrati, che usavano l’abitazione di Cavallerizzo come una seconda casa per le vacanze, non vengono inclusi nella ricostruzione. Per persone che sono nate qui e che tornano ogni estate da decenni è un affronto inaccettabile, che provoca ulteriori dissapori nei confronti di chi quella casa l’ha ottenuta. Ci dicono che alcuni abitanti per dimostrare che Cavallerizzo Vecchia era inagibile, sono tornati e hanno danneggiato le loro case con lo scopo di ottenere le abitazioni nuove. Non possiamo sapere se è la realtà ma il racconto è di per sé inquietante e ci dice molto sui conflitti che attraversano, oggi, questa comunità. Passeggiando tra le case distrutte dalla frana troviamo un vecchio libro di poesie arbëreshë, scritto da Karmel Kandreva, originario di San Giacomo di Cerzeto, un paese vicinissimo a Cavallerizzo. Sono particolarmente interessanti alcuni passaggi della prefazione anche alla luce di quello che sta avvenendo oggi: La lingua arbëreshë è il mezzo espressivo di un popolo analfabeta, nella propria lingua materna, che non è vincolato a regole rigide, come vogliono le culture colte ed egemoni […] Una amara constatazione mi ha spinto a soffermarmi su alcuni aspetti caratteristici della mia comunità, che esprime, ha espresso ed esprimerà sempre uomini, che nel rigoglio della propria vita, saranno costretti ad abbandonare tutto, ogni affetto, e andare alla ricerca di un lavoro per poter sopravvivere. Ho notato che si sta facendo di tutto per farci diventare altri e non 147
ciò che siamo. Le forze che gestiscono il potere ci ignorano, perché si è decretata la nostra fine, e ci stanno facendo sparire, perché le esigenze economiche e lo stato di abbandono stanno distruggendo l’ambito sociale in cui lo spirito arbëreshë trova il suo sostentamento.
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DIARIO 2 Calpesto l’erba secca delle stradine di Fantino, le spine e i forasacchi cresciuti incolti mi si conficcano nei calzettoni irritandomi le caviglie, tornerò a casa con questi marchi dell’abbandono ma fa niente il viaggio è verso la fine...Tutto finisce, è il destino naturale di ogni cosa, finisce la vita, l’amore, l’amicizia, finirà anche l’uomo e quindi non c’è niente di strano se anche i paesi muoiono. Quello che ci turba è il loro processo di decomposizione, quando un paese finisce rimane lì insepolto e sparisce piano, lento dando a tutti il tempo di osservarlo e di riflettere sul trascorrere del tempo e inevitabilmente sulla morte. Fino a quando qualcosa non ricomincia, la natura orgogliosa riprende con vigore il sopravvento, cancella quel tocco di razionalità umana su quei mattoni che una volta erano case e allora ci sentiamo di nuovo pacificati. *** Fantino e Carello sono due frazioni nel circondario di San Giovanni in Fiore, la prima conta ancora qualche abitante (forse 4 stabili) mentre la seconda è ormai totalmente abbandonata. I due borghi molto vicini, distano appena 6 km l’uno dall’altro, e si trovano nella valle ripida e scoscesa del Fiume Neto, aggrappati alle pendici del Monte Gimella. Il Parco Nazionale della Sila è più a nord, questi paesi di media-montagna si trovano invece nella Presila. Fantino sorge a quasi 900 metri di altezza, sono stati esclusi dalle rotte turistiche. Questa zona viveva di bosco e di montagna, l’economia locale è entrata in 149
crisi nel Novecento provocando migrazioni di massa e spopolando molte frazioni. La crisi dei modelli economici e culturali tradizionali non è stata arginata neanche dall’Opera Valorizzazione Sila, un ente creato nel 1947 per lo sviluppo di quest’area, che ha realizzato una riforma agraria espropriando i terreni dei latifondisti per distribuirli ai contadini. Carello oggi è del tutto abbandonata nonostante l’Opera abbia realizzato importanti infrastrutture proprio in questo paese (luce, strada, case). Fantino fino agli anni ‘50 contava circa 800 abitanti, un borgo di discrete dimensioni forse addirittura il più grande della zona di San Giovanni in Fiore, mentre oggi è quasi deserto molti vecchi abitanti tornano spesso ma stabilmente non c’è quasi più nessuno, le strade sono vuote e scendono silenziose tra i ruderi verso la vallata. Le case sono tutte orientate nello