P. Castelli - Q. Lombardo Il passaggio della farmacia - Di padre in figlio e non solo
Paola Castelli, laureata in Economia e Commercio all’Università degli Studi di Pavia nel 1997, collabora con la madre, dottoressa Giovanna Castelli, nello studio di famiglia, svolgendo attività di consulenza tributaria e societaria per numerose farmacie, per medie e grandi società industriali e commerciali, inclusi importanti gruppi multinazionali. Da quasi sessant’anni lo Studio Castelli svolge attività di consulenza tributaria, legale, contrattuale e societaria nonché attività di revisione contabile per farmacie, associazioni di categoria dei farmacisti, società industriali e commerciali, inclusi importanti gruppi multinazionali nonché attività di elaborazione dati contabili per numerose farmacie. Quintino Lombardo è avvocato cassazionista. Si è laureato in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” nel 1992, indirizzando quasi da subito la propria attività professionale nel campo del diritto sanitario e farmaceutico. Dal 2003 è partner di Cavallaro, Duchi e Lombardo - Studio Legale Associato. Dalle due sedi di Milano e di Roma, l’attività professionale dello Studio Legale Associato Cavallaro, Duchi e Lombardo è svolta su tutto il territorio nazionale, principalmente in ambito amministrativo e civile, con particolare riguardo al diritto della sanità, pubblica e privata, ed al diritto delle farmacie, ivi compresa la difesa in sede penale rispetto ai reati specifici delle professioni sanitarie.
Paola Castelli Quintino Lombardo
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Il passaggio della farmacia Di padre in figlio e non solo
Il tema della successione dei beni all’interno del nucleo familiare riguarda un numero considerevole di titolari di farmacia e di loro familiari. Non è facile dipanare casi in cui le consuete difficoltà degli “affari di famiglia” si intrecciano con quelle di chi, per esempio, avendo figli farmacisti e non farmacisti, non disponga di un patrimonio che possa garantire a questi ultimi una quota di eredità paragonabile al valore della farmacia. Il rischio di un conflitto tra i coeredi rischia di essere elevato. Il passaggio generazionale, inoltre, rappresenta una delle fasi più critiche della vita di ogni azienda, sia quando è attuato in favore di terzi, sia quando l’obiettivo è quello di tramandare l’attività di generazione in generazione. Se nel primo caso si tratta di trovare la soluzione economicamente e fiscalmente più adatta, nel secondo devono essere effettuate considerazioni ben più ampie: ad essere in gioco non è soltanto l’aspetto “tecnico” di tale passaggio (legale, economico-finanziario, fiscale, organizzativo eccetera), ma anche la sfera privata e psicologica dei soggetti interessati. Il tema dunque è caldo e il volume, realizzato grazie al contributo educazionale di Takeda Italia, si propone di fare un po’ di chiarezza sull’argomento. E lo farà, prendendo spunto da casi emblematici, concreti, su due fronti: quello legale e quello fiscale. I testi, infatti, sono a cura dell’avvocato Quintino Lombardo, partner di Cavallaro, Duchi e Lombardo - Studio Legale Associato, che ha sedi a Milano e a Roma, e di Paola Castelli, dottore commercialista dello Studio Castelli, che ha sede principale a Varese e sede secondaria a Milano.
Paola Castelli - Quintino Lombardo
Il passaggio della farmacia Di padre in figlio e non solo
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Indice
GLI AUTORI
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INTRODUZIONE
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IL PASSAGGIO GENERAZIONALE DELLA FARMACIA INTER VIVOS Premessa LA DONAZIONE DELLA FARMACIA
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La parola all’avvocato
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La parola al commercialista
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IL PATTO DI FAMIGLIA
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La parola all’avvocato
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La parola al commercialista
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LA CESSIONE A TITOLO ONEROSO
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La parola all’avvocato
48
La parola al commercialista
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IL PASSAGGIO GENERAZIONALE DELLA FARMACIA MORTIS CAUSA
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Premessa
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La parola all’avvocato
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La parola al commercialista
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CASE HISTORY
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CONCLUSIONI
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Gli autori Paola Castelli, dopo il diploma di maturità classica, si laurea in Economia e Commercio all’Università degli Studi di Pavia. È iscritta all’Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti contabili di Varese nonché al Registro dei Revisori Contabili. Ha seguito diversi master di diritto tributario nazionale ed internazionale, sia in Italia sia all’estero, corsi di approfondimento in materia legale e fiscale e in materia di controllo di gestione. Relatore a corsi, convegni e seminari, pubblicista, ha collaborato con testate di categoria a diffusione nazionale. Nipote del dottor Paolo Castelli, fondatore dello Studio Castelli, collabora con la madre, dottoressa Giovanna Castelli, nello Studio di famiglia svolgendo attività di consulenza tributaria e societaria per numerose farmacie, per medie e grandi società industriali e commerciali, inclusi importanti gruppi multinazionali. Fondato nel 1951, nello Studio Castelli, che ha sede principale in Varese e sede secondaria in Milano, oggi operano numerosi e qualificati collaboratori.
Quintino Lombardo è avvocato cassazionista. Si è laureato in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” nel 1992, indirizzando quasi da subito la propria attività professionale nel campo del diritto sanitario e farmaceutico. Dal 2003 è partner di Cavallaro, Duchi e Lombardo - Studio Legale Associato. Dalle due sedi di Milano e di Roma, l’attività professionale dello Studio Legale Associato Cavallaro, Duchi e Lombardo è svolta su tutto il territorio nazionale, principalmente in ambito amministrativo e civile, con particolare riguardo al diritto della sanità, pubblica e privata, ed al diritto delle farmacie, ivi compresa la difesa in sede penale rispetto ai reati specifici delle professioni sanitarie.
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Il passaggio della farmacia - Di padre in figlio e non solo
INTRODUZIONE di Paola Castelli Il passaggio generazionale rappresenta una delle fasi più critiche della vita di ogni azienda, sia quando è attuato in favore di terzi con scopo realizzativo, sia quando l’obiettivo è quello di tramandare l’attività di generazione in generazione. Se nel primo caso si tratta di trovare la soluzione economicamente e fiscalmente più adatta, nel secondo caso devono essere effettuate considerazioni ben più ampie: ad essere in gioco non è soltanto l’aspetto “tecnico” di tale passaggio (legale, economico-finanziario, fiscale, organizzativo eccetera), ma anche la sfera privata e psicologica dei soggetti interessati. La difficoltà risiede nel fatto che, nonostante l’evoluzione della struttura sociologica della famiglia, permane, tuttavia, una struttura che potrebbe essere definita piramidale. In cima alla piramide si colloca l’imprenditore, titolare dell’azienda-farmacia o comunque socio che gestisce la società. Per quanto l’imprenditore sia aperto alla collaborazione dei familiari e possa essere propenso alla delega, è lui l’anima dell’azienda, che è la sua “creatura”. Il lavoro profuso, i sacrifici e le ambizioni che l’azienda incarna ne fanno un aspetto rilevante e indispensabile della vita di ogni imprenditore che, quindi, aspira alla “immortalità” della propria azienda, in cui si identifica. Se limitatamente all’azienda tale desiderio è realizzabile, viceversa l’imprenditore deve, prima o poi, affrontare il problema di stabilire chi gli succederà nella leadership della propria impresa. Un momento estremamente cruciale riguarda il timing della scelta: i “passaggi del testimone” di successo sono, infatti, quelli in cui l’imprenditore ha pianificato con tempestività il futuro della proprietà e della gestione della propria azienda e ha esaminato gli strumenti a disposizione per attuare tale passaggio, ponderandone attentamente le implicazioni sia civilistiche sia fiscali. Una pianificazione programmata e condivisa tra i legittimari non solo può dare un impulso allo sviluppo dell’impresa, ma anche rafforzare i legami affettivi tra gli attori coinvolti in quanto ognuno ha la possibilità di esprimere le proprie perplessità ed esigenze; per contro
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Introduzione
sottovalutare tale fase può determinare un’involuzione del sistema aziendale e della relativa gestione. Stabilito il momento migliore in cui fare “largo ai giovani”, occorre individuare il soggetto beneficiario del trasferimento. Se nel passaggio generazionale delle aziende in generale il problema è sostanzialmente quello di scegliere i possibili successori aventi le caratteristiche necessarie a gestire l’azienda, nel caso delle aziende-farmacie il problema è più ampio. La normativa sanitaria impone, infatti, che il nuovo titolare dell’azienda ovvero di quota di partecipazione in società, titolare di farmacia, sia un farmacista iscritto all’albo ed idoneo ex articolo 12 della Legge 2 aprile 1968 n. 475 e successive modificazioni: è, quindi, essenziale verificare con tempestività e precisione il tempo necessario al “prescelto” per conseguire i requisiti previsti ex lege ai fini dell’assunzione della titolarità. Evidentemente, nell’individuare “il delfino”, il primo pensiero è rivolto ai figli o ai familiari che, magari, già collaborano nell’impresa la quale, molto spesso, è gestita in forma di impresa familiare. Sebbene non si nasca “farmacisti - imprenditori”, i figli dei titolari sono, quantomeno sulla carta, le persone più indicate per far proseguire una tradizione e per portare avanti i valori dell’impresa. Tuttavia, i potenziali successori sono persone diverse dai loro genitori: sono nati in un mondo diverso, in un diverso periodo storico, in un contesto sociale generalmente più agiato, in un contesto economico caratterizzato dalla globalizzazione e da competitors sempre più agguerriti. A ciò si aggiunga poi che essi devono gestire la fase matura dell’impresa, non il suo start up. La successione dell’azienda è, quindi, complessa poiché pone due generazioni a confronto, spesso con visioni ed aspettative diverse. Da un lato, le “new entry” tendono a volte ad essere iper critiche nei confronti dell’impresa e del proprio predecessore, dall’altro lato il genitore titolare non sempre è disposto a mettere in discussione il proprio modus operandi e le proprie strategie e, quindi, ad accettare il confronto. Tutto questo talvolta può essere foriero di discussioni e conflitti, che non devono essere considerati negativamente, ma devono essere percepiti come fisiologici momenti della dialettica aziendale. La conflittualità tra il titolare e i
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Il passaggio della farmacia - Di padre in figlio e non solo
futuri eredi può anche nascere da due esigenze spesso divergenti: la volontà di affidare la gestione all’erede più idoneo o meritevole e quella di essere equo nella suddivisione del patrimonio. Spesso, infatti, l’azienda-farmacia costituisce un bene rilevante nel patrimonio del titolare e, quindi, attribuendola ad un solo erede, magari l’unico farmacista, si rischia di non conguagliare adeguatamente gli altri eredi. È evidente che quando è possibile un’equa suddivisione del patrimonio comprendente la farmacia esistono istituti che consentono una pianificazione della successione, anche in vita (donazione, patto di famiglia, conferimento e successiva cessione/donazione di quote, successione testamentaria), ma, qualora ciò non sia possibile, gli eredi devono condividere le problematiche della gestione provvisoria e le possibili soluzioni al fine di evitare conflitti che possono essere fatali per la gestione dell’azienda e per il realizzo del patrimonio ereditario. I possibili conflitti tra eredi non sono facilmente superabili e, considerando l’attuale termine biennale della gestione provvisoria, non è remota l’ipotesi che la risoluzione passi attraverso il trasferimento a terzi dell’azienda-farmacia. Quando più di un erede è farmacista, deve essere valutata la possibilità di costituire una società, liquidando i non farmacisti o associandoli in associazione di capitali. In ogni caso una possibile soluzione del conflitto è la nomina di un soggetto terzo indipendente ed esperto nella valutazione di aziende farmacie che stabilisca l’equo valore attribuibile all’azienda. Il conflitto è un elemento di qualsiasi contesto sociale, da gestire strategicamente al fine di individuare la soluzione operativa migliore che espliciti e realizzi l’interesse comune a raggiungere risultati che siano reciprocamente vantaggiosi. Va anche detto che, nonostante tali diversità e le conseguenti ineluttabili divergenze di opinione, i familiari che subentrano al titolare hanno una sorta di “congenito istinto naturale” nello svolgere l’attività di famiglia, proprio per il fatto di essere cresciuti sin da piccoli a stretto contatto con tale realtà aziendale e, grazie alla stretta convivenza in azienda con il titolare, ne acquisiscono solitamente le abitudini e le tecniche gestorie nonché l’esperienza, a volte anche superandolo.
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Introduzione
In questo caso la scelta è quella della successione, della donazione ovvero del patto di famiglia, a meno che l’entità del patrimonio dell’imprenditore o il numero degli eredi non consenta una suddivisione equa del patrimonio. In questo ultimo caso possono essere valutate, oltre al leverage buy-out da parte del figlio farmacista che si indebita per acquistare l’azienda a titolo oneroso, anche la donazione con onere modale. Potrebbe accadere che i familiari, pur avendo le “carte in regola” per proseguire nell’attività, abbiano aspirazioni diverse dall’imprenditore e preferiscano, quindi, orientarsi verso altre strade che la laurea in farmacia o in Ctf apre loro; potrebbe ancora accadere che i possibili successori non abbiano i requisiti richiesti dalla normativa sanitaria ai fini dell’assunzione della titolarità della farmacia o delle quote di partecipazione. In entrambi i casi l’imprenditore valuterà il trasferimento della farmacia a titolo oneroso attraverso un contratto di compravendita d’azienda o di cessione di quote di partecipazione a terzi o comunque a soggetti che, pur non appartenendo al nucleo familiare dell’imprenditoretitolare, godono della sua fiducia. In alcuni casi il titolare posticipa il “ricambio generazionale”, decisione particolarmente difficile a causa del profondo legame affettivo che lo unisce sia alla propria famiglia sia alla propria azienda e lascia che siano gli eventi della vita a decidere per lui. In questo caso la farmacia o le quote di partecipazione cadono in successione e vengono intestate per il periodo transitorio concesso dalla legge, oggi ridotto a due anni, all’erede ovvero alla comunione ereditaria. Attraverso l’aiuto di un professionista super partes è quasi sempre possibile trovare la soluzione più adatta ai desideri di ognuno nello spirito di equità e collaborazione che è alla base della coesione familiare. Il passaggio generazionale, se oculatamente e correttamente attuato, rappresenta la spinta in avanti, la linfa vitale per l’azienda: tale opportunità di sviluppo, se affiancata da trasparenza nei rapporti, chiarezza, completezza e precisione dei contratti, pianificazione della gestione, incentivazione, motivazione e coesione tra gli operatori, garantisce all’azienda successo e longevità.
