

SchioMese
Periodico di informazione dell’Alto Vicentino anno XIV n. 131 - marzo 2025
Allora, che si fa col vecchio ospedale? - p.6 ◆ Il sogno di Lorenzo si chiama esperanto - p.10

Casolini e piccoli alimentari, un mondo che non molla
Quella del piccolo commercio alimentare è una realtà che nel corso degli anni è andata inevitabilmente soffrendo la concorrenza spietata dei supermercati. Eppure la qualità, la specializzazione e la capacità di offrire prodotti di nicchia sta restituendo spazio a un mondo più vivo di quel che si può pensare.

NStefano Tomasoni
iente da fare, piazza Statuto è già tornata alla funzione di parcheggio. Speravamo in una qualche dilazione nei tempi di riapertura alla sosta delle auto, invece il via libera è arrivato fin dal primo giorno di quaresima. Ora la piazza, in attesa del verde e del monumento verso il municipio, è tornata simile a com’era prima, visto che dal punto di vista dell’impatto visivo le auto fanno la parte del leone e mettono in secondo piano la nuova pavimentazione. In più c’è quella sensazione di disorientamento creata dalla selva di “crocette” blu che segnano gli spazi di sosta e interferiscono con la trama geometrica dei sanpietrini e delle “fasce” di pietra bianca. Non resta che aspettare qualche mese per capire se la normale morchia che rilasciano le auto andrà a deturpare la pavimentazione con le chiazze oleose che di norma si formano nei parcheggi.
E vabbè, è andata così. Va sottolineata, quantomeno, la coerenza dell’amministrazione comunale, che da quando ha deciso che la piazza sarebbe tornata a ospitare le auto ha mantenuto il punto. All’inizio, a dire il vero, s’era detto che le auto sarebbero tornate solo ai lati e non anche al centro, ma alla fine ha prevalso il ritorno allo “status quo ante”, per venire incontro alle esigenze dei commercianti e degli operatori economici. Una scelta che, per quel che vale, non condividiamo, ma comunque una scelta. Resta la sensazione di un’occasione persa. L’unica che Schio aveva a disposizione per provare a liberare una delle sue piazze dalle
Quella piazza con le auto racconta molto di noi

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auto e creare uno spazio diverso, in grado di dare respiro al centro storico. Ma forse anche questa vicenda può trovare una sua interpretazione nel quadro più complessivo della storia di Schio. La nostra è una comunità fondata sul lavoro, sull’operosità e sulla praticità, nella quale le principali testimonianze monumentali e architettoniche sono legate al “fare”: la Fabbrica Alta – top di gamma dell’archeologia industriale europea - è stata la sede del lanificio su cui si è basata la fortuna economica e produttiva scledense ed è ancora oggi al centro del dibattito sul futuro della città; l’asilo Rossi, edificio di pregio inserito negli itinerari proposti a chi viene in visita a Schio, è nato per essere scuola d’infanzia per i figli degli operai della Lanerossi; l’ex lanificio Conte e l’annesso corpo di fabbrica dello Spazio Shed oggi sono una delle location più utilizzate per ospitare eventi culturali e mostre; la statua dell’Omo, simbolo della città per eccellenza, è lì a celebrare una volta di più l’operaio laniero rossiano. Perfino il teatro Civico, nato fin da subito per essere un polo di cultura, a un certo punto della sua storia, prima di finire abbandonato, è stato utilizzato per scopi pratici molto diversi, come palestra e come magazzino. Unica vera eccezione è il giardino Jacquard, guarda caso altra invenzione di epoca rossiana, oggi come ieri vera gemma estetica scledense, peraltro recuperato solo di recente dal dimenticatoio in cui giaceva.
Questo per dire che, per una questione quasi genetica, qui da noi la funzione ha sempre avuto priorità sull’estetica. Quasi
nessun luogo urbano, nessuna struttura o manufatto architettonico è mai stato privo di una sua specifica utilità, o come minimo di un simbolismo apertamente legato alla storia dell’industria.
Dal punto di vista dell’impianto urbanistico questa caratteristica connaturata nell’ “homo scledensis” sembra aver portato con sé - fin dagli anni del boom - una sorta di “horror vacui”, di paura del vuoto, con la conseguenza che lasciare uno spazio privo di una sua funzione sembra ancora oggi un inutile spreco. Non fa per noi, non è nella nostra indole. Abbiamo occupato anche le rotonde, installando un monumento ai carabinieri, uno agli alpini, una turbina colorata. Perfino lo “spicchione” in saliso davanti al Duomo e lo “spicchietto” di piazzetta IV Novembre davanti alla farmacia Sella li abbiamo costellati di fioriere con funzione aggiuntiva di panca.Arredi urbani decorativi e utili (appunto), ma comunque ingombri che hanno riempito anche quei vuoti.
Ecco perché con piazza Statuto non siamo riusciti a fare un “volo pindarico” e a immaginarla diversa, preferendo continuare a usarla come parcheggio e considerando prioritarie anche in questo caso le esigenze delle attività economiche. Abbiamo queste radici antropologicamente legate al “fare”, non riusciamo a immaginarci senza una funzione, abbiamo bisogno che tutto del nostro essere scledensi esprima un senso di concreta praticità.
Perciò non ci sentiamo nemmeno di dire che sarà per la prossima volta. Meglio non contarci troppo. * * *
SchioMese
Periodico di informazione dell’Alto Vicentino
“Il 22 e 23 febbraio, il cuore di Schio si trasformerà in una festa per tutti i sensi, con l’arrivo di “Choccolat”, il Festival del Cioccolato. Il pubblico potrà immergersi in un’atmosfera magica e scoprire il mondo del cioccolato attraverso degustazioni e incontri a tu per te con i maestri cioccolatieri presenti. L’occasione perfetta per vivere il centro di Schio in un’atmosfera festiva, con un fine settimana ricco di colori e i migliori profumi di cioccolato”. Questo è il testo della comunicazione di lancio utilizzata dagli organizzatori di “Choccolat”, mini-manifestazione allestita in piazza Falcone Borsellino nelle date indicate. La locandina annunciava “Maestri cioccolatieri, ciocco market, laboratori per bambini, mercatino arte e ingegno e tanto altro ancora”. Insomma, roba da far venir voglia perfino a uno svizzero di correre a Schio a imparare cos’è la cioccolata. Con tutta questa “pompa magna” ci saremmo aspettati che la piazza fosse invasa da espositori e venditori, bancarelle, stand e chissà quant’altro. Invece il tutto si è limitato a cinque bancarelle in croce. L’anno scorso era stata la stessa cosa: grandi annunci e sempre cinque sparute bancarelle. L’iniziativa, è bene chiarirlo, non parte né dal Comune né da Ascom o dal Cuore di

Schio, ma da una struttura privata esterna. A questo punto, però, se la manifestazione è “a regime” così, sarebbe bene che il Comune tenesse a freno l’esuberanza degli organizzatori, perché se fanno crescere aspettative così alte per poi presentare una realtà così “minimal” finisce che ci rimette il buon nome della città. Considerato che non siamo ricchi di attrattive turistichemontagne e natura a parte - è meglio evitare che arrivino “foresti” a Schio per fargli dire “tutto qui?”, perché poi quei “foresti” li hai persi per sempre. L’anno prossimo, dunque, il Comune farebbe bene a parlare chiaro con gli organizzatori di “Choccolat” e a concedere gli spazi solamente a condizione che la promozione dell’iniziativa voli basso e non ci faccia fare la figura dei
provincialotti, promettendo “Festival del Cioccolato” e atmosfere magiche per poi far trovare cinque gazebo chiusi in dieci metri quadrati. Le aspettative vanno fatte crescere soltanto per gli eventi che le meritano. Sennò l’effetto boomerang è dietro l’angolo.
Chi scrive ha ancora in mente la mortificazione provata l’anno scorso nell’essere fermato davanti a piazza Statuto da due coppie di distinte persone di mezza età palesemente in città per la prima volta, e nel sentirsi chiedere “Scusi, dov’è il centro?”. Ecco, facciamo in modo che nessuno, al prossimo “Choccolat”, sia fermato in piazza Falcone Borsellino da qualche “foresto” per sentirsi chiedere “Scusi, dov’è il festival?”. ◆

