Il Grande Viaggio

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DAV I D B E L L ATAL L A ST E FANO ROSAT I

LUNG O L E C A R OVA N I E R E D E L L A VI A D E L L A SE TA


Lontano da approcci monotematici o potpourri di argomenti collegati alla storia della Via della Seta, questo volume racconta e illustra, attraverso i viaggi compiuti dagli autori, degli aspetti culturali, artistici, storici e religiosi più significativi che evidenziano legami, contatti, scambi e interazioni sociali che ancora oggi, attraverso le testimonianze del passato e dei popoli che vivono su quei territori, stimolano la nostra riflessione verso una rilettura della storia della Via della Seta, quale prezioso Patrimonio dell'Umanità.

Immagine in copertina: Il racconto del padre cattura l’attenzione e l’ammirazione della figlia, attraverso quelle storie che ogni volta riprendono vita, lungo l’antica Via della Seta, per un viaggio che non avrà mai fine. Etnia Tanguta. Cina; regione del Qinghai, interno abitazione tangua presso il lago di Kokonor. foto di David Bellatalla


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EDITORIA Decine di pubblicazioni tra libri e cataloghi, disponibili nei negozi o scaricabili gratuitamente dal sito.

CINEMA E TV

PiĂš di 50 film co-prodotti e/o sostenuti in vario modo, vincitori di numerosi riconoscimenti.

CARTOGRAFIA

Un’accurata rappresentazione del territorio per descrivere cammini, itinerari, percorsi di gara.


ATTIVITÀ Molteplici attività al sostegno dei giovani e di iniziative sociali e culturali: festival, concerti, mostre, teatro.

PROGETTI Importanti progetti di solidarietà e cooperazione allo sviluppo in Nepal, Mongolia, Perù e Italia.

LUOGHI Il territorio e i luoghi d’eccellenza da conoscere e tutelare.


MONTURA EDITING SOSTIENE

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DALLA GER PER TUTTI ALLA CASA NEED YOU

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ULAN BATOR

il villaggio è composto da 10 Ger unifamiliari e 2 Ger per i servizi collettivi come l’attività didattica, l’ambulatorio, il laboratorio.

L’edificio a due piani in via di realizzazione ospiterà al piano terra il presidio medico, la lavanderia, i servizi igienici. Al primo piano troveranno posto il laboratorio di taglio e cucito completo di ufficio, magazzino e punto vendita.

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speranza, un cammino fattibile, verso la pace

comunità, possono finalmente giocare in

e la serenità.

tranquillità e sicurezza: “Una Ger per tutti /

Ci sono voluti tre lunghissimi anni, costellati

Ger for Life”, la prima Eco Ger Camp della

di tante notti insonni, di farfalle svolazzanti

Mongolia per ragazze madri con bambini

nello stomaco e di preoccupazioni assillanti;

disabili.

mille difficoltà da dover affrontare e superare

Penso che “l’esempio” sia lo strumento più

senza mai arrendersi. La tenacia e il sostegno

efficace per poter trasmettere alle nuove

della Mongolian Red Cross ad Ulan Bator,

generazioni quei valori e quei princìpi

di Montura/Tasci e Need You Onlus (senza

universali nei quali crediamo. Perché noi

di loro non ce l’avremo mai fatta) in Italia;

siamo quello che facciamo, non ciò che

la forza e la determinazione di mia moglie

pensiamo di essere.

Ganaa e dell’insostituibile Daniela Senese Avevamo un sogno, un sogno ambizioso,

sempre presente, l’aiuto di tanti donatori,

una sorta di sfida: realizzare la prima Eco

mi hanno dato la forza e lo stimolo per

Ger Camp per ragazze madri con bambini

non arrendermi, mai. Neppure di fronte alle

disabili, nel quartiere più povero della

insormontabili difficoltà (davvero tante) che

capitale della Mongolia. L’idea era quella di

abbiamo incontrato lungo il cammino.

materializzare un luogo che potesse divenire

Ce l’abbiamo fatta! Abbiamo realizzato

un esempio, un faro nella notte tempestosa,

una Ger Camp confortevole, ecologica,

un modello da imitare. Per dimostrare a tutti

pulita, organizzata, pronta ad accogliere le

che era possibile vivere in modo decoroso,

famiglie in grave difficoltà, per dare loro una

ordinato e confortevole, anche in quella landa

casa, nella quale non si dovrà più bruciare

dimenticata e abbandonata, il quartiere di

carbone e rifiuti per potersi scaldare o per

Chingeltei a Ulan Bator, dove ogni giorno

poter cucinare qualcosa di commestibile.

si lotta per sopravvivere. Sognatori incalliti,

Grazie alle nuove tecnologie, tutto funziona

siamo stati così ambiziosi, da scegliere i più

elettricamente. Servizi igienici decorosi,

poveri e disperati tra i tanti di quella giungla,

energia elettrica, laboratori e scuola,

degna di un girone infernale nella Divina

assistenza medica, corsi di formazione ed

Commedia, per poter dare loro un futuro, una

educazione civica. Le piccole anime della

Per far comprendere meglio che cosa intendo, mi servo di un esempio relativo ad una delle persone che da due anni vivono nel villaggio. All’inizio Batsetseg sembrava assente. Persino durante le riunioni e alle classi a cui doveva partecipare, rimaneva seduta in disparte senza mai dire un parola: la sua era una presenza puramente fisica. Neppure le altre ragazze madri del campo parlavano con lei. Eppure nella sua ger ci sono ben sette marmocchi che giocano allegramente con gli altri bambini della comunità; mi chiedo come sia possibile che non venga mai coinvolta nella vita del gruppo, che non riesca a vedere come le altre famiglie stanno “migliorando” le loro condizioni di vita. Durante i sopralluoghi al campo, la sua ger era sempre quella nelle peggiori condizioni. Ganaa ogni volta, con grande pazienza, le spiegava il da farsi, la routine quotidiana, per rendere l’abitazione più confortevole e pulita, per la


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giovane madre e per i suoi bambini. L’addetto alla sicurezza del campo ci tiene informati, e ci dice che Batsetseg non partecipa alle pulizie collettive per il mantenimento degli spazi esterni e dei bagni. Ogni volta deve riprenderla perchè porti la spazzatura all’ingresso della GerCamp e non dietro la sua ger, oppure nascosta in qualche angolo del campo. I mesi passano, il lavoro degli operatori è come una goccia, una linfa vitale che ininterrottamente continua ad alimentare il coriaceo terreno, dove ignoranza e sofferenze hanno sedimentato l’indifferenza e l’isolamento. Prima dell’inizio dell’ennesimo corso, Ganaa fa il solito giro nelle ger. Batsetseg vive ancora come un anno fa, pulizia approssimativa, disordine e confusione generale. Ganaa rimane con lei, l’aiuta a risistemare l’abitazione, le parla mentre assieme puliscono e rassettano la ger. Le chiede di provare, di seguire i suggerimenti, per valutare la differenza e, come promessa, ogni fine settimana sarà qui da lei. Passano altre settimane, l’ennesima lezione ha inizio, ma Batsetseg non c’è. Dopo venti minuti la porta della grande Ger/Scuola si apre, e la donna arriva con un grosso piatto con carne bollita. Per un attimo la lezione si interrompe. Batsetseg porge il piatto fumante a mia moglie, le chiede scusa e la invita, al termine della classe, a farle visita nella sua ger. Appena entrata nell’abitazione, Ganaa rimane sorpresa, i bambini sono puliti, giocano serenamente, il bucato è steso ad asciugare, il tè è pronto. La casa è pulita e ordinata, Batsetseg per la prima volta sorride e, offrendo il tè caldo, inizia a parlare. Dice che

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il riscaldamento da sotto il pavimento della ger è davvero vantaggioso e adesso i suoi bambini dormono al caldo anche quando fuori il freddo è insopportabile. La sera alcuni di loro spostano la copertina dal letto, per godere del tepore proveniente dal riscaldamento. La giovane donna inizia ad elencare i vantaggi di questa nuova condizione, le dice che adesso non saprebbe più come gestire la situazione in una ger tradizionale con la stufa di ghisa. Poi si domanda, come farà il prossimo inverno, quando con i suoi figli dovrà lasciare la GerCamp, per far posto ad un’altra ragazza madre. Prosegue dicendo che qui al campo li abbiamo abituati a vivere con questi privilegi, riscaldamento senza dover usare il carbone, bagni puliti e la scuola. Ma dopo, come faranno? Forse li abbiamo “viziati”. Ganaa posa la tazza, sorride e le dice che non è affatto un vizio, si chiama “consapevolezza di poter migliorare” e le spiega che il costo dell’impianto e la manutenzione equivalgono al costo del carbone e dell’elettricità di una normale ger, ma con grandi vantaggi per la famiglia e per l’ambiente. Batsetseg la fissa negli occhi, poi un accenno di sorriso precede la frase: “Ma allora pensi che ce la posso fare, con un piccolo lavoro part-time, io e miei bambini potremo vivere in questo modo”. L’abbraccio seguente è più eloquente di qualsiasi risposta. L’addetto alla sicurezza ci ha aggiornato sulle attività di manutenzione e della pulizia del campo, Batsetseg è oggi la più attiva della comunità. Ce l’abbiamo fatta, questo è il vero successo di “Una Ger per Tutti”.

Grazie al sostegno di Montura ed ai proventi raccolti con la vendita dei libri pubblicati da Montura Editing, abbiamo acquistato un terreno in prossimità della Ger Camp. Iniziamo nel 2020 i lavori per l’allacciamento all’acquedotto pubblico che fornirà acqua potabile e per il riscaldamento. Partono anche i lavori per realizzare un edificio dove avremo finalmente docce, bagni e lavanderia. Al piano terra ci sarà un presidio medico, grazie all’aiuto di Bio-max Italia, dove medici e dentisti volontari garantiranno il loro contributo professionale. Ci sarà anche l’alloggio per l’addetto alla sicurezza del Campo. Al primo piano troveranno posto il laboratorio di “taglio e cucito”, dove verranno attivati i nuovi corsi di formazione e la realizzazione di abiti e accessori per la vendita, un ufficio amministrativo e il magazzino/punto vendita per rendere la comunità finanziariamente autosufficiente. Questo libro contribuirà alla realizzazione di questo nuovo bellissimo sogno: la Casa “Need You” House. Grazie a tutti per il sostegno!


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B E L L A T A L L A

è nato a La Spezia, ricercatore e studioso di nomadismo e di sciamanesimo, da oltre venticinque anni svolge ricerche sul campo in ambito antropologico; ha insegnato Antropologia Culturale presso la UWA University of Western Australia e la MUIS Mongolian National University di Ulan Bator. Dal 2003 è membro dell’International Association of Mongolian Studies, e dal 2016 dell’Istituto di Studi Orientali di Genova. Nel 2013 gli è stata conferita la Medaglia d’Oro dalla Croce Rossa della Mongolia per le sue opere umanitarie; nel 2016 il Paul Harris Award dal Rotary International per le ricerche e le azioni umanitarie; ha ricevuto inoltre riconoscimenti e premi internazionali per le sue attività accademiche, per opere umanitarie e letterarie, tra cui il Premio Montale alla Letteratura nel 2018 per il volume “Eugenio Ghersi: Sull’Altipiano dell’Io Sottile, diario inedito della Spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933” per i tipi Montura Editing. Ha viaggiato, studiato e raccontato di popoli e minoranze etniche di tutto il mondo, realizzando documentari, mostre fotografiche, pubblicazioni scientifiche e articoli fotografici per riviste di settore. Tra le sue pubblicazioni: Sciamanesimo e Sacro; Mongolia: nella Terra degli Inseguitori di Nuvole; Trekking nella Cordigliera delle Ande; Eugenio Ghersi; un Marinaio Ligure sul Tetto del Mondo; Tsaatan: gli Uomini Renna della Mongolia; Beyond the Undiscovered Soul; I Mille Volti dello Sciamano; Dietro la Maschera del Lupo. S T E F A N O

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fotografo e viaggiatore. Nato a Prato, ha iniziato a viaggiare fin dall’adolescenza, assecondando costantemente il desiderio e la curiosità di scoprire il mondo, attraverso l’esperienza diretta con popoli e culture diverse. L’esigenza della narrazione, sia come mezzo di espressione che come strumento di condivisione, è sempre stata una costante per interpretare e documentare il viaggio attraverso le immagini e le parole. “L’amore per la fotografia, che è sempre stata presente nella mia vita come fosse un percorso nel percorso, è una malattia di cui sembra non voglia essere guarito”. Lontano dai riconoscimenti, annovera numerosi lavori espositivi, fotografici e di reportage, sempre caratterizzati da una grande passione e densi di intimità. È con l’apprezzamento dell’amico David, che lo ha voluto come co-autore di questo volume, che nasce la sua prima pubblicazione.


DAV I D B E L L ATA L L A ST E FA N O ROSAT I

I L G R A N D E V I AG G I O LU N G O L E C A R OVA N I E R E D E L L A V IA D E L L A S E TA


Stefano Rosati Mongolia; deserto del Gobi


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INDICE INTRODUZIONE

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Lungo le antiche carovaniere dell’Asia. Il significato di questa pubblicazione.

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L’altipiano anatolico. 24 maggio 1992.

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di David Bellatalla

Turchia, alle porte dell’Asia.

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di Stefano Rosati

Caucaso, crocevia di popoli e culture. di David Bellatalla

Armenia, la magia dei caravanserragli.

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di Stefano Rosati

Tra steppe e deserti. di David Bellatalla

Turkmenistan, venti di tempesta sulla Via della Seta. di Stefano Rosati

Uzbekistan, oltre i confini.

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di Stefano Rosati

I nomadi. Gli uomini delle tende e le società viaggianti. di David Bellatalla

Mongolia, sotto cieli maestosi.

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di Stefano Rosati

Cavalcando il dragone ed il gallo di ferro. di David Bellatalla

Cina, proiezioni nel futuro.

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di Stefano Rosati

Il corridoio dell’Hexi e l’Ordos. Le piste dimenticate. di David Bellatalla

Gansu, le lunghe ombre del passato. di Stefano Rosati

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Il deserto del Taklamakan. di David Bellatalla

Xinjiang, sulle strade dei nostri predecessori.

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di Stefano Rosati

Sul tetto del mondo. di David Bellatalla

Pakistan, fotografare il presente.

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di Stefano Rosati

Nella Battriana. di David Bellatalla

Afghanistan, viaggiando con l’ironia in tasca.

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di Stefano Rosati

I cento volti della Persia. di David Bellatalla

Azerbaijan e Persia, l’ombra di Zarathustra.

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di Stefano Rosati

Epilogo; verso casa, la Mezzaluna fertile e il Medio Oriente. di David Bellatalla

Iraq e Siria, epilogo di un’epoca.

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di Stefano Rosati con immagini di Fabio Bucciarelli

Da Occidente ad Oriente: geografia e cartografia attraverso i secoli.

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di Roberto Bombarda

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LUNGO L E ANTICHE C A R OVA N I E R E D ELL' ASIA I L S I G N I F I C AT O D I Q U E S TA P U B B L I C A Z I O N E

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accontare la storia delle antiche Carovaniere dell'Asia, di cui la Via della Seta faceva parte, è un pò come voler narrare la storia del mondo. Quasi due terzi di quello che si trova scritto nelle enciclopedie storiche del pianeta, si è svolto in quei luoghi dove correvano le vie commerciali dell'antichità che, per oltre due millenni e senza soluzione di continuità, hanno costituito un ponte tra Oriente e Occidente. I mondi che queste antiche carovaniere hanno collegato per secoli, non sono unicamente quello occidentale, ellenico e romano da una parte, e quello orientale della Cina dinastica dall'altro. Nel grande mosaico di scambi che venne a svilupparsi sul grande territorio del continente EuroAsiatico, le grandi e le piccole civiltà disseminate lungo le piste, furono capaci di sviluppare e arricchire la propria identità, contribuendo in modo sostanziale al grande interscambio culturale che contraddistingue la storia delle antiche vie commerciali. Man mano che le ricerche e le investigazioni scientifiche procedono nel loro inesorabile cammino, si delinea sempre di più l'importanza che le direttrici commerciali hanno avuto nelle diverse culture e civiltà di questo immenso continente, evidenziando il significato dei rapporti sociali, nei suoi

molteplici aspetti, che è un pò l'utopia di un mondo senza frontiere. Dal punto di vista geografico hanno rappresentato l'inizio di un nuovo rapporto dell'essere umano con lo spazio terrestre, in quanto hanno portato al superamento di visioni prettamente locali e regionali. Le catene montuose, i fiumi, le steppe e i deserti, i grandi ostacoli naturali dell'antichità, sono stati superati dall'ambizione, da quella “necessità di conoscere” che voleva essere appagata, creando quel nuovo senso di continuità di spazi, che va ben oltre le diversità dei popoli che li abitano. Ciò ha significato una presa di coscienza della vastità del mondo e della sua varietà, sfociando nella necessità di comunicare, di confrontarsi, di conoscere il diverso come arricchimento personale. In sintesi, rappresenta l'essenza delle antiche vie carovaniere sia dal punto di vista storico e culturale che del rapporto tra l'uomo e gli spazi terrestri. Il titolo di questa pubblicazione, “Il Grande Viaggio”, è stato scelto volutamente dagli autori, perchè il ripercorrere queste antiche vie carovaniere, rappresenta “la naturale predisposizione al movimento”, un'esperienza in cui si ritrovano tutti quegli elementi che contraddistinguono il viaggio nell'immaginario collettivo e che riaffermano le sue finalità ontologicoculturali, lontane anni luce da quella mera funzione strumentale che troppo

spesso oggigiorno, il viaggio rappresenta. L'incognita, la sorpresa, la meraviglia, il fascino, il pericolo, la sfida, lo sforzo, la gioia, l'appagamento e lo stupore sono quegli ingredienti che trasformano la personalità e la mentalità dell'individuo, ampliando il modo con cui percepire il mondo, e anche sé stessi. Più in generale il viaggio va considerato come una fonte primaria del “nuovo” per la storia dei popoli e delle civiltà, come una forza generatrice di conoscenze e di diversità, attraverso la comparsa dell'estraneo, dell'esotico e dell'inatteso, che crea, plasma e rinnova, rapporti e legami sociali. Oltre ad essere un mezzo di trasformazione delle identità sociali, l'esperienza della peregrinazione influenza a sua volta il viaggiatore che inizia ad avere una nuova consapevolezza della propria identità, spogliato dalle proprie sicurezze, dagli affetti familiari e lontano da quei luoghi conosciuti e rassicuranti dell'infanzia. Il significato più profondo del viaggio è quello di intraprendere un percorso di apprendimento conoscitivo, vissuto sulla propria pelle, che vivifica e rende cosciente il soggetto della trasformazione in atto. Storicamente il viaggio, inteso come fuoriuscita dal sistema sociale e dallo spazio in cui esso si colloca, non è mai stato un atto totalmente autonomo e neppure un gesto privo di significato. Rappresenta


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piuttosto l'emanazione, il lungo braccio di una società, in rapporto alla complessità delle sue relazioni interne ma anche delle contraddizioni ideologiche e persino mitologiche che si estrinsecano nelle sue forme materiali e religiose. Questa spada di Damocle, questa lunga ombra non risparmia neppure il più libero dei viaggiatori. La funzione e la collocazione sociale del viaggio travalicano l'esperienza personale, assumendo evidenze fortemente significative nell'incontro con “l'Altro”, attraverso il necessario superamento delle difficoltà e degli impedimenti, dell'inconsueto e persino dell'ignoto. Lontano dai biechi luoghi comuni delle campagne propagandistiche discriminatore, l'etnocentrismo resta un fattore positivo finchè rimane inscritto nel motivo/diritto di identità etnica e di individualità. L'ignoranza e l'emotività esasperata accentuano le diseguaglianze caricando la diversità di disprezzo e di pregiudizi fortemente negativi, che possono degenerare in quello che viene definito “etnocentrismo patologico” con conseguenze disastrose. Al contrario il viaggio rimarca la diversità sia negli aspetti concettuali, sia nei sistemi sociali, come elemento positivo e fortificante. Le varietà delle forme culturali, in contrasto con l'uniformità convenzionale, costituisce un arricchimento che ci sottrae dalla monotonia e funge da stimolo catalizzatore per trovare e sviluppare nuove forme materiali e di pensiero. In tal senso la storia della Via della Seta sancisce l'importanza sociale e culturale del dialogo interculturale quale Patrimonio dell'Umanità. David Bellatalla e Dino De Toffol compiono il loro viaggio tra il 1992 e il 1994, prevalentemente a piedi per quasi due anni, lungo le antiche carovaniere, in un momento storico “formidabile e fortunato”, come a loro piace spesso ricordare. Davvero fortunati per diversi aspetti, ma soprattutto sempre lontani da guerre e conflitti, a volte appena conclusi oppure imminenti, attraversando luoghi che da lì a poco sarebbero divenuti scenari di terribili conflitti, come la rivolta in Cecenia e Tajikistan, il confitto in Afghanistan con l'invasione dei Talebani, i raid degli eserciti iracheni con i gas nervini sui terriori kurdi. Stefano Rosati e Lucia Ciarpallini dal 2014 hanno iniziato un lavoro fotografico, ma non solo, e di viaggio-

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investigazione lungo la Via della Seta, alla ricerca di testimonianze e di storie, anche di quelle meno conosciute, analizzando i cambiamenti, il processo di globalizzazione in atto, utilizzando la fotografia come interfaccia narrativa, avendo come traccia il percorso intrapreso dell'amico David e dal suo impareggiabile compagno, vent'anni prima di loro. Gli undici capitoli, corredati da carte geografiche tematiche che illustrano le antiche vie carovaniere, utilizzate nel periodo storico in cui esse erano in auge, riuniscono e raccontano di quelle regioni, della storia dei traffici commerciali, delle testimonianze storiche dei viaggiatori del passato, dei luoghi, dei monumenti e dei preziosi reperti archeologici rinvenuti che testimoniano i fasti, le conquiste, i decadimenti e le rovine di grandi civiltà, ma soprattutto evincono quello spirito del viaggio che nel corso dei secoli ha caratterizzato gli animi di mercanti, pellegrini, eserciti ed avventurieri, lungo le piste commerciali. I box fuori-testo costituiscono uno specchio, un caleidoscopio di testimonianze, nel quale il viaggio di Stefano e Lucia si incrocia, si interseca e si interfaccia con il vissuto di David e Dino, come in una fantastica macchina del tempo, in quelle stesse località e in quelle situazioni così particolari, che sono

la peculiarità impareggiabile del viaggio lungo la Via della Seta. Gli ingredienti ci sono tutti, una storia vecchia di migliaia di anni, popoli e luoghi che ancor oggi lasciano attoniti e sbalorditi, monumenti e vestigia di grandi culture e civiltà, che divengono lo straordinario scenario di avventure e scoperte, e nel quale il viaggio può intraprendere, senza preavviso, nuovi e inaspettati percorsi. Il nuovo e l'inarrestabile processo di urbanizzazione, non deve trarre in inganno. Ripercorrere oggi quelle vie, con la consapevolezza del loro significato, vuol dire imbattersi nei segni di quelle antiche civiltà, di quei mondi carichi di fascino per ciò che hanno rappresentato e per quello che ancora oggi sanno trasmettere. Saper cogliere il passato assieme al presente, per quello che di diverso questi luoghi sanno ancora suggerire, sono la lente di ingrandimento e quel biglietto di andata e ritorno che il “viaggiatore” deve avere sempre con sé. Le immagini del volume raccontano delle due esperienze di viaggio, rievocando il fascino di luoghi leggendari, a volte puntualizzando gli inevitabili cambiamenti, altre ancora, in maniera toccante, riverberano il vissuto dei viaggiatori, gli incontri straordinari, le particolari vicende vissute in quei luoghi il cui fascino è ancora una volta la molla, lo stimolo a preparare i bagagli per partire e intraprendere, per l'ennesima volta, il Grande Viaggio.

L’incognita, la sorpresa, la meraviglia, il fascino, il pericolo, la sfida, lo sforzo, la gioia, l’appagamento e lo stupore sono quegli ingredienti che trasformano la personalità e la mentalità dell’individuo, ampliando il modo con cui percepire il mondo, e anche sé stessi.



Stefano Rosati Turchia; Gรถreme


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- Scusi dov'è la marca da bollo di quest'anno? - Perchè, non c'è? La solita storia della marca da bollo nel passaporto di Dino che immancabilmente non mette mai. - Lo sa che deve metterla per l'anno nel quale utilizza il suo documento per l'espatrio? - riprende il finanziere alla dogana del porto mercantile di Venezia. - La nave sta per partire! - intervengo io; e subito Dino aggiunge - Non mancherò di metterla al mio ritorno, sperando di ritornare sano e salvo: Sure (sicuro)! –

sorride sollevando la mano destra come solenne promessa. - Ma perché, dove sta andando? Impassibile il funzionario incalza, continuando a battere freneticamente il passaporto di Dino tra le sue mani. - Andiamo sulla Via della Seta - Replica Dino. – Proprio così, faremo un viaggio lungo le antiche carovaniere dell'Asia, dalla Turchia fino alla Cina, come Marco Polo. Il funzionario ci osserva con sguardo interrogativo, sospira, poi aggiunge - E quanto starete via?


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- Sedici, diciotto mesi, poi saremo di nuovo qui a Venezia. - commento. Scuote la testa incredulo, guarda l'orologio, siamo probabilmente gli ultimi e il suo turno sta per finire. Passa la mano sul mento, ci guarda con sorriso sornione, infine riconsegna il passaporto a Dino, e aggiunge poco convinto – beh, per questa volta, chiuderemo un occhio. Andate e ... buona "seta"! Superiamo velocemente il grande salone d'imbarco, ora completamente vuoto, zigzagando tra le barriere del percorso obbligato che conducono all'uscita della dogana. Camminiamo fianco a fianco, poi più veloci procediamo lungo il molo, la motonave turca "Ankara" è a soli duecento metri da noi; le sirene fischiano ripetutamente l'imminente partenza. Dino borbotta senza neppure voltarsi - Che testa questi finanzieri! - Che testa hai tu! – Ribatto io, un pò infastidito per l'ennesima pantomima che ormai conosco a memoria. Poi mi riprendo, sorrido e aggiungo - Beh, almeno abbiamo trenta dollari in più per questo lungo viaggio. Appoggiati alla balaustra di poppa

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guardiamo in silenzio le ultime luci del tramonto che avvolgono la Serenissima. Quante volte abbiamo desiderato ed atteso con ansia questo momento: la nostra partenza lungo la Via della Seta. Per oltre due anni abbiamo sognato, pensato, immaginato questo viaggio, il Grande Viaggio. Abbiamo riempito blocchi di appunti, tracciato carte ed itinerari, ricavando ogni possibile informazione dai libri, quelli veramente tanti, e dai diari di viaggio di avventurieri, commercianti e missionari di ogni epoca. Eppure adesso una parte di me vorrebbe scendere da questa nave e tornare verso casa, dalla mia famiglia, tra gli affetti e la sicurezza delle mura domestiche. L'altra invece, scalpita verso questa grande avventura, per realizzare quel sogno nel cassetto, maturato in età giovanile, che solo adesso si sta avverando. Chissà se anche i viaggiatori dell'Età di Mezzo, al momento della partenza per il lontano Oriente, provavano le mie stesse sensazioni? Chissà quali emozioni, paure, ansie e sogni erano celati nei loro cuori al momento della partenza?

David Bellatalla e Dino De Toffol, la partenza da Venezia nel 1992


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Mappa di Hereford XIII secolo


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Erano allora missioni evangeliche, missive papali e ancora, commerci, profumi d'affari e sogni di ricchezza legati a mercanzie d'ogni genere, nonché fama, onore e conquiste, le ragioni che spingevano quei viaggiatori per necessità, a lasciare le loro terre natie per salpare verso lidi lontani. Non avevano con sé nessuna garanzia, solo la data della partenza era cosa certa, mentre la loro mente era pervasa da immagini di pericoli e di imprevisti, ma anche di sogni da realizzare. Questo era il prezzo del loro biglietto, spesso di sola andata, come ci raccontano tante storie antiche. A loro, a questi personaggi di epoche e di paesi diversi, dei quali spesso non conosciamo neppure i nomi, dobbiamo gran parte delle nostre conoscenze, e non solo quelle geografiche. Storie di popoli, antiche tradizioni e caleidoscopi di meraviglie che ancora oggi vengono studiate, raccontate e costituiscono le pietre angolari del nostro patrimonio culturale. Solo l'ambizione, il lucro, la fede e forse un pizzico di follia, furono in passato i motori dell'energia umana, capaci di condurre tra pericoli e mete sconosciute, uomini coraggiosi, esseri disperati e personaggi illuminati che, sin dalla più lontana antichità hanno fatto a loro insaputa, così tanto per la conoscenza del mondo. La storia ci racconta che non furono le missioni scientifiche e le delegazioni uffciali quelle che hanno esplorato il globo, ma ben prima di loro, i commercianti, i conquistatori e i propagandisti di ogni credo religioso hanno aperto il cammino alla conoscenza, alcune volte a costo della loro stessa vita. Mi piace pensare che dentro ognuno di loro si celasse quella necessità, spesso nascosta al raziocinio, che ha posto l'essere umano di fronte a sé stesso, desideroso di appagare quell'eterna domanda che da sempre assilla il genere umano: "che ci faccio qui?". Ecco quindi l'esperienza del viaggio, forza attiva che tutto trasforma, attività creatrice della condizione umana, esperienza in grado di fornire una prospettiva esterna e comparativa della condizione ordinaria, in grado cioè di rendere il “familiare” ed il "consueto", elementi esterni all'individuo e quindi osservabili, pensabili. La necessità e la trasformazione dell'esperienza del viaggio, spogliano

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l'individuo dalla propria condizione, riportandolo ad una individualità e ad un impoverimento che inevitabilmente lo riducono ai suoi tratti essenziali, consentendogli di vedere per davvero, quali essi siano. Verso un' affermazione di un'identità essenziale, non contaminata, e più vicina ad un tempo aureo, noster olim, da sempre primaria necessità delle nostre coscienze. Ritroviamo inoltre, nella missione religiosa e nell'obiettivo commerciale del viaggio, uno degli aspetti più reconditi dell'esperienza del transito: la condizione del viaggio quale espiazione, necessità, penitenza e purificazione. Una pratica vecchia quanto il mondo, o meglio quanto la coppia originaria e la loro relativa cacciata dal Paradiso Terrestre; quando viene loro imposto di vagare sulla terra fino alla fine dei tempi, quale espiazione o misura cautelare. È quello stesso Paradiso Terrestre che ritroviamo nella cartografia medioevale, situato lassù, in alto, ad oriente. Le antiche carte geografiche, disegnate dagli occidentali, ponevano nella parte superiore delle mappe, l'oriente geografico, secondo l'insegnamento biblico "...e Dio pose l'uomo ad oriente del Gan Eden...”, un luogo che per ovvi motivi, doveva trovarsi prossimo alle “Terre di Nostro Signore”. Sovente raffigurato come una grande isola, altre come l'estremo promontorio del mondo, sempre circondato da ogni sorta di ostacoli, esseri mostruosi nonchè dagli eserciti di Gog e Magog in attesa dell'Armageddon. In Oriente il Paradiso si trova altrove, nelle montagne del Kunlun per i taosti, come recita il testo “ll trattato del Vuoto Perfetto” del III secolo, dove questo luogo viene descritto come un “paese meraviglioso” dove non vi sono né capi né sudditi e tutto segue le leggi della Natura. Per i giainisti, gli induisti e i buddisti, si colloca sul monte Meru, in Himalaya, dove sgorgano i quattro grandi fiumi (proprio come nel Paradiso biblico) e anche nella città di Indraloka, una grande dimora voluta e costruita dal dio Indra, come si legge nel poema della Mahabharata. Per i Sumeri era il Dilmun, il luogo dove non eisteva la malattia e la morte. Nella mitologia giapponese lo si ritrova invece sul monte Penglai, un luogo dove si è eternamente giovani grazie alle piante e ai frutti di cui ci si nutre.

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Turchia; Istanbul, la Moschea Azzurra

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Una testimonianza universale di una condizione interiore, o piuttosto di una necessità dell'uomo del suo tempo, costantemente proteso alla ricerca di una ragione ultima che riconduca l'essere umano alla condizione originaria, a quella pace, serenità e sicurezza, che è lo specchio dei tempi da una parte e della fragilità dell'essere umano, dall'altra. Nessuno dei 64 mappamondi europei, dal VII al XIII secolo, che abbiamo scrupolosamente consultato, dava la minima idea di ciò che ci fosse al di là degli Urali, del Pamir, dell'Himalaya e del fiume Gange. - Ci pensi che anche i Polo a bordo di un grande veliero salparono da Venezia, forse al tramonto, proprio come noi adesso – Dino rompe il silenzio mentre indossa la sua immancabile maglia di pile a girocollo; e riprende: - Ma lo sapeva dove stava andando, Marco Polo, quando è partito? E sapeva quando avrebbe fatto ritorno qui a Venezia? Sorride, poi volge lo sguardo lontano, verso le ultime luci del tramonto mentre la nave scivola lenta lungo il Canal Grande verso il lontano Oriente. Quel furbo e geniale Marco, che spesso viene considerato il primo occidentale ad aver superato innumerevoli pericoli muovendo verso l'incognito, su strade sconosciute mai battute da nessun viaggiatore, sino al famigerato Catai, realizzando qualcosa di unico; un pò come la prima navigazione di Colombo verso le Americhe o la prima traversata dell'Africa di Livingstone. In realtà, lo zio ed il padre avevano percorso solo una delle grandi piste che per oltre quindici secoli eserciti, avventurieri e missionari avevano calpestato prima di loro. Una rete complessa di itinerari che ha costituito, senza soluzione di continuità, un insostituibile ponte di collegamento tra i due estremi del continente eurasiatico. Non solo sete pregiate, profumi e spezie, pietre e gemme preziose transitavano lungo le vie commerciali, bensì innovazioni tecnologiche, scoperte scientifiche e speculazioni filosofiche, che costituivano l'invisibile e prezioso carico di asini, cavalli e cammelli. Un interminabile fluire di carovane che ha determinato incontri, scontri, contaminazioni e osmosi, tra popoli, razze, culture e religioni; un carico davvero

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“importante” e dal quale nessuno poteva o voleva rimanerne escluso. Un carico così “invasivo” che, nolente o dolente, ha caratterizzato e modellato la storia, lo sviluppo e le trasformazioni di moltissime culture del continente eurasiatico. Testimonianze e tracce evidenti di quanto scritto sopra, le possiamo riscontrare, individuare e cogliere, in ogni paese che attraversiamo; curiosando dentro i diversi musei, passeggiando per le strade dei centri storici o semplicemente partecipando alle feste locali, alle rassegne popolari, alle sagre e alle diverse celebrazioni religiose. Attraverso simbologie, materiali, tecnologie, tessuti e filati, decorazioni, cibo e bevande, e persino nell'evidente sincretismo religioso, ritroviamo elementi importanti che riavvicinano paesi lontani, lungo quei secoli di storia che hanno visto le antiche carovaniere dell'Asia al centro delle trasformazioni culturali in ogni dove. Eccoli lì! Sono profili di minareti e moschee, che lentamente prendono forma davanti alla prua della nave, man mano che ci addentriamo nel profondo varco del Bosforo. Ancora oggi arrivare per mare ad Istanbul suscita sorpresa ed emozione nel viaggiatore occidentale, così come magistralmente hanno saputo raccontare Lamartine, Gautier e De Amicis, solo per citare alcuni autori, nelle loro opere indimenticabili. È la “Porta d'Oriente” alla quale è legato il fascino dell'ingresso in un nuovo mondo, in una realtà dai mille volti e dalle tante ombre: la civiltà e la cultura dell'Islam. Il colpo d'occhio è affascinante: da levante a ponente è un'assemblea di minareti, madrase (scuole teologiche) e moschee che si stagliano sopra numerosi edifici di ogni genere. Sembrano cercare un loro spazio vitale quasi stessero “spingendo” la casa o il magazzino adiacente. Dai sobborghi costieri, cresciuti troppo in fretta in questi ultimi anni, superiamo il Bosforo scorgendo il grande serraglio proprio davanti a noi. Più avanti, sulle colline di Pera, il quartiere di Galata, roccaforte e porto mercantile genovese nell'Età di Mezzo, ancor oggi sembra osservare guardingo l'Eminönü, la base dei traffici commerciali degli storici rivali, i veneziani. Dell'antico quartiere della Repubblica Marinara, rimane l'imponente torre circolare fatta edificare nel 1349 da Rosso Doria


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primo governatore genovese a Galata. Costruzione possente e severa, alta quasi settanta metri, attorno alla quale si sviluppa un intricato dedalo di carrugi e scalette per nulla dissimili alle familiari viuzze della vecchia Genova. Eppure Istanbul non è stato che uno dei numerosi porti dell'antichità, da dove le imbarcazioni greche arrivavano e salpavano cariche di ogni tipo di merce e mercanzia proveniente dall'Oriente. Istanbul rappresentava solo uno dei tanti approdi lungo la costa orientale del Mediterraneo. Il Panionion ellenico, la confederazione delle città greche dell'Asia Minore, contava numerosi porti lungo le coste dell'odierna Turchia (Assos, Mileto, Bodrum, Antalya, Antakya) ed importanti centri commerciali tra i quali la favolosa città di Efeso, che col tempo assunse sempre maggior rilevanza culturale e sociale sino a divenire, in epoca romana, capitale delle province dell'Asia. Dal suo porticciolo, oggi Kusàdaysi, ribattezzato Scalanova dai genovesi, dipartiva una delle numerose piste commerciali che conducevano le carovane

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verso i mercati d'oriente. Si tratta della principale pista che attraversava la Turchia nel suo settore meridionale. La carovaniera lasciava Efeso attraversando la regione di Pamukkale, recentemente decretata Riserva Naturale dal governo turco. È un luogo davvero suggestivo: enormi cascate di calcare bianchissimo percorse da cristalline acque termali, raccolte in terrazze naturali, che ricoprono l'intero fianco della collina sovrastante il paesello. Proprio dietro le cascate si trovano le rovine dell'antica Hierapolis, luogo di cure termali dove anticamente i greci si recavano nella speranza di guarire o trovare sollievo da malattie ed acciacchi. La pista proseguiva verso Konya entrando nell'altopiano Anatolico. Ed ecco comparire lungo il cammino il caravanserraglio, un massiccio edificio rettangolare che con stupefacente regolarità, scandiva le tappe per le carovane in marcia. Posti ad una distanza di circa trenta chilometri l'uno dall'altro, i caravanerragli (chiamati Han in tutta la Turchia) furono una delle tipologie architettoniche introdotte dai selgiuchidi

Turchia; Pamukkale, nella provincia di Denizli


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Turchia; Konya, il Mausoleo di Hazret Mevlana

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nel XII secolo. Si trovano sull'intero territorio anatolico, edificate per la tutela dei preziosissimi traffici commerciali nell'Età di Mezzo. La loro struttura fortificata aveva un'unica porta d'accesso nel massiccio perimetro difensivo, e la regolare presenza lungo le rotte commerciali, offriva un ricovero sicuro a tutte le carovane in transito. Nel grande cortile interno venivano stivati i carichi e posti al riparo gli animali; nella corte più interna si trovava la piccola moschea, i dormitori comuni e le stanze singole. In ambienti comuni venivano serviti i pasti. È qui che pellegrini, avventurieri e mercanti di razze e paesi diversi, seduti l'uno di fronte all'altro, al tenue chiarore delle lampade a olio, consumavano la frugale cena e sorseggiavano l'immancabile tè (chai), scambiando informazioni e preziosi consigli. In questi luoghi si narravano e si ascoltavano episodi e racconti di popoli lontani, delle loro usanze e dei loro mercati; si parlava anche di scoperte e d'innovazioni tecnologiche, di speculazioni filosofiche e di concetti religiosi. All'interno delle mura del caravanserraglio è avvenuto qualcosa di magico, d'importante, per lo sviluppo e la trasformazione delle culture del continente eurasiatico. Agli inizi del XIII secolo il sultanato selgiuchide elesse Konya a propria capitale. Posta sulla antica via commerciale, la città di epoca romana divenne col tempo un luogo di notevole importanza politica e culturale. Fulcro dell'economia e dell'egemonia selgiuchide e poi ottomana, Konya enfatizzò la propria immagine e divenne luogo d'elezione della corrente religiosa dei Dervisci Mevlevi, conosciuti in occidente come i Dervisci danzanti. Ancora oggi la tomba di Mevlana GialaludDin Rumi, “il mistico persiano fondatore dell'ordine dei Dervisci”, con il suo imponente mausoleo coperto da uno scintillante cono di ceramica turchese, è meta di pellegrinaggi da parte di tutto il mondo islamico. La sua figura e la singolare espressione di fede dei Sufi, che attraverso la musica del naj e la danza estatica conducono alla sublimazione dell'anima e predispongono l'essere umano a quello stato di grazia e contatto con il Divino, ha ispirato pensatori e filosofi di ogni parte del mondo. La pista meridionale nel suo procedere verso oriente incontrava il primo vero e

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proprio ostacolo geografico: i monti del Tauro, con le catene del Bolkar e Aladaglar. Costretta quindi a risalire piegando a nordest, la via commerciale attraversava una delle aree più affascinanti dell'altipiano. Le montagne del Bolkar, guardinghi torrioni di questo tratto di pista, sono oggi il luogo abitato dalla minoranza etnica degli Yörük, nomadi di ceppo turco che hanno in parte mantenuto la propria matrice culturale di popolo di allevatori, legati alle antiche e collaudate regole della transumanza. La casa degli Yörük è una semplice tenda, la yurt, costituita da un perimetro circolare di pietre sul quale viene posto un leggero telaio di piccoli tronchi e rami d'albero annodati tra loro, ricoperto da pelli di capra o da grandi teloni cerati. Abitualmente una tenda può ospitare dai quattro ai dieci individui. Per questo popolo, come per qualsiasi altro gruppo nomade dell'Asia, l'ospitalità non è una forma di gentilezza, bensì una necessità materiale e sociale, sulla quale il viaggiatore può sempre contare. Acceleriamo il ritmo superando l'ennesimo passo, nella speranza di evitare il temporale annunciato dall'aria pungente e dal vento che trasporta le prime gocce di pioggia. Voci, schiamazzi e rumori rompono il silenzio montano, richiamando la nostra attenzione. Sono giovani pastori che stanno radunando il gregge di capre spaventato dal nostro arrivo improvviso. I due giovani corrono agili sulle pietre e sulle lingue di ghiaccio, impedendo agli animali di raggiungere un costone roccioso proprio sopra un impressionante dirupo. Sganciamo gli zaini e cerchiamo di fare del nostro meglio improvvisandoci provetti pastori. Il nostro aiuto è ben poca cosa rispetto all'agilità e alla maestria dei due ragazzini. A pericolo scampato, un pezzo di cioccolato e un sorso d'acqua delle nostre borracce, mette tutti d'accordo sul buon risultato ottenuto nel lavoro d'équipe. Il più giovane, dagli occhi di gatto e dal viso emaciato, con ampi gesti ci invita a seguirlo. Riprendiamo gli zaini e ci incamminiamo, lasciando la preziosa traccia del sentiero, alla volta di una piccola altura non troppo lontana. Proprio dietro lo sperone roccioso, racchiusa da un'alta balconata di rocce, scopriamo un'ampia verde radura delimitata da chiazze di neve gelata che il sole primaverile non ha ancora disciolto.


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Diverse persone sono in piena attività; siamo prossimi alla casa del giovane pastore, in un campo di nomadi Yörük. Ci avviciniamo al gruppo di tende tra l'abbaiare dei cani, prontamente tenuti a distanza da abili mani. L'intero clan sta sistemando il campo, il che significa montare le yurt e sistemarvi all'interno suppellettili ed utensili che ogni famiglia Yörük porta sempre con sè. Da una delle tende già sistemate nella radura, un anziano con inequivocabili gesti ci invita a raggiungerlo. Entriamo, sistemandoci sui grandi tappeti disposti attorno alla stufa di ghisa che occupa proprio il centro della “casa”. Passano alcuni minuti prima che i nostri occhi si abituino alla tenue luce dell'interno. Un'intera famiglia è riunita intorno a noi, tra loro c'è anche il nostro giovane amico; ci osservano con sguardo sereno che non nasconde una certa sorpresa e curiosità. Ci viene offerto té caldo, carne di pecora bollita, formaggio, pane azimo, olive salate ed albicocche secche. Cerchiamo di arrangiare un colloquio con i pochi vocaboli turchi che conosciamo. Ben presto ci rendiamo conto di quanto tutto ciò sia perfettamente inutile. La serenità e l'armonia di questa atmosfera, il comune

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senso di empatia che si è appena creato, dove un sorriso ed uno sguardo divengono più eloquenti ed esaustivi di ogni arguto discorso, ci fanno sentire tra amici, al sicuro, mentre fuori comincia a nevicare. L'antica pista proseguiva verso Aksaray dove, poco lontano, si trova la misteriosa valle di Peristrema (Ilhara). Si tratta di un vero e proprio canyon scavato nell'altipiano. È attraversato da un piccolo corso d'acqua, attorno al quale cresce rigogliosa una fitta vegetazione. Ci sono ruderi di chiese bizantine e di alcune celle di eremiti cristiani, ricavate scavando direttamente nella roccia, sui fianchi ripidissimi della falesia. Siamo soli. Cerchiamo di arrampicarci su improbabili gradini per raggiungere gli ingressi degli antichi siti. Ci domandiamo come potessero arrampicarsi fin lassù, immaginando quella comunità di religiosi e pellegrini impegnati nel trasportare vettovaglie, attrezzi, strumenti e chissà che altro, per edificare e vivere in quegli ambienti collocati a strapiombo sul vuoto. Alla fine ci siamo; nel piccolo anfratto appena raggiunto si aprono cunicoli con

Turchia; Massiccio del Bolkar, campi nomadi con le yurt; etnia Yörük


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scalette interne scavate nel tufo. Su alcune pareti sono ancora leggibili le raffigurazioni cristiane, scene dei Vangeli e del Cristo. Lo stato di conservazione delle pitture è davvero precario, l'incuria e il trascorrere dei secoli hanno lentamente deteriorato questo prezioso patrimonio artistico. Dino mi chiama, lo cerco in quel labirinto di celle e cunicoli. Siamo in una stanza molto più grande delle altre; gli affreschi ricoprono l'intero soffitto a volta che scende irregolare fino alla base della stanza. Per un attimo ci fermiamo ad osservare col naso all'insù. Posiamo a terra telecamera e apparecchiature fotografiche. Ci sediamo su una grande roccia levigata, nel silenzio più assoluto. Guardiamo esterrefatti, per un attimo immaginiamo la presenza degli antichi abitatori mentre assistono allo svolgimento di un antico rituale; anche noi rimaniamo in religioso silenzio.

Turchia; Cappadocia, i famosi camini delle fate

Siamo arrivati ai margini della regione della Cappadocia, oggi una delle aree turistiche più famose della Turchia. La sua fama è legata all'eccezionalità del paesaggio naturale dovuto ad un lento processo di

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erosione naturale dell'immensa massa di ceneri e detriti, depositata nel corso di milioni di anni dai due grandi vulcani, l'Ercyes e l'Hasan. È un'immensa vallata ricoperta da migliaia di pinnacoli, i famosi camini delle fate, dalle dimensioni sorprendenti e dalle forme bizzarre. Sono perforati da mille pertugi e cavità. Di fronte a una tale meraviglia la mente vola verso il mondo delle fiabe. Sembra di vivere in un sogno oppure di trovarsi davanti a un immenso scenario teatrale. È un paesaggio che nel corso dei secoli andrà scomparendo per lo stesso motivo che ne ha determinato la sua attuale bellezza: l'erosione della pioggia e del vento. Le vie commerciali correvano ai margini di questa regione dove l'uomo ha comunque lasciato tracce evidenti della propria opera. Nei torrioni e nelle pareti di tufo hanno scavato abitazioni, chiese, cappelle e monasteri, affrescando soffitti e navate, ricavando inoltre mastodontiche colonne e scalinate. Si tratta di un patrimonio artistico di straordinario valore.


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Furono i monaci bizantini, i principali autori di queste strabilianti opere artistiche che attorno al VI secolo d.C. scelsero la Cappadocia quale luogo di rifugio per poter officiare i propri riti e sfuggire alle terribili razzie e persecuzioni, prima da parte dei Romani, durante il famoso periodo iconoclasta e successivamente ad opera dei Selgiuchidi, subito dopo la disfatta dell'Impero Romano d'Oriente. Attorno all'anno mille la situazione divenne ancor più insostenibile, costringendo un gran numero di cristiani a trovare rifugio nel sottosuolo, in vere e proprie città sotterranee (Kaymakli, Derinkuyu, Özlüce). Veri e propri labirinti fatti di stanze, corridoi e scale disposte su sette, otto livelli ad oltre trenta metri di profondità, forniti di pozzi per l'acqua, magazzini per le derrate alimentari, canali di aereazione e persino luoghi di culto. In superficie la porta d'accesso alla città, un'enorme pietra di forma circolare, poteva essere chiusa ed aperta solo dall'interno. torneremo qui a Goreme a salutarti”. Siamo ospiti nella Guest House di Alì, modesta e incantevole pensioncina per turisti fai-da-te. Ogni camera è scavata nel tufo, sulla parete verticale che dalla strada raggiunge l'altipiano. Le scalette conducono agevolmente ad ogni piano e proprio davanti all'entrata della stanza dove alloggiamo, c'è un piccolo balconcino attrezzato con comode sdraio e tavolino. La vista sulla valle è mozzafiato. Alì è alto un metro e novanta, tutto nervi e ossa, due baffi da fare invidia a Mangiafuoco, capelli sale e pepe, un abbigliamento tra il meccanico e l'addetto alla fonderia a fine turno, e una vitalità ed energia a dir poco inesauribili. Dopo alcuni giorni ci rendiamo conto di non essere solo ospiti della sua pensione, ma di essere entrati nella sua cerchia di amici. Dino è stato geniale nel saper comunicare con Alì (parlano entrambi tedesco) e soprattutto nel saper proporsi al momento giusto, per piccoli lavoretti e sistemazioni, aiutando il super Marioindaffarato gestore. La sera, quando torniamo dalle nostre perlustrazioni siamo sempre con lui, seduti ad uno dei tavoli davanti al barbecue, per parlare, mangiare, bere e ridere fino a notte fatta. Quando ci salutiamo per proseguire il nostro viaggio c'è un grande abbraccio e una solenne promessa: “un giorno o l'altro

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Nonostante l'interesse ed il sostegno da parte dell'Unesco, che ha realizzato il restauro di alcune delle più importanti chiese della regione di Goreme, la maggior parte del patrimonio artistico della Cappadocia è ancora privo di qualsiasi forma di protezione. Ci auguriamo davvero che presto si possa tutelare quest'area geografica per poter apprezzare al meglio questo meraviglioso Patrimonio dell'Umanità. Proseguendo verso Est, le antiche vie carovaniere attraversavano il centro dell'altipiano anatolico, proprio nel cuore di uno dei regni più affascinanti che si sono succeduti nel corso della storia in quest'area cruciale del continente euroasiatico. L'antico regno di Mitridate, combattuto a più riprese e per lungo tempo tollerato e rispettato da Romani e Persiani, ha svolto un ruolo tutt'altro che secondario nello sviluppo e trasformazione di quest'area dell'Anatolia. I Mitriati governarono la Commagenia, una satrapia strappata ai Seleucidi, per oltre due secoli. Proprio sulla vetta del monte Nemrut, nel cuore del regno, il loro re Antioco I, fece edificare la propria tomba, intorno all'anno 50 d.C. Milioni di pietre furono trasportate fin sulla vetta della grande montagna, erigendo una vera e propria piramide alla cui base

Turchia; Nemrut Dag, i resti monumentali della tomba di Antioco I


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Turchia; Monti del Kashkar, nella regione nord-orientale del Paese

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furono costruite due terrazze monumentali. Fianco a fianco, grandi statue raffigurano le divinità del mondo greco-romano e quelle persiane. Il loro stile particolare lascia intendere lo sforzo e la volontà di un popolo nel voler riunire, attraverso una nuova identità nazionale, l'intero sviluppo e storia della cultura commagene. Il berretto frigio delle figure maschili, i nasi camusi, le barbe curate ad anelli e l'occhio volutamente ingrandito, come voleva l'arte persiana, si fondono nelle immagini dell'iconografia greco-romana, dalle dimensioni e dall'importanza, che ricordano quelle dell'antico Egitto. A oltre duemila metri di quota, quest'immenso trono, che dall'alto sovrasta gran parte dell'altopiano anatolico, sembra sancire lo sforzo ed il desiderio di un re del quale ci restano solamente i segni di una statua giacente e di un'iscrizione orgogliosa. Dieci volte più grande del lago di Garda, l'azzurro specchio d'acqua di Van, rompe la monotonia dell'altipiano. Le rovine di Tushba, la città costruita attorno al IX secolo a.C. per volere di Sarduri I, sorvegliano l'antica via commerciale che lambiva le sponde meridionali del grande lago. Siamo nell'antico regno di Urartu, un potente impero che tra il IX e il VI a.C. regnò sull'intera Anatolia orientale e

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parte dell'odierna Georgia ed Armenia, lasciando tracce evidenti della propria cultura nelle monumentali fortificazioni (Tushba e Çavuştepe, solo per citare le più imponenti). Ci sono imperi e culture che devono la loro popolarità e l'interesse che hanno suscitato nei secoli, all'opera di studio e ricerca di qualche illustre docente, professore o alle peripezie di qualche avventuriero. Di altre si riempiono solo note a fondo pagina di capitoli oppure i margini di studi relativi ad altre realtà. La storia del regno urarteo fa parte di queste ultime; basti pensare che fino ad alcune decine di anni fa, gran parte delle monumentali testimonianze urartee venivano ancora attribuite all'impero Assiro, per erronee testimonianze e superficiali interpretazioni. Mosè di Corene, storico armeno del V secolo scriveva che :”la sovrana Sammuramat, regina degli Assiri aveva fatto venire dodicimila operai e seimila abili artigiani dall'Assiria per edificare questa favolosa città. Aveva fatto costruire splendidi edifici in pietra dai colori diversi, con larghe strade d'accesso delimitate da frutteti e sontuosi giardini. I meravigliosi monumenti erano collocati nella parte più alta della città, inaccessibili ai comuni cittadini. Dove la montagna era più impervia e la pietra era la più dura, che


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nemmeno il ferro la scalfisce, fece creare il suo palazzo con le stanze per i ricevimenti, le camere e le stanze del tesoro. Dai balconi del palazzo sulla rupe, la vista dello spettatore cade nella assoluta meraviglia” . Solo la recente scoperta di alcune tavolette incise a Tushba, alcune iscrizioni rinvenute a Çavuştepe, nonchè l'importante ritrovamento dei rotoli di Kumran, ci hanno restituito i nomi dei legittimi proprietari di tali opere. La grande pista settentrionale che attraversava la Turchia in direzione del Caucaso, correva lungo la direttrice ovestest, seguendo il pedemontano della catena del Kashkar, i monti Pontici dell'antichità. Si tratta di alte ed impervie montagne il cui spartiacque segna nitidamente il contrasto tra due realtà geografiche lontanissime l'una dall'altra. Le verdissime ed umide vallate della costa del Mar Nero nell'area settentrionale e il monotono scenario dei versanti meridionali, aridi e desolati, dal caratteristico colore giallo rossastro dell'altipiano anatolico. Erzurum può a tutti gli effetti, essere considerato il nodo commerciale storicamente più importante di questo

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tratto di pista. “Ci sono qui numerosi caravanserragli. L'amministrazione ed il governo della città sono redditizi poiché questa è la principale porta per accedere alla Persia. Il continuo passaggio di carovane arricchisce il gendarme e il doganiere. La dogana si paga rigorosamente per l'uscita dell'oro, dell'argento e per ogni altra merce. La seta di Persia si paga 24 scudi per carico di cammello ed ogni carico sono 800 libbre. Non si carica più di un cammello a causa delle alte montagne che dovrà superare ma nella pianura un carico può arrivare fino a 10 quintali. Il carico delle tele d'India paga fino a 100 scudi, ma questo carico è più consistente di uno di seta. Tutte le merci pagano il 6% del loro valore ma le dan 24 scudi al doganiere e al gendarme, puoi fare a meno di svolgere le balle per far verificare il contenuto. Le sete che vengono da Chamaqui e da Gengea (nell'odierno Azerbaijan nda.) e da Teflis (Tiblisi-Georgia nda.) pagano 2 scudi per batman (circa 23 chili nda.). Quelle che vengono da Guilan (Iran nda.) sebbene molto più fini e più care, non pagano che uno scudo e

Ishak Pasha presso il confine turco-iraniano nelle vicinanze di Doǧubayazıt


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Kurdi; regione dell’Ararat meridionale

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mezzo. La ragione di ciò è data dal fatto che tutte le sete di Guilan vanno a Tauris (Tabriz nda.) e poi per altre strade ad Aleppo e Smirne, dove si commercia la seta ai francesi. Di seta ve ne sono tre tipi: charbasi, carvari, loge ed il loro prezzo varia da anno in anno.” Così scriveva JeanBaptisteTavernier nel suo mirabile “I sei viaggi in Turchia e Persia” del 1632. Oltre ad Erzurum, si trovano nella regione le città carovaniere di Kars ed Ani e sulla direttrice meridionale, il villaggio di Doğubayazıt. Nell'intera regione orientale si trovano testimonianze dell'antica cultura armena, anche se oggi in Turchia è “vietato” parlare di armeni. Molti di loro hanno dovuto persino cambiare il proprio cognome per sfuggire alle persecuzioni, altri hanno dovuto nascondersi tra le impervie vallate del Kashkar (come nel caso della minoranza dei Laz o Lazy) per trovare scampo da una situazione che troppo spesso, si fa davvero insostenibile. Eppure la legittimità del popolo armeno in queste regioni è sottolineata dalle evidenti testimonianze storiche. Il prezioso patrimonio archeologico, architettonico ed artistico della cultura armena che si trova sul territorio turco, appare agli occhi del viaggiatore in stato di estremo abbandono e degrado. Chiese, fortezze, statue e bassorilievi, tutto lascia presagire ad un degrado ed

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una precisa volontà politica da parte delle autorità nazionali, sintomo forse di una discriminazione nazionalista che non vuole rivendicazioni culturali o tendenze autonomiste sulla strada del proprio sviluppo. Sono più di 4 ore che continuiamo a scendere dall'altipiano ed il sole comincia a fare capolino da dietro i rilievi a ponente. La temperatura inizia a scendere mentre la musica kurda si mescola alle folate di polvere che entrano da ogni parte in questo fantasmagorico camion-autobus fuoristrada. Siamo prossimi al confine geografico di Turchia, Armenia e Persia, in un tratto particolarissimo delle antiche vie commerciali, dove le catene montuose del Caucaso e degli Zagros hanno modellato un suggestivo paesaggio che costituisce la propaggine più orientale dell'altopiano anatolico. Qui vivono i nomadi kurdi; un popolo ancora legato alle antiche tradizioni e alle regole di vita del nomade. Abbiamo “scorrazzato” sui loro territori, non solo senza incontrare problema alcuno, bensì trovando sempre gentilezza ed ospitalità, presso ogni piccola o grande comunità kurda. Vivere in questa terra, quasi completamente priva di alberi e di ripari naturali, dove al torrido ed accecante


Kurdistan turco; Regione dell’Ararat. Interno della tenda curda

sole del giorno si contrappone il gelido e penetrante vento della notte, non è una cosa semplice. Eppure qui vive il popolo dei kurdi, facendo conto unicamente sui propri armenti, e sul riparo delle loro tende. Autorità turche, ambasciate di ogni paese e agenzie turistiche, mettono in guardia il viaggiatore, sconsigliando vivamente di addentrarsi in questi territori. Riflettiamo così ad alta voce, sobbalzando ancora all'ennesima buca di questa mulattiera che attraversa l'altopiano. Il piccolo gregge di capre, due dozzine in tutto, legato sul cassone di questo incredibile mezzo, continua a belare, mentre pian piano scompaiono dall'orizzonte i verdi campi di pascolo. Sistemiamo al meglio le gambe, premute tra sacchi, borsoni, galline e bambini stipati all'inverosimile, e voltiamo indietro lo sguardo gettando un’ultima occhiata sul Kurdistan. Kurdistan, terra dei kurdi, non sapremmo altrimenti come definirla visto che ad oriente della città di Malatya, di turco c'è solo l'esercito appostato lungo le strade o barricato dentro le caserme, dove lunghe file di carri armati in bella mostra, evidenziano chi “comanda” su questa striscia di terra.

