Caterina Borgato - Donne di Terre Estreme

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DONNE DI TERRE ESTREME

Fotografie e Testi di Photographs and Texts by

CATERI NA B O RG ATO

WOMEN OF THE OUTERMOST LANDS


“DONNE DI TERRE ESTREME” SOSTIENE IL PROGETTO DI SOLIDARIETÀ INTERNAZIONALE “UNA GER PER TUTTI A GER FOR LIFE” “DONNE DI TERRE ESTREME” SUPPORTS THE INTERNATIONAL SOLIDARITY PROJECT “UNA GER PER TUTTI A GER FOR LIFE” Promosso ad Ulan Bator (Mongolia) da David Bellatalla in collaborazione con Need You Onlus, Croce Rossa della Mongolia, Rotary International e Montura. Il progetto offre un aiuto concreto a ragazze madri con figli disabili, assicurando ospitalità, assistenza, avvio e sostegno all’autonomia familiare e professionale. Le donazioni raccolte attraverso la mostra ed il libro sono integralmente devolute a Need You Onlus, per volontà dell’Autrice.

Promoted in Ulan Bator (Mongolia) by David Bellatalla in collaboration with Need You Onlus, Mongolian Red Cross, Rotary International and Montura. The project offers concrete help to single mothers with disabled children, providing hospitality, assistance, access and support to help them gain family and professional autonomy. The donations collected through the exhibition and book are entirely donated to Need You Onlus, according to the author’s wishes.

I sostegni a favore del progetto “Una GER per tutti” potranno anche essere effettuati nei seguenti modi: BONIFICO BANCARIO SU: c/c Banca Fineco SPA CODICE IBAN: IT-06-D-0301503200000003184112 CAUSALE: Contributo progetto “Una Ger per tutti”

Donations to “GER FOR LIFE” can also be made in the following ways: BANK WIRE AT: Banca Fineco SPA IBAN: IT-06-D-0301503200000003184112 REASON OF PAYMENT: Contributo progetto “Una Ger per tutti”

Versamento su c/c postale n. 64869910 intestato a NEED YOU ONLUS, Str. Alessandria 134 - 15011 Acqui Terme (AL), C.F. 90017090060 CAUSALE: Contributo Progetto “Una Ger per tutti”

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Post wire in favor of NEED YOU ONLUS, Str. Alessandria 134 - 15011 Acqui Terme (AL), C.F. 90017090060, On the c/c n. 64869910 REASON OF PAYMENT: Contributo Progetto “Una Ger per tutti”



EDITORIA Decine di pubblicazioni tra libri e cataloghi, disponibili nei negozi o scaricabili gratuitamente dal sito. Dozens of books and catalogues available in stores or as free download from the website.

CINEMA E TV

Più di 50 film co-prodotti e/o sostenuti in vario modo, vincitori di numerosi riconoscimenti. More than 50 films co-produced or backed in various ways and recipients of numerous awards.

CARTOGRAFIA

Un’accurata rappresentazione del territorio per descrivere cammini, itinerari, percorsi di gara.

Accurate representation of the territory in descriptions of trails, routes and competition courses.


ATTIVITÀ Molteplici attività al sostegno dei giovani e di iniziative sociali e culturali: festival, concerti, mostre, teatro. Multiple youth support programmes and social and cultural initiatives: festivals, concerts, exhibitions, theatre.

PROGETTI Importanti progetti di solidarietà e cooperazione allo sviluppo in Nepal, Mongolia, Perù e Italia. Major charity and development cooperation projects in Nepal, Mongolia, Peru and Italy.

LUOGHI Il territorio e i luoghi d’eccellenza da conoscere e tutelare. The region and its outstanding places to know and protect.



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FOTOGRAFIE E TESTI DI / PHOTOGRAPHS AND TEXTS BY

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Terre estreme: luoghi geografici lontani e isolati, luoghi irraggiungibili. È questa la definizione più semplice, quella più comune e che ha origine dall’abitudine e dalla sicurezza di pensare lontano ogni luogo distante dalla casa in cui viviamo. Il nostro centro del Mondo. Il centro del nostro Mondo. Una distanza fatta di chilometri e di fusi orari. Ma anche di storia, culture, stili di vita. Non sono estreme solo le terre dove è arida e sterile la terra, dove manca l’acqua, dove le temperature sono picchi di calore o di gelo. E dove la fatica è necessaria in ogni azione quotidiana per la sopravvivenza di chi la compie e per il resto della sua famiglia. Ci sono terre ancora più estreme e vicine. Quelle dove i rapporti umani sono basati sull’indifferenza, alimentati dalle differenze. In queste terre, non è la terra ad essere avara e l’acqua è abbondante. Manca “un’anima” alle persone.

Extreme lands: distant, isolated and unreachable geographical locations. This is the most basic definition and the one most commonly used which originates from the habit and safety mechanism of thinking that any place not near our home - is far away. Our centre of the Earth. The centre of our World. A distance decided by kilometres and time zones. Yet also by history, cultures and lifestyles. Arid and barren lands - where there is no water or extremely hot or cold temperatures - doesn’t make a land extreme. What does is when its people work tirelessly every day to survive and keep the rest of their family alive. There are even extremer lands, much closer to home. Those where human relationships are based on indifference and fuelled by differences. In those lands, it isn’t the lack of water and fertile land that makes them extreme: it’s the fact that the people seem to have misplaced their “souls”.


MONGOLIA OCCIDENTALE WE ST E R N

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Il posto delle cose 16 Everything has its place Figlie femmine 20 Daughters Mani che impastano 23 Kneading hands La stufa dei nomadi 26 The nomad’s stove Il cavallante viene a cena 30 The horseman comes to dinner La macchina da cucire 34 The sewing machine Notti d’amore nella steppa 37 Nights of love in the steppe La benedizione della partenza 38 The blessed way

SOCOTRA S O COT R A Donne in cammino 49 Women on the move Il brivido della sheikha 53 The shivering sheikha Donne che parlano 56 The women who talk to the mountains alle montagne Una nascita 61 A birth Un puntino 64 Just a tiny speck on the world map sulla mappa del Mondo In viaggio lontano da casa 68 Travelling a long way from home La vita nel vento 70 Life in the wind I capelli che fanno luce 74 Hair that gleams La libertà del rossetto 78 The freedom of lipstick Ritorno a Qabahan 82 Return to Qabahan La bambina 88 The girl with the necklace of fire con la collana di fuoco


DANCALIA DA N A K IL In cerca di pascolo 98 In search of pasture Quanti anni hai? 102 Woman, how old are you? Nutrimento condiviso 107 Shared nourishment Il cammino della regina 110 The walk of a queen Il pane nato nella terra 114 Bread born from the earth Fumo di incenso 118 Incense smoke Donne scompaiono all’orizzonte 121 The women vanish from the horizon Ombre nella polvere del Khamsin 124 Shadows in the Khamsin dust Nella piana di Dodom 128 In the Dodom plain La vita di B. 132 B’s life below sea level sotto il livello del mare La vita di B. 136 B’s life at 2000 metres above the salt duemila metri sopra il sale

ALTRI RACCONTI OT H ER

STO RIE S

La pazza di Harar 142 The madwoman of Harar Elogio alla bellezza 146 An ode to beauty La fatica per l’acqua 164 The struggle to find water Le mani 172 Hands I piedi 178 Feet Vivere nel silenzio all’infinito 184 Life in the infinite silence


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Il massiccio dei Tavan Bogd, i Cinque Santi, le montagne più alte della Mongolia, negli Altai più occidentali. Un confine naturale e invalicabile con la Russia siberiana e con la Cina. Ghiacciai e cime innevate, nell’Ovest estremo di una terra silenziosa, immensa e leggendaria. È in questa regione che vivono i nomadi kazaki, musulmani in una terra intrisa di buddismo e cultura sciamanica. Le condizioni estreme del clima continentale della steppa non hanno mai consentito il naturale sviluppo di alcun tipo di agricoltura e condizionano da secoli le abitudini di una popolazione dedita esclusivamente all’allevamento di cammelli, cavalli, yak, pecore e capre. Durante i mesi freddi dell’inverno, per proteggersi dai venti gelidi e dalle tempeste di neve, le famiglie nomadi kazake si spostano dalla steppa e raggiungono con gli animali le valli d’alta quota più strette e più riparate dove il ghiaccio non brucia i pascoli. Con l’inizio del disgelo, una breve e appena tiepida primavera, quando si scioglie la crosta dura che iberna l’erba, tornano nella steppa in cerca di pascoli freschi. Le eterne transumanze hanno permesso lo sviluppo di un modello abitativo che concentra nella sua semplicità tutte le tradizioni antiche e le caratteristiche di un popolo la cui dimora sono il tempo e lo spazio, il cielo e le distese infinite. La ger è la simbolica riproduzione del mondo, della vita e del tempo, un microcosmo familiare e intimo. Il tetto è l’immensa volta celeste, il foro sommitale, da cui entra la luce ed esce il fumo, è il sole, il focolare, il centro della vita, il quadrato del mondo inserito in uno spazio circolare. È una delle strutture

abitative più straordinarie che una popolazione di pastori nomadi abbia mai realizzato. Facile da trasportare caricata su cammelli, yak, carri o su camion, facile da montare e di semplice manutenzione. Non viene mai modificata nei diversi periodi dell’anno, nonostante la differenza di temperatura tra i mesi estivi e i mesi invernali, ma solo adattata agli sbalzi termici e agli improvvisi cambi climatici con un diverso spessore di strati esterni di panno di feltro posti uno sull’altro. La ger viene montata e smontata dalle donne, sempre con l’ingresso rivolto a Sud, l’antica direzione di orientamento dei nomadi della Mongolia. All’interno le persone e gli oggetti sono disposti intorno all’uguaglianza della forma del cerchio e la vita famigliare impostata sul flusso dei punti cardinali.


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serted into a circular space. It is one of the most extraordinary housing structures that a nomadic shepherd population has ever built. These gers are easy to transport - loaded on the backs of camels, yak, wagons or trucks - and simple to assemble and maintain. Despite the different seasons - and the considerable temperature difference between the summer and winter months - no modifications are ever made to the gers. They are only adapted to sudden temperature changes by adjusting the quantity and thickness of the felt cloth layered on the outside. The women are in charge of assembling and disassembling the gers; the entrance must always face the south, the ancient direction of orientation of the Mongolian nomads. On the inside, the people and objects are evenly distributed around the circular shape and family life revolves around the flow of the cardinal points.

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The Tavan Bogd massif, Five Saints, represents the highest mountains in Mongolia, in the westernmost Altai. A natural yet impassable border with Siberian Russia and China. Glaciers and snow-capped peaks stretch across this silent, immense and legendary land at the extreme west of the world. The Kazakh nomads - Muslims - inhabit this region that is steeped in Buddhism and shamanism. As a result of its extreme continental steppe climate, no agriculture has ever grown here naturally, which, over the centuries, has led to the population becoming exclusively dependent on the rearing of livestock (camels, horses, yak, sheep and goats). During the cold winter months, in order to protect themselves from the icy winds and snowstorms, Kazakh nomad families leave the steppe and relocate, together with their animals, to the narrowest and most sheltered high-lying valleys where the ice does not lay waste to the pastures. Once the short-lived and barely above freezing spring returns to the area - and the grass starts to thaw - they return to the steppe in search of fresh pastures. This eternal transhumance has led to the development of a housing model which - in all its simplicity - focuses on all the ancient traditions and characteristics of a people whose dwelling is time and space, the sky and the endless expanses. The ger is a symbolic representation of the world, life and time - a familiar yet intimate microcosm. The roof is an immense celestial vault - a hole from which the light enters and the smoke escapes; it is the sun, hearth, centre of life and a square world in-


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In the intertwining wood that divides the inside of the ger from the outside - the familiar universe of the silent immensity of the steppes - each object is hung with ribbons, tied with animal gut cords, and wedged and crammed into the slats. Toothbrushes with worn bristles, a tube of blue and white toothpaste that guarantees a bright smile and whose fragrance is reminiscent of the freshness of a sea wave, a shaver whose razor has never been changed, complete with the hairs of many a shave still wedged between each blade. A plastic comb next to the mirror - i.e. a broken shard of glass - stores years of thick black hair between its fine teeth. A square alarm clock is missing a hand and its glass is cracked the irrelevance of time - and a circular one counts the time in Russian. In this part of Mongolia, so far removed from everything, the objects from the regime era are still in use and functioning (for the most part). On a string-harnessed wooden shelf - secured with turns and knots like a bivouac hung on the wall - a stick of soap, complete with dry remnants of foam, the aroma of flowers and a bag of washing powder from the 1950s promises gleaming white results. A family-sized jar of Vaseline is the only beauty cream that Kazakh women use; they generously spread it across their face and children’s hands to soften cracked skin and provide a barrier against the dry air and cold. The strips of meat left to dry out look like hanging clothes. The blood has stopped dripping and they’ve become a haven for flies. The butter mould gives off a strong, rancid smell. The narrow bunches of coloured fabric scraps of various lengths hang like multicoloured tassels. They look like fabric samples at a recycling-conscious tailor’s shop. Those scraps of cloth - intertwined and tied together on low wooden stakes in the ground and positioned in the four imaginary corners, i.e. the cardinal points - symbolise this family’s recognition of the earth’s sacredness and the desire for all animals to be protected. They act like a large, invisible fence, the only other geometric shape, besides the circle. There are also never-emptied suitcases - reminiscent of the Italian emigration to America - and cardboard boxes that must have arrived directly from Africa (with bananas) and China.

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Nell’intreccio di legno che divide il dentro della ger dal fuori, l’universo familiare dalla silenziosa immensità delle steppe, ogni oggetto è appeso con nastri, legato con cordoni di budello di animale, è incastrato e infilato nelle stecche. Spazzolini da denti dalle setole consumate, un tubetto di dentifricio azzurro e bianco che promette un sorriso splendente e fa immaginare la freschezza di un’onda del mare, un rasoio da barba mai cambiato con i peli di tante rasature incastrati tra le lame. Un pettine di plastica vicino ad una scheggia di specchio conserva tra i denti fitti il ricordo di anni di folti e grossi capelli neri. A una sveglia quadrata manca una lancetta ed ha il vetro crepato - l’ininfluenza del tempo - e una rotonda conta il tempo in russo. In questa Mongolia così lontana da tutto si trovano ancora in uso e funzionanti, gli oggetti del tempo del regime. Su una mensola di legno imbragata con lo spago, assicurata con giri e nodi come un bivacco sospeso in parete, un panetto di sapone con i resti secchi di schiuma profuma di fiori e una busta di detersivo in polvere promette un bucato bianco dagli anni Cinquanta. Un barattolo di vaselina formato famiglia, è l’unica crema di bellezza che usano le donne kazake e che spalmano con generosità sul viso e sulle mani dei bambini per ammorbidirne la pelle crepata e far barriera contro l’aria secca e il freddo. Strisce di carne messa a seccare sembrano panni stesi. Non colano più sangue fresco e sono il posto preferito delle mosche. Lo stampo per il burro diffonde un forte odore rancido. Stretti a mazzi, i ritagli di stoffe colorate e di varie lunghezze, sono appesi come nappe di mille colori. Sembrano il campionario di tessuti di una sartoria del riciclo. Quegli avanzi di stoffa, intrecciati e legati insieme su bassi pali di legno piantati nella terra, in quattro angoli immaginari, nella direzione dei punti cardinali, segnano il riconoscimento della sacralità di quella terra per la famiglia che la abita e sono simbolica protezione per tutti gli animali. Come un grande e invisibile recinto, l’unica figura geometrica diversa dal cerchio. Ci sono valige mai svuotate che ricordano l’emigrazione italiana in America e scatoloni di cartone che devono essere arrivati direttamente dall’Africa con le banane e dalla Cina.




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Jazira ha cinque figli. Quattro sono femmine. L’ultima cammina appena, ha i capelli corti e sembra un maschio. Ingannano così gli spiriti della tradizione che iniziano a muoversi dopo il tramonto e, con il buio della notte, scendono attraverso il camino del fumo e provano ad entrare nel corpo dei bambini. Alle bambine tagliano i capelli corti, ai bambini li fanno crescere. Le femmine, in tutte le famiglie nomadi, si occupano dei ritmi e delle necessità degli animali con le zampe corte. Le femmine di yak, le capre e le pecore, al mattino presto, devono essere munte, devono essere portate al pascolo, tenute sempre vicine e unite per tutta la giornata e ricondotte intorno alla ger per essere munte una seconda volta prima del tramonto. La cura dei cavalli e dei cammelli, invece, è roba da maschi. Sotto il peso di uno spesso strato di coperte sintetiche e colorate, si sente il crepitio e il calore che vengono dalla stufa già accesa. La luce che entra dal cerchio del fumo non è ancora quella del sole abbastanza alto da riuscire ad incendiare il ghiacciaio e le cime innevate dei Cinque Santi. Le figlie di Jazira sono sveglie, ma ancora schiacciate sul letto dal sonno. Con i segni delle coperte sul viso, si alzano per andare a mungere. È freddo da far vedere il fiato, di mattina, sui monti Altai, anche durante la breve estate. Non inizia mai e finisce sempre troppo presto. In una mano tengono un secchio, nell’altra un piccolo sgabello. La mungitura di un gregge di capre e uno di pecore, inizia poco dopo l’alba e richiede tempo. Entrano nel recinto di pietre, un miracolo di equilibrio e incastro, separano le femmine con i cuccioli da tutte

le altre, le chiamano per nome e con le mani arrossate, screpolate e congestionate, cercano nel pelo le mammelle calde e gonfie di latte, le massaggiano con energia e spremono i capezzoli con la velocità e la sicurezza nella ripetizione dei gesti di chi è pratico e il come fare lo ha imparato con l’esperienza. Si vedono solo i loro volti, i capelli scuri ancora spettinati e le loro guance rosse. I corpi sono affondati nel gregge, avvolti dagli animali e da quel prezioso pelo che, dall’altra parte del Mondo, chiamano “il vello d’oro”. C’è un antico, primordiale intreccio emotivo tra questo popolo, gli animali e la Terra. Donne, uomini e bestie hanno vite così legate che nella forma di saluto più comune si chiedono notizie di tutta la famiglia, dello stato di salute del gregge e delle condizioni dei pascoli. Jazira has five children. Four of whom are female. The youngest one has just learnt to walk, has short hair and looks like a boy. It is thus that they deceive the spirits of tradition who set off after sunset and, under the cover of darkness, descend the “chimney” to try and enter the children’s bodies. The girls’ hair is cut short, whilst the boys let their hair grow long. The females in all nomadic families are entrusted to the rhythms and needs of the short-legged animals. Female yak, goats and sheep must be milked early in the morning, put out to pasture, kept close and together at all times throughout the day and brought back to the ger to be milked a second time before sunset. The men, on the other hand, look after the horses and


animal is called by name and with their red chapped and congested hands, the daughters search for the animals’ warm, swollen milk-producing teats, energetically massage them and then squeeze them with the speed and confidence of someone who is adept and well-accustomed to the repetitive task at hand. Only their faces are visible, their dark hair has not yet been brushed and their cheeks are red. Their bodies get lost in the flock, as they are surrounded by animals and that precious wool that, on the other side of the world, is called the “golden fleece”. There is an ancient and primordial connection between this people, the animals and the Earth. The women, men and animals’ lives are so intrinsically linked that it is customary to ask for news of the whole family, the health of the livestock and the condition of the pastures.

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camels. Under the weight of a thick layer of coloured synthetic blankets, the crackling and heat emitting from the already lit stove can be heard and felt. The light that streams through the circle of smoke is not yet that of the sun; it has not yet risen enough to illuminate the glacier and snow-capped peaks of the Five Saints mountain massif. Jazira’s daughters are awake but still drowsy from their night’s sleep. With the imprints of their blanket still on their faces, they reluctantly climb out of bed to begin milking the animals. The mornings in the Altai mountains are breathtakingly cold, even during the short summer period. It seems to never start and always ends way too soon. They are holding a bucket in one hand and a small stool in the other. The herds of goats and sheep are milked shortly after dawn and it is a time-consuming task. The daughters enter the stone enclosure - a miraculous balancing and interlocking architectural feat - then separate the females with newborns from the other animals. Each

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Jazira’s prodigious hands. Oh how diligently this woman is kneading the fresh dung with her bare hands! Jazira is artistic: she shapes those small round cakes small loaves if you like - which are then used to heat the house, cook with and heat the water for washing. Collecting dung is a never-ending task. This important task is entrusted to the little ones. They roam the pastures in search of dung, filling and emptying panniers and buckets, time and time again, as if playing with buckets and sand on the beach. Jazira’s hands use the same delicacy with the dung that they would when preparing short pastry. The woman mixes yak, camel and horse dung together, just as easily as she would mix flour, butter, sugar and eggs. She is aware of how precious this material truly is; she seems to give it the dignity it deserves for what it can offer to those who live on this land with no trees, and consequently, no wood. Dung epitomises fire, heat, survival and life for the long harsh winters in the wild and icy high mountain valleys that border vast Siberia. It is the warmth that stems from Jazira’s heart and the inside of her ger that makes you feel at home. These delicate gestures are a way of showing gratitude. Each tile is like a unique, fragile and delicate piece of art in her hands. She balls the mixture up in two hands, then stretches and smooths it with one hand. These tiles are then laid on top of one another, like a stack of kindling. There’s also a method to this madness - feminine attentiveness - a logic to putting out fresh dung tiles to dry day after day.