Copertina

Casolini e piccoli alimentari, un mondo che non molla
SMirella Dal Zotto
iamo abituati a varcare le soglie dei supermercati piuttosto di quelle dei piccoli negozi di vicinato, soprattutto quando la spesa è quella settimanale. Vuoi mettere però il negozietto vicino a casa, con tante cose buone preparate artigianalmente, e soprattutto con il sorriso, gratis, dell’esercente, sempre pronto a consigliare e a fare una chiacchiera in più? Abbiamo così deciso di sentirli praticamente tutti, i “casolìni” della città, per capire dove sta andando il piccolo commercio.
Carlo Dall’Alba, direttore Ascom per il mandamento di Schio, ci ha fornito un dettagliato elenco degli alimentaristi. Emerge in modo piuttosto evidente che le zone con meno “casolìni” risultano essere Giavenale, SS.Trinità e il Tretto, dove però di recente, a S.Ulderico, ha riaperto “Alimentari Dalla Vecchia Paolo”, scongiurando una desertificazione che nuocerebbe molto all’area montana. “Effettivamente qui stanno chiudendo un po’ tutti – ci ha detto il signor Dalla Vecchia – e anche per questo, con mia moglie, ho deciso di riaprire l’attività che i miei genitori avevano avviato nel 1967. Ci stiamo inventando di tutto un po’: accanto al sempre presente trinomio pane-affettati-formaggi proponiamo dolci artigianali che stanno riscuotendo successo anche in città, tanto che i clienti salgono da Schio per acquistarli. Anche la pizza d’asporto al sabato è stata una trovata: quassù nessuno la proponeva. Offriamo qualità e la possibilità di fare quattro chiacchiere, possiamo con-
Quella del piccolo commercio alimentare è una realtà che nel corso degli anni è andata inevitabilmente soffrendo la concorrenza spietata dei supermercati. Eppure la qualità, la specializzazione e la capacità di offrire prodotti di nicchia sta restituendo spazio a un mondo più vivo di quel che si può pensare.
segnare la spesa a domicilio a chi ha difficoltà a venire in negozio. Ci stiamo reinventando e le soddisfazioni non mancano, soprattutto dal punto di vista umano”.
Il centro città
In centro città e negli immediati dintorni gli alimentaristi sono otto: il piccolo Super A&O di via Strasseggiare a Santa Croce, la Latteria e Salumeria di via Fusinato, Sperotto Alessandro Formaggi in via Garibaldi, Sandonà in via dei Castellani, Latteria Schio in via Vicenza, “È senza” in via Maraschin, Alimentari Danubio e Sapori di Romania in via Trento Trieste e in via Venezia.
“Qualità, servizio, cortesia e diversificazione sono caratteristiche prioritarie per riuscire a rimanere a galla”, riferiscono al piccolo Super di Santa Croce, e con ciò concordano anche i titolari della Latteria e salumeria di via Fusinato: “Conta l’esperienza, che porta anche a relazionarsi con il cliente, a conoscerlo così da saper consigliare un prodotto piuttosto che un altro al cliente. Questo è importante in particolare con i clienti meno giovani, che vengono in negozio anche per fare due chiacchiere.
E poi è importante avere un buon potere d’acquisto, per poter rifornirsi di tutti i prodotti necessari per offrire varietà di scelta e una qualità elevata”.
“Non è semplice reggere la concorrenza della grande distribuzione – dice Alessandro Sperotto, di via Garibaldi – e personalmente registro un impoverimento anche nella popolazione anziana, che preferisce spesso inviare i figli a far scorta nei supermercati. Il mio negozio storicamente è specializzato nei formaggi e svolgo il mio lavoro con passione, ma la qualità costa e le persone che se la possono permettere sono sempre meno”.
Sandonà Formaggi in via dei Castellani ha coraggiosamente aperto in periodo di pandemia, ha più punti vendita nell’Alto Vicentino ed è presente anche all’interno della grande distribuzione. “Abbiamo sempre creduto nella nostra produzione e siamo in grado di garantire un buon rapporto qualità/prezzo. Nonostante il Covid, i rischi sono stati coperti; qui in centro però pochi clienti, soprattutto se anziani, se ne vanno con grandi spese; all’interno della grande distribuzione vendiamo meglio, però il negozio, tutto sommato, va”.
Anche Latterie Vicentine, in via Vicenza, fa parte di una rete distributiva composta da sette spacci, ma offre parecchi prodotti del territorio. “Uno dei principali vantaggi è la garanzia di qualità e freschezza – dicono -. I prodotti sono realizzati con latte raccolto ogni giorno presso le oltre 200 aziende agricole socie. Anche il servizio è un punto di forza: il personale è altamente qualificato e sempre disponibile a offrire consigli e suggerire abbinamenti. All’inizio, quando sono sorti i supermercati tutt’intorno a noi, temevamo che l’attrattiva di una vasta scelta di prodotti alimentari a prezzi concorrenziali potesse creare flessioni nelle vendite in negozio, ma il servizio e la qualità che offriamo sono risultati vincenti. Anzi, molti di coloro che acquistano nei supermercati vicini sono diventati anche nostri clienti”.
“È senza”, negozio biologico in zona Sacro Cuore, ha caratteristiche proprie, occupandosi di alimentazione, cura della casa e della persona in modo assolutamente naturale. Per non inquinare e non sprecare, ogni prodotto viene venduto senza imballo. “Abbiamo appena festeggiato il quarto anno di attività – precisano – e possiamo contare su clienti di tutte le età che credono nel biologico. Parlando strettamente di alimentare, forniamo farine macinate a pietra, pasta e riso bio nostrani, pane e zucchero artigianale, biscotteria senza glutine, spezie, semi, the, infusi… ci rammarichiamo solo di non poter avere un’insegna lato strada, che ci darebbe maggiore visibilità: siamo all’interno e ciò ci penalizza un po’”.
Alimentari Danubio e Sapori di Romania commercializzano prodotti dei loro paesi, rispettivamente Serbia e Romania. “Non è semplice tirare avanti – dicono i primi -, ma la nostra gente non rinuncia, soprattutto quando ci sono feste, ai prodotti tipici della terra d’origine”. “Ci sono anche italiani che si servono da noi – precisano i secondi -, specie in caso di matrimoni misti: è molto positivo constatare la fusione delle culture; si cerca di diversificare e di approcciarsi ai clienti con simpatia e competenza”.
Ressecco, Poleo e SS.Trinità
Nella zona di Ressecco-Poleo abbiamo interpellato “Non solo pane” e “SuperEsse”. “Siamo certi di essere una presenza importante, un punto di riferimento – affermano a “Non solo pane” -. Seguiamo con attenzione il cliente, come l’anziano senza automobile che viene per fare una chiacchiera e sentirsi meno solo: qui è accolto sempre con un sorriso. Cerchiamo costantemente di reinventarci e vendiamo roba buona al giusto prezzo, ma il nostro più importante
valore aggiunto è proprio il rapporto umano. Anche il casolìn può aiutare a riscoprire certi valori”.
“Prima lavoravo in un fast food – dice la titolare di SuperEsse – ma ho sempre abitato a Poleo e quando mi si è presentata la possibilità di rilevare l’attività l’ho fatto molto volentieri. Non è semplice, sono all’inizio e le giornate positive si alternano a quelle che lo sono meno, ma ho fiducia nella qualità di ciò che vendo, e che compro da piccoli produttori locali”.
Nel quartiere di SS.Trinità, dove i supermercati non mancano di certo, è presente il negozio di Giuliana Carretta posizionato nell’ex alimentari “Da Bruno”, e Stella Alimentari in via Fleming. “Siamo nati come panificio – precisa la titolare di Stella Alimentari - ma poi abbiamo preferito diversificare; tirare avanti non è affatto semplice, l’affitto è elevato, ma il lavoro non manca. Da trent’anni cerco di offrire la qualità ai miei clienti scegliendo personalmente ogni prodotto, e vedo che tornano soddisfatti”.