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Parte I- Il passaggio generazionale della farmacia inter vivos
Il passaggio generazionale della farmacia inter vivos PREMESSA La gestione di qualsiasi azienda impone al titolare di affrontare diverse sfide e adempiere a numerosi obblighi. Rispondere alle esigenze del mercato sfruttando al meglio le risorse disponibili, adattarsi tempestivamente e con dinamicità ai cambiamenti in atto nel settore di appartenenza, senza mai perdere di vista gli obbiettivi prefissati, sono i passaggi obbligati per una gestione aziendale efficace ed efficiente. Raggiungere siffatte mete richiede una profonda preparazione e un costante aggiornamento da parte del titolare non solo dal punto di vista professionale, ma anche da quello civilistico-fiscale. Considerata la mutevolezza del contesto in cui la farmacia opera, la gestione aziendale nella sua accezione più ampia non può, quindi, essere improvvisata, bensì attentamente pianificata. Occorre abbandonare l’ottica conservatrice e propendere per una visione più elastica di quella che deve essere l’evoluzione del sistema aziendale: il management aziendale deve essere flessibile, pronto ad adattarsi agli imprevisti ed essere costantemente aggiornato. Ma non solo. La gestione dei rapporti umani tra coloro che lavorano in farmacia è un aspetto che un buon imprenditore non deve mai sottovalutare. È evidente come, a prescindere dall’entità giuridica cui è riconosciuta la titolarità della farmacia, risulti cruciale l’esame dei rapporti che si instaurano tra i vari soggetti che in essa collaborano o comunque influenzano la conduzione dell’attività. Da tali rapporti possono, infatti, nascere conflitti la cui prevenzione è indubbiamente un fattore fondamentale di successo. Un approccio attivo da parte dell’imprenditore può evitare tali conflitti e costituire la chiave per una gestione strategica dell’azienda; viceversa, un comportamento passivo e l’incapacità di prevenire tali dissidi possono essere la causa di risultati deludenti. Pertanto, un farmacista che sia anche un valido imprenditore deve saper cogliere il momento giusto per modificare l’assetto
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Il passaggio della farmacia - Di padre in figlio e non solo
aziendale, trasferendo l’azienda ai propri figli ovvero a terzi. La scelta è estremamente delicata non solo per il relativo impatto sui rapporti familiari, ma anche per le implicazioni civilistiche e fiscali. In tal caso la considerazione “fiscus post omnes” deve, quindi, essere contraddetta: anche le implicazioni fiscali possono, infatti, concorrere alla scelta e in taluni casi essere “l’ago della bilancia”. Il passaggio generazionale dell’azienda-farmacia attuato inter vivos può realizzarsi con modalità differenti a seconda che la stessa sia gestita in forma di impresa individuale ovvero di società nonché a titolo gratuito ovvero a titolo oneroso. Nel primo caso la scelta può ricadere sulla donazione d’azienda, gravata o meno da onere modale, sulla donazione di quote di partecipazione ovvero sul patto di famiglia, mentre nel secondo caso l’opzione è la vendita dell’azienda. Alternativa che si colloca “a metà strada” tra le precedenti è il conferimento d’azienda con successiva donazione ovvero cessione di quote di partecipazione al capitale sociale della società conferitaria. È evidente come la propensione per una modalità piuttosto che un’altra dipenda anche dalle peculiarità della singola realtà TRASFERIMENTI INTER VIVOS
TRASFERIMENTO A TITOLO GRATUITO
DONAZIONE D’AZIENDA
DONAZIONE IN QUOTE
DONAZIONE MODALE
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DONAZIONE MODALE
TRASFERIMENTO A TITOLO ONEROSO
PATTO DI FAMIGLIA
VENDITA DELL’AZIENDA
VENDITA CON COSTITUZIONE DI VITALIZIO
Parte I - Il passaggio generazionale della farmacia inter vivos
aziendale in gioco ovvero dalle scelte già attuate. Si pensi al caso della farmacia, impresa individuale, gestita in forma di impresa familiare: attuare il passaggio generazionale, momento come più volte rilevato già di per sé delicato della vita di qualsiasi azienda, comporta per il titolare la preventiva quantificazione e liquidazione dei diritti di credito maturati ex articolo 230-bis del Codice civile dai familiari che hanno prestato la propria opera in farmacia conseguente alla cessazione dell’impresa familiare. Trattasi di un’altra fase delicata della vita aziendale che è bene non sottovalutare, non solo perché anch’essa ha implicazioni fiscali, ma anche perché un’equa suddivisione del patrimonio del titolare richiede una corretta quantificazione dei diritti di credito dei familiari. Al riguardo è opportuno ricordare che il Codice civile (articolo 230-bis) attribuisce ai partecipanti all’impresa familiare rilevanti diritti: ♦ il diritto, riconosciuto a prescindere dalla quantità e qualità del lavoro prestato, al mantenimento, secondo le condizioni della famiglia; ♦ il diritto ad una quota di partecipazione agli utili della farmacia, che deve essere proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro effettivamente prestato nell’impresa in modo continuativo; ♦ il diritto di credito nei confronti del titolare per la quota di spettanza del familiare del maggior valore che l’azienda o i singoli beni, incluso l’avviamento, acquisiscono durante la durata del rapporto di collaborazione familiare; ♦ il diritto di partecipare alle decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi di valore, la gestione straordinaria, gli indirizzi produttivi e la cessazione dell’attività; tali decisioni devono essere approvate dalla maggioranza dei familiari; ♦ il diritto di prelazione verso i terzi nel caso di divisione ereditaria o di trasferimento di azienda. La cessazione dell’impresa familiare produce effetti ex nunc. Pertanto, la quota di reddito verrà imputata al familiare che cessa la propria attività in proporzione alla durata della sua collaborazione nell’impresa. Per quanto concerne i diritti di credito per incrementi patrimoniali occorre rilevare che, nel caso di uscita del collaboratore
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Il passaggio della farmacia - Di padre in figlio e non solo
familiare, non vi è alcun realizzo degli incrementi patrimoniali, anche in relazione all’avviamento. Il collaboratore familiare percepisce, quindi, un importo, generalmente rilevante, che non è soggetto a tassazione. Viceversa, il titolare non potrà dedurre dal reddito d’impresa l’importo corrisposto: i collaboratori familiari, infatti, sono creditori personali dell’imprenditore e, quindi, l’obbligo alla liquidazione dei diritti derivanti dalla partecipazione all’impresa familiare rappresenta un debito personale del farmacista titolare. Né potrebbe essere diversamente posto che il farmacista imprenditore è l’unico soggetto responsabile dell’impresa (si pensi tipicamente al caso del fallimento: i collaboratori familiari, in quanto tali, risultano estranei alle responsabilità verso i creditori). Sulla natura fiscale dei diritti di credito dei collaboratori familiari va rilevato, tuttavia, che la dottrina non è univoca. Alcuni autori sostengono che gli stessi abbiano natura reddituale e siano conseguentemente deducibili per il titolare. Si tratta, però, di una posizione minoritaria, non condivisa dall’Amministrazione Finanziaria, che, invece, ritiene che le somme corrisposte ai collaboratori familiari abbiano natura patrimoniale e non reddituale e, pertanto, non siano tassabili in capo al collaboratore né deducibili in capo al titolare. Si ritiene che le somme liquidate ai collaboratori familiari per incrementi dell’azienda abbiano natura patrimoniale e, pertanto, non siano tassabili in capo al collaboratore, né deducibili per il titolare. Paola Castelli
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Parte I - La donazione della farmacia
LA DONAZIONE DELLA FARMACIA La parola all’avvocato CHE COSA È LA DONAZIONE? Le recenti modifiche al regime tributario della donazione hanno molto rivitalizzato l’interesse per un istituto tra i più antichi del diritto civile, che è tornato quindi ad essere spesso utilizzato anche per il trasferimento generazionale della farmacia. Il significato giuridico della donazione, tuttavia, non coincide del tutto con il valore che si attribuisce alla parola secondo linguaggio comune. Quando si parla di donazione, infatti, di solito si calca l’accento sul gesto di liberalità, cioè sulla determinazione gratuita assunta da chi ha deciso di spogliarsi di un proprio bene per trasferirlo a qualcun altro. L’approccio è senz’altro corretto, ma è insufficiente, perché nel mondo giuridico le cose sono un po’ più complicate. Due aspetti vanno quindi subito sottolineati, a maggior ragione trattando di donazione della farmacia. Innanzitutto occorre osservare che la donazione è il contratto, come definito dall’articolo 769 del Codice civile, «con il quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa una obbligazione». Il cd. animus donandi, cioè lo spirito di liberalità in mancanza di alcun corrispettivo della disposizione patrimoniale, costituisce quindi la causa essenziale del contratto, ma non l’unico elemento che lo caratterizza. Ad essa si aggiunge necessariamente l’arricchimento che l’atto liberale dispositivo effettuato da chi vuole donare (il donante) deve produrre in capo a chi riceve la donazione (il donatario), cioè l’incremento obiettivo del patrimonio di quest’ultimo. La natura contrattuale della donazione spiega bene come non possa darsi donazione se non nell’accordo di due o più
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Il passaggio della farmacia - Di padre in figlio e non solo
parti: non basta la volontà del donante di trasferire il bene, se non c’è la correlata volontà del donatario di accettare la donazione «per costituire, regolare […] un rapporto giuridico patrimoniale» (articolo 1321 del Codice civile). Di conseguenza le parti hanno notevoli margini di autonomia nello stabilire il contenuto dei loro rapporti, cosicché ritenere che la donazione si esaurisca nel solo atto di liberalità pare davvero riduttivo rispetto alla prassi concreta dell’istituto. In secondo luogo, per cogliere il significato e le conseguenze della donazione sulla vita familiare e sulle sorti della farmacia, limitarsi a contemplare soltanto l’assetto contrattuale dei rapporti tra donante e donatario può talvolta risultare insufficiente o addirittura fuorviante. Non per nulla, la disciplina della donazione è inserita nel Codice civile al titolo V del libro II riguardante le successioni per causa di morte e, normalmente, nei testi giuridici l’esposizione riguarda le “successioni e donazioni”. Da una parte, infatti, l’animus donandi che inspira l’atto di donazione ha molto in comune con la liberalità propria dell’atto testamentario e ne condivide in parte le regole, con la differenza che la donazione è atto tra vivi che produce effetti contrattualmente vincolanti, immediati o rinviati nel tempo a seconda di ciò che le parti hanno stabilito, mentre il testamento è «un atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse» (articolo 587 del Codice civile). Dall’altra parte, occorre rammentare che la stipula di una donazione deve sempre essere inserita nel contesto patrimoniale della famiglia, stante le notevoli conseguenze che essa produce nel momento della morte del donante. All’apertura della successione, infatti, le donazioni che sono state fatte in vita ai discendenti ed al coniuge sono considerate una sorta di “anticipazione” sui diritti del defunto, derivanti agli eredi per legge o per disposizione testamentaria. Ne consegue che, salva espressa dispensa, le donazioni ricevute dai cd. “legittimari”, cioè dal coniuge e dai figli del defunto, vanno imputate alla loro quota di riserva; se la donazione fatta in vita risulta lesiva dei diritti di qualcuno dei legittimari,
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Parte I - La donazione della farmacia
questi ultimi possono chiedere la “riduzione” della donazione - possono cioè “impugnare” la donazione - in modo da vedersi comunque garantita la quota di legittima inderogabile loro assegnata dalla legge; in ogni caso, le donazioni sono sottoposte alla disciplina della cd. “collazione”, dovendo essere riunite alla massa ereditaria, salvo dispensa, secondo il valore dei beni accertato all’apertura della successione, tutte le donazioni effettuate in favore dei legittimari. Si comprende bene, dunque, perché nello scegliere eventualmente la donazione quale strumento per realizzare il passaggio generazionale della farmacia, non è sufficiente fermarsi alla costruzione dell’accordo giuridico tra titolare donante e soggetto donatario, dovendosi necessariamente considerare tutta la situazione patrimoniale della famiglia nel suo insieme: la donazione in sé riguarda infatti solo le parti (donante e donatario), ma le conseguenze future del contratto, intrecciandosi con le vicende successorie familiari, possono riguardare anche altri soggetti e di tutto ciò è ovviamente necessario tener conto. IL CONTRATTO DI DONAZIONE Il Codice civile prevede per il contratto di donazione una disciplina particolare che merita di essere sinteticamente richiamata. Quanto alla forma, innanzitutto: non basta una scrittura privata, la donazione riguardante beni di non modico valore (e la farmacia certamente non è di modico valore) può essere conclusa solo mediante atto pubblico, sotto pena di nullità (articolo 782 del Codice civile). Si tratta cioè di una forma solenne, che è richiesta a tutela dell’effettiva volontà e spontaneità della decisione di donare e che non ammette deroghe a pena di completa invalidità dell’atto. Quanto all’oggetto, la donazione può riguardare beni mobili, beni immobili, crediti, universalità di beni, come nel caso dell’azienda farmacia, purché si tratti di beni effettivamente presenti nel patrimonio del donante, mentre in nessun caso può essere oggetto di donazione un bene futuro (articolo 771 del Codice civile). Quanto alla capacità di donare, il regime della donazione
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si avvicina più a quello del testamento che a quello del contratto: possono fare donazione soltanto coloro che hanno piena capacità di disporre dei propri beni (articolo 774 del Codice civile) e «la donazione fatta da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace di intendere o di volere al momento in cui la donazione è stata fatta, può essere annullata su istanza del donante, dei suoi eredi o aventi causa» (articolo 775 del Codice civile). In ciò consiste un’importante distinzione dal regime del contratto in generale: per l’annullamento del contratto, infatti, lo stato di incapacità naturale di uno dei contraenti deve essere noto all’altro contraente che ne ha approfittato; per l’annullamento della donazione, invece, stante per l’appunto il carattere di liberalità dell’atto, è sufficiente la situazione oggettiva della incapacità del donante, al di là della consapevolezza del donatario, sebbene di tale incapacità sia comunque richiesta una prova rigorosa. In altre parole, ad annullare una donazione per incapacità naturale del donante non è sufficiente invocare uno stato di grave malattia con inevitabile perturbazione dell’animo, ma è necessario fornire prova di un’alterazione delle capacità intellettive del donante, che abbia impedito a quest’ultimo di rendersi conto di quanto stava facendo, delle conseguenze e degli effetti della donazione. Trattandosi di un contratto, la donazione è ovviamente irrevocabile: una volta donata la farmacia, non si può cambiare idea e valgono in questo caso le stesse regole dei contratti. Il legislatore ha tuttavia previsto alcune circostanze particolari in presenza delle quali è possibile annullare o revocare la donazione, come nel caso dell’errore sul motivo della donazione, se il motivo risulti dall’atto pubblico e sia stato il solo che ha determinato il donante a compiere la liberalità (articolo 787 del Codice civile). Inoltre, la donazione è revocabile nelle ipotesi di ingratitudine del donatario ovvero di sopravvenienza di figli (articolo 800 del Codice civile). L’ingratitudine si verifica quando il donatario è stato condannato per aver commesso reati molto gravi a danno del donante, ovvero si è reso colpevole di ingiuria grave, ovvero ha arrecato un grave pregiudizio al patrimonio del donante o gli
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Parte I - La donazione della farmacia
ha addirittura rifiutato gli alimenti (articolo 801 del Codice civile). La sopravvenienza di figli costituisce causa di revoca sia nel caso in cui il donante ignorava di avere un figlio al momento della donazione, sia nel caso in cui il figlio sia nato successivamente. In entrambi i casi, il legislatore ha ritenuto opportuno consentire al donante una sorta di “ripensamento” sulla opportunità della donazione (articolo 803 del Codice civile). LA DONAZIONE INDIRETTA Capita piuttosto spesso che gli effetti pratici della donazione siano perseguiti attraverso atti giuridici differenti. Il caso più comune, per ciò che riguarda la farmacia, è quello del genitore che interviene in tutto o in parte nel pagamento del prezzo della farmacia acquistata da uno o più figli; oppure il caso del genitore che vende l’azienda ad uno o più dei propri figli ad un valore inferiore a quello di mercato (negotium mixtum cum donatione). Siamo di fronte, in tal caso, ad atti che hanno una ragione di liberalità mediata, secondo uno schema negoziale che non trova la propria causa tecnico giuridica nell’animus donandi. Si parla quindi di “donazione indiretta” ovvero di “liberalità atipiche”, atti negoziali che non sono sottoposti alla stessa forma solenne della donazione, ma che sono tuttavia equiparabili a una donazione per ciò che riguarda l’eventuale revocazione per causa d’ingratitudine e sopravvenienza di figli, e per ciò che riguarda l’eventuale riduzione per integrare la quota dovuta ai legittimari (articolo 809 del Codice civile). Anche la predisposizione di apparati negoziali siffatti, dunque, deve essere accompagnata dalla necessaria verifica degli assetti patrimoniali familiari. Poiché non è raro il caso che la farmacia costituisca il cespite familiare di maggior valore, una cessione di farmacia in favore di un figlio ad un prezzo inferiore a quello di mercato, se vi sono i presupposti, potrebbe essere qualificata come “donazione indiretta” e quindi contestata dagli altri figli, se essi si ritengono lesi nei propri diritti di legittimari, perché il valore residuo del patrimonio non è sufficiente alla garanzia della
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loro quota di legittima, con evidenti conseguenze sulla serenità dell’andamento aziendale. ELEMENTI ACCIDENTALI E DONAZIONE MODALE Il contratto di donazione, come accade in generale per i contratti, può essere adattato alle particolari esigenze delle parti mediante l’apposizione di elementi negoziali accidentali, come la condizione, il termine ed il modo. In generale, la condizione è un avvenimento futuro ed incerto, al quale le parti possono subordinare l’efficacia (cd. “condizione sospensiva”) ovvero la risoluzione (cd. “condizione risolutiva”) del contratto o di un singolo patto (articolo 1353 del Codice civile). Il termine costituisce un elemento futuro e certo al quale le parti possono subordinare l’efficacia (cd. “termine iniziale”) ovvero la cessazione dell’efficacia (cd. “termine finale”) del contratto o del singolo patto. Nel caso della farmacia, per esempio, è possibile donare l’azienda subordinando l’efficacia dell’atto dispositivo di liberalità ad una determinata scadenza, ovvero al verificarsi di un certo evento, legato alle vicende familiari ovvero all’esperienza professionale del beneficiario; oppure prevedere, per il verificarsi di determinate circostanze, il venir meno degli effetti della donazione e quindi la cd. retrocessione dell’azienda. L’elemento accidentale tipico della donazione è il cd. “modo” (dal latino modus, che significa “peso”, “onere”), consistente nella imposizione di un peso a carico del donatario, che con l’accettazione della donazione sarà tenuto all’adempimento di un’obbligazione in favore del donante o di un soggetto terzo, seppure entro i limiti del valore della cosa donata (articolo 793 del Codice civile). In tal caso la donazione viene detta “modale”: al contratto non viene meno l’animus donandi, cioè la causa di liberalità, ma ne vengono ridotti gli effetti di attribuzione patrimoniale, cioè viene ridotto l’arricchimento del donatario, il quale ha assunto l’obbligazione stabilita per l’appunto quale onere modale del contratto. Sarebbe pertanto erroneo (e contraddittorio) considerare l’onere quale “corrispettivo” della donazione (che
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per definizione è priva di corrispettivo): il modo si pone semplicemente come una specifica restrizione dell’effetto di liberalità, che non distorce ma precisa il significato economico della donazione. Si tratta di una clausola di notevole utilità, anche nel campo della donazione di farmacia, proprio per la flessibilità con la quale può essere strutturata. L’obbligazione che il donante pone a carico del donatario può consistere infatti nella liquidazione di un capitale oppure, come molto sovente accade, nella costituzione di una rendita vitalizia in favore proprio o del coniuge o di un altro familiare, se del caso reversibile in favore di ulteriori soggetti. Ancora, l’onere può consistere in un’obbligazione di fare, come ad esempio la stipula di un contratto o l’instaurazione di un determinato rapporto giuridico nei confronti di un terzo. Se è il caso, l’onere può consistere in più di una obbligazione: la donazione della farmacia dal padre titolare al figlio o ai figli farmacisti, per esempio, potrebbe essere onerata nello stesso tempo dalla costituzione di una rendita vitalizia (reversibile o meno, in ogni caso sarà dovuta dal nuovo titolare fino alla concorrenza del valore dell’azienda farmacia donata) e dall’obbligo di costituire un’associazione in partecipazione con apporto d’opera o di capitale oppure un rapporto d’impresa familiare, ex articolo 230 bis del Codice civile, se sussistono i presupposti, insieme all’eventuale componente della famiglia non farmacista. Va infine tenuto presente che, sempre a norma dell’articolo 793 del Codice civile, il puntuale adempimento dell’onere modale può essere richiesto direttamente da qualsiasi interessato e quindi innanzitutto dal beneficiario dell’onere medesimo e non solo dal donante che ha stipulato il contratto. L’eventuale inadempimento dell’onere da parte del donatario non costituisce di per sé una causa di risoluzione della donazione, ma una clausola espressamente risolutiva per l’inadempimento potrà ben essere inserita nell’atto di donazione se le parti vi acconsentiranno, così costituendo un adeguato presidio allo stesso.
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Il passaggio della farmacia - Di padre in figlio e non solo
La parola al commercialista L’imposta sulle successioni e donazioni è stata nuovamente introdotta nel nostro ordinamento dal D.Lgs. 3 ottobre 2006 n. 262 convertito, con modificazioni, nella Legge 24 novembre 2006 n. 286, a sua volta poi modificato dalla Finanziaria 2007 (Legge 296/2006); di fatto sono state ripristinate in gran parte le disposizioni di cui al D.Lgs. 346/1990 nel testo vigente alla data del 24 ottobre 2001, seppur con alcune variazioni. Scopo di tale “balzello” è assoggettare a tassazione i trasferimenti di beni e diritti a titolo successorio mortis causa ovvero per donazione o altra liberalità tra vivi. A ricadere nell’ambito applicativo di tale imposta sono, quindi, i trasferimenti mortis causa ovvero a titolo gratuito inter vivos aventi ad oggetto beni e diritti, ivi inclusa la costituzione di diritti reali di godimento (per esempio, l’usufrutto), la rinuncia a diritti reali o di credito nonché la costituzione di rendite e pensioni, che, in assenza di corrispettivo, determinano un arricchimento in capo al relativo beneficiario. Attualmente, ai sensi dell’articolo 2, comma 49, del D.Lgs. 262/2006, l’imposta di donazione si applica ai seguenti atti: ♦ atti di donazione; ♦ atti di trasferimento a titolo gratuito di beni e diritti; ♦ costituzione di vincoli di destinazione. L’imposta sulle donazioni, al pari di quella sulle successioni, varia, sia in termini di aliquota applicabile sia di franchigia riconosciuta, a seconda della linea e del grado di parentela che intercorre tra donante (de cuius in caso di successione mortis causa) e donatario (beneficiario del traferimento in caso di successione mortis causa; cfr. tabella a pagina 26). Qualora la donazione sia effettuata a favore di un soggetto legittimato a fruire della franchigia, per determinare l’imposta dovuta in sede di donazione, è opportuno verificare preventivamente l’ammontare di franchigia disponibile e, quindi, se il beneficiario abbia già utilizzato, in tutto o in parte, la franchigia per lui operante. L’articolo 57 del D.Lgs. 346/1990 impone,
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IMPOSTA SULLE DONAZIONI
ATTI DI DONAZIONE
ATTI DI TRASFERIMENTO A TITOLO GRATUITO DI BENI E DIRITTI ATTI DI COSTITUZIONE DI RENDITE O PENSIONI
COSTITUZIONE DI VINCOLI DI DESTINAZIONE
TRUST
ATTI DI TRASFERIMENTO DELLA PROPRIETÀ
FONDO PATRIMONIALE
ATTI DI COSTITUZIONE DI DIRITTI REALI DI GODIMENTO
INTESTAZIONE FIDUCIARIA
ATTI DI RINUNCIA A DIRITTI REALI O DI CREDITO
PATTO DI FAMIGLIA
infatti, il cumulo del valore attualizzato di tutte le donazioni, comprese quelle presunte di cui all’articolo 1, comma 3, del D.Lgs. 346/1990 ed escluse solamente le donazioni di cui agli artt. 742 (“Spese non soggette a collazione”) e 783 del Codice civile (“Donazioni di modico valore”) nonché quelle registrate gratuitamente o con pagamento dell’imposta in misura fissa a norma degli artt. 55 e 59 del D.Lgs. 346/1990, nonché degli atti a titolo gratuito, degli atti di costituzione di vincoli di destinazione e dei trust precedentemente effettuati dal medesimo donante a favore del donatario e per i quali non sia già stata assolta l’imposta (cd. “coacervo”). Tali valori, sommati al valore dell’ultima donazione, indicheranno la franchigia ancora disponibile.