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Ma per le strade, nei piccoli mercati e sui dolmush (minibus che collegano i piccoli centri) si parla solo kurdo, perché qui, ci sono solo kurdi. Sui muri delle case si vedono scritte che inneggiano alla libertà, al PKK (esercito di liberazione kurdo) e frasi che testimoniano la caparbietà e la volontà di un popolo che non vuole scomparire nell'anonimato di un termine: “turchi di montagna”. Kurdistan, un paese mai menzionato sulle carte geografiche di ogni Stato, poiché mai riconosciuto dai diversi governi come una nazione. Circa otto milioni di individui sul territorio turco; 25 in tutto, tra Siria, Iran e Iraq; queste genti costituiscono la totalità di un popolo al quale non è riconosciuta alcuna terra. Eppure questo popolo di stirpe indoeuropea (la loro lingua appartiene al gruppo indo-iranico) vive su questi territori da più di quattromila anni, sopportando guerre sanguinose, persecuzioni disumane, umiliazioni di ogni sorta e persino deportazioni sistematiche. Dediti al nomadismo, hanno sviluppato nel corso dei secoli un più accentuato senso di indipendenza. Si tratta di una società complessa e dinamica, la cui struttura si articola su un modello patriarcale dove le donne godono comunque di grande

libertà e rispetto. La terra è proprietà del clan nel momento in cui il gruppo ripercorre il proprio itinerario annuale e la sua ripartizione con cadenza stagionale, seguono regole precise. Anticamente all'apice della società kurda vi era la casta dei bey o bay, la cui autorità risaliva ad investiture ricevute direttamente dagli Scià di Persia. Oggi questa importante figura politica è scomparsa, lasciando i diversi clan, i singoli gruppi e le intere comunità nomadi senza un'autorità di riferimento. Rimane la sola figura politica del leader (aghàa) per dirigere il singolo clan o un piccolo gruppo di pastori. Riavvolgendo l'ultima pellicola, ripensiamo alle immagini scattate sotto le larghe tende di feltro marrone dove le donne, in abiti dai colori sgargianti, lavorano la lana o preparano il pane azzimo (nan) ed i bambini giocano e schiamazzano, mentre lunghe e lente file di bestiame si muovono all'orizzonte, di ritorno dai pascoli lontani. L'autista a volte si gira, ci guarda negli occhi, ci dice qualcosa in kurdo, poi tutti sorridono. Allora qualcuno ripete scandendo lentamente “Kurd, bohl ranth” (kurdo, molto buono), così possiamo sorridere anche noi e sembrare un pò meno ignoranti. ■

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Turchia; sulla strada per Ilhara

Turchia, alle porte dell’Asia.

mondo potesse non avere confini, tranne quelli segnati dai racconti e dalle leggende della tradizione orale, per cui ogni luogo è insieme un limite e un possibile varco, e implica che il territorio non sia oggetto del potere e della forza militare ma un reticolo di opportunità per una crescita interiore, dove il rischio dell'intolleranza e dell'odio rimangono per sempre al di fuori di esso. Solo così il mondo ci può appartenere pienamente per essere vissuto, mentre molti si limiteranno solo ad abitarlo e sfruttarlo. Fin da subito l'idea di mettere a confronto

F O T O R E P O R TA G E D I S T E FA N O R O S AT I

gli stessi luoghi a distanza di tanto tempo ci sembrò interessante: andare a vedere sul campo quelle diversità che solo la storia fa scaturire. E così, eccoci qui in aereoporto

H

a Firenze pronti a partire per l'ennesima avventura che, oltre all'incognita dei mutamenti avvenuti nel tempo in quegli stessi luoghi, ci avrebbe condotto sulle tracce di una storia

ai preso il passaporto?

dell'amico David a Ulan Bator. Chiusi in quella

antica, quella della Via della Seta, con un nuovo

- Certo, dovrebbe essere

stanza ricolma di tanta conoscenza, intrisa di

entusiasmante progetto a lungo termine.

qui da qualche parte,

sapere, quella stanza che si affaccia sul mondo

I nostri amici erano arrivati per mare, entrando

risponde frugando

come se non esistessero pareti, decidemmo

in nave dal Bosforo, noi invece sbarchiamo ad

freneticamente nello

di ripercorrere le orme dell'antropologo David

Antalya, in una caldissima mattina di agosto.

zainetto. Lucia è una

e del prode Dino sulla Via della Seta. Ci aveva

Adalia, l'antica città ellenica, e in seguito

grande organizzatrice,

affascinato quel lungo viaggio che circa trenta

romana, è una delle porte di accesso all'Asia

ma poi al momento della partenza perde

anni fa avevano affrontato ripercorrendo le

minore, e oggi, con le sue grandi spiagge

il controllo delle cose da fare, le valigie da

antiche carovaniere dell'Asia, un viaggio oggi

bagnate da un mare cristallino, i grandi alberghi

preparare e i documenti necessari per il

impensabile in quei termini, a causa delle

e gli yacht ormeggiati nel porticciolo, viene

viaggio. Io invece cerco sempre di riassumere

guerre che devastano alcune di quelle regioni.

considerata una delle maggiori mete turistiche

ciò che occorre almeno due volte, il giorno

In un mondo globalizzato dove solo le guerre

della Turchia.

prima della partenza e in aereoporto, anche

sembrano regionali, dove si accendono focolai

Facciamo rotta verso Pamukkale, che in turco

se poi in verità ho il pieno controllo solo del

sparsi che dividono nazioni, l'unica alternativa

significa castello di cotone, per immergerci su

pesante zaino che contiene le mie attrezzature

per ripercorrere oggi quelle stesse strade, è

una delle direttrici percorse da David e Dino.

fotografiche, gli obiettivi e le macchine, ovvero

quella di procedere per tappe.

Rimaniamo abbacinati dallo splendore delle

“l'estensione del mio braccio” come le chiama

Un tempo quegli itinerari, tracciati con spirito di

terrazze naturali di calcare bianchissimo dove

lei.

avventura e sprezzo del pericolo, avvicinavano

si raccolgono le calde acque termali. Le vasche

Ci guardiamo sorridendo, è tutto a posto, e se

i popoli e le loro culture, segno precursore

una volta prendevano l'intero fianco della

manca qualcosa ci arrangeremo, lo ripetiamo

della moderna globalizzazione, veicolando da

collina, ma oggi, malgrado la canalizzazione

sempre, ed è la verità. Insomma, come si

un mondo ad un altro, da oriente a occidente

sotterranea con la quale negli ultimi anni

dice, ci guardiamo le spalle a vicenda, ci

e viceversa, merci e culture, religioni e persino

si tenta di salvarle mediante una costante

compensiamo, e ogni cosa funziona sempre

malattie, avvicinando, nel bene e nel male,

irrigazione, si stanno lentamente riducendo

egregiamente. Alla fine non manca mai niente

popoli così distanti per formazione contestuale.

a causa del prosciugamento dovuto al

e riusciamo ad entrare ovunque, in qualsiasi

Parliamo di quella stessa contaminazione che

surriscaldamento. Questo luogo magico oggi è

luogo che visitiamo e nei cuori delle persone

tanto ha fatto sviluppare le nostre società e che

Patrimonio dell'Umanità, e noi abbiamo appena

che incontriamo.

oggi, invece sembra aver ribaltato la propria

il tempo di bagnarci guardando sullo sfondo

Ricordo perfettamente quando abbiamo

essenza di curiosità e desiderio di crescita.

l'antica città di Hierapolis che dalla sommità

avuto l'idea, eravamo nel magnifico studio

Con David spesso parlavamo dell'idea che il

domina la vallata, di un suggestivo scatto al


tramonto, e riprendiamo il cammino.

comunque di rimanere, malgrado i prezzi

perso questa possibilità solo perché al tempo

Camminare ha un senso compiuto. Sovverte

adesso siano adeguati alla concorrenza che

non esistevano ancora queste escursioni.

l'ordine degli automatismi quotidiani, percorre

abbonda nella piccola città turistica.

È la curiosità che mi assale ogni volta

nuovi sentieri verso infiniti orizzonti e nel farlo,

L'aria che si respira oggi in questa cittadina

che metto piede in un sito denso di storia

ci si allontana dal noto, dal già conosciuto per

della Cappadocia non è più quella suggestiva

dell'uomo, la stessa che mi pervade anche

alimentare la forza creatrice essenziale della

che respiravano mercanti e missionari,

adesso. Vorrei vedere la vita dell'epoca, le

natura umana. Staticità del rituale e libertà del

quella delle pelli e dei tessuti colorati in

persone nei loro costumi e con le loro abitudini,

movimento sono la sostanza del superamento

vendita, del cibo e delle bevande esotiche

insomma essere un viaggiatore dei tempi

degli apparenti opposti che ci allontanano

con cui rifocillarsi. Eppure, con un po' di

passati, quello che immagino fossero i veri

dall'irrequietezza o dal torpore del quotidiano.

immaginazione, è ancora possibile riscontrare

esploratori. Certe volte mi siedo su una roccia a

Siamo nella regione Anatolica, dal

tracce dell'antico vivere quotidiano tra gli

fantasticare, facendo appello alle informazioni

greco “sorgente del sole”, un territorio

spettacolari Camini delle Fate.

lette sui tanti libri. E ogni volta, pur usufruendo

prevalentemente montuoso, ricco di

Ovunque si trovano negozietti di souvenir

dei vantaggi, penso che la tecnologia, nel bene

dorsali e altipiani. A Goreme ci dirigiamo

per turisti. David mi aveva raccontato della

e nel male, ha cancellato la poesia dell'ignoto.

immediatamente alla ricerca della pensione

disponibilità e della gentilezza delle persone

Lontano da casa, dalle amicizie e dagli affetti,

dove avevano soggiornato David e Dino. Ci

quando chiedeva informazioni su destinazioni e

distaccato dal mio passato, mi confronto con

sembrava un buon modo per iniziare la storia

distanze. Oggi invece ad ogni angolo di strada

quello che ancora di loro persiste e mi trattiene.

del lungo viaggio che ci stava attendendo, e

si viene assaliti da ogni sorta di venditori. E

La mongolfiera pronta a partire ha pesanti

poi dovevamo portare quei saluti che i nostri

noi, mai sazi di nuove esperienze, ci lasciamo

zavorre che le impediscono di alzarsi in volo

viaggiatori si erano ripromessi con Alì.

corrompere per una gita in mongolfiera. È

liberamente. Ciò che resiste alla nostra volontà

Purtroppo Alì non c'è più e l'economica

ancora notte quando raggiungiamo il campo

può innescare rabbia e risentimento, ma

pensioncina in cui i nostri predecessori avevano

di volo, arriviamo mentre stanno ancora

anche suscitare soggezione e rispetto. Per me

soggiornato è stata trasformata in un piccolo

gonfiando i palloni. L'aria è frizzante e

l'importante è capire se l'ostacolo da superare

hotel gestito dalla figlia. Afet è gentilissima,

nell'attesa ci viene offerto un tè caldo.

appare nobile nella sua sfida oppure patetico e

ci racconta della mancanza del padre, ma non

Finalmente saliamo, giusto in tempo per

insolente. Ripensando agli antichi viaggiatori,

si ricorda dei viaggiatori di quel tempo, anche

ammirare il paesaggio con l'alba che sta

alle carovane in transito su questo altopiano,

perché allora era solo una ragazzina presa

spuntando. Lo spettacolo è mozzafiato, e

per un momento sgancio le zavorre e, più

dallo studio. La stanza è carina e decidiamo

mentre siamo in volo penso a David che ha

sollevato, mi sento in viaggio con loro.


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Turchia; caravanserraglio sull’altopiano Anatolico

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Turchia; Denizli

Turchia; Cappadocia, mongolfiere all’alba

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Stefano Rosati Armenia; Anoushavan


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C AUC ASO, C R OCE VI A D I POPOL I E C U LT U R E .

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Superata la Turchia, la morfologia del territorio e le vicissitudini storiche di quest’area geografica hanno condizionato a tal punto le antiche rotte commerciali, da creare un vero e proprio dedalo di itinerari di non facile lettura ed esplicazione. La direttrice nord-sud, sulla quale si muovevano le piste provenienti dal Caucaso in direzione di Siria, Iraq e Persia, incrociava più volte i tratti principali e secondari delle vie carovaniere che si dirigevano verso Est. Così alle principali rotte commerciali, Erzurum-Kars-Gumri-

Tiblisi e Van-Dugubayazit-Erevan-Tabriz, si sovrapponevano i collegamenti con Harazdan, Baku e Derbent. Senza dubbio la pista che meno di ogni altra ha subito deviazioni e alternative di percorso durante i secoli, è la rotta commerciale che dalle coste settentrionali del Mar Nero attraversava le steppe e le pianure del nord aggirando il Mar Caspio ed evitando ad arte il massiccio del Caucaso. Dal porto di Trebisonda (l’odierna Trabzon) le imbarcazioni commerciali raggiungevano la Crimea e


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proseguivano addentrandosi nell’antica Palude Meotide (l’odierno Mare D’Azov) per raggiungere l’estremo porto orientale di Tanais o La Tana, antico avamposto commerciale della repubblica marinara genovese. Anche noi seguiamo questo tratto di mare, alla volta dell’antico porto commerciale alle foci del Don. E durante la traversata osservando l’orizzonte lontano riflettiamo sul significato delle affascinanti parole di Grigorij Rasputin, nelle sue lettere agli amici lontani: “Sul Mar Nero c’era una gran quiete e l’anima mia si fece tutt’uno col mare, si assopì nella quiete. Si vedevano le onde minute brillare come gocce d’oro e l’occhio non vedeva l’altro, non è questo forse un esempio divino? Oh come è preziosa l’anima dell’uomo: certamente è simile ad un gioiello. E proprio come il mare è la sconfinata potenza dell’anima. Quando ti alzi la mattina, le onde parlano, spruzzano, gioiscono. Il sole risplende levandosi piano piano sopra il mare e l’anima dimentica l’iniquità del mondo contemplando il sole scintillante. E dentro nasce una grande felicità, l’anima medita sul libro della vita, ineffabilmente bella.” Oggi a La Tana (vicino all’odierna cittadina di Azov) non rimane nulla dell’antico porto e dell’insediamento dei genovesi, se non una sgualcita carta geografica, apposta sull’umida parete del piccolo museo locale, che riporta l’antico toponimo del luogo: La Tanais. La città prese il suo nome dal fiume Don, il Tanais degli antichi Greci, poichè fu costruita proprio sulla foce del

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grande fiume. Ci aggiriamo attenti lungo il nuovo porticciolo e poi ci avventuriamo curiosi negli insoliti mercati di questa nuova Russia dove l’effetto perestrojka non si avverte se non attraverso un’inflazione galoppante del Rublo che ci consente di muoverci senza preoccuparci dei costi da sostenere. Girando per le strade ci sembra di essere tornati, come per magia, ai tempi della nostra infanzia. Banchetti improvvisati lungo le strade vendono automobiline di latta e scatole del meccano, i grandi magazzini di stato espongono nelle loro vetrine conserve di peperoni, pomodori, verza e cetrioli sotto vetro senza alcuna etichetta tutte allineate sugli anonimi scaffali, tutte rigorosamente uguali. Sono l’unico prodotto esposto di questi tristi e sconsolati negozi. E ancora, in strada troviamo banchi con caramelle e dolci dall’incerto sapore, sistemati con ordine in scatole di cartone decorate con disegni di altri tempi, testimoni di un periodo e di un sistema sociale ben lontano dalle nuove aspettative e dalle crescenti necessità della nuova Russia. Venditori ambulanti di francobolli e cartoline del vecchio regime si avvicinano e ci domandano: “otkuda vy?”, da dove venite? Alla risposta “Italia“, seguono esclamazioni di approvazione e, quello che diverrà il leitmotiv delle conversazioni da qui fino alla Mongolia: ”italianoCelentano!” Probabilmente il cantante italiano ha avuto da queste parti successo e fama pari a quella di Puskin o Stravinsky

Mappa antico porto di Tanais o La Tana, della Rep. marinara di Genova


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Georgia; iI Caucaso, regione del Kazbek

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visto che tutti, ma proprio tutti, conoscono le sue canzoni. “...il cammino d’andare dalla Tana al Gattaio è sicurissimo e di dì e di notte secondo che si conta per li mercatanti che l’ànno usato, salvo se il mercatante che va o cha viene morisse in cammino ogni cosa sarebbe del signore del paese ove morisse il mercatante, e tutto prenderebbero gli ufficiali del signore, e similmente se morisse al Gattaio. Veramente s’egli avesse suo fratello o stretto compagno che dicesse che fusse suo fratello, si gli sarebbe dato l’avere del morto e camperebbesi in questo modo l’avere”; scriveva F.Balducci Pegolotti nella sua “La pratica della mercatura” nel 1370. Dal porticciolo sul Don, la carovaniera proseguiva diretta verso oriente, seguendo il versante settentrionale della catena del Caucaso. Per molti secoli il massiccio montuoso ha costituito una naturale barriera alle orde dei nomadi provenienti dalle steppe dell’Asia Centrale alla ricerca di nuovi territori, motivo per cui questa regione oggi rappresenta un vero e proprio crogiuolo di razze e culture. In queste regioni vivono Circassi, Ingusceti,

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Ceceni, Balcari-Cabardini, Osseti, Adighi, Azerbaijani, Georgiani, Daghestani e Armeni, un mosaico di razze, religioni e storie di cui troppo poco si parla. La via commerciale superava la catena montuosa attraverso un unico passo, riallacciandosi alle vie meridionali. Oggi quel valico e quell’antico tratto di pista è una strada asfaltata, che dalla città di Vladicaucas, l’Ordonikidze di pochi anni fa, capitale della Repubblica dell’Ossetia, raggiunge Tiblisi in Georgia, da dove l’antica carovaniera proseguiva verso sud superando Yerevan in Armenia. È terra degli Alani, conosciuti anche come Osseti o Aas, come li descriveva Guglielmo di Rubruk nei suoi appunti di viaggio nel 1256; un popolo fiero della propria cultura e delle proprie origini indoeuropee. Ai tempi del francescano il loro territorio si estendeva ben oltre gli attuali confini della Repubblica dell’Ossetia, raggiungendo le sorgenti del Don e del Dniestr. Un vasto territorio sul quale gli Alani si erano insediati in tempi remoti. Affini agli Sciti, la loro lingua, come affermava lo studioso George Dumezil, ha tracce inequivocabili dell’affinità con l’idioma parlato dai nomadi, tanto da poter


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affermare che la parlata degli Alani, è la testimonianza più prossima all’antica lingua di questi popoli. Provenienti anch’essi dall’area del Centro Asia, si insediarono sul territorio a nord del Caucaso, rimanendo indisturbati dominatori di questi luoghi fino al 1222. Famosi per la loro abilità e determinazione nel combattimento, furono piegati solo dall’incredibile macchina bellica dei Mongoli, che li spinsero nelle alte vallate del Caucaso dove ancora oggi sopravvivono. Giovanni da Pian del Carpine, così scriveva nel suo “Historia Mongalorum” del 1246: “Così come oggi accade nel territorio degli Alani, per un certo monte che, crediamo, hanno già assediato (si tratta di un assedio da parte dei Mongoli nda) da dodici anni; ma quelli hanno resistito coraggiosamente e hanno anche ucciso molti Tartari, anche nobili”. Valery ci conduce lungo intricati sentieri che non compaiono neppure nelle precise carte topografiche delle quali andiamo

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così fieri. Dopo aver attraversato il fiume Tseyadon, che loro chiamano Zei-Don, la pista sembra scomparire ad ogni svolta, penetrando sempre più nel profondo della vegetazione che ricorda da vicino quella dei boschi delle nostre Alpi, solo molto più intricata. Muoversi da soli sarebbe sinonimo di smarrire la pista e girovagare nella folta vegetazione per ore o persino giorni, alla ricerca di una via d’uscita. Ad un tratto il nostro amico si ferma, si volta, ci chiede di fare silenzio e di toglierci le scarpe. Ci guardiamo negli occhi chiedendoci che cosa stia accadendo; poi eseguiamo l’ordine, muovendoci in religioso silenzio. Dietro uno sperone roccioso, circondato da un piccolo muro a secco, osserviamo una costruzione in legno; ricorda una baita ma il tetto, le finestre ed i cornicioni hanno strane decorazioni, intagli lignei raffiguranti corna di animali ed altri, molto più grandi, ricordano la prua delle navi vichinghe. Ci avviciniamo. Valery ci chiede di lasciare le macchine fotografiche e la telecamera fuori dal recinto sacro.

Ossetia meridionale, valle di Mamisong. Le Basnia, le torri simbolo della casata


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Caucaso; Ossetia meridionale, i boschi sacri

Entriamo col fiato sospeso. A terra c’è una moltitudine di ossa, soprattutto si tratta di teschi di stambecchi, cervi, capre e pecore. Tutto attorno i rami degli alberi sono agghindati con strisce di stoffa colorata, annodate in modo preciso. Sono voti, preghiere e ringraziamenti, ci spiega l’amico. Vicino alla porta dell’edificio, per noi limite invalicabile, ci sono i resti di un sacro banchetto; avanzi di carni, tazze e bottiglie vuote abbandonate in modo disordinato. È il tempio dove si svolgono rituali rivolti agli antichi spiriti del popolo degli Alani. Qui gli uomini, iniziati ed adepti, si ritrovano per officiare cerimonie, offerte e sacrifici legati ad ancestrali credenze che ancora oggi convivono in forma di sincretismo con i principi della religione cristiana. Riprendiamo il cammino ripetendo per altre due volte l’esperienza precedente davanti al tempio

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delle donne e a quello degli adolescenti, dove non ci è permesso entrare. Valery si muove rapidamente, come un abile felino in cerca della preda. Dino è davanti a me. Si ferma. Fa cenno di non muovermi. Ha visto qualcosa. Controlla che Valery non possa vederci. In mezzo ad un cespuglio di rovi c’è una vecchia e malandata scatola di legno. La prende. La apre. Due piccole immagini in legno intarsiato. Sono avvolte in luridi cenci ammuffiti. Le due statuette sono di pregevole fattura anche se un po’ malandate. Le osservo con attenzione, ripulendole dalla muffa che le ricopre. Non ho dubbi. Sono le raffigurazioni di Uacilla, il lanciatore di fulmini, e Kurdalaegon, il sacro fabbro. Sono due personaggi della Saga dei Narti, gli esseri soprannaturali, gli osservatori celesti, venerati dagli Osseti. In un lampo le due icone sono dentro lo zaino di Dino. Siamo terribilmente eccitati.

Ossetia meridionale; Dino con profughi Osseti al confine conteso con la Georgia


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Adesso procediamo di corsa verso la nostra guida. Solo a tarda sera usciamo da questa intricata foresta scendendo a fondo valle, stanchi ma soddisfatti. Trascorriamo tre indimenticabili giorni nel villaggio di Tzei, ospiti di cari amici di Valery (forse dei suoi lontani parenti; mai saputo); la loro casa è modesta ma confortevole. È di fronte al massiccio del Kazbek, imponente e severo, come gli Osseti. Il tempo si è fermato nuovamente. Dobbiamo molto all’amico Valery, dobbiamo molto al popolo degli Alani. Più a oriente dove le alte vette del Caucaso scendono come d’improvviso, perdendo forza e superbia, ecco apparire Derbent, la leggendaria “città delle porte di ferro”. La città dell’odierna Repubblica del Daghistan, sorge in un luogo strategico, tra le ultime pendici del Caucaso ed il Mar Caspio ed ha svolto, nel corso della storia, un ruolo di primo piano per le vie commerciali. Dove le barriere naturali si interrompevano lasciando via libera alle incursioni dei nomadi del nord, ecco che l’uomo ha edificato un limite invalicabile la cui fama e leggenda ha fatto

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il giro dei quattro cantoni. Marco Polo osserva: “questa è la provincia nella quale il re Alessandro (si tratta di Alessandro il Macedone nda) non poté mai intrare quando volse andare alle parti di tramontana, perché la via è stretta e difficile, e da una banda batte il mare e dall’altra sono li monti alti e i boschi che non vi si può passare a cavallo (...) e per questo Alessandro appresso a quel passo fece fabbricar muri e grandi fortezze, a ciò che quelli che abitano più oltre non gli potessero far danno: onde il nome di quel passo di poi si chiama Porta di Ferro.” E così riporta il francescano Guglielmo di Rubruck nel suo “Voyage dans l’Empire Mongol” del 1258, di passaggio da Derbent qualche anno prima del veneziano: “il giorno seguente giungemmo alla porta di ferro fatta costruire da Alessandro di Macedonia. È una città la cui estremità orientale è sulla riva del mare (il Caspio nda) e non vi è che una stretta pianura tra il mare e le montagne attraverso la quale si estende la città sino alla cima della montagna che la tocca, a occidente, in modo che non esiste strada alcuna ne al di sopra, a causa del pendio della montagna, ne al di sotto a causa del mare”.

Dagestan; Derbent, la città delle Porte di Ferro


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Sono parole precise quelle del francescano, valide tutt’oggi per colui che si trova di fronte alla città di Derbent (der = porta; bent = chiusa in lingua daghistana). Dal grande cimitero monumentale, osservando le grandi mura di pietra che si tingono d’oro al tramonto, si comprende lo sforzo e la volontà di chi ha voluto realizzata quest’opera imponente. Una doppia linea di mura invalicabili all’interno delle quali si trova la città, con le sue grandi porte, ancora oggi simbolo e memoria di un luogo importante nella storia delle vie commerciali.

Russia; la città di Astrakhan

Le strade di Derbent sono per noi tutte uguali, un dedalo di viuzze lastricate dove ogni portone è un negozio improvvisato, ma per Ilkhon sono i luoghi della sua infanzia, della sua giovinezza e adesso, della sua vita da padre di famiglia, onesto e operoso. Ci conduce in ogni dove, per presentare i suoi amici italiani, a tutti i conoscenti. È vero, siamo ospiti a casa sua, vitto e alloggio assicurati, guida e


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interprete pure, ma adesso vorremmo vedere qualcosa di diverso. Come sempre, quando meno te lo aspetti, arriva la gradita sorpresa. Viuzza laterale, nove enormi pentoloni sono disposti sui fuochi, allineati in fila indiana lungo la strada. Due Braccio di Ferro sono alle prese con la pozione di Obelix. No, si tratta dei preparativi per il banchetto nuziale di un amico della cugina, da parte di madre, di una zia del nostro compare. Insomma, siamo invitati alla festa. Entriamo nella fossa dei leoni: musica assordante, ogni genere di profumo, inclusi terribili olezzi, luci ovattate, tavole imbandite all’inverosimile e commensali ovunque. Ci facciamo largo con Ilkhon, la ruspa. Arriviamo in buona posizione, quando un braccio meccanico quasi mi stritola la spalla sinistra. Mi volto dolente, è Lurch degli Adams che mi blatera qualcosa, scandendo meccanicamente le sillabe, nel frastuono generale. Con l’aiuto del Nostro mi libero della “presa”, siamo al traguardo; eccoci davanti agli sposi. Lei, una giovane Mazzamauro, mummificata da giorni sulla sedia di plastica; lui, abito occidentale due taglie più grandi della sua, sorriso da giovane marmotta e scatto felino, sugli attenti, per salutare gli onorevoli ospiti. Serata memorabile; alle tre di mattina usciamo dalla tana di Bianconiglio, siamo più felici degli sposi. A sud di Derbent la via commerciale attraversava l’arido deserto dell’Azerbaijan alla volta di Baku, mentre a nord raggiungeva la città di Astrakhan sul delta del Volga. “Proseguii il mio cammino (...) scendendo lungo il fiume che si divide più in basso in tre grandi rami, ciascuno dei quali è largo quasi il doppio del fiume a Damietta. Altrove forma quattro rami più piccoli in modo tale che passammo il fiume in barca in sette punti. Sul ramo

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centrale sta la città che è chiamata Summerkeur (l’odierna Astrakhan n.d.a.); essa non ha mura ma quando il fiume straripa è circondata dalle acque. I tartari l’assediarono otto anni prima di prenderla“. Sono ancora le parole di Guglielmo di Rubruck a descriverci il suo arrivo nella città di Astrakhan. Oggi un grande ponte metallico supera il delta del Volga e raggiunge l’operoso centro, famoso per il suo pregiato caviale. Ma l’antica via commerciale che superava a nord il Mar Caspio era già conosciuta e utilizzata molti secoli prima dell’arrivo del francescano. Nei primi secoli dell’era cristiana il re dei Kushana, un potente regno dell’India del nord posto nel bel mezzo delle vie commerciali tra l’impero dei Parti e la Cina degli Han, inviò un’ambasceria a Roma. Scopo della missione era quello di stringere un’alleanza, un accordo commerciale coi romani, schiacciando così la Persia nella morsa di due potenze alleate. I numerosi ritrovamenti di oggetti e monete Kushana, presso la città di Astrakhan e lungo l’intero itinerario settentrionale, ci fanno pensare che forse, per un breve periodo, quella proposta commerciale iniziò a funzionare, o forse è solo frutto di una nostra speculazione e la vera ragione potrebbe essere un’altra. Fatto sta che, dalla città di Taxila, nel cuore del regno indiano, fino al Mar Nero (e quindi fino a Roma, deduciamo noi), come grani di un interminabile rosario, le oasi ed i caravanserragli di quella via commerciale, hanno per lungo tempo custodito le monete dei due regni, che solo il paziente lavoro di archeologi e di perspicaci tombaroli, stanno riportando alla luce. ■

Antiche monete romane


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Armenia, la magia dei caravanserragli.

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sdraiata sul sedile posteriore. - Ancora trentacinque chilometri, ma sarà tutto in salita - risponde con la sua solita tranquillità. Speriamo di farcela, penso io, sobbalzando sulle rigide sospensioni di quella vecchia bagnarola che sembra un residuato bellico dei tempi della guerra fredda. Quando arriviamo, la vista della valle dall’alto è splendida e malgrado la stagione estiva, l’aria è ancora frizzante. Un venditore ha approntato un banchetto accanto alla sua auto e offre i prodotti della terra che coltiva e produce personalmente, miele e anonimi ortaggi in

F O T O R E P O R TA G E D I S T E FA N O R O S AT I

salamoia, vino e l’immancabile vodka fatta in casa, imbottgliata nelle bottiglie di plastica dell’acqua minerale. Per finire c’è anche qualche souvenir/chincaglieria sicuramente

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made in China. Il caravanserraglio sul Passo di Selim, o di Sulema, si trova a 2400 metri di altezza, è uno dei tanti in Armenia, ma è certamente quello

avid ci aveva tracciato,

sarà mai quella che ci aspettiamo, forse perchè

meglio conservato.

usando una grossa

siamo così inclini a dimenticare quante cose

All’ingresso non c’è una biglietteria, un

matita rossa, le direttrici

belle esistono al mondo oltre a quelle che ci

eccentrico personaggio ci avvicina e non

della antica Via della

aspettiamo di vedere. L’ennesimo paradosso

comprendiamo se voglia offrirsi come guida

Seta. Utilizzando un

compare all’orizzonte: la nostra capacità di

oppure semplicemente fare conoscenza. Karo

vecchio atlante, che oggi

essere presenti in un luogo e sentirsi soddisfatti

ci spiana il cammino.

è possibile trovare solo

allo stesso tempo, sembra toccare il suo apice

L’interno è assolutamente spoglio, essenziale

nelle librerie dell’usato o su ebay, segnava,

quando non dobbiamo affrontare la sfida di

come tutti i caravanserragli dell’Asia centrale,

sottolineava e ci raccontava. Erano quelle piste

doverci essere per davvero. Il superamento

ad eccezione di quelli in cui oggi hanno

che con l’amico aveva percorso anni or sono e

dell’impasse può avvenire solamente nel

costruito ristoranti, sale da tè e alberghi. Non

che oggi, mentre lui le ritracciava con memoria

saper accogliere il nuovo quale arricchimento

troviamo nessuno, sono davvero pochi i turisti

di cartografo provetto, ci stavano letteralmente

interiore in cui il confronto lascia il posto alla

che raggiungono questo posto. La luce che

incantando. Nomi fiabeschi che facevano volare

condivisione.

scende dagli ampi lucernari dona un’atmosfera

la nostra immaginazione verso antiche città e

A tre ore di macchina da Yerevan incrociamo un

suggestiva. In un attimo siamo dentro al grande

luoghi leggendari. Viaggiando ci si innamora

cartello che raffigura una carovana di cavalli in

antro, rimaniamo nella penombra, in silenzio

del mondo, e se è vero amore, non se ne è mai

marcia con l’iscrizione in armeno e inglese, che

ad immaginare i mercanti che sistemavano le

sazi. Ma, come appena risvegliato da un sogno

ci annuncia “Armenian’s Silk Road”.

mercanzie e approfittavano di un riparo sicuro

idilliaco, ecco la domanda di sempre riprendere

per passare una notte al coperto ascoltando

le redini della mia ratio. Dove si trova il confine

- Karo siamo arrivati? - chiedo all’amico fidato

i racconti e le esperienze di altri viaggiatori,

tra l’immagine del viaggio e la sua realtà? Tutti

che ci sta accompagnando con la sua Lada,

provenienti da quei luoghi lontani, dove loro

sappiamo che l’esperienza del viaggio non

verde militare, mentre Lucia sonnecchia

erano diretti.


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La costruzione in basalto fu terminata nel 1332 ad opera del principe Cesar Orbelian durante il regno del Khan Abu Said Bahadar (il

dominatore del mondo), considerato l’ultimo khan colto, dell’impero mongolo. Dopo la distruzione del XV secolo, il caravanserraglio è stato restaurato solo nel 1959. Ai lati del portale all’entrata ci sono i bassorilievi di due leoni, simbolo della casata, e l’epigrafe enuncia la magnificenza della stirpe, concludendo l’iscrizione con una supplica ai viandanti per ricordare la famiglia principesca e il Cristo. La struttura è formata da due edifici collegati: due stanze padronali e un lungo salone destinato alle merci. Da qui passava una pista della Via della Seta, sulla direttrice che dal lago di Sevan conduce a Tabriz.

Armenia; iscrizione nel Caravanserraglio


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Armenia; il salone del Caravanserraglio al Passo di Selim

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Armenia; bambini Yazidi sul monte Aragats

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Armenia; famiglia Yazida

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Armenia; venditore presso il Passo di Selim

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Stefano Rosati Turkmenistan; Mary, venditrice di cocomeri


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Durante l’Età di Mezzo, la città di Astrakhan fu un importante emporio commerciale, governato dai khan dell’Orda d’Oro e successivamente dall’impero Tataro-Mongolo, fino al 1556 quando divenne il più valido avamposto per fronteggiare la roccaforte mongola di Saray o Ukek, le cui rovine si trovano ad una decina di chilometri dall’odierna Saratov. Gli storici la definirono una “creazione della Pax-mongolica”, e difatti la città sul Caspio ospitò per lungo tempo generali e khan dell’Orda d’Oro e

il suo collegamento con la grande arteria settentrionale era garantito da un’agile pista, dotata di stazioni di posta. Durante i lunghi e freddi inverni continentali, il Volga diveniva “il grande fiume gelato” tramutandosi in un’affidabile pista su cui le carovane potevano muoversi agevolmente. La città fu costruita in gran fretta e come osservava Ibn Battuta nel suo Rihla nel XIII secolo: “...la città è di sconfinate dimensioni (...) pullulante di abitanti (...) dove il legno predominava sulla pietra”. I suoi bazaar erano il centro commerciale


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più importante del Volga soprattutto per i cereali, pellicce, legnami e il mercato di schiavi, nonché punto di transito delle carovane che trasportavano merci “di lusso” dalla Persia e dalla Cina verso le colonie italiane sul Mar Nero. Insieme alle sete, alle pietre preziose ed alle ceramiche, a dorso di muli, cavalli e cammelli battriani, arrivarono anche studiosi, mistici e burocrati speranzosi, provenienti dall’Anatolia, dall’Egitto e dalla Persia, contribuendo allo sviluppo e all’interscambio culturale. Da qui la pista correva verso Kulsary, cittadella e fortezza carovaniera sul fiume Emba, nell’odierno Kazakhstan, dove l’itinerario principale scendeva a sud, nel Khwarizm o Khorezw, la regione compresa fra il Mar Caspio e il Lago d’Aral, per arrivare a Urghench e Khiva, mentre le piste dei nomadi puntavano direttamente ad oriente attraversando il terribile altipiano dell’Ust-Url. Quest’ultima pista fu con ogni probabiltà la stessa percorsa dai frati Giovanni da Pian del Carpine e Guglielmo di Rubruck nel XIII secolo.

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Il lungo percorso che attraversava Kazakhstan e Mongolia, documentato nei resoconti di vaggio dei due francescani, è stato recentemente ripercorso dalla ricercatrice svizzera Catherine Waridell, che ha ripetuto quell’incredibile viaggio a cavallo, impiegando un intero anno, partendo dalla Crimea alla volta di Khara Khorim (Mongolia) capitale dell’impero del Gran Khan. “Dieci giorni dopo aver lasciato il Volga, scoprimmo un gran fiume che viene chiamato Jagat (è il fiume Ural; nda) ... qualche volta cambiavamo i cavalli, in un giorno anche due o tre volte; qualche volta andammo per due o tre giorni senza incontrare nessuno... e in quelle regioni vi è solo un vasto deserto grande come un mare”. Guglielmo di Rubrock “Itinerarium” 1255. La pista che attraversava il Khwarizm raggiungeva Urghench (la Organci di Polo) capitale dell’Orda d’Oro e principale emporio sul delta dell’Amu Darja. Ibn Battuta ricorda il grande ed affollatissimo bazaar di Urghench, raccontando di

Deserto e steppa dell’Asia settentrionale


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Lago d’Aral nel 1992 ed oggi

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non aver potuto attraversarlo a cavallo per l’incredibile folla che vi si trovava. E pensare che tutto ciò avveniva in una città che Gengis Khan aveva conquistato aprendo una diga del fiume e sommergendola completamente. Le rovine dell’antica capitale Kunya Urghench si trovano a circa 50 chilometri dalla Nuova Urghench, un anonimo centro dal tipico stile architettonico sovietico di poco interesse, e portano i segni del lento abbandono avvenuto nel corso dei secoli. La storia di abbandoni e sciagure per l’intera regione settentrionale del Khwarizm non sembra essere ancora tramontata. Il canale del Karakum (il famigerato Karakumskji Kanal) fu un imponente opera architettonica voluta dal regime sovietico negli anni cinquanta, realizzato al fine di fornire acqua alle sconfinate distese desertiche del Turkmenistan. Così una cospicua parte delle acque del fiume Amu Darja fu deviata (la diga si trova presso la città di Termez) verso i deserti turkmeni, causando una drastica diminuzione dell’apporto idrico al lago d’Aral. Per questo motivo il lago ha iniziato il rapido processo di arretramento delle acque, con conseguenze disastrose per la popolazione locale. Presso il porto di Muynak, sulle sponde meridionali, le acque

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sono arretrate di oltre 70 chilometri, lasciando le imbarcazioni adagiate sul fondo sabbioso, scheletri arrugginiti, muti testimoni di un processo inarrestabile e di un disastro ambientale senza precedenti. Ma il peggio è arrivato dopo. L’utilizzo indiscriminato di prodotti chimici per scopi agricoli, soprattutto le monocolture intensive di cotone, e quelli industriali, con la conseguente contaminazione delle falde naturali, ha collassato la situazione. Gravissimi problemi d’intossicazione e conseguenti contaminazioni dovute ai prodotti chimici (tossici) utilizzati, ha portato il numero dei decessi tra la popolazione locale, ai livelli più alti del mondo. La città di Nukus scompare rapidamente, mentre la nostra Lada si dirige rumorosa verso nord. I campi coltivati lasciano il posto alle terre incolte, dove crescono solo stentate sterpaglie, per poi scomparire sotto le prime dune di sabbia e fango solidificato. L’arrivo a Muynak ha qualcosa di spettrale, di angosciante. Una cittadina dove nonostante la gente, sembra in tutto e per tutto un luogo abbandonato, o meglio desolato a tal punto, da far pensare ai postumi di una terribile sciagura. - Aspettaci qui. Non allontanarti dalla macchina – Dino provvede alle indicazioni “di sopravvivenza” per il nostro autista. - Che postaccio! Ci pensi vivere qui anche per un solo anno? – mi rivolgo all’amico. - Ma neanche se mi pagassero cinquemila banane al mese (le banane sono per noi sinonimo dei dollari americani, un modo tutto nostro per evitare che i nostri interlocutori capiscano che stiamo parlando di soldi). Ci incamminiamo verso il porto di Muynak su strade polverose, disseminate di rottami metallici, recinzioni in legno dissestate, case dagli intonaci cadenti, e desolati negozi che esercitano solo in funzione di chi ci lavorava, mentre i clienti sono un’eventualità fortuita. Gli unici alberi, lungo la grande strada che conduce al porto, sono due platani rachitici, piegati, come due spaventapasseri in un campo abbandonato da decenni. Al porto, i relitti delle imbarcazioni sono enormi rottami piegati, arrugginiti e ossidati, poggiati su un fianco, dispersi a perdita d’occhio nella rada, su quello che fino a pochi anni fa, era il fondale del grande lago d’Aral, uno dei più estesi del


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mondo. Chiediamo quanto siano lontano le acque, ma nessuno sembra interessato a risponderci. Gli sguardi delle poche persone nei pressi del molo, ci sembrano ostili; siamo forse visitatori indesiderati? Dino termina le riprese nei pressi del grande monumento in metallo inneggiante alla vittoria del comunismo sulla povertà e l’oppressione. Al ritorno a Nukus, nella hall dell’Inturist Hotel, ci sono due militari in divisa ed un funzionario governativo. Ci portano alla centrale di polizia. Interrogatorio. - Siete stati all’Aral? - inizia a chiedere il funzionario. Neghiamo spudoratamente, e il nostro visto accademico ci viene in aiuto. Dopo venti minuti di domande, inizia la propaganda politica del nuovo stato del Karakalpakistan, che si è appena dichiarato indipendente, dove il nostro visto non vale nulla, e dove neppure il governo dell’Uzbekistan può rivendicare diritti sul territorio della nuova nazione appena costituita. In breve, multa di 20 dollari, timbro nero sul passaporto, requisizione dei rullini fotografici e della cassetta video, nonchè espulsione immediata dal Karakalpakistan.

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L’oasi di Khiva appare improvvisamente, nascosta dietro le file di salici, posti lungo la strada che proviene da Urghench. Le lunghe mura merlate, realizzate in mattone crudo cingono la città, nascondendola alla vista del viaggiatore. Ma i grandi minareti e le maestose cupole rivestite di scintillanti maioliche verdi e lapislazzuli, s’innalzano oltre la balconata difensiva, lasciando immaginare tutta la magia ed il fascino di questa antica oasi. Una magia che non si fa attendere quando, superata la grande porta occidentale, ci si incammina sul consumato selciato, per gli stretti vicoli della cittadella medioevale tra minareti e moschee, antiche mura, abitazioni e frondosi cortili. È facile essere catturati dal fascino di Khiva, quest’oasi carovaniera, coscientemente restaurata grazie all’intervento dell’Unesco, che sa ancora offrire l’atmosfera e il fascino di un tempo lontano. Molto tempo prima della costruzione di Khiva, i traffici commerciali avevano utilizzato questo tratto di piste per evitare la pressante situazione venutasi a creare lungo le vie meridionali. Tra l’inizio del III secolo e la fine del IV dell’era cristiana, ai Parti succedettero i Sassanidi, i cui sovrani

Uzbekistan; Khiva, la città medioevale


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Turkmenistan; l’antica Merv, il Kyz-Kala

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coltivarono per lungo tempo il sogno di unificare sotto la loro egemonia, gran parte dell’Asia centrale. L’imposizione di pesanti dazi e la costante minaccia di perdere il prezioso carico per le continue ruberie che imperversavano sul territorio della Persia, costrinse i commercianti ad utilizzare le vie settentrionali quale percorso “alternativo” tra Oriente ed Occidente. Il centro di Toprak-Kala antica capitale del Khorezm, a circa 80 chilometri a sud di Khiva, costituisce una prova evidente del costante utilizzo di questa via commerciale durante il periodo Sassanide. Tre grandi torri in pietra e l’imponente castello dominano ancora quello che fu, in quel periodo, un importante centro commerciale lungo la via carovaniera. La spedizione archeologica, guidata dal professor Tolstov nel 1947, riportò alla luce numerosi affreschi eseguiti su stucco d’argilla con colori minerali che si rifacevano, ora allo stile Gandhara, ora ad un’arte figurativa romana. “Così, sui fregi di un’unica sala s’incontrano due scuole artistiche, due tradizioni” annotava

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l’archeologo russo nei suoi appunti, evidenziando ancora una volta l’incontro e la trasformazione culturale avvenuta lungo le vie commerciali. Chardgiou era l’antica oasi dove la carovaniera settentrionale incontrava uno dei tratti principali di quella pista che il barone Von Richtofen, all’inizio del secolo scorso, ribattezzò come “la Via della Seta”. Volgendo a occidente si penetrava nell’arido territorio dell’odierno Turkmenistan dove un vero e proprio miracolo dello spirito umano fu capace di adattare, trasformare e rendere abitabile uno dei luoghi più inospitali del pianeta. Ma la paziente e capace opera dell’uomo non si è fermata alla semplice colonizzazione di quest’angolo del mondo, qui è sorto e si è sviluppato il regno della Margiana. La sua capitale Merv, conosciuta anche come Gyaur-Kala o Alessandria Margiana, fu per secoli un cuore pulsante ed insostituibile punto di riferimento per i traffici commerciali da un capo all’altro del continente eurasiatico. “L’oasi era famosa per il fine cotone che esportava sia greggio che tessuto, celebre


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era anche per l’importanza che aveva la sericoltura e le sue esportazioni di seta sia grezza che intessuta, al pari di quello degli ottonai e dei vasai, il quartiere dei tessitori era meta delle carovane di tutto il Medio Oriente. Una delle meraviglie della città era il mausoleo di Sanjar, la cui grande cupola color turchese era visibile ad una giornata di cammino”, così lo storico francese Renè Grousset, ci raccontava confermando quanto appena scritto. Le sue rovine si trovano a circa 30 chilometri dalla moderna città di Mary nel Turkmenistan meridionale. Edifici e fortificazioni si estendono su un’area imponente (circa 8 chilometri) e sono tuttora oggetto di studi sistematici da parte del Dipartimento di Archeologia dell’Università di Mosca. Oggi l’importante e antico emporio commerciale di Merv è stato rimpiazzato da quello di Tolkuchka, cittadina a pochi chilometri dalla capitale Ashgabat o Ashkhabad, dove ogni domenica si ritrovano nomadi, commercianti e curiosi, dando vita ad uno dei più colorati ed affascinanti mercati del mondo. Qui vengono venduti e acquistati i pregiati tappeti Turkmeni e i raffinati lavori dell’arte orafa dei nomadi (i turcomanni di Marco Polo), anche se un’ampia parte del mercato è oggi occupata dai moderni prodotti provenienti soprattutto dalla vicina Persia. La via carovaniera diretta a occidente scendeva attraverso il massiccio del KunLun per riprendere la pista principale proveniente dall’Afghanistan, presso la città di Mashhad. Numerose sono piste secondarie che attraversavano le montagne del Turkmenistan meridionale, gran parte di queste carovaniere non sono state ancora interamente perlustrate e studiate. Su una di queste piste è stata rinvenuta la città di Nisa, con ogni probabilità, la più antica capitale dei

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Parti. Costruita attorno al II secolo a.C, la città contava ben 43 torri perimetrali a protezione del possente palazzo reale e numerosi templi; fu abitata per quasi cinque secoli svolgendo un ruolo importantissimo nell’economia della Persia. Da alcuni anni una missione archeologica dell’Università di Torino sta eseguendo scavi sistematici al fine di far luce sull’antica storia di Nisa. Da Chargiou proseguendo verso oriente la carovaniera raggiungeva i più famosi mercati della via della seta: Bukhara e Samarcanda. Bukhara, palpitante capitale del grande Khanato uzbeko, saccheggiata, incendiata, distrutta e ricostruita più volte, mantiene quel fascino di città aristocratica e sofisticata, culla della cultura uzbeka nel cuore della Transoxiana. Gli uzbeki sono un popolo fiero della propria tradizione e cultura. Originari delle

Turkmenistan; scavi archeologici presso l’antica città di Nisa


70 Uzbekistan; Bukhara, il minareto di Kalyan del 1127

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regioni degli Altay, rappresentano oggi il complesso risultato di un lento processo di osmosi tra diversi gruppi etnici e modelli culturali. Chiunque abbia visitato Samarcanda (l’antica Afrasiyab dei Sogdiani) non potrà mai dimenticare l’azzurro lapislazzuli della cupola di Bibi Khamni (Tamerlano), o la suggestione di fronte alle tombe timuridi di Gur-i-Mir, simili ad un accampamento di yurte nella steppa, ed ancora lo stupore davanti al superbo e monumentale Registan. Ma il fascino di Samarcanda si nasconde dietro le vestigia dei monumenti importanti, non si mostra apertamente al viaggiatore di passaggio, bisogna cercarlo, lasciandosi andare alle regole di un gioco dove, anche spazio e tempo devono recitare un copione lontano dai nostri consueti luoghi comuni. Per i vicoli polverosi di Lyab-i-Khauz, il vecchio quartiere ebraico di Samarcanda, cerchiamo l’ombra tra i muri delle abitazioni per sfuggire alla calura di questo afoso pomeriggio d’estate. Schiamazzi ed urla di bambini richiamano la nostra attenzione, verso un piccolo vicolo poco lontano. Sembra un luogo più fresco, poco assolato grazie ad un frondoso pergolato di vite che lo copre quasi interamente. Una piccola fontanella gorgogliante è un richiamo che non possiamo ignorare. Ci precipitiamo verso l’acqua. Appena rinfrescati, liberati dalla morsa della calura, volgiamo lo sguardo nel cortile adiacente. Una decina di uomini sono seduti, a gambe incrociate, su enormi tappeti; stanno bevendo té e mangiando frutta fresca. Gli sguardi s’incrociano ed un anziano con ampi gesti ci invita a prendere posto sul consumato tappeto. Ci sediamo tra loro. Il cortile costituisce l’area comune per alcune famiglie, si tratta dei mahallalar del periodo islamico, quando le famiglie dovevano aiutarsi l’un l’altra, come recita il sacro Corano. In queste corti la vita è rilassata, e anche il tempo si riposa. Le grandi finestre delle abitazioni, riccamente agghindate con tendine e merletti, diffondo all’interno delle modeste abitazioni, i raggi del sole in un aggraziato gioco di luci ed ombre. Due giovani ragazze vengono chiamate fuori da una delle case che delimitano il cortile. Hanno in mano grandi vassoi e brocche, che appoggiano con grazia al centro del grande tappeto. Frutta fresca,


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pane ed alcuni dolci; il caldo sembra scomparire, lasciando posto ad una piacevole sensazione di fresco. Alcuni di loro parlano un discreto russo e subito s’innescano le prime domande e risposte. È soprattutto l’uomo più anziano, con una folta barba bianca e dagli occhi di gatto, a rivolgerci le domande; ma lo fa con grande flemma, con tono amichevole e pacato; ci fa sentire a nostro agio, come se ci trovassimo seduti tra vecchi amici. Le frasi scivolano spontanee; c’è tutto il piacere della conversazione. Alle nostre risposte spesso seguono ampie discussioni alle quali, purtroppo, non possiamo intervenire perchè in uzbeko. Ma è soprattutto quando si parla di religione, di spiritualità e di antenati che l’attenzione sembra più viva e palpitante. Beviamo molte tazze di profumato té che, una volta svuotate, vengono prontamente riempite da uno dei commensali. Guardo l’orologio e mi accorgo che siamo qui da oltre tre ore. Quanto ho imparato oggi, in questo “dolce far nulla”. Un’importante pista collegava Samarcanda a Mazar-i-Sharif, lungo il tratto meridionale della Via della Seta, superando prima Shakr-i-Sabs, città natale di Tamerlano, e poi Termez, antichissimo ed importante emporio sull’Amu-Darja. Probabilmente si tratta di una delle più antiche vie commerciali, utilizzate dai Sogdiani.