stesso modo verso ovest, quasi come se volessero offrire al viggiatore una visone unica e armonica del loro sfaldarsi. A Fantino e nei paesi limitrofi non troviamo gente disponibile a farsi intervistare, nessuna curiosità per i viaggiatori sconosciuti con lo zaino. Si trincerano nel silenzio delle loro case da dove ogni tanto trapela la voce del televisore. Forse è la nostra presenza passeggera e fugace a produrre questo silenzio, ci sentiamo per la prima volta durante il viaggio quasi un elemento di disturbo. Le interviste dunque sono state raccolte in una frazione limitrofa: Patia, a soli 4 km da Fantino. A parlare del vecchio paese sono stati due suoi ex abitanti Giuseppe e Domenico che oggi fanno i pastori. Sono due cugini, di una settantina di anni, li accompagniamo per un pezzo di strada mentre fanno pascolare il gregge nei campi dietro casa loro. Voi siete di qui? Giuseppe: Io sono nato a Fantino, qua ci sono venuto che avevo 10 anni, Fantino prima era povero erano senza acqua, senza bagni, senza luce quando sono nato io. Io qua sono venuto nel ‘55 avevo 10 anni e siamo andati via. 150
Quando siete nati voi come era Fantino? Domenico: Era tutto quanto abitato, c’erano un sacco di famiglie. Giuseppe: Quando siamo stati piccoli noi c’era fame, c’era il tempo della guerra. Io sono nato nel 1944 e allora c’era povertà davvero, i nostri genitori, mio padre è stato 7 anni prigioniero idem suo padre. Domenico: Noi non abbiamo assaggiato fame però c’erano delle famiglie numerose che, poverine, non avevano niente. Tutte famiglie da 10-11 figli. Giuseppe: Fantino prima era bello, era tutto abitato, era tutto pieno di gente, coltivavano, facevano l’orto, facevano tutto. Ma voi ci siete andati a Fantino? Hai visto come è brutto? Non c’è gente, quando non c’è gente c’è brutto! C’è una piccola frazione che si chiama Carello. Prima c’erano oltre 300-400 persone, c’erano 150 famiglie lì. Carello è stato il primo focolaio di qua poi ha creato Fantino, ha creato Acquafredda e Carello è il primo fuoco che si è acceso, prima si diceva così. Si è acceso il fuoco a Carello perché c’era l’acqua vicino. Domenico: Poi hanno incominciato a fare case più grandi e gli uomini dormivano da una parte le femmine da un altra, mentre prima dormivano tutti quanti insieme. Mio padre non ha voluto costruire a Fantino diceva che un giorno o l’altro sarebbe stata abbandonata e di fatti... Mentre c’è stata gente che ha costruito fino all’ultimo momento e ora? Ci puoi chiudere le pecore dentro! Non c’è nessuno! Perché e quando si è spopolato Fantino? Giuseppe: Da oltre 20 anni. Qua ha sbagliato il comune di San Giovanni: se facevano le popolari qua a Fantino non se ne andavano ma le popolari le hanno fatte gratis a San Giovanni. Dovevano pagare una piccola somma di affitto. Inoltre alcuni se ne sono andati chi in Svizzera, chi in Germania. Domenico: A Fantino la prima botta l’ha data l’Opera Sila, 151
perché hanno fatto la riforma agraria e a quelle famiglie numerose gli hanno dato un pezzo di terreno però fuori Fantino, chi a Isola Capo Rizzuto, chi nella Sila. Allora se ne sono andate 10-12 famiglie numerose da 10-11 figli ciascuno. È stato nel ‘53-’54. Hanno dato un podere in Sila e a Isola Capo Rizzuto poi hanno fatto le case popolari a San Giovanni in Fiore invece di farle a Fantino. l’Opera Sila ha fatto dei lavori anche a Carello? Domenico: Queste terre qua se l’è prese l’Opera Sila e ci hanno messo piante di pino. Qua erano tutte terre libere, ci tenevamo grano qua, poi è venuta l’Opera Sila e se l’è prese e hanno piantato questi pini. Invece di mettere pini, dove permetteva il terreno, potevano portare l’acqua, fare prati di erba medica, piantagione di frutti mele, pere. Quanto filo spinato e pali di castagno che sono stati consumati. Quando sono nati Domenico e Giuseppe, Fantino era un paese popolato da famiglie numerose. Carello invece è situato in fondo a una valle scoscesa, ma ricca d’acqua che in questa terra prevalentemente arida costituisce una risorsa fondamentale. É questo il motivo della fondazione del paese, che ci dice Giuseppe è stato il primo “fuoco” della zona, usa questo termine antico come nei vecchi censimenti. Oggi a Carello, praticamente un ammasso di ruderi, c’è una grande vasca d’acqua profonda e limpida che scorre ininterrottamente incurante della sua solitudine, dove è facile immaginare lavarsi uomini e bestie, bambini che bevono e donne che stendono il bucato. Ancora oggi la fonte è utilizzata da qualcuno, lo testimoniano le bucce di fico d’india gettate a terra. Anche il paese più abbandonato rivela sempre delle tracce di vita presente. Il padre di Domenico intuisce che Fantino ha un futuro incerto e decide di costruire la sua nuova casa altrove; anche qui la ricerca di nuovi spazi abitativi, oltre che di sbocchi occupa152