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Il passaggio della farmacia - Di padre in figlio e non solo
SUCCESSIONE E DONAZIONE Imposta sulle successioni/donazioni (*)
Imposta ipotecaria (**)
Imposta catastale (**)
Coniuge e parenti in linea retta
4% con una franchigia di € 1.000.000,00 per ogni beneficiario
2% sul valore catastale degli immobili
1% sul valore catastale degli immobili
Fratelli e sorelle
6% con una franchigia di € 100.000,00 per ogni beneficiario
2% sul valore catastale degli immobili
1% sul valore catastale degli immobili
Altri parenti fino al 4° grado, affini in linea retta e affini in linea collaterale fino al 3° grado
6% senza franchigia
2% sul valore catastale degli immobili
1% sul valore catastale degli immobili
Altri soggetti
8% senza franchigia
2% sul valore catastale degli immobili
1% sul valore catastale degli immobili
(*) L’imposta si applica sul valore netto dell’asse ereditario o sul valore della donazione. Si precisa, inoltre, che se il beneficiario del trasferimento per successione ovvero per donazione è un soggetto portatore di handicap riconosciuto grave ai sensi della L. 5.02.1992 n. 104, l’imposta di successione/donazione dovrà essere applicata solo sulla parte del valore della quota di eredità o del legato che supera € 1.500.000,00. (**) Le imposte ipotecaria e catastale trovano applicazione qualora oggetto del trasferimento mortis causa ovvero per atto tra vivi sia un immobile. Qualora almeno uno dei soggetti beneficiari della successione ovvero il donatario abbia i requisiti per fruire relativamente all’immobile oggetto di trasferimento (mortis causa ovvero inter vivos) dei benefici prima casa, le imposte ipotecaria e catastale sono dovute in misura fissa (€ 168,00 ciascuna).
Pertanto, il valore globale netto dei beni e dei diritti oggetto di donazione ovvero di trasferimento a titolo gratuito è maggiorato di un importo pari al valore complessivo di tutte le donazioni, di tutti gli atti a titolo gratuito e di tutte le costituzioni di vincoli di destinazione effettuati dal disponente a favore dello stesso beneficiario. La franchigia spetta ad ogni beneficiario. Pertanto, qualora vi siano più donatari, ciascuno di essi può fruire per intero della franchigia, da applicarsi con riferimento al valore della quota o dei beni ad ognuno attribuiti: per esempio, una donazione a favore del coniuge e di due figli determina il riconoscimento di una franchigia complessiva di € 3.000.000,00 (€ 1.000.000,00 al coniuge e € 1.000.000,00 per ognuno dei figli). Le franchigie, però, non sono cumulabili; a mero titolo
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esemplificativo, se uno dei figli è anche portatore di handicap, beneficerà della franchigia più favorevole di € 1.500.000,00 e non anche di quella di € 1.000.000,00 prevista per i trasferimenti ai discendenti (cfr. Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 3/E del 22 Gennaio 2008). Accertata la capienza della franchigia, l’imposta viene calcolata sul valore dell’ultima donazione effettuata e non anche di quelle precedenti, che rilevano solo per escludere, in tutto o in parte, l’applicazione della franchigia. L’Amministrazione Finanziaria ha affermato (Circolare n. 3/E/2008) che se il valore trasferito è inferiore alla franchigia, l’imposta è, comunque, dovuta, tuttavia in misura fissa (€ 168,00). L’articolo 59, comma 1, lett. b) del D.Lgs. 346/1990, stabilisce, infatti, che «l’imposta si applica nella misura fissa prevista per l’imposta di registro […] per le donazioni di ogni altro bene o diritto dichiarato esente dall’imposta a norma di legge, ad eccezione dei titoli di cui alle lettere h) ed i) dell’art. 12». LA DONAZIONE DI AZIENDA La donazione d’azienda, ossia il trasferimento a titolo gratuito del complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa (articolo 2555 del Codice civile), ha assunto nel tempo un ruolo fondamentale nella pianificazione del passaggio generazionale dell’impresa. Ai fini delle imposte sui redditi l’operazione in commento è fiscalmente neutra (articoli 58 e 86 del Tuir): il donante non sconta cioè alcuna imposta (perché non emerge alcuna plusvalenza) purché il donatario assuma l’azienda agli stessi valori riconosciuti in capo al donante, cioè la contabilizzi agli stessi valori risultanti nella contabilità del donante (metodologia cd. “a saldi aperti”). L’Amministrazione Finanziaria, con la R.M. n. 237/E del 18 luglio 2002, ha confermato che vi è una perfetta neutralità fiscale (non emerge plusvalenza tassabile) in tutti i passaggi aziendali caratterizzati dalla non onerosità, in cui non si configura un corrispettivo. Il trasferimento della farmacia per atto gratuito, attuato nel rispetto della condizione di cui sopra, non determina, quindi,
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l’insorgere di plusvalenze tassabili ai fini Irpef nemmeno nel caso in cui la donazione dell’azienda farmacia avvenga a favore di una pluralità di familiari, persone fisiche che poi regolarizzano in società la comunione che tra di loro si viene così a formare. La plusvalenza latente (che sostanzialmente è rappresentata dall’avviamento e dall’eventuale maggior valore di beni e rimanenze) resta, quindi, “sospesa” e verrà tassata soltanto se e quando i donatari cederanno a loro volta la farmacia a titolo oneroso. La donazione d’azienda, invece, è soggetta ad imposta sulle donazioni. La base imponibile è costituita dal solo patrimonio netto contabile, escluso l’avviamento; in pratica è tassato un ammontare pari alla differenza fra i valori di bilancio dei beni strumentali, delle scorte di magazzino, dei crediti e delle altre attività e il valore dei debiti e delle altre passività. Pertanto, dal momento che il valore della farmacia è riferito in gran parte all’avviamento e che le aliquote sono comprese tra un minimo del 4% ed un massimo dell’8%, la tassazione non è elevata. Ciò in linea generale, in quanto il passaggio generazionale della farmacia, impresa individuale, può anche essere esente da imposta sulle donazioni purché sussistano contemporaneamente le seguenti condizioni: ♦ il beneficiario del trasferimento (donatario) deve essere un discendente del disponente (per esempio, il figlio o il nipote) ovvero il coniuge; ♦ il donatario deve proseguire l’esercizio dell’attività di impresa per almeno cinque anni decorrenti dalla data del trasferimento; ♦ contestualmente alla presentazione dell’atto di donazione, il donatario deve rendere apposita dichiarazione di impegno alla prosecuzione dell’attività. Il mancato rispetto di una delle condizioni sopra citate comporta la decadenza da tale disposizione agevolativa e conseguentemente il pagamento dell’imposta di donazione in misura ordinaria, della sanzione amministrativa del 30% su ogni importo non versato (articolo 13 del D.Lgs. 471/1997) e, infine, degli interessi di mora decorrenti dal giorno in cui l’imposta avrebbe dovuto essere corrisposta.
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Parte I- La donazione della farmacia
L’Agenzia delle Entrate ha confermato che non comporta decadenza il conferimento, da parte del beneficiario della donazione, dell’azienda ovvero della quota di partecipazione in altra società al fine di continuare l’attività d’impresa, prima che siano trascorsi cinque anni dalla donazione, in quanto «il conferimento, ai fini del mantenimento dell’agevolazione in parola, può essere assimilato, infatti, al proseguimento dell’esercizio dell’attività d’impresa» (cfr. Risoluzione n. 341/E del 23 novembre 2007 e Circolare 3/E/2008). Qualora il complesso aziendale trasferito, fruendo dell’esenzione da imposta sulle donazioni di cui sopra, includa anche l’immobile ove ha sede la farmacia, come confermato dall’Amministrazione Finanziaria (Ris. n. 341/E del 23 novembre 2007; articolo 3, comma 4ter, del D.Lgs. 346/1990; articoli 1, comma 2, e 10, comma 3, del D.Lgs. 347/1990), non sono dovute le imposte ipotecaria (per assolvere le formalità di trascrizione, iscrizione, rinnovazione e annotazione eseguite nei pubblici registri immobiliari) e catastale (per adempiere alle formalità relative al compimento di volture catastali di beni immobili). Ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, la donazione d’azienda è un’operazione fuori campo Iva ex articolo 2, comma 3, lett. b), del Dpr 633/1972, non concorre alla determinazione della base imponibile Irap (articolo 11, comma 3, del D.Lgs. 446/1997) e, ai fini dell’imposta di registro, la registrazione dell’atto è soggetta ad imposta di registro in misura fissa di € 168,00. Il farmacista che intende donare la farmacia ai propri figli non incorre, quindi, in particolari problemi fiscali, ma deve, tuttavia, tenere conto delle implicazioni derivanti da tale operazione: implicazioni civilistiche, quali l’eventuale lesione dei diritti degli eredi legittimari, e implicazioni in capo al donatario in caso di una successiva cessione dell’azienda ricevuta in “dono”: in quest’ultimo caso, infatti, il donatario potrebbe avere difficoltà nel trovare potenziali acquirenti, scoraggiati dal rischio di una revoca, tramite azione di riduzione per lesione di legittima, della donazione da parte di altri eredi legittimari del donante. Il potenziale acquirente potrebbe, inoltre, proprio per la modalità di provenienza dell’azienda oggetto di compravendita, incontrare maggiori diffi-
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coltà nel reperire i necessari mezzi finanziari per dare luogo all’investimento. Potrebbe anche capitare che il farmacista imprenditore decida di donare l’azienda, ma non il relativo immobile; come si suol dire “aliquid dare, aliquid retinere”. Tale operazione è complessa e fiscalmente onerosa. Infatti, in caso di perdita della qualifica di imprenditore, egli non sarebbe più soggetto alle norme sul reddito d’impresa e si vedrebbe tassare le plusvalenze latenti sull’immobile. In merito agli obblighi di presentazione della dichiarazione dei redditi (Modello Unico), il donatario deve indicare nella propria dichiarazione dei redditi il reddito d’impresa conseguito dopo l’atto di donazione; il donante indicherà, invece, il reddito d’impresa conseguito nel periodo antecedente la donazione. È opportuno ricordare che l’atto di trasferimento della titolarità della farmacia (nella fattispecie, la donazione dell’azienda-farmacia) è sottoposto alla condizione sospensiva del riconoscimento, in capo al soggetto beneficiario del trasferimento, di tale passaggio di titolarità da parte dell’Autorità Amministrativa competente a norma di legge (nella fattispecie, l’Asl territorialmente competente). Qualora l’atto di donazione venga effettuato nell’anno precedente rispetto alla data in cui l’Asl ha riconosciuto l’efficacia del trasferimento della titolarità della farmacia (per esempio, donazione stipulata il 15 novembre 2009 e decreto Asl di riconoscimento della titolarità della farmacia in capo al donatario con effetto dal 1° gennaio 2010), la relativa dichiarazione verrà presentata con riferimento al periodo in cui ha effetto la donazione (2010) e non già a quello in cui è stato stipulato il relativo atto (2009). LA DONAZIONE DI QUOTE DI PARTECIPAZIONE Al pari della donazione d’azienda, nonostante sia stata reintrodotta l’imposta sulle successioni e donazioni, l’operazione in esame non è soggetta ad oneri elevati in quanto la base imponibile è costituita dal patrimonio netto contabile aziendale, escluso il valore di avviamento. Anche il ricambio
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generazionale mediante donazione delle quote di partecipazione nella farmacia, gestita in forma societaria, è esente da imposizione alle condizioni precedentemente delineate in tema di donazione d’azienda. Le medesime considerazioni svolte in tema di donazione di azienda valgono ai fini delle imposte indirette. LA DONAZIONE CON ONERE MODALE La donazione sia dell’azienda-farmacia sia di quote societarie può essere gravata da un onere (articolo 793 del Codice civile), cioè da una clausola accessoria che limita l’arricchimento del donatario consistente in un obbligo, al quale è tenuto ad adempiere entro i limiti del valore della cosa donata. L’onere può essere rappresentato da una rendita che il donatario dovrà corrispondere al donante vita natural durante (rendita vitalizia o vitalizio), eventualmente con accrescimento a favore di altro soggetto (per esempio, il coniuge). Donando la farmacia con onere modale, il farmacista trasferisce l’azienda a un altro soggetto, che si impegna a corrispondergli una prestazione periodica prestabilita, per la durata della sua vita o di altra persona specificamente individuata nel contratto; conseguentemente, il valore complessivamente donato subisce una contrazione per effetto della previsione di tale onere in capo al beneficiario del trasferimento. Ai fini fiscali l’onere modale è tassato in capo al donante percipiente ai fini Irpef, quale reddito assimilato a quello di lavoro dipendente, ed è deducibile in capo al donatario erogante ex articolo 10 del Tuir. Evidentemente l’operazione in esame, a parità di aliquote tra donante e donatario, avrà sostanzialmente un effetto fiscalmente neutro. Ai fini delle imposte indirette, valgono le stesse considerazioni effettuate con riferimento alla donazione di azienda.
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IL PATTO DI FAMIGLIA La parola all’avvocato DONAZIONE E SUCCESSIONE MORTIS CAUSA, UN INTRECCIO COMPLESSO Nell’eventuale donazione della farmacia è indispensabile tenere ben presente il complessivo assetto patrimoniale della famiglia perché, come si diceva, le donazioni effettuate in vita producono significative conseguenze anche a distanza di anni. Nel momento dell’apertura della successione mortis causa del titolare di farmacia che ha donato l’azienda si pone il problema di confrontare il valore della farmacia trasferita per liberalità con il valore degli altri beni appartenenti al patrimonio del titolare medesimo. Nel nostro sistema successorio, infatti, nessuno ha il potere di disporre per intero del proprio patrimonio, per il periodo in cui avrà cessato di vivere, secondo una volontà assolutamente libera, ma si devono rispettare le regole della cd. “successione necessaria”. La cerchia più ristretta dei familiari, cioè il coniuge, i genitori ed i figli (detti “legittimari” o “successori necessari”), ha normalmente il diritto di ottenere una quota del patrimonio relitto (detta “quota di legittima” oppure “quota di riserva”), la cui dimensione è stabilita inderogabilmente dal Codice civile a seconda dei casi, spettando al titolare di farmacia solo di decidere la sorte e la destinazione della cd. “quota disponibile”. Al diritto alla “quota di legittima”, inoltre, non è possibile rinunciare se non dopo l’apertura della successione e ogni patto contrario è nullo in forza dell’articolo 458 del Codice civile, che vieta «ogni convenzione con cui taluno dispone della propria successione» ovvero «ogni atto con il quale taluno dispone dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta o rinunzia ai medesimi». In particolari situazioni, dunque, la donazione della farmacia non definisce pacificamente i rapporti tra tutti i familiari:
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nell’esempio più eclatante perché il valore del complesso aziendale donato può risultare superiore al valore degli altri beni presenti nel patrimonio del titolare di farmacia defunto, anche tenendo presente il valore della quota di patrimonio disponibile. A tutela dei diritti dei legittimari, dunque, la donazione è sottoposta alla disciplina della cd. “collazione”: ogni donazione è fittiziamente riunita alla massa ereditaria, secondo il valore dei beni accertato al momento della morte del donante; si determina così il valore del patrimonio complessivamente relitto, depurando lo stesso degli eventuali debiti; si calcola il valore delle quote obbligatoriamente spettanti a ciascuno dei familiari più stretti e lo si confronta con quanto effettivamente ricevuto per precedenti donazioni fatte in vita dal defunto, oppure per disposizioni testamentarie. E qui nascono i problemi: se i conti non tornano, se qualcuno dei familiari lamenta una perdita rispetto alle quote previste dal Codice civile, o per meglio dire una “lesione di legittima”, allora è possibile l’instaurazione di un contenzioso giudiziario, con la cd. “azione di riduzione” delle disposizioni patrimoniali lesive, in modo che siano ristabilite le proporzioni previste dalla legge. In qualche caso, chi ha ricevuto in dono o per disposizione testamentaria il cespite patrimoniale maggiore (la farmacia) può trovarsi a dover corrispondere notevoli conguagli a chi invece ha ricevuto beni di minore valore. CHE COSA È IL PATTO DI FAMIGLIA? Si noti bene che il problema dell’eventuale contenzioso derivante da pretesa lesione di legittima prescinde dalla volontà positiva o negativa di chicchessia o da eventuali accordi precedenti (che appunto in linea generale sarebbero nulli in forza del divieto dei patti successori di cui all’articolo 458 del Codice civile). Esso può essere determinato dall’eventuale aggiungersi di diverse disposizioni testamentarie, oppure dal variare del numero dei legittimari, oppure anche soltanto dal mutamento della valutazione oggettiva dei beni donati o caduti in successione nel momento dell’apertura di quest’ultima. Se quindi, per esempio, il titolare ha donato la farmacia ad
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uno dei figli, disponendo contemporaneamente un “bilanciamento” delle posizioni degli altri figli mediante donazione di altri beni mobili o immobili, tutto ciò potrebbe non essere sufficiente ad evitare il contenzioso (azione di riduzione, divisione ereditaria conflittuale), perché appunto nel trascorrere degli anni, a prescindere dalla volontà precedentemente espressa dai familiari, il valore dei beni coinvolti nell’operazione potrebbe essere obiettivamente mutato a favore dell’uno o dell’altro, risultando quindi sempre possibile rimettere in discussione gli assetti precedentemente raggiunti, con possibile nocumento per l’esercizio della farmacia e per la serenità dei rapporti familiari. Come è facile immaginare, si tratta di questioni che non riguardano solo la farmacia, ma tutta la realtà imprenditoriale di un capitalismo, italiano ed europeo, largamente organizzato su base familiare. Non per nulla già nel 1998 (Raccomandazione sulla successione nelle piccole e medie imprese - Comunicazione n. 98/C 93/02) la Commissione europea aveva rilevato che «dopo la creazione e la crescita, la trasmissione è la terza fase cruciale del ciclo di vita di un’impresa» e che in Europa 1,5 milioni di imprese rischiavano di venir meno nel corso degli anni proprio per questioni legate al conflitto in fase successoria, indicando fra le possibili misure «il ricorso a patti d’impresa o ad accordi di famiglia», evidenziando, però, che «tali accordi sono un’alternativa relativamente debole rispetto ai patti di successione ammessi nella maggior parte degli Stati membri» e che, pertanto «là dove i patti successori sono vietati (Italia, Francia, Belgio, Spagna, Lussemburgo), gli Stati membri dovrebbero considerare l’opportunità di introdurli, perché la loro proibizione complica inutilmente una sana gestione patrimoniale». Il “patto di famiglia” costituisce ad oggi la risposta dell’ordinamento giuridico italiano alle questioni di cui sopra ed alle sollecitazioni della Commissione europea. Gli articoli 768 bis e seguenti del Codice civile, come introdotti dalla recente Legge 14 febbraio 2006, n. 55 (“Modifiche al codice civile in materia di patto di famiglia”) definiscono una nuova disciplina che, in deroga espressa al tradizionale
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divieto di patti successori ed alla disciplina della collazione, consente il trasferimento dell’azienda ad uno o più soggetti scelti dal titolare, provvedendosi alla liquidazione “anticipata” delle quote di legittima in favore di tutti gli altri. In particolare, secondo l’articolo 768 bis del Codice civile, il “patto di famiglia” è «il contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle diverse tipologie societarie, l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti». Con l’obiettivo di garantire una serena continuità gestionale alla farmacia, è così diventato possibile superare il divieto dei patti successori e coinvolgere in un unico contesto giuridico tutti i figli, trasferendo ad uno o più di essi la farmacia e soddisfacendo da subito i diritti successori di ogni altro successore necessario, così da escludere alla radice possibili futuri conflitti. FORMA E CONTENUTO DEL PATTO DI FAMIGLIA In poche parole, il “patto di famiglia” è un patto successorio consentito dalla legge per la superiore finalità di garantire la stabilità dell’azienda in fase di trasferimento generazionale. Si tratta quindi di un’espressa e specifica deroga al divieto di cui all’articolo 458 del Codice civile che invece, allo scopo di tutelare la piena libertà di chi intende fare testamento (atto revocabile e/o modificabile fino all’ultimo istante di vita) e di evitare il sorgere di inopportune aspettative conseguenti alla morte di un soggetto terzo, continua a sanzionare con la nullità ogni altro tipo di patto successorio (istitutivo, dispositivo o rinunciativo). Il contratto deve essere stipulato necessariamente, a pena di nullità, con la forma solenne dell’atto pubblico (articolo 768 ter del Codice civile) e vi devono partecipare, secondo ciò che prevede l’articolo 768 quater, comma 1, del Codice civile, «anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore».