Uzbekistan; Samarcanda, il Registan, la Madrasa Sher-Dor

Etnia Uzbeka

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Valle del Fergana; Andijan; davanti alla moschea

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- Ma chi erano questi Sogdiani? Chiede Dino, alle prese con il quotidiano lavoro di pulizia della video camera. - Non si conosce molto su di loro, sulla loro cultura, sui loro traffici commerciali. Fonti storiche contraddittorie hanno poi contribuito ad infittire il mistero fino a quando gli archeologi sovietici portarono alla luce una collezione di affreschi e statue, nella zona di Pendjikent, rivelando al mondo qualcosa di straordinario di questa misteriosa civiltà. Le figure ritratte mostrano indiscutibili tratti indoeuropei con volti sottili, naso lungo e stretto, barba scura e folta. Le immagini religiose sono legate al culto mazdeo ma anche alla religione Manichea e alle antiche credenze locali, come testimoniano le icone della Dea delle acque che regge fra le mani un melograno, e della Grande Dea il cui corpo è ricoperto di simboli arcaici. Ma c’erano anche buddisti e cristiani nestoriani. – concludo, mentre l’amico annota sul suo diario. Ritrovamenti di vetrerie in grado di fabbricare vetro di alta qualità, fonderie, botteghe di artisti addetti alla produzione di sculture in legno, fine vasellame, tappeti e tessuti, pregiatissimi i filati di cotone

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bianco, testimoniano l’elevato grado di cultura e civiltà raggiunto da questo popolo. L’impero scomparve con l’arrivo dei turchi e successivamente degli uzbeki, ma la loro raffinata arte ed il loro sapere non furono cancellati bensì assimilati nelle culture nomadi che si stabilirono sul loro territorio. Per secoli la lingua sogdiana fu utilizzata come lingua franca da commercianti nell’area del centro Asia. Il mondo sovietico centro-asiatico lo scopriamo trionfante a Tashkent, la capitale dell’Uzbekistan, metropoli industriale ed affaristica dove sopravvivono ormai ben pochi quartieri della vecchia città, velocemente smantellata dalla politica ed architettura dei “monoblocchi”, così come a Frunze, oggi Bishkek, capitale della repubblica della Kirghisia, sulla via carovaniera che piegava a nord verso il corridoio del fiume Ili. “Il regno di Feihan (la città di Fergana nda) ha un perimetro di 4000 lì. Da ogni parte è circondato da montagne. La terra grassa e fertile produce abbondanti raccolti e una gran quantità di fiori e frutti. Il paese è adatto all’allevamento dei montoni e dei cavalli, il clima è freddo e ventoso.


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Il cavallo volante del Fergana

Gli uomini dotati di fermezza e coraggio, innati, parlano una lingua diversa da quella degli altri popoli e hanno visi laidi e ignobili. Da molti decenni questo paese è privo di capo supremo. Gli uomini più forti si combattono con le armi e si mantengono indipendenti gli uni dagli altri. Sentendosi protetti dai fiumi e dagli ostacoli naturali, hanno tracciato i confini dei rispettivi territori. E vivono ognuno in una residenza separata dalle altre”. Nelle parole del pellegrino cinese Xuanzang, conosciuto come uno dei massimi traduttori di testi buddisti, troviamo un’attenta descrizione della valle di Fergana, luogo dove l’antica via carovaniera giungeva da Samarcanda e proseguiva per Osh e Kashgar. Conosciamo bene la storia di questa regione attraverso le testimonianze cinesi. I loro interessi economici e strategici verso questi territori portarono numerose ambascerie cariche di regali per le corti Da Yuezhi e successivamente grandi eserciti per sconfiggere gli indomiti eserciti del Fergana. La ragione era nota sin dall’antichità, i famigerati “cavalli volanti” della valle, sono una storia che ha inizio con le

campagne militari della dinastia degli Han contro le confederazioni nomadi del nord, gli Yuezhi. Durante le campagne militari la Cina faceva un enorme uso di cavalli. Allora non si conosceva la ferratura e durante le campagne militari gli zoccoli si consumavano molto in fretta divenendo inutilizzabili. I cavalli di Fergana al contrario erano una razza equina con zoccoli estremamente duri e resistenti nonchè in grado di correre più velocemente dei migliori cavalli del Celeste Impero. Dopo lunghe e fallimentari trattative tra gli ambasciatori cinesi ed i Wu-Sun, vassalli degli Yuezhi, l’imperatore Wu-Ti decise di sferrare un attacco militare per impadronirsi dei famosi cavalli volanti. Dopo la prima disastrosa campagna militare, che costò oltre cinquantamila uomini, Wu-Ti sferrò un secondo e decisivo attacco, riportando in Cina le famigerate mandrie. Gli studiosi di arte cinese antica, ci fanno notare come persino nelle arti figurative la rappresentazione del cavallo cambi radicalmente tra le epoche precedenti e quelle successive alla conquista della Fergana.

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Andijan Fergana

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Il nostro autobus procede lentamente, ha il tetto perforato da fori di proiettile, e la luce del sole di mezzogiorno tremola sopra le teste dei passeggeri assonnati e indolenti. Lungo la strada decine di donne sono piegate nei campi di granoturco e girasoli. Attraversiamo piccoli villaggi, lungo angusti vicoli delimitati da muri di calce e porte intagliate. Il nostro mezzo si ferma; nessun villaggio, è un blocco stradale. La polizia fa scendere tutti. Cercano droga e soprattutto armi. Si riparte. Finalmente a Margiland, l’antica città carovaniera che al tempo di Polo suscitava seduzione e ammirazione nei suoi visitatori. Ci muoviamo curiosi alla ricerca dei monumenti, delle antiche vestigia sfuggite al disastro delle riforme socialiste. Nelle strade numerose sono le donne e le ragazze. Si muovono in un scintillio di sete dai colori sgargianti e dai ricami dorati. I foulard annodati sulle loro chiome non offuscano la loro bellezza, i visi dai tratti occidentali aggraziati dalle fattezze orientali, le mani affusolate e i loro sorrisi sono più sensuali della nudità.

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La regione di Fergana è un’affascinante vallata racchiusa tra le alte montagne del Pamir; appare come un’estesa oasi dove regna tranquillità e benessere. Kokand era l’antica capitale del regno Wu-Sun, immersa nel verde dei grandi platani e gelsi che fiancheggiano i suoi viali, appare oggi come una cittadina operosa e ben organizzata. Dalla città di Andijan, all’estremità orientale della vallata, la via carovaniera incontrava il più grande ostacolo sul proprio cammino verso la Cina: il massiccio del Pamir. Ecco cosa scriveva Marco Polo: “...e partendosi da questa contrada si va per tre giornate tra levante e greco sempre ascendendo per monti, e tanto s’ ascende che la sommità di quei monti si dice essere il più alto luogo del mondo (...) e si cammina per dodici giornate per questa pianura, la qual si chiama Pamer, e in tutto questo cammino non si trova alcuna abitazione, per il che bisogna che i viandanti portino seco le vettovaglie. Ivi non appare sorta alcuna di uccelli per


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l’altezza dei monti e che per l’asprezza del freddo, il fuoco non è così chiaro come negli altri luoghi, ne si può ben con quello cuocere cosa alcuna”. Polo descriveva così questo arduo tratto della carovaniera, annotando inoltre il malessere e le emicranie degli uomini ed il “sanguinare dalle narici” dei cavalli, dovuti con ogni probabilità alla quota. L’altopiano del Pamir si estende per oltre 600 chilometri in direzione nord-sud e per 400 in direzione est-ovest con un’altitudine media di 4000 metri; privo di qualsiasi stazione di posta, ancor oggi rappresenta il tratto più impegnativo dell’intero crocevia delle vie carovaniere. ■

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Kirghisia; sul massiccio del Pamir


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Turkmenistan, venti di tempesta sulla Via della Seta.

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nostre coscienze, in quanto vive pienamente il suo ruolo di attore, rafforzando la propria essenza in una recitazione che travalica il linguaggio, esprimendosi con rappresentazioni che pervadono i nostri sentimenti. Ecco che allora diviene un paesaggio ideale, un luogo fantastico, un territorio realistico in cui hanno luogo le recitazioni degli uomini che a volte divengono storia, in altre leggenda. A circa ottanta chilometri dalla Porta dell’inferno ci fermiamo per una sosta al piccolo villaggio di Erbent, abitato da un centinaio di persone di una tribù nomade che vive essenzialmente di pastorizia. Tranne i bambini, l’accoglienza non è quella che ci

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aspettavamo. Arsi dalla sete, acquistiamo dell’acqua in un modesto emporio, dove la venditrice ci offre del latte di cammello locale, che ha un sapore acido e poco gradevole. Nel villaggio alcune famiglie producono tappeti di feltro in modo tradizionale, ma non vogliono

eserto del Karakum,

ed è diventato una vera e propria attrazione

essere fotografati. La gente è chiusa e schiva,

siamo sulla strada che

turistica. Il cratere, che ha un diametro di circa

e Andrey ci spiega che forse la causa è dovuta

ci sta conducendo

settanta metri e una profondità massima di

alle continue pressioni ed usurpazioni che gli

ad Ashgabat, e la

venti, la notte sprigiona un bagliore visibile da

abitanti hanno subito, dapprima dal regime

nostra guida, un vero

chilometri di distanza. Malgrado l’alto tasso di

sovietico che tentava di imporre il collettivismo

gigante dai capelli

tossicità, l’impatto ambientale sull’ecosistema

agricolo, e successivamente per la decisione del

corvini, continua a

è abbastanza ridotto in quanto questa enorme

nuovo governo (leggi del Presidente) di radere

masticare frutta secca mentre con voce rauca,

spaccatura del terreno si trova in una zona

al suolo il villaggio, come era già avvenuto

ci racconta del periodo sovietico e del “grande

desertica e praticamente disabitata.

per tanti altri piccoli centri nel Turkmenistan,

buco” che gli “scienziati”, come li chiama lui,

Con Lucia decidiamo di campeggiare a un

perché giudicato esteticamente inappropriato.

avevano causato. Ricordo bene quando David

centinaio di metri dal sito, per ammirare

Un manipolo di fieri e irriducibili è rimasto a

mi raccontò di essere passato da quelle parti,

l’inconsueto spettacolo di luce che nel buio si

presidiare queste baracche circondate dalle

senza però riuscire a raggiungere quel luogo

leva dalle viscere della terra. L’odore sulfureo

dune di sabbia.

perché l’autista del camion su cui viaggiava,

sul bordo del cratere è acre e penetrante e,

Il Turkmenistan è una repubblica presidenziale

appollaiato nel cassone sopra un carico di

nonostante la notte nel deserto la temperatura

il cui attuale presidente, al pari del suo

meloni e cocomeri, non ammetteva soste

scenda vertiginosamente, il calore è davvero

predecessore, coltiva il culto del narcisismo

durante il massacrante tragitto attraverso il

insopportabile.

più radicale, come avviene in tutte le dittature.

deserto. Si tratta di una voragine, causata

La mattina ci svegliamo infreddoliti mentre

Ovunque si trovano ritratti del presidente e

da un incidente accaduto nel 1971, durante

Andrey sta preparando un tè bollente per

le città dell’intero Paese sono disseminate di

una perforazione effettuata dai geologi

riscaldarci. Ritorniamo ad ammirare le vivide

statue dorate che lo raffigurano sorridente. Il

sovietici alla ricerca di petrolio. Il terreno

fiamme che incendiano la terra mentre l’alba

Paese è retto da un’economia prevalentemente

crollò inghiottendo tutte le attrezzature,

dipinge di rosa lo sterminato deserto.

rurale con vaste aree coltivate a cotone

fortunatamente senza fare vittime, e sprigionò

A volte il paesaggio diviene contenitore,

e allevamenti di ovini stanziali, un tempo

una grande quantità di gas che i ricercatori

come teatro di storie, siano esse nuove o

appannaggio dei nomadi. Sebbene il regime

pensarono bene di incendiare onde evitare

antiche, in quanto esso suscita emozioni e

fornisca gratuitamente acqua, gas, elettricità e

catastrofi peggiori, nella speranza che il gas si

direttamente rimanda a vicende umane che

carburante, oltre metà della popolazione vive

consumasse in breve tempo. Le fiamme però

superano la curva del tempo. Ora emoziona,

sotto la soglia della povertà.

continuano a bruciare ancora oggi, tanto che il

in quanto specchio del mondo del quale

Qui il Grande fratello è davvero una realtà

sito è stato soprannominato Porta dell’inferno

ci si sente parte, subito dopo pervade le

quotidiana. “Andrey, ma c’è qualcosa che


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non sia vietato?”- domando al nostro amico.

è stata cancellata, o meglio, delocalizzata e

La risposta è seria: “Attenzione a cosa dite,

modernizzata, come prescritto dalle nuove

ovunque vi troviate, anche nella camera

leggi del Paese. Nella periferia nord della

dell’albergo. Per questo tipo di reato c’è

capitale, enormi e anonimi hangar metallici,

la prigione oppure l’espulsione dal Paese”.

circondati da centinaia di posteggi per

Osservo il suo sguardo nello specchietto

autovetture e autobus, sono la nuova Tolkuc-

retrovisore dell’auto e mi chiedo cosa di vero

hka, scomparsa dalle mappe, che ha persino

ci sia in lui, dietro quella maschera che indossa

cambiato il suo nome: Alyn Asyr Bazar.

per necessità, per sopravvivere. Allora mi

A volte i cambiamenti sono lo specchio del

accorgo che la sua voce, il suo corpo, la sua

desiderio di alcuni, forse il sogno delle nuove

fisicità, tutto ciò che non è verbale, sono la sua

generazioni di cancellare le sofferenze dei

vera anima, soffocata da una nuova ferocia,

padri, le umiliazioni accettate supinamente,

antica e ineffabile, che ben poco di buono

oppure esse rivendicano necessità, impugnate

lascia pensare. Allora preparo la macchina

politicamente per dimostrare le proprie

fotografica.

convinzioni che spesso hanno conseguenze

È rimasto ben poco dello splendore di un

irreversibili. Forse riconciliandosi sul

tempo, quando queste regioni del Karakum

palcoscenico naturale dove le recitazioni degli

erano il luogo dei traffici commerciali e lungo

uomini formano la personalità dell’individuo e

vecchie piste polverose si muovevano le

plasmano le grandi civiltà, si potrebbe ritrovare

lunghe carovane. I venti di tempesta soffiano

un percorso possibile verso la più pacifica e

tuttora, cancellando millenni di storia.

costruttiva convivenza.

Anche Tolkuckha non esiste più, quel luogo straordinario dove ogni fine settimana, migliaia di nomadi, di commercianti, di acquirenti e curiosi, animavano quel mercato incredibile, e del quale avevamo ammirato le foto, vere e proprie esplosioni di colori, scattate da David nel lontano 1992. Anche questa meraviglia

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Turkmenistan; nel villaggio di Erbent


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Turkmenistan; Kunya Urgench, riti per la fertilitĂ


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Turkmenistan; il cratere di Darvaza

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Al margine del cratere

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Etnia Chowdur

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Uzbekistan, oltre i confini.

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ci concediamo una romantica passeggiata notturna alla scoperta dei monumenti illuminati, il mausoleo di Tamerlano, la gigantesca moschea Bibi Khanum, il complesso del Registan che era il cuore dell’antica città dove tre grandi madrase formano gli altrettanti lati di una vasta piazza. Il giorno, invece, ci perdiamo tra i vicoli, avvolti in un’atmosfera unica, dove il tempo sembra essersi fermato. Strisciamo lungo i muri delle case alla ricerca di un po’ di ombra. Dietro un angolo si apre un cortile dove scorgiamo delle ragazze intente a tessere

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un arazzo, e dal lato opposto un bambino

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che studia, chinato su un banco di legno,

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simile a quello delle nostre vecchie scuole. Appena facciamo capolino il bambino ci corre incontro, come svegliato dal torpore della noia, e ci prende per mano. Ci accompagna poco arovane con mercanti

impressioni che la visione produce oppure si

lontano, siamo nel cortile di una piccola scuola

e ambasciatori

può cercare di capire, in senso semiologico,

di artigianato. Fa molto caldo, e il direttore

percorrevano di media

ciò che il paesaggio può rivelarci. Ma un modo

ci invita a prendere un tè. Disteso sui tappeti,

trenta chilometri

per appropriarsi della lettura del paesaggio,

sprofondato tra cuscini in cotone ricamati di

al giorno, e certe

della condizione evocativa a cui essa rimanda,

seta che avrei acquistato poco più tardi, mi

volte, procedendo

consiste nel considerare il segno umano come

sono ricordato dell’episodio narrato da David

più lentamente,

il risultato di un rapporto comunicativo col

in cui aveva trascorso un pomeriggio assolato a

viaggiavano la notte, sotto le stelle, quando

territorio. Risposte e attribuzioni discendono

chiacchierare con un gruppo di uzbeki. Per un

di giorno faceva troppo caldo. Centinaia di

infatti dalla storia delle esperienze che

attimo rivivo le stesse sensazioni, conversare

cammelli ricolmi di merci si muovevano in fila

una società ha fatto in quell’ambiente, dal

con qualcuno, per scoprire un modo diverso di

indiana sulle sabbie, nelle gole tra i monti, nel

susseguirsi ininterrotto di stratificazioni

assaporare l’incontro con l’insolito. Il bambino

silenzio rotto soltanto dai suoni della natura.

culturali su cui solitamente prospera e si

interrompe il mio torpore, per catapultarmi in

Il viaggio è di per sé sinonimo di ignoto. Ero

afferma una cultura o una civiltà. Ecco allora

un’orbita di domande. Vuole far sfoggio del

affascinato dai racconti di David, dal lento

che le tante storie che si accumulano lungo

suo inglese, ma Lucia prende la palla al balzo

cammino che, proprio come i carovanieri, lo

l’interminabile rosario di oasi lungo la Via della

e inizia la conversazione. Intanto le tessitrici,

aveva spinto, tappa dopo tappa, all’attenta

Seta, danno un senso compiuto al ripercorrerne

che fino ad allora non avevano alzato la loro

osservazione del territorio, ad incontri

le tappe, che in fondo sono le stesse su cui il

testa dal telaio, richiamate dalla voce decisa del

fantastici con popolazioni e culture lontane,

nostro cammino si evolve.

direttore, ci servono della frutta secca disposta

a esperienze uniche e irripetibili. Spesso si

In Uzbekistan ci sono luoghi e città che hanno

su un grande vassoio di rame. Lui ci coinvolge

guarda il paesaggio e ci si fa spettatori in

fatto la storia della Via della Seta. Siamo a

in un interessante dialogo sull’istruzione,

diversi modi, ci si lascia travolgere dalle dalle

Samarcanda da qualche giorno e ogni sera

particolarmente caro a Lucia, in quanto

Uzbekistan; Bukhara, giocare all’ombra del minareto


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professionalmente interessata. Ci mostra con

a questi stendardi, ognuno di noi cerchi il

orgoglio il lavoro delle sue allieve. Rimango

significato profondo che si insinua oltre la gioia

senza parole di fronte a filati e broccati a dir

dell’occhio; da Monteriggioni a Samarcanda,

poco superlativi. Ma quando mi mostra i grandi

queste opere, testimoni di annunciazioni e

stendardi realizzati con la tecnica dell’encausto,

profezie, possono condurci attraverso il tempo

il mio cuore sobbalza e la mente sorvola

ed i luoghi, verso nuovi approdi, oltre noi

in un attimo le antiche vie commerciali, la

stessi”. L’importanza di quella piccola scuola-

macchina del tempo riparte e mi ritrovo nella

laboratorio, solo in parte sovvenzionata dallo

grande spianata davanti alle torri medioevali di

Stato, è incentrata nel dare opportunità per

Monteriggioni, dove enormi stendardi, realizzati

un futuro migliore alle nuove generazioni. Le

con la stessa tecnica dell’encausto dall’artista

industrie locali non sono sufficienti a sfamare

Bruno Gripari, ricoprono quasi per intero le

tutta la popolazione, mentre il fiorente turismo

torri monumentali. L’evento “Annunciazioni

a cui vendere manufatti può rappresentare

e Profezie” riaffiora nella mia mente,

una fonte di guadagno, oltre che preservare le

improvvisamente ricordo le parole di Giusto

tradizionali tecniche artigiane che fanno parte

Pio durante la serata inaugurale: “davanti

della loro cultura.

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Uzbekistan; Khiva, la moschea di Juma


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Uzbekistan; Samarcanda, mausoleo di Tamerlano

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Uzbekistan, Khiva, particolare dell’arte musulmana

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Uzbekistan; Samarcanda, la scuola nel cortile

Uzbekistan; Samarcanda, tessitrici di tappeti

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Stefano Rosati Etnia Khalkh


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GL I UOMI NI DELL E T E NDE E LE SOCI E TÀ VIAGGI A N TI .

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A nord di Frunze, l’odierna Bishkek, la pista raggiungeva Almaty (ex capitale del Kazakhstan), importante centro carovaniero già in epoca Saka e Wusun dove oggi si trova il famoso “guerriero d’oro” rinvenuto a Issyk kurgan, superando poi i monti del Tien-Shan attraverso la “porta della Zungaria”, un alto passo montano dove oggi una grande strada, parzialmente asfaltata, dalla cittadina di Horgos (Chargas), raggiunge il centro di Urumqui nello Xinjiang. Un ulteriore tratto della carovaniera si dirigeva più a

nord attraversando le aride regioni della Zungaria fino a raggiungere la parte meridionale degli Altay, dove Guglielmo di Rubruck nel tredicesimo secolo, scriveva delle rovine di Equius e la grande città di Cailac, per poi entrare in Mongolia, il paese di Gengis Khan, la terra dei nomadi. Un’ulteriore pista secondaria, superato il lago di Balkash, proseguiva a Nordovest superando il corso del fiume Irtysh, evitando così l’ostacolo geografico dei monti Altay; la sua diramazione più settentrionale entrava nell’area dei monti


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Sayan (nell’odierna repubblica di Tuva) lungo le sorgenti dello Yenisei. È difficile cogliere il vuoto, abbracciare lo spazio senza confini. Non ho mai visto il cielo così da vicino. D’altronde non poteva che essere questo “il cielo sopra il grande vuoto”, come scriveva Owen Lattimore, l’enorme telo della Gher (la tenda dei nomadi della Mongolia) che ricopre questo immenso oceano d’erba. Nubi che si ripetono in forme bizzarre come mirabili opere di un abile maestro, o effimeri cirri dalle mille striature che si muovono veloci restituendo, fugaci alla vista, l’azzurro intenso del cielo. Con queste parole termino l’ultima pagina dell’ennesima Moleskine, volendo sottolineare il fascino e la bellezza di questa terra e delle sue genti. Ma chi sono questi nomadi, qual è la loro origine, la loro storia e il loro ruolo lungo le grandi vie commerciali? Ci sono problemi oggettivi per lo studio scientifico e sistematico dei popoli della Mongolia, legati soprattutto alla mancanza di fonti scritte antiche (la

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scrittura divenne prerogativa di questi popoli solo nel XIII secolo) e alla difficoltà di datazione di molti reperti rinvenuti nelle recenti spedizioni scientifiche dell’Accademia delle Scienze di Ulan Bator. Inoltre il riutilizzo di zone di sepoltura e dell’oggettistica ritrovata nei siti funerari, ha ulteriormente confuso le carte in tavola, lasciando come unica possibilità agli etnostorici, quella di tracciare sommariamente le origini di una civiltà in perenne movimento, senza rovine e senza epicentro. Persino la classificazione dei ceppi linguistici, da sempre uno dei più validi criteri scientifici per identificare i diversi gruppi etnici e culturali, ancor oggi non mette tutti d’accordo. È infatti un complesso processo di scontri, integrazioni e trasformazioni culturali quello che è avvenuto nel corso dei millenni tra i popoli che abitarono questo territorio estremamente vasto che oggi individuiamo nella Mongolia, Siberia meridionale e parte della Cina settentrionale.

Regione degli Altai; falconiere khazako


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Mongolia; regione di Bayan Olgii

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Documenti cinesi dell’VIII secolo a.C. ci parlano di un “nuovo stato” (la confederazione Hsiun-nu o Xion-gnu) che governava su quelle regioni. Ma non si trattava di un unico popolo bensì di numerose tribù di diversa origine e tradizione, in uno dei tanti momenti di aggregazione. Gli antropologi distinguono queste popolazioni in tre grandi gruppi: europoidi brachicefali, mongoli stenocefali e dolicocefali originari della Siberia. La letteratura occidentale ha sempre avuto un giudizio negativo nei confronti del mondo nomade. L’immagine stereotipata ed i luoghi comuni che abbiamo di queste società, sono l’eredità di racconti e testimonianze di osservatori stanziali. Era stata più volte formulata l’ipotesi del nomadismo come espressione di una società ad uno stadio evolutivo fermo ed arretrato. E allora gli uomini delle steppe divennero, agli occhi dell’europeo, “il flagello divino”, “i popoli dell’anticristo” inoltre, “l’orda barbarica e gli eserciti di Gog e Magog” e chi più ne ha più ne metta. Vorremmo spezzare una lancia a favore di questi popoli dipinti a tinte fosche dalle pagine dei libri di storia. Il

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contesto culturale della società nomade di oggi non rappresenta la logica trasformazione del modello primitivo di cacciatore-raccoglitore, come troppo spesso ci è dato da credere, piuttosto fu una conquista ed una scelta di popoli che nell’antichità, conoscevano perfettamente l’agricoltura e l’uso dei metalli. La scelta di un modello sociale legato al nomadismo pastorale ha diverse ragioni storiche, legate al territorio, al clima e all’aspetto sia culturale che sacro. Inoltre, venendo a ciò che più c’interessa, potremmo affermare che mai durante il corso della storia, gli scambi commerciali e la sicurezza dei trasporti lungo le vie di comunicazione del continente euroasiatico, furono più agevoli e sicuri, quanto durante l’egemonia dei Mongoli. Si tratta della cosidetta epoca della Pax-Mongolica, come sottolineava il fiorentino Francesco Balducci Pegolotti nella sua “Pratica della Mercatura” nel lontano 1350. I cani iniziano ad abbaiare all’unisono, volgono lo sguardo e si dirigono verso le piccole alture proprio dietro il campo. Tuya comincia a mungere le mucche


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per nulla sorpresa o incuriosita. Noi rimaniamo immobili e con lo sguardo cerchiamo lontano la ragione dell’abbaiare dei cani. Non passa molto tempo, ed ecco che dietro una nuvola di polvere, scorgiamo una carovana che si dirige verso il campo. Nessuno qui sembra minimamente interessato a ciò che sta accadendo. Quando il piccolo convoglio è in prossimità del campo, Enkhbolor e Tzetzeghee allontanano i cani con la solita tecnica delle sassate. La carovana si compone di un uomo, un giovane ragazzo ed una donna, tutti sul proprio cavallo, quest’ultima con un piccolo legato dietro la schiena come un fagotto. Ci sono anche due cammelli che trasportano il pesante fardello della gher e delle masserizie, un carro trainato da un cammello che pare un caterpillar e poco lontano un gregge di 50/60 capi tra mucche e pecore. Un ragazzo a cavallo, con la sua immancabile urga, chiude la carovana. Sceso da cavallo, l’uomo a capo del gruppo, si dirige verso la gher di Bator, come se già sapesse in quale delle cinque tende vive il capo clan; la donna, ancora a cavallo inizia ad allattare il suo piccolo, mentre il ragazzo sistema i cavalli. Tuya osserva l’andirivieni, ma sembra poco interessata, continuando a mungere, Enkhbolor e Tzetzeghee hanno ripreso a giocare-lavorare con le mucche. Noi siamo troppo curiosi e decidiamo di entrare nella gher di Bator per vedere cosa sta accadendo. C’è una bella atmosfera. Bolot ci dice che il nuovo arrivato, è un caro amico di Bator. Con la sua famiglia, si fermerà qui con il nostro gruppo (...) Sistemata la gher, Tuya ed il ragazzo più giovane iniziano a radunare le pecore. Mi chiedo come possano riconoscere i propri capi di bestiame ora che ben quattro mandrie sono state riunite (solo pochi sono gli animali marchiati o comunque “segnati”). Nandin li raggiunge, portando i secchi, ed insieme cominciano a mungere l’intero gregge. Di volta in volta il latte viene portato nelle gher senza alcuna distinzione riguardo alla proprietà degli animali da cui è stato appena munto, tutto appare come il prodotto di un’unica famiglia dove padre, madre, fratello e sorella hanno stessi diritti di soddisfazione sul cibo comune. Ciò che ancora oggi sorprende il viaggiatore, in transito su queste terre, è ciò che accade quando avviene l’incontro

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con la gente nomade. Tutto si svolge in modo naturale senza che ci si accorga che stiamo entrando in un mondo del tutto nuovo, lontano dai nostri schemi e dai nostri luoghi comuni. Lasciato il mezzo meccanico o i cavalli, ci si incammina verso le grandi gher, le tende bianche circolari chiamate yurte in lingua russa; appaiono come un semplice riparo per la notte ma, varcata la soglia, ci si rende subito conto di non essere in un semplice rifugio. L’atmosfera, la serenità e l’armonia che troviamo al suo interno, sono ciò che veramente ci colpisce; quello “star bene, in un luogo sicuro e accogliente” è ciò che si prova, una situazione di empatia che sorge spontanea, con naturalezza. Sedere all’interno della gher e trascorrere anche una sola notte con loro è qualcosa che ha colpito ogni sedentario abbia viaggiato da quelle parti. La gher è anche un microcosmo ricco di simboli e significati legati alle credenze religiose ed alla cultura di quei popoli, ci appare per molti versi come un luogo magico; ben presto ci si accorgerà che la magia sta nel loro modo di vivere, nel rapporto con la Natura, con se stessi e con gli altri.

Mongolia; nomadi davanti alla loro Gher


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Mongolia; menhir, stele cervidi, perido dei metalli

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Usciamo fuori dalla gher per sgranchire le gambe, due interminabili giornate di neve e vento gelido ci hanno costretto al forzato riparo dentro le loro “case”; ancora una volta siamo sorpresi dalla inconsueta luce che illumina l’orizzonte lontano. - È proprio vero; qui il cielo non si può raccontare. – commenta Dino. Bator è fermo a circa cinquanta metri dal campo, immobile su di una piccola altura, scruta l’orizzonte lontano. Sembra quasi assorbito da quella luce lontana. Uno stormo di piccoli uccelli percorre ampi circoli proprio sopra di lui, poi scompare lontano. Bator si volta verso il campo e a passi decisi si dirige verso di noi. Ci supera ed entra nella propria gher. Lo seguiamo. All’interno troviamo Bolot che al solito sta sgranocchiando carne essiccata e bevendo té, insieme alla famiglia di Dondog al completo. Bator parla per oltre un quarto d’ora alternando ad ampi gesti pause per sorseggiare l’immancabile suteitsai, latte con té e sale. Alla fine tutti si alzano ed iniziano una frenetica attività nella preparazione delle masserizie per muovere

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il “campo”. Chiediamo a Bolot di tradurre ciò che stiamo vedendo. Bolot ingoia l’ultimo boccone, si alza e dice: - “il cielo e gli uccelli hanno detto a Bator che è tempo di andare verso nord; bisogna muovere il campo; adesso!”. Il complesso rapporto tra uomo e religiosità si manifesta continuamente nella quotidianità della vita nomade. Persino lo spostamento degli armenti, ritenuto dai sedentari un semplice vagare alla ricerca di nuovi pascoli, segue regole antiche e precise che non solo assolvono le necessità pratiche della sopravvivenza, ma sanciscono il legame indissolubile tra l’individuo e il mondo sovrannaturale. Il percorso stesso ed il raggio della migrazione creano una mappa del territorio, lo “mitizzano e lo regolano”, stabilendo relazioni tra i luoghi sacri, i campi nomadi e la loro cosmogonia. L’antica carovaniera attraversava il territorio della Mongolia disegnando una diagonale in direzione nordovest, superando zone semidesertiche e steppa.


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È una tipologia di pista diversa quella che incontriamo in questi territori. Rispetto alle piste finora percorse, i grandi spazi, privi di qualsiasi riferimento geografico ai nostri occhi, sono invece precise carte topografiche per i nomadi che vi si muovono. Con grandi camion di fabbricazione russa oppure con il cavallo, il classico mezzo di trasporto per queste genti, si può oggi raggiungere la valle del fiume Orkhon. Sulle rive del grande corso d’acqua si trova Kharakhorim (Kharakorum) l’antica capitale dell’impero di Gengis Khan. “Della città di Caracorum saprete che, a esclusione del palazzo del Khan, non vale neppure il borgo di Saint-Denis (antico quartiere presso Parigi nda.) e il monastero di Saint-Denis vale dieci volte di più di quel palazzo. Vi sono lì più quartieri, uno di saraceni, dove sono i mercati e dove affluiscono i mercanti, a causa della corte che vi è sempre vicina e della gran moltitudine degli ambasciatori; l’altro è il quartiere dei Cathayeni, che sono tutti artigiani. All’infuori di quei quartieri vi sono grandi palazzi dove stanno i segretari della corte. Vi sono qui dodici templi di idolatri di diverse nazioni, due moschee dov’è proclamata la religione di Maometto e una chiesa dei cristiani, all’estremità della città. La città è chiusa da un muro di mattoni ed ha quattro porte”. Sono le parole di Guglielmo di Rubruck, tratte dal suo libro del 1256, e sono l’unica testimonianza che abbiamo di quella città, fatta eccezione per le cinque righe del testo di Polo che, come affermano molti studiosi, sono solamente osservazioni riportate e non esperienza diretta del veneziano. Un’antica capitale che gli archeologi stanno ancora cercando. Oggi

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è possibile osservare solamente l’area sacra della città, il centro cerimoniale con i monasteri; interamente ricostruito nel XVI secolo. Si tratta di templi, monumenti e scuole buddiste racchiuse nella suggestiva cinta muraria dove si ergono i 108 grandi chorten, l’elemento architettonico tipico della religione buddista che svolge la funzione di ricettacolo di offerte. All’interno dei cortili, esili figure di monaci si muovono silenziose, come un’immagine surreale sospesa su un’isola nel tempo. Oggi l’abitato di Kharakhorim è ben altra cosa; un villaggio dalla tipica e squallida architettura sovietica in grado di deludere anche il più pindarico dei sognatori. Di quel luogo che fu l’antica capitale del più esteso Regno della storia, ancora non vi è traccia; ci auguriamo che al più presto arrivi una lieta notizia. “Erano infatti colà quattromila ambasciatori, tra coloro che portavano tributi, quelli che offrivano doni, sultani ed altri principi che venivan a sottomettersi, nonchè altri ancora che i Tartari avevano mandato a chiamare ... quella tenda era posta su colonne ricoperte di lamine d’oro ... vi erano cinquanta carri pieni d’oro, d’argento e vesti di seta ... il trono era d’avorio finemente scolpito”, in queste parole di Giovanni da Pian del Carpine, tratte dal suo “Historia Mongalorum” del 1246, troviamo lo sfarzo, i doni e i preziosi carichi che giungevano alla corte del Gran Khan dei Mongoli. Le antiche piste seguite dai nomadi in questi territori non sono semplici da rintracciare per diverse ragioni. La prima è la totale assenza dei caravanserragli, dovuta alle diverse necessità e strategie di spostamento dei nomadi, la seconda è l’assenza di città e villaggi che

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Mongolia; Kharakhorim, i 108 chorten e le mura esterne del complesso monastico

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caratterizza il periodo dell’Età di Mezzo in queste regioni. “Carovane di mercanti ogni sera passano in prossimità del nostro campo. Fino a notte fatta, il traffico di parecchie centinaia di cammelli, continua ininterrottamente. Ho l’impressione che da queste parti i traffici commerciali siano davvero vivaci”. Le parole di Sven Hedin nel suo “Riddles of the Gobi Desert” non ci lasciano dubbi sulla continuità storica dei traffici

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commerciali nelle terre dei nomadi. Sull’asse Nord-Sud possiamo affermare con certezza la presenza di due rotte commerciali che dall’antica capitale mongola scendevano verso la Cina. La prima raggiungeva la Cumbaliq di Marco Polo (vicino all’odierna Pechino) passando per Sain Shand, mentre la seconda si distaccava dalla prima in prossimità del piccolo villaggio di Argaland nei pressi del tempio di Dzuvira, per poi toccare l’abitato


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Pailing Miao e pentrare nel terriorio dell’Ordos, lungo quella carovaniera che Owen Lattimore definiva come “la pista del Grande Vento”. Infine, terza e non ultima ragione, si sono smarriti sentieri e piste nel trascorrere dei continui mutamenti dello scenario storico di queste regioni, dove un ininterrotto susseguirsi di conquiste e disfatte, da parte dei popoli che hanno scritto la storia di quest’area geografica. ■

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Mongolia, sotto cieli maestosi.

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“strumento di lavoro” come mezzo per esprimere emozioni, per immortalare ciò che proviamo. Alle immagini aggiungo anche le parole, gli immancabili appunti dei miei taccuini che hanno tanto valore quanto le fotografie. Concordiamo anche sul concetto di post produzione, assolutamente necessaria con questi strumenti digitali. Molti fotografi tendono a esaltare l’immagine, mentre per me la spettacolarità risiede nella naturalezza, soprattutto nei colori, affinchè lo spettatore possa essere attratto e coinvolto fino a calarsi nel ruolo del protagonista,

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pensando di osservare l’immagine nell’oculare della macchina. Sono convinto che la realtà superi sempre l’immaginazione, sia in termini di qualità che di bellezza e qui sta il compito del fotografo reportagista, cogliere l’emozione

lan Bator, finalmente

IV presso i Tatari, proprio in quella terra, la

dell’attimo fuggente, quella percezione di

riabbraccio David. È

Mongolia che nell’immaginario collettivo

sentirsi parte del tutto, rubando al tempo lo

venuto a prenderci

di allora, era situata dove finivano le carte

scatto migliore.

all’aeroporto, e Lucia

geografiche. Facciamo notte, come sempre,

Non è importante la meta, quanto il percorso.

non esita ad incalzarlo

questo per me è il vero piacere, la ricchezza

Tiziano Terzani scriveva: “Viaggiare non serve.

subito di domande, ma

interiore del viaggiatore, lo scambio, la

Se uno non ha niente dentro, non troverà mai

c’è tempo.

partecipazione, l’entusiasmo e quel desiderio

niente fuori. È inutile andare a cercare nel

Per cena ha preparato trofie con pesto alla

di partire, mai abbastanza appagato, che da un

mondo quel che non si riesce a trovare dentro

genovese. Non domando dove si sia procurato

momento all’altro si realizzerà.

di sé”.

le trofie, ma il pesto, sapientemente preparato

La mattina seguente partiamo facendo

La bellezza di ogni viaggio risiede nella sua

secondo la ricetta originale, lo ricava col

rotta verso il Gobi. È ancora l’alba quando

unicità e irripetibilità. Per goderne pienamente,

basilico fresco delle piantine in bella mostra

carichiamo i bagagli sulla comoda jeep, la città

occorre abbandonarsi a ciò che si sta vivendo,

sul davanzale della cucina. È anche un ottimo

deve ancora svegliarsi, ma noi, già sazi del

che non sarà mai uguale a quello immaginato.

cuoco, e la sua esperienza di viaggiatore lo ha

frastuono, non vediamo l’ora di addentrarci nel

Dovremmo saper guardare il mondo con gli

portato a “sperimentare” ricette italiane con

silenzio di quelle sconfinate pianure adagiate

occhi del bambino che ancora risiede in noi,

ingredienti esotici, forse l’ennesima riprova

sotto cieli maestosi.

ma allo stesso tempo non dobbiamo peccare di

dell’importanza storica della Via della Seta

Giunti alle dune di Khongoriin Els, dette anche

ingenuità poichè ogni singola storia è costellata

nelle contaminazioni, anche culinarie. Ma è

dune che cantano per il suono che la sabbia

di circostanze complesse. In viaggio l’unica

soprattutto la sua compagnia, quella di un

produce muovendosi al soffio del vento,

cosa che mi spaventa è il rimanere estraneo

amico con cui condividere gli stessi interessi

ci fermiamo per soccorrere un mezzo che

e distaccato da quello che vedo e percepisco

che rende unici questo momento. Mentre

sembra in difficoltà. Così facciamo conoscenza

nelle diverse situazioni, il sentirmi senza quel

sorseggiamo un ottimo vino italiano, che

di Sandra, un’altra viaggiatrice; è di ritorno

coinvolgimento che rende partecipe la mia

immaginavo si potesse trasportare da queste

dall’area occidentale, dove ha realizzato un

anima agli eventi stessi, ma fortunatamente

parti solo dentro una valigetta diplomatica,

sevizio fotografico.

questo non accade.

rimango davvero sorpreso quando mi

Sandra è una persona affabile e cortese che

Il deserto non fa eccezione. In questo luogo il

ragguaglia che in ogni grande supermercato

nutre i nostri stessi interessi: la curiosità per il

“nulla” è solo un’apparenza, ed è sorprendente

di Ulan Bator si trova una vasta gamma di

mondo e il desiderio di raccontarlo; anche lei

ciò che vi si può scoprire. “I nomadi possiedono

prodotti europei, vini inclusi. Gli domando delle

fotografa, ci mostra i bellissimi scatti che sta

il segreto della felicità che i sedentari hanno

piste settentrionali. L’amico non si sottrae mai

riportando a casa.

perduto” scriveva Bruce Chatwin.

a una risposta, inizia a raccontarmi con dovizia

Il colore del tramonto satura le grandi dune,

Sono seduto sulla fredda sabbia, dopo

di particolari del viaggio di Giovanni da Pian

noi ci scambiamo le macchine fotografiche

il tramonto la temperatura scende

del Carpine inviato in missione da Innocenzo

inziando un nuovo gioco. Usiamo i nostri

vertiginosamente, e pian piano compaiono


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le stelle a far da cornice a questo maestoso paesaggio disegnato dal vento, dove ancora oggi le carovane si muovono verso l’orizzonte seguendo il ritmo delle stagioni. È inevitabile ritrovarsi a riflettere e cercare risposte. Forse è proprio qui che un viaggio diventa: il viaggio

dentro sé stessi. In quel momento immobile, fatto di solitudine, dove il vuoto si riempie dell’essere, in cui l’unico frastuono è quello dei propri pensieri. Ogni giorno non siamo mai gli stessi, e camminare in silenzio apre le porte al dialogo interiore, alla presenza di sé nel mondo e alle possibili strade dell’anima che possiamo percorrere, compresa la fuga. Solo domani torneremo al presente per una nuova avventura.

Mongolia; statua di Gengis Khan presso Nalaikh


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Mongolia; monastero di Amarbayasgalant

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Mongolia; regione del Henti


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Mongolia; gher presso Mandalgovi

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Stefano Rosati Cina; il bozzolo trafugato dal Celeste Impero


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La Spezia, pizzeria La Pia, siamo a tavola con gli amici per i saluti, pochi giorni prima della nostra partenza per il Grande Viaggio. Dopo le solite battute goliardiche, i brindisi, le pacche sulle spalle e i sorrisi, un’insolita domanda: - ma quando sarete in Cina, come parlerete con la gente? - Un attimo di silenzio, poi Dino prende il timone e di slancio replica: - con la bocca! - E giÚ sonore risate da pare di tutti i presenti. In sei mesi di viaggio attraverso la Cina non abbiamo imparato che una decina

di vocaboli. Toni e ideogrammi, non si combinano con il nostro Dna. E allora come cavalcare il Dragone, come saper gestire il Gallo di Ferro? Soluzione del mio prode compare: taccuino su cui, di volta in volta, facciamo scrivere nomi, frasi essenziali, piatti della cucina cinese, destinazioni e quant’altro ci possa essere utile lungo il viaggio e, come due sordomuti, ci muoviamo nel Regno di Mezzo superando ogni problema di comunicazione. Ma il Gallo e il Dragone? Andiamo con


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Cina; Pechino, entrata alla Città Proibita ordine. L’arrivo a Pechino, lungo la grande pista proveniente dalla Mongolia, ci aveva a dir poco galvanizzato, per gli scenari, le avventure e le immagini che avevamo raccolto. Era giunto il momento di seguire le antiche vie carovaniere attraverso le antiche capitali cinesi. Ci piaceva l’idea di muoverci con la gente, utilizzare i loro stessi mezzi di trasporto. La bicicletta, nelle città e nei paesini, il treno per gli spostamenti importanti e il trekking, il cavallo e il carro trainato da muli, per le avventure e le scoperte. Il palpitante movimento di biciclette lungo le strade della capitale ci ricordava l’immagine del flusso di sangue nelle arterie, potente, frenetico e pulsante, scandito meccanicamente dei semafori stradali. Un fiume in piena, la cui corrente si muoveva zigzagando in ogni dove. - Dall’alto sembrerà un dragone in movimento! - Aveva chiosato Dino pedalando veloce per non essere travolto dal flusso degli operai che si recavano al lavoro. Avremmo dovuto viaggiare per mesi attraverso un paese enorme, cercando di tirare le fila sulle principali direttrici commerciali, senza però ignorare le piste secondarie, che collegavano l’Estremo Oriente con il resto del mondo. Potevamo contare su di un budget di dieci dollari al giorno, tutto compreso, poichè ci aspettava ancora circa un anno di viaggio, prima di poter rivedere le sponde del Mediterraneo. La Seconda e la Terza classe dei treni cinesi ci poteva venire in aiuto. I cinesi lo chiamano il Gallo di Ferro, quel treno che per quattro intere giornate corre da Pechino per raggiungere Urumqui nello Xingjang, un convoglio su cui bisogna fare tesoro di ciò che si ha, senza buttare via nulla. Tie Gongji, in cinese significa Gallo di Ferro, ma fa anche riferimento ad un antico proverbio che fa del risparmio un elogio all’oculatezza; quel vocabolo ci piaceva da morire. Non ho mai capito il motivo per cui

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Pechino, Beijing, Dadu, Cumbaliq o come si voglia chiamare l’antica capitale degli Yuan, è sempre stata trascurata, oppure volutamente omessa dai testi che raccontano della Via della Seta. Nei pressi della moderna metropoli, gli archeologi hanno rinvenuto resti di diverse città già attive commercialmente, dal I millennio a.C. Lo stato di Yan fu uno tra i più importanti degli Stati Combattenti e la sua capitale Ji, sorgeva proprio nei pressi della moderna Pechino. Nel 1267 i mongoli fecero costruire Dada o Khanbaliq, la città capitale del Regno che per circa due secoli fu il punto di partenza e di arrivo di ambascerie e carovane. Rimane ben poco di questa antica città, in quanto i Ming vollero cancellare ogni traccia della presenza e dominio straniero nel Regno di Mezzo. La città Proibita fu eretta nel 1406, ed i traffici commerciali cessarono con essa, per volontà dell’imperatore. Il ponte di Lagou, situato a soli 18 chilometri da piazza Tienanmen, rimane l’unica testimonianza di quell’epoca in cui i traffici commerciali dell’Età di Mezzo fiorivano nella città di Khubilai Khan. Marco Polo descrive il ponte nel suo libro facendo riferimento alla possente architettura e alle numerose statue di leoni che ne delimitano il percorso. La via della seta scendeva verso Sud, nell’odierna provincia dell’Henan, raggiungendo un’altra antica capitale, situata alla confluenza dei fiumi Lu e Yi. Luoyang, città dalla storia millenaria e più volte capitale di antiche dinastie, oggi è lontana anni luce dai fasti del passato e guarda sorniona i nuovi cambiamenti in atto, forse in attesa di un rinnovato vigore. Il nostro interesse era indiscutibilmente legato alle vicine Grotte di Longmen (la Porta del Dragone), poco distanti dalla porta meridionale della città, un luogo di culto e di omaggio al Buddismo, voluto dai sovrani della dinastia Wei nel IV secolo. Qui si trovano oltre duemila statue di straordinaria bellezza, scolpite nella viva roccia, e altrettante importanti iscrizioni che coprono un periodo di quasi otto secoli. Centinaia di grotte e piccole nicchie contengono immagini sacre della scuola buddista cinese, rendendo il complesso monumentale un Patrimonio dell’Umanità. Ma eravamo qui a Luoyang anche perchè interessati a svelare un intrigante mistero.

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- Non pensare di dargli più di uno Yuan – apostrofa Dino – mentre il giovane tassista continua a muovere la testa per dirci che ha capito perfettamente dove vogliamo andare. - Possiamo sempre andare a piedi. Così saremo al museo all’ora di chiusura – apostrofo io, come di consueto. La parte settentrionale della Zhongzuo Road è invasa da filobus, autobus snodati, camion e furgoncini carichi all’inverosimile e ovviamente, da centinaia di biciclette. Finalmente ci siamo, eccoci davanti al Museo di Storia. Entriamo, biglietteria, Dino rientra in azione. Come Silvan, estrae dalla borsa della videocamera la tessera


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scaduta del Club Alpino Italiano e la copia della lettera di credenziali dell’Ambasciata italiana di Pechino: - Dobbiamo incontrare il direttore del museo, siamo della Televisione italiana e abbiamo un appuntamento. - Poi apre il “favoloso libretto per sordomuti” e mostra la frase tradotta in Mandarino dal nostro amico di Xian. - Penso che un giorno ci arresteranno. – borbotto sottovoce mentre l’amico mi riprende con lo sguardo. Quindici minuti dopo siamo seduti su due poltroncine, davanti a noi, tazze di té, tanti biscottini dalle forme stravaganti e, dietro la scrivania in legno massello finemente

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intarsiata, il professor Lee. Dopo l’ennesima performance del prode compagno, anche questa porta si apre. Il direttore parla un discreto inglese ed è ben contento di “essere ripreso” dalla telecamera della Televisione italiana per mostrarci le “prove inconfutabili” del primo storico incontro tra l’antico Regno di Mezzo e il “Ta-Chin”, l’impero Romano. Avevamo letto delle “ambascerie dell’antica Roma” che furono mandate da Marco Aurelio ma, purtroppo nessuna prova concreta aveva potuto confermare quelle missive e dare una svolta alla storia dei primi contatti tra Oriente e Occidente. Il direttore ci conduce tra bui corridoi e anguste scalette sino ad

Cina; Pechino, all’interno della Città Proibita


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Cina; Pechino, Il ponte di Marco Polo

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una grande sala scarsamente illuminata, un archivio. Apre un grande armadio metallico che sembra una gigantesca cassaforte, estrae una dopo l’altra, pesanti scatole in legno. Le apre una ad una. Ecco davanti ai nostri occhi i “tributi”, come li chiama lui inviati dall’imperatore romano alla corte degli Wei, sovrani della Cina del Nord del III secolo. Sono piccoli vasi, oggetti di vetro colorato e monete, tante e in ottimo stato. Chiedo il permesso per poter prendere in mano alcuni degli oggetti. Ed ecco sul fronte della moneta l’effigie dalla barba canuta e la scritta latina che riporta il nome dell’imperatore romano; sul retro due uomini con la tunica romana che si stringono la mano; su altre monete, una figura maschile che sostiene un vassoio ricolmo e, con la mano destra, stringe rami di alloro. Dino filma ogni cosa, il professor Lee mi racconta, mi illustra e commenta questi importantissimi reperti, io sono troppo colpito, stupito ed esterrefatto e, solo dopo il nostro ringraziamento e il congedo dall’emerito professore, mi accorgo di non aver scattato neppure una diapositiva. Ma non importa, oggi è stato un altro giorno speciale per noi, la

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storia della via della seta si è notevolmente arricchita, la mia Moleskine è già fitta di preziosi appunti e non siamo neppure giunti a metà, del nostro Grande Viaggio. Il Gallo di Ferro ci ha portati a Xian, l’antica Chang’an, la Sera Metropolis dei Romani. Gli scuri bastioni della città circondati dall’ampio fossato, sopravvissuti alla Rivoluzione Culturale, sono ancora lì, racchiudono i vecchi palazzi, le piccole scuole, gli uffici pubblici e qualche emporio di stato. Per le strade c’è odore di polvere e carbone. Camion arrugginiti, usurati risciò e fiumi di biciclette si muovono indolenti lungo la griglia di antiche strade e viuzze. Sui marciapiedi c’è l’ininterrotto viavai dei colori grigio, blu e marrone degli abiti “consentiti” del regime. Rari i nuovi negozi con i prodotti di stampo occidentale. Al mercato nero, vicino alla Torre della Campana, cambiamo in fretta, di nascosto, alcuni dollari con i Renminbi (lo Yuan) e anche quel poco che ci rimane degli FEC (Foreigner Exchange Currency) la banconota d’obbligo per gli stranieri in Cina. Le valli del fiume Wei e dello Yang-Tze


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costituivano il cuore dell’antico regno. Fu proprio qui che il folle tiranno, Qin Shi Huangdi, proclamò la prima capitale della Cina unificata. Durante il suo regno vennero cancellati i feudi del passato, la loro storia, la loro scrittura e persino le loro scuole filosofiche. Gli annali delle precedenti dinastie vennero dati alle fiamme, gli eruditi dissidenti condannati a morte. Nacque un regno dove la diversitĂ era rigorosamente bandita. Del suo tempo rimangono solamente gli eserciti di terracotta, centinaia di guerrieri con le loro armature, con i capelli annodati e raccolti dietro le spalle. Solo le armi, un tempo saldamente in pugno, non ci sono

Cina; Luoyang, le grotte di Longmen

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Cina; Xian o Chang’an, la cinta muraria della città mediovale

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più, il tempo si è portato via il legno con cui erano state realizzate, così come ha cancellato le tinte naturali, con cui i soldati dell’imperatore erano stati dipinti. Furono le dinastie Han ad elevare l’antica Chang’an al ruolo di capitale dei traffici commerciali d’Oriente, al luogo di produzione delle sete più pregiate, ad importante centro di divulgazione del credo buddista, a grande centro di cultura e di emancipazione, che si protrasse nei secoli successivi. Marco Polo scriveva: “Questa è terra di grande mercanzia e di seta di molte maniere, e di tutti fornimenti da oste. Hanno di tutte le cose, che a uomo bisogna per vivere, in grande abbondanza e per gran mercato (...) il palagio di Mangala re è così bello com’io vi dirò (...) ha dintorno un muro che gira ben cinque miglia e è tutto merlato e ben fatto; e in mezzo di questo muro è il palagio sì bello e grande, che non si potrebbe nel mondo divisare. Ha molte sale e molte belle camere tutte dipinte in oro battuto. Questo

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Mangala mantiene bene il suo reame in grande giustizia e ragione et è molto amato”. La Grande Pagoda dell’Oca Selvaggia è senza dubbio il monumento più suggestivo di Xian. Fu eretta nel 652 per volontà dell’imperatore Gao Zhong in onore del monaco Xuan Zang, al suo ritorno dal suo viaggio/pellegrinaggio in India, alla ricerca di preziosi testi del Buddismo. Divenne subito un importante centro di studi e di traduzione degli antichi testi sacri. Passaggio obbligato dopo Xian verso l’Occidente era la città di Baoji, già emporio famoso durante il Periodo dei Tre Regni (220-280 d.C.) e dove si può ancora ammirare il monumentale Tempio/ Mausoleo di Zhuge Liang, importante figura del mondo politico, grande stratega, scrittore, filosofo e inventore, durante il periodo degli Shu-Han. Un’importante via carovaniera dipartiva da qui, scendendo lungo la direttrice sudoccidentale in direzione dello Yunnan e della Birmania. ■


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Cina; Xian o Chang’an, la grande pagoda dell’Oca Selvaggia

La seta, il bozzolo nell’acqua calda, il “segreto” delle antiche seterie

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Cina, proiezioni nel futuro.

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volta la seta, il prezioso manufatto, a cui ero interessato e incuriosito, e volevo confrontare le mie conoscenze con quelle del professore. Con Lucia avevamo convenuto di invitare a cena la coppia di amici dagli occhi a mandorla. Seta, il più affascinante e prezioso di tutti tessuti, la cui storia tanto antica è stata tenuta segreta per lungo tempo, richiama nell’immaginario collettivo l’opulenza, il fascino e il lusso. Seta, la cui pronuncia scorre morbida per poi incresparsi tra i denti e uscire dalle labbra come un sibilo di vento, scivola fredda tra le mani, quasi impalpabile tra le dita, irresistibile allo sguardo, e al desiderio di possederla.

F O T O R E P O R TA G E D I S T E FA N O R O S AT I

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Ce l’abbiamo fatta. Abbiamo convinto Kang e consorte ad accompagnarci nella piccola seteria a conduzione familiare nei sobborghi di Xian, sperando che esista ancora, è quella che David ci aveva indicato, con tanto di foto e indirizzo scritto in cinese. Le sue moleskine

ggi piove - dico

e spacciandosi per giornalisti; noi paghiamo

traboccano di informazioni, note, indirizzi,

sorpreso, mentre

alla cassa ottanta Renminbi (Yuan). Un abile

schizzi e disegni, trasudano il vissuto dei veri

guardo fuori dalla

stratagemma li aveva portati perfino tra le

“carnet de voyage” degli esploratori, confesso

hall dell’albergo.

statue dei guerrieri, a noi invece, le severe

una certa invidia ogni volta che l’amico ne

- Guarda che non

guardie che sorvegliano questo sito protetto

prende uno in mano. Dopo l’ennesima svolta

è pioggia - mi

dall’Unesco, non concedono altro che il

nella strada sbagliata, finalmente ci siamo. Due

risponde Lucia.

semplice giro turistico. Mentre camminiamo

passanti sono già nel nostro mirino. Evviva! C’è

Quella che scende copiosa dalla grande vetrata

sulla passerella che circonda la fossa, Kang

ancora. L’edificio è molto più grande di quello

è umidità che, unita all’inquinamento, rende

mi racconta della casuale scoperta fatta dai

immortalato nel 1993; adesso c’è anche un

l’aria una miscela asfissiante e fastidiosa.

contadini locali mentre stavano scavando un

posteggio per i clienti. Entriamo. Chiediamo

Siamo a Xian, l’antica Changan, che oggi non

pozzo per l’acqua. Fino ad oggi sono state

della proprietaria mostrando le foto. Si avvicina

è certo la città di cui mi raccontava David, la

ritrovate ottomila statue di soldati, centotrenta

la giovane titolare, prende la fotografia tra le

capitale che gli Han avevano elevato a centro

carri e seicentosettanta cavalli, e nessun

mani, che subito iniziano a tremare. Asciuga

dei commerci e produzione della seta.

pezzo è uguale ad un altro, ma gli archeologi

una lacrima, che scivola sulla guancia segnando

Jin-Li, una studentessa di Lucia, sapendo che

sostengono che c’è ancora molto altro da

il fondotinta. L’immagine ritrae la madre che

ci saremo recati nella sua madrepatria, ci aveva

scoprire.

mostra i foulard di seta a David. È mancata

pregato di consegnare un pacchetto regalo

Onorato della mia attenzione, e orgoglioso

pochi anni fa. Lo scenario cambia in un istante.

ai suoi cari zii. Lucia pensa che potrebbero

dello spettacolo che mi sta mostrando, Kang

Ci chiede di seguirla. Siamo “ospite d’onore”

aiutarci, farci da guida per la visita della città;

prosegue la sua lezione di storia antica.

e la fiaba ha inizio... Secondo la leggenda,

io sono sempre scettico rispetto a certi incontri.