Magrè, Ca’ Trenta e Giavenale
A Magrè ci sono il Market B&B e gli Alimentari (ex panificio) Coronin, a Ca’ Trenta Mori Snc. “Cerchiamo sempre e comunque di essere competitivi nei prezzi – dicono al B&B - pur fornendo la qualità; è poi molto importante seguire il cliente, anche portandogli la spesa o semplicemente aiutandolo a imbustarla”.
“I miei genitori hanno aperto il loro panificio nel 1967 – informa la signora Coronin - e sono in grado di distinguere bene la qualità di un prodotto la cui vendita fa guadagnare meno l’esercente, ma fa tornare il cliente. Anche oggi, dopo tanti anni, assaggio personalmente tutto ciò che vendo”.
“A Ca’ Trenta siamo presenti da oltre quarant’anni – precisano al Mori – e abbiamo una clientela molto affezionata, che aiutiamo volentieri specialmente se è di una certa età. La nostra è una conduzione familiare tutta al femminile: tre generazioni di donne si sono alternate dietro ai banconi. Cerchiamo di fornire un buon rapporto qualità-prezzo e una vasta scelta di formaggi: ne abbiamo di sessanta tipi che, se abbinati alla nostra polenta fresca, sono una vera delizia per i palati più esigenti”.
A Giavenale, nell’ex panificio “Briciole di Pane”, ha ora aperto come piccolo alimentarista “Dolce Forno”. “Vogliamo far star bene il cliente nel punto vendita – dicono -, metterlo a suo agio e consigliargli ciò che è buono. Non è semplice sopravvivere, nemmeno in una piccola frazione come la nostra, e se si parte da zero è proprio difficile. Nostro partner è il negozio omonimo di Marano, con cui ci supportiamo”.
De Giacomi: “Il ‘casolìn’ ha una funzione sociale”
In chiusura del nostro viaggio nel piccolo, gustoso mondo dei “casolìni”, abbiamo interpellato anche Tullio De Giacomi, presidente di categoria a livello mandamentale e provinciale, nonché vicepresidente regionale.
“È assodato – chiosa – che il “casolìn” ha una funzione sociale, di aggregazione e di servizio alla comunità, in particolare nel caso di persone anziane. È un presidio importante sul territorio, per la sicurezza e il decoro urbano. A Schio troviamo aree sguarnite di questo tipo di commercio, sia in centro storico che in periferia, e un problema non indifferente sono le zone collinari, dove magari la continuità dell’attività di famiglia diventa ancor più problematica perché la redditività non consente la sopravvivenza. Sarebbe auspicabile che il numero dei ‘casolìni’ aumentasse e la Confcommercio, locale e nazionale, sta chiedendo alle amministrazioni pubbliche di ogni livello incentivi e sgravi proprio per queste tipologie di attività. Il futuro del piccolo alimentarista non può che essere nella specializzazione, nella consulenza al cliente, nella selezione della qualità, nell’attenzione ai prodotti del territorio. Il consumatore accorto è alla ricerca di questi aspetti e sa benissimo che sono un valore aggiunto rispetto all’offerta anonima degli Iper e dei Super”. ◆
HAttualità

Camilla Mantella
a quasi settant’anni, ma è in pensione già da un bel po’. L’ospedale “de Lellis”, costruito alla metà degli anni Cinquanta, è in disuso nella sua parte “storica”, il monoblocco, da una dozzina d’anni, ma il suo destino rimane in un limbo di indeterminatezza. Con la realizzazione del nuovo polo di Santorso, la struttura dell’ex ospedale di Schio è rimasta in gran parte deserta. Oggi solo l’area dei servizi, ovvero il basso edificio a un paio di piani noto come “la piastra”, è utilizzato.
Durante la passata campagna elettorale il tema del futuro della struttura aveva tenuto banco nei dibattiti dei candidati, con l’attuale opposizione che aveva presentato una serie di idee per la riqualificazione dell’area e la maggioranza che aveva ribadito che, trattandosi di un edificio di proprietà dell’azienda sanitaria locale, l’amministrazione comunale poteva ben poco. È passato ormai un altro anno e siamo an-
Allora, che si fa col vecchio ospedale?
Il futuro del “de Lellis”, con il monoblocco in abbandono e la “piastra” tuttora usata, rimane un interrogativo: tra la necessaria demolizione di alcune parti e la riqualificazione di altre, la sfida sarà trovare un equilibrio tra conservazione e nuove esigenze della comunità.
cora in stallo. L’unica cosa che appare certa è che il monoblocco a otto piani è destinato a essere abbattuto, essendo ormai irrecuperabile a funzioni al passo con le esigenze dei tempi.
Abbiamo fatto il punto della situazione con Ulss e Comune e con l’architetto Luisa Fontana, professionista che nel 2012 era stata incaricata di redigere uno studio di fattibilità per la riconversione dell’area.
Quando il de Lellis era giovane
Un monoblocco a ipsilon rovesciata, alto otto piani e con i campi tutt’intorno. Così si presentava l’ospedale di Schio quand’era stato inaugurato, il 27 ottobre del 1956. Aveva una capienza iniziale di 320 posti letto, saliti a 370 un paio d’anni dopo, quando era stata liberata la parte di edificio all’inizio occupata dalle suore, poi sistemate in una casa vicina.
Quel fronte di otto piani, che sembra un libro aperto rivolto verso la città, era quasi il simbolo della Schio che guardava alla modernità come a un fenomeno giudicabile dall’altezza delle costruzioni. Eppure, pochi anni erano bastati per rendersi conto che il “de Lellis” era stato progettato su scala ridotta. Nei primi quattro anni, infatti, i ricoveri erano aumentati di un buon 60%: dai 3.675 del primo anno ai 6.332 del 1960, con le giornate di degenza totali passate da 81.789 a 99.259. In sostanza, già nel 1960 l’ospedale stava quasi scoppiando.
(dal libro “I dieci anni che cambiarono Schio”, di Stefano Tomasoni)
Il destino del monoblocco
“Il periodo attorno al 2012 era un tempo che ancora permetteva delle visioni - ricorda Luisa Fontana -. L’idea era quella di demolire l’intera piastra e trasformarla in area di sviluppo urbano: il monoblocco a più piani sarebbe stato raso al suolo, a eccezione delle due facciate che sarebbero diventate una sorta di libro aperto sulla città, e si sarebbe realizzato in aderenza un nuovo corpo edilizio in acciaio e vetro da destinare a distretto sanitario. Lo studio di fattibilità prevedeva un’altra idea forte, ovvero unificare i parchi dei Grumi dei Frati e della Valletta creando un polmone verde per la salute e la cura della persona, soluzione che implicava lo spostamento di un tratto di via Leonardo da Vinci”. Una progettualità suggestiva e ricca di prospettive, ma le mutate condizioni socioeconomiche e gli eventi degli anni recenti – a cominciare dalla pandemia - hanno ridimensionato le prospettive di intervento. Dal punto di vista delle strategie di riqualificazione, la posizione dell’Ulss è chiara: il
“Il monoblocco ha sicuramente un carattere identitario e unitario – osserva l’architetto Luisa Fontana -. Anche nell’eventualità di un suo abbattimento, dovrebbe essere necessario realizzare una ‘quinta urbana’ al suo posto, in modo da mascherare i volumi edilizi della piastra”. → segue a pag. 8

Attualità

segue da pag. 6
monoblocco non sarà oggetto di interventi, essendo inagibile per ragioni di sicurezza antisismica ed essendo inutilizzato dal 2012. L’azienda sanitaria ne prevede la totale demolizione, con la possibilità eventualmente di recuperare la volumetria per altre destinazioni, sulle quali al momento non vi sono specifiche progettualità.
Eppure secondo l’architetto Fontana anche se l’abbattimento del monoblocco è pressoché obbligatorio, per la difficol -
tà della sua messa a norma, il mantenimento/riproposizione delle due facciate potrebbe essere una soluzione che da un lato cristallizza la storia, mantenendone l’elemento iconico, dall’altro crea una struttura innovativa, sostenibile e al passo con i tempi.
“Da un punto di vista della qualità ambientale e urbanistica, il monoblocco vince rispetto alla piastra – osserva la professionista scledense -. Mentre la piastra è un insieme di volumi disomogenei nata per successive aggregazioni di parti, il monoblocco ha sicuramente un carattere identitario e unitario. In ogni caso, anche nell’eventualità di un suo abbattimento, dovrebbe essere necessario realizzare una ‘quinta urbana’ al suo posto, in modo da mascherare i volumi edilizi della piastra che non hanno alcuna valenza urbana, e dare dignità ai servizi territoriali che nel frattempo sono stati insediati”.
Gli investimenti
sulla
piastra servizi
Se la demolizione dell’ala vecchia è inevitabile, la piastra servizi sarà invece oggetto di interventi. Per il 2025, informa l’Ulss, sono
Nuovo vertice per la Fondazione