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L’oggetto del contratto consiste nel trasferimento a titolo gratuito dell’azienda (o del ramo d’azienda) o di partecipazioni societarie in capo al figlio o ai figli concordemente individuati, per esempio perché gli unici a disporre dei requisiti professionali necessari all’intestazione della farmacia ovvero delle quote di società tra farmacisti. Questi ultimi, cioè gli assegnatari della farmacia, «devono liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti; i contraenti possono convenire che la liquidazione, in tutto o in parte, avvenga in natura» (articolo 768 quater, comma 2, Codice civile) e quindi con l’eventuale attribuzione di specifici beni del patrimonio dell’assegnatario dell’azienda. L’obiettivo della stabilità giuridica delle attribuzioni è definito da quanto dispone l’articolo 768 quater, commi 3 e 4. Da una parte, infatti, «i beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell’azienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle quote di legittima loro spettanti» e «l’assegnazione può essere disposta anche con un successivo contratto che sia espressamente dichiarato collegato al primo e purché vi intervengano i medesimi soggetti che hanno partecipato al primo contratto o coloro che li abbiano sostituiti» (comma 3); dall’altra parte, «quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o riduzione» (comma 4). VANTAGGI E LIMITI APPLICATIVI DEL PATTO DI FAMIGLIA Non è questa la sede per discutere delle mille questioni applicative insorte con l’entrata in vigore della nuova disciplina, perché il discorso si farebbe ancor più tecnico e complesso. Ritengo però che il lettore più attento, a questo punto, dovrebbe aver ben compreso che il vantaggio principale del “patto di famiglia” consiste nel raggiungimento di un più elevato livello di stabilità giuridica del trasferimento dell’azienda in capo al figlio o ai figli che intendono proseguire nell’esercizio della farmacia; e nella contestuale possibilità di definire in via anticipata, prima ancora cioè della morte del capofamiglia,
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Parte II - Il patto di famiglia
le connesse questioni relative alla stima dei beni del patrimonio familiare ed alla liquidazione delle quote di legittima spettanti al coniuge ed agli altri figli. Parimenti, lo stesso lettore più attento avrà intuito qual è il principale limite applicativo dell’istituto: che al “patto di famiglia” devono necessariamente partecipare «anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore» (articolo 768 quater, comma 1). Se ciò non accade, se non c’è l’unanimità dei consensi, per esempio perché qualcuno dei legittimari non è d’accordo sul contenuto delle attribuzioni patrimoniali stabilite, secondo l’opinione diffusa dei commentatori il “patto di famiglia” non può essere stipulato, a pena di nullità. Come di comprende si tratta di un limite non da poco, perché nell’esperienza concreta l’unanimità dei legittimari è talvolta difficile da raggiungere, non solo per questioni puramente economiche, ma anche in ragione della complessità dei rapporti familiari e personali. Dove è possibile, tuttavia, vale la pena di avviare con pazienza la discussione ed il negoziato in famiglia, perché i vantaggi per la stabilità e per la serena continuità dell’esercizio della farmacia sono davvero notevoli.
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Il passaggio della farmacia - Di padre in figlio e non solo
La parola al commercialista Uno dei problemi gestionali più rilevanti delle imprese, come già sottolineato, è rappresentato dal “passaggio generazionale”. Si tratta di una problematica particolarmente sentita nel settore delle farmacie in quanto aziende di piccole dimensioni, spesso a gestione familiare, costituenti una parte rilevante del patrimonio del titolare; a ciò si aggiunga poi che non sempre tutti i figli o aventi causa hanno i requisiti necessari ex lege per assumerne la titolarità. In questo contesto le regole del diritto successorio spesso si scontrano con la necessità di favorire la continuità della gestione aziendale nel rispetto della normativa sanitaria in tema di titolarità dell’azienda farmacia nonché delle caratteristiche e delle capacità degli aventi diritto. Da tempo si era, quindi, avvertito il bisogno di una revisione del sistema successorio, almeno con riferimento al sistema “impresa”, al fine di superare le rigide limitazioni poste dal Codice civile ed evitare che i dissidi tra i familiari coinvolti diventassero un fattore di disgregazione delle aziende e dei patrimoni. In tale scenario il legislatore italiano ha emanato la Legge 14 febbraio 2006 n. 55 (pubblicata sulla G.U. n. 50 del 1° marzo 2006) che ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto del patto di famiglia, un’attesa deroga al generale divieto dei patti successori di cui all’articolo 458 del Codice civile: viene, infatti, prevista la liceità di accordi volti a disciplinare in via anticipata la successione dell’imprenditore o di chi è titolare di partecipazione societaria nel pieno rispetto dell’autonomia negoziale. Oggi, quindi, è possibile realizzare in vita ciò che in passato era attuabile solo a mezzo di testamento, ridimensionando in tal modo i rischi derivanti dalla scomparsa del loro titolare. Ma non solo: il patto di famiglia esclude l’alea che gli eredi, dopo avere approvato il patto, possano esercitare l’azione di riduzione e, quindi, chiedere un reintegro della quota ereditaria. Tale peculiarità, se riferita all’azienda-farmacia, ove l’even-
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Parte II - Il patto di famiglia
tuale azione di riduzione sopravvenuta potrebbe causare problematiche liquidatorie complesse tali da poter intaccare la capacità finanziaria e gestionale della farmacia, non va trascurata. Prima di addivenire alla formalizzazione del patto di famiglia (accordo familiare sottoposto alla generale disciplina del contratto) è necessario procedere alla preventiva liquidazione dei familiari che collaborano nell’impresa secondo quanto previsto dall’articolo 230-bis, comma 4, del Codice civile, in caso di impresa familiare, ovvero verificare il rispetto delle norme sul trasferimento delle quote, in caso di trasferimento di quote societarie. Il trasferimento dell’azienda ovvero delle partecipazioni societarie determina, da un lato, in capo al disponente un decremento del proprio patrimonio a titolo gratuito, dall’altro, un incremento delle disponibilità del beneficiario assegnatario senza il pagamento di alcun corrispettivo. Conseguentemente, è possibile sostenere che il passaggio generazionale attuato mediante il patto di famiglia avviene con spirito di liberalità. Ai fini fiscali l’assegnazione tramite patto di famiglia deve essere analizzata sotto il profilo sia dell’imposizione indiretta sia dell’imposizione diretta. È utile premettere che la novità e le caratteristiche di questo istituto impongono un’estrema cautela nell’affrontare l’aspetto impositivo. Infatti, il legislatore non ha previsto un’autonoma disciplina fiscale del patto di famiglia; ne deriva che l’applicazione delle norme fiscali debba avvenire per analogia con altri istituti, considerandone gli effetti giuridici. Il problema nasce proprio dal fatto che, stante la relativa novità di tale istituto, non vi è ancora un orientamento dottrinale univoco al riguardo. Volendo semplificare, esistono due grandi scuole di pensiero: la prima tende ad attribuire al patto di famiglia la natura di atto liberale (approccio unitario), la seconda, invece, individua accanto alla natura liberale un aspetto liquidatorio (approccio atomistico). Secondo l’approccio unitario vi è, quindi, un’assimilazione totale del patto di famiglia alla donazione/successione. Secondo tale impostazione, il patto di famiglia è, quindi,
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soggetto ad imposta sulle successioni e donazioni alle condizioni in precedenza descritte. Anche in tal caso il trasferimento può essere esente da tassazione: l’articolo 3, comma 4-ter, del D.Lgs. 346/1990 e successive modificazioni prevede, infatti, che anche i trasferimenti effettuati tramite patto di famiglia a favore dei discendenti e/o del coniuge, di aziende o rami di azienda e di quote sociali non sono soggetti all’imposta sulle successioni e donazioni a condizione che l’assegnatario del patto prosegua l’esercizio dell’attività d’impresa ovvero detenga la quota di partecipazione per un periodo non inferiore a cinque anni dalla data del trasferimento. A tal fine è necessario che il beneficiario rilasci un’apposita dichiarazione in tal senso contestualmente alla stipula dell’atto. Il mancato rispetto di tali condizioni comporta: ♦ la decadenza dal beneficio; ♦ il pagamento dell’imposta in misura ordinaria; ♦ il pagamento della sanzione amministrativa prevista dall’articolo 13 del D.Lgs. n. 471/1997 (30% dell’importo non versato); ♦ il pagamento degli interessi di mora decorrenti dalla data in cui l’imposta medesima avrebbe dovuto essere pagata. Come già rilevato in precedenza, secondo l’Amministrazione Finanziaria, la condizione della prosecuzione dell’attività d’impresa è da intendersi verificata anche nell’ipotesi di conferimento da parte dell’assegnatario, prima del decorso di cinque anni, in società del bene ricevuto attraverso il patto di famiglia, indipendentemente dal valore della partecipazione ricevuta a fronte del conferimento (R.M. n. 341/E del 23 novembre 2007); essa ha, altresì, riconosciuto che le attribuzioni ai legittimari non assegnatari sono soggette all’imposta sulle successioni e donazioni (Circolare n. 3/E del 22 gennaio 2008). Il presupposto di tale corrente di pensiero è il fatto che esiste un’unica causa di liberalità sottesa a tutti i trasferimenti che dal patto di famiglia derivano; ne deriverebbe la possibilità che il disponente proceda direttamente alla liquidazione degli eredi legittimari non assegnatari ovvero doti l’assegnatario dei
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beni o mezzi necessari a provvedere a tale liquidazione. Tale impostazione è, tuttavia, minoritaria. La maggior parte della dottrina sposa, invece, l’approccio atomistico. La disciplina fiscale del patto di famiglia ricalca quella degli istituti tipici individuati all’interno del patto di famiglia. Purtroppo, però, non esiste chiarezza in proposito. Alcuni autori assimilano il patto di famiglia ad una donazione con onere modale, altri ad un negozio misto con donazione, altri ancora evidenziano la natura di negozio divisionale ed altri, infine, la natura di negozio in cui coesistono la finalità liberale e quella solutoria. Evidentemente gli effetti fiscali dipendono dall’impostazione adottata. Ai fini delle imposte indirette, nel primo caso (donazione con onere modale) valgono pur sempre le norme sulla donazione; nel caso di negozio misto con donazione, si applica l’imposta sulle donazioni per la parte a titolo gratuito e l’imposta di registro per la parte a titolo oneroso; nel caso di negozio divisionale si applica l’imposta di registro dell’1%, mentre nell’ipotesi di natura liberale-solutoria, è dovuta l’imposta di registro dello 0,5% sulla componente di denaro e del 3% sulla componente diversa dal denaro. Se l’azienda, oggetto del patto di famiglia, ha anche una componente immobiliare (per esempio, l’immobile sede della farmacia) occorre chiedersi se siano dovute le imposte ipotecaria e catastale. Sul punto l’Agenzia delle Entrate ha precisato che «in riferimento alle modalità di applicazione delle imposte ipotecaria e catastale si osserva che, in base all’espresso rinvio alla disposizione agevolativa di cui all’art. 3, comma 4-ter, del Tus, recato, rispettivamente, dagli artt. 1, comma 2, e 10, comma 3, del Testo unico delle disposizioni concernenti le imposte ipotecaria e catastale, approvato con D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 347 (Tuic), le formalità di trascrizione e voltura catastale relative all’atto di donazione di un’azienda nella quale è compreso un immobile, sono esenti dalle imposte ipotecaria e catastale. La regolarizzazione del rapporto societario di fatto che i donatari intendono effettuare nell’atto di donazione, comporta la costituzione di una società mediante conferimento di azienda comprensiva di immobile ed è, quindi, soggetta all’im-
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posta di registro in misura fissa ai sensi dell’art. 4, lett. a), n. 3), della tariffa, parte prima, allegata al testo unico concernente l’imposta di registro, approvato con Dpr 26 aprile 1986, n. 131 (Tur) e alle imposte ipotecaria e catastale nella misura proporzionale ordinariamente prevista dal Tuir» (Ris. n. 341/E del 23 novembre 2007). Ai fini delle imposte dirette occorre distinguere il regime fiscale del disponente da quello del beneficiario del patto di famiglia e degli altri eredi legittimari che vengono liquidati. REGIME FISCALE IN CAPO AL DISPONENTE Ai fini delle imposte dirette, il patto di famiglia configura un’operazione fiscalmente neutra. L’articolo 58, comma 1, del Tuir prevede, infatti, che il trasferimento di azienda per causa di morte o per atto gratuito non costituisce realizzo di plusvalenza dell’azienda stessa qualora il beneficiario del trasferimento assuma l’azienda stessa ai medesimi valori fiscalmente riconosciuti nei confronti del dante causa. Tale neutralità fiscale è riconosciuta anche nel caso in cui l’azienda venga acquisita da uno solo degli eredi a seguito dello scioglimento della società esistente tra gli eredi entro cinque anni dall’apertura della successione. Analogamente vi sarà neutralità ai fini Irpef anche qualora oggetto del trasferimento siano partecipazioni societarie, in quanto l’articolo 67, comma 1, del Tuir prevede l’emersione di plusvalenza soltanto a seguito di cessione a titolo oneroso e non anche di trasferimento a titolo gratuito. REGIME FISCALE IN CAPO AL DISPONENTE
ASSEGNAZIONE DI AZIENDA Neutralità ai fini Irpef a condizione che il beneficiario assuma l’azienda agli stessi valori fiscalmente riconosciuti nei confronti del dante causa (art. 58 del Tuir)
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ASSEGNAZIONE DI QUOTE Neutralità ai fini Irpef ex art. 67, comma 1, lett. c) e c-bis) del Tuir
Parte II - Il patto di famiglia
REGIME FISCALE IN CAPO AL BENEFICIARIO DEL PATTO DI FAMIGLIA Qualora il beneficiario del trasferimento non sia un imprenditore, ai fini delle imposte dirette non vi è tassazione a condizione che lo stesso assuma l’azienda agli stessi valori riconosciuti in capo all’imprenditore disponente. Se, invece, il beneficiario è già imprenditore, lo stesso non sfugge a tassazione in quanto l’articolo 88, comma 3, del Tuir considera sopravvenienze attive «i proventi in denaro o in natura conseguiti a titolo di contributo o di liberalità, esclusi i contributi di cui alle lettere g) e h) del comma 1 dell’art. 85 del Tuir. Tali proventi concorrono a formare il reddito nell’esercizio in cui sono incassati ovvero in quote costanti nell’esercizio in cui sono stati incassati e nei successivi, ma non oltre il quarto». TRATTAMENTO FISCALE IN CAPO AL BENEFICIARIO DEL PATTO DI FAMIGLIA
BENEFICIARIO NON IMPRENDITORE
TASSAZIONE ASSENTE PURCHÉ VENGA RISPETTATA LA CONDIZIONE DI CUI ALL’ART. 58 DEL TUIR
BENEFICIARIO IMPRENDITORE
TASSAZIONE PRESENTE EX ART. 88, COMMA 3, DEL TUIR
REGIME FISCALE DELLE SOMME VERSATE A TITOLO DI LIQUIDAZIONE DAL BENEFICIARIO AGLI EREDI LEGITTIMARI DEL DISPONENTE Il beneficiario del patto di famiglia, a fronte dell’azienda ovvero della quota di partecipazione assegnata, deve compensare gli altri eredi legittimari, in denaro o in natura, con una somma o comunque un bene di valore corrispondente alla
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LA LIQUIDAZIONE DEI LEGITTIMARI
EFFETTI IN CAPO AI LEGITTIMARI
EFFETTI IN CAPO AL BENEFICIARIO LIQUIDATORE
Il patto di famiglia è un contratto che anticipa la successione mortis causa, attuando un mero spostamento patrimoniale privo di fonte. Pertanto, le liquidazioni non entrano a fare parte della base imponibile Irpef
Se considerate attribuzioni patrimoniali, le liquidazioni non sono deducibili per il beneficiario
quota di legittima ad essi spettante, salvo che questi ultimi non vi rinunzino in tutto o in parte. La dottrina prevalente attribuisce a tale compensazione natura non onerosa e, quindi, liberale; conseguentemente l’adempimento della liquidazione non genera materia imponibile in capo agli altri eredi legittimari non assegnatari. Va, tuttavia, rilevato che, qualora l’assegnazione riguardi beni aziendali plusvalenti ovvero aventi un valore normale maggiore del costo non ammortizzato, le plusvalenze sono tassate. Un caso tipico è quello dell’immobile aziendale o di altro bene strumentale utilizzato in compensazione. La tassazione deriva dal fatto che il bene è destinato a finalità estranee all’esercizio d’impresa. La compensazione degli altri legittimari presuppone il possesso da parte dell’erede assegnatario di risorse a tal fine adeguate. Questo aspetto limita, in alcuni casi, l’applicabilità dell’istituto. In ogni caso, al fine di evitare possibili contestazioni da parte dell’Amministrazione Finanziaria, è opportuno tenere agli atti tutta la documentazione a supporto della provenienza delle somme (per esempio, disinvestimenti di titoli o beni o disponibilità finanziarie) che sono state utilizzate per la liquidazione degli altri legittimari (articolo 38, commi 5 e 6, del Dpr
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600/1973, cd. Redditometro). L’utilizzo sempre più diffuso di accertamenti induttivi, ed in particolare del “Redditometro”, unito al fatto che l’Amministrazione Finanziaria richiede di fornire le prove della provenienza dell’investimento nei termini previsti dalle norme accertative (e, quindi, a distanza di anni), rende opportuno creare e conservare un dossier ordinato e completo da esibire all’occorrenza, al fine di evitare spiacevoli inconvenienti con il Fisco e difficoltà nel ricostruire la documentazione probatoria dovute al passare del tempo. REGIME FISCALE APPLICABILE ALLA SUCCESSIVA CESSIONE DELL’AZIENDA OVVERO DELLA PARTECIPAZIONE SOCIETARIA RICEVUTA TRAMITE PATTO DI FAMIGLIA Se, ai fini Irpef, il trasferimento tramite patto di famiglia dell’azienda ovvero delle quote societarie è fiscalmente neutro, il beneficiario non godrà della medesima neutralità fiscale in sede di un’eventuale successiva cessione. Da tale operazione emerge, infatti, una plusvalenza, tassata ai fini Irpef in capo al cedente come segue: cessione dell’azienda gestita in forma di impresa individuale: la plusvalenza è tassata per l’intero ammontare, in misura ordinaria, con le aliquote progressive Irpef (cfr. tabella).
Reddito imponibile
Aliquota
Irpef lorda
Fino a € 15.000,00
23%
23% del reddito
Oltre € 15.000,00 e fino a € 28.000,00
27%
€ 3.450,00 + 27% sulla parte che eccede € 15.000,00
Oltre € 28.000,00 e fino a € 55.000,00
38%
€ 6.960,00 + 38% sulla parte che eccede € 28.000,00
Oltre € 55.000,00 e fino a € 75.000,00
41%
€ 17.220,00 + 41% sulla parte che eccede € 55.000,00
Oltre € 75.000,00
43%
€ 25.420,00 + 43% sulla parte che eccede € 75.000,00
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In caso di azienda posseduta da almeno tre anni, il titolare cedente ha, quale alternativa, la possibilità di tassare la plusvalenza nell’esercizio in cui è stata realizzata e nei quattro successivi (articolo 86, comma 4, del Tuir). Tale rateizzazione è ammessa a condizione che il cedente continui l’attività imprenditoriale. Ulteriore alternativa concessa, tuttavia, in caso di azienda posseduta da più di cinque anni, è la facoltà di assoggettare la plusvalenza a tassazione separata: ciò significa tassare la plusvalenza con l’aliquota corrispondente alla metà del reddito complessivo netto del contribuente nel biennio anteriore all’anno in cui la plusvalenza è stata realizzata. In sede di saldo dell’Irpef relativa alla dichiarazione dei redditi dell’anno in cui è stata realizzata la plusvalenza, è dovuto un acconto del 20%; sarà poi l’Amministrazione Finanziaria a liquidare l’imposta definitiva, scomputando ovviamente l’acconto (20%) già corrisposto (articoli 17, lett. g, e 21 del Tuir). Ai fini delle imposte indirette, la cessione d’azienda è tassata in capo al cessionario con imposta proporzionale di registro (3%). Se poi l’azienda include anche il relativo immobile, sul valore dello stesso è dovuta l’imposta di registro (7%), l’imposta ipotecaria (2%) e l’imposta catastale (1%). Cessione dell’azienda di proprietà di società di persone: la plusvalenza realizzata da società di persone, anche se relativa ad azienda posseduta da più di cinque anni, è tassata ai fini Irpef in misura ordinaria, fatta salva la possibilità di optare per la rateizzazione della stessa in cinque anni (articolo 86, comma 4, del Tuir). Cessione di quota partecipazione: la plusvalenza è tassata diversamente a seconda che ad essere ceduta sia una partecipazione qualificata (quota di partecipazione superiore al 25% del capitale sociale) ovvero una partecipazione non qualificata (quota di partecipazione pari o inferiore al 25% del capitale sociale). La plusvalenza da cessione di partecipazione qualificata è tassata per il 49,72% del suo ammontare con le aliquote progressive Irpef, mentre la plusvalenza derivante dal realizzo di partecipazione non qualificata è interamente tassata con l’aliquota del 12,50%. Anche in tal caso, ai fini delle imposte indirette, l’atto è soggetto ad imposta di registro in misura fissa (€ 168,00).