All’immenso lavoro protrattosi per quarant’anni,

Lei-Tsu, la prima concubina di Huang-Ti,

Attendiamo. Con il consueto ritardo si presenta

avevano partecipato settecentomila persone

l’Imperatore Giallo considerato il fondatore

una coppia dall’indecifrabile età. La donna

tra operai e artigiani. La colossale opera era

della civiltà cinese, fece cadere per caso un

si chiama Fang, ha il volto di una bambola di

stata ordinata dall’Imperatore Qin Shi Huang

bozzolo di baco da seta nella sua tazza da

porcellana, una voce tenue e modi aggraziati.

Ti, il tiranno superstizioso che aveva anche

tè. Infastidita, l’Imperatrice afferrò il bozzolo

Kang è un professore di storia, un uomo tutto

iniziato la costruzione della Grande Muraglia.

che, complice il calore della bevanda, iniziò a

d’un pezzo. Si offrono di accompagnarci a

L’esercito in assetto di guerra doveva servire,

sfilarsi. Lei-Tsu ammirò stupefatta la lucentezza

vedere l’esercito di terracotta.

secondo la sua paranoia, a difendere la tomba

e la resistenza del filo, e comprese immediata-

David e Dino erano entrati gratuitamente,

per proteggerlo in eterno, nell’aldilà.

mente che poteva facilmente prestarsi alla

utilizzando una tessera del Club Alpino scaduta

In questa città, era stata prodotta per la prima

filatura e alla tessitura. Così, con il permesso


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dell’imperatore, cominciò ad allevare bachi da

chiusure xenofobe. Oggi il proliferare di

anche dal codice di lettura di cui si dispone.

seta (Bombyx mori) e piantare alberi di gelso,

metropoli e cantieri non lascia spazio neppure

Sono rappresentati dalle conoscenze che

delle cui foglie si nutrono i bachi. Gli annali

all’immaginazione, a quel mondo di carovane

si hanno sulla realtà che osserviamo, senza

narrano che la lavorazione della seta fosse

che lungo la Via della Seta giungevano alle corti

escludere la conoscenza delle regole generali

conosciuta in Cina già dal III miillennio a.C, e i

imperiali. Del resto David mi aveva avvisato

che presiedono il rapporto uomo-territorio. In

recenti ritrovamenti archeologici ne hanno dato

che probabilmente molte cose sarebbero state

altre parole dobbiamo evitare gli elementi di

conferma.

diverse rispetto a quando con Dino si erano

comunanza per dedurne quelle regole generali

La seta veniva usata come merce di scambio

avventurati in questo lontano Paese. Eppure

che possano spiegarne le costanti di ripetitività

o bene rifugio, assumendo quindi un valore

sono passati solo trent’anni. In pochi decenni

e riproducibilità, a scapito di una rilettura

finanziario: era divisibile, trasportabile,

tutto sembra essersi trasformato, e con Lucia lo

che privilegia l’obiettivo di arrivare ad una

accettata e scambiata ovunque.

sperimentiamo nel quotidiano. David cambiava

completa conoscenza di eventi particolari per i

Era razziata durante i saccheggi delle città

dollari al mercato nero, noi preleviamo yuan ai

casi specifici. Ai posteri l’ardua sentenza.

al pari dell’oro, e aveva un doppio valore:

Bancomat. Loro giravano le città in bicicletta,

economico e di prestigio. Conservata negli

oggi ci si muove con moderne metropolitane,

scrigni come si fa con i lingotti d’oro e i

autobus, taxi e autovetture elettriche. Davanti

gioielli, veniva anche usata come dote, o come

ad un gigantesco McDonald commentiamo

pegno in caso di prestito, offerta alle chiese,

che ciò che non ha distrutto la Rivoluzione

corrisposta come salario e usata nei pagamenti

culturale, forse sarà spazzato via da questo

di imposte statali. Per un viaggiatore dell’epoca

incalzante progresso.

era meglio portare con sé della seta, anzichè

Ma come possiamo leggere questi

del denaro, che alcune volte non veniva

cambiamenti? Esistono codici interpretativi

accettato, poichè non riconosciuto in quel

per porsi in un rapporto costruttivo

Regno.

con i mutamenti? Penso che la cultura

La Cina è una nazione che corre veloce verso

dell’osservatore prevarichi ogni possibile

il futuro, travolgendo qualsiasi impedimento,

modello scientifico. Oppure mi sbaglio, è

è come una ingegnosa macchina pulsante;

invece la somma dei due concetti? Ritengo

la storia ci racconta che alle grandi aperture

che forse le interpretazioni varino a seconda

verso l’occidente seguirono implosioni e

non solo dei modelli personali/soggettivi ma

Cina; Xian, esercito di terracotta, particolare


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Cina; trasparenza e sensualitĂ della seta


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Cina; 1992 venditore di occhiali

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Cina; 2020 la globalizzazione

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Cina; interno di antica abitazione nobile nel Regno di Mezzo

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Stefano Rosati Tipica preparazione dei mian tiao, gli spaghetti cinesi


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CORRI DOI O DE L L’HE XI E L’ORDOS. L E PI STE DIME NTI C ATE.

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Un'insolita grande collina dalla forma circolare è quella che si incontra lungo il percorso che dalle antiche capitali cinesi muoveva verso occidente. Si tratta della “montagna di Maijishan”, presso la città di Tianshui. Questo è il luogo dove i monaci buddisti hanno saputo creare uno degli scenari più suggestivi ed affascinanti dell'intera Asia. Sulle pareti verticali del colle hanno scolpito grandi immagini sacre contornate da 194 grotte completamente affrescate, all'interno delle quali vi sono oltre settemila statue in argilla oppure in

pietra scolpita, alcune delle quali risalgono addirittura al periodo della dinastia Qin (221-207 a.C.) e degli Wei settentrionali (386-534). Si accede alle grotte grazie ad una serie di scalinate e camminamenti sospesi. A soli dieci chilometri di distanza dal sito sorgono le Grotte della Scogliera Immortale con i caratteristici templi Taoisti che risalgono allo stesso periodo. All'interno delle sale ci sono le monumentali statue che lasciano letteralmente senza parole. L'intera area


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geografica è una continua sorpresa e meraviglia, grotte affrescate, e ancora templi e luoghi sacri che ci fanno comprendere l'importanza del luogo, per lo studio dell'arte buddista, lungo la Via della Seta. La pista proseguiva verso Lanzhou, oggi capitale della provincia del Gansù, che, per la sua posizione strategica alle porte del corridoio dell'Hexi, il passaggio obbligato tra montagne e deserti per raggiungere le regioni occidentali, e per la sua vicinanza al Fiume Giallo, rappresentava uno dei più importanti crocevia dei traffici commerciali dell'antichità. La città è stretta in una valle del Fiume Giallo, come schiacciata in una grande morsa naturale. Le alte montagne che la circondano sono spoglie e pietrose, di conseguenza la città ha una forma spropositatamente allungata. Le centinaia di fornaci fumanti delle periferie conferiscono quel caratteristico colore argilloso all'intero abitato e quell'odore acre e pungente di cui tutti i viaggiatori del passato hanno sempre raccontato.

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Jacques Bouly, conte di Lesdan, scriveva nel suo “Voyage au Tibet par la Mongolie De Pékin aux Indes” nel 1908: “Il Kansu è una provincia ricca di ogni sorta di miniere; carbone, argento, oro, zinco, rame e ferro (...) ll carbone di queste miniere viene bruciato in tutti i distretti di Liangchou (...) la città è detestabile, non solo per il terribile olezzo che quivi abbonda, ma anche per il carattere delle persone dell'alto Kansu”. Il fiume è così poco profondo che vi possono navigare solo i sampan. Anche le sue acque hanno lo stesso colore marrone delle abitazioni. Fin dall'antichità era stata una delle porte del Celeste Impero, l'ultimo posto dove cambiare i cavalli, dove comprare i viveri per poi avventurarsi verso il Turkestan, territorio oltre il quale si trovava spesso l'incognito e forse anche il nemico. Oggi è un nodo ferroviario di grande importanza. Arrivano su strada ferrata il pesce dal Mar della Cina, albicocche, uva, succosi meloni e altra frutta fresca dallo Xinjiang, la carne dal nord insieme con gli ambitissimi

Cina; Grotte di Majishan, provincia del Gansu


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Cina; Provincia del Nigxia, Tombe piramidali, cultura Xixia

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frigoriferi e i televisori. Sul grande fiume il trasporto delle merci, che anticamente avveniva grazie all'utilizzo di zattere di pelli gonfiate, seguiva una diramazione verso il nord che collegava il centro di Lanzhou con il regno di XiXia, una tra le più misteriose ed affascinanti realtà del passato cinese. A soli 25 km da Yinchuan, capoluogo

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della provincia del Ningxia, si trovano le rovine della cultura XiXia, l'antico regno dei Tanguti, un popolo affine ai tibetani, arrivato qui nel VII secolo, che regnò incontrastato fin al 1219 quando gli eserciti di Gengis Khan fecero letteralmente “tabula rasa” di questa civiltà. Sono soprattutto le tombe, che ricordano enormi termitai, quelle che maggiormente impressionano il visitatore. Sono situate in una vasta piana desertica, e furono edificate utilizzando unicamente il mattone crudo. Le grandi tombe mantengono ancora oggi tutto il loro fascino, carico di mistero. La vicina città di Yinchuan conserva numerose testimonianze architettoniche di un passato importante ed è un attivo centro industriale e commerciale, abitato soprattutto dalla minoranza etnica cinese degli Hue, che professa la religione mussulmana, ma nulla ha che vedere con le genti Tangute. Il mistero si infittisce. Della terra degli antichi XiXia le vie di comunicazione proseguivano ulteriormente verso il nord, seguendo due direttrici principali, la prima superava a sud la catena degli Helan Shan, per poi puntare dritto a nord-ovest verso la superba Khara-Koto, vicino all'odierna cittadina di Ejin-Qi, la città fortezza fondata dal sovrano Tanguta nel 1022 e di cui Marco Polo ci parla nel capitolo 40 del suo libro: “... cavalcando per dodici giornate si trouva una città chamata Ezina in capo del deserto dell'arena verso tramontana (il Gobinda) e contienisi sotto la provincia di Tanguth. Le sue genti adorano idoli; hanno cammelli e molte bestie di molte sorti (...) i viandanti che passano per quella città togliono vettovaglia per quaranta giornate, però che, partendosi da quella verso tramontana, si cavalca per un deserto quaranta giornate dove non si trova abitazione alcuna”. La seconda seguiva la grande ansa del Fiume Giallo delimitata ad Ovest del massiccio degli Helan Shan e ad oriente dal deserto dell'Ordos, per poi ricollegarsi alle piste dei nomadi che da Pianling Miao attraversavano il deserto del Gobi in direzione di Khara Khorim. Una delle principali carovaniere che dipartivano da Lanzhou si dirigeva a Sud risalendo il corso del Fiume Giallo. A soli 45 km dalla città, si trovano alcuni dei luoghi più belli e suggestivi della Cina. Si tratta delle grotte dei Diecimila


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Buddha di Bingling-Si. I monaci buddisti iniziarono ad edificare il complesso archi-tettonico attorno al 400 d.C. ed i lavori proseguirono sino all'epoca Ming (1368-1644). Il colpo d'occhio dal fiume è mozzafiato, l'imponente statua del Buddha seduto, alta ben oltre 27 metri, scolpita nel fianco della montagna, lascia attonito il visitatore, mentre gli affreschi e le statue scolpite all'interno delle numerose grotte che circondano la monumentale statua, confermano l'elevatissimo livello artistico raggiunto dai monaci artisti in quelle epoche. Proseguendo verso sud, la via carovaniera attraversava il distretto di Linxia dove convivono le minoranze etniche degli Hue, dei Dongxiiang, dei Baoan, dei Salar e dei Tibetani. Non sorprende quindi incontrare luoghi dove convivono moschee, templi buddisti e strani luoghi di culto. Un luogo di particolare fascino ed interesse è il monastero di Ta'er-Si (Kumbum in lingua tibetana). Fu edificato nel 1560 sul luogo dove nacque Tzongkhapa, il riformatore della dottrina buddista lamaista, la cui figura è ancora oggi oggetto di reverenza e venerazione per una moltitudine di fedeli. Si tratta di una vera e propria città

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monastica con oltre 250 monaci, oggetto di pellegrinaggio non solo da parte dei tanguti, ma anche di numerose comunità buddiste provenienti da tutto il Centroasia. Un'altra importante carovaniera lasciava Lanzhou, questa volta in direzione delle alte montagne e gli altopiani del Qinghai, a conferma dell'importanza del crocevia che questo luogo ha svolto nel corso della storia della “Via della Seta”. È la pista che conduceva carichi e pellegrini nella direzione del paese delle nevi (il Tibet) attraverso regioni montuose di particolare bellezza. Erano, e sono tuttoggi, le terre dei nomadi Tanguti, genti di razza affine al gruppo tibetano che stanno vivendo un momento particolarmente cruciale della loro storia. Una parte delle comunità nomadi sta divenendo sedentaria, o meglio è volutamente forzata ad abbandonare il tradizionale modello nomade, per trasferirsi nei piccoli villaggi dell'altopiano del Qinghai, lasciando definivamente la transumanza e la vita nelle tende. Il lago di Kokonor è davanti alla nostra tenda, siamo a pochi chilometri dalla strada principale che costeggia le sponde settentrionali del grande lago che i cinesi chiamano Qinghai-Hu. Intorno a noi ci

Cina; provincia di Liujiaxia; Grotte di Bingling-Si


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Etnia Tangut

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sono solo tende di nomadi Tanguti e mandrie di pecore e capre che ravvivano il quadro impressionista. Rileggo per l'ennesima volta il passo del libro del missionario Evaristé Régis Huc, che nel 1845 descrisse il suo incontro con i nomadi che vivono qui: “le tribù che vivono nella regione del Koukou Nuur sono suddivise in 29 clan (...) orde di briganti Si-Fan molestano invano queste tribù. Per questa ragione essi cambiano sovente i loro campi per disorientarli, ma quando non possono più sfuggirgli, allora con tutto il loro coraggio ed orgoglio, li affrontano. La determinazione e la loro ferrea volontà nel difendere le loro proprietà ed i loro territori, fa di loro un popolo fiero e coraggioso”. Thogon è uno di loro, un pastore nomade, e anche oggi siamo da lui per mangiare un boccone caldo e cercare di capire cosa stia succedendo al suo popolo. Parla un inglese sbocconcellato, ma comprensibile. Lo ha imparato grazie ad Amelia, una reporter canadese che è rimasta qui per alcuni mesi. Thogon conserva gelosamente una polaroid che lo ritrae con la bionda reporter, così come farebbe un devoto di

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Padre Pio, con la foto del santo. - Le autorità continuano a farci multe che non possiamo pagare, allora ci portano via il bestiame. Vogliono che lasciamo le nostre tende per andare a vivere nelle case a Quanjixian, solo così possiamo riavere i nostri animali e i nostri bambini possono andare alla scuola pubblica. - Multe per cosa? E voi cosa pensate di fare? – incalzo mentre scrivo sulla Moleskine fiumi di parole. - I territori dove i nostri animali pascolano sono le terre dei nostri avi, e invece adesso i militari iniziano a recintare tutto, arrivano qui gli Han e cominciano a coltivare la terra con i trattori e altre strane macchine. Così alcuni di noi si sono ribellati e hanno rimosso i recinti. Poi una notte è arrivata la polizia e li hanno presi, portati via. Di loro non abbiamo mai più avuto notizie. La moglie del nostro ospite, ci porta del cibo fumante sui classici piatti metallici decorati con pitture floreali. Mentre Thogon continua a raccontare, la figlia più giovane che gli è seduta vicino, avvicina un momo alla bocca e guarda estasiata, con ammirazione, il suo amato padre. Scatto la foto più bella che abbia mai fatto.


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Etnia Tanguta Qinghai; monastero di Ta’er o KumBum

Fin dall'antichità il corridoio dell'Hexi (il Gansù) è stato per la Cina la più importante porta d'accesso con le regioni del centroasia. Delimitato a nord dalle distese desertiche del Tenggeli e del Badanjilin, ed a sud dai monti Mazong, Heli e Longshou, il territorio del Gansù ha la bizzarra forma di un dito puntato verso occidente, quasi ad indicarne la sua funzione storica. Si tratta di una terra difficile da colonizzare, soprattutto per il suo aspetto naturalistico; le montagne a sud bloccano i venti umidi e determinano il clima caldo e secco durante l'estate, mentre le distese desertiche a nord, lasciano via libera alle fredde correnti provenienti dalla Siberia, che sono il motivo del freddo pungente dei mesi invernali. Un tale ecosistema prende il nome di löss, uno degli ambienti più impervi e difficili per l'insediamento umano. Il Gansù è tutt’oggi una tra le province più povere della Cina e lo sforzo per coltivare e rendere “vivibili” queste regioni, può essere immediatamente compreso dal viaggiatore in transito su questi terrritori. Wuwei, l'antica Liangchou, è una delle città carovaniere del corridoio dell'Hexi che ha


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Cina; provincia del Gansu, il territorio del löss, uso dell’aratro tradizionale per rompere le zolle

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svolto il prezioso compito di essere un vero e proprio centro di studi della filosofia e religione buddista. Durante il periodo dei Tang (618-907 d.C.) la città contava oltre 100.000 abitanti tra i quali numerosissimi erano gli studiosi e i monaci provenienti dall'India, dal Tibet e dalle altre regioni dell'Asia centrale. I Mongoli distrussero Wuwei in modo così radicale che solo negli ultimi anni gli archeologi hanno potuto far luce sull'antichità del sito. Ed è proprio nella tomba di un ignoto generale Han che venne ritrovato il famoso “cavallo volante” in bronzo, testimonianza artistica dei magnifici sauri riportati nel Celeste Impero dall'imperatore Wu-di dopo la seconda campagna d’occidente. Zhangye, l’antica Ganzhou, è ancor oggi un esempio dell’emblematico sforzo per strappare terra abitabile alle sabbie del deserto. In passato, la città carovaniera ha rappresentato una tappa di vitale importanza per tutte le carovane in transito. Durante la dinastia Sui (581618 d.C.) vi venivano organizzate vere e proprie “fiere internazionali” ante litteram, alle quali partecipavano mercanti provenienti da ben 27 stati stranieri. I Polo (Marco, il padre e lo zio) soggiornarono

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qui per quasi un anno, in attesa delle autorizzazioni del Gran Khan Kublai. “Mercanti, artigiani e grano in abbondanza ...qui si trova il miglior muschio del mondo, gli yak sono grandi come elefanti e i fagiani come i pavoni ... hanno molti idoli, e hanno di quelli che sono grandi dieci passi, tali di legno, tali di terra e tali di pietra, e sono tutti coperti d’oro e molto belli ...” nelle parole di Polo troviamo lo stupore di fronte all’ennesima rappresentazione artistica del Buddha lungo le piste commerciali. Nel cuore della città c’è il tempio di Dafo, dove si trova la gigantesca statua del Buddha dormiente, costruito nel 1098 durante il periodo degli XiXia; un’ulteriore conferma dell’importanza delle antiche vie commerciali per la diffusione della religione. La neve inizia a scendere pesantemente. Le cime del Quilian scompaiono rapidamente alla vista, già bianche e grigie come il cielo. Il vagone puzza maledettamente di carbone bruciato e di urina. Siamo fermi alla stazione di Jiuquan, prossimi alla nostra destinazione. La calma soporifera del primo mattino viene improvvisamente turbata da urla e trambusto nel vagone


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adiacente al nostro. Alcune persone corrono nel corridoio, sporco di sputi e cartacce. Allungo la testa per capire cosa stia succedendo. I rumori e le urla hanno svegliato molti dei passeggeri e adesso il pubblico degli incuriositi sgomita per le prime file. Sulla piattaforma ci sono alcuni poliziotti in divisa, due donne in pigiama e ciabatte, con i capelli arruffati che si stanno coprendo di neve, alcuni addetti della stazione in divisa e un giovane ammanettato che tiene la testa bassa per la vergogna. Le donne hanno già recuperato le loro borse e i loro denari, ma una delle due, non ancora soddisfatta, urlando si scaraventa sul ladro, che è saldamente bloccato dagli agenti. Ci vogliono tre uomini per staccare la donna dal ladruncolo. Una delle due è davvero inferocita. Mi sembra di vedere una piovra impazzita; colpisce il reo confesso ripetutamente, rapidissima, con ogni arto e anche con la testa. Scendo anch’io sulla piattaforma; sono in mezzo alla folla. D’istinto metto la mano sul marsupio, spaventato, pensando di essere stato

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appena derubato. In automatismo, nella mia mente riaffiora la storia del gesuita Bento de Goes che nel XVI secolo, dalla lontana India viaggiò per cinque anni giungendo fin qui, dove fu derubato e dove morì in miseria. Il mio marsupio è al sicuro. Risalgo sul treno. Dino, coi suoi famigerati tappi per le orecchie, dorme come un angioletto, avvolto nella calda coperta. Mi siedo sulla brandina e mentre il convoglio riparte alla volta di Jiayuguan, guardo fuori dal finestrino; là, da qualche parte, forse sotto i campi coltivati a rabarbaro e mais, ci saranno sepolte le spoglie del povero fraticello. Jiayuguan è forse il luogo di maggior interesse dell’intero corridoio dell’Hexi; è un posto carico di storia. Poco lontano dalla moderna cittadina si trova l’omonimo passo, vera e propria linea di demarcazione tra le alture del Mazog a nord e le vette innevate del Qilian a sud. Qui venne edificata nel 1372 la grande fortezza difensiva che costituiva il limite occidentale della grande muraglia.

Cina; Provincia del Gansu, Jiayuguan, l’avamposto più occidentale della Grande Muraglia


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Cina; Provincia del Gansu, Grotte di Mogao, particolare


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Una grande porta che si affacciava sull’arido territorio dei “barbari”. Per le guarnigioni cinesi in partenza verso le campagne militari d’occidente, la fortezza costituiva l’ultimo contatto con la Madre Patria. La Porta d’Occidente del complesso difensivo guarda sorniona la pista che si addentra tra steppe e deserti, verso ignoti pericoli; sulle sue mura arcuate ancora si possono leggere le poesie dei militari in partenza. In una di esse c’è scritto: “Guardando ad occidente, vediamo la lunga via che porta ai nuovi domini, solo il coraggioso attraversa la barriera marziale. Chi non teme il deserto sconfinato? Dovrebbe lasciarsi intimorire dal calore bruciante del Cielo?”. La tradizione ci tramanda che colui che lasciava la fortezza verso l’ignoto, doveva scagliare una pietra contro il muro occidentale. Se cadendo a terra questa rimbalzava il viaggiatore un giorno, avrebbe fatto ritorno, altrimenti le sue spoglie sarebbero rimaste in quelle lande desolate. Se la pietra risuonava contro la parete, il viaggio avrebbe avuto per lui, ogni fortuna. Il tratto settentrionale della carovaniera muoveva da Jiayuguan in direzione Khara Khoto, verso le terre dei nomadi della Mongolia. All’uscita del corridoio dell’Hexi incontriamo la città di Anxi, ennesimo crocevia dove la pista ancora una volta prendeva strade diverse. La via settentrionale si dirigeva verso Hami aggirando da nord il grande deserto del Taklamakan mentre sul ramo meridionale giungeva alla città carovaniera di Dunhuang (la torre fiammeggiante). Durante il primo secolo a.C. quest’ultima costituiva l’avamposto delle guarnigioni Han. In quell’epoca la grande muraglia fu prolungata fino alle mura di Dunhuang. Oltre ad aver svolto la sua funzione militare e quella di importante centro di transito della via commerciale, il luogo è divenuto famoso soprattutto per le Grotte di Mogao, situate a 25 km a sud-est della cittadina. Scavate a nido d’ape in una falesia sul fianco della collina di Mimgsha, le oltre

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500 grotte sono il mirabile lavoro eseguito, nell’arco di oltre un millennio, da sapienti artisti e monaci buddisti. Recentemente l’Unesco ha decretato il luogo e le sue opere storico-artistiche, Patrimonio dell’Umanità. Le grotte-santuario hanno profondità e grandezza variabili da alcuni metri ad alcune decine, e sono interamente affrescate e scolpite con squisito senso artistico. L’iconografia non è unicamente legata ai canoni della storia e letteratura buddista, ma si arricchisce di immagini tratte da storie e leggende delle dinastie e delle antiche famiglie e nobiltà cinesi. La più antica opera viene fatta risalire alla metà del IV secolo a.C., ma è soprattutto dal periodo degli Wei del Nord (220265) che si hanno le più numerose testimonianze artistiche. L’influenza indiana riscontrata nella maggior parte delle opere legate al culto buddista, sembrano rimandare al modello artistico che, a partire da Ayanta, si sarebbe diffuso lungo le direttrici commerciali in tutto il centro Asia. L’ipotesi venne in seguito avvalorata dalle parole dell’eminente archeologo Aurel Stein, che qui recuperò centinaia di manoscritti e preziose pitture: “ ... in tutte queste scene leggendarie, negli sfondi dei paesaggi disegnati con tanta naturalezza, nelle architetture cinesi, nei movimenti decisi e nel realismo delle figure, lo stile cinese predominava decisamente. Così come nei riccioli delle nuvole, nelle decorazioni floreali e negli altri motivi ornamentali, tutti molto graziosi e dipinti con straordinaria spontaneità. Ma in tutte le principali figure divine (...) era inconfondibile l’influsso di modelli indiani conosciuti attraverso il buddismo centroasiatico. Malgrado le tecniche ed i colori usati secondo il gusto cinese, questi Buddha, bodhisattva e seguaci dei santi conservano sempre gli stessi volti, le stesse pose, gli stessi drappeggi derivati dall’arte greco-buddista e giunta ai cinesi attraverso la tradizione sacra”. ■

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Cina; il Fiume Giallo ghiacciato

Gansu, le lunghe ombre del passato.

per inserire le banconote. Prima di partire per il nostro tour, Luming ci invita a pranzo, perché come dice lui “la giornata cambia

con la pancia piena”. Forse hanno davvero ragione i cinesi che considerano il cibo la scala per il paradiso, e così ci tuffiamo senza esitare nell’ennesima esperienza culinaria: beef-noodles giganti, specialità di questa città, ovvero zuppa piccante di spaghetti con carne di manzo, patate e cavolo cinese. Apprezzo la caparbietà di Lucia, la sua

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capacità di mangiare qualunque cosa e di adattarsi a qualsiasi situazione, la sicurezza con cui afferra tutto al volo e la facilità con la quale entra immediatamente in sintonia con l’inatteso, l’imprevisto. Non sottrarci mai a nessuna esperienza in grado di insegnarci

i sveglio nel

che la circondano. Per i turisti Lanzhou è una

qualcosa, è uno dei concetti fondamentali

silenzio del

selva di grattacieli anonimi che dal centro si

nella visione del viaggio che condividiamo.

vagone pieno di

perdono nella lontana periferia. Anche nelle più

L’alimentazione, al pari dei costumi, è uno

persone con gli

piccole città, abbiamo visto giungle di palazzi

degli aspetti più caratterizzanti di un popolo,

occhi incollati

altissimi, anonimi, e la nostra guida ci spiega

ed è in stretto rapporto con il territorio,

sugli smartphone,

che in Cina è in atto una speculazione edilizia

tanto da poter affermare che il cibo ha una

e ripenso ai

votata alla costruzione selvaggia di immensi

valenza antropologico-culturale importante.

racconti di David quando viaggiava sui treni

“formicai”. La Cina è profondamente cambiata

Le tradizioni culinarie determinano un senso

cinesi; erano sporchi, i passeggeri sputavano

rispetto ai racconti di David, e l’impressione

di appartenenza sociale, spesso legata anche

in terra, fumavano e gettavano immondizie

che oggi si prova, è quella di muoversi in un

alle credenze religiose, ma rappresentano

dai finestrini. Oggi le cose sono radicalmente

Paese tecnologicamente all’avanguardia,

anche lo sfruttamento delle risorse locali come

cambiate, e i velocissimi treni pallottola, come i

dove l’efficienza e l’ordine sembrano essere

primaria fonte di sostentamento del bisogno

cinesi chiamano i convogli a lunga percorrenza

diventate le regole principali del loro futuro. I

nutrizionale. Con l’avvicinamento dei popoli

che sfrecciano ad oltre duecentocinquanta

mezzi di trasporto pubblici, i negozi e i locali

però, è stato naturale che anche le “cucine

chilometri orari, sono sorprendentemente puliti

sono sempre puliti e ordinati, sulle strade le

tradizionali” subissero delle contaminazioni,

e puntuali.

macchine procedono lentamente e in modo

e in questo la Via della Seta è stato il primo

Scendiamo a Lanzhou dove troviamo ad

ordinato.

veicolo di conoscenza del patrimonio

accoglierci Luming, la nostra guida nel Gansu.

In pochi anni, in una sorta di radicale

gastronomico di popoli geograficamente

Come tutte le stazioni cinesi, anche questa

trasformazione sociale, commerciale e

molto distanti. Con la scoperta e l’arrivo di

sembra un aeroporto, sia per le dimensioni che

consumistica, il Regno di Mezzo ha fatto suoi

nuovi prodotti provenienti da luoghi lontani,

per l’organizzazione. Uscendo ci sorprende

i modelli occidentali e ovviamente il cellulare

i ricettari tradizionali si sono arricchiti con

una sferzata di vento gelido; guardiamo il

è oggi lo strumento indispensabile per ogni

contaminazioni e trasformazioni alimentari

termometro della stazione che segna diciotto

cittadino. Qualsiasi acquisto viene pagato

che hanno contribuito a rispondere agli aspetti

gradi sotto lo zero. Luming sorride e ci

tramite l’uso del telefono, mediante una

culturali, sociali, comunicativi ed economici

rassicura che in inverno queste temperature

semplice applicazione che riconosce i Q-code.

della nuova società. Nel lungo cammino

sono assolutamente nella norma.

Ma la cosa che maggiormente ci ha sorpreso

della storia, gli archeologi ci raccontano che

La città, un tempo considerata un'importante

è il riconoscimento facciale di fotocamere

l’essere umano si è cibato di tutto, veramente

crocevia dei commerci sulla Via della Seta,

e scanner con il quale vengono effettuati

di tutto, dall’antropofagia alla geofagia, ma

è la porta di accesso al corridoio dell’Hexi.

i pagamenti; in certi casi questa modalità

è altrettanto vero che nessun popolo mangia

Capoluogo della regione del Gansu, è un

sostituisce addirittura i documenti d’identità.

tutto, ognuno ha fatto le proprie scelte, e

importante centro industriale per la lavorazione

Lucia ha tentato più volte di acquistare una

questo ne determina l’unicità. Come diceva

di minerali e per gli stabilimenti petrolchimici,

bibita ad un distributore in strada, ma perfino

David: “Perdere la consapevolezza di tali radici

come ci testimoniano le fumanti ciminiere

queste macchine sono prive della fessura

non implica soltanto il rischio dell’ignoranza


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nei confronti della propria tradizione

dove è ormeggiata l’imbarcazione, per tentare di

Jiayuguan. Ultimo baluardo del grande impero,

alimentare, ma anche cancellare il rapporto

venderci pietre semi preziose burattate a forma

questo gioiello difensivo era stato costruito

con il territorio e con la propria etnicità. E in

di uova. Parlano solo cinese, Luming ci traduce

proprio al limite occidentale del Celeste

questo le nuove generazioni, indifese davanti

che sono giorni che non vedono turisti perché

Impero: qui finiva la Grande Muraglia. Saliamo

alla rassicurante immagine consumistica della

in questa stagione, contrariamente all’estate,

sulle possenti mura e dall’alto osserviamo

globalizzazione usa e getta, sono quelle più

qui vengono ben poche persone. Le donne

stupefatti il surreale scenario del grande

a rischio di spersonalizzazione della propria

hanno il volto sereno, sorridente, ma le loro

deserto coperto di chiazze di neve.

cultura e tradizioni”. Arriviamo a Bingling nel

mani, segnate e annerite, tradiscono la fatica

Dalla porta Occidentale uscivano le guarnigioni

pomeriggio. Il termometro è sceso a meno

del lavoro, e immaginiamo siano state proprio

militari e le carovane dei commercianti con

ventidue. Luming ci spiega che qui il Fiume

loro a levigare alla mola quei piccoli monili. Non

i loro cammelli battriani. Oggi quei possenti

Giallo si tuffa nel lago formato da una diga

riusciamo a sottrarci all’acquisto. Le lasciamo

animali che una volta trasportavano le preziose

ultimata nel 1967. Proprio al centro del bacino

sul pontile, ci salutano amichevolmente, mentre

merci, vengono cavalcati dai turisti per una

sorgeva una grande città, importante centro

noi ci allontaniamo sul fiume, con il cuore colmo

breve gita nei dintorni della fortezza. Lo

di transito per le carovane sulla Via della Seta.

di riconoscenza per la generosità che ci ha

sconfinato deserto che si estende ad occidente,

Ora è sommersa e con dispiacere penso che

regalato questo magico luogo.

era sinonimo di ignoto e di innumerevoli

ci passeremo sopra con il battello senza avere

- Non manca molto - prova a rassicurarci

pericoli, oggi invece si scorgono ciminiere

la possibilità di vederla. Il grande specchio

il nostro amico vedendo i primi cenni di

delle industrie siderurgiche, lungo grandi

d’acqua è quasi completamente ghiacciato

stanchezza sui nostri volti. Speriamo, penso

strade asfaltate. Rimaniamo fino al tramonto,

e l’imbarcazione che ci traghetta sull’altro

io, mentre provo a divincolare le gambe

lo sguardo si perde nei luoghi e nei racconti

lato deve zigzagare tra le grandi lastre che

ormai anchilosate. Sono più di cinque ore che

dei viaggiatori dell’Età di Mezzo. La sensazione

galleggiano.

guida ininterrottamente, e noi siamo chiusi

che ci pervade, mentre il sole scompare

Siamo soli, davanti all’impressionante statua

nell’abitacolo della sua auto ad ascoltare la

all’orizzonte, è quella di sentirsi in viaggio con

del Buddha contornata di nicchie affrescate

sua musica. Ci piace sempre esplorare anche

loro, lungo la Via della Seta. Ma forse questa

che ospitano pregevoli statue e raffinatissime

nuovi mondi musicali quando siamo in viaggio,

nostalgia non è una mancanza, è una presenza,

rappresentazioni di bodhisattva che maestri

ma Luming è appassionato di rock mongolo,

la loro presenza, sono le emozioni, le storie e

e artisti ci hanno lasciato. E di fronte a tanta

e dopo tutto questo tempo, sfido chiunque

le avventure che ritornano, che si fanno sentire,

bellezza vengo colto dalla commozione. Due

a non sfiorare l’esasperazione. Finalmente

vengono a trovarci. Riprendo in mano la Nikon.

anziane signore ci rincorrono sulla banchina,

nel pomeriggio entriamo nella fortezza di

Provo ad incontrarle, lasciandomi guidare...


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Cina; Xian, mercato nel quartiere musulmano

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Cina; Lanzhou, pagoda tra i grattacieli

Cina; Lanzhou-Jiayuguan, passato e presente nello stesso vagone

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Cina; Xian, quartiere musulmano


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Stefano Rosati Cina; Xinjiang, Kashgar, un barbiere di strada


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“...e sì vi dico che quivi si truova tale meraviglia: egli è vero che, quando l’ uomo cavalca di notte per lo disierto, egli avviene questo: che se alcuno rimane addietro degli compagni per dormire o per altro, quando vuole poi andare per giungere gli compagni, ode parlare i spiriti in aiere, che somigliano gli suoi compagni, e più volte è chiamato per lo suo nome proprio, e è fatto disviare talvolta in tal modo che mai non si truova; e molti ne sono già perduti; e molte volte ode l’uomo molti istromenti in aria, e propriamente tamburi. E così si

passa questo Gran Disierto”. Le parole del veneziano non lasciano dubbi sulle difficoltà che le carovane in transito dovevano superare, affrontando il tratto di pista che si muove ai margini del deserto del Taklamakan. Ma la storia dei traffici commerciali vuole che proprio all’interno delle aride sabbie del famigerato deserto si trovasse uno dei più suggestivi regni dell’Asia centrale e che la sua capitale svolgesse per lungo tempo un ruolo di straordinaria importanza per le ambizioni cinesi e dei nomadi del nord. Si tratta


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negli annali. Passarono diciassette secoli prima che Sven Hedin riportasse alla luce i resti della città, ma le sue rovine non si trovavano sulle sponde di alcun lago, bensì sepolte nell’arida sabbia e solo dopo accurati scavi si riscontrò la presenza di numerose conchiglie, gusci di lumaca e residui di canne e giunchi, e fu dunque possibile stabilire che un tempo doveva esservi stato un lago, sulle cui rive fertili e boscose, crescevano giunchi e alberi da frutto. Ben presto si comprese la ragione della sua scomparsa, il lago era “errante”, come lo definì il grande archeologo svedese, poichè la zona geologica del Taklamakan è di tipo endoreico e, lungo i secoli, le acque del famigerato lago scompaiono da una parte per riapparire da un’altra. La via settentrionale da Dunhuang correva attraverso un paesaggio desolante d’argilla bruciata dal sole, lungo il bacino del Tarim fino alle oasi di Hami e di Turfan. In nessun luogo, lungo migliaia di chilometri su cui si estendono le antiche vie carovaniere, gli influssi, le sovrapposizioni e le osmosi culturali dovuti ai traffici commerciali, trovano così evidenti riscontri. Soprattutto a Turfan, oasi che ancor’oggi viene definita come “una perla della Via della Seta”, un appellativo ben meritato per le numerose testimonianze, architettoniche e culturali, che costituiscono un’inequivocabile prova di quanto detto sopra. Già in tempi remoti

Turfan costituva il più vasto territorio coltivato dell’intero bacino del Tarim, caratterizzato da una serie di insediamenti, sorti nella depressione ad 80 metri sotto il livello del mare, che comprendevano oltre 20.000 ettari di terreno coltivato. Le due antiche città di Jiahoe (Yarkhoto) e Gaochang (Kharakhoja o Kocho) rivestirono il ruolo di capoluoghi dell’oasi. Jiahoe, decretata patrimonio dell’umanità da parte dell’Unesco nel 1993, affonda le proprie origini in un passato lontano, ma nessun archeologo finora è stato in grado di stabilirne esattamente l’antichità. Jiahoe era già un’importante città carovaniera nel II secolo a.C. Proviamo ad immaginare la prosperità e la vita quotidiana di un tempo, risalendo in silenzio la angusta via che si inerpica fino ad uno stretto pianoro dove sorgono le sue rovine. Ci appare come una grande fortezza che si eleva con pareti scoscese dal letto dei due fiumi, formando una difesa naturale che sostituisce le mura della città. Attraverso una grande porta cadente, si incontrano le prime abitazioni e gli edifici amministrativi costruiti in mattone crudo. La via principale attraversa longitudinalmente l’intera città; si coglie una netta differenza nell’architettura e nella disposizione degli edifici quando si raggiunge la zona “residenziale”. I signori di Jahoe volevano sancire la propria superiorità sociale ed economica con

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Cina; Xinjiang, il deserto del Taklamakan del regno di Loulan. L’omonima capitale era già una fiorente ed importante città carovaniera quando il suo nome comparve per la prima volta in un documento cinese nel 176 a.C. Loulan era un importante centro commerciale fortificato sulla pista che da Dunhuang procedeva verso ovest. Qui la via carovaniera correva per diversi giorni lungo un vallo con torri di segnalazione ed una postazione avanzata cinese eretta nel periodo Han, che fungeva da ultima stazione fortificata, garanzia di sicuro riparo per le carovane in transito. Dopodichè, erano solo le grandi dune e il terribile vento del deserto ad accompagnare i viaggiatori fino all’oasi di Loulan. Forse proprio l’isolamento geografico ha costituito la garanzia di una indipendenza del piccolo regno nei confronti delle due grandi potenze dell’epoca: la Cina degli Han e la confederazione dei nomadi, gli Hsiun-nu. Attorno al 330 d.C. la città venne misteriosamente abbandonata, senza che nessuno sapesse addurre un motivo certo per la scomparsa di questo regno del deserto. Persino gli annali cinesi tacciono sull’accaduto. Poteva essersi trattato di variazioni climatiche e fenomeni naturali che resero necessario l’esodo dalla città oppure, come dice la leggenda, opera di spiriti e di demoni dell’oltretomba, e così potrebbe spiegarsi il misterioso silenzio


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Cina; Xinjiang, le rovine del caravanserraglio di Jahoe

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grandi palazzi e monumenti adibiti al culto buddista. Il grande stupa, posto su un’ampia terrazza, domina ancor’oggi i resti dell’intera città. Attorno ad esso vivevano i monaci, nelle loro piccole celle costruite in legno e delle quali non rimangono che esili tracce. Gaochang si presenta in modo completamente diverso. Le sue estese rovine sorgono in un’ampia distesa desertica. Bisogna camminare sotto l’insopportabile sole accecante, lungo le interminabili piste polverose, per giungere al cuore della città. Costruita nel II a.C., divenne presto capitale del regno omonimo, assoggettando e controllando ben ventuno città-oasi nella regione. Il IX secolo d.C. segnò il momento culminante per il centro carovaniero; divenne infatti la capitale del regno uyguro di Kharakhoja, assumendo la fisionomia di vera e propria città cosmopolita. Buddismo, manicheismo e cristianesimo nestoriano trovarono nel regno di Kharakhoja un luogo di prosperità, convivenza e sviluppo. I ritrovamenti di preziosi manoscritti in lingua uygura, cinese, sogdiana, siriaca, tocarica e tibetana ci danno un’idea dell’importanza e della funzione di centro catalizzatore che l’oasi ha svolto in quei secoli. Camminando tra i grandi spazi dell’antica città è facile domandarsi come l’uomo abbia potuto colonizzare e prosperare in queste aride regioni in cui la

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pioggia è praticamente assente e, quando raramente cade, evapora prima ancora di toccare il suolo per effetto delle elevate temperature. La risposta la si trova nella straordinaria opera architettonica dei karez (quenat in Persia ed Afghanistan); si tratta di un sistema di canali sotterranei, che utilizzano la sola forza di gravità per trasportare l’acqua dalle sorgenti montane (di solito lontane decine di chilometri dai centri abitati), costruiti per proteggere il prezioso liquido dalla fortissima evaporazione che si verifica nella zona desertica, portando acqua fresca fino alle oasi. Realizzati nella regione di Turfan oltre duemila anni orsono, i canali sotterranei sono l’ennesima eredità culturale arrivata in quest’area geografica dalla lontana Battriana e dalla Persia dove, in tempi remoti, l’uomo escogitò questa soluzione per sopperire alla carenza d’acqua. La costruzione delle gallerie era un’opera che richiedeva il lavoro di moltissime persone ma anche l’aiuto e l’assistenza dei ciechi, che riuscivano a percepire il pendio minimo da dare all’acquedotto che giungeva sino alle oasi praticamente a livello del suolo. L’acqua sgorga tutt’oggi nelle oasi, formando una complessa rete di canali, protetti da filari di pioppi, lungo i quali corrono le strade, ove si affacciano le abitazioni, si svolgono i mercati e le attività commerciali di queste genti. Turfan si presenta così al viaggiatore, nella sua quotidianità fatta di carretti trainati da asinelli carichi della famosissima uva e di succosi meloni, e degli animati mercati dove abili artigiani riparano, creano e vendono cose semplici, ma non per questo, meno belle ed affascinanti di altre. Ci si rende subito conto di essere in una realtà lontana e diversa da quella cinese. Siamo nella terra degli Uyguri che, provenienti dalle lontane montagne dell’Altay, si sono affermati su queste regioni attorno all’inizio del VIII secolo, approfittando del declino della dinastia cinese dei Tang. Ad una quarantina di chilometri dalla città in una stretta gola scavata dal fiume si trova un ambiente dominato da rosse montagne, che all’alba e al tramonto, sembrano ardere per la straordinaria varietà dei colori dell’argilla di cui sono fatte. Siamo a Bezeklik che in lingua uygura significa “luogo meraviglioso”. Sulla falesia della vicina collina si trovano le Grotte dei Mille Buddha, un complesso monastico che fu luogo di fervente attività religiosa ed


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Cina; Xinjiang, le Grotte dei Mille Buddha a Bezeklik

artistica tra il VI ed il X secolo. Gli affreschi più antichi mettono in evidenza gli influssi ellenici ed indiani come già osservato a Mogao. A Turfan ci troviamo di fronte ad un’ulteriore biforcazione delle vie carovaniere. La pista settentrionale aggirava da nord l’ostacolo delle grandi montagne del Tien Shan raggiungendo Urumqi. L’odierna capitale dello Xinjiang non conserva assolutamente nulla dell’antica città carovaniera, oggi è una metropoli caotica e rumorosa che non riveste alcuna attrazione nel viaggiatore. La pista proseguiva verso occidente raggiungendo le “Porte della Zungaria” presso il lago di Samiyan, ricollegandosi con le piste del centroasia nell’odierno Kazakhstan. La via meridionale, superata l’oasi di Korla, raggiungeva Kuqa, ennesimo luogo carico di storia e testimonianze. Siamo ai margini del deserto del Taklamakan, che in questa zona si caratterizza per il suo aspetto pietroso ed inospitale. Non vi cresce un filo d’erba, il colore passa dal nero al grigio e ciò è dovuto esclusivamente alle rocce dall’aspetto tagliente e dalle polverose sabbie bruciate dal sole che ricordano le ceneri di carbone. Zhang Qian ci ha lasciato una descrizione del centro carovaniero e della sua importanza asserendo che in quel tempo (138 a.C. circa) Kuqa era “il più grande dei 36 regni delle regioni occidentali”;

più efficace invece è la descrizione di Xuanzang (602-664): “il regno di Quzhi si estende per circa mille lĭ da est a ovest, e per circa seicento lĭ da nord a sud. La circonferenza della capitale va da diciassette a diciotto lĭ . Il suolo è adatto alla coltivazione del miglio rosso e del frumento; inoltre produce riso della specie detta gengtao, uva, melograni e una grande quantità di pere, prugne, pesche e mandorle. Vi si trovano miniere d’oro, di rame, di ferro, di piombo, e di stagno. Il clima è mite; i costumi puri ed onesti; la scrittura è stata presa dall’India, ma alquanto modificata. I musici di questo paese superano quelli degli altri regni per talento di cui danno prova con il flauto e la chitarra. Gli abitanti si vestono con stoffe di seta broccata o di lana rozza, si radono i capelli e portano berretti. Nel commercio fanno uso di monete d’oro e d’argento e di monetine di rame”. La storia dell’oasi è pregna di episodi e personaggi importanti, sufficienti a riempire un intero volume enciclopedico. Tra le tante, mi aveva colpito la storia del letterato linguista Kumarajiva, vissuto tra il III e IV secolo che, educato nel lontano Kashmir, ritornò a Kuqa come maestro della dottrina buddista Hinayana. La sua fama di saggio e maestro raggiunse luoghi lontani. Kumarajiva iniziò così un’instancabile opera di diffusione e trascrizione di numerosissimi testi dal sanscrito. La sua opera lo rese famoso

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Cina; Xinjiang, l’oasi di Kuqa

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a tal punto che a lui venne conferito il prestigioso titolo di diciannovesimo patriarca del buddismo. La sua opera portò a Kuqa numerosi studiosi, letterati e monaci, e nei secoli successivi, presso la città furono creati numerosi monasteri e luoghi di culto tra i quali Kizil, importante complesso monastico famoso per il raffinato stile artistico degli affreschi che vi si possono ammirare. Le 236 grotte del centro religioso avevano varie funzioni: in alcune venivano officiate le cerimonie religiose, altre erano il luogo d’insegnamento dei sutra e solo alcune fungevano da abitazione. Oltre un centinaio di esse sono praticamente intatte e conservano immutato il loro particolare fascino. Poco a nord dal centro di Kuqa, si trovano le rovine di Subashi, antica capitale del regno di Guici nel IV secolo. E ancora una volta la storia si ripete: un piccolo regno sorge, si sviluppa e fiorisce grazie ai traffici commerciali, infine scompare in un assordante silenzio. Un’esile voce si ode tra le rovine della città di fango, sussurra storie di gente comune, di commercianti e monaci che non ci hanno lasciato tracce evidenti della loro presenza attraverso monumenti ed opere artistiche, ma che hanno contribuito inequivocabilmente a quello scambio e allo sviluppo culturale, che fu linfa vitale lungo le antiche carovaniere.

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- Hai riempito la borraccia? Oggi avremo bisogno d’acqua, se per caso il carciofo (tassista nello slang di Dino) ci molla qui, ci beviamo la sabbia? - Ho preso anche qualcosa da mangiare, non si sa mai – rispondo a tono, mentre il taxi sgangherato a tre ruote, sferraglia e sobbalza sull’ennesima buca. Davanti a noi le cime del Kurutag segnano il confine tra il deserto grigiastro e ossidato dal sole e il cielo terso del primo mattino. La pista segue il corso del fiume Kuche che a noi pare un rigagnolo senza futuro. La sterrata risale un piccolo pendio e... fine corsa. Le rovine dell’antica carovaniera sono a circa trecento metri da noi, ma proprio nel mezzo della mulattiera, c’è posteggiata una BJ212, la jeep 4x4 prodotta dalla Changfeng alla fine degli anni ‘80. - C’è qualcuno “a scassare le uallere?”, direbbe il buon Salvatore – Esclama Dino, mentre recupera la video camera dal “triciclo volante”, appena posteggiato. - Beh, in caso di bisogno, avremo altre scorte d’acqua - una diversa visione della situazione. - Li vedi questi Quai (Yuan in slang mandarino), te li diamo solo quando torniamo qui! – Dino sventola le banconote per il pagamento pattuito con il tassista alla partenza; indica l’andata e ritorno dal sito archeologico con la gestualità di Totò, e si incammina con passo solerte. Il tassista è una statua di cera. Lo osservo in attesa di una qualche reazione, ma lui rimane impassibile. Sollevo le spalle e seguo il capo spedizione. Il caravanserraglio, o meglio ciò che ne resta, è immenso. Al suo interno ci potrebbero entrare due campi di calcio. Il vento, quello che Marco Polo chiamava il terribile uragano nero, il kara buran che poteva sollevare intere dune di sabbia e seppellire le carovane in transito, lo ha lentamente consumato, ridotto ad uno scheletro, così come ha fatto con tutti gli edifici ed i templi che un tempo rappresentavano la ricchezza e l’orgoglio di questa città. Abbiamo appena sistemato il cavalletto della videocamera per fare alcune riprese quando, come una miracolosa apparizione ecco: “la Madonna di Subashi”. No, nessun miracolo, è una turista cinese di Shangai, con tanto di bodyguard-autista dalla giacca di gesso e la faccia di plastica di Big-Jim, in viaggio


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alla scoperta del suo Paese. È ben vestita, con tanto di foulard firmato e tacchi alti, rossetto, make-up e macchina fotografica, come si addice ad una vera esploratrice. Jin parla inglese, è una persona davvero simpatica e affascinante, tutt’altro che una vamp da salotto. Passiamo assieme una piacevolissima mezz’ora, mentre la calura comincia a farsi sentire. Prima di salutarci, ecco il rituale che conosco a menadito; Dino recupera dalla borsa della videocamera la sua agendina rossa, la penna bicolore, e in un attimo, nome, indirizzo e telefono di Jin, sono nel prezioso salvacondotto, il suo impagabile dove-vado-cado-sempre-in-piedi. Resti di antiche torri di segnalazione, segnavano il percorso attraverso le sabbie del grande deserto fino all’oasi di Kashgar (Kashi). Marco Polo scriveva: ”Casciar fu anticamente reame; a uguale al Gran Cane e adorano Macometto e vivono di mercatanzia e d’arti. Elli hanno belli giardini e vigne e possissioni e bambagia assai; e sonvi molti mercanti che cercano tutto il mondo; e sono gente iscarsa e misera che mal mangiano e mal beono. Quivi dimorano alquanti cristiani nestoriani, che hanno loro legge e loro chiesa, e hanno lingua per loro”. Sette secoli prima di lui Xuanzang riportava nei suoi diari: “... per iscrittura si ispiravano all’India... Gli uomini sono fieri e di carattere impulsivo e, per

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la maggior parte falsi e ingannatori. Non si curano molto di dignità ed educazione, e tengono in poco conto la cultura”. Le due antiche testimonianze su Kashgar sembrano contraddirsi descrivendo un luogo che, posto al centro dei traffici del centroasia, ha saputo farsi catalizzatore e cuore pulsante di cultura e commercio per lunghi secoli, con altalenanti vicende storiche. Filippo De Filippi nella sua relazione sulla spedizione scientifica italiana nel Turkestan cinese del 1913, manifesta i suoi dubbi sul ruolo storico dell’oasi, scrivendo: “Non sembra possibile che questi grossi borghi di casupole di fango, queste genti mediocri senza cultura, senza arti, questi mercati di villici, siano tutto quel che rimane di una regione leggendaria che fu già il centro più rinomato del continente eurasiatico, teatro di secolari lotte fra diverse razze e di migrazioni di popoli interi”. Eppure che l’oasi di Kashgar abbia svolto per lungo tempo il ruolo di centro commerciale e crocevia delle più grandi vie carovaniere, è una certezza storica accertata. Ci troviamo di fronte ad un sito abitato da tempi remoti da popolazioni provenienti da luoghi diversi che, nel corso dei secoli, hanno predominato su altre, facendo di Kashgar la propria roccaforte e stringendosi nella propria identità etnica e culturale, per garantirsi la sopravvivenza in un luogo

Cina; Xinjiang, i resti del centro cerimoniale nell’antica Subashi


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economicamente e strategicamente vitale. Forse così possiamo spiegare e comprendere le differenti impressioni ed i giudizi dei viaggiatori, che in epoche diverse, ci hanno raccontato di Kashgar. La città ancor’oggi appare con caratteristiche architettoniche tipicamente medioevali; dopo complesse vicissitudini storiche è divenuta il centro culturale uyguro più importante, nonchè il più importante centro dell’islamismo in Cina. Camminiamo a piedi nella parte vecchia della città che si stringe attorno alla grande moschea Aid Kah, tra strade polverose e le piccole abitazioni squadrate, fatte di mattoni marroni e intonaco di fango, incrociando donne, prevalentemente velate, e chiassosi bambini dal sorriso stampato sulle labbra. L’atmosfera è quella di un luogo dove i ritmi di vita sembrano immutati nel corso dei secoli. All’ennesima

Cina; Xinjiang, Kashgar


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svolta ci imbattiamo nell’affollatissimo bazaar. Nulla di più vero di quanto il proverbio locale possa descriverci il mercato: “Al grande mercato di Kashi puoi vendere e comprare di tutto”. Negozi illuminati, botteghini e banchetti improvvisati vendono antichi gioielli, lucertole e serpenti essiccati, tisane e rimedi omeopatici secolari, ravioli ripieni di grasso di pecora, ed inoltre vi sono artigiani che lavorano l’argento, fabbricano stivali, riparano porcellane, fabbricano mattarelli e culle di legno nonchè utensili di latta. Le strade sembrano non riuscire a contenere la folla; a volte dobbiamo evitare all’ultimo istante carri trainati da asinelli carichi di ogni cosa, che passano attraverso quest’instabile folla, oppure improvvisamente rimaniamo bloccati, circondati da un gregge di pecore che, belando nervosamente, viene condotto al luogo destinato alla vendita. Nei quartieri residenziali osserviamo case a due piani con balconi, finestre e porte di legno intagliato e dipinto con tinte vivaci, nel classico stile uyguro. Prendiamo in affitto due biciclette per raggiungere la tomba di Abakh Khoja uno tra i luoghi più sacri dell’intero Xinjiang. Iniziamo a pedalare, evitando le gigantesche buche delle strade della periferia, mentre nell’aria si respira l’inconfondibile odore di carne di montone alla brace. In breve raggiungiamo il grande cimitero di Kashgar, un’ampia distesa di piccole costruzioni dall’inconfondibile colore ocra. Da lontano, il luogo dei sepolcri ci appare come un antico villaggio dalle piccole casupole con tetti dai profili arrotondati. Entriamo e troviamo immediatamente

Cina; Xinjiang, mercato di Kashgar. “Al mercato di Kashi puoi comprare e vendere qualsiasi cosa”

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tutta la dignità e la religiosità di un luogo sacro dove, poco lontano da noi, un gruppo di persone, forse un’intera famiglia, è raccolta in ginocchio, presso la tomba del proprio caro. Cavalchiamo le biciclette e proseguiamo lungo la strada affiancata da filari di altissimi pioppi, fino a raggiungere il complesso architettonico di Abakh Khoja, all’interno del quale sono sepolti i discendenti del potente sovrano. Lasciamo i nostri mezzi davanti all’entrata principale, presso un’ampia vasca ombreggiata dai gelsi. Costruito nel 1640, il complesso ci ricorda nello stile i famosi edifici di Samarcanda e Bukhara, soprattutto per l’utilizzo delle maioliche

Cina; Xinjiang, Kashgar, cimitero presso la tomba di Abakh Khoja


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Cina; Xinjiang, l’oasi di Hotan, la filatura della seta con il metodo tradizionale

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multicolori della facciata e della cupola. Ci sono molte persone davanti alla tomba, sono soprattutto donne. All’interno la musica non cambia, le donne pregano e, prima di lasciare la tomba, legano strisce di stoffa colorata alle finestre dell’edificio. Un giovane uyguro assiste con noi a tutta la scena. Più per la voglia di far pratica con la lingua inglese che per dare una spiegazione ai visitatori stranieri, si improvvisa guida turistica e ci svela il mistero. Le donne vengono qui a pregare e per chiedere una grazia per avere un figlio; ci fa notare come il colore del nastro esprima il sesso desiderato per il nascituro. Anni fa, passavo attraverso una delle sale dedicate ai tesori dell’Asia Centrale del British Museum di Londra, e rimasi stranamente affascinato davanti ad una tavola votiva in legno che portava la scritta “la principessa della seta”. All’epoca non potevo certo immaginare che dieci anni dopo, avrei visitato le rovine del monastero di Danda Oilik, nel deserto del Taklamakan, il luogo dal quale la tavoletta proveniva. Non ricordo esattamente per quale motivo l’effigie della principessa avesse suscitato in me tutto quell’interesse per le leggende e i misteri che avvolgevano la storia della “Via della Seta”, fatto sta che decisi di scattare una foto, sicuro di non essere visto dai numerosi guardiani. Visitando l’antica città carovaniera di Hotan, sulla pista

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meridionale del deserto del Taklamakan, dove fu rinvenuta la tavoletta che mi aveva ammaliato, la mia mente stava saltellando dentro e fuori dalla macchina del tempo, lasciandomi affascinato, stupito e sopraffatto dalle storie, dalle leggende e dalle esperienze di questo meraviglioso viaggio. Improvvisamente ricordavo i tratti del volto della principessa e persino delle sue vesti, che rivelano un’origine centroasiatica, mentre la sua acconciatura superba rimandava a regni ben più lontani. Si trattava forse della regina cinese maritata al re di Hotan nel lontano 420 d.C., colei che il regnante del Celeste Impero aveva mandato come “nobile regalo” per scopi diplomatici? Era lei la donna a cui la leggenda, più che la storia, attribuisce la divulgazione del segreto e la fortuna del baco da seta fuori dal Regno di Mezzo? Se dobbiamo credere agli storici fu il Signore di Hotan ad escogitare il contrabbando dei preziosi bachi da seta, chiedendo all’ingenua fanciulla di portare con sé, nascosti nell’acconciatura, semi di gelso e bozzoli del baco, per poterle fabbricare nuovi abiti, poichè Hotan non aveva seta per produrne. Storia o leggenda che sia, il segreto della seta giunse in quegli anni alla corte di Hotan, ne abbiamo conferma dai ritrovamenti archeologici e dalla nuova vitalità ed interesse storico che il centro assunse in quegli anni. Nello stesso monastero di Dandan Oilik fu


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rinvenuta su una tavola l’immagine di una figura barbuta dai lineamenti tipicamente persiani, che tiene tra le mani gli stessi strumenti di preghiera, che si possono osservare dietro la figura della principessa nella sala del British Museum. Espressioni artistiche che inequivocabilmente ci lasciano immaginare la presenza di popoli diversi nel regno di Hotan, quel luogo di arte e cultura, come lo definiva Marco Polo e che tanto hanno contributo allo sviluppo dell’arte e dell’economia del paese. Hotan aveva un’ulteriore ricchezza su cui poter contare nel complicato scenario dei traffici commerciali: la giada bianca. Le tracce del commercio della pietra dura nell’intera Cina si possono seguire dagli inizi del III millennio a.C. (come ad esempio le famose asce cerimoniali ritrovate nelle tombe regali) e nella Mesopotamia. Probabilmente all’epoca la via seguita dalla giada era la stessa delle antiche direttrici commerciali dell’Età di Mezzo. La testimonianza dell’interesse verso queste regioni da parte di popoli provenienti da aree diverse dell’Asia è ampiamente documentata. Una delle numerose prove storiche a suffragio ci viene dalla conquista dei Saci, avvenuta attorno al I millennio a.C., impadronitisi di Hotan proprio per il prezioso commercio della giada. La lingua parlata ad Hotan porta inequivocabili influenze della lingua dei Saci, rivelandoci i complessi processi di assimilazione culturale avvenuti nel corso dei secoli. Hotan svolgeva non solo il luogo di transito dei traffici commerciali durante l’antichità, ma era anche un importantissimo centro di produzione. La giada ancora oggi viene raccolta, lavorata e venduta in tutta la Cina che, per tradizione ha sempre cercato la pregiata pietra, alla quale venivano e vengono attribuiti tutt’ora, significati e poteri magici. Ricercatissima è la giada bianca, quella che si raccoglie solamente nel corso del Yurungkax (il fiume di Hotan). “A est della città di Yutian (Hotan nda) si trova il fiume della giada bianca, Baiyu He; a ovest della giada verde Luyu He. Vi è un terzo fiume chiamato della giada nera, Heiyu He, anch’esso ad ovest della città. Questi tre fiumi nascono sui monti del Kunlun. Coloro che in questi fiumi raccolgono la giada, ne scoprono i pezzi migliori al chiaro di luna, allora si tuffano per poterli prendere”. Cosi si legge negli Annali della dinastia Ming 1368-1644.