zionali, ha avuto un ruolo importante nello spopolamento del paese. Infatti Giuseppe sostiene che l’aver ottenuto le case popolari a San Giovanni in Fiore, ha spinto, quelli che non erano già emigrati a lasciare il paese. L’edilizia popolare e la creazione di nuovi quartieri periferici nei centri abitati più grossi ha attirato molte persone dell’entroterra qui come in tutte le zone che abbiamo attraversato. Per Domenico l’Opera Sila ha prodotto per lo più effetti negativi, ci dice che la redistribuzione delle terre non è stata equa e che molti degli assegnatari hanno ricevuto dei terreni o improduttivi o in altre zone della Calabria, dovendo quindi abbandonare Fantino. Domenico critica i rimboschimenti che hanno piantano i pini togliendo preziosi spazi al pascolo e al seminativo. In questo passaggio della conversazione possiamo ritrovare molti elementi che hanno contraddistinto la montagna del ‘900: i rimboschimenti precludono l’accesso delle popolazioni locali ad ampie porzioni del territorio, in un’opera di disciplinamento del paesaggio e dei suoi abitanti. L’Opera Sila crea dei posti di lavoro nei rimboschimenti ma pur redistribuendo i terreni ai contadini introduce un inedito assetto proprietario, individuale, che non riesce a formare una piccola proprietà contadina e non può dunque costituire un freno all’emigrazione di massa, anzi per certi versi, secondo Domenico, la incentiva. Ora chi vive a Fantino? Domenico: Fantino è una frazione tutta abbandonata. C’è una vedova a Fantino sotto la chiesa e ci dorme sola, poi c’è una coppia che ha gli animali, ci vengono soltanto il giorno e la sera se ne vanno. Tra 20 anni come immaginate Fantino? Domenico: Le case tutte cadute.
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Voi siete mai emigrati da qui? Giuseppe: Io di qua dove vado? Vado al cimitero poi questa è terra mia! Domenico: Io sono stato 8 anni in alta Italia nella provincia di Pavia, ho fatto il cantoniere nell’Anas poi ho fatto la domanda di trasferimento e sono venuto un’altra volta qua. Ringraziando Dio sono in pensione e vengo qua ad aiutare mio cugino. Come mai ha scelto di tornare? Domenico: E che facevo? L’uccello dove nasce ci fa il nido, è la verità! Qua prima c’era una discarica lì sotto ora l’hanno chiusa. Prima di cornacchie non se ne vedeva una qui, dopo che hanno aperto questa discarica sono venute. Gli altri uccelli se ne sono andati, mentre le cornacchie ci sono rimaste perché ci sono nate qua e non se ne vanno. Ci hanno fatto i nidi ci sono nati i figli, i figli ora cominciano a fare altri figli ed è sempre pieno di cornacchie. Ed è così pure per le genti. Poi il lavoro che facevo io era schifoso nell’Anas c’erano 6 mesi di giorno e 6 mesi di notte nella nebbia. La mattina quando andavi sulla strada dovevi salutarti con tua moglie e i tuoi figli, non sapevi se ritornavi la sera dalla nebbia che c’era. Quali possibilità di sviluppo vedete per questo territorio? Domenico: Fabbriche non ce ne sono, cose che inquinano non ce ne sono. Con una fabbrica però ci sarebbe lavoro!? Domenico: Però inquinerebbe, per certi versi è meglio l’aria così. Hai visto com’è Taranto? Io sono di Taranto lo so com’è! Per questo ti ho fatto questa domanda! Domenico: Anche a Crotone stanno morendo tutti di tumore, tutti! Non se ne salva uno. Ora la fabbrica l’hanno smantellata, 154