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LA NORMATIVA ANTIELUSIVA Sebbene il patto di famiglia non sia un’operazione compresa tra quelle che l’articolo 37-bis del Dpr 600/73 considera come potenzialmente elusive, occorre tenere presente che l’Amministrazione Finanziaria interpreta in modo estensivo la norma antielusiva. L’articolo 37-bis, comma 1, del Dpr 600/73 prevede che «sono inopponibili all’Amministrazione Finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti». Si tratta di una norma che potrebbe interessare alcune operazioni particolari e straordinarie, solitamente propedeutiche al patto di famiglia, ma a volte anche successive. Per quanto concerne quelle propedeutiche si pensi al caso in cui il beneficiario non disponga di beni da destinare alla liquidazione degli altri eredi e il patrimonio familiare sia essenzialmente costituito dall’azienda oggetto del patto di famiglia. In questo caso, il disponente potrebbe decidere di effettuare prelievi dall’azienda con ciò assegnando al beneficiario del patto di famiglia un’azienda con passività aziendali. Si ritiene che i debiti dell’assegnatario della farmacia abbiano natura aziendale e che, quindi, spetti la deducibilità dei conseguenti interessi passivi; ciò in considerazione del fatto che il finanziamento viene erogato per permettere il trasferimento della titolarità della farmacia. Con riferimento, invece, alle operazioni poste in essere dopo l’assegnazione, sempre nell’ipotesi in cui il beneficiario non disponga di altri beni da destinare al conguaglio degli altri eredi legittimari, si consideri, per esempio, il caso in cui l’assegnatario debba intervenire sul patrimonio ricevuto al fine di rendere disponibili le risorse da assegnare ai legittimari esclusi. Anche in questo caso dovrebbe escludersi l’applicazione dell’articolo 37bis richiamato, in quanto sussistono valide ragioni economiche, trattandosi di operazione espressamente connessa con l’esecuzione del patto di famiglia.
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Il passaggio della farmacia - Di padre in figlio e non solo
LA CESSIONE A TITOLO ONEROSO La parola all’avvocato CESSIONE D’AZIENDA E PASSAGGIO GENERAZIONALE Nel valutare la strategia più utile nel passaggio generazionale della farmacia, si decide di ricorrere ad una cessione d’azienda a titolo oneroso innanzitutto quando per ragioni familiari e/o economiche si ritiene non vi siano le condizioni per procedere ad una liberalità. La donazione è atto fortemente impegnativo dal lato economico e, per ciò che riguarda le possibili complicazioni correlate agli aspetti successori, abbiamo già chiarito le opportunità ed i limiti applicativi del “patto di famiglia”. È dunque possibile che il titolare di farmacia intenda ottenere un capitale o una rendita dalla cessione dell’azienda in favore di qualcuno dei propri figli, al fine di garantirsi una sorta di “liquidazione” o la necessaria “integrazione” del proprio trattamento pensionistico. Talvolta poi si verifica che il titolare non intenda distaccarsi da subito e completamente dall’esercizio della farmacia e dalla gestione aziendale, preferendo tuttavia diminuire il proprio impegno e apporto professionale affidando nel contempo una maggiore responsabilità (e magari la stessa direzione della farmacia) alle nuove generazioni. Nel primo caso normalmente si realizza una cessione d’azienda (o una cessione di quote sociali, se l’impresa è condotta in forma societaria: in ogni caso chi acquista deve essere farmacista idoneo alla titolarità) mediante compravendita dietro pagamento di un prezzo oppure con costituzione di una rendita vitalizia. Nel secondo caso la cessione d’azienda si configura attraverso il conferimento della stessa in una società tra farmacisti appositamente costituita ai sensi dell’articolo 7 e ss. della Legge 8 novembre 1991, n. 362. In entrambe le ipotesi andrà effettuato un attento esame dei profili fiscali dell’impianto negoziale progettato, in modo da poter decidere il da farsi con piena consapevolezza di costi e benefici.
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Parte III - La cessione a titolo oneroso
COMPRAVENDITA, PREZZO E RENDITA VITALIZIA La stima obiettiva del valore della farmacia (ovvero delle quota) ceduta è fondamentale perché la compravendita possa davvero definirsi tale, evitando di cadere nelle ipotesi di “donazione indiretta” alle quali abbiamo accennato sopra. Ricordiamo infatti che una compravendita effettuata ad un prezzo inferiore a quello di mercato costituisce un caso di negotium mixtum cum donatione, in quanto tale suscettibile di riduzione, nel momento dell’apertura della successione mortis causa del farmacista cedente l’azienda, qualora sorgesse un problema di lesione di legittima per insufficienza del patrimonio residuo, tenuto conto delle disposizioni testamentarie e del valore della quota disponibile, a soddisfare i diritti degli altri figli. Il discorso in parte è diverso se il corrispettivo della compravendita è stabilito mediante la costituzione di una rendita vitalizia (articolo 1872 Codice civile). In questo caso, a fronte dell’acquisto della farmacia o della quota sociale, invece di pagare un prezzo all’alienante, il cessionario si obbliga a corrispondergli periodicamente una somma di denaro per tutta la durata della sua vita oppure anche per la durata della vita di altre persone (articolo 1873 Codice civile). L’elemento costitutivo essenziale della rendita vitalizia è l’alea, cioè l’incertezza e l’imprevedibilità oggettiva delle somme di denaro (e quindi del valore economico del corrispettivo totale) che il cessionario della farmacia dovrà corrispondere al cedente. Si tratta di un’alea connessa all’incertezza della durata delle vita umana, la cui natura non muta anche se la rendita è collegata alla vita di più soggetti (articolo 1784 Codice civile): in ogni caso, al momento della sottoscrizione del contratto non è possibile determinare con precisione quale sarà il risultato economico finale del contratto. Perché scegliere la costituzione di una rendita invece che il pagamento di un prezzo? Da una parte, la costituzione di un vitalizio può risultare utile se l’acquirente della farmacia non dispone dei capitali necessari a pagare un prezzo congruo rispetto al valore di mercato e non intende (o non può) indebitare sé stesso o l’azienda. Infatti, se l’importo della rendita vitalizia è stabilito in misura congrua rispetto all’età, al numero dei beneficiari oppure alla possibile reversibilità della stessa, la natura aleatoria del con-
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Il passaggio della farmacia - Di padre in figlio e non solo
tratto tende a stemperare, se non ad escludere, eventuali contestazioni sulla congruità del prezzo e sull’eventuale effetto donativo indiretto del contratto di cessione. Ovviamente, ciò che non deve mancare è proprio l’alea: se per la particolarità delle circostanze essa deve ritenersi esclusa (ovvero può dimostrarsi inesistente), tutto il contratto rischia di essere messo in discussione venendo meno il suo elemento essenziale. Dall’altra parte, la costituzione di una rendita vitalizia può costituire uno strumento importante per garantire la tutela non solo del titolare cessionario della farmacia, ma anche di altri familiari non farmacisti. Il pagamento della rendita, infatti, è dovuto dal cessionario in ogni caso, a prescindere dall’andamento e dalle fortune della farmacia. L’aleatorietà del contratto esclude anche la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, perché neppure nei casi più gravi (apertura di altre farmacie o parafarmacie concorrenti; riduzione ulteriore dei margini di utile eccetera) l’acquirente della farmacia, che è obbligato al pagamento della rendita, può sottrarsi ai propri impegni. L’unico limite all’obbligazione di pagamento della rendita può derivare dal titolo oneroso o gratuito della cessione. Come si accennava sopra, infatti, la rendita può essere costituita anche quale onere modale di un contratto di donazione (articolo 1872, comma 2, Codice civile) e solo in questo caso il donatario è tenuto a pagare la rendita «entro i limiti del valore della cosa donata» (articolo 793 Codice civile). In altre parole, nel caso della donazione, l’alea della rendita vitalizia costituita ad onere modale si atteggia secondo i caratteri propri di tale ultimo elemento, cioè quale riduzione (in tal caso incerta ed indeterminabile) dell’ambito di arricchimento del donatario. Nel caso di una normale alienazione, invece, il problema non si pone e chi è tenuto al pagamento resta obbligato a proprio rischio ed in ogni caso, per tutto il periodo previsto, a prescindere di come va l’esercizio della farmacia. CONFERIMENTO DELLA FARMACIA IN SOCIETÀ Si sceglie di conferire la farmacia in società e quindi di costituire una società professionale con uno o più dei propri figli farmacisti non solo per ragioni fiscali, ma innanzitutto perché si
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ritiene di fornire all’impresa un assetto organizzativo rafforzato, sia sotto il profilo finanziario, che sotto il profilo degli apporti professionali e delle energie profuse, in vista di un completo passaggio generazionale. Per lo più accade che un titolare di farmacia con figli farmacisti che collaborano in azienda abbia già configurato con questi ultimi rapporti di collaborazione e/o associativi in senso lato. È possibile che sia stata costituita un’impresa familiare ai sensi dell’articolo 230 bis del Codice civile, oppure che le parti abbiano stipulato un contratto di associazione in partecipazione o di cointeressenza (articolo 2549 e ss. del Codice civile), con il quale il farmacista o il non farmacista più giovane si è impegnato a prestare la propria opera professionale ovvero la propria collaborazione nell’esercizio farmaceutico. In tutti questi casi, la farmacia è gestita sempre dal titolare quale imprenditore individuale, che ne è l’esclusivo responsabile, sia dal punto di vista professionale, sia dal punto di vista economico e patrimoniale e verso i terzi. Anche il più vincolante dei contratti di associazione in partecipazione o la più solida impresa familiare (si tratta di modelli largamente adattabili alle necessità delle parti) non modifica tale realtà giuridica. La costituzione di una società rappresenta un notevole salto di qualità, perché determina la nascita di un nuovo soggetto giuridico, al quale soltanto, nel rispetto delle regole di cui all’articolo 7 e all’articolo 8 della Legge n. 362/1991, è riconosciuta la titolarità della sede farmaceutica, quale diritto di esercizio scaturente dalla concessione amministrativa che legittima il soggetto privato ad esercitare l’attività di vendita al dettaglio di medicinali in esclusiva entro un determinato ambito territoriale. Come recita l’articolo 2247 del Codice civile, «con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili». Per ciò che riguarda la farmacia nella delicata fase del passaggio generazionale, dunque, il contratto di società, schematicamente, prevede quantomeno: ♦ la concorde volontà delle parti di esercitare insieme la farmacia dividendone gli utili (affectio societatis); ♦ la costituzione di un patrimonio comune, mediante conferimento dell’azienda farmaceutica da parte del titolare
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della farmacia, già imprenditore individuale, con o senza il parallelo conferimento della propria opera professionale e mediante il conferimento di un capitale e/o della propria opera professionale da parte dei farmacisti più giovani che acquisiscono lo status di socio; ♦ l’individuazione del direttore e del rappresentante legale con i poteri di amministrazione ordinaria e straordinaria della farmacia; le regole relative alle deliberazioni societarie, alla ripartizione degli utili e ad ogni altro aspetto della vita della compagine associativa, tutte contenute nel cd. “statuto sociale”. Il soggetto imprenditoriale societario, una volta costituito, risponde nei confronti di tutti i terzi per le obbligazioni contratte nell’esercizio della farmacia, secondo criteri di autonomia patrimoniale. Se la società non riesce a far fronte agli impegni assunti, la responsabilità per i debiti sociali si estende personalmente a ciascuno dei soci, che può esserne chiamato a rispondere in via illimitata o nel limite del capitale conferito, salvo eventuale rivalsa pro quota nei confronti degli altri soci. In ciò consiste la più rilevante differenza tra società in nome collettivo (Snc) e società in accomandita semplice (Sas) entrambe società commerciali alle quali la normativa speciale consente la titolarità di farmacie: nell’ipotesi di incapienza del patrimonio sociale, tutti i partecipanti alla Snc rispondono illimitatamente ed in via solidale nei confronti dei terzi creditori sociali; i partecipanti alla Sas invece si distinguono tra soci accomandanti, che conferiscono in società un capitale, non possono compiere atti di gestione e amministrazione e rispondono verso i terzi nel limite del capitale conferito, e soci accomandatari, che gestiscono ed amministrano la farmacia e che sono illimitatamente responsabili verso i terzi creditori. Si noti bene che, diversamente da quanto normalmente accade in altri rapporti di natura associativa, alla conclusione del rapporto societario (per scioglimento della società o per recesso del singolo socio), quale che sia il regime della responsabilità dei soci verso i terzi, la quota di partecipazione nella società rileva come “porzione ideale” di proprietà dell’azienda e deve essere liquidata sulla base del valore patrimoniale della farmacia, nel quale è incluso anche l’avviamento commerciale.
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LA SOCIETÀ TRA FARMACISTI Nell’originario assetto descritto dagli articoli 7 e 8 della Legge 8 novembre 1991, n. 362, la società tra farmacisti costituiva un singolare momento di rottura rispetto alla consolidata disciplina della responsabilità diretta, personale ed esclusiva del farmacista quale imprenditore individuale necessariamente titolare del diritto all’esercizio farmaceutico di cui era responsabile, secondo il principio “un farmacista, una farmacia” affermato dall’articolo 112 del Testo Unico delle Leggi Sanitarie e dall’articolo 11 della Legge n. 475/1968. Per questa ragione, per le rilevanti finalità di interesse pubblico coinvolte e per la particolare natura, insieme professionale e imprenditoriale, dell’attività svolta dalla farmacia, il Legislatore italiano ha sempre escluso che una farmacia possa essere condotta da parte di una società di capitali o di qualunque altro soggetto non qualificato, cioè non laureato in farmacia e idoneo alla titolarità, e ha consentito l’esercizio collettivo di una farmacia unicamente alle società di persone composte da farmacisti idonei. Si tratta di un principio fondamentale del nostro diritto farmaceutico, rimasto immutato anche con le riforme introdotte in forza del Decreto legge n. 223/2006 (cd. Decreto Bersani) e che recentemente è stato confermato anche dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea (sentenza 19 maggio 2009, resa nella Causa C 531-06). La proprietà e l’esercizio delle farmacie sono riservati unicamente ai farmacisti, quali imprenditori individuali o riuniti in società di persone, secondo le regole pubblicistiche ed inderogabili stabilite dalla normativa speciale. Il quadro normativo attualmente vigente, come descritto dagli articoli 7 e 8 della Legge n. 362/1991, dopo la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea e le riforme del cd. Decreto Bersani, risulta quindi così riassumibile: ♦ la titolarità della farmacia è riservata ai farmacisti idonei persone fisiche ed alle società in nome collettivo ed in accomandita semplice, nonché alle società cooperative a responsabilità limitata (ipotesi largamente residuale nella prassi), composte unicamente da farmacisti idonei; ♦ ogni società di farmacisti può essere titolare di una o di più farmacie, nel limite di quattro, purché ubicate nella Provin-
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cia dove la società ha sede legale e purché affidate alla direzione responsabile di uno dei soci, essendo venuto meno nei limiti così descritti il divieto alla titolarità di più di una farmacia precedentemente stabilito; ♦ un farmacista idoneo alla titolarità può acquistare più quote di società tra farmacisti, cioè può essere socio di più società tra farmacisti, essendo stata abrogata la vecchia regola della unicità della partecipazione sociale; il farmacista potrà tuttavia assumere, secondo opinione comune, la responsabilità della direzione di una farmacia soltanto; ♦ la partecipazione ad una società di farmacisti è comunque incompatibile con qualsiasi altra attività esplicata nel settore della produzione, intermediazione ed informazione scientifica del farmaco; con la posizione di titolare, gestore provvisorio, direttore o collaboratore di altra farmacia; con qualsiasi rapporto di lavoro pubblico o privato. Si tenga presente che le norme sulle incompatibilità (articolo 8 Legge n. 362/1991) previste nei confronti del partecipante alla società tra farmacisti sono rimaste sostanzialmente invariate anche dopo la riforma recata dal cd. Decreto Bersani, che si è limitato ad ammettere (eliminando l’incompatibilità originariamente prevista) lo svolgimento dell’attività di distribuzione (all’ingrosso) del farmaco. Da ciò sono conseguite notevoli difficoltà e difformità d’interpretazione delle norme, talvolta con significative incertezze applicative che è bene verificare in relazione alle situazioni concrete ed alla posizione di ciascuno degli aspiranti soci. ADATTABILITÀ DEL CONTRATTO SOCIALE Con le novità recentemente intervenute e nonostante la ribadita vigenza delle situazioni di incompatibilità, la società tra farmacisti si propone come uno strumento molto utile per favorire l’ingresso di nuove forze nell’azienda di famiglia e per regolare i rapporti tra i vari familiari. A prescindere dal regime fiscale applicabile e nel rispetto dei principi fondamentali sopra sinteticamente richiamati, infatti, va sottolineato come il Codice civile lasci alla libera determina-
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zione dei soci la più gran parte della disciplina del rapporto societario. In altre parole, sono i partecipanti alla società a decidere che regole dare alla loro compagine, anche per ciò che riguarda aspetti fondamentali della vita associativa, come i poteri di amministrazione, la ripartizione degli utili, la circolazione delle quote o la direzione della farmacia. Per fare qualche semplice esempio, si consideri che i poteri di amministrazione e di rappresentanza sociale possono essere variamente articolati in capo ai diversi partecipanti, con esercizio congiunto o disgiunto a seconda dell’importanza e del valore economico dell’atto da compiersi; che la ripartizione degli utili può essere di anno in anno determinata sulla base della qualità e quantità dell’opera professionale prestata dal socio nella farmacia; che la ripartizione degli utili può variare, nell’accordo tra le parti, rispetto alla quota di partecipazione nella società stabilità nell’atto costitutivo; che le quote possono rendersi liberamente trasferibili, anche agli eredi o solo a determinati eredi (cd. “clausola di continuazione”), oppure possono dirsi non trasferibili se non con il consenso di tutti, di taluno o di una maggioranza qualificata degli altri soci ovvero in mancato esercizio di un diritto di prelazione da parte di questi ultimi; che lo statuto della società può direttamente prevedere la nomina del direttore responsabile dell’esercizio farmaceutico oppure le modalità con le quali i soci stabiliscono chi tra di loro assume l’incarico. In poche parole, il contratto di società può essere davvero tagliato su misura in base alle esigenze del titolare di farmacia che intende “trasformare” (per così dire) la propria impresa individuale in una struttura più ampia, nella quale coinvolgere i propri familiari farmacisti. Si può decidere liberamente, tutti insieme, magari gradualmente nel tempo, quale debba essere l’assetto dei poteri e delle responsabilità affidate a ciascuno, quale il livello di impegno richiesto e quale (ovviamente) la remunerazione spettante a ciascuno dei soci, mentre il titolare (o meglio ex titolare) della farmacia, che ha conferito la propria azienda nella società, può decidere se mantenere o meno un coinvolgimento professionale e gestionale diretto, se assumere una responsabilità patrimoniale illimitata nei confronti dei terzi,
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oppure se limitarsi ad un semplice potere di indirizzo, riservandosi magari di intervenire (se del caso, anche con il proprio veto) sulle decisioni aziendali più rilevanti. Insomma, la costituzione di una funzionale società tra farmacisti può facilitare e rendere meno traumatico il passaggio generazionale della farmacia anche al titolare più ostico nel condividere la responsabilità del comando aziendale. Se del caso, esso può costituire una buona palestra per responsabilizzare le generazioni più giovani ed un valido strumento per graduare nel tempo il proprio distacco dall’esercizio professionale a tempo pieno.