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Lasciamo le biciclette dove la strada sembra perdersi in questo mare di sabbia, ma il lucchetto della bici di Dino non funziona; Amid ci rassicura: Qui nessuno le ruberà. Chi viene qui vuole solo pregare e trovare pace interiore, non rubare biciclette. Così ci incamminiamo verso il nulla. Solo roventi dune di sabbia dove un’esile traccia si addentra nell’infuocato deserto. Il caldo è insopportabile, come lo sono le nubi di polvere finissima che, sollevate da folate improvvise, penetrano dovunque. Seguiamo un gruppo di pellegrini, che ci precedono lungo il cammino, in un silenzio irreale. Dopo l’ennesima duna scorgiamo la nostra meta. Lunghe file di donne, bambini ed anziani, inginocchiati davanti a piccole tombe, rivolgono ad Allah la loro preghiera. Con le braccia aperte ed i palmi delle mani rivolti verso il cielo, ripetono le sacre litanie in onore dei loro defunti. Le tombe, esili edifici in mattone crudo, costruiti su piccole alture, sono circondate da numerosissimi pali in legno, sui quali sventolano drappi colorati che ci ricordano bandiere votive. A volte qualcuno si alza, lasciando il gruppo per raggiungere luoghi più appartati. Incuriositi ci dirigiamo anche noi nella stessa direzione. I fedeli raggiungono alcune persone, sedute nel mezzo del nulla, vestite di ampi sai e dagli strani copricapi. Questi individui sono isolati gli uni dagli altri da poche decine di metri, sono seduti o accovacciati in luoghi apparentemente privi di significato; vengono più volte ossequiati dai pellegrini che sembrano giunti fin qui per chiedere loro ascolto e consiglio. Si tratta di oracoli. La religione islamica tra gli uyguri della regione di Hotan è molto particolare, l’esoterismo e le antiche credenze sono ancora una viva e sentita presenza. Filmiamo e fotografiamo indisturbati. In serata siamo presso le tombe di Baedae dove Dino annota con curiosità e stupore, il luogo dove sono sepolte le vittime delle persecuzioni operate nel passato dai buddisti, nei confronti dei seguaci della dottrina islamica. Siamo a pochi chilometri da Hotan lungo la pista che percorre la parte meridionale del Taklamakan sino a Dunhuang, un rosario di oasi-città carovaniere che il deserto aveva inghiottito, dopo aver dapprima soffocato i fiumi e le lagune stagionali. L’oasi successiva sulla nostra tabella di marcia

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Cina; Xinjiang, oracolo nel deserto nella regione di Hotan


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è Minfeng, nota agli storici con il nome di Niya. L’autobus deve spesso uscire di strada per superare vere e proprie dune di sabbia che hanno invaso la camionabile. In questa landa dimenticata dal mondo, gli archeologi ritrovarono resti di monasteri e fortezze. Il vento li ha aiutati, sollevando la sabbia e scoprendo quei terreni, dove una volta si trovavano i campi coltivati. Guardo fuori dal finestrino malandato, immaginando le centinaia di carovane che procedevano in silenzio portando incenso, indaco, lapislazzuli, ambra, pavoni e persino nani e corna di rinoceronte. Arriviamo all’antica città di Cerchen (oggi Qiemo) dopo il tramonto. “La sede del governo è la città di Chien-Mo, dista 6820 lì da Chang Han (Xian nda). Ci sono 230 proprietari di case e terreni, 1610 abitanti di cui 320 sono abili alle armi. Qui vi sono i seguenti nobili: FuKuo con suoi due amministratori (...) qui si coltiva uva e altri tipi di frutta...”, così si legge di Cerchen al capitolo 96, degli annali della dinastia Han. La mattina dopo mi sento in gran forma, pronto ad avventurarmi con il fido compagno alla ricerca delle rovine ma soprattutto alla ricerca “degli uomini alti, dalle barbe canute e dai capelli biondi o rossi”, i Tokari, la cui origine europea aveva tanto intrigato gli archeologi e antropologi occidentali, che avevano ritrovato nelle tombe i corpi mummificati risalenti al III millennio a.C. Per un attimo mi sembra di essermi calato nei panni del grande archeologo Sir Aurel Stain, con tavoletta e teodolite alla caccia dell’ennesima città-oasi lungo la via seta. L’inglese stava seguendo le tracce di Xuanzang, il pellegrino cinese del VII secolo, uno dei suoi “eroi” dai tempi dell’università, che aveva lasciato descrizioni intriganti di questi siti sacri lungo la pista meridionale del Taklamakan. Senza alcun preavviso, la porta della casa viene spalancata con veemenza. Entrano tre funzionari del partito che, senza neppure salutare, ci chiedono i documenti. Mostriamo loro, assieme ai passaporti, la

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lettera dell’Ambasciata e le credenziali dell’Università di Xian, sicuri di poter proseguire. Loro invece, sono irremovibili. Ci dicono che la pista è impraticabile. Ci chiedono di raccogliere rapidamente le nostre cose e ci accompagnano all’autobus che ci riporterà ad Hotan. Le mummie, le rovine delle oasi di Cerchen, Tjarkhlik (Ruoqiang), Miran e Charcam (Qarqam) rimangono sepolte sotto le sabbie del deserto e ancor di più, nei nostri sogni irrealizzati. Anche la spedizione dell’Università di Padova ad Urumqi, realizzata nell’estate del 1990 ha dovuto retrocedere di fronte al grande deserto, lo stesso che in passato ha probabilmente costretto alla rinuncia chissà quante carovane in transito; in fondo non c’è termine più azzeccato di Taklamakan per identificare questo grande deserto, letteralmente come: “il luogo da cui non si torna”. ■

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Cina; Xinjiang, deserto nei pressi dell’oasi di Hotan, luoghi sacri


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Xinjiang, sulle tracce dei nostri predecessori.

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davvero poche le persone che giornalmente transitano da questo valico. Alla fine lasciamo la frontiera convinti che l’occhio del grande fratello asiatico ci seguirà nel nostro viaggio. Infatti, nei centottanta chilometri che ci conducono a Kashgar, siamo costretti a fermarci per ben tredici volte ai posto di controllo dove veniamo sistematicamente fotografati e schedati, come i carcerati. Kashgar non è più la stessa dei racconti di David. L’antica cittadella è chiusa da anni ed è severamente vietato accedervi a causa di pericoli di crollo delle abitazioni che hanno resistito per secoli ai terremoti e alle invasioni. I carretti che aveva fotografato il nostro amico

F O T O R E P O R TA G E D I S T E FA N O R O S AT I

hanno lasciato il posto a una selva di SUV che sfrecciano per il centro urbano. Nel vecchio mercato degli animali, poco fuori della città, il bestiame è ancora legato alle lunghe palizzate, ma yak, mucche, caproni e agnelli vengono

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trasportati su camion e furgoncini, e non più con le caratteristiche carovane. L’angolo l giorno prima della partenza è un po’

viaggiatore considerevole”.

ad Ovest di questo vasto mercato è il luogo

come l’ultimo giorno di scuola, quando

Entriamo nello Xinjiang da una “porta di

dove si consumano i frugali pasti su vecchie

finalmente arrivano le tanto desiderate

servizio”, attraversando il passo di Irkeshtan.

panche di legno. Scoviamo un venditore di

vacanze; l’adrenalina e l’eccitazione

Dopo aver percorso qualche chilometro a

tagliolini freschi; li prepara come vuole l’antica

crescono come la temperatura

piedi, in salita sotto il peso degli zaini, veniamo

tradizione, a mano, facendoli roteare in aria per

dell’aria; il desiderio di quel momento

fermati da uno zelante doganiere a causa di

ottenere la giusta lunghezza e spessore.

spensierato riempie gli animi di

un problema burocratico relativo ai nostri

Al bazar, uno dei più grandi e importanti

buonumore. Preparo i bagagli con la solita

visti. Dalla minuziosa ispezione dei bagagli

dell’Asia, troviamo ancora qualche traccia del

inquietudine del superfluo e dell’indispensabile,

spunta il mio orologio che provo a regalare

passato. Sui banchi, che vendono preparati

troppo o troppo poco, e mi lascio trasportare

al responsabile della polizia di frontiera per

e rimedi della medicina tradizionale cinese

dell’ansia dell’imprevedibile. Ho l’impressione

cercare di corromperlo per farci passare. Tutto

e uygura, c’è ogni sorta di radice, vegetale

di aver bisogno di tutto, quando in fondo

inutile, l’uomo che ha il petto adornato da una

essiccato, di semi, di funghi secchi e altre

nulla è strettamente necessario, se non

miriade di mostrine e le scarpe impolverate

stranezze difficilmente qualificabili. Nel

l’attrezzatura fotografica che viaggia con me,

come quelle di un minatore, è irremovibile e

quartiere della città vecchia, interamente

come la copertina di Linus. Ma inevitabilmente

ci conduce in un’enorme stanza vuota dove

ricostruito a norma di legge “cinese”,

il bagaglio si riempie ogni volta, così come le

attendiamo, per quattro interminabili ore,

ristoranti alla moda e negozi di souvenir

aspettative che riempiono il cuore. Dopo tanti

il lasciapassare da Pechino. Ne approfitto

hanno soppiantato le botteghe degli artigiani

anni in giro per il mondo è ancora così, nello

per aggiornare il mio diario, dove annoto:

e i banchetti. Con Lucia ci fermiamo in una

zaino c’è soprattutto il desiderio di viaggiare,

“Sembrano più liberi di noi, quei nomadi del

casa del tè che di vecchio ha solo il nome,

di superare i propri sogni, realizzandoli. Alla

villaggio sperduto sul Pamir che abbiamo visto

osserviamo con stupore le diversità tra le

partenza indosso l’orologio, utile quanto un mal

ieri. Noi viviamo immersi in una vita segnata

persone che passeggiano oggi e quelle ritratte

di denti, visto che dopo il primo giorno andrà

dallo scandire delle ore e da complesse regole

da David solo trenta anni fa. Senza dubbio gli

perduto nei meandri del bagaglio, perché in

sociali, che altri hanno voluto e deciso per noi;

effetti della globalizzazione hanno cambiato

viaggio mi piace concedermi generosamente

loro invece sono padroni della loro giornata,

radicalmente le persone anche in questa antica

il lusso di perdere la cognizione del tempo. “Il

del loro saper migrare nel tempo”. Il posto di

oasi sulla Via della Seta, situata ai margini del

viandante si afferma sul tempo, conferma la

frontiera è un immenso hangar che sembra

deserto del Taklamakan. Telefonini di ultima

sua sovranità su di esso e la sua indipendenza

costruito più per intimorire il viandante che

generazione e vestiti griffati, rigorosamente

dai ritmi sociali”; Verlaine definiva così “il

per espletare le formalità burocratiche. Sono

falsi, hanno sostituito costumi e usanze in una


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manciata di anni. Scatto alcuni ritratti e mi

determinato momento, che rivela tutta la sua

confeziona improbabili collanine che tenta di

domando se anche la fotografia sia cambiata

attenzione.

vendere con affabilità e ironia, ai turisti che si

con l’avvento selvaggio dei selfie.

Purtroppo l’accumulo compulsivo delle

fermano sul ciglio della strada per scattare le

Cosa significa fare un ritratto fotografico?

immagini fa perdere il contatto con le persone,

classiche foto ricordo. Ablimit mi racconta con

Significa rubare l’anima della persona o entrare

e nell’odierno Far West della fotografia, le

orgoglio che ha mandato i suoi quattro figli a

in sintonia con essa, o che altro?

immagini sostituiscono la realtà, perché i luoghi

studiare in città. Decido per uno scatto vero.

Per il fotografo, un ritratto presuppone una

e le persone stesse, sembrano non esistere se

Lui si pulisce il viso, usando la sciarpa sporca

lettura dei segni del volto, mentre per chi

non sono documentate da una foto postata sul

di grasso, appena rimossa. Spesso la curiosità

viene immortalato si tratta di un’esposizione

web.

è il denominatore comune tra di chi sta dietro

anche della propria intimità. Un ritratto è di per

Lasciamo Kashgar in direzione Karakorum, e

o davanti alla macchina fotografica. Ritrarre

sé un’istantanea dell’anima, ed è per questo

ammiriamo il bellissimo lago in quota sulle cui

le persone tramite un obiettivo non significa

che ogni fotografo ha sempre una grande

acque turchesi si riflettono le vette dei monti

invadere uno spazio privato, se empatia e

responsabilità nel saper motivare, coinvolgere e

circostanti; da qui passava l’antica carovaniera

affinità elettive diventano un linguaggio

simpatizzare con il soggetto dello scatto.

sulla Via della Seta. La nuovissima superstrada

condiviso.

si snoda tra i monti ricalcando la pista originale. Ricercare la bellezza di un soggetto è qualcosa

Neppure David e Dino avrebbero immaginato

che va oltre gli stereotipi del bello. Non

questa carrozzabile quando attraversarono

sempre si riesce ad entrare in empatia con

queste gole sul carretto di un contadino con

chi si vuole fotografare, spesso è l’intuito

cui avevano concordato per un passaggio.

che ci mette in relazione con esso, e allora la

Sulla strada ci fermiamo a vedere i resti

macchina fotografica diventa un modo per

dell’antico caravanserraglio di Oteng all’ombra

comunicare. Spesso l’intensità di un volto

dell’imponente picco di Kung Gur. Delle mura

svela con efferatezza le emozioni di quella

rimane davvero ben poco, ma al suo interno

persona. Penso che il fotografo non dovrebbe

scopriamo che abita una famiglia di pastori.

mai strumentalizzare i soggetti attraverso

Ablimit, sessantatre anni, viene qui ogni estate

provocazioni o fotogenici aggiustamenti,

a pascolare la sua mandria di yak, mentre in

piuttosto nel saper cogliere la spontaneità

inverno, quando cade copiosamente la neve,

Cina; Xinjiang,

del gesto e l’espressione facciale di quel

scende al villaggio a fondo valle. La moglie

Kashgar, davanti alla moschea Id Kah


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Cina; Xinjiang, la diga dopo il lago Karakul

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Cina; Kashgar, venditore di cimeli al vecchio mercato

Cina; Xinjiang, l'amico Ablimit


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Stefano Rosati Pakistan; per le strade di Peshawar


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Da Kashgar (Kashi) diverse piste conducevano verso occidente, superando le montagne del Pamir e la catena del Karakorum, un vero e proprio “tetto del mondo”. Nel Milione si legge: “Proseguendo nella direzione di greco e di levante, dopo aver camminato dodici giornate, bisogna contare altre quaranta sempre nella stessa direzione attraverso montagne e vallate, passando fiumi e superando deserti e non si incontrano mai né abitazioni, né vegetazioni”. Qualunque sia stata la pista che le carovane

intendevano percorrere nel loro cammino verso oriente o occidente, la descrizione del veneziano ci fornisce una chiara idea delle difficoltà alle quali si doveva far fronte. Due delle principali carovaniere lasciavano Kashi in direzione nord-ovest per arrivare, lungo diversi percorsi, alla valle di Fergana, mentre altre vie scendevano in direzione sudovest, verso i territori dell’odierno Pakistan e Afghanistan. La più importante di queste ultime carovaniere è oggi nota con il nome di


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Karakorum Highway (autostrada del Karakorum), una strada che è costata decine di anni di lavoro per l’assestamento e la pavimentazione ed ha reso possibile il traffico di automezzi pesanti tra Pakistan e Cina. Lasciata l’oasi di Kashgar la pista si inerpica attraverso grandi vallate in uno tra i più affascinanti scenari montuosi del mondo. Il lago di Karakul sembra un immenso lapislazzuli incastonato tra il massiccio del Kongur (7595 m.) e il monte Muztagh Ata (7569 m.). Attorno al lago, ad oltre quattromila metri di quota, nel periodo estivo si trovano i campi dei nomadi Kirghisi con le loro grandi tende a cupola (le yurte) formate da un’intelaiatura di legno rivestita con feltri e tappeti, molto simili a quelle dei nomadi della Mongolia e del Kazakhstan. Un popolo i cui progenitori sono da ricercarsi tra le genti Kien-Kuen, citati negli annali Han del II secolo, indoeuroei “dalla pelle bianca e i capelli rossi”, e tra i gruppi nomadi appartenenti al ceppo mongolo-altaico, dalle inconfondibili caratteristiche somatiche: zigomi

Cina; Xinjiang, nomadi kirghisi davanti al monte Muztagata (7546 metri)

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pronunciati, occhi a mandorla e la pelle rossastra. Sono originari dell’alta valle dello Yenisei e degli Altay settentronali e oggi vivono in queste regioni dell’Asia centrale (Xinjiang, Kirghisia) a seguito di lotte ed esodi, avvenuti nel corso dei secoli. Il termine Qirqiz, che identifica il gruppo etnico, lo ritroviamo per la prima volta nel VIII secolo, nelle iscrizioni della stele dell’Okhon, nell’elenco delle tribù della Mongolia. L’importante khanato Kirghiso dominò la patria di Gengis Khan e parte dell’odierno Kazakhstan, tra il IX e X secolo, per poi muovere verso la regione del Tien Shan, il territorio dell’odierna Kirghisia, dove nel XIII secolo furono sottomessi dai Mongoli, come ci ricordano gli storici: “Qarakhmanidi, la Torre Burana, alta venticinque metri si trova nei pressi di Tokmak, ed è tutto quello che resta della loro antica capitale Balasagun, ribattezata dai Mongoli Goybalik, la città buona”. Il villaggio di Tashkurgan (città/colle di pietra in tajiko) era la tappa obbligata per i viaggiatori in transito. Una suggestiva vallata dove il piccolo centro, appare improvvisamente al pellegrino

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Cina; Xinjiang, la fortezza di Tashkurgan

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o al viandante, come un’oasi pigra e insonnolita, situata sul fondo della strada che si distacca dalla via carovaniera. È circondata da salici e campi coltivati, da stradine in terra battuta, delimitate da case basse e squadrate, davanti alle quali si muovono le donne e le giovani ragazze dai tipici abiti e copricapi rosso scarlatto, aggiungendo una nota cromatica all’austero paesaggio. Il villaggio è oggi il capoluogo del distretto tajiko dello Xinjiang. Nella monumentale opera “La Geografia” di Claudio Tolomeo, uomo di scienze vissuto nel II secolo, si legge: “Marino (di Tiro) dice che un certo macedone di nome Maen (Maes Titianos), chiamato anche Titian, figlio di un mercante, e mercante lui stesso, misurò la lunghezza del suo viaggio (fino alla Torre di Pietra), nonostante non raggiunse lui stesso la città di Sera, ma vi mandò altri”. Dopo aver “aggiustato” le misure e le distanze che Marino riportava nel suo scritto, aggiungeva che tale località, Lithinos Pyrgos (la Torre di Pietra) era il luogo dove la seta veniva venduta ai

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mercanti persiani, e si trovava circa a metà strada tra Roma e il Paese dei Seri (i cinesi produttori della seta di Chang’an). Una grande fortezza in pietra, una vera e propria cittadella fortificata, protetta da due possenti cinte murarie, sorge sul lato più orientale dell’abitato di Tashkurgan. Gli studi archeologici finora condotti hanno stabilito che le rovine risalgono al V secolo e quindi non possono essere considerate come la località citata dall’antico studioso, salvo nuove scoperte archeologiche non rivelino presto il contrario. “I costumi non sono regolati dai principi rituali. Pochi sono gli uomini che coltivano le lettere. Essendo di indole feroce e violenta, essi sono anche pieni di ardore e di coraggio”, nelle parole di Xuanzang (604-664) troviamo uno tra i primi accenni a questo popolo delle montagne. Il popolo dei Tajiki appartiene al gruppo linguistico indo-iranico, ed ha caratteristiche fisiche affini al tipo europoide. Generalmente le genti tajike mantengono la loro cultura tradizionale basata su un modello sociale di tipo patriarcale, dove l’anziano


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riveste un ruolo di grande importanza. La loro economia è legata soprattutto all’allevamento ed all’artigianato. Distribuiti sul territorio montuoso del Pamir e del Karakorum compreso tra Turkestan cinese, Tajikistan, Afghanistan e Pakistan settentrionale, stanno vivendo un momento particolarmente delicato, a causa di una guerra fratricida per il predominio dell’area a sud di Bishkek, con conseguenze terribili per la popolazione civile della ex-repubblica sovietica. La pista proseguiva attraverso uno stretto corridoio tra le grandi montagne verso il passo del Kunjerab. Prima di affrontare il valico la pista si biforcava presso il villaggio di Mingteke seguendo una rotta che puntava direttamene ad Ovest superando il piccolo abitato di Keke Tuleke, per poi affrontare le grandi montagne del Pamir e ridiscendere, attraverso il passo del Wakhjir, nel “corridoio del Wakhan” in Afghanistan. Le ragioni di queste piste “alternative” sono ancora una volta da ricercarsi nella situazione storica del momento e nella precaria sicurezza dei luoghi attraversati, località che spesso si caratterizzano per gli angusti percorsi tra

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strette gole montuose, particolarmente favorevoli ad incursioni ed assalti da parte di ribelli e predoni. Ecco due citazioni per comprendere meglio quanto appena scritto: "... alla seconda luna d’inverno passarono a meridione delle piccole Montagne di Neve, cosiddette perché la neve le copre d’estate come d’inverno. Sul loro versante settentrionale il freddo è insopportabile, tale che se ne resta quasi paralizzati. Eppure il solo Huijing non poté sostenere il rigore e non fu più in grado di procedere. Gli uscì dalla bocca una schiuma bianca. Disse a Faxian - impossibile che io sopravviva. Partite immediatamente, non dobbiamo morire tutti qui. - Sul che spirò”. (Gao-seng Faxian da “Fo Kuo Chi” 400 d.C.circa). “Il passaggio degli animali, con un freddo glaciale e sotto un vento tagliente, si effettuò con l’aiuto di tappeti e coperte gettate sul ghiaccio prima tagliato a colpi di piccone. Anche con queste precauzioni straordinarie, fu solo a prezzo di molti sforzi e sofferenze e non senza incidenti e perdite che il passo fu superato. Mai dimenticherò gli sforzi frenetici di quei poveri muli per conservare il loro equilibrio

Pakistan; il corridoio del Wakhan visto dal Chitral. (Al centro il Tirich Mir, 7.700 metri)


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Cina; Xinjiang, una carovana di Tajiki verso il passo del Kunjerab (4.600 metri) Pakistan; la torre di avvistamento di Alitit domina la valle degli Hunza

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sullo stretto sentiero preparato per loro. Parecchi precipitarono e restarono uccisi...” (Chapman e Gordon da “Souvenirs from an English embassy to Kashgar” 1878). Il passo del Kunjerab si trova a 4.593 metri e, appena superato il confine con il Pakistan, ci si rende subito conto dell’imponente opera dell’uomo per la realizzazione di questa strada che, come ci ricordano gli storici, è costata una vita umana per ogni chilometro della sua

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lunghezza. “Pareti rocciose che corrono verticali proprio sopra le nostre teste fino a scomparire lassù, tra le nubi; e ancora infidi ghiaioni che coprono pendii scoscesi che si abbattono sul fondo valle dove scorrono torrenti montani”, ecco le eloquenti parole tratte dal diario del fido compagno Dino De Toffol, durante la discesa dal passo. Soggetta a frequenti frane e terremoti, la regione del Kunjerab non tarda a suscitare quel timore e quella reverenza che traspare nelle testimonianze dei viaggiatori di ogni epoca. La pista, in questo tratto, entrava nella regione degli Hunza. Un popolo balzato agli onori delle cronache in tutto il mondo quando alcuni articoli apparsi su prestigiose riviste internazionali negli anni Settanta, riportavano dati sbalorditivi sulla longevità di questo popolo dovuta, scrivevano allora, alla tradizionale e naturale dieta vegetariana. Il bluff “vegetariano” fu rapidamente scoperto, ma la longevità di questo popolo rimane un dato inconfutabile. Eppure i rigori del clima sono gli stessi delle altre regioni del Karakorum, dove vivono altre etnie e dove la vita media è stimata attorno ai cinquant’anni. È stata ultimamente avanzata anche l’ipotesi di un “patrimonio genetico particolare”, considerando che raramente ci sono casi di matrimoni esogamici tra gli Hunza. Gli Hunza sono ismailiti, il loro leader spirituale è l’Aga Khan; la loro tradizione e la loro cultura si riflettono nella loro quotidianità dove, anche nei rapporti con lo straniero, con il viaggiatore, si riscontra un atteggiamento di rispetto ma anche di diffidenza e distacco. Gli uomini svolgono con abilità e perizia i loro lavori quotidiani come pastorizia, agricoltura ed artigianato, mentre le donne si occupano prevalentemente della casa e della famiglia, non trascurando i lavori agricoli attorno alle proprie abitazioni. La maggior parte di loro usa il chador e sono facilmente riconoscibili per i tipici calzoni larghi e colorati e le camicie lunghe fino alle ginocchia. Le loro case sono piccole, rudimentali, costruite in pietra lavorata e fango, con basse porte d’ingresso, e generalmente sono radunate in gruppi familiari, circondate da muretti in pietra che delimitano le proprietà. Piazziamo la tenda esausti, nell’unico spiazzo pianeggiante. Il ghiacciaio del


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Barpo ci ha veramente provati. Dino si incammina verso il ghiaione poco distante, con le borracce e la pentola per cercare un pò d’acqua per preparare la zuppa calda, il premio serale per le nostre fatiche, mentre io accendo il fuoco. Sappiamo che domani ci aspetta una durissima salita e abbiamo bisogno di una buona nottata di riposo per recuperare tutte le energie necessarie. Terminiamo la frugale cena, mentre le lunghe ombre delle alte montagne ricoprono la vallata di Nagar. Due figure compaiono improvvisamente da dietro il ghiaione, sono uomini hunza, sono armati e si dirigono decisi verso di noi. Rimaniamo seduti davanti alla tenda più sorpresi che intimoriti. Si avvicinano. Dino saluta ed offre loro del té appena fatto. L’invito viene accettato, e tra biscotti e sorsi di té caldo, inizia il colloquio. Ci spiegano che stiamo attraversando la valle di Nagar, la terra di proprietà del loro Mir (il re). Ci mostrano un documento, scritto in lingua urdu e inglese, firmato dalle autorità pakistane, che attesta la sovranità del Mir di Nagar

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su questi territori ed esorta ogni straniero a pagare la tassa di soggiorno per contribuire al mantenimento del piccolo stato. La cifra richiesta è veramente ridicola; concordiamo sul pagamento e, con nostra grande sorpresa, il più anziano de due tira fuori dalla propria sacca un blocco di ricevute di pagamento, timbrate e firmate dal Re. Sorridiamo e riprendiamo la conversazione. Come una fiaba, la storia del piccolo regno delle montagne, prende forma con il racconto dell’anziano. Iniziamo a fumare assieme, mentre il piccolo falò colora di pace l’atmosfera del regno delle favole. Poco lontano dall’abitato di Karimabad, il capoluogo degli Hunza, troviamo tracce archeologiche dell’antichità dei traffici commerciali lungo questa via carovaniera. Presso la confluenza del fiume Hispar con il Gilgit, sui pendii rocciosi, ci sono decine di petroglifi, in lingua kohistana e kharosthi, le lingue franche dell’antichità in questo tratto di carovaniera, che testimoniano

Pakistan; Gilgit, petroglifi presso Karimabad


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l’utilizzo costante della pista da parte di commercianti e pellegrini. La carovaniera proseguiva attraverso le profonde gole del Karakorum fino a Gilgit, oggi capoluogo della provincia omonima. Città situata in una fertile vallata interamente circondata da montagne. L’attivo centro commerciale gode di un clima generalmente mite, considerando la sua posizione. Nella regione sono infatti situate alcune tra le montagne più alte del mondo: il K2 8.610m.; il Nanga Parbat 8.125m. e il Rakaposhi 7.788m., nonchè i grandi ghiacciai dell’Hispar, del Baltoro, e del Biafo. La sua importanza strategica sulle vie commerciali, è storicamente confermata dai ritrovamenti eseguiti da numerose spedizioni archeologiche in tutta l’area. Il più importante rimane quello del 1931, lungo il fiume Kargah a circa dieci chilometri dal centro urbano, dove vennero riportati alla luce preziosi manoscritti buddisti del VI e del XI secolo. Iscrizioni su pietra, grotte-santuario e grandi Buddha scolpiti sulle pareti rocciose testimoniano l’intensa attività artistica del centro carovaniero. Da qui dipartivano ulteriori diramazioni delle vie commerciali, contribuendo ulteriormente ad accrescere l’importanza del crocevia carovaniero di Gilgit. La pista verso oriente penetrava nella profonda vallata dell’Indo in direzione del Baltistan, del Kashmir e del Tibet occidentale. Il territorio del Baltistan è terra ancora oggi contesa tra i governi di India e Pakistan. Nel corso della sua storia, non fu mai un possedimento stabilmente ben definito, e la popolazione stessa è viva testimonianza di quanto detto sopra. I Baltì sono un gruppo etnico, eredità di complessi processi di osmosi. Le loro caratteristiche somatiche evidenziano tratti indoeuropei e tibetani. La loro lingua è un antico dialetto tibetano che si è modificato nel corso dei secoli a seguito dei numerosi contatti con popolazioni provenienti dall’Asia centrale e dal Kashmir. Anche la loro religione, una forma esoterica del credo islamico, dove le antiche credenze animiste sono ancora presenti in molti dei loro riti, testimonia la particolarità di queste genti. Sono più di due ore che aspettiamo di partire. La jeep pick-up di Mangiafuoco è carica all’inverosimile, ma non si parte. Siamo a Bain, il quartiere più orientale di Skardu. Davanti a noi, oltre il fiume Indo,

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c’è un deserto dalle grandi dune, come quello africano, ma ad oltre 2.600 metri di altitudine, ed è circondato da vette che superano i seimila metri di quota. Quando la calura comincia a farsi sentire, arrivano altri due uomini con una sacca di iuta dalle dimensioni notevoli. Mangiafuoco ordina, muove i fili dei burattini, che come automi risistemano tutti i bagagli e provvedono alla nuova disposizione dei passeggeri come si fa con i sacchi di ceci. - No io non ci sto in fondo al cassone! – esclamo adirato, facendomi largo tra “i ceci umani”, per arrivare in prossimità dell’abitacolo. - Non voglio mangiare la polvere e saltellare come una triglia in padella durante il viaggio. – Punto esclamativo. Finalmente si parte. Sul mezzo ci sono bagagli e persone che stiperebbero un minibus. Il mezzo meccanico saltella, seguendo la pista che segue il corso del grande Indo, Mangiafuoco è al volante sicuro di sè e del suo carico. Procediamo lentamente con continue soste per far scendere e salire i passeggeri. Prima del villaggio di Keris, la strada si biforca per seguire la via che da Pandy raggiunge Kargil nel Ladakh. Mangiafuoco scende, confabula con alcuni possibili nuovi sacchi di ceci e poi sbraita, ne scarica alcuni e ne prende di nuovi. - Non arriveremo prima di domani, mi sa che passeremo una notte indimenticabile su questo cassone. – borbotta Dino, mentre scuote via la polvere dal suo cappello da baseball. Così è; prima una foratura, poi un problema al motore e al tramonto siamo solo a Ghawari, poco più che a metà strada per la nostra destinazione: Khaplu. Ci fermiamo davanti ad alcune casupole, il cui porticato dà direttamente sulla strada. Lì vicino ci sono alcuni furgoncini e qualche autocarro posteggiato; attorno alle case alcuni mercanti, interessati compratori, bambini giocosi e ladruncoli dell’ultima Tule. Scendiamo tutti dal mezzo, io mi assicuro di mettere in salvo gli zaini mentre Dino è già in cerca di un giaciglio sicuro dove passare la notte. Il mercato serale improvvisamente si anima. Le contrattazioni sono accese, come i fuochi che illuminano le merci e arrostiscono le carni di montone. Sembra di essere in un campo medioevale che si prepara per la guerra o forse per i festeggiamenti. L’odore di fumo e di carne bruciata, il mormorio


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Pakistan; regione del Baltistan, il deserto presso Skardu

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Ladakh; Leh, il castello

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delle voci dei mercanti, le luci e le ombre sulla strada, creano quell’atmosfera dove il tempo non ha più ragione di essere. La pista seguiva la via obbligata che risale il corso dell’Indo verso la città di Leh, nel Ladakh. Si tratta della grande strada verso Lhasa, dove monasteri e luoghi sacri del buddismo tibetano si susseguono come grani di un lunghissimo rosario, e dove gli antichi mercati di vendita e di scambio, erano spesso stagionali e si svolgevano su isolati altipiani o ampie radure presso i corsi d’acqua. ”Il commercio del Ladakh non riveste grande interesse sia per quanto viene venduto che per quanto viene prodotto.

Pakistan; immagini del Buddha scolpite sulle pareti rocciose presso Chilas

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Ad ogni modo la posizione geografica del Ladakh costituisce il passaggio obbligato per i traffici commerciali tra Tibet, Turkestan, Cina, India, Punjab e Kashmir. Uno dei principali prodotti del Ladakh sono gli scialli di lana altamente richiesti nel Kashmir. La lana è ottenuta da una capra locale, dal suo vello viene utilizzata per tale scopo solo la lana più prossima alla pelle, che conserva la maggior morbidezza e calore.(...) Circa ottocento carichi sono annualmente esportati verso il Kashmir, al quale il Ladakh è legato per antica tradizione e contratti commerciali; l’esportazione verso altri paesi e severamente proibita, pena la confisca del carico”. Nel precedente passo, tratto da “Travels in the Himalayan provinces” di Moorecroft e Trebeck del 1825, abbiamo un ulteriore conferma della funzionalità della via carovaniera che attraversava il Ladakh. La pista in ogni modo rappresentava un tratto secondario della grande direttrice commerciale che abbiamo appena lasciato. L’altra pista, è quella che da Gilgit scende lungo l’Indo, passando per Chilas, un insediamento posto su una terrazza rocciosa, in uno scenario grandioso di alte montagne, presso la confluenza del torrente Buto-Gah con il fiume Indo. L’erosione delle acque in questi luoghi ha modellato le rocce e le pareti scoscese in forme bizzarre che sin dall’antichità, l’essere umano deve aver identificato quali luoghi ideali per scongiuri, invocazioni, sacrifici e rituali. Sulle grandi pareti sono raffigurate anche immagini sacre di Krishna, Balarama del Buddha e di Bodhisattva, nonché iscrizioni in lingua indiana e kharosthi, che documentano un lento processo di conversione alle dottrine indù e buddiste delle popolazioni autoctone, avvenuto senza soluzione di continuità nel corso dei secoli. Troviamo alcune raffigurazioni sulle grandi pietre che ci sembrano particolarmente interessanti. L’archeologo pakistano E. Dani dà una interpretazione accattivante delle immagini, adducendole alla sottomissione degli abitanti del luogo ad opera delle incursioni dei Saci. Sappiamo dai testi persiani che i Saci penetrarono in quei territori attorno al I secolo a.C. e che vennero in seguito assimilati dal regno Kushana, col quale condividevano il pensiero religioso. Forse Chilas divenne un centro importante proprio durante l’avvento dei Kushana in considerazione


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della sua posizione strategica sulla direttrice principale che dalla capitale Taxila, conduceva al Tibet, al Turkestan e alla Cina. Alla storia del regno Kushana è legata l’arte del Gandhara, conosciuta anche coi termini “arte greco-buddistica” e “arte romanico-buddistica”. In realtà il nome Gandhara è l’antica denominazione della regione compresa tra l’Indo ed il corso inferiore del Kabul, e fu il principale centro di questa particolare arte sviluppatasi attorno agli inizi dell’era cristiana. L’incontro tra il mondo indiano ed il mondo greco-classico di Alessandro, si sviluppò nel Gandhara con particolare fortuna determinando uno stile artistico unico nel suo genere. La raffinatezza degli abiti e dei lineamenti ellenici si fusero con l’iconografia e l’architettura sacra buddista. Questo affascinante modello artistico-culturale raggiunse il suo culmine attorno al II secolo d.C. e mantenne una sua identità per oltre quattro secoli. In realtà parlare dell’arte del Gandhara quale semplice e fortunata fusione di due realtà culturali ed artistiche è abbastanza riduttivo. Gli influssi artistici e culturali che

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hanno determinato la nascita e lo sviluppo di quest’arte affascinante, vanno ricercati anche negli importantissimi contatti con le diverse realtà culturali dell’intera area geografica dell’Asia centromeridionale, con l’inevitabile rimando al ruolo che le vie commerciali hanno avuto nel corso della storia. Dalla città di Taxila un’ulteriore diramazione correva verso sudest, lontano dalle grandi montagne, in direzione dell’India. Lahore, la Labokla di Tolomeo, sorge tra fertili pianure alluvionali; la sua prosperità ed il suo apogeo culturale ed artistico è legato all’epoca dei Moghul, attorno al XVI secolo. “... è una capitale molto bella e produttiva, ricava moltissimi proventi dal commercio dei suoi prodotti e di conseguenza i monarchi dell’India e della Persia ne reclamano la sovranità”; nelle parole del medico francese François Bernier nel suo “La Description des étates du Gran Mogol” del 1668, la testimonianza di quanto appena affermato. Oggi il trambusto e frenesia del traffico, nonché i martellanti e continui colpi di clacson, annunciano al viaggiatore l’arrivo nella capitale del Punjab. Ma ogni fastidio viene

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Pakistan; regione del Punjab, la moschea di Badshahi, costruita nel 1671

Pakistan; camion-autobus per il Khyber pass, tra Pakistan e Afghanistan subito dimenticato, quando si comincia a camminare per le strade del centro di una città come Lahore, giustamente definita dai letterati pakistani: “così ricca di testimonianze, e così radicata nella storia che si potrebbe passare l’intera vita a studiarla senza apprendere ciò che la città custodisce e porta vivo con sè”. La pista proseguiva oltre il Punjab raggiungendo i mercati dell’India. Dalla città di Mathura, la antica carovaniera seguiva il corso del Gange fino a Calcutta raggiungendo i porti marittimi sull’Oceano Indiano. “Nei pressi della sorgente questo fiume è largo tre lĭ, mentre ne misura dieci alla foce. La sua corrente bluastra, ma che spesso muta colore, ha un’ immensa estensione, e alberga un gran numero di meravigliose creature inoffensive per gli esseri umani. Di sapore dolce e gradevole l’acqua che trasporta una sabbia finissima, nei testi indiani viene detta “acqua di felicità” e si assicura che coloro che vi

si bagnano vengono purificati di tutti i loro peccati. Quelli che ne bevono o ne sciacquano semplicemente la bocca vedono scomparire le disgrazie che li minacciano. Chi vi si annega rinasce tra gli Dei. Le sue rive sono sempre affollate da una moltitudine di uomini e di donne.” (Xuan-zang da “Xiyu Ji”). La via principale che da Taxila muove verso l’occidente, ci conduce su due piste secondarie che correvano tra le alte montagne e raggiungevano, attraverso passi impervi, il Wakhan in Afghanistan. La prima è la pista che risaliva la valle dello Swat, attraverso il passo di Malakand, entrando nella terra delle genti Pathan. Si tratta di una grande vallata aperta, fertile e ricca, un caleidoscopio di colori che, come ricorda il poeta Khushal Khan Hattak, “era terra fatta per rallegrare i Re”. Non c’è nell’intero Pakistan luogo tanto ricco di testimonianze storico-artistiche come la valle dello Swat. Da alcune


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decine di anni, spedizioni archeologiche italiane dell’Ismeo, hanno riportato alla luce testimonianze importantissime del complesso sviluppo storico-culturale di quest’area geografica. Il grande orientalista Giuseppe Tucci, che ha dato il via alle ricerche scientifiche italiane in quest’area, scriveva così nel suo “La via dello Swat” del 1963: ”Lo Swat è generoso nel rivelare le ricchezze archeologiche ed artistiche della sua terra, per un tempo che va dal tremila a.C. in quasi all’epoca recente. Più tardi, quando l’Islam conquistò la regione, le tradizioni artistiche, accumulate nei secoli e mai represse, si adattarono alle esigenze della nuova religione (...) Le moschee lignee si sostituiscono alla pietra degli stupa e dei monasteri; i ghirigori di un’arte aniconica prendono il posto di migliaia di statue e rilievi che infoltivano nei luoghi sacri, quando la dottrina dei monaci dello Swat e le pie risonanze attiravano pellegrini buddisti da tutte le parti del mondo”. La valle del Chitral è tutt’altra cosa rispetto allo Swat. Le montagne conferiscono un aspetto maestoso all’ambiente. Ci si rende subito conto che, per colui che vive in queste regioni, fare i conti con l’ambiente è un imperativo vitale; gli elementi naturali, a loro capriccio, sono in grado di cancellare ogni traccia di vita in qualsiasi momento. Si tratta di un percorso secondario delle vie commerciali, poco affidabile, ma pur sempre una “scelta alternativa” per le carovane in transito. In queste vallate si trova uno dei più affascinanti misteri etnostorici del nostro pianeta, la popolazione dei Kalash (o kafiri, che in lingua urdu significa “infedeli”). Sulla loro origine sono state avanzate teorie di ogni genere. Le caratteristiche somatiche, occhi verdi, carnagione chiara, tratti europoidi, delle genti Kalash hanno fatto supporre che potessero trattarsi dei pronipoti dell’esercito di Alessandro Magno che attraversò queste regioni nel IV secolo a.C. La loro lingua, i loro usi e costumi, nonché la loro religione non hanno però dato alcun supporto a questa affascinante teoria. La loro religione, definita dagli etnografi “paganesimo politeista con elementi peculiari come sacrifici animali e culto della natura e degli antenati”, rappresenta una realtà quanto mai complessa ed oscura che va al di là della mera definizione antropologica. Sono circa cinquemila anime che vivono

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nella valli di Bumburet, Rombur e Birr, radunati in una ventina di piccoli villaggi. Le loro case sono fatte di legno e pietra, prive di finestre, appaiono compatte, quasi costituissero un unico grande e articolato edificio, disposto su diversi livelli che partono dalla valle, risalendo il fianco della montagna. Kalash nella loro lingua significa “nero” e si riferisce al

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colore degli abiti di queste genti. Le donne, avvolte nelle loro lunghe vesti ricamate, indossano i suggestivi copricapi, decorati con conchiglie e perline colorate cucite con un ordine preciso, che lascerebbero pensare ad un abito cerimoniale più che un abbigliamento di uso quotidiano. Oggi c’è qualcosa che turba profondamente la realtà dei kalash; è l’incontro con il mondo consumistico, con il turismo di massa delle agenzie viaggi, che potrebbe compromettere profondamente la cultura di queste genti, impoverendo ancora una volta il patrimonio etnico dell’umanità. Seguendo la pista nell’alto Chitral, si raggiungono i villaggi di Buni e Mastuj, per poi dirigere a nord e superare il Passo di Boroghil, a quasi quattromila metri di quota, ed entrare nel Wakhan. Negli Annali della dinastia Tang, questo difficile tratto della carovaniera viene descritto minuziosamente dai pellegrini e dai monaci cinesi che muovevano alla ricerca di preziosi testi buddisti tra il V e il VII secolo. Sappiamo inoltre che nell’agosto dell’anno 747, oltre diecimila soldati dell’esercito tibetano attraversarono il passo del Boroghil, per fermare l’avanzata del generale cinese Xian Zhi, nel corridoio del

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Wakhan. La vittoria cinese fu schiacciante e la marcia dell’esercito del Celeste Impero proseguì incontrastata fino alle regioni di Yasin e Gilgit, come ci testimoniano alcune famose pitture nelle Grotte di Mogao. Sulla pista principale che da Taxila muoveva verso ovest, si incontra la famosa città di Peshawar. Il regno Kushana ha sempre avuto basi prevalentemente urbane e, attorno al I secolo d.C., fece di Peshawar uno dei suoi centri più importanti, sostituendolo per importanza logistica e grandezza architettonica a Charsadda. Per quest’ultima città carovaniera, fu un vero e proprio colpo di grazia, oggi della bellissima “città del Loto” (Pushkalavati, era l’antico nome di Charsadda) non rimane che una misera collinetta di alcune decine di metri coperta di vegetazione. Peshawar al contrario crebbe come un importante centro carovaniero e soprattutto come centro culturale, oscurando in parte anche la grande Taxila. Ancora oggi il bazaar di Qissa Khawani è il luogo di commercio ma anche di dialogo, di scambio di impressioni, idee e cultura. L’antico “bazaar dei cantastorie”, dove menestrelli e narratori di professione, attiravano


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commercianti, curiosi e gente comune, è ancora un luogo che non ha perso il fascino di un tempo, anche se ai cantastorie ed ai saltimbanchi di allora, si sono sostituite chiassose radio e televisioni. Forse la grande fortuna di Peshawar fu la posizione strategica sulla via della seta, all’ingresso del passo del Khyber, l’unica via d’accesso tra le grandi montagne dell’Hindu Kush, verso i mercati occidentali. La pista raggiungeva il villaggio di Darra Adamkhel, divenuto famoso poichè ogni casa del villaggio è una fabbrica di armi. I Pathan sono abilissimi armaioli, in grado di realizzare qualsiasi tipo d’arma da fuoco, un’antica tradizione che si perde nella notte dei tempi. Al nome di Khyber è legato quello degli Afridi, il popolo che per millenni ha vissuto, dominato, sofferto, combattuto e gioito, sulle alture dove si trova il famoso passo. La loro tenacia e la loro bellicosità è stata riconosciuta sin dall’antichità; sono i bellicosi Aparutai di Erodoto, ed anche il popolo che respinse i grandi Moghul e l’esercito di sua Maestà. Possiamo affermare che la loro indole ci è giunta immutata, fino ai giorni nostri. Sir R.Warburton alla fine del XIX secolo scriveva “il ragazzo Afridi fin dalla prima infanzia impara dalle circostanze in cui vive a diffidare di tutta l’umanità (...) la sfiducia nell’umanità e la prontezza nel colpire per primo per la sicurezza della propria vita, sono diventate perciò le massime degli Afridi. Se riesci a vincere questa sfiducia ed essere gentile nel parlargli e onesto nei suoi riguardi, ti pagherà con una grande devozione e sopporterà qualsiasi punizione, tranne l’abuso e il tradimento”. Leggendo queste parole, si prova una strana sensazione, quella di essere in un territorio dove “violenza e onore” sono regole indiscusse; forse perché ci troviamo in un luogo particolare, su “un confine” che non è solamente geografico. Khushal Khan Khattak, famoso poeta Pathan, scriveva: “Disprezzo l’uomo che non pone l’onore a guida della sua vita, la sola parola ‘onore’, mi fa impazzire”. ■

Pakistan; carovane attraverso i Passi del Chitral

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Pakistan; al mercato di Peshawar


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Pakistan, fotografare il presente. F O T O R E P O R TA G E D I S T E FA N O R O S AT I

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foglio nervosamente

sopra le nuvole, un’esperienza che avrebbe

il mio diario, mentre

mandato in estasi Leonardo da Vinci, Dante

nel piccolo aeroporto

Alighieri e William Shakespeare”. Gli scatti si

di Peshawar attendo il

animano di vita propria e raccontano di quel

volo della Ariana Aiways

mondo, spesso ai margini dell’esperienza del

per Kabul. Osservo con

transito, come una lente straordinaria in grado

attenzione le piccole

di osservare lo straniero, il viandante che

annotazioni e i disegni che Lucia ha realizzato

procede sul territorio, spesso ignaro di essere a

durante il nostro viaggio in Pakistan. In fondo,

sua volta ritratto e osservato dal mondo che lo

qualcosa di lei rimane tra le righe, nelle esili

circonda.

bozze e nei disegni dal tratto aggraziato e

In questa prospettiva la foto può diventare

sicuro; la immagino qui con me, seduta e

un caledoscopio che, attraverso nuovi punti

sorridente, pronta a rassicurarmi non appena

di osservazione, racconta della complessità

l’ombra di una perplessità fa capolino sul mio

che essa stessa propone. Al contrario la

volto. Allora rifletto su quei particolari, quelle

standardizzazione tecnologica e della

descrizioni, quei ritratti di anime senza nome,

produzione di massa hanno portato alla

che ha saputo cogliere e mettere a margine del

scomparsa delle differenze, del dettaglio, in

mio taccuino, facendolo senza disturbare, come

nome di una globalizzante uniformità sempre

un testo implicito altrettanto importante, del

più massificata.

nostro vagabondare alla ricerca delle tracce dei

Le mie immagini saranno allora una chiave

nostri predecessori.

di volta, un passepartout per scardinare la

Il particolare e il dettaglio, che spesso sfuggono

tracotanza effimera dell’immagine consumistica

al racconto del viaggio, diventano allora un

e unificante, per un giudizio più ponderato che

monito, anzì la monade di questo box, di questa

riconosce nel particolare e nel segno, la qualità

finestra sullo sconfinato universo della Via della

superiore dell’insieme a cui appartiene.

Seta.

La fotografia di viaggio non è soltanto

Il senso di enfasi verso l’esotico, che pure

una salvaguardia della memoria, ma

stupisce sempre lo spettatore, prescinde

un’investigazione di ciò che si studia prima

dall’oggettività dell’osservare. Come mi disse

di partire. Anche l’approfondimento dopo

l’amico David: “Ci si esalta per un mercatino

ogni viaggio è una risposta per non cadere

delle pulci, ma nessuno, nella cabina di un

nella superficialità, anche se in verità più cose

aereo, si sorprende mentre stiamo volando

comprendo e più domande sorgono.

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Pakistan; Rawalpindi, sognando il mondo


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Etnia Kalash

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Etnia Kalash

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Pakistan; Peshawar, il gioco

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Etnia Balti

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Sirio Sartori Afghanistan; Kabul, venditore di aquiloni


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NE LLA BAT TRI A N A .