era tutta piena di eternit e ci lavoravano pure dentro. Scaricavano a mare, altre scorie le prendevano e di notte le andavano a nascondere nei campi. Per i soldi ammazzano a Gesù Cristo! Giuseppe non si è mai spostato da qui, non capiamo se lo considera un rimpianto il non essere mai partito, se questa terra è stata per lui un vincolo o un legame troppo difficile da recidere. Domenico invece è emigrato da giovane per lavorare come cantoniere vicino Pavia. Per Domenico quel lavoro era una pena in un posto pieno di moscerini e nebbia, senza le ampie vedute che gli offrivano i pascoli calabresi gli sembrava di impazzire; appena ha potuto infatti è tornato a fare il pastore a Patia. Domenico conosce i mali della sua terra, la miseria e la mancanza di prospettive che prima hanno prodotto lo spopolamento e ora discariche abusive. Non rimpiange il fatto che nella zona non ci sia stato un decollo industriale, meglio vivere lontano dalle fabbriche che provocano i tumori come a Taranto. Domenico come le cornacchie ha sentito il bisogno di tornare, perché lontano in una città del Nord non si sentiva a casa. Ancora una volta ci possono essere utili le parole di Vito Teti per descrivere questo radicamento tra individuo e luogo, un sentimento che pervade sia i nativi che i viaggiatori, che si riscoprono intimamente legati ai territori che hanno percorso. Vito Teti: Non te ne vai mai fino in fondo dal luogo dove sei nato. Non te ne vai nemmeno se lo abbandoni per sempre e non ritorni mai più. Non te ne vai mai nemmeno dai luoghi dove hai trascorso un periodo di tempo, dove hai vissuto e parlato con le persone, dove hai condiviso qualcosa. ***
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Il racconto di Domenico è l’ultimo del nostro viaggio, adesso dobbiamo solo scendere ancora più a sud a San Nicola da Crissa per intervistare Vito Teti. Chiudiamo i microfoni e siamo stanchi e felici, ce l’abbiamo fatta! Abbiamo portato a termine questo lungo attraversamento e il materiale che abbiamo raccolto non ci sembra troppo male, ma l’ultima intervista mi scuote e come un evento profetico mi rivela uno dei tanti motivi che mi hanno spinto a intraprendere questo viaggio. Domenico parla di Taranto, la cita come caso limite di uno sviluppo dissennato che ha devastato il territorio. Tante volte ho immaginato a quanto doveva essere speciale quel luogo, la mia città, senza l’acciaieria, da piccolo mi divertivo a gurdare la zona dell’Ilva su una carta IGM del 1947 di mio padre, quando ancora c’erano fiumi, masserie e olivete al posto della fabbrica. Ogni volta immaginavo tutto questo per poter credere che forse se le condizioni fossero state diverse avrei potuto rimanere in quel posto e ora invece mi ritrovavo a maledire il destino della mia terra. Penso a tutto questo seduto su uno scalino di Patia, ancora vicino alla casa dei pastori e penso alla mia migrazione, alla mia città, al perché ho domandato ad altri i motivi delle loro partenze. Anche noi infine, come gli altri divisi tra radicamento e voglia di andare via. Forse dopo trenta giorni a piedi per l’Appennino tra paesi spopolati ho capito qualcosa su di me, il viaggio ha avuto una funzione catartica e ora mi sento pronto a tornare a casa ovunque essa sia e qualsiasi cosa intendiamo con essa. Come insegnano le cornacchie di cui parla Domenico, tu puoi anche abbandonare un luogo ma un luogo non ti abbandona mai del tutto.
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RAGNATELA I Commons
In montagna la proprietà collettiva, considerata da politici e amministratori dell’Unità d’Italia una forma economica anacronistica, era sopravvissuta più a lungo che altrove. Questo assetto economico in realtà era il risultato di un lungo e straordinario adattamento delle popolazioni ai territori, tutte le risorse disponibili erano utilizzate per sostentare la numerosa popolazione che viveva tra i monti, niente andava sprecato. La montagna per chi la abitava era ricca di energie e risorse difficilmente monopolizzabili, che richiedevano lo sforzo comune. Durante il nostro viaggio abbiamo cercato le tracce di queste proprietà comuni sul territorio e nella memoria delle popolazioni montane, e per chiarirci meglio le idee ne abbiamo parlato con Marco Armiero uno storico dell’ambiente, direttore dell’Environmental Humanities Lab del Royal Institute of Technology a Stoccolma. Nella sua carriera si è occupato, tra le altre cose, di boschi abruzzesi e di commons in Italia.