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Le mani di Jazira sono prodigiose. Lode a questa donna che impasta sterco fresco a mani nude! Ha arte Jazira, nel dare forma a quelle piccole torte rotonde, piccole pagnotte, che servono per scaldare casa, per cucinare e scaldare l’acqua per lavarsi. La raccolta dello sterco è continua. Se ne occupano le bambine e i bambini. Lo cercano nei pascoli, riempiono e svuotano gerle e secchi, come stessero giocando con i secchielli e la sabbia in riva al mare. Le mani di Jazira hanno con lo sterco la stessa delicatezza che avrebbero preparando una pasta frolla. Mette insieme lo sterco di yak, di cammello e di cavallo, come farebbe mescolando la farina, il burro, lo zucchero e le uova. Sembra onorare quella materia preziosa, sembra darle la dignità che merita per quello che offre a chi vive in una terra senza alberi e senza legna. Lo sterco è fuoco, è calore è sopravvivenza e vita per i lunghi inverni nelle alte valli dei monti che sconfinano, selvaggi e ghiacciati, nell’immensa Siberia. È il tepore che esce dal cuore e dentro la ger di Jazira fa sentire a casa. Con i suoi gesti delicati trasmette riconoscenza. Nelle sue mani ogni formella è come un pezzo d’arte unico, fragile e delicato. Con due mani appallottola, con una mano stende e liscia. Appoggiate una sull’altra, come i pezzi di legna di una catasta. C’è logica anche in questo e femminile premura. Nel mettere ogni giorno formelle di sterco fresco impastato a seccare.

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In mezzo alla ger c’è un rettangolo di terra nuda dove gli uomini spengono le sigarette con il pollice come volessero sotterrare i mozziconi e farli scomparire. Intorno, sembrano una cornice, le strisce sovrapposte di linoleum a grandi fiori rossi. La stufa di Jazira sta lì, dentro a quel rettangolo di terra, nel centro di un microcosmo. La stufa e il fuoco sono la famiglia e la sua discendenza. Appoggiata su quattro gambe, corte, ma eleganti come quelle delle poltrone anni Cinquanta, è arrugginita, ammaccata dai trasferimenti e dai tanti chilometri percorsi sulle piste nella steppa e tenuta in equilibrio da una bottiglia di birra vuota posata sopra un grande sasso rotondo e piatto. E’ la base dell’ “axis mundi”, il camino del fumo, che esce dal foro sommitale della ger. Un tubo che nella simbologia dei nomadi è elemento di unione tra la Terra e il Cielo. Le radici dell’albero della vita piantate nel centro di un universo. Intorno alla stufa ci sono i fiori più consumati, alcuni quasi scomparsi per il ripetuto calpestio di stivali con la suola grossa attaccata con i chiodi. Anche la plastica si consuma, come un tappeto Farahan del 1900 nel corridoio di casa, dopo tanti anni di passaggi a piedi nudi. Le stufe dei nomadi sono fatte a pezzi, per essere montate e smontate con facilità, per essere caricate e trasportate sui cammelli, sugli yak o nel cassone di qualche vecchio camion. Sono scatole di lamiera tutte uguali, fogli leggeri ripiegati e tenuti insieme da saldature artigianali. Non hanno bisogno di manutenzione, si scaldano velocemente

e si raffreddano subito e, soprattutto, si alimentano con qualsiasi cosa possa bruciare. Il catino davanti alla stufa è la riserva che Jazira riempie di sterco secco di cammello, yak e cavallo, di pacchetti vuoti di sigarette, di ossa spolpate della carne da denti d’oro di bocche affamate, di ciuffi di erba secca. Nella stufa il fuoco pare parlare. Scoppietta, soffia, sbuffa, sibila, sospira con l’alternanza di toni di chi sa raccontare e ci mette cuore e sentimento. Jazira imbocca la stufa con la pinza. La alimenta dal mattino presto a quando la notte avvolge tutto di silenzio e di stelle. Ha l’abilità dei venditori di ciambelle fritte nell’olio alla sagre di paese. Il calore si diffonde nello spazio rotondo come si irradiano i raggi di un sole giallo nel disegno di un bambino. A rectangular patch of bare earth can be found in the centre of the ger; this is where the men stub out their cigarettes with their thumbs, as if trying to bury the butts and make them disappear from view. The overlapping large red flower-embellished strips of linoleum create a frame around this patch. Jazira’s stove is there, inside that rectangle of earth, in the centre of a microcosm. The stove and its fire epitomise the family and its descendants. This short object leans on four legs yet boasts an elegance reminiscent of 1950s armchairs; it is rusty, inevitably dented in various places due to the numerous transfers and many kilometres travelled up and down the slopes of the steppe and balanced by means of an


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sheets which are bent and welded together as needed. No maintenance is ever required: they heat up quickly, cool down immediately and above all, are fuelled by anything that can burn. Jazira fills the reserve basin at the front of the stove with dried camel, yak and horse dung, empty cigarette packets, bones stripped of all flesh by hungry mouths and tufts of dry grass. The stove’s fire seems to speak. It crackles, huffs, snorts, hisses and sighs at different pitches, just like a great storyteller putting their heart and soul into their tale. Jazira uses tongs to fuel the stove. She starts feeding it early in the morning and finishes when the dark envelopes everything in silence and stars. She is just as skilled as hot doughnut sellers at village fairs. The heat spreads throughout the round living space, like the rays of a yellow sun in a child’s drawing.

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empty beer bottle placed on top of a large flat, round stone. It’s the base of the “axis mundi”, the chimney of smoke that escapes from the hole at the top of the ger. A “chain” that the nomads consider to be an element that connects the Earth to the Sky. The roots of the tree of life planted in the centre of a universe. The floral pattern is worn the most around the stove; some flowers have almost faded entirely due to the repeated trampling of thick-soled boots attached with nails. Even the plastic has started to wear, like a 20th-century Farahan rug set down in the hallway of a house, despite only ever being walked on barefoot. Nomad stoves purposefully comprise various components so they can be easily assembled and disassembled and then loaded and transported on camels, yak, or the back of some old truck. These identical sheet metal boxes are made of light


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C‘è odore forte di brodo. Due tocchi di carne, ancora attaccati all’osso e avvolti di grasso gelatinoso, sono nella pentola di alluminio, sulla stufa, a cucinare, da tante ore. Un bollore sordo e lento, iniziato prima dell’alba. Il vapore, denso di sapore, sale lungo il camino del fumo. Esce dal coperchio ammaccato che traballa, in bilico, appoggiato sul bordo. Con la luce che entra dall’alto quel fumo salato sembra nebbia bianca. Jazira affonda il mestolo nella pentola, lo riempie, soffia svariate volte con tutta l’aria che può e assaggia. Versa due dita di acqua da una caraffa di plastica ingiallita, un tempo graduata e trasparente e rimesta con forza. Gli occhi del grasso raggrumato, lentamente, ritornano a galla e nella pentola tutto continua a sobbollire. La carne sarà pronta da offrire per cena. C’è un ospite per la notte, il cavallante, conoscitore delle leggende e dei segreti delle montagne. Ha le guance bruciate dal sole, un binocolo a tracolla, un coltello con il manico di osso e un acciarino appesi alla cintura, stretta in vita, sopra il pesante cappotto da cosacco che non toglie mai. È il suo abito, la sua coperta, il suo riparo. Vive a cavallo e riesce a montare per giorni su una sella di legno lucido e consumato dall’uso, cucita con budello di animale. Un personaggio antico, arrivato alla testa di una carovana dalla meraviglia dei tempi della Via della Seta. Nelle regioni di confine, tutte ad Ovest, se ne incontrano ancora. Sono giornate impegnative, queste di inizio estate, per Jazira e per le sue ragazze. Giornate lunghe dedicate alla preparazione delle scorte di cibo per l’inverno. La carne da tagliare a strisce e da appendere a secca-

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re, la lavorazione del latte delle capre, delle pecore, di yak e cavalle, sono un rito laborioso in tutte le famiglie nomadi. Un via vai di vassoi di formaggio cagliato e siero di latte caramellato da mettere al sole, di tazze di formaggio fresco cremoso, di ciotole di burro giallo chiarificato e secchielli di yogurt, di bottiglie di latte fermentato di cavalla. Un ultimo assaggio al brodo, con sonoro risucchio e la carne fumante, con i pezzi di grasso a penzoloni, passa dalla pentola ad un piatto. E da quel grande piatto rotondo posato in mezzo al tavolino basso mangiano tutti con le mani, seduti per terra. Il primo pezzo, il migliore, è scelto dal capo famiglia per l’ospite. È la regola, nella condivisione del cibo, per mantenere gli equilibri nelle relazioni sociali. Inizia una danza di dita che staccano, come tenaglie, pezzi di carne e di grasso dalle ossa, di dita unte e lucide leccate ripetutamente e con gusto dopo ogni boccone. Gli uomini, seduti per terra confabulano sottovoce. Lei è stanca, ma va a dormire contenta. Nel piatto sono rimaste solo le ossa.


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strips to be hung up to dry and processing the milk from the goats, sheep, yak and mares. A bustle of curdled cheese and caramelised whey trays to leave in the sun, cups of fresh cream cheese, bowls of clarified yellow butter, buckets of yoghurt and bottles of fermented mare’s milk. She loudly sucks the broth - giving it one final taste before dishing up the steaming meat with dangling pieces of fat onto a plate. And it is from that large round plate, positioned in the middle of the low table, that they all eat with their hands whilst sitting on the floor. The first - and best - piece is chosen by the head of the family for the honoured guest. This unspoken food-sharing rule helps maintain balance in social relationships. A dance of fingers then begins as the hungry mouths separate the meat and fat from the bones like pincers, and repeatedly lick their greasy fingers with gusto after each and every morsel. The men, seated on the floor, converse in whispers. She is tired, but goes to sleep happy. Only the bones are left on her plate.

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The overpowering smell of broth fills the air. Two pieces of meat - still attached to the bone and enveloped in congealed fat - have been cooking in the aluminium pot on the stove for many hours now. This long, slow boil started before dawn. The flavoursome vapour rises up the “chimney”. It escapes from the dented lid that wobbles precariously on the edge of the pot. As the light streams in from above, the salty vapour becomes a white fog. Jazira submerges the ladle in the pot, then blows on the broth several times until it is cool enough to taste. She pours “two fingers” of water from a yellowed plastic jug - that was once graduated and transparent - and then stirs vigorously. The congealed fat slowly resurfaces, and the pot’s contents continue to simmer. The meat will be ready in time for dinner. They have a guest tonight: a horseman, a connoisseur of the mountains’ legends and secrets. He has sunburnt cheeks, binoculars slung over his shoulder, a bone-handled knife and a flintlock dangling from the belt tied to his waist, above the heavy Cossack coat that he would never dream of taking off. It is his habit...his blanket... his shelter. He spends his life on horseback and can ride for days on his shiny wooden saddle, despite the fact it has been worn from use and sewn together with animal gut. Horsemen are ancient characters who once led the caravans during the wondrous Silk Road era. In the western border regions, some still exist. These early summer days are a hectic time for Jazira and her girls. Long days are spent preparing winter food supplies. It’s time for those laborious rituals carried out in all nomadic families: cutting the meat into


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LA MACCHINA DA CUCIRE THE

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It is late evening. The sky can be glimpsed through the circle of smoke. If you look closely, there are more stars than night sky. Jazira’s husband is donning a grey fur cap. He never takes it off. The horseman is also wearing a hat. A white felt kalpak, a symbol of intangible cultural heritage. They are smoking and drinking salty tea. Long stretches of absolute silence are broken up by animated discussions. They are sat outside the ger and gesticulate with tired hands, as if pointing to specific places - known only to them - in the vast immensity. Perhaps they are worried about the female wolf who, for two days now, has been seen at sunset crossing the horizon where the dark green grass still weighed down with heavy snow and laden with frost - disappears and seems to get bogged down in the Potanin glacier, just as a river sinks into the desert. Jazira is knelt in front of the sewing machine. This relic still works by crank. Yet together, tailoring miracles are made. She rummages through the contents of a crumpled yellow plastic bag without looking: bobbins, spools of thread, balls of wool used, wrapped, woven and rewound countless times and pieces of cloth in every pattern and colour you can possibly imagine. A treasure chest - set aside over time - in the hopes of one day being of use once more. Each object and every piece of material is recycled, reused, reinvented, restored, repurposed and, sooner or later, brought back to life. Jazira cuts, sews, shortens, stretches and mends objects with worn pillowcases, old discoloured sheets and tablecloths, frayed and brittle towels, and T-shirts and sweaters that seem to have more holes than fabric. The nomads believe that everything serves a purpose and can be of use to someone for something. Similar to conscious and creative recycling, every single thing is repurposed. Jazira is searching for the black thread; she is hoping to mend a tear on an embroidered cloth that decorates the wall of the ger. It has been spread on the floor and bears resemblance to a precious family heirloom with its countless folds from just as many moves, its strong scent of milk and butter, and a date: 1967.

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È sera tardi. Attraverso il cerchio del fumo si riesce a vedere un pezzo di cielo. A guardarlo bene, ci sono più stelle che notte. Il marito di Jazira ha una coppola di pelo grigio in testa. Non la toglie mai. Sembra attutisca il rumore dei suoi pensieri. Anche il cavallante indossa un cappello. Un kalpak di feltro bianco, patrimonio immateriale dell’umanità. Fumano e bevono tè salato. Alternano lunghi discorsi e momenti di assoluto silenzio. Gesticolano con mani stanche, come se indicassero posti precisi, solo a loro conosciuti, nell’immenso, fuori dalla ger. Forse li preoccupa la femmina di lupo che da due giorni, al tramonto, attraversa l’orizzonte dove l’erba verde scuro, ancora appesantita dal carico della neve e cotta dal gelo, scompare e sembra insabbiarsi nel ghiacciaio Potanin come si inabissa un fiume nel deserto. Jazira è in ginocchio davanti alla macchina da cucire. Un reperto che funziona a manovella. Insieme fanno miracoli di sartoria. In un sacchetto di plastica giallo e stropicciato cerca e rimescola con una mano, senza guardare, rocche e rocchetti di filo, gomitoli di lana usata, avvolta, lavorata e riavvolta infinite volte, pezzi di stoffa di ogni fantasia e colore. Un tesoro messo da parte nel tempo perché ritorni a essere utile. Ogni oggetto, ogni materiale, viene riciclato, riutilizzato, reinventato, risistemato, riadattato e, prima o poi, riprende vita. Jazira taglia, cuce, accorcia, allunga, rammenda con le federe dei cuscini consumate, con vecchie lenzuola e tovaglie scolorite, con asciugamani sfilacciati e sfibrati, con magliette e maglioni che hanno più buchi che tessuto. Nella vita dei nomadi niente sembra avere una vera fine e tutto può servire a qualcuno, per qualche cosa. Come nel riciclo consapevole e creativo, ogni cosa torna ad avere un senso. Jazira cerca il filo nero, per rammendare lo strappo su un telo ricamato che arreda la parete della ger. È steso per terra e ha i segni delle cose preziose tramandate in famiglia, le pieghe di tante partenze, l’odore forte di latte e di burro e una data: 1967.


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NOTTI D’AMORE NELLA STEPPA

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The beds are arranged in a circle, one attached to the other like the carriages of a train. The Kazakh nomads sleep on simple lightweight aluminium beds - reminiscent of those once used in hospitals with a creaking metal mesh base. When they reach the end of their lives, they are repurposed to close up any holes in the livestock enclosures, where stones alone are not able to do the job. Thick layers of neatly folded coarse wool blankets and floral-covered pillows sink on top of the mattresses. All the night-time essentials are neatly tidied away during the daytime, to become furnishing accessories. There is an ancient and unchanging order to the position of the beds inside the ger. The women sleep to the east, and the men, to the west. In Jazira’s ger, there is also a bed of love. A curtain and a heavy red canvas drape separate this bed’s occupants from the rest of the family. It is a place filled with tenderness and night-time intimacy; the spot in which Jazira and her husband wanted to bring their five children into this world. Jazira’s nights of love... amidst the sidereal silence of that borderland, in the high valleys covered by an endless mass of grass that extends to the slopes of an eternal glacier. A blue yet silent solid river descends from the surrounding peaks. At sunset, this river sheds its sky blue colour and dresses in golden sun hues. The last heat from the stove, the bodies huddled together, listening out for even the slightest movement, whispers of worries and joys, muffled laughter, a startling cough, the unintelligible babbling of the youngest born stirring from a dream. The patient wait to hear all the inhabitants sleeping soundly and ever more deeply. Outside, a hungry lamb bleats in despair. Distant meteors shower the sky with seemingly endless bright trails.

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I letti sono disposti in cerchio, uno attaccato all’altro come vagoni del treno del riposo. Sono letti semplici quelli dei nomadi kazaki, ricordano quelli dei vecchi ospedali, in alluminio leggero, con reti cigolanti in maglia metallica. Finiscono sempre la loro vita a chiudere i buchi dei recinti delle bestie, dove non riescono le pietre. Spessi strati di coperte di lana ruvida ben ripiegate e cuscini foderati di fiori affossano i materassi. Tutto quello che serve per la notte, durante il giorno ha un ordine perfetto e diventa complemento d’arredo. Dentro la ger ha un ordine antico e immutabile anche la posizione dei letti. Le donne dormono a oriente e gli uomini a occidente. Nella ger di Jazira c’è il letto dell’amore. Un sipario e un drappo di pesante tela rossa lo dividono, durante il sonno, dai sogni del resto della famiglia. È il posto delle tenerezze e dell’intimità notturna, il posto dove lei e suo marito hanno desiderato far venire al mondo i loro cinque figli. Le notti d’amore di Jazira...Nel silenzio siderale di quella terra di confine, nelle alte valli coperte da un infinito tappeto d’erba che si stende fino alle pendici di un ghiacciaio eterno. Un fiume solido, che scende, azzurro e muto, dalle vette di confine. Al tramonto si spoglia del colore del cielo e veste quello dorato del sole. L’ultimo calore irradiato dalla stufa, i corpi vicini, l’attenzione al più impercettibile movimento, preoccupazioni e gioie sussurrate, risa soffocate, un colpo di tosse che fa sussultare, le parole incomprensibili dell’ultima nata durante un sogno che agita. L’attesa paziente che si senta solo il suono del respiro di sonni tranquilli e sempre più profondi. Fuori, nel recinto, un agnello ha fame e bela disperato. Meteore lontanissime rigano il cielo di scie luminose che sembrano non finire mai.

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The door of the ger is open. You have to put your head and one foot in first to cross over the threshold, followed by the rest of your body. Leaving the ger is like diving into the bright immensity of the sun-laden steppe. It feels as though you are floating on a bright sea of grass with long, gentle waves. A woman - seemingly the oldest member of the family - is holding a

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cup of mare’s milk in her hand. Her hands could be mistaken for those of a man; they are gnarled, veiny and bear testament to many a hard day’s work and no luxurious skincare products. Her fingers resemble mummified hands, which time has slowly consumed. She dips them into the cup - into the thick and opaque white liquid with green specks - and flicks droplets at the four cardinal points. She repeats this ritual four times - like a spring-loaded toy - moving her feet and spinning in place. By doing so, she is blessing the path of whoever is leaving and wherever they are headed. She remains motionless, as still as a statue, for what seems like an eternity. She is looking at those moving further from her sight - the farther they go, the more she squints - until her eyes can no longer be seen beneath the wrinkles on her eyelids and those eyes have been growing accustomed to the immensity of space their entire life. The furrows on her skin look like a birds’-eye view of desert plateaus, those now arid wounds carved by the waters of prehistoric rivers. She remains there until that wobbly dot - all that’s left of those moving away - disappears from view and sometimes even her memory. She’s lost count of how many people she’s watched leave...her husband, children, her children’s children and even passing travellers. And how many times has she remained in that position, waiting for a scooter or horse to become invisible - no longer distinguishable between the grass and sky, until it disappears completely! Her widestretched arm in the air is both a greeting and blessing. If is at though she wants to grab hold of their hands yet is never able to actually reach them. There are silent kilometres of steppe between them now. Her hand has become the sail and rudder of those who set out to navigate this land.

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La porta della ger è aperta. Bisogna infilare la testa e un piede per varcarla, e poi il resto del corpo. Uscire dalla ger è come fare un tuffo nella luce e nell’immensità del chiarore della steppa. La sensazione è di galleggiare su un mare d’erba luminosa dalle onde lunghe e dolci. C’è una donna, a vederla la più anziana della famiglia. Tiene in mano una tazza di latte di cavalla. Ha le mani da maschio, nodose e piene di vene, mani di chi le ha adoperate tanto senza risparmiarsi e le ha immerse solo nell’acqua fredda. Le dita sembrano quelle di mani antiche, che il tempo ha lentamente consumato. Le intinge nella tazza, nel bianco denso opaco dai riflessi verdi e asperge nella direzione dei punti cardinali. Ripete quattro volte questo rito. Come un giocattolo caricato a molla, sposta i piedi e gira intorno al proprio asse. Benedice così il cammino di chiunque parta, ovunque sia diretto. Rimane immobile e incartapecorita, per un tempo che sembra eterno. Guarda chi si allontana, con una fessura di occhi sempre più invisibili tra le pieghe delle palpebre e che vedono l’immensità dello spazio da tutta la vita. I solchi della sua pelle sembrano altopiani desertici visti dal cielo, quelle ferite ormai aride scavate dall’acqua di fiumi preistorici. È sempre lì fino a quando chi si allontana diventa un puntino traballante che scompare dal suo orizzonte e, talvolta, anche dalla sua memoria. Quante volte ha visto qualcuno partire...suo marito, i suoi figli e i figli dei suoi figli, viaggiatori di passaggio. E quante ha atteso che una motoretta o un cavallo diventassero invisibili, non più distinguibili, mescolati all’erba e al cielo, fino a scomparire! La sua mano aperta nell’aria è saluto e benedizione. Sembra voler toccare altre mani, senza mai riuscire a sfiorarle. Separate da chilometri muti di steppa. La sua mano è diventata la vela e il timone di chi è partito per navigare in questa terra.