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L’antico nome di Battriana si ritrova per la prima volta nelle iscrizioni cuneiformi dei Persiani, nel lungo elenco dei satrapi assoggettati da Dario, nella forma di “Baxtris”. Nel corso dei secoli il territorio ha modificato più volte i propri confini, anche se potremmo definire vero e proprio cuore della Battriana il bacino alluvionale del medio corso dell’Amu Darya (l’Oxus dell’antichità), chiuso tra le grandi catene montuose dell’Hindu Kush e del Pamir. Le descrizioni dei geografi e degli storici sulla Battriana, furono raccolte dalle

testimonianze e dai racconti di mercanti, soldati ed ambasciatori che ebbero esperienze dirette in quel territorio. Già nel V secolo a.C. gli antichi ci parlano di una terra ricchissima, con città operose e fortificate, abitate da abili artigiani e da uomini colti. Attraverso le vie commerciali molta della preziosa produzione artistica della Battriana raggiungeva i lontani mercati d’Occidente, suscitando vivo interesse ed emulazione. L’arte orafa, la lavorazione dei lapislazzuli e dei rubini del Badakshan e gli oggetti in bronzo riportati


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alla luce dalle missioni archeologiche in questi ultimi anni, evidenziano l’elevato livello artistico e il potere economico che quelle città ebbero per lungo tempo. A diretto contatto con le vie settentrionali della Transoxiana, con le piste provenienti dalla Cina e dall’India, nonché transito obbligato per i mercati occidentali, la Battriana ha svolto un ruolo di primo piano nello sviluppo, nell’interscambio culturale ed artistico con gli altri paesi. I suoi ricchi empori erano la risposta vincente alle incertezze della storia, una visione sociale e politica di ampie vedute che diveniva il motivo di stabilità, sviluppo economico e culturale per quelle regioni. I recenti scavi archeologici eseguiti in questi ultimi anni hanno confermato l’antichità e lo sviluppo artistico di questi antichi mercati. Non è un caso che la più antica seta ritrovata al di fuori del Celeste Impero sia stata rinvenuta nel grande centro protostorico di Sapallitepe (secondo millennio a.C.). Il commercio rappresentava dunque il sistema portante di un complesso economico in costante sviluppo

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che faceva della Battriana oggetto di mire ed interessi da parte di prìncipi e re. Ed allora ecco che la storia di questo regno comincia a tingersi di colori tetri e foschi, dovuti a continue invasioni e guerre che hanno per secoli imperversato sulla Battriana, stravolgendone la seducente icona. Dopo gli Achemenidi fu la volta di Alessandro il macedone, poi dei popoli nomadi dell’Asia Centrale (gli Yuetzhi), i Kushana dell’India e gli Unni Bianchi (Eftaliti) della Transoxiana, che lasciarono a loro volta il passo all’espansione mussulmana dei secoli VII ed VIII. Marco Polo arrivò in queste regioni, quando i Mongoli avevano già conquistato, con mano davvero pesante, l’intero regno da alcune decine di anni. “Balaxiam è una provincia le cui genti osservano la legge di macometto e hanno parlare a sé; e certamente è un gran regno, che per lunghezza dura ben dodici giornate, reggesi per successione d’eredità cioè tutti i re sono d’una progenie, dal qual discese dal re Alessandro e dalla figliuola di Dario, re dei Persiani; e tutti quei re

Afghanistan; carovana in marcia verso il confine occidentale


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Etnia Durrani

si chiamano Zulcarnen, che vuol dure Alessandro. Quivi si trovano quelle pietre preziose che si chiamano balassi (Balahs è la forma popolare araba di badahsi “rubino” nda) molto belli e di gran valuta, e nascono nei monti grandi. Ma questo però è in un monte solo, il qual si chiama Sicinan, nel quale il re fa far caverne simili a quelle dove si cava l’argento e l’oro e a questo modo si trovano le pietre (...) in questo regno sono passi molto stretti e luoghi molto forti, in modo che non temono d’alcuna persona che possa entrar nelle loro terre per far loro danno (...) la proprietà di quei monti è tale che sono altissimi, di modo che un uomo ha che fare dalla mattina insino alla sera a poter ascendere in quelle sommità, nelle quali vi sono grandissime pianure e grande abbondanza d’erbe, arbori e fonti grandi di purissima acque..”. Nelle parole del veneziano ritroviamo tutto lo stupore nell’incontro con genti e luoghi inconsueti. Il corridoio del Wakhan è infatti il percorso più settentrionale che attraversava il territorio dell’odierno Afghanistan. La pista, ancora oggi un vero e proprio tratturo, seguiva l’andamento pedemontano del versante settentrionale dell’Hindu Kush tra scenari montani di rara suggestione e bellezza, terra dei nomadi Wakhi. Si giungeva così a Eshkashem (Ishkashim) nel Badakshan, la terra dei lapislazzuli. Le miniere furono così importanti e famose che viaggiatori di ogni tempo testimoniarono il proprio stupore di fronte a tanta ricchezza e meraviglia. “... veniamo condotti verso un angolo ombroso della valle, ai piedi della montagna. Guardiamo verso l’alto: una parete verticale ci sovrasta, come levigata da ripetuti passaggi ma impossibile ad essere percorsa da uomo. A quattrocento metri sopra di noi, nel centro della parete, si apre un buco della grandezza di una finestra a cui non vedo apparente possibilità di accesso, ma destinato evidentemente alla discarica della ganga, estratta dalle viscere della terra. Per centinaia di anni tonnellate e tonnellate di roccia sono state proiettate da questo salto ai cui piedi giacciono in sfacelo incoerente”. Così scrive R. Varvelli nel suo “Afghanistan” del 1966. A Fayzabad si trova finalmente qualcosa che possa ricordarci l’idea di una strada. È la grande pista che conduce a Taloqan e Kunduz, l’antica Drapsaka, il grande centro

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buddista del II secolo. Siamo nel territorio che per molti secoli vide a diretto contatto la civiltà della Battriana con quella Sogdiana. Una complessa rete di strade percorreva l’intera regione, collegando i centri battriani con le direttrici a nord dell’Amu-Darya. Erano le vie commerciali dove il lapislazzuli (basti pensare che la polvere del minerale era una vera e propria raffinatezza della cosmesi dell’antichità, veniva utilizzata dalle donne per colorare le sopracciglia), il turchese ed i diamanti raggiungevano le vie settentrionali per i mercati dell’intero continente. I ritrovamenti archeologici, hanno riportato alla luce, mercati e città che per molti anni furono luoghi strategici, importanti centri culturali ed empori commerciali. È il caso della città greco-battriana di AyKhanoum (l’antica Alexandria Oxiana delle fonti classiche), situata alla confluenza dei fiumi Kokcha (Kowkchec) e Pandj (Pjandz), ritrovata nel 1950 dalla missione archeologica francese che rivelò la presenza di una straordinaria oggettistica e di una raffinata architettura “ellenista” nel cuore dell’Asia, già nel III e II secolo a.C. Ci piace pensare che nel grande teatro della città, dove venivano rappresentate opere di Sofocle, Euripide ed Aristofane, ci fosse un pubblico cosmopolita, estremamente colto e ricettivo. Da Kunduz una pista scendeva verso sud ricollegandosi con l’itinerario proveniente dal passo del Khyber, presso la regione di Kabul. In quest’area si trovano straordinarie testimonianze di un ricco e glorioso passato. La vecchia città di Jalalabad circondata da alte mura difensive, con i suoi indimenticabili giardini, voluti dall’imperatore Moghul nel 1610; a pochi chilometri dal centro il complesso monastico buddista di Hadda, i cui tesori di epoca Kushana lasciano intendere l’elevato livello artistico e l’importanza culturale dell’area tra il I e il VII secolo d.C. Superata Kabul la pista si dirige sulla via meridionale dell’Afghanistan verso Ghazni, la cui storia e la cui importanza meriterebbero ben più di poche righe e della sola citazione dello strepitoso minareto di Masoud III del XII secolo. Abitata in epoche remote, la regione vide fiorire, sotto l’egemonia Kushana e grecobattriana, una tra le più belle e opulente città dell’Asia centrale. Importante centro buddista attorno al VII secolo fu luogo


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Afghanistan; Ghazni, il minareto di Masoud III, costruito nel 1115

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Afghanistan; Mazar-i-Sharif; la tomba di Ali e la moschea

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di feroci scontri con il popolo arabo che dovette combattere a lungo per convertire, con la forza, la popolazione locale all’islamismo. Le sue moschee e le scuole teologiche divennero in breve tempo importanti centri culturali e religiosi. Basti pensare che il famoso poeta persiano Firdusi scelse la città di Ghazni, per dare vita all’importante scuola teologica che ancora oggi tutti conosciamo. Da Kabul la pista centrale si addentra nel cuore delle montagne dell’Hindu Kush, uno tra i luoghi prescelti dai numerosi monaci buddisti provenienti dall’India per lo studio e le pratiche religiose. Qui si trova il famosissimo complesso di Bamiyan e le rovine della città di Markhana (Markandèh). La valle di Bamiyan sorge a circa 2.000 metri di quota in un ambiente idilliaco. Su una falesia, che delimita la valle a nord est, si trovano centinaia di grotte, molte delle quali affrescate e scolpite. Ma è la scultura del grande Buddha seduto, ben 35 metri di altezza, a lasciare il viaggiatore senza parole. Originariamente l’abito pieghettato del Buddha era azzurro, le

mani ed il volto erano dorate, noi possiamo solo immaginare cosa potesse essere questo straordinario monumento all’atto del suo completamento (III-VI secolo d.C.). La celebre principessa Roxane, sposa di Alessandro Magno, proveniva proprio da questa regione, che per secoli fu la culla di una raffinata cultura e luogo di grandi sfarzi e ricchezze. Da Kunduz la pista principale proseguiva il suo cammino verso occidente raggiungendo il cuore della Battriana: Mazar-i-Sharif e Balkh (Bactra). Oggi Mazari- Sharif è la città più importante dell’Afghanistan settentrionale, soprattutto per le recenti scoperte di giacimenti di gas naturale che hanno attirato l’attenzione del governo afgano e dei russi. Marco Polo scriveva di Mazar-i-Sharif: “...quivi hae i migliori poponi del mondo, e grandissima quantità; e fannoli seccare in tal maniera. Egli li tagliano attorno come corregge, e fannoli seccare, e diventano più dolci che mele”. Già nel passato Mazar-i-Sharif costituiva un centro carovaniero di notevole importanza


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e prestigio lungo le direttrici commerciali, e divenne la meta di pellegrinaggi per la presenza della tomba di un grande califfo. Alì, cugino e genero di Maometto, fu ucciso a Kufa in Iraq, dalle fazioni Omayyadi, e il suo corpo, come dice la leggenda, fu trasportato da un asinello che stremò sul luogo dove venne edificata la tomba (Mazar-i-Sharif significa “la Nobile Tomba”). Il bellissimo complesso architettonico del mausoleo e delle moschee, dalle luccicanti cupole in maiolica e ceramica verdeturchese, risale al XV secolo, ed è la precisa copia dell’originale, che venne distrutto dagli eserciti mongoli nel XIII secolo. bip, bip, bip. L’orologio da polso ci dà la sveglia. - È l’ora! - esclama Dino, mentre di scatto, è già alle prese con i pantaloni. Apro gli occhi a fatica, ho la testa pesante, la bocca impastata e solo voglia di dormire. - Venti alle quattro, dobbiamo sbrigarci, my friend! (amico mio) - incalza Dino. Con l’aiuto della fioca luce della torcia elettrica, che a stento illumina questa spoglia stanzetta, racimolo le mie cose,

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dapprima i pantaloni poi le calzature. Ci siamo, lo zaino è già pronto; frutto dell’esperienza. Percorriamo nell’oscurità il lungo corridoio di questo edificio che sembra addormentato in un alchemico incantesimo. Per un attimo il pensiero corre indietro nel tempo e provo ad immaginare lo stesso corridoio animato da ufficiali russi nelle attillate divise cachi, con i lucidi stivali neri e che si muovono affaccendati in questa “base operativa”, alle prese con un paese e con popoli caparbi, ostinati e difficili da sottomettere al volere del Soviet. Superiamo il piazzale antistante l’edificio e raggiungiamo il cancello; lì a fianco si trova una fatiscente guardiola dove il sorvegliante dorme un sonno tranquillo. Bussiamo più volte, chiamando Safat ripetutamente. Passano diversi minuti prima di ottenere una risposta, che sembra provenire dall’oltretomba. Si apre la porticina e dall’oscurità compare l’inconfondibile figura dell’afgano, avvolto nella coperta per la notte. Si passa più volte le mani sugli occhi cercando di uscire dal torpore del sonno, e continua a sbadigliare. Dino incalza in lingua farsi, chiedendo di far presto ad aprire poiché i

Afghanistan; Mazar-i-Sharif, un fedele sciita


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Afghanistan; il “nostro” autobus

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camion stanno per arrivare. La strada polverosa di Mazar-i-Sharif è completamente deserta, camminiamo di buon passo sotto il cielo stellato, una piacevole brezza ci fa dimenticare per un attimo il peso degli zaini. Sappiamo che con le prime luci dell’alba l’atmosfera sarà ben diversa; il caldo sarà insopportabile, il sole accecante e la polvere, come dicono qui, pronta ad entrare persino nelle uova. Nel piazzale, ancora avvolto nel torpore della notte, c’è un gran movimento. Uomini affaccendati nel legare e sistemare grandi sacconi che ben presto faranno parte del carico; donne e ragazzini alle prese con bagagli più piccoli e pentolame di ogni genere, mentre i bambini giacciono assonnati su qualche bagaglio già sistemato a puntino. Ci dividiamo l’ultima tavoletta di cioccolato ed i resti di pane azzimo della sera precedente, che saranno la nostra colazione ed il nostro pranzo fino a quando, nel tardo pomeriggio, il camion non sarà giunto a destinazione. Un rombo di motori ancora lontano mette tutti in agitazione. Uomini, donne e bambini prendono con sé i bagagli e si preparano “all’assalto” dei mezzi meccanici in arrivo. Le luci dei fanali annunciano

il loro arrivo. Sono tre camion “Gaz” di fabbricazione russa, che si fermano a poche decine di metri dalla folla. Adesso il via-vai della gente è divenuto caos. Le voci, il rombo assordante dei motori, il pianto dei bambini e i richiami, riempiono il buio della piazzetta. La nostra scelta cade casualmente sul primo dei tre mezzi, sembra il più grande, forse il più affidabile, chissà. Cerchiamo di farci spazio tra la folla. Sul cassone alcune persone continuano ad urlare e a sistemare enormi sacconi, dei quali ignoriamo il contenuto. Donne e bambini vengono aiutati, dai propri uomini, a salire sul cassone degli automezzi. Da sopra, altri uomini sbraitano e ricacciano indietro in malo modo i malcapitati. Alcuni cercano di salire dalle fiancate del camion contando sulla complicità dell’oscurità. Persino un’anziana donna, della quale ignoravamo l’agilità e il vigore, si arrampica sulla fiancata del camion, alla ricerca di una posizione favorevole. Sarà forse la forza della disperazione e dell’esperienza a spingere l’anziana a quell’atletico sforzo. Un posto vicino alla cabina del conducente, significa attenuare i disagi e le fatiche di un trasferimento “infernale”. Anche per lei non ci sono favoritismi. Alla


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fine l’anziana afghana è di nuovo in strada, insieme a noi, alla continua ricerca di un varco. Solo quando “i signori di sopra” avranno terminato di sistemare il carico, inizieranno le danze per i passeggeri. È il fatidico momento; si scatena il parapiglia. Dino salta, con balzo felino, sulla fiancata in prossimità della portiera, due rapidi spostamenti del bacino e conquista un posto “davanti”; mi affretto a passargli gli zaini senza perdere d’occhio la telecamera e le apparecchiature fotografiche. Poi recupero il tutto, lo passo al compagno mentre la folla chiassosa e pesante si stringe sempre più attorno al mezzo. Siamo a bordo, sopra i grandi sacconi, con gli zaini che fanno da sedile e le apparecchiature agganciate alle nostre cinture con cinghie robuste, per limitare gli scossoni e gli inevitabili colpi. Le mani sono saldamente attaccate alla sponda del camion. Siamo pronti. Ci vogliono almeno altri trenta minuti di spinte, spostamenti, grida ed assestamenti per completare il carico umano. Siamo circa quaranta persone, molte delle quali sono donne e bambini. Il camion è carico all’inverosimile. Vicino a noi c’è un ragazzo giovane. Dino lo saluta e poi gli chiede: - Com’è la strada fino ad Andkhoy? – parlando in farsi, che qui quasi tutti capiscono. - Kherab ast! Una rovina – risponde mentre la sua mano ondeggia drammaticamente davanti ai nostri occhi. Comincia ad albeggiare quando si parte. Scrolloni, sobbalzi, polvere e calura già si fanno insopportabili. Ci aspettano almeno dieci ore di massacrante trasferimento dove noi tutti, aggrappati ai sacconi e alle sponde metalliche, vivremo gli stessi sobbalzi, le stesse buche, nella stessa polvere, senza differenza di trattamento; tutti insieme. Secondo il geografo arabo Yakubi e nelle parole di Al Maqaddasi ritroviamo Balkh (Bactra) tra le città più importanti dell’altipiano iranico; rivale di Herat, Samarcanda e Bukhara, per ricchezza e splendore. Veniva chiamata Balkh alBahiyya (Balkh la bella), delimitata da tre cinte murarie concentriche, dove la più esterna misurava dodici parasanghe (circa settanta chilometri) ed i suoi bazaar erano frequentati da mercanti provenienti da tutto il mondo. Venivano descritti i numerosi templi del fuoco dedicati al culto

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mazdeo (alcuni cronisti videro in Balkh il luogo della nascita, altri della morte, di Zaratustra o Zoroastro) e il più importante centro di culto Nawbahar (il nuovo tempio) fondato dalla nobile famiglia persiana dei Barmakids. I geografi arabi sottolineano che questo centro religioso fosse, per importanza, secondo solo alla Ka’aba. Queste informazioni ci danno una chiara immagine della grandezza e dell’importanza di Balkh. Inoltre l’antica leggenda, ripresa dagli storici arabi, ci narra di Balkh come la mitica Umm al Bilad, la “madre di tutte le città”, la più antica città edificata al mondo, costruita da Caino o, secondo altre fonti, dal primo di tutti i re del mondo, Kuyumars. Di tutto questo splendore oggi rimane unicamente lo scheletro della cinta muraria in mattone crudo, consumato dall’erosione di acqua e vento, e le rovine della moschea verde costruita in epoca timuride (XV secolo). Ciò che non andò distrutto durante l’invasione degli eserciti mongoli nel 1220, è stato cancellato dai bombardamenti dall’aviazione e dall’esercito russo, in dieci anni di guerra. Oggi a Balkh ricomincia la vita e, in locali fatiscenti, persino l’istruzione ricomincia a muovere i primi passi verso un futuro pieno di incognite. Mentre una pista lasciava Mazar-i-Sharif diretta a nord verso Termez lungo le vie settentrionali, la pista che muoveva verso occidente, entrava nel territorio

Afghanistan; l’antica città di Balkh e la sua tripla cinta muraria difensiva


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Enclave araba in Afghanistan

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dove le grandi carovane si muovevano utilizzando il cammello battriano. Si tratta di un animale da soma di grande taglia, con zampe robuste, adatto a terreni pietrosi e al superamento di alti valichi montani. Un animale particolarissimo che a differenza del dromedario, che soffre il freddo ed ha zampe fragili, venne utilizzato sin dall’antichità, dai popoli dell’Asia settentrionale. Il geografo francese Xavier De Planhol riporta nel suo libro “Il mondo dell’Islam”, che gli Arabi ignoravano i territori al di là delle grandi montagne e che durante la loro espansione in Asia, i loro dromedari non poterono superare gli alti passi montani e sopportare i rigori del clima, imputando all’animale da trasporto, il limite delle conquiste arabe nell’Asia Centrale. Nel tratto di pista tra le città carovaniere di Shebargan e Andkhoy si trovano ancora i discendenti delle legioni arabe che dominarono per lungo tempo sulla Battriana. Vere e proprie “enclavi” in una realtà dove Uzbeki, Turkmeni, Tajiki, Pasthun e Dari, costituiscono i gruppi

etnici maggioritari. Le comunità arabe, dalle inconfondibili tende nere, mantengono un totale distacco sociale nei confronti delle altre realtà etniche della regione, nel timore di perdere la propria identità culturale e morale di “seyyed”, vale a dire discendenti diretti del Profeta, e limitando il contatto con gli altri gruppi, alle esigenze di scambio e commercio. E anche l’ultima buca è stata superata. Il camion si ferma a pochi passi dalla piazza centrale del villaggio di Maymanà. Sono le quattro e trenta del pomeriggio, siamo esausti, affamati, assetati e sporchi di polvere impastata dal sudore. Scarichiamo gli zaini e ci dirigiamo verso l’unica chaihana (casa da tè) dove forse, potremmo trovare un pò di cibo e del tè. Meloni e pulau (si tratta del piatto tipico afghano; arrosto di carne di pecora con riso e uvetta) mi traduce Dino, sono le uniche cose disponibili. Ordiniamo due porzioni di pulau e ci affrettiamo a divorare succosi meloni, uno dopo


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l’altro, per placare la nostra fame e sete arretrata. Attorno a noi c’è già una piccola folla incuriosita. Siamo troppo occupati a tagliare, pulire e mangiare meloni per renderci conto degli sguardi e dei commenti dei presenti. Ma rimaniamo davvero stupiti quando ascoltiamo, in un inglese impeccabile - Benvenuti a Maymanà. Da dove venite? Posso presentarmi? Il mio nome è Saif Alawad figlio di Marbek Urud, signore di Maymanà. Rimango con il boccone sospeso a mezz’aria, il giovane davanti a noi indossa abiti puliti e raffinati, da vero nobile, ha un viso curato, incorniciato da una lunga barba e da uno splendido copricapo multicolore. Terminiamo il nostro pulau e ci accingiamo a saldare il nostro debito con l’oste, ma il giovane Saif sorride dicendo che qui siamo suoi ospiti e non dobbiamo preoccuparci. Ci invita a seguirlo offrendoci ospitalità per la notte. Muoviamo pochi passi raggiungendo una casa diroccata poco distante. Ci invita ad attendere. Passano pochi attimi ed ecco che il rumore di un motore a scoppio anticipa l’arrivo di una jeep, che si ferma proprio davanti a noi. Il conducente scende rapidamente, salutando con reverenza il giovane Saif e i due forestieri. Carica i bagagli mentre il nostro ospite sale alla guida. Prendiamo posto tra sorpresa, sospetto e fascino per quanto ci sta accadendo. L’auto svolta in un lungo viale alberato sul fondo del quale un grande cancello metallico ci sbarra il cammino. Due uomini armati di kalashnikov, al semplice cenno del giovane Saif, si affrettano ad aprire. Entriamo in un ampio cortile e ci fermiamo di fronte all’edificio

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principale che intuiamo debba essere la dimora del nostro ospite. Ci sono molti uomini armati ed alcune donne velate che stanno attingendo acqua dal pozzo. Saif ci spiega che l’esercito del padre è l’unica sicurezza per la sopravvivenza in un paese dove la tradizione e le regole d’onore sono state sostituite dalla corruzione, dall’avidità e dalla violenza. Entriamo con lui, mentre alcuni uomini si occupano del nostro bagaglio; un’inserviente esce dalla porta principale ed aiuta Saif a togliere le calzature, noi provvediamo da soli. Chiediamo di poter lavarci per poterci presentare in modo dignitoso davanti a suo padre. In un attimo arrivano gli inservienti con due secchi d’acqua calda e sapone, russo! Dopo mezz’ora siamo puliti e rassettati pronti all’incontro, la fatica del tormentato viaggio è già nel dimenticatoio. Siamo troppo eccitati ed incuriositi per ciò che ci aspetta. - Qui può accadere di tutto. - sottolinea giustamente Dino, mentre io rimango ancora perplesso per quanto stiamo vivendo. L’ampio salone è completamente coperto di tappeti e cuscini colorati. Alle pareti sono appesi arazzi, grandi scimitarre e scudi. Scarsa la mobilia ma curata e soprattutto, ci sorprende la pulizia della casa. La stanza è illuminata da due grandi lampa- de a petrolio, di fabbricazione russa, appese al soffitto. Una decina di uomini è seduta in semicerchio e ci osserva incuriosita; Saif si alza dal gruppo e ci invita a prendere posto vicino al padre. È una figura imponente, nobile nell’aspetto e nello sguardo. Veste con il caratteristico

Afghanistan; regione di Maimanà, etnia Uzbek


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La fortezza medioevale di Herat

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abito, il kosai, con l’immancable kamiz (il camice a maniche lunghe) e il waskat (il tipico gilet). Dino traduce in “farsi” chi siamo, da dove veniamo, quali sono le nostre intenzioni e ringrazia Murbek Urud e Saif per l’ospitalità. Il padre risponde, con tono autorevole, tranquillo e pacato; Saif traduce, dando prova della sua dimestichezza con l’inglese. Ci danno il benvenuto e ringraziano il popolo italiano per aver dato ospitalità al re dell’Afghanistan. Ci guardiamo negli occhi cogliendo la stessa domanda - E chi lo sapeva? - Uno degli uomini alla destra di Murbek Urud, batte le mani per richiamare qualcuno e, dopo pochi istanti, inservienti con grandi vassoi ricolmi di frutta fresca, carne e riso, entrano nella stanza depositando la cena luculliana proprio al centro del semicerchio. Per ultimo arriva l’immancabile chaj (té). Le note di un flauto e di una dotar catturano la nostra attenzione. Due musici nell’angolo più lontano della stanza, eseguono musiche tradizionali della regione; suoni antichi e soavi. Saif ci dice che tutto questo è segno di ospitalità e di rispetto verso gli ospiti. Dino mi guarda, mentre avvicina l’ennesima

tazza di té alle labbra, sorride e mi sussurra: - E questo a chi lo raccontiamo? Le tre grandi piste che attraversavano l’odierno Afghanistan, convergevano su uno dei più importanti centri commerciali della via della seta, si tratta di Herat, l’antica Alexandria Ariorum. La sua cittadella fortificata al centro dell’abitato, la moschea azzurra ed il caravanserraglio, la grande fortezza ed i magnifici filiformi minareti di epoca timuride, prossimi al mausoleo di Jawhar Shad, sono quanto rimane dell’importante centro culturale del passato, dopo anni di guerre, distruzioni e violenze di ogni sorta. “Il bazar coperto di Herat è una provinciale versione edoardiana di un’antica agorà. Non c’è luogo miglior e per capire che cosa fosse un centro commerciale in età ellenistica, con i settori divisi in base al tipo di mercanzia, le visite di cortesia da una bottega all’altra, le contrattazioni, l’affollamento e i beni d’importazione (...) dentro i negozi bui vicino al castello lavorano i tessitori di seta. Sono relegati negli angoli delle stanze occupate al centro da enormi e rumorose spole


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rotanti di legno; mi sarebbe piaciuto chiedere se erano ebrei o armeni, o se la loro fosse ormai diventata un’attività tipica di Herat, ma sembravano così concentrati che non osai interromperli con una domanda che poteva sembra offensiva”. (Peter Levi; “Il giardino luminoso di Re Angelo”). Basta passeggiare per i numerosi bazaar del centro per rendersi conto di come la volontà di queste genti, attente e scrupolose nei loro affari, sia tutt’altro che assopita o rassegnata. Riflettiamo sulla nostra esperienza con il popolo afghano, sulle indimenticabili avventure che abbiamo vissuto e sulla nostra fortuna di essere qui, in questo preciso momento. Concludiamo la visita della città con la speranza che per tutti i popoli dell’Afghanistan vi sia un futuro migliore e sereno, un periodo di pace che da molto tempo manca nella terra di Battriana. ■

Afghanistan; etnia Uzbek

Bambini nell'enclave araba


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Etnia Pashtun

Afghanistan, viaggiando con l’ironia in tasca.

è il modello uscito subito dopo la macchina dei Flintstone, dopo l’ultima era glaciale. Ma il pezzo forte dell’agenzia è l’autobus. Dopo dieci minui di svolta a destra e svolta a sinistra, vedo il nostro “cruiser”; rimando il lettore alla foto, le parole non potrebbero mai rendere l’idea del mezzo meccanico di cui sto parlando. Passata Barchi, Kabul continua ad esistere sulle mappe del catasto, ma in realtà la città qui è ben altra cosa. È il distretto Hazara, l’etnia onnipresente nelle barzellette afghane, e dove il cambiamento/adattamento urbanistico e il “ehh, caggià fah!!!” partenopeo, sono di casa. Saranno mica parenti? Dopo 4 ore di sabbia, continue soste per pulire il filtro dell’aria, aggiungere acqua al radiatore e riavvitare qualcosa, la Flintstone Mobile 2, si ferma nel villaggio di Chissà-chi-lo-sa. Scendo e mi aggiro tra le casupole di fango essiccato cercando un segno di vita, qualche essere vivente. Ed ecco che le parole dell’amico David riaffiorano nella

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mia testa: “... ricorda, quando sarai da solo in un

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villaggio afghano, non ci sarà nessuno intorno a te; ma nel momento in cui dovrai pisciare o fare una foto ti troverai circondato da persone che non hai visto arrivare da nessuna parte”. Detto,

“Q

fatto. Alla fine sono nella casa del vecchio Fahim, un’istituzione del villaggio. La famiglia è davvero numerosa; ma soprattutto non vengo a capo della loro complicatissima parentela. nel secondo chiedevano una cifra spropositata

Lucia dove sei finita!? Il vecchio mi dice di

persino per un hotel a Zurigo. Avevo infine

essere il genero della donna con il chador

trovato riparo in una piccola stamberga nella

rosso, che dimostra almeno vent’anni meno di

periferia nord della città; muri scrostati,

lui. Allora la Polaroid viene in aiuto. Due scatti-

rete e materasso modello amaca, una lurida

ritratto della famiglia al gran completo, e vitto e

poltroncina giunta al termine della propria

alloggio per la notte sono assicurati.

esistenza e un armadio a cui mancava l’anta e

Lascio questo Paese davvero affascinante

uesta era una terra in cui gli spiriti correvano

un ripiano. Per un attimo mi sentivo catapultato

e sorprendente, mi rammarico di non poter

liberi ed elevati e una fiera esuberanza riempiva

nel 1992 e aspettavo che Dino e David, da

visitare le zone dove i Nostri erano passati nel

l’aria, soffiando via l’arida logica e l’ottusa

un momento all’altro, bussassero alla porta.

lontano ‘93. Le guerre, le mine anti-uomo, i

ragione, facendo sembrare possibile ogni

La mattina seguente ero già in cerca del

mille pericoli disseminati su questo territorio,

cosa”. Ritrovo nelle parole di Robert Schultheis

famigerato albergo dove gli amici avevano

mi fanno pensare ai secoli di usurpazioni,

l’essenza dell’animo afghano, mentre dal

soggiornato più di vent’anni fa.

dolori e sofferenze di ogni tipo, che questi

finestrino del taxi guardo per l’ultima volta la

A Kabul incontro Amid, mentre sto girovagando

popoli hanno dovuto costantemente subire.

cupola turchese del mausoleo di Hazrat Ali.

nei pressi dell’ospedale Indira Gandhi. Sparlotta

Un ragazzino, appena uscito da una scuola

Una perla scintillante avvolta nella polverosa

inglese, e dopo dieci minuti abbiamo già

desolata e fatiscente, scrive e disegna qualcosa

atmosfera di una massa disordinata che da

fondato un’agenzia viaggi, stabilito il primo

sul muro perimetrale. Il suo gesto, immortalato

secoli sogna pace e tranquillità. Arrivato a

tour, il mio, e concordato per un happening

nello scatto della mia Nikon, è più eloquente di

Mazar-i-Sharif per prima cosa avevo cercato

promozionale della nuova società. La mattina

qualsiasi reportage giornalistico.

un albergo. Dal primo mi avevano cacciato,

dopo, puntualissimo, arriva Amid, la sua auto


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Afghanistan; famiglia Pashtun

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Afghanistan; per le strade di Taloqan

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Afghanistan; Kabul, il “criuser”di Amid

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Afghanistan; Herat, bambini Hazara

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Afghanistan; Balkh, disegnare la guerra

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Stefano Rosati Azerbaijan; Ateshgah, in cammino verso i luoghi sacri


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L'altipiano iranico ha la forma di un triangolo compreso tra le due depressioni del Mar Caspio a nord, e del Golfo Persico a sud. Guardando la carta dell'Asia, l'Iran sembra un vero e proprio ponte gettato tra oriente ed occidente, e una tale posizione geografica fa capire subito perché questo tratto d'Asia fu chiamato a svolgere una funzione storica di primaria importanza nel corso dei millenni. Benché l'altipiano iranico sia in gran parte desertico, la sua fascia meridionale è stata per lungo tempo il territorio di passaggio fra la “mezzaluna

fertile” della Mesopotamia e la pianura del Gange, rendendo possibili gli scambi e le comunicazioni tra le civiltà dell'Asia Anteriore e quelle del mondo cino-indiano. La fascia settentrionale si trova invece a diretto contatto con il mondo delle steppe attraverso le carovaniere del Khorasan, della Battriana e del Caucaso. Ma se l'Iran, per la sua posizione, fu per lungo tempo terra di transito, è altrettanto lecito affermare che fu anche la terra di grandi culture e civiltà. La sua storia è un continuo susseguirsi di


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grandi trionfi e famigerati fallimenti, un alternarsi di governi illuminati e di sovrani ambiziosi e incompetenti. Quando Ciro il Grande nel 558 a.C. fondò l'impero Achemenide con il suo popolo degli Arya, nomadi conquistatori provenienti dall'Asia centrale, iniziò per la Persia uno dei momenti di maggior splendore ed importanza geo-politica sul palcoscenico del mondo conosciuto. Se con Dario I e Serse, la Persia conobbe la sua massima espansione, vivendo poi alterne vicende, la sua storia ci racconta che per lunghi secoli l'egemonia sui traffici commerciali ed il controllo su gran parte delle merci in transito, furono ad appannaggio degli abitatori di queste regioni. Tutto ciò fino a quando arrivarono i mongoli. Gli eserciti di Gengis Khan portarono spesso morte e devastazione ovunque andarono, dalla Cina alle pianure dell'Ungheria, ma mai come in Persia, dove gran parte delle città nella regione settentrionale del Khorasan vennero distrutte e i loro abitanti letteralmente annientati. Alcuni storici calcolano che attorno al XIII secolo quelle regioni erano abitate da circa due

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milioni di individui e dopo l'invasione mongola gli abitanti fossero poco più di 250.000. Anche i cronisti arabi ci danno dati sconcertanti (anche se sicuramente esagerati) dell'eccidio delle popolazioni della Persia ad opera dei mongoli. Nelle parole dello storico persiano Mustawfi ritroviamo l'immagine della tragedia vissuta ai tempi della conquista: “...che se per mille anni nessun disastro si abbattesse sul paese non sarà possibile riparare il danno e riportare la terra allo stato in cui era prima”. Non appena i loro eserciti ebbero preso possesso della Persia ed insediato i loro governi militari, i massacri cessarono. I loro generali si resero conto che lo sfruttamento del paese poteva dare risultati migliori favorendone l'operosità, e non attraverso la carneficina sistematica. Così le città vennero ricostruite e ripresero l'agricoltura ed il commercio. Ciò che accadde in quegli anni fu qualcosa di veramente particolare. Già dai primi anni del XI secolo erano iniziate, lungo le antiche vie carovaniere, migrazioni di popoli turchi dalle distese dell'Asia

Iran; provincia del Fars, una delle imponenti tombe achemenidi scavate nella roccia a Naqsh-i-Rustam


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Iran; Mashhad, la città sacra, l'ingresso al mausoleo dell'Imam Reza

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Centrale verso il Medio Oriente. Tra le truppe gengiskanidi che attaccarono la Persia, i turchi erano di gran lunga più numerosi dei mongoli ed al loro seguito arrivarono intere famiglie, enormi mandrie di cavalli, capre, cammelli e pecore. I guerrieri turchi si riunirono sotto il vessillo di Gengis Khan a decine di migliaia, in parte perché i mongoli li avevano sconfitti, e in parte perché le terre a sudovest offrivano pascoli abbondanti e migliori

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condizioni di vita. Così quando le città di Kermann, Shiraz e Tabriz rimasero fuori dall'interesse dei khan mongoli a causa del loro clima torrido, le loro porte si aprirono pacificamente ai nuovi stranieri, e si potè assistere ad un processo di interscambio culturale che ebbe come elemento catalizzatore il credo religioso. Di fatto i capi mongoli e le genti turche andarono progressivamente assimilando i costumi e la cultura persiana a un livello di integrazione che non si verificò mai nelle altre regioni da loro conquistate. Si poté assistere in quegli anni ad una vera e propria sintesi di elementi persiani, turchi, arabi, cinesi e persino tibetani, che diedero vigore ad una nuova cultura. Ghazan, il settimo Ilkhan (vice Gran khan - 1295-1304) si convertì all'Islam, dopo essere stato prima nestoriano e poi buddista, decretando la fede musulmana religione di stato. Precisamente fu proprio sotto il regno di Ghazan e dei suoi due successori, che la Persia ritrovò gran parte della sua energia. Lo storico Rashid Al Din (XIII secolo) nella sua monumentale opera “Compendio di Storie”, ci parla di uno spirito internazionalista del governo mongolo di quegli anni, con una visione ad “ampie vedute” che non solo rese possibile il transito/assimilazione di nuove tecnologie e concetti filosofici (che fecero del regno degli Ilkhan un nuovo centro delle vie commerciali del continente euroasiatico), bensì divenne polo di richiamo per centinaia di ingegneri, commercianti, dottori, filosofi ed artisti che trovavano nella nuova Persia il luogo più favorevole ai loro scopi. Su quello straordinario “ponte” che Gengis Khan e i suoi successori avevano gettato attraverso steppe, pianure e montagne dell'Asia, si potè assistere ad un momento “magico” per i traffici commerciali carichi quanto non mai, di fervide idee innovative. - Così andate a Mashhad. Aspettate qui, non muovetevi, tra poco partiamo. Nel frattempo caricate gli zaini dietro al cassone. - Esclama l'aitante autista iraniano dai baffi da carabiniere, mentre si allontana. Con Dino sistemo gli zaini utilizzando le grosse corde che legano il carico di pelli di pecora, increduli che qualcun'altro oggi, venerdì, attraversi la frontiera di Eslam Ghalhè diretto verso Mashhad. Già pensavamo di trascorrere la


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notte qui, in questo sconsolato luogo desertico, nell'attesa di qualche camion per l'indomani. Invece la buona sorte ci ha strizzato l'occhio per l'ennesima volta. L'entusiasmo del passaggio ci fa dimenticare le quattro interminabili ore durante le quali i doganieri iraniani hanno controllato ogni minuteria del nostro bagaglio alla ricerca di materiale pornografico (per la legge persiana, la foto di una donna in bikini è pornografia!) e naturalmente in cerca di droga ed armi, nonché la curiosità di ispezionare un bagaglio “europeo”, nella speranza di qualche gradito “regalo”. Seduti all'ombra del tetro edificio doganale attendiamo il nostro driver. Dopo mezz'ora Dino parte alla ricerca dell'iraniano. Accendo l'ennesima sigaretta, l'ultima del pacchetto, immaginando la doccia rinfrescante che mi attende a Mashhad. Il fido compare arriva sconsolato, borbotta qualcosa da lontano, com'è nel suo stile quando è arrabbiato. - Sta mangiando con i doganieri! Di partire non ce l'ha neanche per la testa. Chissà quando ci muoveremo da qui - esclama il mio compagno di viaggio. Tiro fuori dallo zaino il mio diario; almeno metterò a buon frutto l'attesa. Passano altre tre ore quando ormai rassegnati vediamo arrivare sorridente, come se si fosse trattato di alcuni minuti, il nostro “benefattore”. Dino brontola qualcosa, come fa la zuppa di fagioli che bolle sul fuoco, poi chiosa: - Beh almeno siamo in cabina di guida e non sul cassone. Mai avevo considerato l'asfalto stradale una straordinaria e piacevole invenzione della modernità. Siamo seduti su un vero e proprio sedile, senza l'assillo degli scrolloni e delle buche, mentre il camion viaggia ad oltre settanta chilometri orari. Mi sembra di volare. L'autoradio diffonde, a volume regolato da noi, una musica rilassante; mi assopisco, come cullato tra morbide braccia. Devono essere trascorse alcune ore quando mi sveglio di soprassalto. Dino urla qualcosa e si agita tenendosi forte alla maniglia della portiera. Fuori è notte, ci sono luci artificiali dappertutto, punto istintivamente i piedi contro il pianale e vedo la fiancata di un carro carico di frutta stamparsi sul parabrezza del camion. Tutti cominciano a urlare con veemenza. Dino mi guarda, - Tutto bene? Mi guardo le gambe per controllare il mio stato fisico e naturalmente controllo la borsa delle macchine fotografiche e degli

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obiettivi, letteralmente saldata tra le mie braccia. - Tutto ok! - rispondo, mentre il mio prode compagno è già sceso in strada per recuperare i nostri zaini. Scendo e mi rendo conto che siamo al centro di un incrocio di quella che presumo sia la città di Mashhad. Ci sono begli edifici illuminati, vetrine ricolme di ogni tipo di prodotti, e il frastuono di automobili che si muovono nervose cercando di superare l'ingorgo creato dall'incidente. Il nostro autista sta urlando,

Iran; Mashhad, achitettura islamica


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Iran. Kermann vista dal tetto dell'antico caravanserraglio

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sbracciandosi a più non posso, nei confronti del malcapitato conducente del carro trainato da un malandato asinello. C'è un gran parapiglia di curiosi attorno ai mezzi, che naturalmente prendono le parti ora dell'uno ora dell'altro, facendo solo più confusione. Fortunatamente non ci sono feriti ma solo pomodori spappolati e ciò che rimane delle casse di frutta, scaraventate un po' dappertutto. Prendo il mio zaino e come attratto da un richiamo lontano, mi giro verso il fondo della strada. Il chiasso dei clacson delle auto e le urla dei curiosi si ovattano in un soporifero vortice; lontano scorgo minareti e moschee illuminati da grandi fasci di luce. Sono sopraffatto e affascinato da una grande cupola d'oro ed un altissimo minareto; sembrano luccicare di una luce propria, vivida e iridescente. Attorno scorgo il recinto sacro dove si trova la tomba dell'Imam Reza del quale avevo tanto letto e immaginato. Scuole teologiche, moschee, biblioteche, iwan, e grandi cortili, una vera e propria cittadella medioevale, dalla forma circolare del diametro di circa trecentocinquanta metri, nel cuore della

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moderna Mashhad. È questa la meta dei numerosissimi pellegrinaggi di fedeli provenienti da tutto il mondo islamico, severamente proibita ai non mussulmani. Ma ecco riaffiorare i suoni e i rumori urbani, riemergo dal torpore onirico, ora mi sento meglio, riaffrancato, pronto per l'avventura in Persia. Mashhad rappresentava un crocevia importante lungo le antiche rotte commerciali; qui si riunivano la pista proveniente dalla Margiana (nell'odierno Turkmenistan), la via proveniente dalla Battriana (Afghanistan) e le numerose piste che provenivano dai porti del sud della Persia attraverso le regioni di Yazd e Kerman. Alla città capoluogo della regione del Khorasan è legato il binomio storico di grande centro religioso e di ricco centro commerciale. La città crebbe attorno alla storia-leggenda dell'Imam Reza, ottavo Imam sciita nonché erede del califfato Abbaside, che qui visse predicando fino alla sua morte nell'817 d.C. La sua tomba divenne da subito la meta di pellegrinaggi; Mashhad-i-Moghaddas, nome completo


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della città, significa appunto “la Sacra città” ed è una delle due dell'Iran; l'altra è Qom. Solo durante il periodo Safawide (secolo XVI) il mausoleo d'oro dell'Imam divenne quel luogo così importante del mondo islamico, come oggi lo conosciamo. Attorno a questa importante figura del credo musulmano, che richiamava gente da tutto il centro Asia, si svilupparono nel corso dei secoli i traffici commerciali, facendo del centro carovaniero un vero e proprio by-pass tra le rotte centrosettentrionali e quelle meridionali. L'altra pista proseguiva verso occidente seguendo un doppio cammino. La via principale muoveva verso Teheran e Qazvin passando a sud delle montagne dell'Alborz, mentre l'altra seguiva parzialmente il corso del fiume Rud-iAtrak per raggiungere le regioni del Mar Caspio. Quest'ultima superava Turang Tappè, antichissimo insediamento già abitato nel IV millennio a.C. che divenne per lungo tempo importantissimo centro di produzione di ceramiche, non lontano dal quale si trova il famoso muro di Alessandro (Sadd-i Eskandar). Costruito probabilmente attorno al VI secolo d.C. (e quindi non da Alessandro Magno) come baluardo difensivo contro le tribù nomadi del nord, della grande costruzione rimangono oggi solo tratti delle fondamenta e poche decine di metri dell'antico muro notevolmente danneggiato. La via carovaniera seguiva la costa del Mar Caspio per raggiungere Baku nell'Azerbaijan volgendo poi a nord verso le “porte di ferro” della città di Derbent. Le piste che lasciavano Mashhad dirette al Golfo Persico raggiungevano Kerman e Yazd, centri della religione mazdea (di Zarathustra) che ancora oggi conservano centri di culto con migliaia di seguaci tollerati dal credo islamico. Importanti centri carovanieri sulla “Via della Seta” (Yazd contava ben otto bazaar) facevano della produzione di raffinati tappeti la loro maggior fonte di ricchezza. Soprattutto la vicinanza ai porti del Golfo Persico favoriva il continuo transito di carovane e carichi, garantendo prosperità economica alle due città. Siamo appollaiati sul tetto della Moschea del Venerdì. Diversamente dalle altre città iraniane, l'architettura dell'antico centro carovaniero si è in gran parte conservata,

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rievocando l'atmosfera dei tempi passati. I tetti sono costellati di piccole strutture simili a torrette. - Sono i badgir – mi dice Dino; che qui gioca in casa, avendo trascorso due anni in Persia ai tempi dello Scià. - sono un sistema ingegnoso per rinfrescare gli ambienti e le diverse stanze all'interno dell'edificio. - e poi aggiunge: - l'aria entra attraverso le griglie, quelle nascoste sotto le cornici in rilievo decorate, e convogliata in stretti canali muniti di alette che funzionano da radiatore. Vedi là in fondo, c'è una torretta all'entrata e una all'uscita dell'edificio, per creare circolazione d'aria. Ma i persiani mica se lo sono inventato, hanno rielaborato il sistema di raffreddamento dei vecchi frigoriferi dei Babilonesi. - frigoriferi babilonesi? – intervengo alla lezione, pensando che l'amico stia improvvisando o esagerando. - certo, un sistema simile, ma a spirale, manteneva la temperatura fresca e costante nell'ampio pozzo scavato, correndo attorno all'edificio conico che

Iran meridionale; i caratteristici “frigoriferi”, come nell'antica Babilonia

Iran; un mullah


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funzionava da frigorifero, proprio così, da frigorifero. - lezione terminata. Annoto sulla mia Moleskine e, truffaldinamente scrivo tra parentesi: “da verificare”.

Iran; provincia di Kermann, le rovine della città carovaniera di Arg-i-Bam

Uno dei più importanti centri lungo queste direttrici verso il Golfo Persico era sicuramente quello di Bam (Arg-i-Bam). “Poiché il legname e la pietra in Persia sono assai scarsi, in generale tutte le città, con eccezione di poche case, sono fatte di terra o sorta d'argilla così compatta da potersi facilmente tagliare, quasi un'erba di giusta consistenza. A seconda dell'altezza desiderata, si procede ad erigere muri a letti, ovvero strati, ognuno alto tre piedi, intervallati da due o tre file di mattoni cotti al sole. Tali mattoni vengono modellati mediante uno stampo quadrato alto tre dita e largo sette od otto pollici, e affinché non si incrinino seccando al sole, o si spacchino per il grande calore, li si ricopre con paglia tritata. Una volta asciugato il primo strato si erige il secondo, che deve risultare meno largo di quello inferiore, e

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così via per i successivi. Se però non si sta attenti, a volte queste opere innalzandosi si riducono a tal punto di spessore che al quarto o al quinto strato non ve n'è più a sufficienza per sovrapporne un altro. Le costruzioni fatte di mattoni cotti al sole sono abbastanza esatte; una volta eretto il muro, l'operaio lo ricopre di intonaco fatto dell'argilla di cui ho parlato mescolata a paglia, di modo che, copertine tutti i difetti, la parete appare del tutto liscia.” Così scriveva J.B.Tavernier nel suo “I sei viaggi in Turchia e Persia” nel 1664. Queste parole riferite alla cittadella di Arg-e-Bam ci descrivono la tipologia dei centri carovanieri che si potevano incontrare in queste regioni. Anche se oggi Bam è solo una città fantasma situata a pochi chilometri di distanza dal centro di Baravat, la sua origine risale presumibilmente all'epoca Sasanide, mentre alcune delle strutture ancora oggi visibili tra le rovine risalgono agli inizi del XII secolo. La maggior parte della città di fango è comunque di epoca Safawide (secolo XVI), ultimo periodo in cui il


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centro carovaniero svolse il suo compito di emporio e posto tappa, prima di essere definitivamente abbandonato per via dei nuovi traffici lungo le vie marittime. Ma la cosa sorprendente è osservare che le grandi mura e le ricercate volte della fortezza sono state realizzate unicamente uilizzando fango essiccato, come il Tavernier descriveva dettagliatamente nel suo scritto, e che ancora sfidano il corso del tempo. “E sappiate che la città di Syras (Shiraz nda), che 'l detto Ugurlimahamet aveva tolta al padre, è la più nobil città di tutta la Persia, ed è nel fin della Persia alla via di Chirmas, ed è una città murata di pietre, volge venti miglia, e fa duecentomila uomini. Vi si fanno molte e diverse mercanzie, e fra l'atre cose vi si fanno arme, selle, briglie, e tutti li fornimenti così di uomini come di cavalli, e ne fornisce tutto il Levante, la Siria e Costantinopoli”. Sono le parole di G.M.Angiolello tratte dalla “Breve narrazione della vita e dei fatti degli Scià Ussun Hassan e Ismaele” del 1490. L'emerito professore inglese Edward Granville Browne, colui che ha creato la School of Living Language of Asia alla Cambridge University, così scriveva

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nel suo memorabile “A year amongst the Persians” del 1893: “Ripenso alle tre settimane che ho trascorso a Shiraz con piacere purissimo. I collegamenti culturali che suscita sono noti ad ogni studioso; ho già debolmente tentato di dipingere le sue bellezze naturali, i suoi abitanti più sagaci, i più ingegnosi, i più vivaci tra tutti i Persiani ed anche la loro parlata fino ad oggi è la più pura e la più melodiosa”. Città natale dei grandi poeti Sa'dì (XIII secolo) e Hafez (XIV secolo), nonché capitale dell'Iran tra il 1753 ed il 1794, Shiraz divenne sinonimo di cultura e raffinatezza già dal lontano Medioevo. Città dai grandi viali alberati situata in una fertile valle a 1500 metri di quota, caratterizzata da un clima gradevole, è riconosciuta come una delle più piacevoli città dell'intero Iran. Risparmiata dai mongoli e da Tamerlano, Shiraz divenne un centro artistico e un polo di studi di notevole importanza mantenendo fiorentissimo il traffico delle merci lungo le principali direttrici commerciali per Isfahan, Baghdad, Kerman, il Golfo Persico e le vie marittime. L'intera regione del Fars conobbe sin dall'antichità momenti di grande splendore ed importanza sul

Iran; Shiraz vecchio Hamadan nel centro della città


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Iran; Persepoli, bassorilievi della Grande Apadana

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palcoscenico mondiale. Pasargade, Persepoli, sono nomi che ognuno di noi ha sentito più volte echeggiare nei racconti leggendari o nei libri di viaggi e in quelli di storia. È la regione dove si trovano le più importanti vestigia del passato degli Achemenidi, gli antichi persiani. È una storia che inizia nel lontano VII secolo a.C. quando le tribù persiane scesero nell'altipiano iranico iniziando le loro campagne di conquista. Fu un processo di continua trasformazione culturale sociale ed economica quello che la storia ci racconta di queste regioni. Dal tradizionale pastoralismo nomade gli Achemenidi iniziano a trasformare il loro modello sociale divenendo sedentari e straordinari edificatori di grandi città. La dimostrazione storica ce l'abbiamo di fronte alle imponenti vestigia di Masjidi-Soleyman; non solo queste costruzioni ci danno prova dell'audacia con cui gli architetti persiani hanno perseguito un tale progetto architettonico d'insieme, bensì l'espressione di una nuova volontà e di nuovi valori che acquistano sempre più importanza nella loro trasformazione sociale e culturale. La conquista di popoli, tra i quali i Medi e gli Elamiti, pose difatti

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i persiani a diretto contato con modelli di pensiero e culture che non potevano essere spazzate via dalla foga della conquista di un popolo guerriero, ma divennero fermento di un lungo processo di evoluzione culturale che possiamo osservare in tutta quell'affermazione artistica della storia persiana. Gli achemenidi non fecero un “pot-pourri” delle conoscenze acquisite durante le loro conquiste, la loro arte rivela al contrario un'identità nazionale nuova. Ed ecco che già a Pasargade e meglio ancora a Persepoli, ritroviamo tori alati di tipo assiro, iconografie ittite, la policromia babilonese, simboli egiziani e finimenti greci, utilizzati come nuovo elemento simbolico che qui viene rifuso, trasposto, equilibrato per esprimere quello sforzo verso una nuova arte nella quale predomina una volontà culturale di ampie vedute. “È facile intuire l'importanza della funzione mediatrice svolta da questi popoli che portarono a contatto e avvicinarono le culture occidentali a quelle orientali, e collaborarono a elaborare una civiltà mondiale”; le parole di Roman Ghirshman, nel suo “La civiltà Persiana Antica”, sono a dir poco illuminanti su quanto appena scritto.