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Durante il nostro viaggio abbiamo intervistato molte persone che ci parlavano di terre montane coltivate e che ora vedono l’avanzare del bosco quasi come una forma di degrado perché non è più una foresta produttiva. Questo mi ha fatto pensare molto a quello che hai scritto sui commons. Vedi un collegamento tra spopolamento e la privatizzazione degli usi civici in Appennino? Marco Armiero: La riforestazione non è sempre vista di buon occhio dagli abitanti locali, dalle comunità di montagna, soprattutto quel tipo di riforestazione, quindi anche quello è un colpo ai commons. Mi stimoli a ragionare sulla questione della tutela dell’ambiente e di un ambiente museale o parchizzato, il parco, e il rapporto tra questo e un ambiente invece più forse potremmo definirlo vernacolare. Secondo me questa è una questione importante che un po’ è stata affrontata da alcuni studiosi internazionali: Joan Martinez Alier, ho tradotto il suo libro in italiano con il titolo “Ecologia dei poveri”. Joan dice che ci sono tre grandi correnti di ambientalismo: c’è quello che lui chiama “il culto della wilderness”, c’è quello che chiama “il vangelo della ecoefficenza” e poi c’è una terza corrente che definisce “l’ambientalismo dei poveri”. Quest’ultimo io lo chiamo l’ambientalismo subalterno o di classe. A lungo si è pensato che l’idea è proteggere l’ambiente dagli esseri umani, cioè la protezione dell’ambiente è contro le popolazioni locali. L’imposizione di una protezione dell’ambiente contro le popolazioni locali è spesso una imposizione di classe, una imposizione delle elitès che vogliono una natura da week-end, una natura museale in cui non c’è vita. Io nel libro parlo anche di questa idea delle Alpi aperte solo per le ferie e chiuse tutto il resto dell’anno, una monocultura dello sci, turistica. Secondo me questa è una prima questione che significa ragionare invece di un altro ambientalismo, perché un altro ambientalismo è possibile. Pensate ad esempio a Chico Mendes, la storia delle riserve estrattivistiche in Brasile, in Amazzonia. Chico è un leader sin158
dacale e questo rompe tutti i luoghi comuni sulla contrapposizione tra natura e lavoro, cioè o sei ambientalista o sei pro lavoro. Chico Mendes rompe questa favola neoliberale che impone di scegliere tra morire di cancro e avere un reddito. Chico e gli altri dicono di voler vivere della foresta e pensano che il lavoro nella foresta protegga la foresta non la distrugga. Questa cosa è molto interessante. Perché usare la foresta amazzonica significa anche lottare contro le grandi corporation che fanno il disboscamento illegale. Ora tornando un po’ in Italia secondo me questo discorso è interessante, cioè è possibile ripensare ad un ambientalismo che non separi natura e lavoro? Che non separi lo spazio dell’abitare e lo spazio dell’ambiente? Mi piacerebbe ragionare su questo altro ambientalismo. Questo ambientalismo che tiene insieme il lavoro e la natura, questo ambientalismo che crede nei saperi vernacolari, che pensa che la foresta non è solo un luogo per le passeggiate, che può essere anche un luogo produttivo. È chiaro che nel mio libro io avanzo l’ipotesi, che mi sembra per la verità di buon senso, che i commons rimangono forti, attivi e più radicati soprattutto in montagna. Molto più semplice la sopravvivenza dei commons a media-alta quota che non ovviamente nella pianura dove le enclosures e la privatizzazione è molto più forte e radicale. Badate bene che quando si ragiona di commons, si ragiona di un sacco di elementi diversi perché non sempre implica un ragionamento sulla proprietà, può anche implicare “semplicemente” una questione di accesso alla risorsa. In molti casi il tema dei dirtti proprietari non è così rilevante mentre è molto più rilevante il tema di come, in che modo, in che forma è possibile accedere alle risorse della montagna. Io credo che questo sia collegato allo spopolamento, ci sia il progetto della privatizzazione completa della natura che poi è il progetto capitalistico, neoliberale che privatizza tutto: dall’acqua, alla terra. Io penso che noi usiamo la parola inglese commons perché siamo in difficoltà fondamentalmente, non sappiamo con precisione 159