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La parola al commercialista IL CONFERIMENTO D’AZIENDA Con il conferimento d’azienda il farmacista, imprenditore individuale, trasferisce la propria azienda in una società (società conferitaria), già esistente o di nuova costituzione (NewCo), ricevendo in contropartita quote di partecipazione al capitale sociale della società conferitaria. Il conferimento d’azienda viene attuato ex articolo 176 del Tuir ed è un’operazione straordinaria fiscalmente neutra in quanto le plusvalenze, incluso l’avviamento, sono “latenti” e, quindi, non sono tassate ai fini Irpef. Pertanto, sia il soggetto conferente sia la società conferitaria assumeranno i valori derivanti dal conferimento (valore della partecipazione per il conferente, valore dei beni facenti parte dell’azienda conferita per la conferitaria) in sospensione d’imposta. La società conferitaria, tuttavia, può attribuire, in tutto o in parte, rilevanza fiscale ai maggiori valori iscritti in bilancio delle immobilizzazioni immateriali e materiali (incluso l’avviamento) versando la seguente imposta sostitutiva, applicabile per scaglioni: ♦ 12% sulla parte dei maggiori valori ricompresi nel limite di € 5.000.000,00; ♦ 14% sulla parte dei maggiori valori che eccede € 5.000.000,00 e fino a € 10.000.000,00; ♦ 16% sulla parte dei maggiori valori che eccede € 10.000.000,00. L’imposta sostitutiva viene corrisposta in tre rate annuali. La prima e la terza pari al 30% e la seconda di importo pari al 40%. Le rate devono essere versate contestualmente al versamento del saldo delle imposte annuali risultati dalla dichiarazione e, sulle rate successive alla prima, devono essere corrisposti gli interessi nella misura del 2,5%. Gli ammortamenti sui maggiori valori sono deducibili immediatamente; i beni rivalutati, invece, potranno essere ceduti solo dopo il quarto periodo d’imposta successivo, altrimenti i maggiori valori non saranno riconosciuti ai fini del calcolo della
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plusvalenza tassabile. Tale limitazione è meno rilevante nel caso di affrancamento del valore di avviamento di una farmacia in quanto il conferimento implica un cambiamento della titolarità con conseguente non trasferibilità della stessa nei successivi tre anni ai sensi della normativa sanitaria. A fronte del pagamento di un’imposta sostitutiva del 16%, la società conferitaria ha, inoltre, la possibilità di iscrivere un valore di avviamento e di dedurre annualmente non più di un 1/9 del maggiore valore iscritto (DL 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, nella Legge 28 gennaio 2009, n. 2). Occorre precisare che, per effetto del conferimento, l’imprenditore individuale conferente esce dal regime del reddito d’impresa e i suoi futuri realizzi entreranno nei redditi diversi. Ai fini delle imposte indirette il conferimento è operazione esclusa da Iva, mentre è soggetta ad imposta di registro in misura fissa (€ 168,00) e, qualora venga conferito anche l’immobile della farmacia, anche ad imposta ipotecaria e catastale in misura fissa (€ 168,00 per ogni tributo). Il conferimento d’azienda è operazione che non concorre alla determinazione della base imponibile Irap (articolo 11, comma 3, del D.Lgs. 446/1997). CONFERIMENTO DI AZIENDA
E SUCCESSIVA DONAZIONE DI QUOTE
E SUCCESSIVA CESSIONE DI QUOTE
CONFERIMENTO D’AZIENDA E DONAZIONE DI QUOTE DI PARTECIPAZIONE Il passaggio generazionale potrebbe essere attuato anche attraverso il conferimento ed il successivo trasferimento delle quote. In questo caso il titolare, dopo aver conferito la propria azienda-farmacia in una NewCo, potrebbe procedere ad una successiva donazione della quota al suo successore. La NewCo potrebbe essere partecipata dal successore con una quota la cui
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misura dipende dal patrimonio netto dell’azienda conferita e, conseguentemente, del sovraprezzo quote che deve essere versato dal nuovo socio all’atto della costituzione della NewCo tramite conferimento. In alcuni casi il successore è collaboratore familiare dell’azienda conferita e, quindi, la sua partecipazione dipenderà anche dai diritti di credito che gli spettano in qualità di collaboratore familiare. La successiva donazione delle quote sarà soggetta all’imposta sulle donazioni con le modalità in precedenza descritte. Si tratta di un’operazione straordinaria frequentemente utilizzata nell’ambito dei passaggi generazionali ovvero quando si preferisce detenere quote di società, titolari di farmacia/e, e non essere titolari di farmacia, sia per coinvolgere altri soggetti nella gestione, sia per fruire delle possibilità concesse dalla legge in ordine alla possibilità di detenere più quote di partecipazione in società titolari di farmacie. Come già rilevato in precedenza, il conferimento è attuato ex articolo 176 del Tuir e risulta fiscalmente neutro. Qualora il conferimento includa anche l’immobile ove la farmacia ha la propria sede, saranno dovute anche le imposte ipotecaria e catastale, entrambe in misura fissa (€ 168,00). CONFERIMENTO D’AZIENDA E CESSIONE DI QUOTE Qualora le partecipazioni ricevute a fronte del conferimento non vengano donate ma vengano cedute, si realizza la cd. “cessione indiretta d’azienda”. Si tratta di un’operazione che offre un significativo risparmio fiscale, anche se la stessa può essere considerata di tipo elusivo ai fini delle imposte indirette. Chi ha intenzione di cedere un complesso aziendale, sotto il profilo fiscale, potrebbe, quindi, trovare in tale schema operativo “un valido alleato” rispetto alla vendita dell’azienda tout court. Ai fini delle imposte dirette il vantaggio fiscale è riconducibile alla possibilità di “convertire” la plusvalenza da cessione d’azienda (tassata ai fini Irpef in misura piena) in una plusvalenza da cessione di partecipazioni (tassata per il 49,72% del suo ammontare applicando le ordinarie aliquote progressive
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Irpef, sia che ad essere ceduta sia una partecipazione qualificata, sia che si tratti di partecipazione non qualificata: la motivazione di tale deroga al regime fiscale che normalmente avrebbe trovato applicazione risiede nel fatto che oggetto di cessione sono partecipazioni ottenute a fronte di conferimento). La cessione di un’azienda, infatti, genera in capo al cedente una plusvalenza, pari alla differenza tra il corrispettivo pattuito e il costo fiscalmente riconosciuto del complesso aziendale ceduto, imponibile ai fini Irpef. Plusvalenza interamente soggetta a tassazione Irpef ordinaria (per intero nell’ambito del reddito d’impresa del periodo di competenza) ovvero, purché siano rispettati i necessari requisiti previsti ex lege, facoltativamente assoggettabile a tassazione “rateizzata” oppure, in alternativa, a tassazione separata ex articoli 17 e 21 del Tuir. Viceversa, la cessione indiretta ha i seguenti pregi: ♦ il conferimento nella NewCo può essere effettuato avvalendosi del regime di neutralità fiscale di cui all’articolo 176 del Tuir; ♦ la plusvalenza derivante dalla successiva cessione della partecipazione è tassata ai fini Irpef in misura ordinaria. Così facendo l’azienda viene alienata attraverso due step, dei quali il primo è caratterizzato da una piena neutralità fiscale e il secondo da un’imponibilità limitata della plusvalenza che si genera, peraltro tassata con un’aliquota applicata al 49,72% della plusvalenza realizzata. Inoltre, per le partecipazioni che già si detenevano al 1° gennaio 2010 è possibile valutarne anche la rivalutazione, che comporta, a fronte del riconoscimento fiscale del maggior valore della partecipazione, il pagamento di un’imposta sostitutiva (2% per le partecipazioni non qualificate e 4% per le partecipazioni qualificate) da applicare sul valore della partecipazione. Il vantaggio fiscale per il cedente che sceglie la via “indiretta” è, dunque, di tutta evidenza. Va, tuttavia, evidenziato che, dal punto di vista della tassazione sul reddito, la cessione “indiretta” dell’azienda non è una formula magica che consente, senza contropartita, di ridurre sensibilmente il carico fiscale che altrimenti graverebbe sulla cessione “diretta” dell’azienda. È piuttosto uno strumento di pianificazione fiscale che le
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parti (cedente e cessionario) possono adottare, tenendo presente, in sede di trattativa, che: ♦ la scelta più fiscalmente onerosa per il cedente (cessione diretta dell’azienda) offre l’innegabile vantaggio fiscale al cessionario di potere beneficiare di maggiori ammortamenti deducibili (per avviamento ed eventuali plusvalori pagati sui singoli cespiti). Tale possibilità è esperibile anche nel caso di cessione indiretta qualora, all’atto del conferimento, venga affrancato fiscalmente il valore dell’avviamento latente, ma questo comporta il pagamento dell’imposta sostitutiva del 12%, rateizzata in tre anni; ♦ la scelta più fiscalmente vantaggiosa per il cedente (cessione indiretta dell’azienda) è, per contro, fiscalmente più onerosa per il cessionario, limitando gli ammortamenti deducibili: i plusvalori relativi all’azienda vengono acquisiti sotto forma di partecipazione (bene non ammortizzabile); ♦ il cessionario non può dedurre gli interessi passivi connessi con l’erogazione di un finanziamento finalizzato all’acquisto delle quote di partecipazione, in quanto il debito contratto ha natura personale e non aziendale. Il cessionario dell’aziendafarmacia deduce, invece, gli interessi passivi del finanziamento in quanto il debito ha natura aziendale. È dunque evidente che, da un punto di vista di valutazione fiscale dell’operazione, il cedente avrà tutto l’interesse a “caldeggiare” la soluzione indiretta, mentre il cessionario avrà l’opposto interesse a “perorare la causa” della soluzione diretta; la modalità ed i termini di cessione dell’azienda saranno con buona probabilità oggetto di arbitraggio tra le parti in sede di trattativa. Infatti, se si procede alla cessione diretta dell’azienda: ♦ il cedente realizza una plusvalenza imponibile, tassata ai fini Irpef in misura ordinaria, con possibilità di rateizzarla su cinque periodi d’imposta (se l’azienda è posseduta da almeno tre anni) ovvero di assoggettarla a tassazione separata (se l’azienda è posseduta da più di cinque anni); ♦ il cessionario acquista un’azienda con un valore di carico fiscale corrispondente al costo di acquisizione, che può dedurre dal proprio reddito di impresa mediante il processo di ammortamento dei cespiti relativamente ai quali sono iscritti i
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maggiori valori nonché mediante il processo di ammortamento di quanto iscritto separatamente a titolo di avviamento. Inoltre, può dedurre gli interessi passivi relativi al finanziamento eventualmente ottenuto per l’acquisto dell’azienda. Se si procede alla cessione indiretta dell’azienda sotto forma di partecipazione totalitaria nella NewCo in cui l’azienda è stata conferita avvalendosi del disposto dell’articolo 176 del Tuir (conferimento neutro): ♦ il cedente realizza sempre una plusvalenza, ma tale plusvalenza è tassata con le aliquote progressive Irpef unicamente per il 49,72% del suo ammontare; ♦ il cessionario acquista una partecipazione con un valore di carico fiscale pari al costo di acquisizione, ma la sottostante azienda continua ad avere un valore di carico fiscale pari al valore contabile (in quanto conferita nella NewCo in regime di continuità dei valori fiscali ex articolo 176 del Tuir); con la conseguenza per il cessionario di non potere dedurre dal proprio reddito d’impresa, attraverso il processo di ammortamento, il plusvalore che è stato, comunque, pagato al cedente. Inoltre, il cessionario non può dedurre gli interessi passivi relativi al finanziamento ottenuto per l’acquisto delle quote; ciò in quanto trattasi di finanziamento personale e non aziendale. Ne deriva una presumibile contrattazione tra le parti che comporterà una minore valutazione delle quote rispetto alla cessione dell’azienda in relazione agli effetti fiscali sopra evidenziati. Un’ipotesi intermedia è rappresentata dalla cessione indiretta in cui si iscriva un maggior valore a titolo di avviamento in sede di conferimento, affrancandolo ai fini fiscali. Il cedente deve considerare il maggior onere fiscale connesso con l’affrancamento, mentre il cessionario potrà dedurre l’avviamento attraverso il processo di ammortamento, ma gli interessi passivi del finanziamento continueranno ad essere indeducibili. In tal caso, quindi, il corrispettivo pattuito per la cessione delle quote si avvicinerà più a quello di una cessione di azienda che a quello di una cessione di quote senza affrancamento dell’avviamento. Sia l’atto di cessione d’azienda, sia l’atto di conferimento d’azienda sono operazioni: ♦ escluse dal campo di applicazione dell’Iva per carenza
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del presupposto oggettivo, ai sensi dell’articolo 2, comma 3, lett. b) del Dpr 633/1972; ♦ soggette, invece, ad imposta di registro. La differenza, tuttavia, consiste nel fatto che: ♦ l’atto di cessione di azienda è soggetto ad imposta di registro con aliquota proporzionale, la quale deve peraltro essere applicata sul valore di mercato dell’azienda (con quel che ne consegue in termini di “rischio di contenzioso” con l’Amministrazione Finanziaria circa l’esatta quantificazione di detto valore, specie con riferimento alla determinazione dell’avviamento); ♦ l’atto di conferimento d’azienda è, invece, soggetto ad imposta di registro in misura fissa (€ 168,00). La cessione “indiretta” dell’azienda sotto forma di partecipazione consente di scontare l’imposta di registro nella misura fissa, laddove viceversa la cessione “diretta” dell’azienda impone alle parti di confrontarsi con le aliquote proporzionali previste ai fini di quel tributo, nonché con i rischi connessi con l’eventuale contestazione da parte dell’Amministrazione Finanziaria dell’effettivo valore di mercato dell’azienda. La cessione indiretta acquista maggior fascino quando l’azienda trasferita include anche il relativo immobile. Se, infatti, la mera cessione d’azienda, oltre all’imposta di registro in misura proporzionale (3% su avviamento + beni materiali + crediti – debiti + scorte di merci ovvero 7% su parte immobiliare), comporta il versamento, in misura proporzionale, anche delle imposte ipotecaria (2%) e catastale (1%), la cessione indiretta prevede il pagamento di tali imposte in misura fissa (€ 168,00 ciascuna). Ai fini delle imposte indirette, l’appeal fiscale è riconducibile alla possibilità di “trasformare” le imposte d’atto (ossia l’imposta di registro e, qualora l’azienda includa una componente immobiliare, le imposte ipotecaria e catastale) da proporzionali a fisse (€ 168,00). Ma tale operazione, in apparenza idilliaca a livello fiscale, fa forse acqua in qualche suo punto? I vantaggi fiscali da essa derivanti sono leciti o forse la cessione indiretta è operazione elusiva? Tale aspetto deve essere affrontato distintamente con riguardo alle imposte dirette e alle imposte indirette:
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♦ imposte dirette: l’operazione “trasforma” la plusvalenza da cessione d’azienda in plusvalenza da cessione di partecipazione; ♦ imposte indirette: la cessione “indiretta” consente di fatto di evitare l’applicazione dell’imposta di registro (nonché, in caso di immobili compresi nel complesso aziendale, le imposte ipotecaria e catastale) nella più onerosa misura proporzionale. Sotto il profilo delle imposte dirette, il risparmio fiscale conseguito dai contribuenti, mediante la “trasformazione” della plusvalenza da cessione d’azienda in plusvalenza da cessione di partecipazione, è del tutto lecito, come anche evidenziato nella relazione accompagnatoria al D.Lgs. 344/2003, che ha evidenziato che «il conferimento d’azienda in neutralità fiscale ex articolo 176 e successiva cessione della partecipazione nella conferitaria […] non costituisce una fattispecie elusiva, bensì un’ipotesi del tutto legittima (ivi compreso il caso in cui l’azienda conferita e successivamente ceduta sotto forma di partecipazione sia l’unica azienda di un imprenditore individuale)». Posizione, peraltro, espressamente confermata dall’articolo 176, comma 3, del Tuir, che recita: «Non rileva ai fini dell’articolo 37-bis del Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, il conferimento dell’azienda secondo il regime di continuità dei valori fiscalmente riconosciuti di cui al presente articolo e la successiva cessione della partecipazione ricevuta […]». La motivazione di cotanta “magnanimità” è che, a fronte del vantaggio per il cedente (tassazione inferiore, dovuta alla cessione di quota di partecipazione anziché di azienda), tale operazione implica uno svantaggio per il cessionario (minori costi deducibili, non recuperabili). La natura non elusiva della cessione “indiretta” dell’azienda, invece, non è così pacifica a livello di imposizione indiretta. Se ai fini delle imposte dirette la cessione indiretta ha dei pro (per il cedente) e dei contro (per il cessionario), ai fini delle imposte d’atto, invece, essa offre solo vantaggi per le parti, tutto a danno dell’Erario. A differenza di quanto previsto ai fini delle imposte dirette,
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non esiste una norma idonea a fugare ogni possibile dubbio in merito alla liceità del vantaggio fiscale conseguito. Secondo l’Amministrazione Finanziaria la cessione indiretta configura un’operazione elusiva ai fini delle imposte indirette sugli atti non ex articolo 37-bis del Dpr 600/1973, bensì ex articolo 20 del Dpr 131/1986, ai sensi del quale l’imposta di registro va applicata tenendo conto della «intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione […]». LA VENDITA Il passaggio generazionale in azienda, come già rilevato, rappresenta una fase molto delicata che qualsiasi imprenditore deve affrontare: alcuni imprenditori avveduti preferiscono pianificarlo in anticipo evitando ab origine il rischio di eventuali conflitti tra gli eredi, mentre altri tendono a posticiparlo. La scelta di trasferire l’azienda può ridurre la possibilità di conflitto tra gli eredi in quanto il cessionario paga ciò che riceve: decisione trasparente, che, in presenza di un’equa valorizzazione dell’azienda ceduta, non comporta alcuna lesione dei diritti degli altri eredi. A volte la cessione d’azienda costituisce l’unica soluzione possibile per attuare il passaggio generazionale nel momento in cui la farmacia rappresenta il bene principale del patrimonio del de cuius e, quindi, in assenza di trasferimento oneroso, sarebbe impossibile conguagliare gli altri aventi diritto. A fronte dei pregi, la vendita dell’azienda farmacia può anche essere fonte di disaccordo per ciò che concerne la sua valorizzazione. Non vanno poi trascurati i risvolti finanziari e fiscali nonché la fattibilità economica dell’operazione. Infatti, l’acquirente (cd. cessionario), figlio di farmacista ovvero soggetto terzo, deve disporre di mezzi idonei a sostenere l’investimento; qualora, invece, le sue forze non dovessero essere sufficienti, dovrà valutare per tempo il ricorso a mezzi di terzi, verificando che l’eventuale finanziamento richiesto sia per l’azienda farmacia sostenibile. Deve altresì essere in grado di provare anche a distanza di molti anni, con idonea documentazione cartacea, la provenienza delle risorse finanziarie che gli hanno consentito di acquistare l’azienda; questo al fine di diri-
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mere sul nascere eventuali accertamenti da “Redditometro”. L’acquirente deve, quindi, poter dimostrare, dal punto di vista fiscale, la provenienza dei risparmi che hanno consentito il pagamento del corrispettivo dell’acquisto. La disponibilità di tali somme potrebbe derivare da disinvestimenti patrimoniali, da godimento di rendite finanziarie personali quali per esempio interessi di Bot, Cct, obbligazioni, da redditi regolarmente dichiarati nell’anno in cui sono avvenuti i pagamenti o nei quattro precedenti, da prestiti o finanziamenti da istituti di credito eccetera. Se l’acquirente non è in grado di dimostrare la disponibilità delle somme impiegate per effettuare l’investimento, l’Amministrazione Finanziaria potrà procedere ad un accertamento sintetico del contribuente ai sensi dell’articolo 38 del Dpr 600/1973. La normativa sanitaria pone precisi vincoli in tema di soggetti legittimati ad assumere la titolarità della farmacia. Nel caso di farmacia gestita in forma di impresa individuale, la norma prevede che il titolare possa essere solo un farmacista iscritto all’Albo dei farmacisti ed in possesso del requisito dell’idoneità di cui all’articolo 12 della Legge 475/1968 e successive modificazioni. Potrebbe accadere che gli eredi del titolare abbiano fatto scelte di vita completamente diverse da quelle del genitore e che, quindi, non vi sia nell’ambito familiare il possibile successore. La strada perseguibile consiste nel cedere la farmacia a un soggetto terzo; ciò ovviamente previa valutazione del momento più opportuno, sia in termini di età anagrafica del titolare sia in termini di valore di mercato del bene oggetto di cessione, in cui dare luogo a tale trasferimento. Ai fini fiscali la vendita dell’azienda genera una plusvalenza, pari alla differenza tra il prezzo di vendita e il valore contabile dei beni che la compongono; poiché molto spesso le immobilizzazioni materiali vengono trasferite al valore netto contabile e le rimanenze finali non hanno un valore di mercato superiore al valore contabile, la plusvalenza, in genere, corrisponde all’avviamento. La plusvalenza derivante dalla vendita dell’azienda farmacia è tassata per il suo intero ammontare in base alle aliquote progressive Irpef. Ai sensi degli articoli 17 e 21 del Tuir, se l’azienda è posseduta da più di cinque anni, il farmacista ha la possibilità di assoggettare la plusvalenza a tassazione separata;
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ciò significa tassare la plusvalenza separatamente dal reddito complessivo imponibile assoggettandola all’aliquota Irpef corrispondente alla media del reddito complessivo netto del biennio precedente. Sulla plusvalenza assoggettata a tassazione separata è dovuto un acconto nella misura del 20%, da versare in sede di saldo dell’Irpef relativa alla dichiarazione dei redditi dell’anno in cui è stata realizzata la plusvalenza e con le stesse modalità di versamento previste per le imposte sui redditi; è poi l’Amministrazione Finanziaria a liquidare l’imposta definitiva sulla plusvalenza assoggettata a tassazione separata, scomputando l’acconto del 20% già versato. Al riguardo si precisa che ai sensi dell’articolo 17, comma 2, del Tuir, la tassazione separata può essere applicata solo agli imprenditori individuali, mentre la plusvalenza realizzata da società di persone, anche se relativa ad azienda posseduta da più di cinque anni, è tassata in misura ordinaria, salvo la possibilità di optare per la rateizzazione della stessa in cinque anni. Se, invece, ad essere ceduta è un’azienda posseduta da un imprenditore individuale ovvero da una società di persone da almeno tre anni, la plusvalenza concorre a formare il reddito, a scelta del contribuente, per l’intero ammontare nell’esercizio in cui è realizzata ovvero in quote costanti nell’esercizio stesso e nei quattro successivi (articolo 86, comma 4, del Tuir). La rateizzazione è consentita quando il farmacista continua l’attività imprenditoriale. A carico del cessionario vi è l’imposta di registro nella misura del 3% sull’intero valore pagato (avviamento + beni materiali + crediti – debiti + scorte di merci). Se poi viene venduto anche l’immobile della farmacia, sul valore dello stesso sarà dovuta l’imposta di registro nella misura del 7%, l’imposta ipotecaria nella misura del 2% e l’imposta catastale nella misura dell’1%. L’acquirente ha la possibilità di ammortizzare il costo sostenuto per l’acquisto dell’azienda in base alle aliquote di ammortamento dei singoli beni facenti parte del complesso aziendale. Si precisa che la vendita dell’azienda-farmacia è operazione straordinaria che non partecipa alla determinazione della base imponibile Irap (articolo 11, comma 3, D.Lgs. 446/1997).