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Pasargade, la capitale di Ciro il Grande e di Cambise I, benchè architettonicamente riproponga lo stile di Masjid-i-Soleyman, già denota la nuova perizia dei blocchi di pietra ed il loro utilizzo che si allontana velocemente dal modello urarteo che la prima città persiana ci ricorda. Qui ritroviamo un'architettura non solo funzionale ma rivolta anche al culto. Entro un recinto di forma allungata, è stato eretto un santuario con le due aree sacre dove era esposto il fuoco eterno, acceso al Dio Ahura Mazda, custodito religiosamente dai sacerdoti del tempio. La tomba di Ciro interamente realizzata in

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pietra, ancora oggi erroneamente venerata quale la tomba della madre di Salomone, sorge all'estremità meridionale della città di Pasargade. Il tetto a due spioventi evoca una dimora nordica che non trova analogie con le precedenti necropoli del mondo achemenide e ci indica forse una lontana origine delle genti Arya molto più settentrionale di quanto si supponga. Infine Persepoli (Takht-i-Jamshid), città dalle vaste dimensioni, imponente, che poggia seguendo la tradizione, su una grande terrazza, l'Apadana, ricavata sul fianco della montagna. La città voluta da Dario non fu nè capitale diplomatica nè

Iran; la tomba di Ciro il Grande, il Re dei Re, l'Achemenide


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Iran; le rovine dell'antica Persepoli

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sede amministrativa bensì luogo dedicato al sentimento nazionale ed al culto. Da grande statista Dario comprese che solamente evitando le tendenze autonomiste, le rivendicazioni culturali dei diversi popoli assoggettati, l'impero avrebbe potuto mantenere e sviluppare la propria autorità su questo luogo di grande importanza strategica per l'intero continente eurasiatico. Scelse tra le più importanti famiglie degli Achemenidi e dei Medi, per gli incarichi amministrativi delle province conquistate. Ordinò che ogni popolo conquistato potesse conservare la propria lingua, le proprie istituzioni, la propria religione e la propria arte, dovendo riconoscere i benefici ricevuti allo stato di cui faceva parte. Tutto a Persepoli venne edificato al fine di esaltare questo nuovo sentimento nazionale in funzione delle cerimonie che vi si dovevano officiare. In occasione della più grande festa della religione mazdea: il Nawruz, “il capodanno Achemenide”, i rappresentanti dei sedici satrapi conquistati dovevano partecipare ai grandi cerimoniali. Sotto l'egida del gran Dio Ahura Mazda e alla presenza del “Re dei Re”, il rituale della processione prendeva

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forma; la consegna delle offerte da parte dei rappresentanti delle diverse etnie sanciva la lealtà e la fedeltà delle genti riunite sotto il grande impero, investendoli di sacralità e di un indissolubile legame agli Dei, per la prosperità e la sopravvivenza di tutte le razze. Nel 331 a.C. Alessandro il Grande, con un ingiustificato atto di distruzione, rase al suolo Persepoli appiccando il fuoco ovunque, distruggendo l'intera parte della città edificata in legni pregiati, intarsiati e dipinti. Le rovine della grande città, che ancora oggi destano impressione nel viaggiatore, sono ben lontane da rendere giustizia a quella che doveva essere stata una vera e propria meraviglia del mondo. La pista che attraversava la regione del Fars giungeva ad Isfahan, importantissimo nodo commerciale dal quale proveniva la pista da Kerman e Yazd, la principale carovaniera verso occidente e da cui dipartiva la pista per Teheran. “La detta terra di Spaan (Isfahan nda) mostra d'esser assai convenevol terra, posta in piano, abondante d'ogni vettovaglia. Dicono che, non volendovi essa (ar)rendere, poi che fu presa fu molto distrutta, ed murata di mura di terra


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come le altre. (...) Le biade e i frutti che pur ve ne sono assai abondantemente, son fatti quasi per forza d'acque: hanno frutti d'ogni sorte, li migliori che abbia visto e gustato in luogo alcuno. A banda destra e sinistra vi sono montagne, le quali dicono esser molto fertili, e che da quelle viene la maggior parte delle vettovaglie. Tutte le cose sono care, il vino costa da tre in quattro ducati la quarta a nostro modo, di pane è conveniente mercato, le legne costano un ducato la soma da camelo, la carne è più cara che da noi, le galline si vendono sette al ducato; le altre cose tutte per ragione. Li persiani sono uomini molto costumati e gentili nelle cose loro; mostrano d'amar li cristiani: nella detta Persia non fu mai fatto oltraggio alcuno. Le loro donne vanno vestite assai onorevolmente, sì nel vestire come nel cavalcare, molto meglio che gli uomini; mostrano d'essere belle donne, poichè gli uomini sono belli e ben fatti; tengono la fede macometta”. Sono le frasi con cui Ambrosio Contarini ci descrive Isfahan nel suo “Itinerario del magnifico et clarissimo messer Ambrosio Contarini” nel lontano 1487. Il vecchio adagio persiano “Esfahan nesf-è jahan”, “Isfahan è la metà del mondo”, la dice lunga sul prestigio e la celebrità di quest'angolo di Persia. È senza dubbio la città più bella dell'Iran ed i suoi monumenti lasciano senza parole ogni visitatore. Le maioliche e le piastrelle turchese, crema e cobalto che rivestono le numerosissime cupole, moschee e scuole teologiche fanno da suggestiva cornice ai giardini

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e ai bazaar che sono ancora oggi tra i più affascinanti del centro asia. I traffici commerciali collegavano Isfahan all'antico centro di Ecbatana (oggi Hamadan) attraverso un'ambiente altipianico arido e inospitale, caratterizzato dalla continua presenza di creste montuose che costituiscono gli orli di anticlinali corrispondenti ai più antichi piegamenti della catena degli Zagros. In primavera lungo la pista si muovono i pastori nomadi Luri diretti verso i freschi pascoli. Come i nomadi Qashqai e Bakhtiari nel Fars, queste lente carovane che animano ancora oggi le piste d'asfalto, che hanno ricoperto le polverose vie carovaniere in questo tratto di Persia, fanno rivivere l'atmosfera degli antichi traffici commerciali. Camminiamo lungo la Chahar Bag, anticamente era un grande vialone diviso a metà con grandi vasconi in onice, cascatelle e fontane. Freyer alla fine del XVII secolo ancora ne esaltava l'eleganza, l'opulenza delle abitazioni circondate da “mirabili giardini”. Oggi il grande parco, ad Ovest del viale, prende il nome di “I giardini del Paradiso”. - Lo sai che gli artigiani islamici consideravano il giardino come lo specchio del paradiso? – passo al contrattacco, nascondendo abilmente le fotocopie spiegazzate del testo di Jean Baptiste Chardin, nella mia Moleskine. - No, non lo sapevo. – risponde il mio fido compare. Bersaglio colpito, penso io. - Non ti ricordi che a Pasargade, davanti

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Iran; Isfahan, un cortile interno a Naqsh-i-Jahan

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alle rovine del palazzo, c'erano i resti di grandi vasche in pietra per l'acqua, che erano al centro di quello che doveva essere stato il “giardino dei re”, come Ciro aveva voluto. Bene, in un modo o nell'altro, il modello del giardino achemenide è arrivato fino qui alla Isfahan dei Sasanidi. Ecco perchè qui in Iran, i giardini sono progettati con perizia scientifica, calcoli precisi e raffinatezza geometrica per raggiungere l'apice formale dell'estetica. La geometria è una scienza “esatta”, quindi adeguata per rappresentare l'opera di Allah. – sollevo lo sguardo compiaciuto. - Ma come fai ha sapere queste cose, mica sei musulmano? – incalza l'amico. - Eh, un giorno ti racconterò ... – sorrido,

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controllando che le fotocopie rimangano lontane dagli occhi del buon Dino. Abitata da tempi antichissimi e divenuta capitale imperiale sotto Dario, Ecbatana fu successivamente una tra le più importanti città Seleucidi, partecipando attivamente a tutte le vicissitudini della storia persiana. Ma oggi a ricordare l'importante passato della città non rimane nulla, forse testimonianze e vestigia del grande centro carovaniero giacciono ancora sepolte sotto l'anonima Hamadan, in attesa di rivedere la luce del sole. Da Ecbatana la pista principale procedeva verso occidente seguendo due diramazioni della stessa importanza


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sottostante, dando rifugio e protezione a viandanti e preziosi carichi. Nelle parole di Marco Polo troviamo la giusta “dimensione” commerciale e culturale del grandissimo centro lungo le antiche vie commerciali durante l'Età di Mezzo. “Baldach (Bagdad; nda) è una città grande, nella quale era il califa, cioè il pontefice di tutti li saraceni, sì come è il

storica e commerciale. La prima seguiva la rotta Kangavar-Kermanshah-Baghdad. L'antichità di questa via commerciale verso la Mesopotamia è avvalorata dalle numerosissime testimonianze architettoniche ed artistiche che “segnano” il cammino. I bassorilievi di Bisotun (Behistun) e Tagh-i Bostan lungo la pista presso Kermanshah, risalgono al periodo di Dario I. Sculture e iscrizioni, sanciscono l'importanza religiosa del luogo ed il monito rivolto ai viaggiatori ed alle carovane in transito. Così come Qasr-iShirin al confine irano-iracheno, dove l'antico castello arabo sorvegliava la pista che attraversava la profonda vallata

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Iran; Isfahan, sacre geometrie


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papa di tutti li cristiani. E per mezo di quella corre un gran fiume, per il quale li mercadanti vanno e vengono con le lor mercanzie dal mare dell'India: e la sua lunghezza, dalla città di Baldach fino al detto mare, si computa communemente secondo il corso dell'acque 17 giornate. E li mercanti che vogliono andare alle parti dell'india navigano per detto fiume ad una città detta Chisi, e de lì partendosi entran in mare (...) E in Baldach si trovano molti panni d'oro e di seta, e lavoransi quivi damaschi e velluti, con figure di varii e diversi animali; e tutte le perle che dall'India sono portate nella cristianità per la maggior parte si forano a Baldach. In questa città si studia nella legge di macometto, in negromanzia, fisica, astronomia, geomanzia e fisionomica. Essa è la più nobile e la maggior città che trovar si possa in tutte quelle parti." (M.Polo da “Il Milione”). La via settentrionale lasciava Ecbatana diretta a Tabriz presso il lago di Urmia, volgendo poi verso le piste dell'altipiano anatolico e del Caucaso. “Viaggiai per

Mahan, mausoleo di Nematollah Vali, del XV secolo

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dieci giorni con questo campo, e poi accompagnai l'emiro Ala aldin Muhammad, uno dei grandi emiri alla città di Tebriz. Giungemmo colà in capo a dieci giorni, e sostammo fuori dalla città in un luogo detto Sham, dove è il sepolcro del re dell'Iraq Ghazan, con una bella madrasa e una zavia ove si distribuisce ai viandanti pane, carne, riso cotto con burro, e pasticceria. l'emiro mi fece alloggiare in quel convento, sito tra acque correnti ed alberi fitti di fogliame. La mattina dopo l'arrivo, entrai in città per la Porta detta di Bagdad, e venimmo a un gran mercato detto Ghazan, uno dei più belli che abbia mai visto al mondo, dove ogni mestiere ha il suo posto a sè senza confondersi con un altro. Passai dal mercato dei gioiellieri, e rimasi abbagliato dalle varie specie di gioie, che erano nelle mani di bei schiavi superbamente vestiti, cinti alla vita con fazzoletti di seta; e, davanti ai mercanti, offrivano le gioie alle donne dei turchi, che ne facevano a gara un grande acquisto. Tutto ciò dava uno spettacolo di tentazioni, per cui bisogna cercare rifugio in Dio. Entrammo nel mercato dell'ambra e del muschio, e vedemmo un analogo spettacolo, ancor più grandioso”. Così il grande Ibn Battuta ci ragguagliava su questo tratto di piste nel suo


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indimenticabile libro “Gli straordinari viaggi di Ibn Battuta” del 1326. Tabriz è il capoluogo dell'Azerbaijan iraniano ed è situata in un ampia vallata interamente circondata da alte montagne. Le sue vicissitudini storiche risalgono a tempi remoti, precedenti l'epoca Sasanide e sono tuttora oggetto di studio da parte di archeologi e storici. La regione è abitata prevalentemente dagli Azeri che costituiscono ben il 24% dell'intera popolazione della Persia. La via commerciale proseguiva verso nord entrando nei territori dell'odierna Armenia e Georgia, verso le antiche città carovaniere di Yerevan e Tblisi, e volgendo poi sulle piste dirette verso il Caucaso e l'altipiano anatolico. Kandovan si trova nella regione dell'Azerbaijan orientale a circa metà strada tra Shiraz e Tabriz. È quel luogo dove la magia del paesaggio sposa l'immaginario. Dino ha spuntato la sua lancia di grande contrattista, per riuscire a convicere l'autista di Sardroud ad avventurarsi con la sua malandata Peykan sulle alture del Sahand fino a Kandovan, e fermarsi due giorni assieme a noi, in quel remoto angolo della Persia. Certo il suo Farsi non è più quello degli anni in cui l'amico aveva lavorato qui in Iran, ma ancora si fa valere, tanto da farsi chiamare doost/amico e non khaa-rej-i/straniero. - Ancora un tornante e vomito. – esclamo dopo due ore di zig-zag su questa sterrata dove solo i muli possono camminare. Falla finita. Ci vuoi arrivare o no al villaggio? - ennesima tirata d'orecchie dell'amico. Alla fine il paesello appare davanti ai nostri occhi. Passato tutto, senso di vomito, rabbia, stanchezza e polvere negli occhi. Adesso c'è solo fascino ed entusiasmo. Kandovan è il paese dei Puffi, ma non è blu! Sembra finto, un miraggio, un'apparizione onirica; ma invece è reale e pullula di vita. Scendiamo dall'auto. Cavalletti piazzati, è il momento delle foto e delle riprese. Alì accende la ventesima sigaretta e controlla i pneumatici della sua torpedo blu, ormai gialla per la coperta di polvere che l'avvolge. Posteggiamo

Iran; per le strade di Tabriz

davanti al paese, è pomeriggio, sole alle spalle, la luce è quella giusta. Ecco che arriva lui, un giovane azero con asinello carico di fascine d'erba. Volto sudato, pelle abbronzata, occhi verdi, capelli biondissimi, taglio stile Marines, ma scolpito con l'accetta. Maglioncino di lana tuttobuchi, pantaloni usurati, stretti in vita da un panno arancione annodato sul fianco, scarpe alla Chaplin. Milad sta tornando a casa, avrà forse 15 anni, o giù di lì. Ci guarda stupito. Dino entra in gioco. Milad è ora il protagonista delle nostre riprese. Il paese è un dedalo di stradine, sentieri e scalini ricavati dal tufo che si inerpicano nell'impervio pendio. Le abitazioni, anch'esse scavate nel tufo o persino nella viva roccia, sono letteralmente abbarbicate al dirupo. Dove il pendio è inaccessibile, piccoli ponticelli sospesi collegano l'entrata delle case alle rampe d'accesso o alle contorte stradine che aggirano i pinnacoli. Siamo esterrefatti, increduli. Milad ci conduce verso la propria abitazione. Una giovane donna, forse la madre o la sorella maggiore, rimuove la pesante gerla dalle spalle, scambia poche parole con lui. È il momento di entrare nella loro casa. Ciak si gira! L'avventura ha inizio. ■

Iran; Kandovan nella provincia dell'Azerbaijan orientale


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lungo corteo, con a capo il sacerdote seguito

Azerbaijan e Persia, l'ombra di Zarathustra.

dai familiari e conoscenti, che si muoveva lentamente per portare la salma verso il luogo sacro per il rito finale, la scarnificazione delle carni dalle ossa, e ci aveva mostrato le incredibili immagini delle Torri del Silenzio di Yazd. Un treno notturno ci aveva portati da Baku ad Astara, la città di confine condivisa tra Azerbaijan e Iran. Partenza alle undici di sera, e in una stazione quasi deserta nessuno sapeva indicarci il binario. Rocambolescamente riusciamo a scovarlo e saltiamo sul convoglio pochi istanti prima che inizi a sferragliare. Visto l'esiguo costo abbiamo optato per una cuccetta di prima classe, e adesso che siamo qui a confabulare su come sistemare i bagagli

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nell'angusto spazio e a rincalzare rattoppate lenzuola sui sedili letto, ci chiediamo come sarà la terza classe in coda al treno; purtroppo è proibito uscire dal vagone per andare a verificare.

ttraverseremo il

alcune testimonianze fanno comunque pensare

Nello scompartimento ci fanno compagnia

confine a piedi! –

agli storici che questo tempio fosse frequentato

per la notte un ragazzo e un anziano signore

Sentenziai con Lucia.

anche da altri adoratori del fuoco quali Indù e

che non parlano una parola di inglese. Il

- Come i profughi! –

Sikh. La Religione Mazdea è stata una religione

giovane è un dissidente politico di ritorno al

Rispose lei, con la sua

tra le più diffuse in Asia centrale nell'antichità,

proprio villaggio per organizzare una protesta

solita prontezza. Non

influenzando una vasta area geografica

clandestina, mentre l'uomo è un commesso

avevo dubbi che ci

ed espandendosi addirittura fino alla Cina

viaggiatore che sta andando a trovare i suoi

sarebbero stati problemi a passare la dogana

settentrionale attraverso la Via della Seta.

clienti in abito grigio di raso lucido e scarpe di

che separa l'Azerbaijan dall'Iran. Eppure quella

Ma con l'avvento dei conquistatori islamici

pelle nera strette e lunghe con la punta all'insù.

era la soluzione più ovvia, la strada più rapida

la dominante religione zoroastriana perse

Sono entrambi gentili e, come accade sempre

per passare nell'Azerbaijan iraniano. Per adesso

lentamente la sua influenza fino ad essere

in queste situazioni, ci scambiamo le riserve di

l'attrazione per la nuova esperienza era più

considerata un culto proibito. Tuttavia gli

cibo che stiamo trasportando.

forte del timore dell'imprevisto. Ma intanto

zoroastriani non sono scomparsi, e li ritroviamo

All'arrivo ci attende il maltempo, e il binario

eravamo a Baku.

ancora oggi in Iran, India, Azerbaijan, Tajikistan

sembra terminare nel nulla. Scendiamo dal

Non è casuale che il nome Azerbaijan

e in piccole comunità sparse per il mondo.

treno direttamente nel fango, non ci sono

significhi letteralmente “terra di fuoco”, infatti

I seguaci di questo culto pregano cinque volte

piattaforme nè pensiline, così zigzaghiamo tra

nella penisola di Absheron, a circa quindici

al giorno alla presenza di qualche forma di

le pozzanghere per raggiungere la schiera di

chilometri dalla capitale Baku, è ubicato il

fuoco, che comunque non rappresenta un

taxi che conducono i passeggeri dalla stazione

tempio del fuoco di Ateshgah che fu costruito

oggetto di venerazione, bensì l'energia del

alla città: quindici chilometri di autentico

nel XII secolo.

creatore, mentre i rituali religiosi connessi con

rally tra continui sobbalzi e slalom per evitare

Il complesso pentagonale ha un cortile

la morte si concentrano sull'anima perché il

enormi buche come voragini. Io continuo a

circondato da celle per i monaci che adesso

corpo viene considerato impuro. Alla morte

sbattere la testa sul tettuccio della vecchia

accolgono un piccolo museo. Al centro del

l'anima lascia il corpo dopo tre giorni, e nei

Skoda e mi domando inutilmente il motivo di

cortile non pavimentato, si erge l'altare del

tempi antichi il cadavere veniva esposto in

costruire una “stazione” così lontano dal centro

fuoco, sormontato da una cupola sorretta

luoghi aperti e sopraelevati, chiamati Torri

abitato.

da quattro colonne. La fiamma eterna che

del Silenzio, dove gli avvoltoi lo avrebbero

Tra le due dogane, nella terra di nessuno, c'è

vi ardeva si esaurì nel 1969, e il fuoco, che

spolpato.

un ponte di ferro che attraversiamo in silenzio.

comunque non è mai stato spento, adesso

In cima alle Torri generalmente un muro

Tutti quei militari dal volto accigliato che

viene alimentato con il gas attraverso tubature

circolare delimita l'area funeraria. Nei tre

imbracciano kalashnikov ci intimoriscono.

sotterranee provenienti dalla vicina città.

cerchi concentrici vengono rispettivamente

Per adesso è andata bene, i doganieri

Il tempio, che era stato un importante centro

posizionati gli uomini in quello più esterno, le

azerbaijani sembravano stranamente attirati

per i pellegrini sulla Via della Seta e luogo di

donne in quello mediano e i bambini in quello

soltanto dalle barrette energetiche che Lucia

meditazione per tanti filosofi zoroastriani, cessò

più interno. Al centro della circonferenza

aveva dimenticato sul fondo della valigia;

di essere un luogo di culto nel 1883, quando

c'è un pozzo dove vengono spostate le

era dall'Italia che le portava dietro, e forse

nella zona vennero installati i primi impianti

ossa rimanenti. David ci aveva parlato della

era giunto il momento di abbandonarle,

petroliferi industriali. Iscrizioni in sanscrito e

cerimonia funebre a cui aveva assisito e del

così le offriamo prontamente alle baffute


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Azerbaijan; tempio di Ateshgah, la fiamma eterna

guardie in divisa. Lungo questo percorso le

di una remota pianura circondata da montagne

Yazd. La città vanta un'antica tradizione tessile.

donne indossano i loro hijab, e anche Lucia

nell'Iran nord occidentale.

I manufatti sono molto accurati, e ancora oggi

tira fuori dalla borsa i suoi veli iniziando la

Il sito ha un importante significato simbolico

è possibile trovare preziosi broccati di seta e

trasformazione a cui l'universo femminile è

e spirituale per gli zoroastriani perché vi si

ricercati tappeti, realizzati con lane morbide

obbligato entrando in territorio iraniano.

trovano i due principali elementi legati alla

e lucenti tinte con colori naturali. Ma Yazd

In coda alla barriera iraniana nel serpentone

religione: il fuoco e l'acqua. Appena entrati

è anche la culla del culto Mazdeo, e a pochi

di transenne scrostate, siamo gli unici

nella cinta muraria incontriamo un piccolo

chilometri dalla periferia è ancora possibile

occidentali insieme a una folla ordinata di

lago artesiano dalle acque turchesi, dietro al

visitare delle splendide Torri del Silenzio.

azeri che trasporta di tutto. “Se non fermano

quale si estendono le rovine del tempio che

Su suggerimento di David abbiamo visitato

queste persone, a noi non possono fare nulla”,

percorriamo su una passerella di legno.

questo sito al tramonto. Rispetto a trent'anni

penso tra me, e invece poco dopo eccoci

Camminiamo tra i vari ambienti assorti in

fa l'ingresso è a pagamento, ma tutto sembra

davanti ad un bancone a valigie aperte.

religioso silenzio. Eccoci nel Tempio del sacro

immutato e questo dona al luogo un'atmosfera

Il solerte doganiere iraniano, ignaro del

fuoco, che anticamente era circondato da

intrigante e affascinante. Saliamo le ripide

caldo e dell'umidità che ci sta letteralmente

quattro pilastri che reggevano i grandi archi,

scale di pietra della torre di destra, e quando

squagliando, è attirato dagli strani tubi che

poi raggiungiamo il Tempio dedicato alla

varchiamo il muro di cinta che sovrasta la

ha visto sotto i raggi X dello scanner, sono i

Dea delle acque Anahita, attraverso la lunga

sommità il sole sta tingendo di luce calda i

miei obiettivi e l'attrezzatura fotografica; alla

e stretta galleria di roccia con un'alta volta a

cerchi concentrici dove venivano adagiati i

fine decide di ispezionare l'intero bagaglio,

botte che probabilmente serviva a collegare i

cadaveri. Attendo in religioso silenzio che

accompagnando la procedura con un

vari spazi facendo transitare la corte al riparo

l'ultimo visitatore abbia lasciato la cima

interminabile interrogatorio.

della calura esterna.

per scattare una suggestiva fotografia.

Finalmente riusciamo ad uscire, o meglio ad

La leggenda popolare narra che il santuario fu

L'ovale sulla cima è apparentemente più

entrare in Iran, dove ci attende l'amico Hamed

chiamato Trono di Salomone per scoraggiare

grezzo e si cammina sulla roccia cruda e non

per condurci alla scoperta dei siti archeologici

dal saccheggio gli invasori arabi. Durante

livellata. Prima di iniziare l'impervia discesa

zoroastriani.

l'invasione mongola, avvenuta all'inizio del

dell'acciottolato sentiero di sinistra, con Lucia

Takht-e Soleyman, che in persiano significa

XIII secolo, gli Ilkhanidi occuparono l'area ed

ci sediamo su un masso, muti, a godere lo

Trono di Salomone, è il più sacro tempio dello

arricchirono il sito con altre costruzioni.

spettacolo della luce che tinteggia di rosso

zoroastrismo. Il vasto complesso fu costruito

Le piste carovaniere che da Mashhad

l'altra torre e la desolata pianura circostante.

dai Sassanidi ed è situato su un'altura al centro

conducevano al golfo persico passavano per


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Iran; Yazd, il caravanserraglio nei pressi delle Torri del Silenzio

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Iran; Yazd, sulle Torri del Silenzio

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Azerbaijan; i sacri rituali degli zoroastriani

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David Bellatalla Iraq; Baghdad, bambine nel quartiere occidentale


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Nel libro di Solimano, scritto nell'anno 851, si legge: “Le merci cinesi arrivano in piccole quantità a Bassora e Baghdad e anche nei paesi arabi il loro numero non è molto rilevante, a causa dei frequenti incendi che scoppiano a Khanfu e distruggono i rifornimenti preparati per l'esportazione (...) le lunghe fermate a cui sono obbligate le navi nei porti intermedi, cosa che costringe i mercanti a vendere le merci prima dell'arrivo a destinazione nei paesi arabi. Talvolta, il vento spinge le navi fino allo Yemen e negli altri paesi

dove le merci sono vendute”. Nel breve passo ritroviamo l'ennesima testimonianza storica del predominio dei traffici commerciali terrestri su quelli marittimi, che dall'antichità si protrasse fino agli inizi del XV secolo. Il porto di Bassora in Iraq è il luogo dove passava la grande carovaniera che da Shiraz conduceva a Baghdad, ma era anche la località dove convergeva la pista proveniente da Kerman. La città sul Tigri era davvero splendida all'epoca dei Seleucidi e degli Abbasidi, i viaggiatori


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dell'Età di Mezzo ne elogiarono le architetture e il suo ricco mercato, un'eredità indiscutibilmente legata all'antica Babilonia. “Baudac è una grande cittade, ove lo califfo di tutti i saracini del mondo, così come a Roma il Papa. Per mezzo la città passa un fiume molto grande, per lo quale si puote andare infino al Mare d'India, e quindi vanno e vengono i mercatanti e le loro mercanzie”, ci raccontava il veneziano. Oggi Baghdad è una città estesa, tumultuosa e soffocante, dal volto anonimo che non ha più nulla dell'antico splendore e allo stesso tempo, sembra incapace di rendersi moderna. A soli 30 chilometri a sud di Baghdad rimangono le rovine del Palazzo di Cosroe, con la sua grande volta e le mura possenti, muti testimoni di quella che fu l'antica capitale del Regno dei Sassanidi. La Via della Seta muoveva verso occidente sulla via di Damasco, mentre la pista settentrionale, che correva su tavolati aridi e rocciosi, portava ai centri carovanieri di Mari e di Dora Europodos, vicino al fiume Tigri. Si tratta dei primi esempi di cittàstato in grado di organizzare la convivenza tra agricoltura e nomadismo, politica e supremazia commerciale. Superato il cartello malconcio che, in arabo e in lettere latine, annuncia l'ingresso alle rovine

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dell'antica città carovaniera, aggiriamo la cinta muraria ed entriamo cercando il luogo più alto e accessibile, per poter avere una visione d'insieme. Proviamo ad immaginare l'antico mercato pullulante di merci provenienti da ogni parte del mondo, i monumentali palazzi affrescati e decorati con preziosi mosaici, la ricchezza e lo splendore di una grande civiltà che oggi è solamente un luogo desolato, circondato da sabbie roventi e dai fantasmi del passato. Alcune decine di chilometri più a nord, la Via della Seta si biforcava dirigendosi a nord-ovest verso Raqqa e Rasafah in direzione di Aleppo, mentre la pista che procedeva verso sud-ovest, raggiungeva l'antica Palmyra, per poi arrivare a Damasco. Non posso offrirti più di 15 dollari – chiudo l'album che raccoglie le antiche banconote siriane, libanesi, persiane, irachene ed egiziane, e mi appoggio allo schienale della comoda poltrona. La luce penetra soffusa dall'ampia portafinestra, lasciando che la brezza serale sollevi di tanto in tanto, le grandi tende ricamate del salone. Il mobilio della stanza è a dir poco fantastico, uno scrittoio in robinia che ricorda quello di Gallé del 900, una sontuosa credenza stile

Iraq; mercante arabo presso Siria; rovine Bassora dell'antica città carovaniera di Rasafah/Resafa presso Raqqa


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Siria; la cittadella medioevale di Aleppo

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Rococò ornata con il caratteristico Liberty “a colpo di frusta” e soprattutto un tavolo da gioco arabo, pieghevole e finemente intarsiato a mosaico con madreperla e pietre; la polvere che ricopre ogni cosa, è ormai parte dell'arredo. La figlia di Hassam entra nella stanza con l'ennesimo té. Stessi gesti, stesso rituale, senza mai pronunciare una parola in presenza di un estraneo. Eppure sono tre giorni che abbiamo preso in affitto una camera nella casa di Hassam, e l'abbiamo incrociata almeno una decine di volta nei corridoi e nella cucina, mai una risposta ai nostri saluti, mai un sorriso. Guardo fuori dalla finestra, il souk è a soli cento metri dall'abitazione, ma nella dimora del nostro ospite, ci sono più tesori che al mercato di Raqqa. - Dammi cinquanta dollari e ti lascio anche l'album, è antico l'hai visto? – Hassam prende in mano il grosso tomo e mi mostra le prove di quanto appena detto. - Facciamo così, ti tieni l'album antico che potrai vendere a parte, io prendo solamente le banconote siriane, libanesi e irachene, così potrai recuperare i rimanenti 35 dollari dalla vendita delle altre, e in più avrai l'extra dal ricavato dell'album. –

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riprendo la mia posizione sulla poltrona e verso il té appena portato. La contrattazione è un artificio, una strategia obliqua, dove la curiosità e l'imprevisto sconfiggono l'inesorabile macchina del tempo. L'imperatore Giuliano la definì “l'occhio dell'Oriente”, per i suoi abitanti era “tutto ciò che l'arabo si immagina di desiderabile e bello”, queste sono solo alcune delle moltissime definizioni di Aleppo, una città così carica di importanza storica dove anche lo splendore dell'epoca ommayade, le raffinatezze architettoniche ittite, greche, romane, bizantine e ayyubidi, sono solo una parte del fascino di questo luogo meraviglioso, lungo l'antica Via della Seta. Ci aggiriamo per il souk affascinati dall'atmosfera, dai colori e dai profumi delle mercanzie, ma anche dagli sguardi, dai saluti cordiali e dai gesti di queste persone che popolano il grande mercato di Aleppo. Saliamo alla cittadella per ammirare la moschea costruita nel XII secolo, attorno a una vasta corte (musalla) dove le grandi pietre squadrate, nere e beige, formano complessi motivi geometrici, semplici ornamenti per l'occhio


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del profano. Ci colpiscono le due maestose fontane per le abluzioni rituali e la principale sala della grande moschea dove si trova il santuario di Zaccaria, un minibar del XV secolo e un mirhāb finemente scolpito. In origine, questa grande sala di preghiera aveva un tetto piatto, con una grande cupola al centro, i Mamelucchi vollero sostituirla con un complesso sistema di volte a croce con piccoli archi e una cupola sobria, sulle sue arcate. La pista che da Deir Er-Zur portava a Palmyra superava il grande deserto siriano, oggi costellato di resti di antichi caravanserragli abbandonati, situati poco lontano dalla anonima lingua d'asfalto, dove i rumorosi TIR corrono verso le loro destinazioni. L'arrivo a Palmyra è una visione. L'antico regno di Tadmor, dove regnava la famosa regina Zenobia, non ha perso il suo fascino, tutt'altro: prima i greci, poi romani e arabi, hanno costruito monumentali edifici, per renderla davvero immortale. Plinio scriveva: “già celebre per la sua posizione, per la ricchezza del suolo e le

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acque deliziose, è attorniata, nei territori circostanti, da una vasta cintura di sabbia, separata, per così dire, dal resto della terra, dalla natura; trae profitto dall'indipendenza tra due imperi molto potenti, i Romani e i Parti e, in caso di discordia, diventa il primo pensiero di entrambi”. Sul piazzale antistante il sito archeologico, ci sono molti camper, le targhe sono francesi, tedesche, olandesi, inglesi e anche italiane. Sento un profumo soave, familiare, i miei ricordi mi riconducono verso casa, mentre i miei passi si muovono senza pilota verso un gruppo di camperisti. Ascolto le frasi inconfondibili di alcuni di loro, intenti a disporre al meglio i tavolini pieghevoli davanti ai loro mezzi, disposti a semicerchio. Dopo pochi minuti siamo seduti con loro, sono tre famiglie di Trento e Rovereto in viaggio verso la Giordania. Tra sorrisi, pasta allo speck, formaggio e un incantevole Marzemino, contraccambiamo l'ospitalità raccontando del nostro viaggio, delle nostre avventure di questi due indimenticabili anni. Ci lasciamo nel tardo

Siria; Palmyra, l'antico regno della regina Zenobia


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Siria; Palmyra, il tetrapilo romano

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pomeriggio, con la solenne promessa di incontrarci di nuovo in Italia, mentre loro rimangono seduti per un'imperdibile foto ricordo, noi riprendiamo gli zaini, Homs ci aspetta. Fondata nel II millennio a.C. l'antica Emesa dei romani, la città che tra il I e IV secolo diede a Roma ben quattro imperatrici, Giulia Domma, Giulia Maesa, Giulia Mammea e Giulia Soemia, il luogo dove si trovano la superba chiesa di Mar Elian e la grande moschea di Khaleb Ibd al-Walid, è la città “senza paura” come

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ci dice il suo nome: Homs. È il luogo dove il nostro viaggio lungo la Via della Seta, si carica di incantevoli incontri e inaspettate meraviglie. Da qui, le carovaniere si dirigevano verso la costa del Mar Mediterraneo, in direzione dei porti fenici di Amrit, Tartus, e Baniyas, la Leucas degli antichi greci, passando nei pressi di Crac des Chevalliers, la cittadella fortezza costruita dall'Ordine Ospedaliero dei Crociati. La città di Hama si trova sulla carovaniera che da Homs raggiungeva Aleppo e i porti del nord. È situata sulle rive dell'Oronte, è garbata e discreta, fatta di edifici antichi restaurati, negozietti curati, soporifere case da té, eleganti giardini pubblici e chiuse spumeggianti. Ibn Battuta scriveva: “circondata da frutteti e giardini e rifornita da ruote ad acqua simili a sfere rotanti”, le tipiche norie. Il vocabolo na'ura è di origine andalusa, indica lo zampillare dei liquidi e il ruggire degli animali, venne ben presto adottato anche nella lingua araba. Siamo appoggiati al parapetto davanti ad una delle gigantesche ruote idrauliche, pronti a raggiungere la Grande Moschea, costruita su una chiesa romanica, che a sua volta aveva cancellato un antico tempio pagano. Ahmad si avvicina, ci guarda e poi, come un provetto attore sul palco, solleva la mano sinistra verso la noria, avvicina l'altra al petto e inizia a recitare: -“Si denudò il petto il Ribelle contrito, come un poeta antico addolorato, il cuore che batteva come noria nel costato, sulle pietre sparse lacrime pentito”. La mattina dopo siamo in strada, nuovamente in cammino attraverso la Siria, con in tasca i resti della colazione, fichi secchi di montagna e zucca candita. Più a sud la Via della Seta portava a Damasco, per entrare poi nell'odierno Libano, verso i porti di Beirut, Tripoli e Tiro (la Tyrus fenicia). La città di Damasco raggiunse il suo apice di grande città carovaniera in epoca araba, ma la sua cittadella era una delle “meraviglie d'Oriente” già in epoca antica; ciò era dovuto al suo mercato che rappresentava una sorta di paradiso per i commercianti poichè “ogni cosa del mondo si trova nel suo souk”, per i suoi opulenti giardini e per i maestosi palazzi “ove vi si puote vedere ogni tipo di ricchezza”. La sua importanza

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Siria; nomade araba

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strategica sulla Via della Seta ci è testimoniata dalla presenza di guarnigioni militari stabili in epoca greca e romana. La romanità di Damasco la ritroviamo vicino al souk dove sopravvivono i resti del Tempio di Giove, oggi inglobato nella possente struttura della Grande Moschea

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degli Ommayadi. Dopo alcuni giorni decido di annotare sulla mia Moleskine che Damasco non fu solo un grande crocevia bensì una cerniera, o forse una porta, tra Oriente e Occidente, dove nelle sue strade lastricate si potevano incontrare genti provenienti da ogni parte del mondo, era una vera città cosmopolita, era il grande mercato del mondo antico. Da Aleppo, la strada corre sorniona, superando i lievi colli che la separano dall'ellenica Antiochia (la turca Antakya, annessa alla Siria nel 1938). Il fiume corre sul letto sassoso e la città vecchia è ammassata sul monte Sipilo. A nord dell'antica città fiorivano ville sontuose, all'epoca in cui la gloria di Atene era già tramontata. Sui loro pavimenti a mosaico, oggi esposti nel museo della città, si apprezza lo sfarzo e la ricchezza, ma anche la raffinatezza e l'oblio, nelle tenui sfumature dei colori e nelle raffigurazioni personificate dei desideri che caratterizzavano la cultura e lo splendore di questa città carovaniera. Era il luogo dove le nobili donne vestivano di seta cinese, usavano le polveri di lapislazzulo per la cosmesi, l'indaco e la porpora venivano adoperati per tingere le vesti e dove l'incenso e le spezie erano sempre presenti nei loro mercati. Il tramonto disperde per un attimo la calura del viaggio, siamo su un carro trainato da un povero mulo che, di tanto in tanto, si ferma per prendere fiato. - Stiamo per arrivare. - Ci comunica Amed, girandosi verso di noi, con il sorriso di chi sa di aver assolto il compito per cui è stato pagato. - Lo senti l'odore del mare! – mi rivolgo a Dino, saltando in piedi, traballando in cerca


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di equilibrio sul carretto di legno; quasi a voler odorare a pieni polmoni il salmastro, l'odore del Mediterraneo, il sapore di casa. Appena superato il colle ecco apparire il porto di Iskenderun, l'antica città di Alessandretta, fondata subito dopo la vittoria sui Persiani da parte degli eserciti del macedone, che divenne un'importante fortezza araba nell'XI secolo. Ci siamo, eccoci arrivati davanti al mercato cittadino, la stanchezza del trasferimento è rimasta dietro al colle, guardo l'orizzonte lontano, immaginando il ritorno. La mattina seguente decidiamo di avventurarci verso il Castello dei Templari di Bagras, non lontano dalla città. L'imperatore bizantino Niceforo II lo fece costruire nel 965 e volle con sé oltre mille tra cavalieri e soldati, per garantire protezione alle campagne circostanti. La roccaforte aveva persino un acquedotto sotterraneo che le garantiva autonomia in caso di attacco. La storia del castello passerà poi dagli annali armeni a quelli arabi, con aneddoti e leggende degne di un colossal hollywoodiano. La carovaniera meridionale proseguiva seguendo la costa meridionale della Turchia fino ad Antalya, la città voluta dagli Attalidi di Pergamon nel II secolo a.C. Scendiamo dall'autobus e davanti a noi, illuminato dal sole, il Mare Nostrum, alle nostre spalle le montagne del Tauro, che conosciamo bene. La pensioncina, nell'antica cittadella offre, a prezzi modici, camera doppia con lenzuola pulite, bagno privato e doccia con acqua calda. Tutto ci fa pensare di essere in vacanza, ma il nostro abbigliamento è davvero fuori luogo. Ci sono con noi turisti australiani con ciabatte infradito colorate, t-shirt ultimo grido, ragazze in bikini con gli

Siria; moschea araba nei pressi di Damasco

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Turchia sud-orientale; le caratteristiche case di Harran e Şanlıurfa

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auricolari, bambini con secchielli e palette. Dopo una breve visita al mercatino, anche noi indossiamo abiti estivi del XX secolo. Ci sediamo al tavolo di una pizzeria sul lungomare affollato. Facciamo i conti, tiriamo le somme e brindiamo alla nostra salute. Dopodomani saremo a Izmirn, la stessa Smirne di due anni fa. La sera preparo lo zaino, come vuole il rituale quotidiano, tra gli abiti, le scatole di pellicole e il kit del pronto soccorso, trovo una scatolina di legno intarsiato, la apro incuriosito. Ci sono tre bozzoli di seta, quelli che mi aveva dato una giovane lavoratrice della seteria di Hotan nello Xinjiang. Li prendo in mano e li mostro a Dino. Senza dire nulla, sorridiamo come fanno i bambini la mattina di Natale, davanti ai regali sotto l'albero. Sono appoggiato alla balaustra del ponte di coperta, mentre la nave passeggeri turca Ankara costeggia la Giudecca. Solo tre giorni fa eravamo a Smirne in Turchia e adesso sento i rintocchi delle campane di Piazza San Marco. È domenica, mezzogiorno in punto, sono passati quasi due anni dalla nostra partenza da Venezia e adesso, tornando a casa, un pò di emozione accompagna questi ultimi minuti del nostro Grande Viaggio attraverso la Via della Seta. Respiro l'aria salmastra, mi sento soddisfatto e appagato. Il viaggio

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lungo le antiche carovaniere dell'Asia è stato soprattutto una grande esperienza di cambiamento, una metafora della vita stessa, che si rinnova continuamente, soddisfacendo a quel bisogno di movimento e di conoscenza che sono l'essenza dell'essere umano. Nel transito le situazioni impreviste diventano le condizioni nelle quali riplasmare e trovare l'essenza di sé stessi. L'emozione è la consapevolezza di una rottura già avvenuta o imminente, la discordanza è l'occasione che provoca la riflessione e la trasformazione, infine c'è il desiderio di restaurare l'equilibrio e l'armonia, che ci rivela il mondo così com'è: semplicemente meraviglioso. Guardo le nuvole nel cielo che si rincorrono continuamente, in perenne movimento. Cambiano forma di continuo pur rimanendo le stesse nella loro essenza. Mentre le osservo mi rendo conto che anche le nuvole sono in viaggio, continuamente in movimento. Allora ripenso alle mille avventure, alle esperienze di viaggiatore, in fondo trovo una grande similitudine con il loro continuo vagabondare e le loro incessanti trasformazioni. Per un momento le osservo e provo una bellissima sensazione di empatia. Mi sento anch'io con loro, ondeggiare nel cielo, in viaggio con le nuvole. ■


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Bambina araba

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Iraq e Siria, epilogo di un’epoca

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Ma oggi chi possiede la tecnologia domina sugli altri, mi faceva notare Abdul, mentre il suo sguardo era incollato al paesaggio, ai fiumi e ai rilievi montuosi, cinquemila metri sotto di noi. Dovevo assolutamente concordare con lui. In silenzio riflettevo su quella inconcepibile dicotomia del mondo moderno, l’inesorabile corsa tecnologica, al potere economico e politico su gli altri, a scapito della parsimonia e della spiritualità che l’essere umano porta dentro di sè. Mio nonno coltivava il

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suo campetto dietro casa, era abituato a

CON IMMAGINI DI

toccare la natura, ad accarezzarla, penetrarla

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ogni giorno, viverla da vicino, toccandola, faticando e anche soffrendo. Ma il suo sguardo era sempre sereno. Mentre la miseria della

ientrato a casa, accendo

dolore, sofferenza e paura, sono gli unici colori

guerra è sinonimo di disperazione; quando

subito il computer nella

riconoscibili nelle immagini dei fotoreporter di

l’orgoglio viene offuscato dalla presunzione e

speranza di trovare la

guerra.

inevitabilmente si perde di vista la forma del

mail di conferma della

La guerra, questa maledetta guerra. Ripenso

mondo, e si giunge a drammatiche e terribili

Hayat Travel Agency

ad Abdul, il giovane afgano seduto al mio

conseguenze. Donald Mc Cullin, fotoreporter

di Baghdad, per il mio

fianco sul volo Peshawar-Kabul di qualche anno

di guerra scriveva: “Conosco l’odore della

visto per l’Iraq. Per la

fa. Nella mia mente risuonano le sue parole,

povertà. È simile a quello di uno strofinaccio

terza volta ho riconfermato il booking del

mentre nel mio studio chiudo definitivamente

per il pavimento che non è mai stato lavato,

mio biglietto aereo, il Roma-Istanbul-Kabul,

il faldone con mappe, appunti e le tante

se non nella sporcizia che sta cercando di

andata e ritorno, e ormai i tempi stringono, e

speranze, del mio mancato viaggio in Iraq.

pulire ... le uniche cose che mi dicevano

anche la mia pazienza. Finalmente ecco la loro

Era la sua prima volta, volare per lui era

erano basate sull’invidia, sulla confusione e

risposta: “Caro amico, mi spiace informarti

sinonimo di emozioni profonde, fortissime.

sull’autocommiserazione, il tutto avvolto in

che a causa della ripresa dei combattimenti

La salita sull’aereo, il rombo delle turbine, lo

una pesante coltre d’ignoranza”.

nella zona di Mosul e Sinjar, le autorità hanno

strappo violento del decollo, l’ondeggiamento

La ragione dei miei viaggi, dei miei scatti, di

temporaneamente sospeso qualsiasi tipo di

nell’aria, la salita nel cielo. Per lui tutto era

questo volume a cui ho voluto partecipare,

visto turistico per l’Iraq. Ti terremo aggiornato

nuovo e meraviglioso. Non poteva trattenersi

è quello di riaffermare quel senso di

e non appena la situazione renderà possibile

dal continuo sorridere e puntare il dito verso

partecipazione e condivisione, lo stesso in cui

la riapertura delle frontiere, saremo ben lieti di

il finestrino, osservando la sua terra dall’alto

molte persone credono ancora, per riaffermare

confermare il tuo visto e il viaggio nel nord del

delle nuvole. Secondo lui la tecnologia riusciva

quei valori che rimandano alle parole di

Paese, come da accordi. Cordali saluti, Yasin”.

a superare tutti gli ostacoli della natura, fino a

Martin Luther King e al sogno di John Lennon.

Il castello di carte si è appena abbattuto.

sottometterla alla volontà dell’essere umano.

Viaggiare e fotografare, possono significare

Rileggo la mail, cercando ansiosamente tra le

Solo coloro che avevano questa ricchezza

anche questo, aiutare a ritrovare quella parte

righe, una piccola speranza; senza successo.

avrebbero dominato il mondo; e di questo era

di noi stessi che ci lega al mondo intero, a quei

È finita, nulla da fare per la mia avventura

assolutamene convinto. Gli facevo notare di

princìpi e a quei valori universali che possono

nella Mezza Luna fertile. Dovrò chiamare

come la “nostra” tecnologia ci allontanasse

e devono essere raccontati, perpetuati alle

David per informarlo. Ennesimo fallimento,

dalla Natura, nella presunzione di osservare,

prossime generazioni, perchè anche la storia

dopo il mio tentativo per la Siria, dove una

facendo inventario e classificando le forme

fotografica della Via della Seta può divenire un

guerra incessante, con tutta la sua crudeltà,

attraverso le quali la natura si manifesta per

mezzo efficace per raggiungere questa grande

è continuamente riaffermata sulle pagine

poterle migliorare, distanziandoci sempre più

meta, un mondo sereno nel quale vivere e

del web, con fotografie raccapriccianti, dove

da essa, rendendola più remota e misteriosa.

sorridere, insieme.


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Il Distretto di Shaar, nella città di Aleppo, Siria (ottobre 2012)

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è un fotografo, giornalista ed autore italiano riconosciuto internazionalmente per i suoi reportages in zone di conflitto. Negli ultimi dieci anni ha documentato le cause e le conseguenze degli eventi centrali della storia contemporanea, dalle Primavere Arabe alle guerre in Medio Oriente, dai conflitti Africani ed Europei all'esodo dei migranti lungo il

confine fra Messico e Stati Uniti. I suoi lavori sono stati riconosciuti dai più importanti premi fotografici al mondo come The Robert Capa Gold Medal, il World Press Photo, il Picture of the Year solo per citarne alcuni. Il suo libro “The Dream” (FotoEvidence, New York, 2016) è stato scelto fra i migliori libri fotografici dell'anno dal Time Magazine. Oggi Bucciarelli lavora come fotografo e giornalista

per l'editoria internazionale e come direttore artistico per i musei e le istituzioni italiane. Le sue fotografie sono esposte in gallerie e fiere d'arte in tutto il mondo. È il direttore artistico di WARS, Premio internazionale di fotogiornalismo dedicato ai conflitti, ideato da Atlante delle Guerre e dei conflitti, 46mo Parrallelo, InterSos e sostenuto da Montura.


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Guerriglieri del Free Syrian Army (FSA) durante un momento di pausa dagli scontri contro l’esercito di Bashar al-Assad, nella città vecchia di Aleppo (ottobre 2012)


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Giovani sfollati iracheni al campo Tazade IDP nel nord-est dell'Iraq vicino al confine con l'Iran, dicembre 2016

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Una donna irachena di fronte al campo Tazade IDP nel nord-est dell'Iraq vicino al confine con l'Iran, dicembre 2016

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La cittĂ vecchia di Aleppo, Siria, ottobre 2012


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"Via della Seta" è

Di un evento eccezionale si serba una memoria il più possibile rigida, cristallizzata nella sua forma più completa; di eventi reiterati, quasi banali, come i viaggi lungo la Via della Seta, non occorre: chiunque rifarà la stessa strada, verificherà da sé come stanno davvero le cose e lo racconterà, con i dettagli e le precisazioni del caso”. Così Claudio Cerreti risponde all’ipotetica domanda del perché per secoli non sia esistita una cartografia dettagliata di una delle reti di percorsi più importanti della storia. Semplicemente perché i percorsi erano nelle consuetudini dei carovanieri che svolgevano una tappa per volta. Quasi nessuno, salvo rarissimi viaggiatori, compiva l’intero itinerario dall’Europa all’Estremo Oriente (Quaini).

un'etichetta moderna, usata diffusamente solo a partire dalla fine del secolo XX, per definire un sistema di reti commerciali in sostanziale e persistente sovrapposizione ed evoluzione attraverso l'Afro-Eurasia. Martino Martini.

Nella maggior parte dei casi, scrive Castelnovi, “le merci percorrevano molta più strada delle persone, dato che quasi sempre i mercanti si limitavano a tragitti familiari da una stazione all’altra e viceversa. Una sorta di enorme staffetta su scala mondiale e con tempi secolari”. Fino alla diffusione della stampa con caratteri mobili, che ha consentito la realizzazione di copie in grande quantità, le mappe erano realizzate in pochissimi esemplari su supporti di varia natura. Dovevano essere necessariamente realizzate ad una ad una ed anche per questo rivestivano un grande valore economico: erano insomma da “ostentare”, ma non da portare in giro per il mondo. Una carta complessiva sarebbe servita poco o nulla. Troppo grandi le distanze tra l’Est e l’Ovest per poter indicare con una qualche precisione le montagne, i fiumi, le città. Mappe di maggiore dettaglio, che sarebbero potute servire ai carovanieri, avrebbero composto atlanti di dimensioni gigantesche: impossibili da redigere, replicare, consultare, portare in viaggio. Inoltre, fino all’epoca delle grandi scoperte geografiche ed al Rinascimento, la cartografia ha avuto spesso la funzione di rappresentare il mondo secondo le credenze religiose, più che secondo precisi rilievi di carattere scientifico. Le storie tradizionali delle Vie della Seta si concentrano spesso sulle civiltà sedentarie ai confini dell’Eurasia, la Cina Han e la

Nella pagina a fronte, Abramo Ortelio, Theatrum orbis terrarum, Carta dell'Asia

Roma Imperiale. Ma in realtà “i protagonisti principali degli scambi furono i popoli situati nel mezzo, tra cui i pastori della steppa” (Waugh). Secondo Frankopan, “c’era una buona ragione perché le culture, le città e i popoli che vivevano lungo le Vie della Seta si sviluppassero e progredissero: commerciando e scambiandosi le idee, imparavano e prendevano in prestito gli uni dagli altri, stimolando ulteriori avanzamenti nei campi della filosofia, delle scienze, del linguaggio e della religione”. Sia da parte Occidentale, sia da parte Orientale si sono sviluppate autonomamente nel corso dei secoli conoscenze geografiche e competenze cartografiche. Da entrambe le parti con innovazioni ed opere di alto livello tecnico, che poco alla volta sono entrate in contatto e si sono “contaminate”. Com’è avvenuto per merito dei cartografi islamici. O grazie alla mediazione culturale dei missionari Gesuiti. Matteo Ricci e Martino Martini, ad esempio, elaborarono opere che, per molti secoli, furono considerate fondamentali per la conoscenza dell’Occidente da parte della Cina. Lavori utili anche a far conoscere all’Europa la vera conformazione del Celeste Impero,

con la sua popolazione, gli usi ed i costumi. Ma “la scoperta non è mai stata simmetrica, paritetica e reciproca”, come scrive Castelnovi. Poiché non è mai esistito un alter ego cinese che abbia vissuto per anni in Europa, come fecero Martino Martini ed altri Gesuiti in Oriente. Ne’ che abbia cartografato i paesi attingendo ai trattati geografici degli autoctoni. Tra le tante “vie”, inizialmente carovaniere e successivamente anche marittime, lungo le quali furono trasportate una grande varietà di materie prime e manufatti dalle pellicce all’ambra, dalle spezie alle porcellane – quella che chiamiamo “Via della Seta” in realtà non sarebbe mai esistita. È quanto sostiene Susan Withfield: “Si tratta di un’etichetta moderna usata diffusamente solo a partire dalla fine del secolo XX”. Una sorta di brand ante litteram, coniato per definire “un sistema di reti commerciali interregionali in sostanziale e persistente sovrapposizione ed evoluzione attraverso l’Afro-Eurasia, per terra e per mare, a partire dalla fine del I millennio a.C. fino alla seconda metà del II millennio d.C, con scambi di seta e molti altri materiali grezzi e manufatti”. La prima mappa a riportare l’espressione “Via della


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Seta” fu infatti la carta dell’Asia centrale, realizzata nel 1877 da Ferdinand Von Richtofen (1833-1905). “La carta - scrisse Norman J.W. Thrower in “Maps and Man” - è un indicatore sensibile di come muta il pensiero, e poche altre opere umane sono uno specchio così eccellente della cultura e della civiltà”. L’idea di rappresentazione cartografica è antichissima e onnipresente. Ha infatti una qualità principale: è una forma fondamentale di comunicazione. Le carte devono essere una rappresentazione selettiva della realtà. Una simbolizzazione utile a trasmettere le conoscenze che l’uomo ha dell’ambiente. Le carte sono insomma surrogati dello spazio e la costruzione di carte è una modalità fondamentale per convertire le

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conoscenze personali in conoscenze trasmissibili (Wilford). All’origine della rappresentazione cartografica ci furono senz’altro delle “mappe di preghiera”, che guidavano i pellegrini verso i luoghi sacri; seguite da “mappe descrittive”, trasmesse oralmente da una generazione all’altra descrivendo i punti di riferimento; per arrivare fino alle “mappe fisiche”, schizzate su qualche superficie (Kapadia). Egiziani, Persiani, Greci, Romani, Cinesi… tutti i popoli, con le risorse e gli strumenti del loro tempo, hanno cercato di rappresentare il mondo conosciuto, l’ecumene, registrando nomi, distanze, tempi di percorrenza. Non si trattava di cartografia nel senso moderno del termine. Piuttosto, di elenchi di luoghi – oasi, caravanserragli, fortificazioni, centri abitati

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- posti in successione, utili alle carovane, ai mercanti, ai militari, ai pellegrini. Riferendosi a documenti del secondo millennio avanti Cristo, Wilford afferma che all’epoca la civiltà cinese aveva già elaborato il concetto di carta geografica. Risalgono al 2300 a.C. anche le tavolette di argilla di Nuzi, in Iraq. Le mappe catastali sarebbero state il fondamento dell’antica cartografia in Mesopotamia ed Egitto. D’altronde i domini di Ciro o di Dario si estesero fino all’Asia centrale e resero necessario dotare l’impero di infrastrutture viarie, ma pure di strumenti per la conoscenza ed il controllo del territorio. Forse i Babilonesi furono i primi a produrre anche una rappresentazione grafica del mondo: una tavoletta d’argilla, risalente al VI secolo


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Claudio Tolomeo, Cosmographia, Mappamondo in proiezione sferica

Nel secondo secolo d.C. Claudio Tolomeo d’Alessandria mappò il mondo conosciuto dall’Impero Romano. Con una precisione innovativa, anche dal punto di vista tecnico, introdusse la latitudine e la longitudine.

a.C., rappresenta la Terra come un disco circondato dall’oceano. C’è un ingrediente comune a tutte le mappe tracciate nel corso dei secoli: le storie. “Le mappe traboccano di storie”, ricorda Edward Brooke Hitching. Già nella prima Età della Pietra, secondo Helmut Uhlig, esistevano dei collegamenti che dai Pirenei raggiungevano la Siberia. Nel Neolitico, la strada della steppa divenne a tutti gli effetti una via commerciale. Bulnois cita frammenti di seta, molto probabilmente cinese, scoperti su una mummia egizia risalente al 1000 a.C. Altri frammenti furono scoperti in Germania in tombe del VII secolo a.C. ed in Grecia (V secolo a.C.). “Sericum”, la seta. Seneca era inorridito dalla popolarità di cui godeva a Roma e nei territori dell’Impero

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questo tessuto: un simbolo di “esotismo ed erotismo”. Un prodotto di cui non si conosceva ancora l’origine. Solo molto tempo dopo si scoprì il ruolo del baco ed il processo di lavorazione plurisecolare sviluppato in Oriente, da un popolo chiamato “Seres”, i Seri. “Ser” deriverebbe proprio dalla parola cinese che indica la seta, pronunciata oggi nel cinese di Pechino come “sew”, trascritto come “si” nell’alfabeto fonetico pinyin. L’origine della concezione cinese della terra quadrata sotto un cielo rotondo si fa risalire al periodo Zhou, come risulta da documenti del V secolo a.C. Il mondo cinese appare rappresentato come una scacchiera circondata su ogni lato dal mare. Il “Libro dei monti e dei mari”, del IV secolo a.C. offriva già ai Cinesi informazioni geografiche che si estendevano fino all’Asia centrale. Secondo Erodoto (V secolo a.C.) il mondo comprendeva l’India, ma non i territori a nord del Mar Caspio. Le spedizioni in Oriente di Alessandro Magno (336-323 a.C.) ampliarono le conoscenze di base dei territori conquistati dal condottiero macedone. Ma ancor più i miti e le credenze, che sarebbero resistiti per molti secoli, spesso ben oltre la vita di città e di fortificazioni. L’apertura delle vie commerciali che diedero origine a quella che insistiamo a chiamare Via della Seta va collegata alla grande rivoluzione del 221 a.C., ossia l’unificazione della Cina sotto un’unica dinastia regnante, quella dei Qin, ad opera del sovrano Ying Zheng, che assunse il nome di Shi Huangdi e che portò al dissolvimento dell’antico sistema feudale. Peter Hopkirk scrive che “un secolo prima della nascita di Cristo un giovane e avventuroso viaggiatore cinese chiamato Chang Ch’ien (o Zhang Qian) - inviato dall’imperatore della dinastia Han WuDi, che portava il titolo ufficiale di “Figlio del Cielo” - attraversò la Cina dell’epoca per una missione segreta nelle allora remote e misteriose regioni dell’Ovest. Pur non riuscendo a raggiungere l’obiettivo specifico della missione, il suo viaggio si rivelò uno dei più importanti della Storia, perché avrebbe condotto la Cina a scoprire l’Europa”. L’esploratore partì nel

275 138 a.C. con una carovana di cento uomini: ne tornò uno soltanto. Fu lui ad aprire la pista occidentale verso l’Europa, quella che avrebbe collegato le due superpotenze dell’epoca: la Cina imperiale e la Roma imperiale. Sarebbe dunque lui da considerare a buon diritto il “padre” della Via della Seta. Chang Ch’ien gode ancora oggi in patria di vasta considerazione, al pari dell’ammiraglio Zheng He, vissuto a cavallo del quattordicesimo secolo sotto la dinastia Ming ed autore di straordinarie esplorazioni navali. Alle prime esplorazioni fecero seguito “ambascerie” della dinastia Han verso l’Asia centrale, documentate già a partire dal 130 a.C. Per secoli l’intermediazione tra Cinesi e Romani venne svolta dai Parti che, padroni dell’antica “strada regia” degli Achemenidi di Persia si erano interposti come barriera etnica, politica e culturale praticamente insuperabile e al tempo stesso come elemento di raccordo indispensabile tra il mondo occidentale e l’Oriente (Surdich). Al capo opposto dell’Eurasia, Roma rispose a modo proprio all’esigenza di controllare militarmente e di esigere i tributi dei territori posti sotto il dominio imperiale. Cesare Augusto affidò a Marco Agrippa (63-12 a.C.) un grande progetto di cartografazione, che comprendeva la rilevazione di migliaia di chilometri dalla Britannia al Medio Oriente. Roma ambiva ad espandersi fin dove era arrivato Alessandro, che aveva fondato le sue città fino agli odierni territori del Pakistan, dell’Afghanistan e dell’India settentrionale. Nella “Geografia” di Strabone, opera in 17 libri redatta tra il 14 ed il 23 d.C., vennero descritte le colonie greche fondate fin nell’odierno Uzbekistan. Le conoscenze geografiche ed etnografiche di quel periodo furono raccolte anche nell’enciclopedica “Naturalis Historiae” di Plinio il Vecchio, pubblicata nel 77 d.C. Nel 97 d.C., il generale cinese Ban Chao attraversò il Tien Shan, facendo marciare un esercito di 70 mila uomini fino al Mar Caspio. Nell’occasione cercò di inviare un proprio emissario fino a “Da Quin” (Roma): l’ambasciatore sarebbe però arrivato solo fino al Mar Nero. Le prime “ambascerie” romane che raggiunsero materialmente l’antica Cina risalgono invece a Marco


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Aurelio, attorno al 166 d.C., alcuni decenni dopo la spedizione cinese. Come si può notare, da una parte e dall’altra ci fu sempre un grande interesse verso i popoli abitanti all’estremo opposto. Nel secondo secolo d.C. Claudio Tolomeo d’Alessandria (138-180 d.C.), rifacendosi anche ai lavori di Marino di Tiro e di altri studiosi greci, mappò il mondo conosciuto dall’Impero Romano. Con una precisione innovativa, anche dal punto di vista tecnico, introdusse la latitudine e la longitudine. Il suo mondo era costituito da tre continenti: l’Europa, l’Asia e l’Africa. L’Asia veniva mostrata fino ai suoi confini orientali, ma non veniva rappresentato il mare che vi era oltre. All’estremità orientale si trovavano i “Sini”, i Cinesi. La sua “Geografia”, pubblicata attorno al 140 d.C., conteneva un dizionario di ben ottomila toponimi. Divenne però una pietra miliare delle conoscenze geografiche solo a partire dal 1407, nel momento in cui fu disponibile la traduzione latina. All’alba delle grandi scoperte geografiche, rese possibili attraverso le navigazioni oceaniche, il lavoro di Tolomeo mostrò però i limiti del sapere classico europeo. E qualche errore grossolano, come ad esempio l’impossibilità di circumnavigare il continente africano. Un errore che venne svelato solo nel 1488, quando Bartolomeo Diaz doppiò il Capo di Buona Speranza, offrendo la possibilità a Vasco da Gama di approdare pochi anni dopo, nel 1498, nel subcontinente indiano. Nello stesso periodo i Cinesi compirono passi da gigante nel campo della rappresentazione dello spazio geografico. Chang Heng, quasi contemporaneo di Tolomeo, tracciò una rete di coordinate riferite al Cielo ed alla Terra. Gli fece seguito Pei Xiu (224-271 d.C.), paragonabile a Tolomeo per la profondità della cultura e considerato il “padre fondatore” della rappresentazione cartografica del territorio imperiale cinese (Zongghuo, “Regno di Mezzo”), distinto dai territori esterni abitati da “popoli tributari” (una forma di considerazione per l’altro simile a quella dei “popoli barbari” adottata in Europa). Pei Xiu elencò i “Sei princìpi” o “elementi essenziali” della cartografia e produsse alcune famose mappe che avrebbero fornito le informazioni di base per lunghi secoli. I

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termini usati da Pei Xiu per descrivere le coordinate cartografiche – “ching” e “wei” – nel linguaggio della tessitura significano “trama” e “ordito”. I Sei principi sarebbero rimasti in uso in Cina per più di un millennio: 1. Definizione della scala per rappresentare la dimensione delle superfici; 2. Collocazione della morfologia del territorio su un reticolo rettangolare; 3. Misurazione dei triangoli rettangoli per calcolare le distanze reali; 4. Misurazione delle altezze e delle profondità; 5. Misurazione degli angoli retti e degli angoli acuti; 6. Conversione delle misure reali in dimensioni proporzionali sulle mappe. Completamente diversa dall’approccio di Tolomeo, anche se temporalmente non molto lontana dal suo lavoro, fu la Tabula Peutingeriana, che prese il nome da Konrad Peutinger di Augsburg, illustre studioso del Cinquecento. Si tratta della più antica descrizione pittorica del mondo antico, copia medievale su pergamena di una carta originale del IV secolo d.C. che comprende l’intero Impero Romano. Fu realizzata probabilmente per ragioni politiche più che per la navigazione.