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Una zattera di pietra, uno scoglio carsico, un pezzo di Gondwana alla deriva da quando ha avuto inizio il distacco continentale della placca araba da quella africana, tra il Corno d’Africa, il Mar Arabico e l’Oceano Indiano. Movimenti mastodontici e impercettibili, sotto il mare. Le torri granitiche di Socotra possono raccontare la storia del Mondo. Emerse dalle acque ancora prima che Pangea si spaccasse in due, sono state, dall’alba del tempo, mute e immutate testimoni dell’affiorare dall’abisso delle cime più alte della Terra che guardano sopra le nuvole e dell’inabissarsi delle terre tutto intorno. Da quegli antichissimi pinnacoli, avvolti sempre dalla nebbia e dal mistero, dicono si scorga, lontano, oltre la profonda vastità dell’oceano, la bianca Dimora delle nevi. L’isolamento geografico dell’arcipelago di Socotra, ha favorito la conservazione di piante fossili, di relitti botanici, appartenenti ad altre ere geologiche. Coperta da foreste di alberi che stillano mirra e incenso e linfe pregiate, da carnose succulente conosciute universalmente per i potenti effetti medicinali, nel tempo antico fu multiculturale e vivace snodo commerciale dei beni di lusso orientali richiesti senza sosta dall’Occidente. Un’oasi ricchissima, luogo di scambio di cose belle e preziose, unico approdo possibile lungo le rotte di navigazione dall’India verso l’Africa e il Mare Mediterraneo. Un fertile punto di riferimento per scambiare conoscenza, notizie e idee. A Socotra i mercanti parlavano lingue diverse, ma tutti si capivano. Pregavano dèi differenti, con semplicità e rispetto. Attualmente occupata dagli eserciti degli Emirati Ara-

bi Uniti e dell’Arabia Saudita con un pacifico e indiscusso atto di aggressione, è Patrimonio Unesco di tutta l’umanità e riserva della biosfera, con percentuali di endemismo botanico e animale tra i più alti del pianeta. E’ abitata da un popolo dalle origini leggendarie e dalle tradizioni antiche, un popolo di incantatori che sapevano giocare con il vento e con le nuvole, un sangue misto di Indiani, Africani, Arabi, Greci e Portoghesi. Per i pastori nomadi dell’altopiano e i pescatori della costa vivere a Socotra è sempre stato un atto di coraggio. Da Maggio a Novembre i fortissimi venti del monsone di sud-ovest la rendono spesso irraggiungibile. E in quei mesi l’isola va in riserva e diventa una terra estrema. Navigate verso sud, lungo il Mar Rosso, lasciate che il vento vi porti fino a Bab el-Mandeb e fate rotta verso l’Oman. Troverete cinque isole: l’Arcipelago di Socotra. Ascoltando bene, in un silenzio profondo, sentirete i racconti di antichi e sconosciuti regni, dove cresceva la pianta dell’immortalità.


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different languages, but everyone managed to understand each other. They openly and respectfully prayed to different gods. Although currently occupied by the armies of the United Arab Emirates and Saudi Arabia, as a peaceful yet undisputed act of aggression, the island is a UNESCO World Heritage Site and a biosphere reserve, with some of the highest rates of endemic species (plants and animals alike) on the planet. It is inhabited by a population whose origins are legendary and traditions ancient: the descendants of charmers who knew how to manipulate the wind and clouds – with Indian, African, Arab, Greek and Portuguese heritage running through their veins. For the nomadic highland herders and coastal fishermen, living in Socotra is no mean feat. From May to November, the island is battered by gale-force winds during the Southwest Monsoon period, which often cuts off the island from the world. Furthermore, in those months, the island goes into “hibernation” and becomes isolated. Sail south along the Red Sea, let the wind carry you up to the Bab el-Mandeb strait and set a course towards Oman. Here, you will find five islands: the Socotra Archipelago. If you strain your ears in the deep silence, you will hear the tales of ancient and unknown kingdoms, where the plant of immortality once grew.

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Socotra – an island which could be described as a stone raft, a chunk of karst rock or a piece of Gondwana adrift since the Arabian and African plates detached aeons ago – is situated between the Horn of Africa, the Arabian Sea and the Indian Ocean. The home of colossal yet imperceptible under-sea movements. Socotra’s granite mountains have seen it all. They surfaced from the waters even before Pangea split in two and – since the dawn of time – have borne silent and unfailing witness to the emergence from the abyss of some of the Earth’s highest peaks that stretch beyond the clouds and below the surrounding low-lying ground. From these ancient pinnacles – forever shrouded in fog and mystery – it is said that far beyond the immense vastness of the ocean, white blankets of snow can be glimpsed. The Socotra Archipelago’s isolated geographical position has fostered the conservation of fossil plants and botanical relics that date back to other geologic eras. In ancient times, this area – covered by forests rich in myrrh, frankincense and precious sap, in addition to fleshy succulents universally recognised for their potent medicinal effects – was once a bustling multicultural trading hub for luxury oriental goods which were in constant demand from the Western world. A very rich oasis, this is a place where beautiful and precious things were exchanged, not to mention the only possible landing place along the shipping routes from India to Africa and the Mediterranean Sea. A fertile reference point for exchanging knowledge, news and ideas. In Socotra, the merchants may have spoken


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The village has just one kitchen, a communal one. It is a small space - a dark, black and smoky hole, a crack in the rock - just large enough to house a wobbly and half-rusted red iron stove that is no longer in use. The empty, old and dented gas cylinders have all been untidily abandoned in a corner. It’s almost as though they were thrown in anger, as if by being empty, they had betrayed all these women hoping to make their lives just that little bit easier each day. Fortunately, the largest mangrove forest on the Arabian Peninsula thrives not far away from the village. The women often go there to collect dry wood for the fire. They set out before the blinding and warm light filters through the openings in the wall - the windows have no glass - and floods the only room with light, just like a wave at high tide smashes onto the sand. They walk slowly in their colourful shiny fabric dresses which have been dried up by the sea air and sun. The clothes skim over their gaunt bodies. They silently walk towards the salt-sprinkled forest which clings to the sea and land by means of the ultra-long and deformed finger-reminiscent roots. The women leave footprints on the wet sand; the sound of millions of wet grains compacting with their every step. Their feet are covered in cuts and callouses, caused by the heat, cold and old age. They continue on unperturbed by and accustomed to the hot sand and the tangled branches in the low, dense forest. Their solitary footprints form decorations on the sand, between the lines of the white foam and those of the waves.

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C’è una cucina comune nel villaggio. È uno spazio piccolo, un antro scuro, nero e fumoso, una spaccatura della roccia, grande abbastanza per contenere un fornello di ferro rosso, zoppicante e mezzo arrugginito che ormai non serve più. Le bombole del gas, vuote, vecchie e ammaccate, sono tutte in un angolo, disordinate. Sembrano state buttate con rabbia, come se l’essersi esaurite avesse tradito le speranze di tutte le donne di fare, ogni giorno, un po’ meno fatica. Vicino al villaggio cresce rigogliosa la più grande foresta di mangrovie della Penisola Arabica. Le donne vengono qui a prendere legna secca per il fuoco. Si mettono in cammino prima che la luce, accecante e calda, entri dalle aperture sul muro, sono finestre senza vetri e inondi di chiarore l’unica stanza, come fa, sulla sabbia, il coraggio di un’onda con l’alta marea. Camminano lente, con abiti colorati di tessuti luccicanti e rinsecchiti dal sale e dal sole. Le vesti accarezzano la magrezza dei loro corpi. Camminano silenziose verso quello spazio verde cosparso di sale, aggrappato al mare e alla terra con radici che sono come dita deformate e lunghissime. Lasciano impronte sulla sabbia umida che ad ogni passo, sotto il peso leggero del loro corpo, sembra emettere il suono di milioni di granelli bagnati che si compattano tutti insieme. Hanno i piedi tagliati come si taglia, per il caldo e per il freddo, per l’uso ed il passare del tempo, una suola di gomma di una scarpa da montagna. Camminano abituate al calore della sabbia, al groviglio dei rami della bassa e fitta foresta. Le loro impronte solitarie sono decori sulla sabbia, tra le linee della schiuma bianca e quelle delle onde.

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IL BRIVIDO DELLA SHEIKHA SH E I K H A

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Her motionless, tense body moves with a jolt. It is almost as though she has just received a mild electric shock. A shiver. It’s that same shiver you get all over your body when the water is too cold, or when a slight yet unexpected breeze makes the hair on the back of your neck and arms stand on end on a hot yet humid summer afternoon. Or a finger slowly running along the skin. There is astonishment, coupled with embarrassment and fear on her face. Her dark, bright eyes seem to search for something far away, out in the middle of the sea. Shiny, long black curls peek out from under the veil that covers her head. The sheikha has always prided herself in having such beautiful hair. She tightly grips onto the veil at her chest, as many elderly women living in the mountains during winter are seen holding onto their handmade woollen shawls whenever they brave the snow to collect wood for the stove. The warm hands provide protection and warmth. The sheikha holds her breath. Anxiety has gripped hold of her. It is as though she doesn’t want to feel or show any reaction...it’s best for her to hide away. She slowly plucks up the courage and begins to breathe again. Both her facial features and body relaxes. Her eyes, filled with fear just moments ago, are now serene. There is a doctor at her side; a foreigner who is listening to her heart and lungs. The cold stethoscope resting lightly on the smooth skin of her gaunt back is the only contact between her and the stranger. Nevertheless, it’s a closeness that makes her heart start beating faster.

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Un sussulto fa muovere il suo corpo immobile e teso. Pare attraversato da una leggerissima scossa elettrica. Un brivido. Lo stesso brivido che provocano su tutto il corpo l’acqua troppo fredda quando scorre lungo la schiena o sulla pelle un lieve e inaspettato soffiare di vento fresco in un pomeriggio caldo e afoso d’estate. Una lunga carezza con la punta delle dita. Il suo viso è contratto da una espressione di stupore, ma anche di imbarazzo e paura. Gli occhi scuri e luminosi cercano qualche cosa lontano, in mezzo al mare. Dal velo che le copre la testa escono ricci morbidi, lunghi, neri e lucidi. Ha sempre avuto bellissimi capelli la sheikha. Tiene quel velo stretto sul petto, come fanno le donne anziane, d’inverno, in montagna, con lo scialle di lana fatto a mano, quando escono a prendere legna per la stufa e fuori nevica. Il calore delle mani che protegge e scalda. La sheikha trattiene il respiro. Un’apnea emozionale. Come volesse non sentire, per nascondere e non mostrare nessuna reazione. Lentamente prende coraggio e ricomincia a respirare. I lineamenti del viso si distendono, il corpo si rilassa. Nello sguardo scompare la paura e torna la serenità. C’è un medico di passaggio vicino a lei, un forestiero, che le ausculta il cuore e i polmoni. Il freddo disco di uno stetoscopio appoggiato con delicatezza sulla pelle liscia della sua schiena magra è l’unico contatto tra lei e lo sconosciuto. Una vicinanza che fa accelerare il ritmo dei battiti del cuore.

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Le montagne di Socotra raccontano dall’inizio dei tempi la leggenda delle donne incantatrici. Narrano di come riescano a dominare i venti, a cambiarne la direzione, a far scomparire e riapparire l’isola, all’improvviso, dall’orizzonte. Raccontano del loro canto, una fascinazione irresistibile per tutti i naviganti. Parlano sottovoce delle loro magie. Dicono che riescano a vedere nel buio delle notti senza luna con occhi di gatte selvatiche, che sappiano curare ogni male con il fuoco e che siano le più potenti tra i jinn. Ci sono donne a Socotra che vivono ai piedi di quei pinnacoli granitici, dentro grotte avvolte di nuvole fatte di nebbia bianca e densa, dove gli avvoltoi in volo e le forme degli alberi, diventano creature mitologiche. Sono donne di montagna, donne di famiglie nomadi, le mogli dei bedu che si spostano in cerca di pascolo. Nell’isolamento silenzioso dei giorni, sanno raccontare le favole delle origini in una lingua parlata su quelle che sono le più antiche tra le montagne del mondo. È dalla voce delle montagne che sentono dell’arrivo delle carovane di dromedari in viaggio lungo sentieri dove arrancano anche le capre. A Socotra le montagne parlano. Quello che dicono lo cattura e trasporta un soffio di vento o lo diffonde un’eco riflessa sulle pareti verticali delle valli. Un momento importante, un’occasione sempre tanto attesa, per sapere di qualche figlio che vive nell’altra parte dell’isola o, distante, più lontano di Sana’a, di altre famiglie della tribù, delle nuove nascite, quante femmine sono venute al mondo e quanti maschi, di chi è morto a casa o in ospedale - ma di che cosa è morto,

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non era vecchio! - di chi sta poco bene o di chi, grazie al cielo, è riuscito a guarire, degli ultimi matrimoni, di chi è partito e chissà se tornerà. E poi la salute degli animali, la produzione delle resine aromatiche e la raccolta dei datteri. Le voci sulle carovane di passaggio sono come la sabbia dei deserti posata sulla neve. Viaggiano veloci, seguono traiettorie inspiegabili e invisibili e precedono sempre il canto e i passi affaticati dei cammellieri scalzi e quelli lenti e sordi dei loro animali. E ogni volta queste donne, che sembrano senza età, sono lì, sedute, ad aspettare. Come va la famiglia? è sempre l’inizio di una lunga sosta. Offrono agli uomini tè, burro chiarificato, gelatina di aloe, carne di capra lessata nel brodo con tutte le interiora. Danno da bere agli animali. Tutto quello che hanno. Questo è un Mondo diverso, da dove non si riesce a vedere il mare. Legend has it that the Socotra mountains have been telling the tale of sorceresses since the beginning of time. They tell of how these women can manipulate the winds, change their direction and make the island suddenly disappear and reappear on the horizon. They speak of their song and how it irresistibly lures in any sailors. There’s even hushed talk of their magical powers. They say that these sorceresses can see in the dark on moonless nights with their wild cat-like eyes, that they know how to cure all evil with fire and that they are the most powerful of the jinns. There are women in Socotra who live at the foot of those granite pinnacles – in cloud shrouded caves seemingly


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made of dense white fog – where flying vultures and irregularly-shaped trees become mythological creatures. These are mountain women; the wives of the Bedouin nomadic tribes who regularly move in search of pasture. As the days pass by silently, they use a spoken dialect to tell tales about the origins of some of the oldest mountains in the world. It is from the mountain’s voice itself that they can hear the arrival of the Arabian camel caravans, travelling along the same paths used by the goats. In Socotra, the mountains speak. Their words are captured and carried on a gust of wind or diffused as an echo bouncing off the vertical walls of the valleys. This is an important moment – a long-awaited opportunity that never comes soon enough – to receive news about some son that lives on the other side of the island or beyond Sana’a, or hear of the tribe’s other family members, any new births, how many girls and boys have been welcomed into this world, those that have died at home or in hospital (but how come, he wasn’t old!), who

is unwell or who, thank goodness, has made a full recovery, recent marriages and who has left the island (and who knows if they will ever return?). And then of course, there’s talk regarding the health of the animals, balsam production and the date harvest. The voices from the passing caravans are like snow covered by desert sand. They travel fast along the inexplicable and sometimes invisible paths; the first sounds to be heard are the singing, followed by the weary steps of the barefoot camel drivers and the slow, dull sound of that of their animals. And each and every time, these seemingly ageless women are sat there, waiting for them. How’s the family? It is always the beginning of a long stopover. The women offer tea, clarified butter, aloe jelly and goat meat boiled in broth with all the entrails, to the men. They also give the animals some water. It’s everything they have. This is a different world where the sea cannot be glimpsed in any direction.



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UNA NASCITA BIRTH

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The village is celebrating. A child has just been born. In this forgotten land where everyday life is truly stripped to the bone, each birth is a perpetuation of existence and reason to celebrate. The children are raised collectively here, and this keeps the mothers busy as they lovingly support each other in a traditional way, full of spontaneous generosity. During the long stretches when their husbands are out to sea, this solidarity helps ease the struggle of the nomadic fishermen’s wives. Their instinctive daily customs and rules are almost unheard of these days in Western civilisations. This simple kind of living reinforces their community values and sense of belonging. They support one another and find solace in the fact that this support is reciprocated. There is harmony, beauty and strength to be found in this close-knit community with welcoming wide-open arms. An example of this profound connection is that mothers help breastfeed the babies of other mothers who may have no milk left to give or are in poor health. The newborn isn’t moving. The silence protectively enshrouds the newborn, as if it too were delivered from the uterus. It’s a silence not akin to this world, a world suspended in time and space. The journey... from inside the mother’s belly to the outside world. However, the mother isn’t moving either. She waits with bated breath for a sign that the bundle lying on her lap is indeed alive. The mother and her baby are motherhood personified. The kind depicted in paintings. And the fact that the entire village comes together at this time, adds to the sacredness of this moment.

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Il villaggio è in festa. È da poco nato un bambino. In questa terra dimenticata, nella quotidianità del vivere ridotta all’osso, ogni nascita è un perpetuarsi dell’esistenza. La condivisione collettiva della crescita dei figli alimenta le giornate di queste madri, che si sostengono amorevolmente, in una realtà di tradizionale, spontanea generosità. Nei lunghi periodi in cui restano da sole, la solidarietà aiuta queste donne, mogli di pescatori nomadi, a fare meno fatica. Praticano con naturalezza abitudini e regole quotidiane che in Occidente sono rimaste solo la base di complesse teorie sociali. È il vivere semplice che tra loro favorisce il significato del noi e predispone l’anima a valori comunitari. Si sostengono e si sentono, con reciprocità, riferimento sicuro. Ci sono armonia, bellezza e forza in questo intreccio di mani che donano, nelle braccia aperte che accolgono, nei seni che si offrono quando le donne che hanno più latte attaccano al loro seno i figli di quelle che non ne hanno o sono debilitate. Il bambino è immobile. Il silenzio ha una densità fisica che lo protegge, come fosse uscito, insieme al corpo, direttamente dall’utero. È il silenzio di un mondo non terreno, un mondo sospeso. Di passaggio. Tra il dentro la pancia della madre e il fuori. Anche la madre è immobile. In attesa che la vita distesa sul suo grembo dia un segno tangibile del sue essere nato. La puerpera e il suo bambino sono una maternità d’artista. Una maternità che sembra dipinta. E l’adorazione di tutto il villaggio, un coronamento di sacralità.

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UN PUNTINO SULLA MAPPA DEL MONDO JUST

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“Da dove vieni? Abiti più lontano di Sana’a?” Il vento le entra come dita aperte nei capelli, riccioli lunghi e rinsecchiti dall’acqua di mare che le coprono, disordinati, una parte del viso. Sulla sabbia ci sono i segni incerti dei confini che assomigliano ai contorni dell’Africa e del Medio Oriente, alla costa del Mar Rosso e a quella della Penisola Arabica. Affondato nell’immensità dei granelli, al largo, un punto. L’isola circondata dal mare. Braccia aperte coprono la distanza di un volo libero di uccelli migratori e quello di un aeroplano. La bambina guarda quelle linee che contengono pezzi di Mondo. È tutto troppo grande per lei e va oltre la sua conoscenza della geografia, della capacità di comprendere e dell’immaginazione. “Dov’è Socotra? È questa?” Infila l’indice nel punto affondato nella sabbia, per essere sicura che, dentro quella mappa, ci sia veramente anche la sua terra. “Questa non può essere Socotra, è troppo piccola”. Nelle ultime pagine di un libro aperto e con gli angoli delle pagine sporchi e consumati c’è il planisfero dei fusi orari. Tutto il Mondo, a righe di diverse tonalità di grigio, disteso, spalmato dentro un reticolo di linee verticali. Lo prende in mano e cerca. “Dov’è Socotra?” Una mano adulta è troppo grande per risponderle, per indicare su quella mappa del Mondo un puntino grigio chiaro della dimensione della punta di un ago. Quasi invisibile. I suoi occhi vagano sulla mappa alla ricerca di riferimenti famigliari. Le forme dei continenti sono per lei l’inizio di un viaggio fantastico, un’avventura mai vissu-

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ta prima. Sembra confusa e sorpresa dall’immensità di tutto quello che sta attorno al quel puntino in mezzo al mare. Quanto può essere grande la sua terra, dentro la mappa del Mondo? Dove arriveranno i suoi confini? Saranno confini infiniti? E più in là di Sana’a, cosa ci sarà? Ha gli occhi neri da guerriera e granelli di sabbia incastrati nelle ciglia lunghissime. Si tuffa con i pensieri lontano, come per trovare nell’orizzonte che conosce e che è sempre blu, altra terra, ad una distanza che possa darle una conferma che il Mondo è tutto lì, intorno all’isola dove vive. La sua isola. L’unica terra possibile.


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never before experienced. She seems both confused and astonished by the immensity of everything around that dot in the middle of the sea. How big can her home be on this world map? How far do its borders stretch? Are the borders endless? And what is out there, beyond Sana’a? She has black warrior-like eyes and grains of sand stuck to her beautifully long eyelashes. The girl gets lost in her own thoughts, as if trying to find another land in the distance of the ever-blue horizon that she knows so well, as confirmation that the world is in fact all there, around the island she calls her home. Her island. The only world she knows.