come definire commons. La traduzione italiana dovrebbe essere proprietà comuni o collettive. Ma proprietà comuni o collettive implica l’esistenza di un diritto proprietario che poi non è sempre davvero il minimo comune denominatore. Quindi diciamo i commons sono risorse naturali su cui gruppi di persone esercitano diritti comuni che possono essere diritti proprietari o diritti di accesso. I pascoli non sono aperti a tutti ma sono limitati a una comunità di utilisti che usano quei pascoli in ragione di una serie di norme, scritte e non scritte, che ne regolano l’accesso. Tantissimi casi e tantissime esperienze raccontano che invece gruppi si organizzano per supportarsi a vicenda. Quindi la mia definizione di commons è: risorse ecologiche, ambientali, utilizzate in maniera collettiva seguendo regole scritte e non scritte che organizzano e regolamentano diritti tanto proprietari che di accesso. Le risorse naturali nel contesto montano venivano socialmente costruite dalle pratiche delle popolazioni che le utilizzavano; ambiente, risorse e paesaggio sono state costantemente plasmati da processi culturali. L’organizzazione culturale del territorio dettava l’appropriazione e la gestione delle risorse. L’ambiente non rimane un dato neutrale ma viene sempre ricostruito dalla comunità che vi è insediata. Le modifiche non sono solo fisiche ma sul paesaggio vengono costruite rappresentazioni simboliche complesse, narrative e mitopoietiche. In questa incessante manipolazione umana un luogo si trasforma in paesaggio, uno spazio organizzato da una serie di micro-esperienze e conoscenze sedimentate nel corso del tempo. Il mutamento del sistema proprietario non era un semplice cambio economico ma produceva una vera e propria crisi nelle relazioni sociali di quelle comunità, alterava quel rapporto continuo di scambio e reciprocità che rappresentava in montagna una ricchezza culturale prima che economica. Le risorse ambientali dunque costruivano e venivano socialmente costruite dalle comunità che le sfruttavano, le forme economiche plasmavano e venivano plasmate da quelle culturali. 160
Non era solo questione di modificare i regimi di proprietà ma il cambiamento rispondeva a un più ampio disegno economico e culturale. Dunque bisognava eliminare le sopravvivenze economiche di epoche passate, ovvero le proprietà comuni, e per fare questo era necessario riplasmare le identità dei montanari, indebolire la loro resistenza e coesione comunitaria. Era il processo di affermazione della proprietà privata come unico regime di conduzione delle montagne italiane. I commons vengono spesso descritti come un sistema di sfruttamento non sostenibile che porta all’esaurimento delle risorse. Ma in realtà l’accesso a queste risorse collettive era molto regolamentato e comprendeva limiti e proibizioni precise. Esistevano vincoli che riguardavano la raccolta della legna, la pesca, era proibito servirsi di alcune zone per il pascolo, in altre zone gli alberi tagliati dovevano essere ripiantati. Gli usi civici, le cui regole d’accesso mutavano con il tempo e con la zona, venivano concepiti come un naturale prolungamento spaziale connesso ai diritti di residenza, o definiti in base all’attività produttiva. Una fitta rete di obblighi, legami, vincoli e interessi condizionava gli individui nella gestione dei beni comuni. Queste forme di autogestione del territorio potevano garantire la riproducibilità e la rigenerazione delle risorse anche per le generazioni future, un sistema economico-sociale in grado di coniugare produzione, tutela e gestione. Nel libro “Le montagne della patria” analizzi in particolare il periodo dell’Unità d’Italia e fornisci alcuni interessanti esempi di questo conflitto tra privatizzazione e comunità locali. Marco Armiero: Fino ad un certo punto, era possibile immaginare di possedere una foresta ma al tempo stesso che quella foresta non fosse di dominio totale del suo proprietario, che portasse scritto dentro di sè una serie di diritti collettivi che gravitano intorno a quella foresta. Ora con l’Unità d’Italia indubbiamente 161
si afferma, come ha scritto anche poi Grossi, questo assolutismo proprietario. È molte forte, ad esempio nel caso delle foreste, le leggi forestali italiane procedono rapidamente nella direzione di concedere una grande libertà di manovra ai proprietari. Sostanzialmente è molto più semplice disboscare, alienare e cose di questo tipo. Io nel libro cito un esempio il caso di Bosco Ragno in Abruzzo: siamo nel 1860, non si capisce neanche bene dove siamo, non si capisce se siamo in Italia o siamo nel Regno delle Due Sicilie. Nel senso che il vento sta cambiando e il marchese Davalos proprietario del bosco decide di approfittare della situazione. Decide di imporre questo assolutismo proprietario al suo bosco. Lui è già proprietario non è questa la discussione, ma decide che a questo punto come proprietario può fare del bosco quello che gli pare. Che cosa fa? Una delle prime cose che fa è togliere l’accesso al bosco a quelle comunità più vicine che sono, se ricordo bene, le comunità di Scerni e invece appalta il taglio del bosco a comunità più lontane. Cioè si prova a recidere, a rompere il legame diretto con la comunità e sostanzialmente