La Fondazione Teatro Civico, da fine gennaio, conta su una nuova compagine amministrativa. Alla presidenza figura l’assessore alla cultura di Schio, Marco Gianesini; come consiglieri l’imprenditrice scledense Lara Facci e l’organizzatore di eventi e professionista in ambito IT Claudio Canova; consiglieri di nomina dei soci sono l’imprenditrice Viviana Collareda e l’ex dirigente d’azienda Roberto Salviato. Segretario generale sarà confermato Filippo Fanton. Accanto a questa compagine c’è il commercialista Alessandro Pegoraro, la cui carica di revisore seguirà altre tempistiche di nomina. Il nuovo Cda (i cui membri non percepiscono compenso) rimarrà in carica tre anni.
Al Comune di Schio in quanto socio fondatore unico spetta la nomina della maggioranza dei membri del consiglio, tre su cinque, mentre i restanti sono nominati dall’assemblea dei soci, composta da BVR Banca Veneto Centrale, De
previsti investimenti per un totale di 600 mila euro, 500 mila dei quali destinati alla realizzazione della Casa della Comunità di Schio tramite fondi PNRR, mentre 100 mila euro serviranno per interventi di manutenzione straordinaria alla copertura.
E il Comune? L’assessore all’urbanistica Giorgio Marchioro fa sapere che attualmente tra l’amministrazione comunale e l’Ulss non sono in corso accordi o iniziative comuni che riguardino l’area dell’ex ospedale. Nonostante la mancanza di un piano congiunto, tuttavia, l’architetto Fontana sottolinea l’importanza di guardare avanti con una visione strategica.
“In un’ottica di futuro, riproporrei lo studio di fattibilità redatto nel 2012, con particolare attenzione ai bisogni odierni. Strutture e servizi per i giovani e per gli anziani sono essenziali per rendere attrattiva la città e rispondere alle necessità della popolazione in continua evoluzione”.
Il destino dell’ex ospedale resta quindi aperto: tra la necessaria demolizione di alcune parti e la possibile riqualificazione di altre, la sfida sarà trovare un equilibrio tra sostenibilità, conservazione della memoria storica e nuove esigenze della comunità. ◆
Pretto Industrie, Mair Research, Vallortigara Servizi Ambientali e, nuovo ingresso da gennaio, da OMC Collareda: l’imprenditore Bruno Collareda, mancato nell’ottobre 2022, era un appassionato di cultura, musica e teatro, credeva fermamente nel recupero e restauro del Teatro Civico e la scelta dei familiari di entrare come soci della Fondazione ne onora la memoria. ◆
Lo Schiocco
Il segnale nascosto
I lavori per il restauro del Duomo hanno comportato ovviamente la messa in sicurezza delle impalcature e la loro conseguente copertura. Nell’impacchettare il tutto, però, è capitato che all’imbocco di via Gorzone, proprio all’altezza del muro d’angolo del Duomo, è stata “ciapà dentro” anche la segnaletica stradale, in particolare il cartello che segnala il divieto di transito in direzione retro-Duomo, essendo quella via a senso unico (in foto si intravede il cartello all’interno del cerchio bianco). C’è voluto un po’, ma alla fine, anche dopo la segnalazione di qualche cittadino, il problema è stato risolto: il segnale originario è rimasto chiuso nell’intelaiatura, ma ne è stato installato accanto uno provvisorio “a piantana”. Così va meglio. È vero che da un lato c’è San Pietro e dall’altro Intesa San Paolo, ma in tema di sicurezza stradale è meglio non affidarsi ai santi. [S.T.]

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LAttualità
Camilla Mantella
orenzo Zanella, giovane ventunenne scledense, ha un sogno: che le persone tornino a studiare l’esperanto, lingua creata a fine ‘800 per favorire il dialogo internazionale e consentire alle persone di vari Paesi di poter comunicare facilmente tra loro.
Anche se, dalla fine della seconda guerra mondiale, è stato l’inglese a diventare la lingua franca internazionale, Lorenzo è convinto che l’esperanto, idioma portatore di ideali di pace, multilinguismo e solidarietà, vada recuperato e insegnato, soprattutto oggi, in cui soffiano forti nuovi venti nazionalistici e dove gli equilibri geopolitici prodotti alla fine della Guerra fredda sono sempre più fragili.
Come nasce l’idea di studiare e recuperare l’esperanto?
“Mi sono avvicinato a questa lingua curiosando in internet. Ero alla fine della quinta superiore e mi è molto piaciuto il progetto di democrazia linguistica alla base dell’esperanto, senza contare che il suo studio è propedeutico all’apprendimento di altre lingue straniere. Con il passare dei mesi mi sono sempre più appassionato all’argomento e ho cercato di diffonderlo, inizialmente tramite i social network. Mi sono però reso conto della difficoltà di pubblicizzarlo on line e ho quindi cercato altri
Lo Schiocco
Terra di fumi e di fuochi
I falò di ramaglie vicino alle abitazioni sarebbero proibiti per ragioni di sicurezza e di inquinamento, ma in queste settimane pullulano, soprattutto in periferia e in collina: smaltire regolarmente costa fatica, si sa. Ma fumi quotidiani si possono notare anche in centro: quanti automobilisti, nonostante l’invito a spegnere il motore al semaforo rosso, lo fanno? Si potrebbe respirare meglio, ma chissene… Se gli ausiliari del traffico potessero andare oltre il loro compito di cercare e multare le auto con l’orario di sosta scaduto magari per una manciata di minuti, potrebbero rendersi utili anche e soprattutto ai semafori per “beccare” chi attenta alla salute. In quel caso sì che sarebbero un buon ausilio. [M.D.Z.]

Il sogno di Lorenzo si chiama esperanto
Lorenzo Zanella, giovane scledense di 21 anni, si sta adoperando per rilanciare l’esperanto, convinto della bontà del progetto di una lingua universale.
strumenti e contatti: sono venuto a conoscenza dell’associazione YOVA (di cui ci siamo occupati qualche numero fa e che si occupa di sostenere i progetti dei ragazzi del territorio, n.d.r.) e ho organizzato quattro incontri al Faber Box lo scorso mese di ottobre. Nel frattempo mi sto impegnando a tradurre gli scritti di Zamenhof, il fondatore dell’esperanto, e l’obiettivo è stamparne alcune copie. Un libro l’ho già messo a disposizione della biblioteca di Schio”.
Come sono state accolte le sue proposte?
“Attirare l’attenzione delle persone su questa lingua non è semplice e forse recuperare il suo utilizzo può sembrare un po’ anacronistico. Gli appuntamenti di ottobre sono stati un test e mi sono reso conto di dover fare un lavoro di diffusione più puntuale prima di riproporli. L’idea è quella di organizzare dei laboratori pomeridiani per gli studenti delle scuole superiori, così da poter prima parlare della bellezza e della forza dell’esperanto e poi andare a insegnarlo”.
Perché una persona dovrebbe interessarsi proprio a questa lingua “costruita a tavolino”?
“L’esperanto è una lingua molto semplice, senza complicazioni grammaticali o logiche. È stata inventata per poter essere imparata idealmente in pochi giorni. La sua
facilità di apprendimento è funzionale anche all’imparare le altre lingue nazionali, come dimostrato attraverso il metodo Paderborn: comprendere i semplici costrutti dell’esperanto rende più accessibili quelli delle lingue vive straniere. Inoltre è una lingua di pace: è per tutti una “seconda lingua”, non avvantaggia alcune nazioni rispetto ad altre e consente scambi semplici e diretti”.
Quali immagina potranno essere i prossimi passi per diffonderla a Schio e dintorni?
“Un tempo, qualche decennio fa, a Schio era attivo un club di esperanto, erano gli anni d’oro del progetto europeo, dei gemellaggi e degli scambi. Mi piacerebbe molto poter far rivivere il gruppo, allargandolo a un territorio un po’ più ampio, creando ad esempio un gruppo esperantista dell’Alto Vicentino. Nel frattempo faccio parte della Gioventù Esperantista Italiana (IEJ), sezione giovanile della Federazione Esperantista Italiana, così da poter fare rete con altri ragazzi interessati al tema. La IEJ esiste dalla fine degli anni ’40 e si occupa non solo di tenere vivo l’apprendimento dell’esperanto, ma anche di promuovere incontri culturali e scambi con le altre associazioni giovanili esperantiste sparse per il mondo”. ◆