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“Where are you from? Do you live further away than Sana’a?” The wind runs through her hair like fingers and her long curls – dried by the sea water – untidily stick to half of her face. Indistinct outlines of the borders that resemble the contours of Africa and the Middle East, the Red Sea coast and that of the Arabian Peninsula, have been drawn in the sand. One point sunk in the immensity of the grains in the midst of the open sea. The island surrounded by water. Open arms cover the distance of the free flight of migratory birds and that of an aeroplane. The girl studies those lines that “in theory” contain pieces of the world. It is all too much for her and her knowledge of geography; it goes beyond her understanding and imagination. “Where is Socotra? Is that it?” She sticks her index finger in the sand as if making sure that her land really is on this map. “That can’t be Socotra, it’s too small”. On the last pages of an open book with soiled page corners and signs of being well-read, a world time zone map is displayed. The whole world – separated into stripes of various nuances of grey – expands within this grid of vertical lines. She picks it up and looks for it. “Where is Socotra?” An adult hand would be too big to answer, to point to a light grey dot the size of the tip of a needle on that particular map of the world. Almost invisible to the naked eye. Her eyes peruse the map in search of familiar reference points. The shapes of the continents are the beginning of a fantastic journey for her - an adventure she has




IN VIAGGIO LONTANO DA CASA T R AV E L L I N G

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Joy and confusion spreads through the village at the news of a vehicle arriving. The women can finally go to the market in the north of the island. Three of them get ready and leave, with just a few belongings shoved inside a plastic bag and a sack of salt each. The women remaining behind will look after the children. With the stops upon request, the journey takes an entire day. The women are crouched - on top of their sacks of salt they are hoping to sell - on the left of the truck bed, whilst the men sit on the right. No passenger gets on empty-handed. A mountain shepherd is holding a baby goat with a white bow tied around its neck. Two women are holding two water bags filled with butter between their legs. A thin, balding man with no teeth has come with a bucket of eggs. Another tries to wedge a blue bucket filled with raw honey into the cramped space between his legs and all the other goods. Bees and flies can be seen sinking their feet into the thick and sticky amber splodges on the lid. The passengers chat amongst themselves as they head over the bumpy roads. The journey is a colourful one filled with soft veils and orange henna-tinged thick beards, across an ochre-coloured arid, rocky plateau and dry seasonal streams, surrounded by lush green palm trees. The vehicle comes to a stop where the blue shades of the sea and sky seem to meld into one on the horizon. The road is deserted. The women get off. This is a boundary; in order to go any further, any locks of hair, skin and hints of colour must be concealed beneath layers of black fabric. The women perch over their sacks once more, this time with gloved hands and their feet covered with synthetic socks tucked inside their mules. They resume talking until the final destination is reached. The women walk along the street laden with coloured plastic and seem to disappear amongst the throng of other women dressed in black. It is hard to tell them apart. Those shiny fabrics and overlapping synthetic veils, loosely skim their figures with a perfection reminiscent of those 18th-century marble sculptures of nudes virtuously covered in fabric veils. The purpose of those garments is to conceal a women’s mortal flesh - to make sure that she is not seen or desired - yet somehow, they still manage to enhance the overwhelming force of their innate and irrefutable beauty.

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La notizia di una macchina in arrivo nel villaggio porta gioia e scompiglio. Le donne possono finalmente raggiungere il mercato a nord dell’isola. Si preparano e partono in tre, con poche cose dentro un sacchetto di plastica e con un sacco di sale ciascuna. Dei loro figli si occuperanno le donne che restano. Con le fermate a richiesta, il viaggio è lungo un giorno. Nel cassone dell’autocarro le donne si accucciano a sinistra, sopra i sacchi di sale che portano a vendere, gli uomini a destra. Sulla strada, nessuno aspetta un passaggio a mani vuote, senza qualche cosa da caricare. Un pastore delle montagne ha in braccio un cucciolo di capra con un fiocco bianco legato intorno al collo. Due donne tengono per le zampe un paio di ghirbe gonfie di burro. Un uomo magro, con pochi capelli e senza denti, tiene con due mani un secchiello pieno di uova. Un altro prova ad incastrare nello spazio tra i piedi e le cose un secchio blu colmo di miele grezzo. Sul coperchio api e mosche affondano le zampe nelle sbavature ambrate, dense e appiccicose. Discorrono e se la raccontano i passeggeri, tra sobbalzi e salti. È un viaggio colorato di veli morbidi, di barbe folte tinte di arancio con l’henna, attraverso un altopiano arido e pietroso sfumato di ocra e lungo torrenti stagionali asciutti, ma rigogliosi di palme verdi. Una sosta dove, all’orizzonte, il mare e il cielo mescolano tonalità di azzurro. Sulla strada non c’è nessuno. Le donne scendono. Questo è un confine, un limite oltre il quale la pelle, un ricciolo dei capelli e i colori devono scomparire sotto strati di tessuto nero. Tornano ad appollaiarsi sui sacchi, con le mani guantate e i piedi coperti da calze sintetiche infilate nelle ciabatte. Riprendono a parlare, fino a dove l’autocarro si ferma e non riparte. Lungo la strada lastricata di plastica colorata, si confondono, in cammino, con tutte le altre donne vestite di nero. Sembrano tutte uguali. Quelle stoffe lucide, quei veli sintetici sovrapposti, si appoggiano morbidamente sulle forme con una perfezione che ricorda certi nudi del Settecento, vestiti di veli tessuti, con virtuosismo, nel marmo. Quelle vesti scivolano sui corpi delle donne per nascondere la carne terrena, per non farla vedere e non farla desiderare, ma riescono ad esaltare la forza travolgente della loro innata e inconfutabile bellezza.


LA VITA NEL VENTO LIFE

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C’è una strana calma nei giorni che precedono il monsone. Il mare è immobile, azzurro come i cieli sempre senza nuvole. Un mare nel cielo. Un cielo capovolto. Il silenzio caldo galleggia nell’aria. Gli animali sono muti. Due becchi con il pelo bianco e ispido camminano sulla sabbia. Si mimetizzano bene, anche con le corna dipinte di azzurro. Fanno pochi passi e si fermano, impediti da un pezzo di plastica rossa legato e infiocchettato tra le zampe posteriori, sopra la coda. È lo strappo di un vecchio vestito che non ha ancora finito del tutto la sua vita. Deve essere stato un bel vestito, colorato e con i lustrini. Con il pene e i testicoli così incartati, i maschi non riescono a fecondare le femmine che darebbero alla luce i cuccioli quando nell’isola c’è poco da mangiare per gli uomini e per gli animali. I caldi mesi di vento sono mesi molto faticosi. L’erba dei pascoli è secca, si seccano le foglie sugli alberi e sulle piante, si seccano le erbe matte, anche quelle che le capre, divoratrici di ogni cosa le possa saziare, non mangerebbero mai. Nel mercato restano solo cipolle. Piccole e avvizzite cipolle rosse, messe in mostra per strada, direttamente sulla terra, sopra pezzi di cartone mezzi sotterrati nella polvere e nella plastica. L’attesa della prima raffica è come un travaglio. È l’attesa del ritorno del vento e degli uomini che sono in mare. Parlano poco le donne. Per non far rumore, per poter ascoltare ogni minimo preavviso. Arriva l’alba, la giornata trascorre a guardare il mare, fino a dove il blu diventa nero. Il tramonto si spegne nella notte. E domani ancora. Non ha regole questo vento. Non manda nessun segnale. Ma ogni anno torna e fa venire i brividi

al mare. Come la prima carezza che scatena l’innamoramento e l’amore. È l’inizio. Monta lentamente, raffica dopo raffica. Sempre più intense, sempre più violente, sempre più lunghe. Ed è subito anarchica convulsione acquatica fino alla fine dell’orizzonte. L’isola diventa irraggiungibile, sembra una nave alla deriva, avviluppata da flutti scatenati, da una turbine di spruzzi, denso e bianco come nebbia, una tempesta di aghi. Questo è un vento che non ha maniere gentili. Ma uomini e animali si abituano ogni volta al vento. Convivono con la lunga burrasca. Una donna di tanti anni che ha smesso di aspettare il ritorno dal mare del marito e dei figli, raccoglie a riva pezzi spaccati di madrepore e conchiglie. Alcune sono così grandi che sembrano catini. Prodigi animali di bellezza sconvolgente. Sconquassati dalla forza delle correnti e dalle onde, si arenano sulla sabbia di questa spiaggia dimenticata. Le appoggia, incastrate con pazienza e arte, a due legni inchiodati che sono la porta della sua casa. Sbattono senza sosta al ritmo sregolato delle raffiche di questo vento che attraversa lo spazio, disegna linee orizzontali e trasforma le onde in polvere luminescente di mare.


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merge into one. The wind has no rules. It doesn’t send any warnings. Yet each year it returns to ripple the sea. Like that first caress that triggers the intense feeling of falling in love. It is beginning. It builds slowly, gust after gust. It gets more and more intense, increasingly violent and longer each time. And almost instantaneously, the water begins to anarchically convulse as far as the eye can see. The island is shut off from the outside world; it looks like a ship at sea, enveloped by enormous waves, a maelstrom of fog-like dense white spray and pelting rain. This wind takes no prisoners. Yet every time, humans and animals alike grow accustomed to it. They learn to carry on with their lives during the monthslong storm. An elderly woman who has stopped waiting for her husband and sons to return from sea, is picking up broken pieces of coral and shells that have washed ashore. Some are so big that they look like bowls. Stunningly beautiful animal prodigies. Dislodged and shattered by the unforgiving force of the currents and waves, they get stranded on the sand of this forgotten beach. She props them up and with what can only be described as patience and artistic flair, wedges them between the two pieces of wood that have been nailed together to form the door to her house. They relentlessly flap to the unruly rhythm of the gusts of this wind that invades the island, draws horizontal lines and transforms the waves into luminescent sea dust.

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There’s always a strange calm in the days leading up to the monsoon. The blue sea is still like the ever-clear skies. A sea in the sky. An upside-down sky. Warm silence floats in the air. The animals fall silent. Two bucks with shaggy white fur walk along the sand. They blend in well, even with their blue-painted horns. They take a few steps forward and stop abruptly, held back by a piece of red plastic tied and knotted between their hind legs, just above the tail. It is a rag from an old dress that still has some life in it yet. It must have once been a pretty and colourful sequinned dress. Their penises and testicles have been wrapped this way to prevent them from impregnating females who would otherwise give birth to kids at a time when there is little food to go around for neither the island’s human nor animal inhabitants. The warm windy months take their toll on the island. The grass in the pastures becomes dry, the leaves on the trees and plants shrivel up, the wild herbs dry up, including even those that the goats – who will eat almost anything until they’re full – would never touch. Only onions remain in the market. Small and shrivelled red onions are displayed on the floor in the street, on pieces of cardboard half buried in dust and plastic. Waiting for the first gust is an impatient ordeal. Everyone eagerly awaits the return of the wind, and with that, the men who are at sea. The women hardly speak. They dare not make a sound in order to be able to hear even the slightest noise. The sun comes up, the day is spent gazing towards the sea, until the blue finally turns black. The sunset fades into the night. The days




I CAPELLI CHE FANNO LUCE HAIR

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È l’unica casa che non guarda un mare senza fine. Non ha mai avuto porta né finestre. Sole e vento entrano ed escono liberi e creano giochi di luce e traiettorie circolari. I muri di sasso sono un prodigio di incastro e di sfumature. Frantumi di scogliera, emersa milioni di anni fa. Uguali all’esterno e all’interno. Non c’è nessuna differenza tra il dentro e il fuori. A sinistra sono impilati i materassi di tutta la famiglia, sottili e foderati di tele a fiori colorati. Assorbono tutta l’umidità salata che, di fronte al mare, penetra, come polvere, in ogni cosa. A destra un pezzo di legno, l’avanzo di un asse spiaggiata, è l’unica cosa appesa. Chiodi arrugginiti, piantati a distanza regolare, sorreggono abiti femminili, lunghi, colorati, con riflessi d’oro. Una bambina gioca a nascondino tra le vesti e una donna è seduta su una stuoia che copre tutto il pavimento. La sabbia incastrata nella stuoia si appiccica alla pelle. La donna ha una mano appoggiata su un fagotto di stracci. Lo ninnola come si fa con i neonati per calmarli quando piangono e per farli addormentare. Non solo solo stracci. In mezzo a quelle pezze di tessuti lucenti c’è il corpo minuscolo di una bambina nata da pochi giorni. Un grumo di carne che fatica a respirare. Dalla bocca aperta esce un filo d’aria che fa rumore. Ha la pelle del collo fina, rigata da vene blu. Sembra pelle trasparente. Carta velina. Tantissimi capelli, sottili e così bianchi che fanno luce. È albina, come sua sorella che questa comunità, isolata e irraggiungibile, ha accolto, accettato e continua a proteggere. Figlie della stessa madre e dello stesso padre, sono le uniche albine dell’isola. Nascere albini in Africa è una condanna. Gli scherzi della

genetica, un enzima che manca, segnano precocemente il destino di questi figli della luce. I “fantasmi africani”. Li chiamano così gli albini, “fantasmi”. Una vita a cercare il buio per salvare la pelle dalla ferocia del sole, a proteggere gli occhi dalla violenza insopportabile della luce. Una vita ai margini e senza difese. Quelle della pelle e quelle dai pregiudizi culturali. It’s the only house that doesn’t look out upon the endless sea. It has never had a door or window. The sun and wind come and go as they please and create light effects and circular trajectories. The stone walls are a prodigy of recesses and different shades. Fragments of cliff that emerged millions of years ago. The same interior and exterior. There’s no difference between the inside and the outside. The whole family’s threadbare mattresses are stacked to the left and covered with colourful floral fabrics. They absorb all the salty sea air moisture which, as a result of facing the sea, penetrates absolutely everything, like dust. On the right, a piece of wood - the remnant of a washed-up plank - is the only thing that hangs on the wall. Rusty nails, inserted at regular intervals, are used to hang long, colourful dresses embellished with hints of gold. A little girl is playing hide and seek amongst the clothes and a woman is sitting on a mat that stretches across the entire floor. The sand embedded in the mat sticks to the skin. The woman has one hand resting on a bundle of rags. She is humming a lullaby like the ones sung to newborn babies to soothe them and help them fall asleep. These are no rags. In the midst of those scraps of shiny fabric lies the tiny body of


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a baby girl who is not even a week old. A bundle of rags that can hardly breathe. She wheezes as she exhales a breath of air. The thin skin of her neck is streaked with blue veins. Her skin seems almost transparent. As fine as tissue paper. She has a mass of thin hair that is so white it gleams. She – just like her older sister – is an albino who this isolated and unreachable community has welcomed, accepted and continues to protect. These daughters, with the same mother and father, are the

only albinos on the island. Being born an albino in Africa is a life sentence. This genetic mutation – caused by an absent enzyme – precociously marks the fate of these children of light. The “African ghosts”. That is what they call albinos, “ghosts”. A life spent in search of the dark to save the skin from the ferocity of the sun and to protect the eyes from the unbearable violence of the light. A marginalised and defenceless life. With no protection from their skin or cultural prejudices.


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LA LIBERTÀ DEL ROSSETTO THE

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*niqab è il velo nero che copre il volto e il capo

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*abaya the black robe-like dress that covers the whole body, excluding the head, feet and hands *niqab the black veil that covers the face and head

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*abaya è l’abito nero che copre il corpo, la barriera con il resto del mondo

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They look like candle stubs that have been left out in the hot sun. Blood red, ruby red, scarlet red. Coral orange and apricot orange. Flamingo pink and dusty pink. They are lopsided and crooked like objects that can be melted and hardened many times, yet never actually return to their original shape. Coloured remnants that exude bubbles of castor oil and petroleum and slowly melt without ever quite turning to liquid. Pieces that have broken off and been haphazardly squashed back together. Nonetheless, the women’s fingers excitedly swivel the plastic tubes whose writing has faded over time, after being passed through many a hand, to gradually become like fine grit sandpaper. But that bit is not important. It’s always such a shame when the buttery, colourful remnant finally gets lodged at the bottom of the tube. However, there’s still hope yet: the women dip their fingers into the tube and spread it across their lips, or failing that, use a small brush to extract the product. It’s a scramble as they fish inside the yellow plastic bag to find the tubes filled with various, yet ever-beautiful shades. The bag makes a crinkling sound, similar to that of crumpled Easter egg tissue paper. For these women, a universal symbol of femininity is contained within this bag. A desire for freedom and an intimate, discreet revolution to be shared amongst women. A precious and rare treasure - just like the crushed beetle and ant mixture used by Cleopatra, or the mixture comprising sesame oil, natural pigments and rose essence, worn by Queen Puabi of Ur. In Socotra, lipstick is only worn on special occasions. Lipstick cannot be bought from the small, gloomy shops in the island’s largest village. Every now and then, a merchant will bring them over from the continent, having purchased them as a second-hand lot - as is sometimes the case with the abayas*, niqab*, bras and underwear.

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Sono come mozziconi di candele consumate, dimenticate al caldo, sotto il sole. Rosso sangue, rosso rubino, rosso scarlatto. Arancione corallo e arancione albicocca. Rosa fenicottero e rosa cipria. Sono sbilenchi e storti come le cose che si sciolgono e induriscono tante volte e non ritornano mai nella forma originaria. Avanzi colorati che trasudano bollicine di olio di ricino e petrolio, un lento squagliarsi che non raggiunge lo stato liquido. Pezzi rotti e rimessi insieme, appiccicati uno sull’altro senza tanta cura. C’è eccitazione nelle dita che svitano e avvitano i tubetti di plastica con le scritte sbiadite dai passaggi di tante mani che, nel tempo, sono come la carta vetrata a grana fina. Toglie solo i segni superficiali. C’è sorpresa negli occhi quando, finalmente, appare un rimasuglio burroso e colorato rimasto incastrato nel fondo. Intingono un dito per poi stenderlo sulle labbra o immergono un piccolo pennello. È tutto un rimescolare, un pescare dentro quel sacchetto di plastica gialla dove i tubetti nascondono gradazioni diverse e bellissime. Il sacchetto emette un suono croccante, lo stesso della carta dell’uovo di Pasqua appallottolata. Per queste donne custodisce un simbolo universale di femminilità. Un desiderio di libertà e di intima, discreta rivoluzione da condividere con altre donne sorelle. Un tesoro prezioso e raro, come i coleotteri e le formiche ridotti in polvere di Cleopatra, o come l’impasto fatto con olio di sesamo, pigmenti naturali ed essenza di rosa di Puabi, la regina di Ur. A Socotra indossare il rossetto non è un gesto quotidiano. E il rossetto non è un oggetto in vendita nelle botteghe piccole e buie del villaggio più grande dell’isola. Capita che qualche mercante li porti dal continente, una partita acquistata d’occasione, come talvolta capita con l’abaya*, il niqāb*, i reggiseni o le mutande.


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RITORNO A QABAHAN RE TU R N

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Quando il mare non ha creste bianche e schiumose, due ore di barca è il tempo che serve per raggiungere il villaggio. Mezza giornata dal villaggio più grande, con una macchina in buone condizioni, percorrendo la pista che attraversa un deserto di pietre sbiancate e cotte dal sole e poi, a piedi, scavalcando una montagna lungo i sentieri delle capre. Due ore con una barca a motore. Solo due ore. Ma questo è sempre stato un territorio irraggiungibile. Nessun uomo del governo è mai arrivato fino a qui per chiedere un voto. Nessun mercante a vendere farina, olio o zucchero, nessun medico a curare chi ne avesse bisogno. Nessun umanitario. Troppo fuori mano, per qualsiasi mezzo si abbia a disposizione. E per qualsiasi interesse. Qui bisogna avere un motivo per arrivarci o sentire il desiderio di venirci. Il ritorno è sempre una grande gioia, dopo che una guerra ha fatto scomparire l’esistenza di questa isola leggendaria dalla scena del Mondo, dalle rotte degli aeroplani e dalle carte geografiche, dai giornali e dai desideri di viaggio. Per i turisti distratti e superficiali l’isola è solo mare, un posto da esploratori del XXI secolo. In realtà questo puntino nell’Oceano Indiano vive di eccezionalità. Due ore di barca in un mare senza onde, lungo una falesia verticale che sembra l’incastro geniale, miracoloso e fantastico di equilibri che solo la natura, libera da costrizioni, riesce a realizzare. Blocchi immensi di arenaria che dal profondo trasparente dell’acqua blu del mare, uno sopra l’altro, si arrampicano come acrobati, fino all’azzurro del cielo. La falesia finisce con un taglio vivo, come l’ultima fetta di una torta. Poi si sbarca come naufraghi dove l’orizzonte diventa aperto e calmo. Cinque case per cinque famiglie. Una piccola comunità che

vive di condivisione, di solidarietà e mutuo aiuto con una sola cucina e una macchina da cucire. Sono rimasti in sospeso anni di nascite e di cambiamenti. Nel villaggio ci sono solo donne. Prima del monsone, l’oceano che arriva dritto in India, ha una calma strana e tutti gli uomini della costa lavorano come pescatori su barche di legno dipinte di azzurro. Le stive sono cariche di sacchi di ghiaccio che sembra sale grosso e pesci. Pesci grandi. Sacchi di ghiaccio e pesci, a strati. Ogni settimana il carico arriva a Mukalla, la città nel continente, bianca candida e fluttuante e si trasforma in scatolette color argento con la scritta azzurra: Tuna fish - Product of Yemen. Il pesce in scatola è l’unico prodotto yemenita in un’isola che non ha mai avuto un porto e neanche un faro, dove confluiscono le inspiegabili vie del commercio da ogni parte del mondo. I crackers dal Brasile, le olive dalla Spagna, i biscotti con la crema rosa o verde dagli Emirati Arabi, il sapone dall’Egitto, i tessuti sintetici e lucidi dalla Korea, la pasta “Spaghetti” dall’Arabia Saudita, i formaggini che non scadono mai dalla Francia. Le donne mangiano tutte insieme, sedute sulla sabbia, riparate dalla luce e dal forte calore del sole all’ombra di un muro. Formano un cerchio, attorno ad un grande piatto rotondo di alluminio. Condividono riso lessato e un pesce arrostito aperto in due. Ha l’occhio sbarrato e un ghigno appena accennato sulla bocca piena di piccoli denti aguzzi. I chicchi del riso sono spezzati, appallottolati tra loro formano grossi grumi. Il profumo è quello dei sacchi di iuta e di legna bruciata. Con le dita scure tinte di henna, prendono bocconi di polpa e riso e li portano alla bocca. Hanno, nelle mani, l’eleganza e la leggerezza di danzatrici indiane.