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VENDITA CON COSTITUZIONE DI VITALIZIO Con la vendita della farmacia contro costituzione di rendita vitalizia il farmacista trasferisce l’azienda ad un altro soggetto a fronte della corresponsione di una prestazione periodica prestabilita, per la durata della sua vita o di altra persona specificamente individuata nel contratto. La rendita vitalizia è soggetta a tassazione Irpef quale reddito assimilato a quello di lavoro dipendente. L’acquirente può includere il controvalore della rendita fra i costi deducibili per competenza, indipendentemente dall’effettivo pagamento e, quale sostituto d’imposta, deve operare una ritenuta d’acconto. Ai fini delle imposte indirette, la cessione non è soggetta ad Iva in quanto ha per oggetto un’azienda, mentre è soggetta ad imposta proporzionale di registro: la base imponibile è costituita dal valore dei beni che compongono la farmacia, compreso l’avviamento ovvero, se maggiore, dal valore della rendita pattuita. L’operazione è fiscalmente vantaggiosa perché la rendita è tassata in capo al padre percipiente, ma è deducibile in capo al figlio erogante. Occorre segnalare che questo tipo di operazione è stato oggetto di contestazione da parte dell’Amministrazione Finanziaria, la quale ritiene che sia la plusvalenza derivante dalla cessione di azienda che la rendita vitalizia debbano essere oggetto di tassazione; secondo l’Amministrazione Finanziaria il corrispettivo, pur non essendo espresso in misura fissa, può essere, comunque, determinato attraverso la capitalizzazione della rendita vitalizia, cioè attraverso l’individuazione del suo valore normale facendo ricorso a procedure proprie della matematica attuariale.
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Parte IV - Il passaggio generazionale della farmacia mortis causa
Il passaggio generazionale della farmacia mortis causa PREMESSA Il passaggio generazionale della farmacia da padre a figlio può anche avvenire per successione mortis causa. In tal caso l’azienda farmacia, unitamente agli altri beni del de cuius, concorre a formare il cosiddetto “asse ereditario”, ossia il patrimonio oggetto di successione. Ogni volta che, a seguito dell’apertura di una successione, si realizza un trasferimento di beni, esso è soggetto all’imposta sulle successioni, sia che si tratti di costituzione di erede sia di legato.
La parola all’avvocato CHE COSA È LA SUCCESSIONE PER CAUSA DI MORTE L’insieme delle regole che disciplinano le conseguenze giuridiche della morte di una persona fisica costituisce il diritto delle successioni, settore quanto mai complesso del diritto civile. Una trattazione anche minimamente esaustiva dell’argomento è del tutto impossibile nel poco spazio a disposizione. È però senz’altro utile fornire alcuni elementi di base, per dare l’idea delle possibili questioni che possono conseguire dalla morte del titolare di farmacia. La successione si apre nel momento della morte della persona fisica (articolo 456 del Codice civile), il cui patrimonio (cioè il complesso dei rapporti giuridici patrimoniali attivi e passivi facenti capo al soggetto defunto nel momento della morte) deve necessariamente trovare uno o più nuovi soggetti intestatari. Occorre in poche parole stabilire a chi spetta il patrimonio del defunto (per via di eufemistica ellissi definito anche il “de cuius”, dalla locuzione latina “is de cuius hereditate agitur”), che può essere relitto
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in favore di uno o più successori in via generale e senza riguardo a particolari beni, oppure frantumato e riferito a singoli beni e rapporti particolari. Nel primo caso si parla, in senso tecnico, di successione “a titolo universale”, di “eredità”, di istituzione di “eredi” ovvero di “coeredi” se i chiamati alla successione sono più di uno; nel secondo caso si parla di successione “a titolo particolare” e più correttamente non di “eredi” bensì di “legatari” e di “istituzione di legato”. In concreto, mentre nella successione devoluta per legge ci si trova sempre di fronte ad una vocazione a titolo universale e quindi ad una istituzione di erede, quando si tratta di eseguire disposizioni testamentarie (talvolta di significato obiettivamente ambiguo), può non essere semplice distinguere tra erede e legatario. Tale distinzione è in ogni caso molto importante, per la semplice ragione che l’erede, in quanto successore a titolo universale, subentra in tutto o pro quota nel patrimonio del de cuius ivi compreso il lato passivo. L’erede subentra insomma anche nei debiti che il defunto aveva verso i terzi, dei quali può essere chiamato a rispondere con tutto il proprio patrimonio; invece il legatario, in quanto successore a titolo particolare, ottiene i beni a lui destinati senza subentrare in altra diversa obbligazione del defunto, a meno che ciò non sia stato espressamente previsto quale onere modale del legato medesimo. Anche per questo motivo, oltre che per gli evidenti profili di ordine morale conseguenti alla successione, per l’acquisto dell’eredità il Codice civile richiede la necessaria accettazione da parte del soggetto chiamato: non si diventa eredi se non lo si decide e non lo si accetta (articolo 459 del Codice civile) e tale decisione può essere espressa (accettazione espressa, articolo 470 del Codice civile) oppure tacita (accettazione tacita, articolo 476 del Codice civile). In particolare, «l’accettazione è espressa quando, in un atto pubblico o in una scrittura privata, il chiamato all’eredità ha dichiarato di accettarla oppure ha assunto il titolo di erede» (articolo 474, comma 1, del Codice civile); mentre «l’accettazione è tacita quando il chiamato all’eredità compie un atto che presuppone necessariamente la sua volontà di accettare e che non avrebbe diritto di fare se non nella sua qualità di erede» (articolo 476 del Codice civile). Va sottolineato come solo l’accettazione espressa consenta il
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cd. “beneficio d’inventario”, cioè “l’accettazione col beneficio d’inventario” (articolo 484 e ss. del Codice civile), con la quale soltanto si mantiene distinto il patrimonio del defunto da quello dell’erede (articolo 490 del Codice civile). Il “beneficio d’inventario” può risultare di fondamentale importanza nel particolare caso in cui nell’eredità sia compresa un’azienda della quale sia necessario accertare l’effettiva salute economica, perché soltanto in questo caso «l’erede conserva verso l’eredità tutti i diritti e tutti gli obblighi che aveva verso il defunto, tranne quelli che si sono estinti per effetto della morte» e «l’erede non è tenuto al pagamento dei debiti ereditari e dei legati oltre il valore dei beni a lui pervenuti». Si tratta, come si capisce, di un’opportunità importante nell’ipotesi in cui il patrimonio del titolare di farmacia defunto, della cui successione si tratta, risulti fortemente gravato di debiti verso i fornitori e verso i terzi e per questa ragione occorre prestare attenzione ai comportamenti da tenersi nell’immediatezza della morte del titolare, così da escludere, se ritenuto opportuno e magari con atto d’accettazione espressa dinanzi al notaio, l’eventualità di un’accettazione tacita. L’accettazione tacita (senza beneficio d’inventario) è configurata anche dal subentro nell’esercizio della farmacia conseguente all’autorizzazione della gestione provvisoria dell’erede, se tale autorizzazione non è preceduta da un’accettazione espressa con beneficio d’inventario. I possibili rischi sono evidenti, perché unicamente con l’inventario l’erede della farmacia potrà evitare la commistione del proprio patrimonio personale con quello del de cuius, limitando le proprie obbligazioni al pagamento dei debiti ereditari entro il limite del valore della farmacia medesima. LA DISCIPLINA SUCCESSORIA PRECEDENTE AL DECRETO BERSANI La successione mortis causa nella farmacia, quale complesso di diritto di esercizio e connessa azienda commerciale, è stata tradizionalmente disciplinata non solo dalle normali regole civilistiche, ma anche da una diversa normativa di carattere pubblicistico diretta a contemperare due opposte esigenze: da una parte, l’opportunità di consentire la conservazione dell’azienda nel patrimonio familiare, consentendo al titolare defunto di cederla oppure
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di disporne per successione legittima o testamentaria; dall’altra parte, la necessità di garantire il principio della riserva della titolarità, della proprietà e della gestione della farmacia solo a farmacisti idonei, in stretta coerenza con il divieto generale (come si è visto, confermato anche dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea) che impedisce a chi farmacista idoneo non è di acquistare la titolarità della farmacia o di una quota di società tra farmacisti. Nel quadro normativo delineato dall’articolo 7 della Legge n. 362/1991, nella versione in vigore prima delle modifiche disposte dal Decreto legge n. 223/2006 (cd. Decreto Bersani), il trasferimento della farmacia e/o della quota di una società tra farmacisti per causa di morte era regolato secondo termini diversi a seconda del rapporto coniugale o di parentela tra l’erede ed il titolare di farmacia deceduto. In ogni caso, l’erede doveva essere in possesso dei requisiti professionali e di idoneità previsti dalla legge per diventare titolare o per acquisire una quota di società tra farmacisti. In generale, l’articolo 7 della Legge 362/1991 assegnava all’erede (o agli eredi) un termine di tre anni dall’apertura della successione (cioè dalla morte del precedente titolare), per dimostrare di essere in possesso dei suddetti requisiti. Durante il triennio era autorizzata la gestione provvisoria dell’esercizio farmaceutico sotto la responsabilità di un direttore farmacista appositamente nominato dall’erede o dai coeredi. Entro la scadenza del suddetto triennio, delle due l’una: o era richiesta l’intestazione definitiva della titolarità della farmacia in capo a quello o a quelli dei coeredi che avessero ottenuto i requisiti professionali di legge; oppure la farmacia o la quota di farmacia doveva essere trasferita ad un farmacista estraneo alla cerchia degli eredi in possesso dei requisiti professionali, a pena di decadenza da ogni diritto successorio sulla farmacia o sulla quota. Il rigore della disciplina generale era però mitigato per l’ipotesi che tra gli eredi del farmacista deceduto vi fosse il coniuge o uno dei discendenti in linea retta fino al secondo grado (figli e nipoti). In questo caso particolare (ma certo non raro), il suddetto termine triennale di gestione provvisoria era differito fino al compimento del trentesimo anno di età dell’erede in questione, ovvero, se successivo, era comunque prolungato fino a dieci anni
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dalla morte del titolare. Unica condizione, che l’erede fosse iscritto o si iscrivesse ad una facoltà di Farmacia entro un anno dalla morte del precedente titolare. La suddetta normativa di favore per i familiari più stretti del titolare di farmacia deceduto, tuttavia, non è stata esente da critiche in passato, sia per il possibile ottenimento di lunghi termini di gestione “provvisoria”, sia per la deroga ritenuta eccessiva al principio di salute pubblica tutelato dalla riserva della proprietà delle farmacie ai farmacisti, giacché gli eredi autorizzati alla gestione provvisoria ovviamente possono non essere farmacisti. Per esempio, in forza della cd. “rappresentazione” disciplinata dall’articolo 468 del Codice civile (il discendente “rappresentante” subentra all’ascendente “rappresentato” nel diritto di accettare un lascito, qualora quest’ultimo non voglia o non possa accettare l’eredità o il legato) era sufficiente la rinuncia all’eredità della farmacia o della quota di farmacia da parte dei genitori per consentire il subentro del nipote infante del titolare di farmacia deceduto, così potendosi magari ottenere una gestione “provvisoria” di decenni, fino al compimento del trentesimo anno di età del bambino. LA DISCIPLINA SUCCESSORIA OGGI IN VIGORE Nonostante poi la sentenza della Corte di Giustizia del 19 maggio 2009 abbia incidentalmente confermato l’intrinseca coerenza dell’assetto normativo sopra descritto e comunque la compatibilità con il diritto comunitario, nel frattempo l’articolo 5 del Decreto legge n. 223/2006, convertito in legge con modificazioni dalla Legge n. 248/06, ha modificato l’articolo 7 della Legge n. 362/1991 introducendo un regime successorio più semplice e rigoroso, valido per tutti gli eredi del socio o del titolare di farmacia deceduto, a prescindere dai rapporti familiari. Le norme oggi in vigore prevedono dunque che «a seguito di acquisto a titolo di successione di una partecipazione in una società di cui al comma 1, qualora vengano meno i requisiti di cui al secondo periodo del comma 2, l’avente causa cede la quota di partecipazione nel termine di due anni dall’acquisto medesimo» (comma 9), specificando che «il termine di cui al comma 9 si applica anche alla vendita della farmacia privata da parte degli aventi
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causa ai sensi del dodicesimo comma dell’articolo 12 della Legge 2 aprile 1968, n. 475» (comma 10) ed aggiungendo che «decorsi i termini di cui al comma 9, in mancanza di soci o di aventi causa, la gestione della farmacia privata viene assegnata secondo le procedure di cui all’articolo 4» (comma 11). Le nuove norme del Decreto Bersani hanno delineato un regime simile a quello previsto dalla Legge n. 475/1968, prima dell’entrata in vigore della Legge n. 362/1991. L’erede che vuole intestarsi la quota sociale o la titolarità di una farmacia deve essere in possesso dei requisiti professionali di legge. Se i requisiti mancano, il termine della gestione provvisoria concesso per completare gli studi nella facoltà di Farmacia e per ottenere l’idoneità alla titolarità (a concorso o mediante pratica professionale) è soltanto biennale ed il suddetto termine è valido per tutti, coniuge, figli e nipoti compresi, risultando assolutamente tassativo ed inderogabile. Prima della scadenza dei due anni dalla morte del titolare, dunque, l’erede deve trovarsi in condizioni di chiedere l’intestazione della farmacia o della quota, mediante l’ottenimento dei relativi requisiti professionali. In ipotesi contraria, entro la scadenza del termine occorre avere concluso il necessario contratto di cessione della farmacia o della quota sociale in favore di soggetto idoneo, a pena di irrimediabile decadenza dal diritto, di dichiarazione di vacanza della sede farmaceutica ed assegnazione della stessa per mezzo del concorso pubblico. Come si vede, siamo passati da un estremo ad un altro, da una disciplina che forse consentiva qualche eccesso ad una disciplina di tale rigore da rendere in gran parte dei casi estremamente problematico il mantenimento della farmacia nell’ambito familiare dopo la morte del titolare. Ciò resta possibile quando è disponibile un farmacista idoneo in famiglia, ma in tutti gli altri casi la previsione di un termine soltanto biennale rende molto difficile il trasferimento della farmacia in favore di chi deve ancora maturare i requisiti professionali (per esempio figlio minore o semplice studente in farmacia), dovendosi in questo caso ricorrere, se si vuole ugualmente conseguire tale scopo, ad atti giuridici notevolmente complessi ed impegnativi sotto ogni profilo, che consentano all’aspirante farmacista di riacquistare l’azienda non appena avrà soddisfatto i requisiti di legge.