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Non fu dunque uno strumento pratico, ma un’opera d’arte cartografica, lunga circa 7-8 metri ed alta soli 33 centimetri. Celebrò il dominio ininterrotto di Roma e presentò l’immagine della Terra così come la vedevano e la conoscevano gli antichi: con i tre continenti Europa, Asia ed Africa circondati dal grande Oceano. La teoria tolemaica postulava infatti che l’Oceano Indiano fosse un mare chiuso. La Tabula si sviluppava come un diagramma degli itinerari terrestri e non come una carta vera e propria, tanto da essere stata paragonata in epoche successive ad uno “schema ferroviario”. La Cina, chiamata “Sera Maior”, apparve in questa mappa come l’estrema ed ultima tappa, ancora più lontana delle terre indiane toccate da Alessandro Magno. “Sera Metropolis” fu invece la denominazione occidentale dell’odierna Xi’an, l’antica capitale della Cina, Chan Han, terminale del grande fascio di carovaniere che attraversavano l’Eurasia. L’”Itinerario da Bordeaux a Gerusalemme”, di anonimo viaggiatore dell’anno 330, è la più antica guida del pellegrino a


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noi pervenuta ed è ricca di informazioni sulla direzione, i luoghi e le distanze, pur non contenendo alcuna carta. La geografia antica faceva infatti raramente uso della cartografia e si basava quasi esclusivamente sull’elenco di singoli toponimi nella successione in cui potevano essere incontrati da un ipotetico viaggiatore. Secondo Quaini e Castelnovi, “gli Europei per tutti i secoli del Medioevo nutrirono sempre un senso di inferiorità nei confronti dell’Asia, dal punto di vista culturale prima ancora che cartografico”. In Asia doveva essere necessariamente rappresentata Gerusalemme, luogo della morte e resurrezione di Cristo, che nella simbologia cartografica cristiana aveva assunto il ruolo di “centro del mondo”. Si diffuse così uno schema di mappamondo detto “T-in-O”, nel quale Gerusalemme era posta al centro dell’ecumene. I tre continenti erano divisi da tre grandi acque: il mar Mediterraneo, il fiume Nilo ed il fiume Don (Tanai). Il tutto era circondato da un “fiume Oceano”, circolare. L’Est predominava sull’intera immagine: la carta era orientata con l’Est

Si diffuse così uno schema di mappamondo detto “T-in-O”, nel quale Gerusalemme era posta al centro dell’ecumene. I tre continenti erano divisi da tre grandi acque: il mar Mediterraneo, il fiume Nilo ed il fiume Don (Tanai). Il tutto era circondato da un “fiume Oceano”, circolare.

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in alto, da cui la derivazione del verbo “orientare”, ancora in uso ma con significati parzialmente diversi. Una “mappa mundi” medievale era una schematizzazione dove i simboli predominavano rispetto alla realistica rappresentazione dello spazio. L’Asia non fu soltanto il luogo dei sogni, ma anche l’origine delle paure. I timori dell’Apocalisse e delle scorrerie militari furono simboleggiati dal mito di “Gog” e “Magog”, citati anche nelle sacre scritture, ubicati nella maggior parte dei casi all’estremità nord-orientale dell’Asia, ma talvolta anche in Cina. Nel corso del Medioevo, un apporto fondamentale allo sviluppo delle relazioni e delle conoscenze tra Europa ed Oriente fu dato dal mondo islamico, cerniera tra i due grandi poli di civiltà in un periodo di crisi politica. I mercanti musulmani compresero la grande importanza delle comunicazioni tra le varie province dell’impero che dominava in Asia centrale, “rendendo agibili grandi vie commerciali con l’istituzione di una rete di caravanserragli atti a proteggere uomini e beni durante i lunghi spostamenti” (Gagliardi Mangilli). Furono anche il veicolo di diffusione di importanti scoperte, invenzioni e conoscenze, come la carta, la bussola e la polvere da sparo. La fondazione di università, accademie ed osservatori astronomici favorì la conservazione della cultura greca e la successiva rinascita della cultura europea dopo le invasioni barbariche. Ereditando il lavoro di Tolomeo, gli studiosi arabi e persiani del IX secolo elaborarono le mappe del mondo. Muhammad Ibn Musa al-Khwarizmi portò a termine nell’833 il “Libro sulla forma della Terra”, nel quale tra l’altro corresse la misurazione tolemaica del Mediterraneo. Ibn Khordadbeh realizzò il più antico testo arabo di “geografia amministrativa”, con la descrizione di rotte commerciali fino alle Indie. Al-Kashgari (XI secolo d.C.) realizzò un dizionario con planisfero, incentrato sui territori di lingua turchica. E molti altri studiosi, oggi praticamente sconosciuti in Occidente, assicurarono uno sviluppo straordinario alla geografia dell’epoca mentre l’Islam si diffondeva in Asia centrale. La carta geografica medievale forse più completa del mondo allora conosciuto

277 fu commissionata dal Re normanno di Sicilia Ruggero II (di qui il nome di “Tabula Rogeriana”) e venne realizzata nel 1154 d.C. dal geografo di origine marocchina Al-Idrisi: un atlante contenente un mappamondo circolare e 70 carte regionali di forma rettangolare, con un testo accompagnatorio in latino ed in arabo. Dal IV al XIV secolo l’Europa non fu in grado di far evolvere i principi consigliati da Tolomeo per elaborare una cartografia scientifica. Secondo Wilford, le carte erano più ecclesiastiche che cartografiche, più simboliche che veritiere: “Invece di osservare la realtà riflettevano la dottrina cristiana”. Emblematico in questo senso fu il lavoro di Sant’Isidoro di Siviglia, le “Etimologie”, prima enciclopedia della cultura occidentale, che all’inizio del VII secolo determinò con grande precisione l’ubicazione del Paradiso. Era posto ad Oriente, naturalmente, come stava scritto nel libro della Genesi. Da una fonte situata nel Paradiso scaturivano quattro fiumi: Gange, Tigri, Eufrate e Nilo. In Oriente si sarebbe dovuto trovare pure un sovrano cristiano di inimmaginabile potere e ricchezza, forse discendente dei Re Magi: il Prete Gianni. La sua esistenza – reale o immaginata – influenzò per secoli la cultura occidentale, caratterizzando carte e mappamondi, insieme ad una molteplicità di simboli, storie, popoli, piante ed animali fantastici. In Asia vennero dunque situate tutte le cose più preziose ed esotiche, ma anche i più grandi pericoli per la cristianità, come l’Apocalisse e l’Anticristo. Diversamente dall’Europa, la Cina progredì nello sviluppo della rilevazione cartografica: un esempio dell’elevato livello di precisione raggiunto fu la pubblicazione, nel 1136, della “Mappa dei cammini di Yu”. La conquista della maggior parte del continente euroasiatico da parte di Temujin, meglio conosciuto come Gengis Khan (1162-1227) e dei suoi successori, avvenuta nel corso del tredicesimo secolo (indicativamente tra il 1206 ed il 1279), dopo la fase iniziale di distruzioni, stragi e saccheggi portò ad uno dei periodi di pace più lunghi della storia. L’eliminazione del califfato di Baghdad e la sottomissione della Persia al dominio mongolo tolsero ai mercanti musulmani il monopolio dell’intermediazione tra Oriente


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ed Occidente e favorirono l’insediamento permanente a Levante di mercanti europei ed in particolare italiani. Venezia e Genova iniziarono così a svolgere un ruolo di primo piano. Kublai Khan (scritto anche Qubilai, 12151294), nipote di Gengis, conquistò le province meridionali della Cina unificando l’intero paese sotto il suo dominio, fondando la dinastia Yuan. Nel 1286 commissionò un planisfero che fu alle origini della “Mappa integrata del Grande Impero Ming”, che identificò toponimi di monti e fiumi, città ed isole dalla Penisola Iberica fino al Giappone, con il continente africano contornato dal mare. Pensando alle Vie della Seta ci immaginiamo il transito di un grande flusso di merci. Ma in realtà sulle rotte commerciali transitavano anche religioni, miti e… malattie. Scrive Frankopan che “a scorrere lungo le arterie che collegavano il mondo non erano solo feroci guerrieri, merci, metalli preziosi, idee e mode. In realtà, qualcosa di completamente diverso era entrato in quel flusso sanguigno e produsse un impatto più profondo: la malattia. I Mongoli non avevano distrutto il mondo, ma appariva più che probabile che potesse distruggerlo la “peste nera”. L’epidemia veicolata anche attraverso le invasioni militari ed i traffici commerciali portò infatti, attorno al 1350, alla morte di circa un terzo della popolazione europea. I Francescani furono, in un primo tempo, l’ordine religioso più impegnato lungo la direttrice asiatica. Papa Innocenzo IV, al secolo il genovese Sinibaldo Fiaschi (l’origine ligure non è un dato secondario, in considerazione del ruolo fondamentale svolto da Genova e Venezia nell’esplorazione geografica e commeciale del Vecchio Mondo), inviò nel 1245 il vescovo Giovanni da Pian del Carmine quale legato pontificio a Karakoram, capitale dei Mongoli, per chiedere al sovrano Guyuk Khan (altro nipote di Gengis, 1206-1248) la conversione al cristianesimo e la rinuncia alla conquista dell’Europa. Quindici anni prima dei fratelli Polo, egli fu il primo europeo a percorrere 10 mila chilometri “per portare a compimento la volontà di Dio”. La sua “Historia Mongalorum” influenzò notevolmente la conoscenza

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geografica europea sull’Asia e l’Estremo Oriente. Così come il successivo lavoro di un altro francescano, Odorico da Pordenone: egli fu il primo viaggiatore europeo che visitò e descrisse la capitale del Tibet, Lhasa. Il re francese Luigi IX inviò quindi in Mongolia, tra il 1252 ed il 1255, il francescano fiammingo Guglielmo di Ruysbroeck (o Rubruck), pure egli autore di una relazione di grande importanza. Il primo Papa francescano, Nicolò IV, inviò in Cina nel 1289 il confratello Giovanni da Montecorvino. L’iniziativa nacque in seguito alla richiesta di nuovi missionari da parte di Qubilai Khan. Il frate svolse un enorme lavoro nella costruzione della chiesa cattolica cinese, che venne però bandita nel secolo successivo dall’ascesa al potere della dinastia autoctona dei Ming. Anche i monaci pellegrini cinesi, in epoche precedenti, realizzarono itinerari corredati da distanze. Le carte vennero redatte prevalentemente per dimostrare le divisioni politiche ed amministrative interne alle regioni attraversate. Tutti questi “delegati”, “ambasciatori”, “viaggiatori” e “missionari” non furono cartografi o geografi nel senso dei termini a noi conosciuti. Ma le loro relazioni contribuirono a favorire la formazione di mappe, planisferi, atlanti sempre più attendibili e veritieri. Questo ragionamento vale per una pubblicazione su tutte: “Il Milione” di Marco Polo e Rustichello da Pisa. Un’opera “ibrida” tra il manuale di commercio ed il romanzo d’avventura, destinata ad un successo straordinario e duraturo, per l’epoca secondo soltanto alla Bibbia. Il padre Niccolò e lo zio Matteo Polo, nel loro peregrinare alla ricerca di occasioni di guadagno commerciale, si spinsero fino alla corte di Qubilai Khan, che li accolse con grande favore e li invitò, con richiesta rivolta al Papa, a far inviare in Cina cento sacerdoti cattolici. Rientrati a Venezia nel 1269, i Polo ripartirono per l’Oriente nel 1271 con il giovane Marco, all’epoca diciassettenne. A San Giovanni d’Acri incontrarono il legato pontificio in Terrasanta, Tebaldo Visconti: anche qui il destino giocò le sue carte, poiché poco tempo dopo il Visconti assurse al soglio di Pietro con il nome di Papa Gregorio X. Ben accolto da Qubilai Khan a Khanbaliq (l’odierna Pechino; gli imperatori di origine mongola risiedevano in precedenza a Karakoram) nel maggio del 1275, per quasi

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vent’anni egli svolse importanti funzioni nell’ambito dell’amministrazione mongola. Rientrarono a Venezia nel 1295. Nel 1298 Marco venne fatto prigioniero dei Genovesi a Curzola, durante la battaglia tra le due Repubbliche marinare ed incarcerato nella città della Lanterna. Qui, tra il 1298 ed il 1299, dettò al novelliere toscano Rustichello – che ci “aggiunse” del suo “Le Divisament du Monde”, il “libro delle meraviglie”, destinato a diventare noto come “Il Milione”, dal soprannome dato alla stirpe dei Polo, per aferesi da “Emilione”. Ci siamo soffermati così a lungo su Marco Polo poiché, pur non avendo egli lasciato appunti cartografici, alcuni elementi della sua descrizione ebbero una straordinaria influenza sulla cartografia successiva, fino ancora nel Sei-Settecento. Nel 1555 il Ramusio reputò Marco Polo, come viaggiatore, persino superiore a Cristoforo Colombo. È noto peraltro come nella biblioteca privata del grande navigatore genovese fossero presenti diverse edizioni del “Milione”, con note ed appunti autografi. Probabilmente il più interessante dei mappa mundi (tra quelli ancora oggi conservati) realizzati al tempo del viaggio dei Polo, fu quello di Hereford, dipinto tra il 1276 ed il 1283. Gli studiosi lo considerano una sintesi del pensiero medievale ed un traguardo della cartografia dell’epoca. In quello di Ebstorf, di poco precedente (1230 ca.) compaiono i Seres (Cinesi) intenti nel raccogliere la seta dagli alberi. Nel “Libro della conoscenza di tutti i Regni” redatto in Spagna all’inizio del Trecento, si affermò che il “Catayo” si trovava alla stessa latitudine della Penisola Iberica. Una constatazione che confermava la suddivisione dell’ecumene in fasce climatiche e l’Asia come parte fondamentale degli spazi abitati. Viaggiatore instancabile di questo periodo fu anche Ibn Battuta, considerato il Marco Polo del mondo islamico, rimasto ignoto all’Occidente fino al XIX secolo. Egli completò nel 1355 l’opera “I Viaggi” (“Rihla” in arabo), un incredibile resoconto di 29 anni attraverso Asia ed Africa. Tra le varie opere commissionate da Qubilai vi fu la compilazione, tra il 1285 ed il 1294, della “Gazzetta unificata dei Grandi Yuan” ad opera del geografo ed


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astronomo musulmano Jamal al-Din. Un lavoro che “evidenzia come i sistemi di conoscenza e le competenze occidentali e orientali furono unite sotto i Mongoli. L’opera mostra anche che i Mongoli mantennero una visione altamente “ideologica” del mondo, inteso come impero universale sotto il loro controllo… I territori al di fuori della Mongolia venivano percepiti attraverso una visione militare: come popoli che erano già stati sottomessi o che dovevano esserlo a breve” (Buell e Fiaschetti, in Antonucci op. cit.). Una visione che possiamo immaginare comune anche ad Amir Timur, meglio conosciuto in Occidente come Tamerlano (1336-1405). Dalla sua capitale, la mitica Samarcanda – la “Maracanda” dei Greci – il condottiero estese nuovamente fino ai più estremi confini gli imperi che furono prima di Alessandro Magno e poi di Temujin (Gengis Khan). Fulcro del potere fu l’antica Sogdiana, la Transoxiana dei Greci (area posta nel bacino tra Amu Darya e Syr Darya), nei secoli un’area centrale nelle

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vicende della Via della Seta, il ponte che mise in comunicazione l’impero persiano e quello cinese.

che vivevano a migliaia di chilometri di distanza come prima non era mai accaduto.

Francesco Balducci Pegolotti, agente a Cipro della casa fiorentina dei Bardi scrisse fra il 1310 e il 1342 La “Pratica della mercatura”. Il lavoro si apriva con l’”Avisamento del Viaggio al Gattaio per lo cammino della Tana ad andare e tornare con mercantie”. Qui veniva descritto l’intero itinerario che dai porti della Crimea conduceva al Catai (Cina). Accompagnato da un succinto ma preciso elenco dei prodotti, dei pesi, delle misure, delle monete e dei dazi vigenti nei singoli paesi attraversati. L’instaurazione della “Pax Mongolica” fece considerare all’autore che le strade erano così sicure che “una vergine avrebbe potuto percorrerle nuda con un piatto d’oro sulla testa e non ricevere alcuna molestia”. In effetti questo periodo di dominio incontrastato della potenza mongola, forse l’impero più grande mai costruito nella storia dell’umanità, favorì una mobilità ed un interscambio tra popoli

Il toponimo “Catai”, con il quale Marco Polo designò la Cina o, più propriamente, la parte settentrionale del Paese che costituiva il nucleo centrale dell’impero del Gran Khan, apparve per la prima volta in alcuni mappamondi dei primi anni del Trecento eseguiti a Venezia. Il primo mappamondo che si può classificare come moderno fu disegnato nel 1320 da Pietro Vesconte ed inserito nel trattato “de Mapa mundi” di Frà Paolino Minorita. Anche nell’Atlante Catalano, realizzato nel 1375 dal cartografo ebreo maiorchino Abraham Cresques per conto del Re Carlo V di Francia furono evidenti le relazioni con il testo poliano. Quest’opera costituì una rivoluzione, poiché rigettò l’esperienza dei mappamondi “T-in-O”, rinunciando alla collocazione centrale di Gerusalemme e rifiutando la forma tradizionale dell’ecumene. Una legenda spiegava che la terra è una sfera, di cui il mondo conosciuto occupa solo una parte della zona abitabile. La conoscenza dell’Asia è qui molto lontana dalle mappe dei secoli precedenti, anche se non mancano delle reminiscenze. Ma ritorniamo in Cina. La “Mappa generale delle distanze e delle capitali storiche” del 1402 – nota come “Mappa Kangnido” – incluse per la prima volta parte dell’Europa Occidentale e mediterranea. Il celebre “Mappamondo di Fra Mauro”, pubblicato nel 1459 ed oggi custodito nella Biblioteca Marciana di Venezia, riportava alcuni brani descrittivi del Milione. Circa 4.000 “didascalie” contenevano dati e informazioni di ogni sorta sui vari luoghi dell’ecumene. L’orientamento non era più ad Est, come voleva la tradizione cristiana, che si rivolgeva a Gerusalemme; ma a Sud, come nelle carte arabe. Fra Mauro recepì le conoscenze del tempo e le rappresentò con maggiore fedeltà di ogni altro e con un lodevole senso delle proporzioni. Secondo Larner “il monaco dovrebbe essere salutato come un grande eroe del Rinascimento italiano” (Wilford). Frà Mauro, Mappamondo circolare con il sud rivolto in alto


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Ortelio è considerato uno dei padri della geografia moderna. Nella mappa della Cina inserita nell’edizione del 1584 vi comparve, per la prima volta in una carta a stampa, la Grande Muraglia.

Abramo Ortelio, Theatrum orbis terrarum, Planisfero in proiezione ovale

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Anche nel globo di Martin Behaim (1492) esposto nel Museo di Norimberga, compaiono il “Catai” ed il “Zipangu” (Giappone). Si tratta del più antico globo terrestre conservato, costruito ancora secondo la tecnica delle carte nautiche manoscritte. Il Cinquecento portò grandi novità. In un planisfero realizzato nel 1537 per conto di Carlo V d’Asburgo comparve per la prima volta il toponimo “Cina”. Un altro toponimo importante, “America”, era comparso solo trent’anni prima sulla mappa di Martin Waldseemueller. In Cina, l’Atlante terrestre ampliato, pubblicato nel 1555, riassunse tutte le opere precedenti, con una dettagliata descrizione dell’Impero Ming. Da quest’opera i Gesuiti attinsero le conoscenze sul territorio cinese: la Cina al centro, con descrizione accuratissima. Intorno gli altri paesi, in dimensioni ridotte. Poco importanti, in quanto lontani dal

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centro, costituito dalla capitale dell’impero. L’epoca delle grandi esplorazioni navali portò ad un progressivo miglioramento delle fonti cartografiche. Un ruolo straordinario fu svolto dagli studiosi di parte fiamminga ed olandese. Un velo si stese invece sulle Vie della Seta, data la concomitanza di questioni geopolitiche (dalla caduta di Costantinopoli alle lotte interne, in Europa come in Estremo Oriente) e commerciali. Le vie marittime consentivano di trasportare quantità molto maggiori a prezzi più competitivi rispetto alle carovaniere. Luce Bulnois scrive che “dopo la scoperta del Nuovo Mondo e la circumnavigazione dell’Africa da parte dei Portoghesi, la geografia economica del mondo era cambiata. Il concetto di “via della seta” non può più essere applicato ad alcunché”. Il ruolo guida svolto da Venezia nell’economia medievale venne inizialmente assunto in epoca


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rinascimentale da Anversa, dove operarono grandi scienziati come Abramo Ortelio e Gerardo Mercatore. Per l’influenza svolta sulle opere successive dal suo “Theatrum orbis terrarum” (pubblicato nel 1570), un lavoro che stabilì nuovi standard, Ortelio è considerato uno dei padri della geografia moderna. Nella mappa della Cina inserita nell’edizione del 1584 vi comparve, per la prima volta in una carta a stampa, la Grande Muraglia. L’evoluzione definitiva per lo sviluppo della cartografia scientifica giunse con la pubblicazione a Duisburg, a partire dal 1585, dell’”Atlas sive cosmographicae meditationes” di Gerardo Mercatore, inventore della proiezione universale a latitudini crescenti (UTM). Nel planisfero di Gerardo Mercatore (1569) erano indicati ben 73 toponimi tratti dal Milione. Nello stesso periodo, la carta dell’Asia realizzata a Venezia dal cartografo Giacomo Gastaldi riportava quasi tutte le località ricordate da Marco Polo.

Giulio Aleni, Geografia dei paesi non tributari, Mappamondo in proiezione ovale e in due emisferi

Il principale polo produttivo, culturale ed economico d’Europa divenne quindi Amsterdam, dove alla vigilia del 1600 fu fondata la prestigiosa casa editrice Blaeu. La quale, nel 1606, lanciò sul mercato una grande carta del mondo che riscosse grande successo. Il planisfero alla cui realizzazione contribuì il gesuita Matteo Ricci, pioniere dell’Occidente in Cina, perfezionò le conoscenze dell’Europa a Pechino. La “Carta geografica completa dei monti e dei mari” fu pubblicata nel 1600 e negli anni successivi con ulteriori edizioni. Dal punto di vista cartografico, il principale erede di Ricci fu Giulio Aleni. Egli elaborò il primo trattato di geografia tradotto in cinese, due planisferi e la “Geografia dei paesi non tributari”, stampata ad Hangzhou nel 1623. Dopo Ricci, l’autore più importante per la costruzione della visione geo-cartografica del Celeste Impero fu Martino Martini. Il “Novus Atlas Sinensis”, pubblicato da Blaeu ad Amsterdam nel 1655 attingendo a molte fonti cinesi, ebbe l’effetto di dare una scossa alla coscienza europea. Eliminò molti dei pregiudizi e dei falsi miti accumulatisi nel corso dei secoli precedenti, rivolgendosi ad un pubblico molto ampio. L’atlante, originariamente pubblicato in latino, fu prontamente

tradotto nelle principali lingue europee. Inserito nell’”Atlas Maior” di Blaeu, la più grande impresa editoriale del XVII secolo, l’atlante di Martini divenne una lettura imperdibile per intere generazioni di mercanti e viaggiatori diretti in Estremo Oriente. Dai Prà scrive che “la produzione cartografica di Martini riuscì a divenire un punto di riferimento essenziale per le diverse scuole geografiche e cartografiche europee, con influssi in Italia, Francia, Olanda ed Impero Russo”. Per Bressan, “anche nel campo della geografia e della cartografia, dove i Cinesi erano di circa 200 anni avanti rispetto agli europei, ma soltanto per quanto riguardava la conoscenza dell’Estremo Oriente (…) in 200 anni di attività i Gesuiti compilarono oltre 43 opere geografiche e cartografiche, contribuendo a far conoscere il resto del mondo ai Cinesi”.

La grande mole di informazioni geografiche, etnografiche, storiche trasmesse in Europa a cavallo tra i secoli XVII-XVIII, nonché le prime mappe della Tartaria e dell’Asia centrale si devono all’attività di altri missionari Gesuiti, in particolare Jean-Francois Erbillon e Antoine Thomas. In Europa, al primato della scuola olandese fecero seguito i progressi determinati dai “geografi del Re di Francia”, gli scienziati al servizio di Luigi XIV, dopo la fondazione dell’Accademia reale delle Scienze voluta da Colbert. Un importante ruolo fu svolto nel ‘700 da Jean Baptiste Du Halde (il “Compendio sulla Cina” vide la luce nel 1735) e da Jean Baptiste Bourguignon d’Anville. Alla conoscenza della parte interna dell’Asia contribuirono quindi anche i Tedeschi – abbiamo già citato Von Richtofen, “ideatore” della denominazione


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“Via della Seta” - ed i Russi, spronati dallo Zar Pietro I “Il Grande” a conoscere e presidiare i territori orientali, anche con il protagonismo di esploratori di straordinario valore come Vitus Bering. La cartografia, sempre più una scienza con strumenti e regole precise, assunse in questa epoca anche un ruolo di servizio allo sviluppo coloniale dei Paesi europei, imponendo spesso una visione utilitaristica in funzione degli interessi economici delle potenze in campo. In seguito alla Rivoluzione industriale, la supremazia economica passò in mano britannica, che pure nella produzione cartografica assunse ruoli di primo piano. La carta dell’Asia contenuta nel “World Atlas” di John Bartholomew (1865) raggiunse livelli di raffinatezza prima impensabili, grazie all’evoluzione delle tecniche di stampa. Rappresentò

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Il “Novus Atlas Sinensis”, pubblicato da Blaeu ad Amsterdam nel 1655 attingendo a molte fonti cinesi, ebbe l’effetto di dare una scossa alla coscienza europea. Eliminò molti dei pregiudizi e dei falsi miti accumulatisi nel corso dei secoli precedenti, rivolgendosi ad un pubblico molto ampio.

Martino Martini, Novus Atlas Sinensis, Carta della Cina


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graficamente la peculiare forma della Via della Seta, con gli itinerari che convergono sullo stretto corridoio compreso tra il deserto del Gobi a nord e le montagne del Tibet a sud. È questo il periodo ed il contesto geografico nel quale si svolge il “Grande Gioco” tra Britannici e Russi (i quali lo chiamavano il “Torneo delle Ombre”): un conflitto che contrappose i due imperi in Asia Centrale ed in Medio Oriente nel corso del XIX secolo.

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alle ciclopiche dimensioni delle aree interessate. Per questo, fino ad ora, solo una parte dei percorsi sono stati riconosciuti quali patrimoni dell’umanità. Il 22 giugno 2014, nella riunione di Doha in Qatar, fu approvata la domanda della candidatura denominata “Vie della Seta – Chang’an-Tianshan Corridor”, che consiste in 33 siti di varia natura, tra città, palazzi, templi e sezioni della Grande Muraglia (https://whc.unesco.org/en/list/1442

Una nuova epoca nello studio della geografia dell’Asia centrale venne aperto nella seconda metà dell’Ottocento anche dalle esplorazioni di Nikolaj Michajlovič Prževal’skij: almeno quattro quelle principali, che lo portarono ad attraversare il deserto del Gobi, la catena del Tien Shan ed a ripercorrere alcuni itinerari che nessuno aveva più cavalcato dai tempi di Marco Polo. Al grande esploratore di origine svedese Sven Hedin, allievo di Von Richtofen ed attivo in Asia a cavallo tra Ottocento e Novecento, è riconosciuto il merito della produzione della prima mappa dettagliata di Pamir, Taklamakan, Tibet – pur non essendo egli mai riuscito ad entrare a Lhasa – e dell’Himalaya. La produzione cartografica ebbe modo di migliorare sensibilmente la rappresentazione dell’Asia centrale grazie al contributo di questi e di altri straordinari personaggi, come l’archeologo britannico di origine ungherese Aurel Stein, per citare uno dei più conosciuti. Per quanto riguarda la cartografia più recente, nell’epoca di Google e dei satelliti che rilevano i dettagli della superficie della Terra con definizioni “al centimetro”, può assumere un certo interesse la documentazione di cui si compone il dossier di candidatura delle Vie della Seta quale “Patrimonio dell’Umanità” dell’UNESCO. Già a partire dal 1988 l’UNESCO si attivò per riconoscere il grandioso contributo culturale fornito dalle carovaniere attraverso l’Eurasia. Nel 2006 la Repubblica Popolare Cinese, insieme con altre 5 Repubbliche centro asiatiche concordarono di portare avanti una candidatura entro il 2010. Anche Iran ed India si mossero successivamente in questa direzione e ciascun Paese indicò un elenco di siti da inserire nella World Heritage List. Ovviamente le dimensioni di una tale candidatura sono rapportate

http://www.silkroads.org.cn/#IICC). Molti altri luoghi posti lungo le carovaniere che formavano le Vie della Seta sono inseriti nella lista del Patrimonio dell’Umanità, come ad esempio le città di Bukhara e Samarcanda in Uzbekistan, o come l’Antica Merv nell’odierno Turkmenistan. Quando un giorno si arriverà ad un riconoscimento onnicomprensivo, dai confini occidentali a quelli orientali, saremo davanti alla rappresentazione formale, anche dal punto di vista cartografico, del più vasto e complesso sistema di relazioni culturali mai intrecciate nella storia dell’umanità. Per le Vie della Seta si apre però una nuova stagione, annunciata nel 2013 dal presidente della Repubblica popolare cinese, Xi Jinping. Si tratta della strategia “One Belt One Road”: un gigantesco piano infrastrutturale via terra e via mare, voluto per allacciare in maniera più organica ed efficiente tutti i “mercati” euroasiatici. Un’iniziativa avviata evidentemente per consolidare il primato economico ed il peso politico dell’antico Celeste Impero. Ad oltre duemila anni di distanza dal viaggio di Chang Ch’ien, si tratta di un nuovo inizio nei rapporti tra Oriente ed Occidente. Guerre e malattie permettendo. Una nuova ripresa del “moto perpetuo”, in quanto “generazione continua di energia”, come Gagliardi Mangilli ha paragonato il continuo viaggiare lungo le direttrici tra Asia ed Europa. Ai moderni geografi, sempre più geomatici concentrati sugli schermi dei computer, il compito arduo ed affascinante di rappresentare e descrivere la Terra ai contemporanei e di raccogliere le eredità di Tolomeo e di Pei Xiu. ■ Roberto Bombarda, Geografo MONTURA - Ufficio Comunicazione/Montura Editing

283 Nota metodologica Per le finalità del libro e per lo stile divulgativo adottato dagli autori David Bellatalla e Stefano Rosati, l'argomento di questo capitolo è stato trattato necessariamente in maniera semplificata. In un testo così breve non possono infatti trovare posto tutti i protagonisti della storia delle esplorazioni, della geografia e della cartografia tra Oriente ed Occidente. In alcuni casi, si possono rilevare nel testo delle ripetizioni rispetto a notizie riportate in altri capitoli del libro. O citazioni di luoghi e personaggi scritti in forma parzialmente diversa, a causa delle differenti fonti utilizzate. Il lettore potrà comunque approfondire i temi affrontati grazie ad alcuni riferimenti riportati nella bibliografia del libro.

Fonti delle immagini pubblicate nel Capitolo 12 autorizzate dal Centro Studi Martino Martini dell'Università degli Studi di Trento: AA.VV., “Riflessi d'Oriente. L'immagine della Cina nella cartografia europea”, Il Portolano – Genova / Centro Studi Martino Martini – Trento, 2008 Giulio Aleni (Geografia dei paesi non tributari). Mappamondo in proiezione ovale e in due emisferi, Hangzhou, 1644, incisione acquerellata, Milano, Biblioteca Braidense Francesco Surdich, “La Via della Seta”, Il Portolano – Genova / Centro Studi Martino Martini – Trento, 2007 Frà Mauro, Mappamondo circolare con il sud rivolto in alto, Venezia ca. 1459, miniatura su pergamena, Venezia, Biblioteca Marciana Massimo Quaini – Michele Castelnovi, “Visioni del Celeste Impero”, Il Portolano – Genova / Centro Studi Martino Martini – Trento, 2007 Claudio Tolomeo, Cosmographia, Mappamondo in proiezione sferica, a cura di Johann Reger, Ulma, 1486, incisione acquerellata, Genova, Biblioteca Universitaria Mappamondo T in O, Spagna, VII secolo, miniatura su pergamena, Londra, British Library Scuola italiana, Ritratto di padre Martino Martini S.J., 1661, olio su tela, Trento Castello del Buonconsiglio Martino Martini, Novus Atlas Sinensis, Carta della Cina, a cura di Joan Blaeu, Amsterdam, 1655, incisione acquerellata, Trento, Castello del Buonconsiglio Massimo Quaini, “Il mito di Atlante”, Il Portolano – Genova / Centro Studi Martino Martini – Trento, 2006 Abramo Ortelio, Theatrum orbis terrarum. Planisfero in proiezione ovale, Anversa, 1570, incisione acquerellata, Genova, Galata Museo del Mare Francesco Surdich, “La Via delle Spezie”, Il Portolano – Genova / Centro Studi Martino Martini, Trento – 2009 Abramo Ortelio, Theatrum orbis terrarum, Carta dell'Asia, Anversa, 1570, incisione acquerellata, Genova, Galata Museo del Mare


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er questa importante pubblicazione, che coniuga l’aspetto accademico e letterario al sostegno di un progetto umanitario in soccorso alle ragazze madri con bambini disabili in Mongolia, un sincero ringraziamento va a Roberto Giordani per la sincera amicizia e per il costante aiuto al programma umanitario “Ger for Life/Una Ger per Tutti” e al nuovo Centro “Casa Need You” ad Ulan Bator, Mongolia. Allo staff Montura per la preziosa collaborazione e professionalità nella realizzazione di questo volume. Ad Adriano Assandri e allo staff di Need You Onlus per l'amicizia e il sostegno al comune progetto umanitario in Mongolia, a Lucia Ciarpallini per il suo prezioso lavoro di editing e per i suggerimenti. Tante sono le persone, altrettanti i nomi di tutti coloro, che con il loro aiuto, sono e rimangono uno dei motivi della riuscita

di questo Grande Viaggio. Ovviamente il più importante ringraziamento va all'amico fidato e compagno di viaggio insostituibile, Dino De Toffol, senza del quale non avrei mai realizzato questo sogno. Un particolare e affettuoso grazie, va a Vittoria Sallustio, con la quale abbiamo condiviso un tratto del viaggio nel territorio pakistano; amabile e sincera amica di sempre, che purtroppo lo scorso anno ci ha prematuramente lasciato. All'amico Daniele Sigismondi della Cooperativa Natura Trekking, che ha coordinato l'aspetto logistico e tenuto i contatti durante l'intera missione. A Yury K.Siknevitch dell'Ambasciata Russa ad Ankara, al dottor Ferrari, al dottor Perdisa, alla dottoressa Renata Archini De Giovanni e alla signorina Barbieri dell'Ambasciata italiana di Mosca, all'antropologa Natalia L.Zhukovzskaya e al professor Michail Gouboglo dell'Accademia delle Scienze di Mosca, a Viktor Chernyakh

e Yury Filipov dell'Università di Mosca, alla “corazzata” Nadia Maksimova di Rostov Na Danu, ad Ilkham e Sveta di Derbent, ad Olga e Svetlana Sereshwa di Baikalsk, a Otgonbat Sedbazar, Radnabazaryn Zorig e al magico guida-autista Dawaajargal in arte “Hakkola”, di Ulan Bator. A Ilhom e Igor, alpinisti della regione del Pamir uzbeko, a Guennary Koshelenko, Vassily Gaibov, Andrey Bader della Missione Archeologica dell'Università di Mosca a Merv, a Daniel Alagower, a Vladimir Maximky direttore del Museo di Storia di Fergana, all'archeologa Antonella Gabutti dell'Università di Torino a Nisa, a Slavik Vegheslov e al grande Valery in Ossetia, a Nicolay Rudienko di Minerlany Vody, a Yury Borsovich di Vladicaukaz. A Lin Shan dell'Università di Xian, al professor Xu Ping dell'stituto di Geologia dell'Unversità di Pechino, al dottor Mario Palma dell'Ambscia Italiana a Pechino, Cristina Sani dell'Università di Pechino,


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al professor Ma Zhongling della Scuola Superiore nel Linxia, al dottor Wang Jian Zhong direttore del Centro Studi di Medicina Tradizionale di Jiayuguan, all'archeologo Vladimir Ionesov e ad Anatoly Ionesov direttore del Museo della Pace a Samarcanda, al Generale Abdul Qudus Primo Segretario all'Ufficio Affari Esteri dell'Afghanistan, ad Ahmad Shah Massoud e al Generale Painda Muhamad a Mazar-i-Sharif, a Taziev Renat a Margiland, a Vardes Gevorgovic in Armenia. Un carissimo ringraziamento va agli amici Yury e Svetlana Sihnevich per il loro aiuto e per la loro ospitalità a Mosca. Alle Ambasciate italiane tutte, per la loro disponibilità e professionalità. Al professor Paolo Chiozzi dell'Università di Firenze e al professor Vittorio Menconi dell'Università di Genova, al dottor Z.Zolmon dell'Unesco in Mongolia, all'emerito professor Sh.Bhira e al professor Damdinsuren Tseveendorj dell'Accademia delle Scienze della

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Mongolia, a Sanduin Idshinnorov direttore del Museo Nazionale di Storia della Mongolia, al presidente della Mongolian Red Cross L.Odonchimed, a Norontseren Oyunegsh curatrice del Museo di Zanabazar Mongolia, a Jorn Sorensen di UNDP Mongolia, al dottor Kairat Issegaliev della Commissione Unesco in Kazakhstan, al dottor K.M.Baypakov dell'Istituto di Archeologia del Kazakstan, alla Missione italiana MAIP-ISMEO a Saidu Sharif, a Esther Jakobson Oregon University, al professor Augusto Ambrosi dell'Accademia Lunigianese di Scienze "Giovanni Capellini': al dottor Carlo Ungaro dell'Ambasciata italiana a Tashkent. Un particolare ringraziamento va anche a tutti coloro che ci hanno sostenuto in questo progetto: al Comune e alla Provincia della Spezia, alla Cassa di Risparmio della Spezia, alla dotoressa Marzia Ratti del Museo Civico U.Formentini, a Gianni Avella di Kodak

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Italia, al signor Andrea Bonaventura di Longoni Sport, al dottor Alberto Sorbini e Ben Baroletti della Also-Enervit, a Michele Muti di FotoRomano, all'amico Paolo Ghigliazza della Seapharm, a Rossella Malaspina e Susanna Wermellinger de La Gazzetta dello Sport, a Enrico Colombo di Teleliguria Sud. All'amico Roberto Bombarda per il prezioso capitolo sulla cartografia nell'antichità "Da Occidente ad Oriente"; a Sandra Zagolin per l'amicizia e la condivisione di alcuni scatti realizzati in Mongolia, all'amico Giacomo Ciccioti per il meraviglioso audiovisivo che ho sempre sognato; a Luciano Bosi e Patrizio Ligabue, un grazie davvero speciale, per le splendide musiche ispirate al testo; a Fabio Bucciarelli, per le straordinarie immagini di corredo al capitolo 11, che ci portano nella drammatica realtà del Medio Oriente.


Testi di David Bellatalla Stefano Rosati Roberto Bombarda Fotografie di David Bellatalla Stefano Rosati Fabio Bucciarelli Roberto Bombarda Mappe realizzate da MONTURA Ufficio Comunicazione/Montura Editing – Maps (Pierpaolo Castrolippo/Giacomo Turini) Coordinamento editoriale MONTURA Ufficio Comunicazione/Montura Editing (Roberto Bombarda/Valentina Sembenotti) Grafica ed impaginazione Plus Communications – Trento Editore Montura Editing Tasci Srl – Via Zotti, 29 – 38068 Rovereto (Tn) www.montura.it Stampa Litografica Editrice Saturnia Snc – Trento ISBN: 978-88-945327-0-8 www.montura.it Copyright © Montura Editing 2020 Finito di stampare a Trento nel mese di agosto 2020

Tipi di carta e caratteristiche Libro interno stampato su carta GardaMatt Art da g 170 certificata FSC; risguardi senza stampa in carta Wibalin Natural 500 White da g 120 certificata FSC; copertina composta da anima in cartone rivestita da plancia stampata su carta Wibalin Natural 538 Claret da g 120 certificata FSC; sovracoperta stampata su carta GardaMatt Art da g 170 certificata FSC Carta geografica stampata su carta GardaPat 13 KIARA da g 100 certificata FSC Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo senza l'autorizzazione scritta dell'editore.

Il marchio FSC® identifica i prodotti contenenti legno proveniente da foreste gestite in maniera corretta e responsabile secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici, e da altre fonti controllate. Stampato dalla Litografica Editrice Saturnia, azienda certificata FSC INT-COC-001304.


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Oltre 50 film co-prodotti o sostenuti, con sponsorship o product-placement. Opere che hanno partecipato a festival, che in parte sono ora presenti su piattaforme o sul sito aziendale. E decine di altri film, serie e programmi tv sostenuti con fornitura di prodotti.

montura.it

PiĂš di 70 libri editi come Montura Editing o sostenuti da Montura, con oltre 200 mila copie distribuite gratuitamente in 20 anni, sempre in cambio di una donazione “libera e responsabileâ€? a favore di progetti di solidarietĂ .

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MONTURA EDITING LIBRI SULLE ANDE CON LE SCARPE BUCATE

LA RESINA

R.Carbonera-A.Rasi Caldogno, 2018

Bruno Brunod, 2016, Mondadori Ed.

SKYRUNNER. IL CORRIDORE DEL CIELO

UNO MONTURA CONFINI

FEELING ON TOP OF THE WORLD

RESISTANCE

VOLUNTEERS

AA.VV., 2014

I COLORI DEL GRIGIO

Roberto Mantovani, 2017 LA MONTAGNA PRESA IN GIRO

PRIMA DELLA NEVE

ROCKMASTER

A.Segre e S.Falso, 2013

G.Malfer-V.Stefanello, 2005

UN VIAGGIO LUNGO UNA FIABA

#001 MOON LANDING

50 ANNI DI SOCCORSO ALPINO A ROVERETO

Giancarlo Sardini, 2020

Enrico Tettamanti, 2020

CAMMINO NATURALE DEI PARCHI

U.Antonelli e altri, 2019

LA COLLINA DI LORENZO

Fausto De Stefani, 2019

I MILLE VOLTI DELLO SCIAMANO

David Bellatalla, 2019 MANI

nuova edizione

Fausto De Stefani e Erri De Luca, 2019 LAYLA NEL REGNO DEL RE DELLE NEVI

Reinhold Messner, 2019, Erikson Ed. VALLE DELLA LUCE

G.Mazzotti-M.Corona, 2017

Fausto De Stefani, 2018 (ristampa) RAGNATELE

Collettivo Boschilla, 2018 KAZAKHSTAN

A.Segre-S.Falso, 2016 MARTINO L’ARROTINO

Martino Viviani, 2017

ALPINISMO NELLE VALLI DELLA SARCA E DEI LAGHI

UN PAESE MILLE PAESAGGI

Alessandro Gogna e Marco Furlani, 2019

L’Altro Versante, 2017

DI PIETRE E PIONIERI, DI MACCHIA E ALTIPIANI

E.GHERSI SULL’ALTIPIANO DELL’IO SOTTILE

Michele Fanni, 2018

David Bellatalla, 2016

1918-2018: CENT’ANNI DOPO

IN NOME DELL’ORSO

AA.VV., 2018

Matteo Zeni, 2016

IT’S MY HOME FOR THREE MONTHS

IL DET GIUSEPPE ALIPPI

Alessandro de Bertolini, 2018

Luisa Rota Sperti, 2016

AA.VV., 2011

FOTOTREKKING I GRANDI AUTORI

AA.VV., 2011 FANGO

G.Malfer-V.Stefanello, 2007 G.Marzari-G.Malfer, 2005

M.Zandonati, 2005

UNO MO N T URA VI AGGI O

G.Malfer-V.Stefanello, 2004

AA.VV., 2011 DOLOMITI NEW YORK

AA.VV., 2010

LA SCIMMIA ED IL BOOMERANG

Nicolò Berzi, 2009

UNO MONTURA DIVERSO

G.Malfer-V.Stefanello, 2009 ALDILÀ DELLE NUVOLE

Altrettante pubblicazioni sono state realizzate con il sostegno o con la collaborazione di MONTURA. Maggiori informazioni su www.montura.it e nei MONTURA STORE.

Fausto De Stefani, 2009 UNO MONTURA PEOPLE 08

G.Malfer-V.Stefanello, 2008 ALPINISTI SOTTO ACETO

Manuel Lugli, 2008

E numerosi altri prodotti editoriali, tra i quali 3 raccolte delle pagine pubblicate su “Internazionale”.


MONTURA EDITING FILM IL CERCATORE D’INFINITO

RESINA

DUSK CHORUS

I SOGNI DEL LAGO SALATO

LOS PICOS 6500

LA PELLE DELL'ORSO

POSTINI DI GUERRA

L’ALPINISTA

KINNAUR, HIMALAYA

PICCOLA PATRIA

INSIDE

VINO DENTRO

ALPI

A VENTIQUATTRO MANI

AL DI LA DELLE NUVOLE

IO SONO LI

BREZNO POD VELBOM

LA PRIMA NEVE

KENO CITY, YUKON

PRENDIMINGIRO

VERTICALMENTE DEMODÈ

FINALE 68

MINGONG

CHANGE

ITACA NEL SOLE

BETWEEN HEAVEN AND ICE

IL TURNO DI NOTTE LO FANNO LE STELLE

IT’S MY HOME FOR THREE MONTHS

SOLO DI CORDATA

PAGINE DI PIETRA

ALBERI CHE CAMMINANO

DA ROVERETO AD AUSCHWITZ

IL MURRÀN

SILENCE

RESET, UNA CLASSE ALLE SVALBARD

REVELSTOKE, UN BACIO NEL VENTO

SENZA POSSIBILITÀ DI ERRORE

OLTRE IL CONFINE

CORRERE PER L’ESSENZIALE

F.Massa e A.Azzetti, 2020 Marco Busacca, 2020 Emanuele Confortin, 2020 VALLE DELLA LUCE

Alberto e Lia Beltrami, 2020 CACHONNE SUPRA A SCIARA

G.Musarra-M.Brunello, 2020 CHOLITAS

P.Iraburu, J.Murciego, 2019 MANASLU: BERG DER SEELEN

Gerald Salmina, 2019

ANI, LE MONACHE DI YAQUEN GAR

Eloïse Barbieri, 2019

Renzo Carbonera, 2017 Marco Segato, 2016

Alessandro Rossetto, 2013 Armin Linke, 2011 Andrea Segre, 2011 Paola Rosà, Antonio Senter, 2019 Gabriele Canu, 2018 Fabio Marcari, Tiziano Gaia, 2018

ROLLY

A.De Bertolini, L.Pevarello, 2018

ENTROTERRA.

Federico Modica, 2018

Collettivo Boschilla, 2018

Giampaolo Calzà, 2018

Pietro Bagnara, 2019 MEMORIE E DESIDERI DELLE MONTAGNE MINORI

Bernardo Giménez, 2018 Mario Barberi, 2018

Alberto Battocchi, 2017

A.Azzetti, F.Massa, 2017

A.D’Emilia, N.Saravanja, 2017 A.Gonnella, D.Centrone, 2017 Marc Daviet, 2017 Luca Zambolin, 2017

Alberto Dal Maso, 2017 Stefano Castioni, 2017 Davide Crudetti, 2016 Federico Modica, 2016 Davide Riva, 2016

Mattia Colombo, 2015 Sandro Bozzolo, 2015

Andrea Segre, 2015

Giacomo Piumatti, 2015 Ferdinando Vicentini Orgnani, 2013 Alessandro Tamanini, 2013 Andrea Segre, 2013 Davide Carrari, 2012 Petr Pavlicek, 2012 Edoardo Ponti, 2012 LINEA 4000

Giuliano Torghele, 2012 IL RICHIAMO DEL KLONDIKE

Paola Rosà, 2010 AR I A

Davide Carrari, 2008

Nicola Moruzzi, 2015

Alberto Ferretto, 2015

E numerose altre produzioni cinematografiche e tv.



Montura Editing e i progetti di solidarietà internazionale Una ger per tutti e Casa Need You. Alla periferia di Ulan Bator, capitale della Mongolia, è sorto un villaggio di tende nomadi (in mongolo “Ger”) per ospitare ragazze madri con figli disabili. Qui possono costruire una nuova vita ed apprendere un lavoro. L’idea è stata dell’antropologo e grande viaggiatore David Bellatalla, in collaborazione con Montura, Croce Rossa della Mongolia, Rotary e “Need You onlus”. Dopo aver completato il villaggio, oggi interamente abitato, è stato acquistato il terreno a fianco, sul quale dall’estate 2020 viene realizzato il nuovo progetto della Casa “Need You”, per ospitare l’ambulatorio con un presidio medico, spazi per il lavoro e per le attività sociali, uffici e magazzini. Per sostenere i progetti Montura Editing ha pubblicato Sull’Altipiano dell’Io Sottile, I mille volti dello sciamano e Il Grande Viaggio. Lungo le carovaniere della Via della Seta di David Bellatalla (l’ultimo con Stefano Rosati). I libri possono essere richiesti, in cambio di una donazione responsabile a favore di “Need You Onlus”, nei Montura Store o scrivendo a editing@montura.it.

Il diario inedito di Eugenio Ghersi sulla spedizione italiana del 1933. 296 pagine in b/n con foto straordinarie di un Tibet che non esiste più. Testi in italiano e inglese.

Un libro frutto di lunghi studi ed accurate ricerche, dedicato all'irrazionale per eccellenza, lo sciamanesimo. 232 pagine a colori, con immagini originali e la prefazione di Sergio Poggianella.

300 pagine in grande formato per raccontare lo straordinario viaggio compiuto, prevalentemente a piedi, tra il 1992 ed il 1994 da Bellatalla e De Toffol, con i reportage realizzati in anni recenti e negli stessi luoghi da Rosati e Ciarpallini.

Bonifico bancario su c/c bancario Banca Fineco SPA Codice IBAN IT06D0 30150 3200 0000 03184 112 Causale: Contributo progetto UNA GER PER TUTTI Bonifico bancario su c/c bancario Carige Banca Codice IBAN IT65 S0617 54794 2000 0005 83480 Causale: Contributo progetto UNA GER PER TUTTI Versamento su c/c postale n. 64869910 intestato a NEED YOU ONLUS, - Str. Alessandria 134 - 15011 Acqui Terme (AL), C.F. 90017090060 Causale: Contributo progetto UNA GER PER TUTTI

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David Bellatalla (a sinistra) con Stefano Rosati, al lavoro nello studio di Ulan Bator

foto di Stefano Rosati


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