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ing, solidarity and helping one another, equipped with just one kitchen and a sewing machine. It’s as though this place has defied logic and evolution. There are only women in the village. Before the monsoon season, the ocean that heads straight to India has a strange calmness to it and all the men living on the coast work as fishermen on light blue-painted wooden boats. The holds are laden with bags of ice – that could easily be mistaken for coarse salt – and fish. And we’re not talking about small ones either. Bags filled with layer upon layer of fish and ice. Once a week, the white, floating cargo reaches Mukalla, the city on the continent, and transforms into silver-coloured boxes embellished with light blue writing: Tuna fish – Product of Yemen. Tinned fish is the only Yemeni product on this island that has never had a port or even a lighthouse, yet where all the inexplicable trade routes from all over the world converge. Crackers from Brazil, olives from Spain, biscuits filled with pink or green cream from the United Arab Emirates, soap from Egypt, synthetic and shiny fabric from Korea, “Spaghetti” from Saudi Arabia and cheeses that never expire from France. The women all sit on the sand and eat together, using the shade of a wall to shelter themselves from the strong and hot sun rays. They form a circle around a large round aluminium plate. Their meal consists of boiled rice and a roasted fish that has been cut down the middle. The fish has a wide eye and seems to be smirking with his mouth full of small sharp teeth. The rice grains – small and broken – are balled together to form large lumps. The aroma of jute sacks and burnt wood fills the nostrils. With their dark henna-dyed fingers, they grab morsels of meat and rice and bring them to their mouths. Their hands move with the elegance and lightness of Indian dancers.

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When the sea is free from its white foamy crests, it takes two hours to reach the village by boat. Otherwise, it’s half a day’s drive from the largest village, provided you have a trustworthy car, along a track that crosses a desert of bleached and sun-baked stones, followed by on-foot travel over a mountain, along the paths used by goats. Two hours with a motorboat. Just two hours. But then again, this has always been an unreachable territory. No government official has ever strayed this far to solicit votes. Neither any merchant to sell flour, oil or sugar, nor a doctor to treat those in need. There has been no humanitarian aid whatsoever. It’s too out of the way for whatever means are available, and more importantly... too far away to be of any interest. Anybody who comes here, must either need or want to come. It is always such a great joy to return here, after the war has made the existence of this legendary island disappear from the world stage, airport routes, maps, newspaper headlines and prospective visitors’ minds. The more superficial, pleasure-seeking tourists see the island as just the sea, a place for 21st-century explorers. However, this dot in the Indian Ocean thrives on exceptionality. Two hours by boat when the sea is calm, careening around a vertical cliff which seems ingeniously, miraculously, impressively yet very precariously balanced in place such as only nature – free from any constraints – can ever achieve. Immense blocks of sandstone that climb like acrobats – one on top of the other – from the depths of the transparent deep blue sea up to the dazzling blue sky. The cliff ends abruptly at a point, just like the last slice of a cake. The destination is reached: we disembark like castaways where the horizon becomes open and calm. Five houses for five families. A small community that thrives on shar-


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LA BAMBINA CON LA COLLANA DI FUOCO THE

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Una mattina luminosa di Aprile - sono trascorsi tanti anni - una forestiera parlò di lei e chiese aiuto, con sincerità e coraggio, all’ambasciatore italiano. Gli porse in dono due lunghe corone di gelsomini freschi e profumati, comperate ad un incrocio, da un fioraio ambulante, in una strada di Sana’a, mentre aspettava di girare a sinistra seduta dentro un taxi giallo senza finestrini. Ha i capelli arancione, una tonalità così bella e intensa che solo l’uso continuo dell’henna riesce a dare. Indossa un vestito di lana a quadri scozzesi, arrivato chissà come, qui, vicino al Tropico. La sua pelle ha il colore delle candele e, incisa sul collo una collana di fuoco. Sfiora le pietre ruvide del muro per scendere i gradini. Quelle sono sempre lì, un riferimento sicuro per il suo mondo fatto di ombre in movimento costante. Cammina sulla sabbia e segue la direzione del filo invisibile che la unisce alle voci degli altri bambini. Con un braccio coperto di peluria bianca si protegge, come può, dalla luce, dal luminoso chiarore della sabbia, dall’azzurro del cielo e dal riverbero del mare. Cosa vedrà del mondo? Una bambina le corre incontro e la prende per mano. Un pugno che fatica ad aprirsi. La sua vita è un miracolo. Era un grumo di carne avvolto in avanzi di stoffe colorate. Quanto tempo è passato? Quante guerre sono iniziate e mai veramente finite? Quanti anni di distruzione, di confini chiusi, di embargo, di fame e disinteresse del Mondo sono tra-

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scorsi? Ha già perso i denti davanti. Ha una cicatrice sul collo, un cerchio perfetto, un segno da ferro incandescente. In questo posto invisibile, senza strada, senza luce, con case di pietra senza porte e finestre, tanto isolato quanto straordinario, la cura del male e del dolore è affidata alle conoscenze e alla pratica dei guaritori tradizionali. I mekole nell’isola di Socotra curano e guariscono con il fuoco. Nell’unico ospedale che continua ad esistere e funzionare, lavorano una ginecologa e una ostetrica venute dai deserti dell’Asia Centrale. Girano, nomadi, con pesanti zaini sulle spalle carichi di ogni cosa possa servire, per arrivare, quasi sempre a piedi, ovunque ci sia bisogno di loro. Per un aiuto alle donne durante le complicazioni di un parto, per curare una infezione agli occhi o all’intestino, per una otite purulenta e una broncopolmonite, per un mal di denti che tormenta, per mettere le stecche di legno su qualche osso rotto. Seduta su un gradino, la bambina con la collana di fuoco guarda dentro uno specchio rotondo incorniciato di plastica rosa. Cosa vedrà di sè? Che è viva.


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and never really ended? How many years of destruction, closed borders, embargo, famine and indifference from the rest of the world had passed? She’d already lost her milk teeth at the front. She had a scar on her neck - a perfect circle - caused presumably by a red-hot iron. In this invisible place with no street, lights, or windows and doors on the stone houses - a place which is as isolated as it is extraordinary - the cure of pain and suffering is entrusted to the wise traditional healers. The mekole on the island of Socotra heal and heal with fire. A gynaecologist and obstetrician - originating from the deserts of Central Asia - are the only workers at the island’s only hospital that continues to exist and function. They travel around like nomads, donning heavy backpacks on their shoulders, equipped with everything that can or might be of use and almost always visit their patients on foot, wherever they are needed. They help women with childbirth complications and treat a wide range of maladies, ranging from eye and bowel infections to chronic suppurative otitis, bronchopneumonia and agonising toothaches, in addition to using wooden splints to help support various broken bones. The girl with the fire necklace was sat on a step, looking into a round mirror with a pink plastic frame. What did she see when she gazed into it? She saw that she was alive.

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One bright April morning - many years later - a foreigner spoke of the little girl he had once met while sincerely and courageously asking the Italian ambassador for help. She handed him two fresh and fragrant long jasmine wreaths, bought at an intersection from a travelling florist on one of Sana’a’s streets, whilst he sat waiting to turn left in a yellow taxi with no windows. Her hair was such a beautiful and intense shade of orange that only the continuous use of henna could ever produce. She was wearing a tartan wool dress - how it got here near the Tropic, he’d never know. Her skin was the colour of a candlestick and a necklace of fire had been engraved around her neck. Her hand skimmed across the rough stone wall as she walked down the steps. They had always been there: a reliable reference point in this world of constantly moving shadows. She walked along the sand and followed the direction of the invisible thread that connected her to the voices of the other children. With one arm covered with white hair, she protected herself as best she could from the sunlight, gleaming sand, blue sky and glare of the sea. What did she see of the world? A little girl then ran up to her and took her by the hand. Her fist, however, struggled to open. It was a miracle she was even alive. It seemed like only yesterday she had been a bundle of coloured rags. How much time had passed? How many wars had started


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Una depressione desertica di lava, sabbia, polvere e sale. Un marasma immenso degli elementi. Un’anarchica e primordiale rivoluzione geologica. In Dancalia si vede quello che non esiste in nessun altro posto sulla Terra: la sua origine e la sua evoluzione. Potenti, lente e continue, a volte violente, si mostrano, senza nessun pudore, alla luce del sole. I suoni sconosciuti di questa trasformazione li assorbe, ovattandoli, uno spazio sconfinato e silenzioso che nella sua forma e nell’odore ha ancora la memoria del fondo del mare. Uno spazio fluttuante, oltre ogni orizzonte, sopra l’energia vitale - un’orgia della chimica degli elementi e della materia - che viene a galla, senza sosta, dal nucleo del pianeta. Natura estrema, angolo di Mondo dimenticato per molto tempo da esploratori e scienziati, da archeologi e antropologi. Dimenticato anche da ogni dio. Una chiazza bianca, una delle poche rimaste, sulle carte geografiche mondiali moderne. Un territorio dove le uniche vie percorribili sono ancora quelle tracciate dagli ultimi avventurieri. La Dancalia etiopica è Africa di confine, legata alla nostra storia e al nostro dissennato passato coloniale. Un luogo di spazi vuoti e umanità, dove l’unica ricchezza è una primitiva e severa bellezza. Una bellezza abrasiva e quasi dolorosa. Per tanto tempo considerata senza nessun valore e interesse economico. Gli Afar, il popolo della lava e del sale, vivono qui, come fossero sotto assedio. Un popolo messo ai margini. Pastori nomadi dalle origini leggendarie, erano conosciuti e temuti in passato per il coraggio, la ferocia di guer-

rieri e per essere abili razziatori. Camminatori instancabili, maratoneti del deserto, alti, magri, felini randagi nel portamento e nell’intelligenza, si nutrono di latte e poca carne, si spostano alla continua ricerca di cibo e acqua per le bestie. Dromedari, capre e vacche scheletriche sono l’unità di misura di tutte le loro relazioni sociali. Profondi conoscitori delle stelle e legati a culti animisti, hanno adattato la loro esistenza alla durezza primordiale della terra, invece di abbandonarla e maledirla perchè arida e poco generosa, e continuano ad amarla, nonostante tutto, con “l’amore di serpi per la pietra”. La Dancalia non è terra per semplici avventure. Chi arriva in Dancalia con ambizione di conquista, penserà sempre di essere capitato in uno dei luoghi più inospitali che esistano, in un luogo dannato. In un girone dantesco. Crederà di essere rotolato per duemila metri giù dall’altopiano e, dopo l’ultima curva, di essere arrivato all’inferno. Qualcuno dice che la Dancalia diventa una ossessione.


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ders. These people - who could be described as tireless walkers, desert marathon runners or tall, thin people with stray feline-like poise and intelligence - feed on milk and what little meat is available, and travel in constant search of food and water for their livestock. Arabian camels, goats and emaciated cows are the unit of measurement of all their social relationships. These animists boast a profound knowledge of the stars and have learnt to adapt to the earth’s primordial hardness, instead of abandoning it and cursing it for being arid and ungenerous; despite everything, they continue to love their land like “snakes love stones”. Danakil is no place for faint-hearted adventurers. Those who arrive in Danakil - with optimistic plans of conquering it - soon learn that they have ended up in one of the most inhospitable places on the planet, a place for the damned. In one of Dante’s circles of hell. Adventurers will journey 2000 metres down the plateau and, after finally making the last bend, discover that they have reached hell. Some even say that Danakil becomes an obsession.

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A desert depression filled with lava, sand, dust and salt. An immense chaos of the elements. An anarchic and primordial geological revolution. In Danakil, you’ll see something that you won’t find in any other place on Earth: its origin and evolution. Powerful, slow, continuous and sometimes violent, they unashamedly appear in the light of the sun. The unknown sounds of this transformation absorb them, muffling them; a boundless and silent space whose shape and smell still contain the memory of the sea floor. A floating space, beyond every horizon, above the life force - an orgy of chemical elements and matter which relentlessly surfaces from the planet’s core. Extreme nature: a corner of the world long forgotten by explorers, scientists, archaeologists and anthropologists. Even abandoned by every god. One of the few remaining white patches on modern world maps. A land where the only viable routes remain those created by the last adventurers. The Ethiopian Danakil Desert is an African borderland, tied to Italian history and its irrational colonial past. A place filled with empty space and void of humanity, where the only wealth is a primitive and harsh beauty. An abrasive and almost painful beauty. For a long time, this area was considered to be of no value or economic interest. The Afar - known as the lava and salt people - live here, as if they were under siege. A marginalised people. These nomadic shepherds boast legendary origins; in the past, they were known and feared for the courage and ferocity of their warriors and for being skilled rai-


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La giovane donna seduta vicino al pozzo ha attraversato la notte e la polvere a piedi. È arrivata dal nulla con un bambino portato sul fianco. Insieme a lei tre bambine con due capre legate ad una corda fatta di pezzi annodati di stoffe colorate. Tirano anche le capre, come fanno i cani al guinzaglio quando sono a passeggio. Un uomo ha condotto i dromedari, carichi di rotoli di stuoie, di fasci di legno lunghi e flessibili, di cesti legati, di secchi appesi, di pelli di vacca secche e dure. La prima bestia della carovana è sempre la più carica, la più robusta e quella che, nelle lunghe traversate, mantiene un passo costante. Il resto delle bestie segue il suo andare. L’uomo beve a canna da una tanica di plastica, avvolta in una tela rosa. Si alza, prende la corda del primo dromedario e continua a camminare. La bambina più grande strattona la corda con le capre e lo segue. La donna, con il bambino e le due bambine più piccole salgono in macchina, occupano in quattro un unico posto, vicino al finestrino. La donna guarda sempre fuori e parla in una lingua incomprensibile. Parla, come se descrivesse quello che vede e che scorre, sbiadito, davanti ai suoi occhi, mentre accarezza i piedi del figlio addormentato e coperto dal velo leggero che le avvolge il busto. Forse racconta del suo uomo, dei figli maschi, dei dromedari, delle vacche, partiti tutti insieme per cercare acqua e un pascolo più abbondante. Un pascolo in Dancalia è così raro che è persino difficile da immaginare. È il dono generoso delle piogge stagionali che scendono dall’altopiano e dell’umidità che, in certe notti, si distende come una fata sulla terra, tanto arida da sem-

brare la sterilità fatta materia. Intorno, figure di uomini e animali appaiono, opache, dentro le gradazioni dei colori della polvere, della lava e del sale. Camminano lentamente, fino divenire di nuovo invisibili. Sono pennellate incerte che scompaiono sulla linea dell’orizzonte. La donna continua a guardare fuori fino a quando chiede di scendere. Non c’è niente, non c’è nessuno. Ma lei vede con altri occhi e sa che è arrivata. The young woman sitting by the well has spent the night walking through the dust. She appeared out of nowhere, carrying a baby boy on her side. However, she is not alone: three little girls accompany her, along with two goats tied to a makeshift rope comprising coloured fabrics knotted together. They were also pulling the goats, just like we would walk a dog on a lead. A man had led the Arabian camels, laden with rolled-up mats, long and flexible bundles of wood, tied baskets, hanging buckets and dry, hard cowhides. The camel at the front of the caravan always carries the biggest load, is the most robust and the one that, during long journeys, maintains a constant pace. The rest of the caravan follow his lead. The man is drinking from a plastic flask wrapped in pink cloth. He stands up, grabs hold of the robe of the first Arabian camel and continues on with the journey. The older girl pulls the goats’ “lead” and follows him. The woman with the baby boy and two youngest girls get into the vehicle, the four of them occupying a single seat near the window. The woman is always


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on the lookout and speaks in an incomprehensible language. She chatters, as if describing what she sees and what is passing, fading before her very eyes, as she caresses the feet of her sleeping son, covered in the light veil that wraps around her torso. Perhaps she is talking about her man, sons, the Arabian camels or the cows; all of whom left together as a pack to look for water and a more abundant pasture. A pasture in Danakil is so rare that it’s hard to even picture. It is the generous gift of the seasonal rains that descend from the plateau and the humidity which, on certain nights, spreads like fairy dust over a ground that is so arid, it seems impossible for anything to ever grow there.

All around, opaque figures of men and animals emerge from the nuanced shades of the dust, lava and salt. They walk slowly until they become invisible once more. They are uncertain brushstrokes that disappear on the horizon. The woman continues to look out and eventually, asks to get off. There is nothing and no one around. However, she sees things from a different perspective and knows that they have reached their destination.


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Quanti anni hai, donna? La pelle del tuo viso è bella e i tuoi occhi non hanno velature. Allatti da tanto tempo neonati e bambini. Hai nutrito i tuoi figli e i figli dei tuoi figli. E tutti i figli delle giovani donne del villaggio. Quante mani si sono aggrappate al tuo seno e lo hanno spremuto, asciutto e svuotato, una fisarmonica di pelle, quante lo hanno strizzato come si strizza un panno umido, per far uscire fino all’ultima goccia di latte! Attaccati al tuo capezzolo grosso e turgido, succhiato da troppo tempo, piccoli denti di bocche affamate hanno potuto trovare pace. Il latte del tuo seno deve essere dolce come la linfa fresca della palma dum. Il tuo nome è un ricordo, ma non la tua età. Quanti anni hai, donna? Neanche tu sai con certezza quando sei nata. Che cosa hai vissuto, che cosa hai visto, in questo posto dove da milioni di anni, ogni attimo è rivoluzione geologica? Cos’è per te il passare del tempo? Un alternarsi ciclico di giorni e di notti. Di soli che sorgono infuocati dalla linea che sta alla fine della terra spalmata davanti al tuo orizzonte e perdono colore, mano a mano, sbiadendosi, fino a confondersi con l’opaco del cielo. Di lune bianche che hanno lo stesso colore della terra dove cammini e che infarina te e tutto il tuo mondo. L’andare e venire delle stagioni, lo stiracchiarsi dell’acqua che dopo esser rotolata giù dall’altopiano con salti e piroette, rallenta e affonda e tende le sue dita sempre più in là, cercando lo spazio per poter sopravvivere. L’arrivo del vento e cinquanta giorni senza

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vedere cosa capita intorno. E quando anche l’ultima raffica perde forza e si allontana, ringrazi e benedici il tuo dio. La nascita di un bambino. O una capra, una vacca o una femmina di dromedario che si sgravidano. Il passaggio di qualche carovana che porta notizie. Tu accogli chiunque attraversi questa piana. Chiunque abbia bisogno di acqua, di latte, di riposo e di ombra. Hai accolto una forestiera. La sua gratitudine per tutta la vita. Resisti in questo angolo di terra che non trova pace, così desertica e così temuta. Qui, dove un tempo vivevano le gazzelle. Woman, how old are you? The skin on your face is beautiful and your eyes are not glazed. You have been breastfeeding babies and children for many years now. You have fed your children and your children’s children. Including all the young women’s children in the village. How many hands have clung to your breasts and have squeezed, dried and emptied them - like a leather accordion? How many have squeezed them like you would wring a damp cloth to get out every last drop of milk! How many little hungry mouths have clung to your large turgid nipples and sucked for too long, so that they could find some solace? Your breast milk must be as sweet as the fresh sap of the doum palm. You can remember your name but not your age. Woman, how old are you? You don’t even know for sure when you were born. What have you experienced and seen in this place where every moment has been a geological revolution


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to find a place in which to survive. The arrival of the wind and fifty days of pitch-black darkness. When that last gust finally dissipates and moves on, you thank and bless your god. The birth of a child. Or a goat, cow or female Arabian camel getting pregnant. The passing of a caravan bringing news of others. You welcome anyone who crosses this plain with open arms. Anyone in need of water, milk, rest or shade. You’ve even been known to welcome a stranger. She is forever in your debt. You hold onto this piece of so-deserted and much-feared land that knows no peace. A place where the gazelles once roamed.

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for millions of years? How has the time passed for you? A never-ending cycle of days and nights. Suns that burn ablaze from the line at the end of the earth spread in front of your horizon and which gradually lose colour, fading, until they merge with the opaque sky. White moons that have the same colour of the world on which you walk and cover you and your whole world in a white dust. The coming and going of the seasons, the stretch of water that after having rolled down from the plateau in jumps and pirouettes, starts to slow, sink and expand its branches further and further on, as though trying


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The baby girl passes from her mother’s womb to that of her mother’s mother. Her mouth from one breast to another. One nipple to the other. From the small, turgid and firm breasts of the young woman to the emptied ones of the other. One breast will be caressed, the other squeezed. It may only be skin, but it is still generous. She effortlessly sucks her mother’s swollen round breasts, whilst she desperately tries to suck and squeeze her grandmother’s breasts with her tiny hands. The flies hover in their masses around the white liquid that streams from her mouth. Shared nourishment guarantees the survival of any children born in this corner of the earth, where milk is a significant part of the daily diet, for life. Feeding together amplifies these two women’s rhythm of existence. Grandmother, mother and daughter. A repeated echo that fills the silence and space of the desert world around them and frames all their days. It seems as though these females are separated by geologic eras, not a single generation. Here, everyone grows old quickly. Just as air, dawn, sunset and dust seem to come and go, so does all their youth. The little girl is now full and sleeping.