CPolitica
Stefano Tomasoni
ristiano Eberle un anno dopo. Di questi tempi, dodici mesi fa, l’uomo era in piena bagarre elettorale: aveva preso la testa del movimento civico sorto per sostenere la sua candidatura a sindaco, ovvero “Una nuova trama”, e si stava dando da fare incontrando associazioni e cittadini per far conoscere se stesso e il programma della coalizione di centrosinistra che lo aveva scelto appunto come candidato alla carica di primo cittadino. È andata come tutti sanno: al ballottaggio ha vinto Cristina Marigo ed Eberle si è accomodato sui banchi del consiglio comunale come portabandiera della sua coalizione.
Adesso che ci si avvia al giro di boa del primo anno di mandato, viene da chiedersi come se la stia cavando, Eberle, in questi nuovi panni. Lui che era emerso come candidato della “società civile” per unificare il “campo largo” del centrosinistra senza avere alle spalle precedenti esperienze politico-amministrative dirette. Lo incontriamo nei nuovi uffici della sua società di consulenza del lavoro, nel complesso delle Torri in zona industriale.
C’era chi pensava che, passate le elezioni, lei non sarebbe rimasto a lungo in consiglio a svolgere quel lavoro quotidiano che spesso viene poi vanificato dal non avere i numeri per tradurlo in atti concreti. A un anno dalla “discesa in campo” e a nove mesi dall’inizio del mandato, facciamo un primo bilancio dell’esperienza, delle cose buone e di quelle meno buone. Partiamo da queste ultime.
“Bè, mi sto accorgendo che in consiglio comunale e nelle commissioni nessuno arriva preparato. La mia filosofia, maturata in trent’anni di professione, è che le riunioni devono durare 15 minuti, perché se ci si arriva preparati quel che resta da fare è discutere sui punti di maggiore o minore condivisione. Qui invece alle riunioni sento ripetere cose che dovevano essere analizzate e studiate in precedenza. Questo per me è sbagliato, non è un corretto impiego del tempo e non è il percorso più efficace. È una delle cose che mi pesano, e che diventa quasi frustrante”.
Ce ne sono altre, par di capire…
“Ci sono alcuni aspetti non positivi, legati soprattutto al consiglio comunale e al rapporto con la giunta. Ho riscontrato che da parte della maggioranza, o meglio del sindaco e della giunta, c’è pregiudizio, cioè un giudizio preventivo, rispetto alle proposte che facciamo come minoranza. Ogni qual-

Eberle un anno dopo
“Qui
non si fa che rincorrere l’ordinarietà”
Un anno fa di questi tempi Cristiano Eberle era nel pieno di una campagna elettorale che lo avrebbe poi visto contendere la fascia di sindaco a Cristina Marigo. Ora, a poco più di 12 mesi dalla sua “discesa in campo” e a nove dall’inizio del mandato tra i banchi della minoranza di centrosinistra, gli abbiamo chiesto di fare il punto sulla sua personale esperienza politicoamministrativa e sul lavoro dell’amministrazione.
volta noi facciamo una proposta prevale l’elemento soggettivo su quello oggettivo: cioè, siccome la proposta la fa tizio, comunque non va bene”.
Questa però non crede che sia una tendenza abbastanza diffusa della politica, un po’ a tutti i livelli?
“Sì, non la considero colpa diretta dell’attuale giunta, perché è figlia di un modo di fare politica che si nota effettivamente a tutti i livelli. Però dal mio punto di vista è un handicap. Insomma, credo che sia abbastanza improbabile, anche solo per un calcolo delle probabilità, che qualsiasi proposta che facciamo non sia migliorativa, o valutabile, condivisibile. Anche perché qualche voto l’abbiamo preso e dunque ci sembra di rappresentare qualcuno. Questa è una cosa che faccio fatica a tollerare”.
Vada avanti, il sacco non sembra ancora vuoto. “Un’altra cosa che noto nella maggioranza è una sorta di fobia di quello che rappresenta l’equilibrio di bilancio. Una paura che probabilmente deriva da una conoscenza non approfondita di tutti gli strumenti che offre un bilancio solido come quello di Schio. Non si vuole fare debito, questo crea un eccesso di prudenza e fa sì che oggi la facoltà di indebitamento di fatto non venga sfruttata. Prendiamo la vicenda del bacino di laminazione delle Aste: è un intervento necessario, i tecnici assicurano che se lo facciamo risolviamo il problema delle alluvioni a SS.Trinità, però l’amministrazione dice di fatto che se non arrivano i soldi dalla Regione non si può procedere. Questo non va bene, la stima dei danni creati dagli allagamenti è decisamente supe-
riore ai costi del bacino. Si può benissimo procedere aprendo intanto una pratica per un mutuo con la Cassa depositi e prestiti, poi se arrivano i contributi della Regione si rinuncia al finanziamento, ma intanto si guadagna tempo, perché se non arrivano i soldi dalla Regione devi tornare in consiglio, fare la pratica per il mutuo… si perde tempo inutilmente”.
Al di là dei rapporti tra le parti e dell’approccio al bilancio, cos’è che rimprovera all’amministrazione rispetto a ciò che ha fatto finora? “È giusto dire che dopo otto-nove mesi non possiamo pretendere di vedere progetti pronti e realizzati, però il problema di fondo è che qui non si fa che rincorrere l’ordinarietà, pare che non ci sia il tempo per pensare ad altro che a quella. Non c’è una visione. C’è una serie di temi cruciali di cui non si parla più”.
Quali?
Il primo è quello della Fabbrica Alta: il progetto di recupero che noi avevamo presentato e che coinvolgeva l’esperienza di ComoNext andava coltivato, è importante andare a vedere cos’hanno fatto altre realtà italiane dove la fertilità dell’economia locale è sensibilmente inferiore rispetto a quella che possiamo offrire noi. Poi c’è il problema degli anziani e delle Rsa, un tema di cui non si sta parlando, quando invece è una bomba sociale che non può più aspettare. Così come è importante occuparsi del problema degli asili nido, altro servizio pubblico essenziale per dare risposte alle famiglie giovani. E c’è anche il tema della leadership nella Conferenza dei sindaci dell’Ulss: Cristina Marigo è presidente della Conferenza ed è giusto per il sindaco del comune più grande del territorio assumere questo ruolo, però ne consegue che si hanno delle responsabilità, invece su questo fronte io non ho più sentito nulla”. In una recente intervista al quotidiano locale, Marigo ha detto che non si aspettava tanto “accanimento” da parte delle opposizioni. Non c’è dubbio che sia voi che Fratelli d’Italia siate andati giù decisi su temi come la querelle tra Comune e Ava sui rifiuti o la nomina dell’assessore Gianesini alla presidenza della Fondazione Teatro Civico. Si può dire che, passato il rodaggio, le opposizioni hanno indossato i guantoni?
“Ma no, si tratta di prendere atto di vicende che andavano gestite diversamente. A proposito della questione rifiuti, se fossi in Valter Orsi farei una bella riflessione sulle conseguenze dell’esposto fatto dal Comune nei confronti di Ava, sul fatto che un magistrato - quindi un soggetto terzo, indipendente e competente - nella sentenza abbia scritto in sostanza che il Comune di Schio invece di fare l’esposto avrebbe dovuto agire con gli strumenti che un socio ha per influire sulla gestione della società.
Il risultato è che azioni come queste, gestite così, creano una disaffezione all’interno dell’Alto Vicentino nei confronti di Schio: dovremmo essere il comune leader dell’area, ma mi pare che ci sia piuttosto la volontà di chiudersi. Invece potremmo essere propulsori del miglioramento della qualità di vita degli altri territori.
Sulla fondazione Teatro Civico e la nomina di Gianesini, osservo che le fondazioni come la nostra hanno la necessità, e direi l’obbligo, di creare sinergie con il mondo del privato e delle imprese per realizzare progetti culturali significativi. La mia preoccupazione non riguarda la capacità o la professionalità del presidente, ma il fat -