si trasforma quello che è un insieme, un pool di risorse alimentari, in una miniera di legname. A questo punto la questione diventa ancora più delicata perché la reazione a tutto questo mette anche in discussione gli equilibri ecologici. Cioè il fatto che per esempio l’incendio sia una delle pratiche di reazione alle enclosures è vero. Mi spiego, se tu vai a leggere negli archivi, nelle fonti ottocentesche i problemi delle risorse italiane sono i poveri, sono i contadini, sono le comunità locali. Se fosse per i grandi proprietari oggi saremmo in Amazzonia: perfetto! Ovviamente quella è una retorica che è funzionale a tagliare, a chiudere ogni possibilità di diritto comune, di commons. Quando tu esasperi lo scontro, recidi il legame tra la comunità e la foresta, è possibile che si creino anche delle spirali distruttive come può essere l’incendio. Se tu mi togli l’accesso alla foresta io distruggo la foresta, non ho nessun motivo di conservare la tua foresta, io attacco la tua foresta! L’ultimo esempio che vi posso fare è il Vajont. Noi parliamo 162
sempre dell’esito finale, cioè del genocidio, massacro di 2000 persone sull’altare del profitto. Ma forse è meno conosciuta la storia iniziale, quando si dovevano vendere o espropriare i terreni per costruire. Anche qui all’ordine del giorno c’è la questione dei commons, perché per esempio si scopre che i comuni hanno dato alla SADE dei terreni che non sono di loro proprietà ma che sono commons. Lì c’è tutta la questione tra proprietà pubblica e commons, perché non sono di proprietà del comune, nel senso amministrativo del termine, e quindi quella vendita è illegale. È molto interessante che l’imposizione della cultura idroelettrica nella sua forma più drammatica, come quella del Vajont, passa attraverso, ancora una volta, la cancellazione dei commons. La cancellazione diciamo legale. C’è tutta una trattativa, Caterina Filippin, la sindaca di allora cerca di resistere a tale questione, poi invece alla fine cede, dice agli altri montanari che non c’è niente da fare e che è meglio vendere, si parla anche di una qualche corruzione della SADE in quel caso. Ma quello che è interessante è che non c’era una grande chance, sostanzialmente una volta dichiarato il Vajont un’opera di interesse nazionale o si vendeva o si veniva espropriati. Diciamo non è precisamente una scelta libera. Secondo me, è interessante ragionare sul rapporto tra privatizzazione e statalizzazione perché la statalizzazione non è la stessa cosa di un common e questo non sempre è chiaro. Se voi pensate alla monocultura idroelettrica, al caso del Vajont, sicuramente c’è la corporation privata la SADE che costruisce, ma poi arriva anche la nazionalizzazione dell’ENEL. Quindi se volete quello è un caso appunto in cui si passa da una proprietà privata a una proprietà pubblica. Ora la supremazia di un presunto bene comune che è identificato con lo Stato si scontra, confligge con gli interessi locali. Un altro esempio che come sapete mi sta molto a cuore è il caso della TAV. Nella narrazione main-stream si dice che siano interessi egoistici quelli delle comunità della Val di Susa che si scontrano con interessi superiori che sarebbero apparentemente i nostri. La resistenza contro la TAV è un grandissimo caso di difesa di inte163
ressi collettivi contro interessi invece particolari. Io penso che la difesa degli interessi collettivi passa attraverso un coinvolgimento diciamo di democrazia ecologica anche delle comunità della valle. La TAV è un opera inutile, dannosa, che non mette in comunicazione le persone, è un opera che è al servizio di flussi e di merci, di capitali che sono dannosi per la vita nel senso profondo del termine. A cosa serve parlare di commons oggi? Marco Armiero: Per rispondere alla tua domanda credo che la sfida è questa: ragionare su una reinvenzione dei commons. Qui vorrei citarvi il lavoro di uno studioso italiano, che lavora a Londra, si chiama Massimo De Angelis e vive nell’Appennino, fa avanti e dietro tra Appennini e Londra. Massimo è uno di quelli che ha teorizzato una cosa che si chiama il commoning che secondo me è una cosa interessante. Abbiamo ragionato sui commons come una roba che stava lì nei bei tempi andati, non c’è più e che dobbiamo difendere. L’idea del commoning invece ci dice che i commons non sono un oggetto ma sono una relazione, una relazione sociale, una relazione ecologica. Credo che il commoning sia importante perché ci fa passare da una posizione di resistenza, a volte un po’ disperata, a una posizione di attacco. Cioè il tema non è proteggere quei quattro commons che sono rimasti ma il tema è commoning everything, trasformare in commons quello che ci circonda e praticarlo nelle nostre comunità.