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Il corpo della bambina passa dal grembo della madre a quello della madre di sua madre. La bocca da un seno all’altro. Da un capezzolo all’altro. Dal seno piccolo, turgido e sodo della giovane donna a quello svuotato dell’altra. Da un seno da accarezzare, all’altro da strizzare. Solo pelle, ma ancora generosa. Succhia senza sforzo dalla mammella gonfia e tonda della madre, mentre con fatica succhia e spreme con le piccole mani il seno di sua nonna. Sui rivoli bianchi e perlati che le colano dalla bocca si accaniscono le mosche. Il nutrimento condiviso è la garanzia della sopravvivenza dei bambini che nascono in questa Terra, dove il latte è cibo quotidiano, per tutta la vita. Nutrire insieme amplifica il ritmo dell’esistenza di queste due donne. Madre, figlia, figlia della figlia. Un’eco ripetuta che riempie il silenzio e lo spazio del mondo deserto intorno e che incornicia tutti i loro giorni. Non sembra esserci il tempo di una generazione, a separarle, ma ere geologiche. Qui si invecchia in fretta. Come aria di passaggio, l’alba, il tramonto e la polvere, pare si portino via, all’improvviso, tutta la giovinezza. La bambina, è sazia e dorme.

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IL CAMMINO DI UNA REGINA T H E WA L K O F A Q U E E N

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The distant profile of the Catherine volcano rises before her. It is clear; there is no mistaking it. It may not be a tall volcano but it’s a treacherous one. Those who wish to go up and admire its emerald lake, must not get distracted: you must take one step at a time over the winding lava streams, the creaking plates that cover the void and the sharp plates. The soft, dark rubble can engulf the feet and legs up to the knee. It takes twice as long to climb, as it does to descend. And it’s hot - exhaustingly hot - all the time. On the plain, the sun is still high in the sky as the afternoon slowly rolls around to sunset. There is no one around. No voices can be heard. Just the buzzing of the flies. The salt dries on the skin and forms a thin crust. The hair on her arms are stiff. The smell of salt and sweat mingle with that of dry dung. The desire to close your eyes is greater than the fatigue. All this light is like the bright flash when a photograph is unexpectedly taken at night. It is blinding. Light footsteps, the sound of shuffling mules getting clearer and a dull sound, break up the silence. A girl is holding a clump of dried palm leaves in her hand. She is bent over, like all women in impoverished areas do when they work on the land. Her pelvis bones form the apex of a triangle. She uses the dry leaves as a makeshift broom and sweeps the dry balls of Arabian camel and goat dung a little farther afield. They roll and become coated with dust, before settling once again on even more dust. She rummages through a pile of mats leaning haphazardly on a trunk, curved like half a rainbow, and takes one, unrolls it and spreads it on that dust. She then walks away, as silently as she appeared. She walks with a step that has the pace of an eternal past. The pace of a queen. The Queen of Sheba used to walk exactly like that in her Arabia Felix desert garden. The oppressive buzzing of the flies mingles with the smell of wet earth around the well. She seems to breathe in its freshness. A gust of wind must have just crossed the Dodom plain.

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Il profilo lontano del vulcano Catherine sta lì davanti. Si vede bene, inconfondibile. Non è un vulcano alto, ma è insidioso. Per salire e ammirare il suo lago di smeraldo non ci si può distrarre, un passo dopo l’altro, tra matasse di corde di lava arrotolate, tra lastre scricchiolanti che coprono il vuoto e lastre taglienti. Lo sfasciume morbido e scuro inghiotte i piedi e le gambe fino al ginocchio. È necessario il doppio del tempo per riuscire a salire. E fa caldo, un caldo sfiancante, a qualsiasi ora. Nella piana il sole è ancora alto mentre il pomeriggio scivola lentamente verso l’ora del tramonto. Non c’è nessuno intorno. Nessuna voce. Solo il ronzio delle mosche. Il sale si asciuga sulla pelle e forma una crosta sottile. I peli sulle braccia sono stecchiti. L’odore del sale e del sudore si mescolano a quello dello sterco secco. Il bisogno di chiudere gli occhi è più grande della stanchezza. Tutta questa luce è come la luce di una fotografia fatta di notte, all’improvviso. Acceca. Passi di un corpo leggero, un ciabattare che avanza, un suono sordo, danno vita al silenzio. Una ragazza tiene in mano un ciuffo di foglie di palma secche. Si piega in due, come si piegano le donne di mezzo mondo quando fanno lavori sulla terra. Le ossa del suo bacino sono il vertice di un triangolo. Usa le foglie secche come una scopa e fa rotolare poco più in là le palline secche di sterco dei dromedari e delle capre. Rotolano e si impanano di polvere che fatica a posarsi di nuovo su altra polvere. Rovista in un mucchio di stuoie appoggiate alla rinfusa su un tronco, curvo come mezzo arcobaleno, ne prende una, la srotola e la distende su quella polvere. Si allontana, silenziosa come è arrivata. Cammina con un passo che ha il ritmo di un tempo venuto dall’eternità. Ha l’incedere di una regina. Nel suo giardino nel deserto dell’Arabia Felice, la regina di Saba camminava come lei. Il ronzare ossessivo delle mosche si mescola all’odore della terra bagnata intorno al pozzo. Sembra di respirarne la freschezza. Un alito di vento deve aver attraversato la piana di Dodom.


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IL PANE NATO NELLA TERRA BRE A D

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L’impasto crudo è in piena fermentazione. Sembra traboccare, così vivo e incontenibile, dai due catini, posati sulla sabbia, incrostati di avanzi, di strati secchi di farina e acqua, mai grattati via. Parrebbero catini fatti di quella stessa pasta, modellata e messa a seccare. Le bolle della lievitazione gonfiano la superficie liscia. A guardarla bene ricorda la materia primordiale, la stessa da cui ha avuto origine ogni organismo dell’universo, dalle stromatoliti all’essere umano. Acqua, farina e sale, la magia chimica degli elementi che crea, trasforma e nutre. Sciami di mosche zampettano nervose sulla massa morbida, si allontanano per brevi voli e ritornano. L’impasto sembra respirare, lentamente. Forse è quel respiro a spaventare le mosche o il lento affondare delle zampe nell’impasto. Ciabatte e piedi impolverati formano una cornice intorno ai catini. Occhi che guardano dall’alto. Inginocchiata, davanti ad un buco nella terra, una donna fa scomparire le dita delle sue grandi mani nella massa spugnosa e bianca. Sembra un’enorme massa di lievito madre, dall’odore acido e dalla vitalità e vigore sorprendenti. Ne stacca una palla, la spalma di acqua e la modella a pagnotta. Entra nel buco con il braccio, affonda fino alla spalla e preme forte con il palmo aperto per appiccicarla. È così veloce che sembra una giocoliera in mezzo a un incrocio, nel tempo di un semaforo rosso. Riattizza le braci sul fondo con un bastone di legno bruciacchiato. Dopo ogni infornata aggiusta il velo che le copre il busto nudo. Ha la schiena forte. Non le si vedono le costole attaccate alla pelle. Una cosa rara in Dancalia.

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Il coperchio di un bidone di latta e un pezzo di plastica nera, mezzi sotterrati e pestati da tanti piedi, escono dalla polvere tra le sue dita infarinate. Li scuote e un nugolo di mosche vola via dall’impasto rimasto nei catini. È una macchia nera che si sposta, un ronzare tagliente e acuto. Con il coperchio e con la plastica copre il buco nella terra - pare voglia incartarlo - e con sassi tondi, lisci e grandi come teste di neonati, costruisce un piccolo tumulo. Nessuno si muove per il tempo della cottura sotterranea, come si attendesse una nascita o un miracolo. È veramente un miracolo questo pane che esce dalla terra di un deserto dove l’unico nutrimento è il latte munto da mani maschili e bevuto fresco. I cinque pani si staccano dalla parete del forno di terra come pezzi di affresco. La panettiera li sbatte per far volare via la cenere grigia, che vela la crosta dorata. È un suono sordo, come percuotesse un tamburo. Rompe a piccoli pezzi i pani perché tutti ne possano mangiare. Sono caldi e odorano di buono. La donna, con le sue grandi mani, ha impastato l’origine della Terra.


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back. You can’t see her ribs poking through her skin. This is a rare sight in Danakil. She then extracts a tin bin lid and piece of black plastic - half buried and crushed by many feet - using her flour-covered fingers. She shakes them and a swarm of flies quickly vanish from the dough left in the basin. They become a shifting black spot with a sharp, high-pitched hum. The woman uses the lid and plastic to cover the hole in the earth - almost as though she is trying to wrap them around the hole - and uses smooth round stones, the size of a baby’s head, to build a small mound. Nobody dares move whilst the bread is baking underground, as if a birth or miracle is about to happen. This bread created from this desert land - where the only other nourishment is the milk obtained by the men and drunk while still fresh - is a true miracle. The five loaves are pulled off the wall of the earthen oven, like pieces of a fresco. The baker beats them to remove the grey ash and reveal a golden crust. It is a dull sound, like the beating of a drum. She then breaks the loaves into small pieces for everyone to eat. They are warm and smell good. This woman, with her large hands, has succeeded in kneading the origin of the Earth.

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The raw dough is proofing nicely. It is so alive and irrepressible that it seems to almost flow over the two basins set on the sand; these basins are encrusted with leftovers and dry layers of flour and water that have never been scraped off. The basins themselves look like they have been modelled and left to dry from the same type of dough. The leavening bubbles make the smooth surface swell. If you look at it closely, it resembles primordial matter, the same matter from which every organism in the universe originated, from stromatolites to human beings. Water, flour and salt: the magical chemical ingredients that create, transform and nourish. Swarms of flies scurry nervously over the soft mass, then fly away to shortly return. The dough seems to breathe slowly. Perhaps it is this motion that scares away the flies or the fact that their feet are slowly sinking into the dough. Slippers and dusty feet frame the basins. Eyes peer at the progress from above. A woman is kneeling in front of a hole in the earth, prodding the fingers of her big hands into the white spongy mass. It looks like a huge mass of yeast, with an acidic smell and surprising vitality and vigour. She pulls off a ball, daubs it with water and creates a loaf shape. She immerses her arm into the hole up to her shoulders and presses hard with her open palm to ensure the dough sticks. She is so fast that she looks like a juggler in the middle of a junction when the traffic lights turn red. She rekindles the embers at the bottom with a charred wooden stick. After each batch, she adjusts the veil that covers her naked torso. She has a strong



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FUMO DI INCENSO INC E N SE

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Inside the hut, every object bears testament to the fact that love and rules go into arranging a home, even in Danakil. There are two mats: one covers the ground and serves as the bed for the whole family and the other rests on the interwoven branches. Like a wardrobe or storage cupboard, everything is piled and shoved up there, like fresh laundry that has yet to be put away. Full plastic bags are tightly knotted at the top to protect their contents from dust. There are hanging bags, aluminium plates stacked on top of one another, charred bowls and coloured plastic cups. To the left of the low opening - which can only be entered by crouching down, as though entering a tunnel - there is a rather shallow hole in the earth. The ash’s still-hot embers boast pale red streaks and are pulsating almost imperceptibly. A white wisp of smoke floats slowly upwards, as though it barely has the energy to move. The young woman lifts the cotton cloth that is covering her - revealing her toes caked with earth and her thin, hairless legs - and bends over and straddles the hole in the earth as she attempts to revive the languishing fire. She blows three times. The intensity of each breath is disproportionate to the size of her rib cage. The embers return to a glorious red colour and the smoke, which had become even whiter - almost material even - envelopes her and makes her feet and legs disappear in an incense-scented dusty cloud. This is the ritual of all women living in the desert: to clean, disinfect and add fragrance to the body and clothes. The smell of the dense air in the crowded hut mixes with that of the suspended and floating dust that enters and shines, together with the sun’s rays. Warm and soft light strung between the hut’s branches and the densely woven mats that cover it. And she, in that light, emanates the beauty of a goddess.

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Dentro la capanna ogni cosa mostra che ci sono amore e regole nel sistemare casa anche in Dancalia. Una stuoia che copre la terra, è il letto di tutta la famiglia, un’altra è appoggiata su un intreccio di rami. Come dentro un armadio o in un ripostiglio, è tutto lì sopra, ammucchiato, buttato come il bucato appena raccolto quando è ancora da mettere in ordine. Borse di plastica gonfie, chiuse con un nodo stretto, sono fagotti che riparano cose dalla polvere. Ci sono sacchetti appesi, piatti di alluminio infilati uno sull’altro, ciotole carbonizzate e tazze di plastica colorate. A sinistra della bassa apertura, attraverso la quale si riesce ad entrare solo infilandosi, come ci si infila in un cunicolo, c’è un buco nella terra, poco profondo. Nella cenere, le braci ancora calde hanno venature rosso pallido e pulsano appena. Un filo di fumo bianco ondeggia verso l’alto senza più forza. La giovane donna alza il telo di cotone che la copre - ha le dita dei piedi incrostate di terra e le gambe magre senza peli - si mette a cavallo del buco nella terra e rianima, piegata in due, il fuoco che langue. Soffia per tre volte. L’intensità di ogni soffio è sproporzionata alla grandezza della sua cassa toracica. Il rosso delle braci riprende subito vita e il fumo, divenuto più bianco, quasi materico, le avvolge e fa scomparire i piedi e le gambe in una nuvola polverosa e profumata di incenso. È questo il rituale di tutte le donne del deserto per pulire, disinfettare e profumare il corpo e le vesti. L’odore dell’ aria densa nello spazio piccolo della capanna, si mescola a quello del pulviscolo sospeso e galleggiante che entra e brilla, insieme ai raggi del sole. Luce calda e morbida, infilata tra i rami della capanna e gli intrecci fitti delle stuoie che la ricoprono. E lei, dentro quella luce, emana la bellezza di una dea.


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DONNE SCOMPAIONO ALL’ORIZZONTE H O R I ZO N

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They always converge and set out in search of wood before sunset. Their colourful outfits blend in with the warm and trembling air that blurs the point where the earth ends, and the sky starts. They too tremble ethereally, like the air. That impalpable air that envelopes absolutely everything, like a soft, lightweight fabric gently cocoons a naked body. The air blurs the landscape and shapes, almost as if deceiving the eyes. The women slowly vanish from the horizon. They look like optical illusions, beautiful mirages. They appear and disappear from that inconsistent background, time and time again, with the rubber-soled footprints of queens. Their bodies seem to stretch towards the opaque white sky that is slowly turning an indigo blue colour and brings the promise of a starry night. Without making any sound, they carry bundles of dead wood, discoloured by the sun and dust. Their femininity is enchanting. They fully epitomise what it means to be a woman. Beautiful, silent and nobly proud, they cross that section of landscape as it sometimes happens to cross the short space of certain lives.

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Appaiono e si incamminano in cerca di legna sempre prima dell’inizio del tramonto. Si confondono, colorate, con l’aria calda e tremante sulla linea che confonde la fine della terra e l’inizio del cielo. Tremano eteree, anche loro, come l’aria. Quell’aria impalpabile che avvolge tutto, come avvolge mollemente il corpo nudo un tessuto morbido e leggero. È aria che sfoca il panorama e le forme, quasi un inganno per la vista. Lentamente scompaiono all’orizzonte. Sembrano immagini illusorie, miraggi di bellezza. Entrano ed escono da quello sfondo inconsistente con passi gommati di regine. Sono corpi allungati verso il bianco opaco del cielo che volge al blu indaco di una notte che promette brillare di stelle. Senza far nessun rumore, portano fasci di legni morti, scoloriti dal sole e dalla polvere. Incanta la loro femminilità. Il loro essere così tanto donne. Belle, silenziose e nobilmente fiere, attraversano quel pezzo di paesaggio come capita, a volte, di attraversare il breve spazio di certe vite.

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l vento è una passione che non ha mezze misure. O ti prende e ti fa godere e soffrire, o lo detesti. Il vento è forza, ha bisogno di spazi per il suo eterno e anarchico viaggiare. Il vento scala le montagne, rotola nelle discese, attraversa i deserti e gli oceani. A guardarla bene la convulsione della polvere sconvolta dal vento ha la stessa forma delle onde. Il vento vola fino al cielo. Come un’anima in estasi. Si quieta, perde intensità, poi rimonta. Cambia direzione, all’improvviso. Controvento. È un elemento ancora imprevedibile, discontinuo, mai uguale, inarrestabile, incontenibile, ingestibile, in una realtà degli elementi quotidiani che abbiamo bisogno di prevedere tutta, sempre, con anticipo. Per sapere cosa sarà. Per vivere sereni. Il vento avvolge, abbraccia immensamente, fa percepire la leggerezza e la forza. È come mani delicate, come seta impalpabile, è come un profumo che arriva da lontano, un ricordo silenzioso partito tanto tempo fa. Il vento entra attraversando, supera scavalcando. Riempie i vuoti. Un alito di vento che sfiora la terra crea suoni e crea danze. Quando attraversa i rami secchi crea sinfonie. Rumore del vento. Il vento è polvere, è sabbia, è pioggia ghiacciata, aghi dolorosi come schiaffi sulla pelle e negli occhi crepati. È un avanzare contro. È un urlo disperato, la voce sen-

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za suono della libertà e del dolore. Incontrollabile, che venga direttamente dal centro della Terra, come viene dal profondo del cuore la voce vera dell’amore? Bisogna imparare a conoscerlo il vento, per continuare ad amarlo. E avere leggerezza dentro per volare sulla superficie dell’abisso. Il vento riempie la bocca di sabbia, la incastra tra i denti, fa respirare un odore bianco sporco. Una gradazione che solo il vento nel deserto sa creare. Scorre immutabile la vita delle donne avvolte da una nebbia calda e densa. Mettono al riparo stuoie e pelli di vacca stecchite dal caldo e dal sole. Un atto immenso di coraggio in una giornata di Khamsin nella piana di Dodom. Sono figure plasmate con arte nelle masse di polvere che sarebbero, altrimenti, senza forma. Ombre solide in movimento, teli gonfi pieni di vento, corpi magri, appena nudi, che le raffiche provano a portarsi via. Le donne stanno lì, indifferenti, come se le raffiche fossero la voce urlante di dio.


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dles embedded in your skin and scratches on your eyes. It is a military assault. A desperate scream, the muted voice of freedom and pain. This uncontrollable element stems directly from the Earth’s core, as does the voice of true love from the depths of the heart. You must understand the wind to continue to love it. And possess a lightness inside to be able to fly on the surface of the abyss. The wind fills the mouth with sand, gets wedged between teeth and omits a dirty white smell. A gradation that only a desert wind can create. The lives of the women - engulfed in a warm, dense fog - must continue. They find a safe place to store the mats and the cow’s skins dried by the heat and sun. This is a truly courageous task whilst the Khamsin wind batters the Dodom plain. They are figures artfully moulded into the masses of dust that would otherwise be formless. Solid shadows with wind-swollen clothing, thin, barely-dressed bodies, that the gusts try to take with them. The women stand there, indifferent, as if the gusts were the screaming voice of God.

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The wind never does anything half-heartedly; it takes no prisoners. It either engulfs you and makes you enjoy the suffering, or you will always hate it. The wind epitomises strength it needs space for its eternal and anarchic travel. Wind climbs mountains, rolls down slopes and crosses deserts and oceans. If you look closely at the dust blown up by the wind, you’ll see it moves in waves. The wind flies up to the sky. Like a soul in ecstasy. It calms down, loses its intensity, then returns with a vengeance. It suddenly changes direction. Against the wind. It is an element that remains unpredictable, intermittent, never the same, unstoppable, irrepressible and unmanageable, despite this increasing everyday need to always predict everything, in advance. This desire to know what will be. To live peacefully. The wind envelopes and fully embraces you, providing a glimpse of its lightness and strength. It is like delicate hands, impalpable silk or a perfume that comes from afar; a silent memory of years long since passed. The wind enters by crossing through and overcomes by climbing over. It fills all voids. A gust of wind that touches the earth, composing sounds and dances. Symphonies are created when it rustles the dead branches. The sound of the wind. Wind is dust, sand and freezing rain; as painful as nee-




NELLA PIANA DI DODOM I N

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Dodom è una dimensione, non un semplice luogo. Pare uno spazio più vuoto di un deserto dove la terra ha l’aspetto e la consistenza dei superlativi che descrivono l’aridità. Solo a pensarla, quella secchezza, raschia la gola e irruvidisce la lingua, crepa le labbra, secca e fa sanguinare il naso, raggrinzisce la pelle e asciuga tutte le lacrime degli occhi. È tutto così basico e primordiale che sembra non esserci niente che possa cambiare. Se non il posto della polvere. Un luogo immutabile. Una bambina, uscita all’improvviso dalla terra, corre come una lepre che cerca di sfuggire al cane del cacciatore. Attraversa lo spazio di polvere e calore e traccia traiettorie spigolose per seminare invisibili inseguitori. Corre, come se volesse scappare per sempre. Balza in avanti a ogni affondo dei gomiti, a ogni spinta dei piccoli piedi nudi. Ma la sua fuga, una corsa all’ultimo respiro, diventa all’improvviso una corsa lenta, poi un cammino. Le rapide falcate rotonde diventano passi. Si ferma, guarda nella direzione della sua fatica e torna indietro. Non corre più e riprende fiato. La fronte e le labbra brillano di sudore. Gocciole salate come lacrime scorrono sulla sua pelle impolverata e giovane. Tiene in una mano un paio di ciabatte di plastica, bianche e con un fiocco rosa. Guarda due fotografie. Sono i volti di due donne. Affonda l’indice nella prima e dice “è morta”, poi allunga il braccio verso sagome di palme lontane e dice: “sono andati via, l’acqua del pozzo è finita”. È una bambina, ma ha la sicurezza di chi, in quel posto, conosce ogni traccia, ogni cambiamento. Ogni persona che ci vive.