to che l’amministrazione, nominando un politico alla guida e quindi richiamando a sé il controllo della Fondazione, interrompe un percorso ben avviato che ha portato contributi importanti da parte dei privati. Ora la sindaca dice che reputa che il valore aggiunto dell’ente sia un altro, ossia il coordinamento con la macchina comunale. Secondo noi invece la Fondazione per garantirsi un futuro deve continuare ad andare verso il coinvolgimento del privato e delle imprese”.
Cambiamo registro prima che finisca lo spazio dell’intervista, perché rimarrebbe da parlare
Politica
delle “cose buone”... Quali sono gli aspetti positivi di questo primo periodo?
“Quello che trovo apprezzabile, guardando ai sei gruppi che hanno formato la coalizione che ha sostenuto la mia candidatura a sindaco, è che dopo le elezioni, passato il momento della mobilitazione e della campagna elettorale, tutti stanno continuando a lavorare nella logica del fare. I singoli gruppi stanno sviluppando ognuno proprie iniziative con il coinvolgimento di tante energie. Se penso in particolare a “Una Nuova trama” devo dire che è stata una sorpresa: abbiamo oggi 40 associati e all’ultimo incontro avevamo 30 presenti, numeri che non mi aspettavo. C’è la giusta motivazione a lavorare non per la prossima campagna elettorale fra quattro anni, ma per il bene della comunità”.
Del resto, se una forza di opposizione non comincia subito a lavorare in quest’ottica rischia di trovarsi poi a dover costruire un’alternativa a ridosso delle elezioni. Insomma, se si è voluta la bicicletta occorre mettersi a pedalare.
“Certo, il nostro obiettivo oggi è quello di ascoltare la comunità: ci mettiamo a disposizione così come abbiamo fatto durante la campagna elettorale, quando abbiamo incontrato quelle 250 associazioni che rappresentano il tessuto sociale del nostro territorio. Vogliamo impegnarci ora per migliorare la qualità della vita della città, non vogliamo sicuramente correre negli ultimi sei mesi di mandato”.
A proposito di mandato: lei intende dunque restare a rappresentare questa coalizione in consiglio comunale fino alla fine?
“Se permangono gli elementi che ho descritto - la sinergia tra i gruppi, la visione, le iniziative finalizzate al bene della comunità, la concretezza - la risposta è sì”. ◆
Lo Schiocco
Cannoni di carnevale
Bello il carnevale, eh, niente da dire. Sempre più belli i carri e le relative coreografie. Solo, magari, si potrebbe chiedere ai carristi di usare “cannoni” un po’ meno potenti per sparare coriandoli e stelle filanti. Durante le sfilate partono colpi che lanciano montagne di coriandoli e stelle a dieci metri di altezza. Una pioggia colorata e festosa, per carità, però poi su tetti e grondaie resta impigliata una selva di carta che potrebbe anche creare qualche spiacevole intoppo a lucernari e canalette

di scolo. Anche meno, insomma, dai. Non serve avviluppare i tetti in questo modo per dimostrare che il carnevale di Schio è una cannonata. [S.T.]
IAttualità
Elia Cucovaz
lettori non più giovanissimi ricorderanno - più o meno gioiosamente - quello che un tempo si chiamava “dottrina”: il percorso di preparazione ai sacramenti che impartiva a tutti i ragazzini e le ragazzine le nozioni fondamentali della fede cattolica. Da molti anni ormai il nome è cambiato, sostituito dal più morbido “catechismo”, ma soprattutto sono cambiati i contenuti, più incentrati sulle esperienze e la creazione di legami all’interno del gruppo e molto meno sullo studio mnemonico di preghiere e dogmi.
Nonostante i cambiamenti, comunque, il catechismo a Schio continua a essere scelto dalla maggior parte delle famiglie che si riconoscono, almeno idealmente, nel cattolicesimo. Un fatto questo che dà lo sprone ai catechisti per trovare nuove modalità per coinvolgere i giovanissimi, anche se con il passare degli anni essi stanno diventando figure sempre più rare. Se gli alunni non mancano, infatti, per i volontari che si prendono l’incarico di guidarli si può parlare di una vera e propria “crisi di vocazioni”.
Dunque: “cercansi catechisti disperatamente”, mentre quelli che restano - o dovremmo dire, resistono - si fanno in quattro per mantenere una proposta vivace e in linea coi tempi, chi alternando contenuti e giochi, chi puntando sul coinvolgimento delle famiglie, chi invece su esperienze forti che lasciano il segno. Ecco cosa ci hanno raccontato i volontari dell’Unità pastorale “Santa Bakhita”, che riunisce la parrocchie di San Pietro, Sacro Cuore e Poleo.
Un viaggio nella fede
Nella parrocchia del duomo il catechismo da qualche tempo non comincia più in prima elementare. “Con grande dispiacere abbiamo dovuto rinunciare a organizzare un gruppo dai sei agli otto anni, perché siamo rimasti in pochi”, spiega Gabriella Leoli, referente del gruppo catechisti. Quest’anno i volontari sono 15, giusto quelli che servono per condurre i gruppi dalla terza elementare alla prima media - nel complesso un’ottantina di alunni - in un


Cercansi catechisti disperatamente
Il catechismo a Schio continua a essere scelto dalla maggior parte delle famiglie, un fatto che dà lo sprone ai catechisti per trovare nuove modalità per coinvolgere i giovanissimi. Ma il problema più grande adesso diventa proprio questo: se gli alunni non mancano, per i volontari che si prendono l’incarico di guidarli si può parlare di una vera e propria “crisi di vocazioni”.
percorso con cadenza quindicinale di conoscenza e preparazione ai sacramenti della: confessione, comunione, cresima. “L’anno prossimo è probabile che altri due o tre di noi dovranno ritirarsi per età o necessità familiari e dunque sarebbe importante che qualche volonteroso si mettesse una mano sulla coscienza”. L’identikit del perfetto catechista? “Non serve essere teologi, basta avere fede e un po’ di tempo da dedicare. All’inizio si affiancherà un ‘collega’ più esperto”.
Nonostante le difficoltà, il catechismo a San Pietro non rinuncia a proporre ai ragazzi una serie di esperienze per coronare e riportare alla vita vissuta gli elementi più strettamente dottrinali. Fra questi il più forte è sicuramente il viaggio di tre giorni ad Assisi del gruppo di prima media, in parte autofinanziato con la vendita di lavoretti realizzati dai ragazzi stessi. “Un’esperienza che dà sempre una forte carica, sia ai ragazzi sia a noi che li accompagniamo, anche dopo tanti anni”.
Pregare, fare,
giocare
Nella parrocchia del Sacro Cuore il catechismo si è sviluppato con una proposta più articolata. I giovanissimi si ritrovato il sabato pomeriggio, ogni 15 giorni: prima si soffermano a riflettere sui temi della religione cattolica, diversi in base all’età, per poi fare un’attività laboratoriale tenuta da un’educatrice; poi tutti a giocare nella piastra del sottochiesa con il gruppo di ani-
matori del Grest parrocchiale. “Abbiamo voluto ripensare completamente il format del catechismo tradizionale - spiega la referente dei catechisti, Emanuela Dalla Ca’ -. Io ho cominciato questa attività di volontariato ormai 40 anni fa e posso testimoniare il cambiamento radicale cui abbiamo assistito: oggi i bambini arrivano senza conoscere le preghiere elementari, persino il segno della croce. Bisogna ripartire dall’ABC. Quindi abbiamo pensato che fosse necessario iniziare a lavorare dal ricostruire un senso di comunità tra i giovani”. L’anno culmina nel mese di maggio con il “fioretto”: tutte le sere i partecipanti sono invitati in chiesa per la recita del rosario e in seguito, dalle 20 all 21, gioco nel sottochiesa con gli animatori. Una proposta di successo, che porta anche alcuni partecipanti da altre parrocchie. “Tuttavia anche noi scontiamo la mancanza di catechisti: oggi si sente dire da molti ‘non ho tempo, sono stanco, non ce la faccio’. Ogni anno alla fine la Santa Provvidenza in qualche modo interviene, ma ci stiamo ponendo seriamente il problema della continuità”.
A “dottrina” con mamma e papà
Anche a Poleo i catechisti hanno cercato di aggiornare la proposta dedicata ai più piccoli. E hanno pensato di farlo coinvolgendo tutta la famiglia.