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Ringraziamenti e collaborazioni Collaborazioni universitarie Marco Armiero, KTH Royal Institute of Technology di Stoccolma - Vincenza Pellegrino, Università di Parma - Vito Teti, Università di Cosenza - Cristiana Natali, Università di Bologna - Giorgio Osti, Università di Trieste - Alessandra Osti, Università di Milano - Davide Olori, Università di Bologna. Testimonianze Sonia Livi, Primo Livi, Leonardo e Luciana di Casette, Piercarlo Tagliaferri, Onorio, Emanuele Bernabini, Liliana Bianco, Nevio Cicconi, Tommaso Conza, Gino Monti, Federico Panchetti, Gianluca Bondi, Francesco Di Pietro, Cinzia Romanucci, Mario Savoia, Gilda Seppi, Felice Spingola, Filippo Tagliabosco, Fiore di Cavalerizzo, Marcello Sala, Giovanni di Romagnano al Monte, Giuseppe e Domenico di Patìa. Associazioni Caucaso Factory, ZaLab, Internazionale, Giap, CAI Teramo, CAI Bologna, Rivista CAI “Sul Monte”, Museo della Montagna di Torino, Gruppo di ricerca “Emidio di Treviri”, Vag 61, XM 24, Eat the Rich, Case Matte, Campi Aperti, associazione “I’fere”, associazione “Amici di Laturo”, Aps Fuorisentiero. Compagni di viaggio Leonardo Balestri, Claudio Benegiamo, Alessio Cosa, Luigi Ferri, Giancarlo Ciccanti, Mario Ciccanti, Felicia Neri, Katia Giubileo, Fabrizio Gerardo Lioy, Sara Ofelia Liva, Laura Marella, Carmela Marino, Michelangelo Sabatiello, Valerio e Francesco Spingola, zEleonora Venturella, Maria di Olmeto, Alice e Anna Pina di Padula, Mela e Fuga.
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Crowdfunders Marco Altamura, Leonardo Balestri, Claudio Benegiamo, David Biagioni, Serena Bortolato, Alexandra D’Angelo, Niccolò Bravaccini, Martina Ciccioli, Marco Cofano, Roberto Bombarda, Vincenzo Gatta, Silvia Immediato, Sara Ofelia Liva, Nicola Mastrocola, Alessandro Peregalli, Paola Sembenini, Marco Trozzo, Anita Urago, Marco Valente, Eleonora Venturella, Alberto, Carlo e Pippo di Campi Aperti. Famiglia Andriulo, Chiloiro, Franchini, Labriola, Milite, Ragno. Un ringraziamento speciale Roberto Giordani, Matteo Calore, Enrico Masi, Emanuela Minasola, Andrea Segre, Wu Ming 2, Martino Viviani.
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Finito di stampare nel mese di settembre 2018 dalla Litografica Editrice Saturnia - Trento
Ragnatele
Un viaggio tra i paesi abbandonati dell’Appennino Ragnatele è un viaggio a piedi nella geografia dello spopolamento appenninico, in delicato equilibrio fra le memorie e i desideri delle montagne minori italiane. Un viaggio FuoriRotta che indaga con profondità nella storia passata, volgendo lo sguardo ad un presente sospeso e alle prospettive di un futuro ancora da scrivere. Un tessuto narrativo formato da storie che si incrociano e si intrecciano, come i fili di una Ragnatela, e che svelano l’anima di un Entroterra ancora poco conosciuto e raccontato.
Viaggiare non significa semplicemente spostarsi, cambiare luogo. Viaggiare significa mettere in discussione il proprio punto di vista, incontrare e interpretare sguardi altri, ritrovare se stessi altrove. FuoriRotta è un progetto culturale che dal 2015 sostiene viaggi lenti e attenti e prospettive non convenzionali sul mondo, riqualificando il concetto stesso di viaggio e riscoprendone il profondo senso di veicolo di conoscenza, comprensione e racconto di sé e dell’altro.