Ricordi ed emozioni entrano in circolo improvvisi, violenti come una secrezione di adrenalina durante la paura. Fotogrammi sonori scorrono in fretta e riempiono la mente e gli occhi. Il rumore dei passi sordi come tonfi e le ruote affogate nella polvere, l’illusione consapevole dei miraggi, il refrigerio dell’ombra di una palma che da tanti anni è un punto di riferimento sicuro. Una palma che non vuole morire e continua a germogliare. L’odore dell’acqua del pozzo che dona frescura come se l’acqua scivolasse addosso. La corsa di quella bambina, apparsa e scomparsa un giorno qualsiasi della mia vita, è il rush finale, la lettura bulimica delle ultime pagine di un libro che si vorrebbe non finisse mai. Le sue dita, entrate nei corpi ritratti nelle immagini, sono il tempo scandito alla rovescia di una storia iniziata e finita in quel deserto. “L’acqua del pozzo è finita”, le ultime parole di un libro. La fine di un viaggio: una storia, la mia storia, intrecciata a quella di una famiglia nomade Afar.


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the distance and says: “they went away, the well water had run out.” She is just a child, yet has the maturity of one who, in that place, knows every trail and notices every change. She knows everyone that lives here. She is suddenly flooded by memories and emotions; as violent as an adrenaline rush during flight or fight mode. Sound frames hurriedly flood and fill both her mind and eyes. The sound of thudding, dull footsteps, wheels submerged in dust, the conscious illusion of mirages and the refreshing shade a palm tree can bring; the latter being a solid reference point for many years now. A palm tree that refuses to die and continues to sprout. The smell of the well water provides a coolness, as though the water were splashing all over you. That little girl who was running - and appeared and disappeared on just another day in my life, is the final rush, the heartbreaking final pages of a book that you wish would never end. Her fingers, poking the people depicted in the images, is the countdown of a story that began and ended in the desert. “The well water had run out,” the last words of a book. The end of a journey: a story - my story - intertwined with that of an Afar nomadic family.

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Dodom is a dimension, it is not just a place. It seems even emptier than a desert, where the ground has the appearance and texture of all the arid-describing superlatives under the sun. Just thinking about it - that dryness - is enough to scratch your throat, roughen the tongue, crack your lips, dry and make your nose bleed, wrinkle your skin and dry all the tears from your eyes. It is all so basic and primordial that it seems as though nothing can ever change. Except perhaps, the places where the dust settles. An immutable location. A little girl has suddenly appeared out of nowhere and is running like a hare trying to escape a hunter’s dog. She crosses the dusty, warm land and creates a series of sharp turns to try and lose her invisible pursuers. She is running as though her life depends on it. The girl bounds forward with each thrust of her elbows and tiny bare feet. However, she soon starts to lose her breath and suddenly her escape attempt turns into a slow jog, followed by a walk. Those rapid strides become steps. She stops, looks in the direction of the “finish line” and then turns back. She is no longer running; she needs to catch her breath. Her forehead and lips are glistening with sweat. Salty drops flow like tears down her dust-covered, youthful skin. She is holding a pair of pink bow-embellished white plastic mules in one hand. She is looking at two photographs. The faces of two women are staring back at her. She pokes her index finger at the first woman and matter-of-factly declares that “she is dead”, then stretches out her arm and points to the palm tree silhouettes in




LA VITA DI B. SOTTO IL LIVELLO DEL MARE B’S

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Una capanna sulla strada. Qui non è facile esprimere la fantasia nel costruire. È uguale a tutte le altre. La soglia senza porta è un confine che non esiste. La luce entra invadente, un perenne chiarore di Luglio a mezzogiorno. Forma un cono di luce su uno sgabello con le gambe di legno e la seduta di pelle di capra a strisce intrecciate. Il pelo è nuovo, di una bestia appena macellata. Gli odori nell’aria sembrano imprigionati in questo spazio, sotto il livello del mare, ma ricordano mondi lontanissimi e diversi. La terra umida sotto i piedi, quasi fango, tiene ferma la polvere e odora di monsone. In un vassoio smaltato di bianco e arrugginito con perfezione casuale tutto intorno al bordo, popcorn caldi zuccherati sono mescolati a caramelle gommose dal colore chimico e a biscotti al burro. Un avanzo di chicchi di caffè continua a tostarsi sul braciere ancora vivo in un pentolino rotondo e nero. L’odore è di olio bruciato. Una scia di sapone fatto di soda e grasso animale quando trasuda per il caldo esce da uno dei sacchetti di plastica appesi ai pali di legno. Un profumo dolce, di frutta tropicale troppo matura rimasta appesa al sole che squarcia le nuvole dopo un giorno di pioggia. Qui frutta non ce n’è. E non piove mai. Un pesante telo giallo separa da tutto il resto un materasso basso e sfondato, disteso sopra una stuoia troppo corta. L’intimità e le voglie della notte sono nascoste

dietro ad una tenda mezza sbilenca e strappata. Una tenda a righe invece, con i colori del cielo e del mare, legata ai rami della parete è, forse, un sogno di libertà. Che odore avrà quella bottiglia mezza vuota di profumo, un liquido ambrato scuro dentro a un vetro grosso e senza nome? Ha un odore percettibile anche la polvere che galleggia nell’aria. Entra, con riflessi d’argento e d’oro, dagli spazi tra gli intrecci di palma e da quelli dei teli di plastica consumati cuciti insieme a punti lunghi con una corda blu. La capanna di B. Una casa e un posto di ritrovo per il tempo del piacere. Un luogo di salvezza di passaggio e disperazione. Un luogo di condivisione e di razzia. Dai suoi capelli e dalle sue vesti arriva un buon profumo di bucato asciugato al sole. La vita di B. sotto il livello del mare.


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perhaps, a dream of freedom. What will that half-empty bottle of perfume - a dark amber liquid inside a big, unbranded glass bottle - smell like? Even the dust floating through the air has a perceptible smell. It pervades, with flecks of silver and gold, the spaces between the palm weaves and those of the worn plastic sheets sewn together in long running stitches with a blue rope. B’s hut. A home and meeting place for moments of pleasure. A place of fleeting salvation and despair. A place of sharing and looting. Her hair and clothes smell sweetly of fresh sun-dried laundry. B’s life below sea level.

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A hut on the road. Little imagination has gone into this building. It is the same as all the others. The doorless threshold is a boundary that doesn’t exist. The light intrusively invades, letting in a perpetual July midday glow. It forms a cone of light around a wooden-legged stool and an intertwined striped goatskin seat. The leather is new, from a freshly slaughtered beast. The smell in the air seems to be trapped in this below-sea-level space yet is reminiscent of very distant and different lands. The damp almost mud like earth beneath the feet captures the dust and monsoon smells. In a white-enamelled rusty tray with a haphazard rim, sweet hot popcorn is mixed with artificially-coloured gummy sweets and butter biscuits. The leftover coffee beans continue to roast in a round black pot on the still-lit brazier. It smells of burnt oil. A trail of soap comprising baking soda and animal fat is leaking from one of the plastic bags hanging on the wooden posts. A sweet aroma of overripe tropical fruit left hanging in the sun that has finally broken through the clouds after a rainy day. However, there is no fruit here. And it never rains. A heavy yellow sheet separates a low, broken mattress - lying on a mat that is far too short - from everything else. The intimacy and desires of the night are hidden behind a half-lopsided, torn curtain. On the other hand, a sea and sky-coloured striped curtain tied to the branches of the wall, is




LA VITA DI B. DUEMILA METRI SOPRA IL SALE B’S

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L’appuntamento è lungo la strada di un paese che hanno sventrato. Un paese di case basse, con le porte sempre aperte, un gradino sopra la terra, all’andirivieni di polli e capre, di donne e dei loro figli. Una passata di ruspa ha fatto macerie delle case, ha allargato la pista, tappato le buche e provato a fermare la polvere. C’è odore di catrame caldo. Ci sono più di duemila metri di dislivello dall’ultimo incontro, quando teneva stretto con due mani un rotolino di birr dentro una capanna ad Ahmed Ela. E venti gradi di meno. Il caldo della depressione desertica della Dancalia richiede un adattamento mentale impegnativo. Le abbondano addosso un paio di pantaloni blu con l’orlo rivoltato tante volte e che non copre i piedi magri dentro le scarpe da uomo con i lacci. Fanno luce quelle scarpe così rosse! Il freddo della sue mani, passa attraverso la pelle. Scavalca agile e sicura il paese fatto a pezzi e ammonticchiato ai bordi della strada. I suoi passi lunghi e liberi vanno nella direzione del mercato, tra quello che resta ancora esposto, in vendita, a quest’ora del pomeriggio, sopra sacchi di plastica bianchi con le scritte azzurre degli umanitari o sparpagliato direttamente sulla terra. Tre cipolle rosse, qualche pomodoro, quattro uova bianche su un letto di paglia dorata. Un cavolfiore è l’ultima speranza di una vecchia seduta sotto un ombrello nero rattoppato e con uno degli spicchi senza tessuto. Piccole scatole rotonde, screpolate e con avanzi di scritte di qualche cosa che hanno contenuto tanto tempo fa, sono le misure del sale della

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Dancalia, della polvere rossa di berberè e di quella verde di henna. Incenso, chicchi di caffè fresco, cereali sconosciuti e dimenticati, che in Africa continuano a crescere e a nutrire, riempiono a metà sacchi di tela di cotone. Due galline hanno le zampe legate con uno pezzo di vestito strappato. Chiocciano tristemente e sbattono le ali senza più energia. B. tasta la coscia a quella delle due che le sembra più in carne. Continua a camminare. Guarda un toro che viene fatto sfilare per mostrare il portamento e i quarti posteriori. Qualcuno se lo porterà a casa prima di sera. Batte con le nocche bianche il fondo di pentole di terracotta. Ma non cantano bene, sono crepate. Il suo sguardo riporta direttamente sotto il livello del mare. Quegli stessi occhi, in un’altra vita. I segni dell’identità etnica tatuati e incisi nelle sopracciglia e sulle tempie. La croce cristiana tatuata e incisa sulla fronte. Le sue radici familiari, saldamente affondate in una cultura rurale antica - qualche ora di cammino e due passaggi in corriera lontano da una strada - che assegna il destino come una eterna, irrinunciabile eredità. Ma lei è diversa, si sente diversa. Ha una idea differente della vita. Ha desideri e sogni. La forza per essere alla testa di una rivoluzione. Tiene stretti nella mano sinistra i manici di un sacchetto di plastica. La sua voglia di cambiare è scritta su fogli fotocopiati e piegati, pieni di timbri e di firme, dentro quel sacchetto. Che passa dalle sue mani a quelle di chi desidera poter essere un alito di vento che le riempia il cuore e le ali di libertà.


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ago, are all that’s left of the Danakil salt, the red Berbere spice and the green Henna powder. Frankincense, fresh coffee beans, unknown and forgotten grains - which continue to grow and nourish in Africa - half-fill cotton sacks. Two hens have their legs tied together with a scrap of torn dress. They cluck sadly and feebly flap their wings. B feels the thigh of the one that seems to have the most flesh. She continues on. She watches a bull being paraded around to showcase its gait and hindquarters. The bull will have been snapped up by tonight. She beats the bottom of some clay pots with her white knuckles. They make a terrible sound, they are cracked. She gazes directly below sea level. Those same eyes have born witness to another life. Ethnic identity symbols have been tattooed and engraved on her eyebrows and temples. A tattooed and engraved Christian cross is also found on her forehead. Her family origins, firmly rooted in an ancient rural culture - a few hours’ walk and two bus rides away from a road - which defines her fate as an eternal, indispensable heritage. However, she is different, she feels differently. She has her own ideas about how life should be. She has hopes and dreams. The strength to lead a revolution. She tightly grips onto the handles of a plastic bag. Her desire for change is written on the photocopied and folded sheets - full of stamps and signatures - inside that bag of hers. It passes from her hands to those looking for a breath of fresh air that fill her heart and soul with freedom.

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The appointment is along the road of a village they have gutted. A village of low houses whose doors are always open, and which are one step above the ground, and surrounded with the comings and goings of chickens and goats, and women and their children. A bulldozer made easy work of reducing these houses to rubble: it widened the track, plugged the holes and tried to stop the dust. A smell of hot tar fills the air. They are more than 2000 metres higer than the last meeting, when she was holding a wad of birr with both hands in Ahmed Ela. It’s also twenty degrees colder. The heat of the Danakil Desert Depression takes its toll on your mental health. She is wearing a pair of blue trousers with the hems turned up several times to leave her thin feet - donned in men’s lace-up shoes - uncovered. Oh how those red shoes shine! Her cold hands make her skin shiver. She deftly and confidently climbs over the village which has been torn to pieces and then left piled at the side of the road. She takes long strides and heads towards the market, to see what is still up for grabs at this time of the afternoon, on top of white plastic bags scribbled with blue humanitarian writing or scattered directly on the ground. Three red onions, a handful of tomatoes, and four white eggs on a bed of golden straw. A women sits under a patched black umbrella that is missing one of the panels of fabric, desperately hoping to sell her last cauliflower. Chipped small round boxes with faded writing on the sides of something they contained a long time




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LA PAZZA DI HARAR THE

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Harar avvolge in un reticolo ricamato di strade concentriche. Avvolgono le sue mura, il suo frastuono e i suoi improvvisi silenzi nascosti dietro l’angolo. Avvolgono i suoi odori. Quello del caffè messo a tostare lentamente sulla brace di carbone, quello piccante del berberè macinato fresco, una miscela segreta di spezie tramandata in ogni famiglia che riempie l’aria di polvere rossa, l’odore buono di pane nel forno a legna mescolato a quello acre del fornaio che suda, quello del sangue che cola dalla carne cruda, infilzata in ganci d’acciaio e che fa godere milioni di mosche, quello nauseante della poltiglia verde del qat tenuta in bocca per ore da chiunque si incontri, l’odore degli escrementi e dell’urina degli animali. Ad Harar capita di perdersi. Dentro le mura, nella confusione e nel silenzio, inseguendo la scia di una torrefazione, di un mulino a pietra o di un fornaio. Capita di perdersi persino guardando due macellai che tagliano in modo diverso la carne di bestie uguali. Uno nel nome della croce, l’altro della mezzaluna. Per le mosche non c’è nessuna differenza. Ad Harar si cammina in mezzo a uomini che non sanno più pensare. È la melodia del canto corale dei muezzin a donare sempre emozioni. Harar avvolge in un turbine di storia, di passaggi di carovane, di scambi di cose e idee. Di vite geniali vissute all’ultimo respiro. È l’Africa affacciata sull’Atlantico caricata sugli animali e arrivata qui, mescolata con quella che guarda l’Oceano Indiano. La Penisola Arabica fittamente intrecciata all’Africa orientale. È un posto strano Harar. Le iene si avvicinano alle mura

quando lentamente inizia la notte. Sono le vere guardiane della città e sono, da secoli, amiche della gente. Per strada donne e uomini parlano con qualcuno che non esiste, che non si vede. Alcuni predicano, altri urlano. Forse è Harar che fa impazzire o trasporta l’anima in un’altra dimensione. Una giovane donna raccoglie bottiglie di plastica da terra, le schiaccia con un piede scalzo e le incastra nel turbante di stracci che le copre i capelli. Ha in testa un’opera d’arte. I ricordi sparsi della sua vita sono conservati nella borsa di vernice nera che porta a tracolla, screpolata, come capita alle tele antiche che si ricoprono di craquelé. Nella fibbia ha incastrati una manciata di birr unti e bisunti. Guarda chi passa e ringhia. Solleva con due mani strati di abiti non lavati da tanto tempo e sacchi di plastica sovrapposti che le avvolgono il corpo. Si scopre fin sopra il pube coperto di pelo nero, si accuccia e piscia. Finisce, si alza e continua a camminare senza girarsi più. Va incontro alla luna che, luminosa e grande indora il cielo di Harar. Lei vive nelle terre estreme della mente, è la dimensione del sogno e della pazzia che camminano. Così stralunata e bellissima, sembra appesa direttamente alle nuvole, con il gancio della gruccia che sbuca dagli stracci che tiene sulla testa.


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of the city and have been friends of the people for centuries. On the street, women and men talk to someone who does not exist, who cannot be seen. Some preach, others scream. Perhaps it is Harar who drives mad or transports the soul to another dimension. A young woman picks up plastic bottles from the floor, crushes them with her bare foot, and sticks them into the rag turban that covers her hair. You have a work of art in your head. Her scattered memories of her life are preserved in the black patent leather bag that she carries over the shoulder, cracked, as happens to ancient canvases that are covered with crackle. She’s got a handful of greasy, greasy beer stuck in the buckle. She looks at whoever passes by and growls. She lifts layers of long unwashed clothes and stacked plastic bags that wrap around her body with two hands. She uncovers herself up above her pubis covered in black fur, she crouches down and pisses. She finishes, gets up and continues walking without turning around. She goes to meet the moon which, bright and large, gilds the sky of Harar. She lives in the extreme lands of the mind, she is the dimension of dreams and madness that walk. So dazed and beautiful, she seems to be hanging directly from the clouds, with the hook of the hanger sticking out of the rags she holds on her head.

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Harar wraps in an embroidered lattice of concentric streets. They envelop its walls, its din and its sudden silences hidden around the corner. They envelop the smells of him. That of coffee slowly roasted over charcoal, the spicy one of freshly ground berberè, a secret blend of spices handed down in every family that fills the air with red dust, the good smell of bread in a wood oven mixed with that acrid of the sweating baker, that of the blood dripping from raw meat, skewered in steel hooks and that makes millions of flies enjoy, the nauseating one of the green mush of qat kept in the mouth for hours by anyone you meet, the smell of excrement and urine of animals. In Harar it happens to get lost. Inside the walls, in the confusion and silence, following the wake of a roaster, a stone mill or a baker. It even happens to get lost watching two butchers who cut the meat of the same animals in different ways. One in the name of the cross, the other of the crescent. For flies there is no difference. In Harar you walk among men who no longer know how to think. It is the melody of the choral singing of the muezzins that always gives emotions. Harar envelops in a whirlwind of history, of caravan passages, of exchanges of things and ideas. Of brilliant lives lived to the last breath. It is Africa facing the Atlantic loaded on animals and arrived here, mixed with the one facing the Indian Ocean. The Arabian Peninsula closely intertwined with East Africa. Harar is a strange place. The hyenas approach the walls as the night slowly begins. They are the true guardians




ELOGIO ALLA BELLEZZA AN

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“Vengo dal deserto…La gente pensa di te che spunti dal nulla e quindi sei il nulla… La verità è che nessuno viene su dal nulla. C’è sempre un deserto alle spalle. Il punto è che pochi conoscono il deserto”. “I come from the desert...People tend to think that those who come from nowhere, are nothing... But the truth is, nobody comes from nowhere. I grew up surrounded by the desert. The problem, however, is that few people truly know the desert.”


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LA FATICA PER L’ACQUA THE

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STR U GG L E

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Essere donna e la fatica sembrano un intreccio indissolubile e senza fine. La fatica per l’acqua insegue il sogno di un diritto di tutta l’umanità, di un bene sociale insostituibile. The words woman and struggle seem to be endlessly and intrinsically linked. Such as the struggle just to find water, a basic human right or irreplaceable social good, that is always just out of reach.

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LE MANI HAN DS

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Mani consumate e generose. Mani di donne che nutrono, impastano, aiutano, che pregano, proteggono e asciugano lacrime. Hard-working and generous hands. The hands of women who feed, knead, help, prey, protect and wipe away tears.


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I PIEDI FE E T

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Le donne percorrono le strade con l’energia di guerriere e l’orgoglio di partigiane. Non raccontano quante scarpe hanno consumato, ma cosa hanno vissuto e chi hanno incontrato. The women walk the streets with a warrior like energy and partisan pride. They don’t moan about their hardships, instead choosing to talk about what they’ve experienced and those they’ve met along the way.