Parole che fanno la differenza
Don Alex Pilati, vicario parrocchiale dell’Unità pastorale S. Bakhita e particolarmente impegnato nella pastorale giovanile, conclude con una riflessione che legge il cambiamento nell’educazione alla religione cattolica dei ragazzi partendo dal significato profondo delle parole “dottrina” e “catechismo”.
Gruppo del catechismo al Sacro Cuore

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“La nostra offerta - spiega il referente Igino Battistella - è rivolta ai giovani dalla prima elementare alla prima media, una settantina in tutto, più un gruppo misto dalla seconda media in poi. Prevediamo un incontro infrasettimanale ogni 15 giorni e la prima domenica del mese invitiamo tutte le famiglie a partecipare a un incontro di riflessione che approfondisce ogni anno un tema diverso, per poi proseguire tutti insieme con la messa”.
Un’iniziativa che, nonostante tutto, riscuote un ottimo successo. “Anche noi catechisti di Poleo facciamo fatica a completare l’organico, ma se teniamo botta è anche perché vediamo che quello che stiamo facendo ha un riscontro positivo, una risposta che non ci aspettavamo nemmeno noi, a dire la verità. Un tempo la famiglia era una piccola Chiesa domestica, oggi questo è sempre meno vero, ma da quello che possiamo vedere, chi si accosta a un cammino di riscoperta della fede poi non lo abbandona. Questo perché, evidentemente, si accorge che è un’attività utile per la vita individuale e familiare”.
“La prima deriva dal verbo greco dokein che significa credere, ma anche pensare e ha in sé anche una radice che rimanda al concetto di dolcezza. La seconda ha origine invece da katechein che significa, insegnare, ma nel suo significato più profondo vuol dire riecheggiare. In un certo senso, quindi, siamo passati da uno stile diretto, basato sulla trasmissione di nozioni in sé complete, anche se a volte difficili da capire, a uno stile mediato in cui il contenuto cristiano è l’eco che ritorna da riflessioni ed esperienze diverse. Ad esempio, ai miei tempi, a dottrina insegnavano a rispondere alla domanda ‘Chi è Dio?’ con la formula: L’essere perfettissimo, creatore e signore del cielo e della terra. Oggi invece per arrivare a comprendere il concetto di creazione dobbiamo passare attraverso la conoscenza del creato, che in quanto tale merita i essere protetto, e così via. Insomma: due modalità molto diverse. Oggi la prima sarebbe difficilmente praticabile, ancorché abbia il merito di essere molto chiara e diretta. Insomma, bisogna prendere tutto per le larghe. Comunque noi non smettiamo di seminare… e speriamo nei frutti. La frequenza del catechismo è ancora, per così dire, un bisogno sociale, anche se più che ricercare in essa le basi
VISTO DAL CASTELLO /21
Càttelan, Sànson e Chilèse
SMariano Castello
otto, sotto ci siamo sempre un po’ vergognati del nostro dialetto o comunque di quella lingua che veniva definita come dialettasso, perché parlata da quelli di campagna e da quelli che venivano giù dal monte.
“No dire merda e pisso, Maria Santissima” diceva mia madre “ma se proprio bisogna nominare quelle robe lì, dire cacca e pissin”.
“E no dire magnare”, faceva una brutta impressione, “ma mangiare, ca no vignemo mia gnanca dai monti rugoloni, nialtri”. A casa nostra abbiamo imparato un dialetto ripulito, che non era ancora l’italiano che si parlava a scuola, ma che gli assomi-
gliava un po’. Deve essere stato in questo neorinascimento della lingua italiana, che abbiamo anche incominciato a storpiare i cognomi propri di persona per renderli più aderenti a quell’esprit de finesse che a un certo punto si era impadronito del nostro linguaggio, che rimaneva sempre comunque dialettale, ma con qualcosa in più di fine. Ad esempio si sa che i cognomi veneti che finiscono con una consonante, hanno sempre l’accento sull’ultima vocale: Primòn, Giacòn, Molòn. Cognomi questi che hanno un’ampia diffusione dalle nostre parti. In questi casi (anche se l’accento non compare) a nessuno verrebbe in mente di dire Prìmon, Giàcon, Mòlon. E allora perché si dice abitualmente (e si dice anche in tele-
e i principi della fede, in esso si cerca - e si trova - soprattutto un sussidio emotivo e relazionale. Che comunque, nel contesto attuale, non è poco”. ◆
Il restauro del duomo continua con i gradini
La raccolta fondi per il restauro di San Pietro continua… step by step. Questa espressione inglese che significa “un gradino per volta” descrive perfettamente la formula utilizzata dall’arciprete don Carlo Guidolin per rappresentare il prossimo obiettivo della campagna “Siamo Pietre Vive” in corso dal 2022, ovvero proprio le scalinate e le pavimentazioni. Per salire il muraglione che caratterizza la chiesa centrale di Schio ci sono in tutto 271 gradini; il costo previsto di questo stralcio è di 135.500 euro; quindi possiamo dire che il restauro di ciascuno degli scalini ottocenteschi costerà 500 euro. Questa è la somma che ciascuno può donare (sul conto corrente intestato a: “Siamo Pietre Vive”, con Iban IT90 C086 6960 7520 0600 0972 766) per avvicinare di un passo la possibilità di eseguire i lavori.
La… scalata verso il termine dell’intervento può essere seguita di settimana in settimana sul foglietto degli avvisi parrocchiali. Ad oggi sono già stati “adottati” 41 scalini e ne restano 231, ma ogni domenica la quota aumenta. Chi volesse contribuire pur non potendo sobbarcarsi il costo di un intero scalino può elargire una parte, grande o piccola che sia.
visione) Càttelan, Còin, Sànson? Perché dire Cattelàn, Coìn e Sansòn, come sarebbe giusto, ci sembra troppo terra terra, una cosa che sfiora il dialettasso, dal quale ci dobbiamo sforzare di astenerci, se non si vuole essere considerati di estrazione marugolana. In realtà io penso che siamo davanti ad una mutazione genetico- lessicale: se tutti dicono Càttelan, mi sapete dire perché io dovrei dire Cattelàn che suona anche più rozzo?
Un mio parente, che si chiama Chìlese, si è trasferito a Milano e tutti lo chiamavano Chilèse. Quando qualcuno gli domandava: “Lei come si chiama?” lui ormai rispondeva: “Chilèse”. “Tanto” si diceva “Chìlese o Chilèse cos’è che cambia?”. Non cambia niente in effetti, basta mettersi d’accordo e però secondo me un pezzetto infinitesimale di identità si perde anche così. ◆

ISpettacoli
Mirella Dal Zotto
più recenti spettacoli della rassegna di Schio Grande Teatro hanno visto arrivare al Civico tre grandi attrici, guidate da Maria Paiato, con “Boston Marriage” di David Mamet, e un cast di sei interpreti capitanato da Maddalena Crippa con un lavoro umoristico di Anton Cechov.
L’attualità di David Mamet
“Boston Marriage”, testo contemporaneo, ma ambientato tra ‘800 e ‘900, dell’americano David Mamet, può essere appannaggio unicamente di grandi attrici, in grado di trasformarsi in funambole della parola, con una memoria che rasenta l’impossibile. Maria Paiato, Mariangela Granelli e Ludovica D’Auria, al Civico proprio con questo lavoro, hanno dimostrato di esserne veramente all’altezza; in particolare, Maria Paiato, la protagonista, è stata di una bravura virtuosistica (infatti ha ottenuto un primo premio nazionale come miglior attrice).
A cavallo tra ‘800 e ‘900 si indicava negli Usa, con “Boston Marriage”, un matrimonio o una convivenza tra coppie LGBT e Mamet, l’autore, è stato geniale nell’usare un linguaggio attuale, anche crudo a tratti, trasponendolo in epoca passata. Lo ha saputo fare mimetizzando bene la volgarità all’interno di battute ricercate, dando così al pubblico un notevole esempio di teatro di parola, oltre che di attore.
Nella bella scena di Alberto Nonnato - e non è frequente ammirarne di simili, né al Civico né all’Astra - il regista Giorgio Sangati ha lasciato tutta la libertà possibile alle interpreti, così brave da non aver forse nemmeno bisogno di essere dirette. Ricer-