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VIVERE NEL SILENZIO ALL’INFINITO L IFE

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Questi luoghi sembrano inabissati nel silenzio di un tempo che non si riesce a misurare. Quello immenso dell’origine di tutto. Del sorgere del sole, una vibrazione così grande e così lontana che arriva agli occhi, muta, come un miracolo che si ripete da sempre e per sempre. Il silenzio del sole a picco sul Mondo, quando è così caldo che neanche la polvere trova la forza per muoversi. Quello della fine del giorno, quando il respiro della Terra rallenta e si fa calmo, sempre più calmo. Impercettibile. La Terra si placa ed entra nella notte in apnea. Prende per mano la promessa che domani sarà ancora, che ci saranno luce e vita. Quello della notte è silenzio da profondità del mare, da fondali rocciosi e inesplorati che si ergono verso le altezze celesti. Un mare che scompare. Evaporato, lentamente, goccia dopo goccia. In quanto tempo un mare può scomparire e trasformarsi in un deserto di sale? Il silenzio dell’isolamento, della lontananza da tutto. Dell’Ovest estremo di frontiera. Dove il ghiaccio sigilla anche la più piccola azione vitale e il cielo è così pesante di luci che arrivano da un altro tempo da avere la consistenza della lana grezza, pesante e ruvida, distesa sulla steppa. Quello delle terre più antiche che esistano, terre senza orizzonti, senza confini, strette nell’abbraccio di un blu liquido che sfuma nell’azzurro del cielo. Terre emerse dal silenzio dopo un cataclisma. In quanto tempo questo pezzo di Pangea si è assottigliato, fino a staccarsi per iniziare a navigare? Spazi di assenza estrema. Dove non c’è bisogno di riempire l’aria e lo spazio con parole. E dove nessuno ha

paura del silenzio. Non possono avere paura del silenzio gli esseri umani che stanno ai margini. Ai margini della geografia, delle possibilità di vita. Vite semplici in terre ai limiti sono silenzio. Non c’è rumore, nessuno fa rumore. E riesce a sopravvivere un incanto. Quello di poter sentire e ascoltare i segnali della vita che vengono dalla Terra, la madre di tutto. I pensieri di queste donne e di questi uomini sono sinfonie e tempeste. Inni alla vita e requiem. Luoghi immutati, immutabili, rimasti sempre uguali dalla preistoria. Spazi di genesi senza fine dall’inizio dei tempi. Tutti i luoghi ereditano e mantengono il ricordo delle loro origini. Come galleggianti dentro una placenta, un’immensa placenta che le protegge, queste terre portano dentro la memoria dell’assenza di rumore. Dove c’è silenzio non si riesce a fare rumore, per poter ascoltare l’assenza estrema delle cose, il vuoto assoluto dello spazio. Perché la perfezione si trova anche nel niente. E tutti i deserti sono estensione naturale del sacro silenzio interiore.


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fill the air and gaps with words. And where no one is afraid of the silence. Human beings who live in some of the most isolated places in the world - on the edge of a map and life’s possibilities - cannot afford to be afraid of the silence. Simple lives in the outermost lands are laced with silence. There is no noise, and no one dares make a sound. Yet, they manage to survive, as if by magic. The silence of being able to hear and listen to the signals of life that come from the Earth, mother nature. The thoughts of these women and men are like symphonies and storms. Hymns for life and requiem. Unchanged, unchanging places that have remained the same since prehistoric times. Spaces of endless genesis since the beginning of time. All the places inherit and preserve the memory of their origins. As if floating in placenta - an all-encompassing, protective placenta - these lands preserve the memory of the absence of noise. Where there is silence, noise cannot be made so the extreme absence of things and the absolute emptiness of the space can be heard. After all, perfection can also be found in nothing. And all deserts are a natural extension of the sacred inner silence.

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These places seem to be submerged in the silence of an immeasurable time. That immense source of everything. The silence of the rising sun, a vibration so great and distant that it silently reaches the eyes, like a miracle being perpetually repeated. The silence of the sun beating down on the world, making it so hot that not even the dust can muster up the strength to move. When the day draws to a close and the Earth’s breath slows down to become increasingly calmer. It’s all imperceptible. The Earth calms down and temporarily stops breathing at night. However, not before ensuring that tomorrow will soon be here and light and life will return once more. The silence of the night comes from the depths of the sea, the rocky and unexplored seabeds that rise towards celestial heights. A disappearing sea. It slowly evaporated, drop by drop. How long does it take for a sea to disappear and turn into a salt desert? The silence of isolation, being far away from everything. Then there’s the extreme western border. Where ice conceals even the smallest hope of life and the sky is so heavy with lights from another time that it has the consistency of raw, heavy and coarse wool, lying on the steppe. The silence of the most ancient lands in existence, lands without horizons or borders, tightly surrounded by a blue liquid that seems to mingle with the blue sky. Lands that silently emerged after a cataclysm. How long did it take for this fragment of Pangea to thin out, break away and start sailing? Spaces of extreme absence. Where there is no need to


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Gli strati salati di sudore secco, la ruvida e bianca brillantezza dei cristalli contrastano con la leggerezza del tessuto della camicia che indossa. È seduta per terra, avvolta da un mantello di aria che luccica, i piedi arrossati, sprofondati nella polvere morbida, e racconta. Come i viandanti nelle oasi carovaniere o lungo le strade che hanno unito il Mondo condivide pezzi della sua vita, come si dona il pane. Parla e guarda lontano, laggiù, in fondo, dove pare intravveda l’inizio di tutto, il ricordo, che prende ritmo e diventa la melodia della sua voce. Muove le mani e dà forma alle parole. Una danza leggera di dita plasma corpi impossibili da immaginare e luoghi sospesi, sconosciuti, difficili da cercare anche nei ricordi della geografia. Parla di coraggio, di scelte e di destini. Racconta di vite incrociate e incontrate. Come ricami vissuti di situazioni ed emozioni. Di donne invisibili, dimenticate da tutti. Belle, bellissime, come generate da madonne. Con quella dolcezza negli occhi e nel volto che fa pensare siano la manifestazione fisica di uno stato dell’anima. Idee di serenità. Donne che sembrano dipinte sui muri dei luoghi del mondo come su grandi tele, con gli stessi colori dell’intonaco, scrostato e poco manutenuto, mescolati, a grumi, su una tavolozza. Basta un passo indietro, per vedere dalla giusta distanza, con la giusta luce, la loro assoluta perfezione. Con il desiderio di raccontare la verità che ha vissuto, parla di donne che esistono e che sono vere. Di quelle incontrate in cammino su una pista, indaffarate in un mercato, a vendere stuoie, aglio, patate e cipolle o una gallina, accucciate alla fermata di una corriera, avvolte dal fumo piccante e nero, in una cucina. Donne vestite di fiori, sbocciate, al tramonto, in un campo di sorgo rosso. Racconta della sorellanza, che solo a certe latitudini è un legante che è rivoluzione, è forza primigenia di un patto sociale. Una regola di vita che scavalca l’indifferenza. Disegna una forma rotonda nell’aria, come provasse ad avvolgere con le mani aperte un grande mappamondo e parla di alterità: l’incontro con l’altra umanità. Ha occhi chiari e luminosi che continuano a guardare lontano. Lei continua a raccontare.

“Posso dirti di un pomeriggio di Dicembre? È trascorso tanto tempo. Posso raccontarti di donne in viaggio da anni con il cuore gonfio di sentimenti che scalpitano? Di madri, di mogli, di figlie e sorelle che seguono la stella del nord, lungo la via dell’umanità in cerca di libertà, di pace e di dignità? Posso dirti di donne che sognano di attraversare l’antico mare con la speranza di una vita diversa, per ricominciare a vivere? Perché cos’è la libertà, se non anche il desiderio di cambiare vita?”. Come voce narrante che non abbandona il ricordo, descrive quelle madri, quelle mogli, quelle figlie e sorelle. Sembra sentirle e vederle ancora, arrivare da lontano. In cammino sulla sabbia, tutte con lo stesso passo frusciante, ordinate, silenziose, in una fila regolare e lunghissima. Nella mano destra un sacchetto di plastica, nella sinistra una piccola tanica gialla per l’acqua. L’identità e la sopravvivenza. Nel silenzio assoluto e penetrante del deserto ricorda il suono dei loro passi arrivato dal passato, come l’acqua quando torna a scorrere nell’alveo, dopo tanto tempo, per una piena improvvisa e inaspettata, scesa dalle cime dei monti. Lenta, immensa potenza liquida. Quelle donne, come un nastro d’acqua, infinito, senza inizio e senza fine, erano un fiume fatto di corpi. Un passaggio scandito dallo stesso identico ritmo. Comparse, in mezzo a uomini, ragazzi e bambini, come generate e plasmate dalla crosta della Terra, erano donne di sabbia, di polvere, di roccia. Tutto è durato il tempo che serve al sole per tramontare, ai corpi e alle vesti per mescolarsi alla luce e spalmarsi sul deserto. Un’esistenza visibile fino a quando luogo e umanità si potevano ancora distinguere. E loro, in fila, ad inseguire il sogno di cavalcare il deserto con lo sguardo sempre alto, oltre l’ultima duna, per scorgere, all’orizzonte, la linea blu del mare.


Her clear, bright eyes keep looking into the distance. Yet she continues her story.

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This narrator - who faithfully recounts her memories describes all those mothers, wives, daughters and sisters. It is as though she can still hear and see them, advancing from afar. They are silently and orderly walking across the sand in a very long line; the sound of their footsteps merging to become just one rustling sound. They hold a plastic bag in their right hand and a small yellow water flask in the left hand. These two objects epitomise identity and survival, respectively. In the desert’s absolute and penetrating silence, she remembers the sound their footprints once made, like water finally returning to the riverbed after a very long dry spell, due to a sudden and unexpected flood of water, descending from the mountain tops. The liquid’s power is silent and slow yet immense. Those women were like an infinite stream of water - with no beginning or end - and became a river of bodies. A passage marked by the exact same rhythm. The women of sand, dust and rock appeared - amongst the men, boys and children - like elements created and shaped by the Earth’s crust. It took until the sun began to set for the bodies and clothes to mingle with the light and spread across the desert. A visible existence whilst the place and humanity could still be distinguished. And these lined-up women, chasing their dream of riding across the desert with their heads held high, reached beyond the last dune to be greeted by the blue line of the sea on the horizon.

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“Can I tell you about one December afternoon? A very long time ago. Can I tell you about the women who had travelled for years with hearts so full, they were almost bursting at the seams? Of mothers, wives, daughters and sisters who followed the North Star, along the path of humanity in search of freedom, peace and dignity? Can I tell you about the women who dreamt of crossing the ancient sea in the hopes of changing their lives and being able to start over? Because what is freedom, if not the desire to change one’s life?”

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The salty layers of dried sweat and the rough white gleaming crystals contrast with the light fabric T-shirt she is donning. She is sat on the ground, wrapped in a cloak of shimmering air with her red feet partly concealed in the soft dust, and begins her story. Just like the travellers in the caravan oases or along the roads that have united the world, she shares a piece of her life, like the gift of bread. She speaks and then looks away, down there, way at the bottom, where she seems to glimpse the beginning of everything; the memories come flooding back, pick up the rhythm and become the melody of her voice. She moves her hands and brings the words to life. Her fingers deftly create objects - quite impossible to imagine - and suspended, unknown places - difficult to find even in the geography archives. She talks about courage, choices and destinies. The lives crossed and encountered. They are like tapestries that have lived through many situations and emotions. She speaks of invisible woman that no one remembers. Yet they were so beautiful, as if created by the Virgin Mary herself. With a sweetness in the eyes and face that suggests they are a physical manifestation of a state of mind. Ideas of serenity. Women who seem to be painted on the walls of places around the world, like large canvases, with the tonal plaster now peeling, poorly maintained and mixed lumps on a palette. Just one step back is enough to see their absolute perfection from the right distance and in the right light. As this woman wants to tell her own truth, she speaks of women who exist and are real. She talks of those she’s met walking along a trail, those busy selling their mats, garlic, potatoes, onions and even a hen or two at the market, those crouched at a bus stop shrouded in dense black smoke and those she’s encountered in a kitchen. Women surrounded by blooming flowers at sunset in a red sorghum field. She tells of the sisterhood, which is only a revolutionary bond at certain latitudes, i.e. the primal force of a social pact. A rule of life that overcomes indifference. She outlines a round shape in the air, as if trying to wrap her open hands around a large globe and talks about otherness: the encounter with other humanity.


Testi e foto di Photographs and texts by: Caterina Borgato Traduzioni di Translations Provided by: Traduzioni Madrelingua Via Canova 12 - 36033 Isola Vicentina (Vi) www.traduzionimadrelingua.com Coordinamento editoriale Editorial Coordination: MONTURA Ufficio Comunicazione/Montura Editing Communication Office/Montura Editing (Roberto Bombarda/Valentina Sembenotti) Grafica ed impaginazione Graphics and Layout: Plus Communications – Trento Sviluppo immagini Image Development: Foto-grafia – Treviso Editore Publisher: Montura Editing Tasci Srl – Via Zotti, 29 – 38068 Rovereto (Tn) www.montura.it

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Stampa Printer: Saturnia Snc – Trento ISBN: 9788894532777 www.montura.it Copyright © Montura Editing 2021 Finito di stampare a Trento nel mese di Maggio 2021 Printed in Trento in May 2021

Certificato PEFC Certification PEFC Questo prodotto è realizzato con materia prima di foreste gestite in maniera sostenibile e da fonti controllate. This product is from sustainably managed forests and controlled sources.


Oltre 50 film co-prodotti o sostenuti, con sponsorship o product-placement. Opere che hanno partecipato a festival, che in parte sono ora presenti su piattaforme o sul sito aziendale. E decine di altri film, serie e programmi tv sostenuti con fornitura di prodotti. Più di 70 libri editi come Montura Editing o sostenuti da Montura, con oltre 200 mila copie distribuite gratuitamente in 20 anni, sempre in cambio di una donazione “libera e responsabile” a favore di progetti di solidarietà.

More than 50 films co-produced or funded through sponsorships or product placement. Films that have been featured at festivals, some of which are now available on the company website and various platforms. And dozens more films, series and TV programmes supported by the supply of products. More than 70 books published by Montura Editing or backed by Montura, with over 200,000 copies distributed free of charge over 20 years, always in exchange for “free and responsible” donations to charity projects.

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G.Malfer-V.Stefanello, 2005

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#001 MOON LANDING

50 ANNI DI SOCCORSO ALPINO A ROVERETO

R.Carbonera-A.Rasi Caldogno, 2018

G.Mazzotti-M.Corona, 2017

Fausto De Stefani, 2018 (ristampa) RAGNATELE

Collettivo Boschilla, 2018 KAZAKHSTAN

A.Segre-S.Falso, 2016 MARTINO L’ARROTINO

Martino Viviani, 2017

UN PAESE MILLE PAESAGGI

L’Altro Versante, 2017

Alessandro Gogna e Marco Furlani, 2019

E.GHERSI SULL’ALTIPIANO DELL’IO SOTTILE

DI PIETRE E PIONIERI, DI MACCHIA E ALTIPIANI

IN NOME DELL’ORSO

ALPINISMO NELLE VALLI DELLA SARCA E DEI LAGHI

David Bellatalla, 2016

Michele Fanni, 2018

Matteo Zeni, 2016

IT’S MY HOME FOR THREE MONTHS

IL DET GIUSEPPE ALIPPI

Alessandro de Bertolini, 2018

Luisa Rota Sperti, 2016

Bruno Brunod, 2016, Mondadori Ed.

AA.VV., 2011

FOTOTREKKING I GRANDI AUTORI

AA.VV., 2011 FANGO

AA.VV., 2011 DOLOMITI NEW YORK

AA.VV., 2010

LA SCIMMIA ED IL BOOMERANG

Nicolò Berzi, 2009

UNO MONTURA DIVERSO

G.Malfer-V.Stefanello, 2009 ALDILÀ DELLE NUVOLE

Fausto De Stefani, 2009 UNO MONTURA PEOPLE 08

G.Malfer-V.Stefanello, 2008 ALPINISTI SOTTO ACETO

Manuel Lugli, 2008

G.Malfer-V.Stefanello, 2007 G.Marzari-G.Malfer, 2005

M.Zandonati, 2005

UNO MON T URA VI AGGI O

G.Malfer-V.Stefanello, 2004 Altrettante pubblicazioni sono state realizzate con il sostegno o con la collaborazione di MONTURA. Maggiori informazioni su www.montura.it e nei MONTURA STORE E numerosi altri progetti editoriali, tra i quali 3 raccolte delle pagine pubblicate su “Internazionale”. A similar number of titles published with the support or collaboration of MONTURA. Further information on www.montura.it and in MONTURA STORES. Many other publications, including three collections of articles published in Internazionale magazine.


MONTURA EDITING FILM IL CERCATORE D’INFINITO

RESINA

DUSK CHORUS

I SOGNI DEL LAGO SALATO

LOS PICOS 6500

LA PELLE DELL'ORSO

POSTINI DI GUERRA

L’ALPINISTA

KINNAUR, HIMALAYA

PICCOLA PATRIA

INSIDE

VINO DENTRO

ALPI

A VENTIQUATTRO MANI

AL DI LA DELLE NUVOLE

IO SONO LI

BREZNO POD VELBOM

LA PRIMA NEVE

KENO CITY, YUKON

PRENDIMINGIRO

VERTICALMENTE DEMODÈ

FINALE 68

MINGONG

CHANGE

ITACA NEL SOLE

BETWEEN HEAVEN AND ICE

IL TURNO DI NOTTE LO FANNO LE STELLE

IT’S MY HOME FOR THREE MONTHS

SOLO DI CORDATA

LINEA 4000

PAGINE DI PIETRA

ALBERI CHE CAMMINANO

IL RICHIAMO DEL KLONDIKE

DA ROVERETO AD AUSCHWITZ

IL MURRÀN

ARIA

SILENCE

RESET, UNA CLASSE ALLE SVALBARD

REVELSTOKE, UN BACIO NEL VENTO

SENZA POSSIBILITÀ DI ERRORE

OLTRE IL CONFINE

CORRERE PER L’ESSENZIALE

F.Massa e A.Azzetti, 2020 Marco Busacca, 2020 Emanuele Confortin, 2020 VALLE DELLA LUCE

Alberto e Lia Beltrami, 2020 CACHONNE SUPRA A SCIARA

G.Musarra-M.Brunello, 2020 CHOLITAS

P.Iraburu, J.Murciego, 2019 MANASLU: BERG DER SEELEN

Gerald Salmina, 2019

ANI, LE MONACHE DI YAQUEN GAR

Eloïse Barbieri, 2019

Renzo Carbonera, 2017 Marco Segato, 2016

Alessandro Rossetto, 2013 Armin Linke, 2011 Andrea Segre, 2011 Paola Rosà, Antonio Senter, 2019 Gabriele Canu, 2018 Fabio Marcari, Tiziano Gaia, 2018

ROLLY

A.De Bertolini, L.Pevarello, 2018

ENTROTERRA.

Federico Modica, 2018

Collettivo Boschilla, 2018

Giampaolo Calzà, 2018

Pietro Bagnara, 2019 MEMORIE E DESIDERI DELLE MONTAGNE MINORI

Bernardo Giménez, 2018 Mario Barberi, 2018

Alberto Battocchi, 2017

A.Azzetti, F.Massa, 2017

A.D’Emilia, N.Saravanja, 2017 A.Gonnella, D.Centrone, 2017 Marc Daviet, 2017 Luca Zambolin, 2017

Alberto Dal Maso, 2017 Stefano Castioni, 2017 Davide Crudetti, 2016 Federico Modica, 2016 Davide Riva, 2016

Mattia Colombo, 2015 Sandro Bozzolo, 2015 Nicola Moruzzi, 2015

Alberto Ferretto, 2015

Andrea Segre, 2015

Giacomo Piumatti, 2015 Ferdinando Vicentini Orgnani, 2013 Alessandro Tamanini, 2013 Andrea Segre, 2013 Davide Carrari, 2012 Petr Pavlicek, 2012 Edoardo Ponti, 2012

Giuliano Torghele, 2012 Paola Rosà, 2010

Davide Carrari, 2008 E numerose altre produzioni cinematografiche e tv. Numerous other film and TV productions.



C A T E R I N A

B O R G A T O

Caterina Borgato (Mirano, Venezia) vive con passione e di passioni. La conoscenza dell’umanità e di terre altre è diventata la sua professione. Dal 2004 è guida di lungo raggio, “expert on tour” per Kel12 e National Geographic Expeditions. Viaggia per conoscere e far innamorare della meraviglia del Mondo.

M O N T U R A

E D I T I N G

Montura Editing è il laboratorio creativo e la “casa editrice” di Montura, il brand italiano leader nell’abbigliamento e nelle calzature per la montagna e per l’outdoor. Nel corso degli anni l’azienda ha sviluppato un percorso di comunicazione originale, in linea con il motto “Searching a new way”: sostegno alla produzione cinematografica e letteraria; edizione diretta di alcune opere; supporto di festival culturali, mostre d’arte, rassegne musicali. Di particolare significato è il sostegno allo sviluppo di alcuni luoghi di valore artistico ed ambientale. L’attività di Montura Editing si completa con alcuni interventi di solidarietà, a livello nazionale ed internazionale.

montura.it

¤ 30,00

Caterina Borgato (Mirano, Venezia) lives with passion and for passion. Knowing about distant lands and people has become her job. Since 2004 she has worked as a long-range guide, a tour expert for Kel 12 and National Geographic Expeditions. She travels in order to learn about, and make others fall in love with, incredible places on the planet.

Montura Editing is the creative workshop and “publishing house” for Montura, the Italian brand that is a dealer in the mountain and outdoor clothing and footwear industry. Over the years, the company has developed an innovative approach to advertising in line with its motto “Searching a new way” aimed at supporting film production and the publication of literary works, directing the editing of several works and supporting cultural events, art exhibits and music festivals. One of its most significant initiatives is its support of the development of the artistic and environmental relevance of several specific areas. Montura Editing is also active in projects of solidarity on a national and international level.


“Mi piacciono le terre estreme. Mi piace l’umanità che riesce a viverci. E che non vivrebbe, mai, altrove. Questa umanità che spalanca mondi altri nello straordinario viaggio dell’incontro e della condivisione. Credo nel valore e nel significato dei rapporti umani, nel coraggio e nella forza delle donne!”

“I like extreme places. I like the people who manage to live in them. And who would never live anywhere else. People who open up different worlds in the extraordinary journey of coming together and sharing. I believe in the value and significance of human relationships, in the courage and power of women!”

MONTURA.IT


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