Due vere perle di teatro
Per la rassegna teatrale sono andate in scena al Civico tre grandi attrici, guidate da Maria Paiato, con “Boston Marriage” di Mamet, e un cast di sei interpreti capitanato da Maddalena Crippa con un lavoro umoristico di Cechov.
cati i costumi, efficaci le luci. Tutto ha concorso a sottolineare a dovere, con sapiente eleganza, tradimenti, età che avanza, difficoltà per le donne di “sistemarsi”, agognata indipendenza economica. Pièce alquanto piacevole, di classe. Il pubblico presente ha attribuito lunghi e meritati applausi al trio.
Umorismo russo in “Crisi di nervi”
Anton Cechov, autore del “Giardino dei ciliegi”, “Zio Vanja”, “Il gabbiano”, è stato anche un fine umorista in grado di mettere alla berlina l’ipocrisia borghese. Ne è un esempio “Crisi di nervi”, tre atti unici che testimoniano tutta la sua ammirazione per il vaudeville francese; non si pensi a Feydeau, però, piuttosto a una trasposizione tutta personale di questo genere teatrale, ricca di sottile sarca-
Sì, viaggiare con Battisti
Popolari, ma di qualità, i concerti proposti tra febbraio e marzo da Scoppiospettacoli. Dopo “Abbadream”, che ha fatto ballare la platea dell’Astra sull’onda della disco dei primi anni Ottanta, il filone nostalgico è proseguito con “Si, viaggiare”, per ricordare uno dei cantautori più innovativi della musica italiana: Lucio Battisti. “Stage 11”, il gruppo che ormai da un quarto di secolo porta in giro per i teatri italiani la storia del grande autore romano, si è esibito all’Astra davanti a una
platea non gremita, ma attenta e partecipe, desiderosa di un tuffo nel passato, non solo musicale; dietro a cantanti e musicisti scorreva infatti un bel video che ricordava il percorso artistico e umano di Battisti, con più particolari inediti.
Ottime le voci sul palco: dolce e graffiante a seconda del caso quella di Susanna Pellegrini, calda e suadente quella di Matteo Giusti, forte e acuta quella di Terry Horn. Arrangiamenti curati, coinvolgimento del pubblico, disponibilità a esaudire più ri -
smo. A Schio l’opera è stata messa in scena al Civico dal regista Peter Stein, importante ricercatore e innovatore del teatro europeo, insignito di premi prestigiosi, che ha diretto con rigore ed eleganza sei attori, capitanati da Maddalena Crippa; bravi tutti nel delineare i loro personaggi, portandoli all’eccesso. Le scene essenziali, forse anche troppo, hanno permesso di focalizzare lo spettatore sulla recitazione; veramente belli i costumi, in particolare quelli del primo atto, in contrasto con la comicità paradossale che si dipanava via via. Con questo lavoro, premiato per la miglior regia in un premio nazionale, si è riusciti a sorridere con un autore russo, un regista tedesco, uno scenografo e una costumista austriaci. C’è speranza: l’ironia è universale. ◆

chieste nel bis. Piacevole serata: è stato bello cantare assieme brani entrati nella storia della musica italiana. ◆ [M.D.Z.]

Spettacoli
Molto atteso al Civico il violinista di origine tedesca Simon Zhu, ex bimbo prodigio che, a soli 24 anni, ha già all’attivo un prestigioso Premio Paganini, conquistato due anni fa. Non si può certo parlare di lui come “astro nascente”, è già una stella nell’ambito del repertorio violinistico classico. Pronto alle sfide più ardite, acrobata di corde e archetto anche nei pizzicati, è in pieno possesso di una tecnica eccezionale, unita a sicurezza e sensibilità. A Schio ha proposto una sonata di Bach, autore scelto anche per il bis, due sonate di Ysaye e sei Capricci di Paganini, eseguiti senza mai consultare lo spartito. Un’ora e mezza di musica che ha estasiato i tanti spettatori presenti, i quali gli hanno attribuito alla fine lunghissimi applausi. Il violinista ha tenuto concerti in tutta Europa (in Inghilterra alla presenza di Carlo III), in Corea e in Cina; debutterà a breve alla Scala, alla Fenice, al San Carlo, alla Filarmonica di Dortmund, al Maggio Musicale Fiorentino. Anche a Schio ha suonato con un violino Bergonzi del 1760, ma ha già avuto l’onore di esibirsi con il famoso “Cannone” appartenuto a Niccolò Paganini, che sarebbe stato sicuramente contento di averglielo prestato.
Poesia al pianoforte
Il concerto della pianista giapponese Rikako Tsujimoto era stato programmato al Ri-


Zhu e Tsujimoto, che tecnica
Il violino di Simon Zhu e il pianoforte di Rikako Tsujimoto hanno impreziosito la rassegna “Schio Musica” della Fondazione Teatro Civico, con due concerti molto apprezzati dal pubblico.
dotto del Civico, ma per lei si sono dovute aprire le porte del Teatro vero e proprio, data la richiesta del pubblico: ciò la dice lunga sulla rispondenza che in città possono avere i concerti di musica classica, seguiti da un nutrito gruppo di estimatori. La pianista, inoltre, era conosciuta dagli appassionati perché lo scorso anno era stata premiata al Teatro Olimpico nell’ambito del concorso nazionale “Lamberto Brunelli”; classe 1998, ha iniziato a suonare il pianoforte a soli tre anni e da allora l’ascesa è stata inarrestabile e le sue esibizioni sono state applaudite in Giappone, negli Stati
Che belli quegli “ex libris”
In biblioteca c’è un’interessante mostra costituita da una selezione di stampe d’arte realizzate con varie tecniche incisorie da alcuni dei più significativi artisti italiani e internazionali.
Fino al prossimo 31 maggio nell’atrio della biblioteca civica c’è un’interessante esposizione, “I segni dei libri”, costituita da una selezione di stampe d’arte (ex libris e piccola grafica) realizzate con varie tecniche incisorie da alcuni dei più significativi artisti italiani e internazionali contemporanei, provenienti dalla collezione d’arte grafica degli scledensi Vladimiro Elvieri e Maria Chiara Toni.
La manualità finalizzata alla creazione di matrici e stampe d’arte non ha ancora finito di stupire perché riesce, più di altri linguaggi, a esprimere la vera e intima personalità dell’autore, affascinando tanti artisti con in-
numerevoli procedimenti che sconfinano in pratiche alchemiche. Da 500 anni gli ex libris costituiscono il legame ideale con i libri stessi e rappresentano un settore artistico composto da piccole immagini a stampa destinate a testimoniare il possesso di libri, il ritratto interiore del committente o l’omaggio dell’artista stesso a un particolare tema o soggetto. L’interesse per gli ex libris permane anche oggi grazie ad associazioni che li promuovono e li valorizzano attraverso scambi, mostre, pubblicazioni, convegni. L’esposizione in biblioteca rientra nell’ambito della programmazione della stagione poetica scledense “Semenze matte”, che
Uniti e in numerosi paesi europei, fra cui l’Italia.
Anche al Civico i tanti spettatori presenti le hanno attribuito calorosi applausi: il programma era completamente dedicato a Chopin, poeta del pianoforte, ma la Tsujimoto ha dimostrato, con dolcezza, passione e grandi capacità tecniche, di saper far sue le note del grande autore romantico, siano esse raccolte in sonate, polacche, scherzi o mazurche. Sicuramente, con lei e con Zhu, il Civico ha accolto due giovani, grandi musicisti, destinati meritatamente a entrare nel Gotha della musica classica. ◆ [M.D.Z.]

conta undici appuntamenti, organizzata da APS Centro Studi Internazionale Altre Origini S-CIAO, con la collaborazione del Comune di Schio, della biblioteca e della libreria Bortoloso. ◆ [M.D.Z.]
Simon Zhu e Rikako Tsujimoto