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SUCCESSIONE TESTAMENTARIA, SUCCESSIONE LEGITTIMA, SUCCESSIONE NECESSARIA La sorte della farmacia caduta in successione può essere più o meno complicata e ciò dipende da numerosi fattori: innanzitutto dalla particolare situazione e dalla qualità dei rapporti tra i coeredi, farmacisti e non; dalla presenza o meno di un testamento; dalle specifiche disposizioni patrimoniali in esso contenute; dall’intervenuta stipula di donazioni (anche indirette) in vita da parte del de cuius o dalla previsione di legati, cioè di disposizioni mortis causa a titolo particolare. La ridda delle ipotesi è particolarmente variegata, come lo sono i casi della vita; è impossibile definire una casistica. Ciò che qui più importa è sottolineare come la disciplina pubblicistica speciale oggi in vigore (solo due anni di tempo per intestare quote di società o la farmacia a soggetto idoneo, egli sia erede o meno) si intrecci con la complessa disciplina dei diversi generi di successione, dei quali possiamo solo fornire qualche concetto. L’eredità si trasmette per legge o per testamento. Mentre è nullo, come si diceva, ogni patto con il quale taluno dispone della propria successione o dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta (patti successori vietati ex articolo 458 del Codice civile), ciascuno ha diritto di disporre dei propri beni per il periodo in cui avrà cessato di vivere (articolo 587 del Codice civile), affidando le proprie volontà ad un testamento, atto solenne e necessariamente formulato per iscritto a garanzia dell’effettiva volontà del testatore, personalissimo e sempre revocabile e modificabile dal testatore medesimo, secondo le regole previste nel Codice civile per le cd. “successioni testamentarie”. Se non è stato redatto un testamento o se il testamento contiene disposizioni che riguardano solo una parte dei beni caduti in successione, per stabilire chi sia il destinatario del patrimonio del defunto interviene la legge. Si applicano in questa ipotesi le disposizioni del Codice civile riguardanti le cd. “successioni legittime” (articolo 565 e ss.), che individuano nei parenti fino al sesto grado i familiari aventi diritto e le quote spettanti a ciascuno di essi. In ogni caso, in presenza dei familiari più stretti, la facoltà di disporre testamento è limitata dalle regole della cd. “successione
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necessaria”. Il coniuge, i figli e, in mancanza di figli, gli ascendenti, sono i cd. “legittimari” o “riservatari” o “successori necessari”. A norma di legge, essi hanno sempre il diritto - salvo ragioni di indegnità a succedere derivanti per esempio da gravi reati - di ottenere una quota del patrimonio del defunto. La volontà del testatore nel disporre del proprio patrimonio, infatti, non è illimitata ma deve rispettare le cd. “quote di legittima” o “quote di riserva”, variamente articolate a seconda della presenza del solo coniuge o anche dei figli, potendo egli liberamente disporre soltanto della cd. “quota disponibile”. Quanto alla successione testamentaria, il Codice civile prevede tra le forme ordinarie il testamento olografo, cioè scritto per intero, datato e sottoscritto di mano del testatore (articolo 602 del Codice civile); il testamento pubblico per atto di notaio (articolo 603 del Codice civile) ed il testamento segreto (articolo 604 del Codice civile), che consiste in uno scritto che il notaio riceve e conserva agli atti con notevoli formalità. Mai come nel testamento, come si dice, la forma è sostanza, perchè la volontà del testatore deve essere rigorosamente espressa secondo le norme del Codice civile e spesso basta un vizio di forma per privare di efficacia il testamento. Quanto alla successione legittima (non c’è il testamento o il testamento è stato annullato o le disposizioni testamentarie non riguardano tutto il patrimonio del defunto; articolo 565 e ss. del Codice civile) la regola è che ereditano innanzitutto i figli ed il coniuge, in proporzioni diverse a seconda della contemporanea presenza o meno degli uni o degli altri e del numero di figli (se non c’è il coniuge, spetta tutto ai figli; se c’è il coniuge, a questi spetta un terzo in presenza di più di un figlio oppure un mezzo in presenza di un solo figlio); se non ci sono figli, ereditano il coniuge, i genitori, i fratelli e le sorelle (due terzi al coniuge, un terzo a genitori e fratelli e sorelle; se non ci sono questi ultimi va tutto al coniuge); se non ci sono né figli né coniuge superstite, ereditano i genitori, i fratelli e le sorelle; se nessuno dei figli, del coniuge, dei genitori, dei fratelli e delle sorelle sia sopravvisuto, si procede nella linea di parentela (sia diretta che collaterale) fino al sesto grado e mancando ogni parente, eredita lo Stato. Si tenga presente che ciascun grado esclude il successivo e che in ogni caso
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si applica il criterio della rappresentazione: se uno dei parenti indicato quale “successore legittimo” non può o non vuole accettare l’eredità, per la sua quota subentrano i discendenti. Quanto alla successione necessaria (articolo 536 e ss. del Codice civile), come si è detto, essa è costituita da un insieme di regole dirette a garantire la posizione ed i diritti dei familiari più stretti del defunto, che è tenuto ad assicurare al coniuge e ai figli una quota del proprio patrimonio. In particolare, la quota di riserva per il coniuge in assenza di figli è pari alla metà del patrimonio relitto, che diventa un terzo se concorre un solo figlio e un quarto se concorrono più figli; la quota di riserva spettante ai figli è di metà del patrimonio se il figlio è uno solo, di due terzi se i figli sono di più. Come si accennava sopra illustrando le caratteristiche del “patto di famiglia”, la quota disponibile si calcola riunendo al patrimonio relitto, sottratti i debiti, anche il valore dei beni donati dal de cuius quando era in vita secondo il loro valore di mercato al momento dell’apertura della successione. Se le attribuzioni ottenute (per donazione e/o disposizione testamentaria) risultano inferiori alla quota spettante al legittimario e risultano viceversa eccedere la “quota disponibile” non per ciò solo risultano nulle, ma il legittimario può agire con la cd. “azione di riduzione”, cioè proponendo una controversia legale con la quale egli può chiedere di ridurre e di rendere inefficaci in tutto o in parte le disposizioni ritenute lesive nei suoi confronti. Se l’azione è accolta, l’erede beneficiario della disposizione lesiva è tenuto a restituire il bene ottenuto in tutto o in parte, ovvero a pagare i necessari conguagli ai legittimari secondo i valori stabiliti dalla pronuncia giudiziaria. CONFLITTO TRA COEREDI E CONTINUITÀ DELL’ESERCIZIO DELLA FARMACIA La lite tra coeredi derivante da una lamentata lesione di legittima è solo uno dei casi di possibile conflittualità successoria, ma ovviamente non è l’unico. Le disposizioni testamentarie, come abbiamo visto, specie se “fatte in casa” senza l’assistenza di professionisti esperti, possono essere contestate sia nella forma sia nella sostanza. Quasi paradossalmente, tuttavia, non è raro il conflitto tra i coeredi in farmacia scaturente da situazioni di succes-
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sione legittima, nelle quali cioè il titolare ha ritenuto di non lasciare alcuna disposizione testamentaria, neppure per indicare a quale soggetto (un figlio, il coniuge) ha inteso lasciare l’azienda o la quota dell’azienda. In questo caso, infatti, la farmacia entra a far parte della comunione ereditaria, cioè del patrimonio indiviso del de cuius caduto in successione, nella quale partecipano tutti i coeredi, salvo rinuncia di qualcuno di essi, secondo le quote e le particolari regole stabilite dal Codice civile. Per essere autorizzati alla gestione provvisoria, i coeredi devono innanzitutto trovare un accordo sulla nomina del direttore, che può essere uno di loro ovvero un soggetto esterno alla comunione ereditaria. Se l’accordo non si trova, neppure con un voto a maggioranza, persistendo l’inerzia o la discordia dei partecipanti, ciascuno dei coeredi può rivolgersi all’autorità giudiziaria per ottenere la nomina del direttore mediante provvedimento del giudice, che può anche nominare un amministratore. Per tutto il biennio di gestione provvisoria, la comunione ereditaria può rimanere indivisa, anche se i coeredi possono sempre domandare la divisione in ogni momento (articolo 713 del Codice civile). La farmacia in questa fase è gestita secondo le regole delle società commerciali: ciascuno dei coeredi risponde delle obbligazioni assunte verso i terzi nell’esercizio dell’impresa e gli utili maturati vengono ripartiti secondo le rispettive quote. Altri problemi, dunque, possono insorgere durante tale periodo di gestione, in presenza di punti di vista differenti tra i vari soggetti coinvolti, farmacisti e non farmacisti, prestatori d’opera o meno, rispetto alle scelte strategiche aziendali. È evidente che tutto ciò non giova alla forza ed all’andamento economico della farmacia e neppure al benessere economico e personale dei coeredi coinvolti. La divisione comunque dovrà avvenire, a pena di decadenza da ogni diritto, entro e non oltre la scadenza del biennio di gestione provvisoria, termine entro il quale la farmacia o la quota di società tra farmacisti, come si diceva, deve tornare ad essere intestata ad un farmacista idoneo. In questa ultima e delicata fase, non è raro che i rapporti tra i coeredi risultino ancora più tesi. Chi deve essere liquidato non si accontenta del conguaglio pro-
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posto, perché si vede sottratta una fonte di reddito per gli anni futuri; chi deve assumere la responsabilità della farmacia non intende avviare la propria gestione sotto il peso di debiti o di impegni economici, spesso ritenuti iniqui perché talvolta determinati senza considerare la fatica dell’impegno professionale ed il rischio d’impresa. Mentre si accende o si rinfocola la lite familiare, è il momento in cui i più ragionevoli tra i protagonisti della vicenda normalmente si chiedono perché il capostipite defunto non abbia organizzato il passaggio generazionale dell’azienda finché era in vita o perché egli non abbia infine lasciato una precisa volontà testamentaria che indicasse con chiarezza la via da seguire per garantire continuità di esercizio alla farmacia.
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La parola al commercialista LA SUCCESSIONE “Quando un testatore non vi ha lasciato niente, probabilmente vi voleva risparmiare le imposte di successione” (Peter Ustinov). Ai fini fiscali qualsiasi trasferimento mortis causa avente ad oggetto beni, anche situati all’estero, e diritti (ivi inclusa la costituzione di diritti reali di godimento, la rinuncia a diritti reali o di credito nonché la costituzione di rendite e pensioni) è tassato ai fini dell’imposta sulle successioni (D.Lgs. 346/1990 e successive modificazioni). Qualsiasi bene trasferito concorre a formare la base imponibile oggetto di tassazione: beni mobili, denaro, gioielli, che, salvo dettagliato inventario, si presumono pari al 10% del valore globale netto imponibile dell’asse ereditario nonché beni immobili e diritti reali immobiliari, costituzione di rendite e pensioni, aziende e quote di partecipazione al capitale di società, azioni, obbligazioni e altri titoli, crediti eccetera. Questo con alcune eccezioni: non rientrano nell’attivo ereditario, e sono quindi esenti da tassazione, le azioni e i titoli nominativi intestati al de cuius, alienati prima dell’apertura della successione con atto autentico o con girata autenticata, le indennità spettanti per diritto proprio agli eredi in forza di assicurazioni previdenziali obbligatorie o stipulate dal de cuius, i veicoli iscritti al Pubblico registro automobilistico, i titoli di Stato ed equiparati, anche qualora gli stessi siano compresi in quote di fondi comuni di investimento. La base imponibile dell’imposta sulle successioni è data dalla somma algebrica del valore di tutti i beni trasmessi dal defunto ai propri eredi, al netto delle passività e degli oneri deducibili (spese mediche e funerarie). Dal momento che sono tassati anche i crediti, i rapporti bancari del defunto rimangono bloccati in attesa della dimostrazione all’istituto di credito dell’avvenuto pagamento dell’imposta di successione. L’Agenzia delle Entrate ha affermato che l’imposta in commento è dovuta sul valore della singola quota trasferita all’erede o sul valore del singolo legato e non più, come avveniva in passato, anche sull’intero asse ereditario (cfr. Circolare 3/E/2008). Per-
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tanto, ai fini della determinazione del valore della singola quota e poi dell’imposta dovuta, occorre definire preventivamente il valore dell’intero attivo ereditario, che dovrà essere successivamente suddiviso per quote (articolo 2, comma 48, DL 262/2006): l’imposta sulle successioni si ripercuote, quindi, sul valore dei beni devoluti a favore del singolo beneficiario. Al pari dell’imposta di donazione, la misura dell’imposta sulle successioni varia a seconda della linea e del grado di parentela intercorrente tra il de cuius e il beneficiario del trasferimento (cfr. tabella di pag. 26); le aliquote e le franchigie di tale imposta sono le medesime già descritte con riguardo all’imposta di donazione. TRASFERIMENTO MORTIS CAUSA
SUCCESSIONE A FAVORE DI EREDI LEGITTIMARI O FRATELLI/SORELLE
ASSE EREDITARIO ENTRO LA FRANCHIGIA
SUCCESSIONE A FAVORE DI ALTRI SOGGETTI
ASSE EREDITARIO ECCEDENTE LA FRANCHIGIA
NESSUNA FRANCHIGIA
Ai fini della sua determinazione, nonché al fine di determinare il valore al netto della franchigia eventualmente spettante, il valore globale netto dell’asse ereditario deve essere maggiorato di «un importo pari al valore attuale complessivo di tutte le donazioni fatte dal defunto agli eredi e ai legatari, comprese quelle presunte di cui all’articolo 1 comma 3, ed escluse quelle indicate all’articolo 1, comma 4, e quelle registrate gratuitamente o con pagamento dell’imposta in misura fissa a norma degli articoli 55 e 59; il valore delle singole quote ereditarie o dei singoli legati è maggiorato, agli stessi fini, di un importo pari al valore attuale delle donazioni fatte a ciascun erede o legatario» (articolo 8, comma 4, D.Lgs. 346/1990). Ciò, secondo l’Amministrazione Finanziaria
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(cfr. Circolare 3/E/2008), solo nel caso di trasferimenti per i quali sia possibile applicare una franchigia e al fine di verificare che la franchigia stessa non sia già stata esaurita ad opera di precedenti trasferimenti a titolo gratuito che a loro volta abbiano già fruito dell’esenzione; il valore così ottenuto non deve, invece, essere utilizzato come base imponibile. Al riguardo occorre sottolineare come l’impostazione dell’Amministrazione Finanziaria sopra delineata sia contraria a quella accolta dalla dottrina prevalente. Inoltre, tale approccio comporta un’applicazione retroattiva delle norme tributarie in quanto nel calcolo del coacervo vengono incluse donazioni effettuate quando il D.Lgs. 346/1990 era stato abrogato. Analogamente alla donazione e al patto di famiglia, il trasferimento dell’azienda-farmacia ovvero delle partecipazioni societarie mortis causa può beneficiare dell’esenzione da imposizione purché siano rispettate tutte le condizioni richieste ex lege. Tenuti a corrispondere l’imposta sulle successioni sono gli eredi e i legatari del de cuius (articoli 5 e 36, commi 1 e 5, del D.Lgs. 346/1990). Ciò che fa scattare tale onere è sostanzialmente l’accettazione dell’eredità: i chiamati all’eredità che non hanno il possesso dei beni diventeranno soggetti passivi d’imposta soltanto se e in quanto accetteranno l’eredità. Da ciò deriva che il chiamato all’eredità, che possiede i beni ereditari, dovrà anticipare, nel limite del valore dei beni posseduti, quanto poi dovrà essere corrisposto definitivamente da chi effettivamente risulterà erede (articolo 36, comma 3, del D.Lgs. 346/1990). Di conseguenza, soggetti passivi dell’imposta sulle successioni sono: ♦ i chiamati che hanno accettato l’eredità; ♦ i legatari che non hanno espressamente rinunciato al legato; ♦ i chiamati che hanno il possesso dei beni ereditari. Nel determinare l’imposta sulle successioni, tuttavia, occorre considerare la posizione dei chiamati che non hanno ancora accettato o che non hanno il possesso dei beni, purché non vi abbiano rinunziato. Entro dodici mesi dall’apertura della successione deve essere presentata, anche da uno solo dei soggetti tenuti, la dichiarazione di successione, modificabile fino alla scadenza del termine di presentazione. Obbligati a provvedere a tale adempimento sono i seguenti
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soggetti (articoli 28 e 29 del D.Lgs. 346/1990): ♦ i chiamati all’eredità e i legatari, ovvero i loro rappresentanti legali; ♦ gli immessi nel possesso temporaneo dei beni dell’assente; ♦ gli amministratori dell’eredità e i curatori dell’eredità giacente; ♦ gli esecutori testamentari. Se, con riferimento alla stessa successione, vi sono più soggetti tenuti a presentarla, la presentazione può essere effettuata anche da uno solo di essi. La dichiarazione di successione non deve essere presentata quando sussistono contemporaneamente le seguenti condizioni: ♦ l’eredità è devoluta al coniuge e ai parenti in linea retta del defunto; ♦ l’attivo ereditario ha un valore non superiore a € 25.822,84; ♦ l’eredità non comprende beni immobili o diritti reali immobiliari. Se tali condizioni vengono a mancare per effetto di sopravvenienze ereditarie, la dichiarazione deve essere presentata. La dichiarazione di successione è un adempimento di natura fiscale avente l’obbiettivo di denunciare il passaggio del patrimonio ereditario dal de cuius agli eredi e/o ai legatari e consentire la liquidazione della relativa imposta sulle successioni. Infatti l’Agenzia delle Entrate provvederà a liquidare l’imposta di successione sulla base della dichiarazione di successione presentata. Può accadere che nel dichiarare il valore dei beni ereditari il contribuente abbia commesso un errore. In tal caso è possibile chiedere il rimborso dell’imposta di successione illegittimamente pagata, ancorché sia scaduto il termine per la correzione della dichiarazione (Corte di Cassazione, Sentenza n. 4755 del 25 febbraio 2008). L’articolo 42, comma 1, del D.Lgs. 346/1990 stabilisce, infatti, che deve essere rimborsata, unitamente agli interessi, alle soprattasse e alle pene pecuniarie eventualmente pagati, l’imposta indebitamente versata o risultante pagata in eccesso. Non va poi trascurato che l’articolo 10, comma 1, della Legge 212/2000 (cd. “Statuto dei diritti del contribuente”) dispone che «i rapporti tra contribuente e Amministrazione Finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede». Regola sì generale, ma che tuttavia deve sempre informare lo svolgimento delle attività di Amministrazione Finanziaria e con-
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tribuente nei loro reciproci rapporti: una regola, quindi, che deve trovare applicazione relativamente a tutti i rapporti giuridici tributari. Nell’ambito di siffatto sistema deve riconoscersi al contribuente il diritto di far valere, attraverso la procedura del rimborso, eventuali errori commessi in buona fede nella redazione della dichiarazione tributaria (a maggior ragione se da essi discende l’applicazione di un’imposta superiore a quella realmente dovuta), mentre all’Amministrazione Finanziaria il potere di rettificare la dichiarazione. In quest’ottica, la dichiarazione è stata ritenuta rettificabile nei seguenti casi: ♦ errore sull’esistenza del presupposto tributario; ♦ errore materiale; ♦ errore od omissione; ♦ erronea valutazione di una situazione giuridica o erronea rappresentazione di circostanze di fatto; ♦ errore “di diritto” circa la qualificazione come reddito imponibile di una determinata imposta. In altri termini, la possibilità di rimediare agli errori (anche non meramente materiali o di calcolo) contenuti in dichiarazioni (o comunque in atti dello stesso contribuente costituenti il presupposto dell’imposizione fiscale) deve avere valenza generale, in attuazione del principio, esistente ancor prima dell’espresso riconoscimento contenuto nell’articolo 10 precedentemente citato, della collaborazione e della buona fede che deve ispirare i rapporti tra contribuente e Amministrazione Finanziaria. Ciò in quanto il principio di buona fede, che impone al contribuente di adottare un comportamento corretto nei confronti dell’Amministrazione Finanziaria, non può essere univocamente inteso nel solo senso di consentire al contribuente di dichiarare o correggere situazioni sfavorevoli a sé ma favorevoli all’Amministrazione Finanziaria, bensì anche nel senso opposto e, quindi, di correggere situazioni a sé favorevoli e sfavorevoli al Fisco. Consentire all’Amministrazione Finanziaria di trattenere somme indebitamente riscosse a seguito di un’errata dichiarazione operata dal contribuente del tutto in buona fede rappresenterebbe una palese violazione dell’obbligo di correttezza a carico del Fisco che, prima ancora di essere sancito nello “Statuto dei
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Parte IV - Il passaggio generazionale della farmacia mortis causa
diritti del contribuente”, trova la sua origine nell’articolo 97, comma 1, della Costituzione, nella parte in cui viene sancito il principio del buon andamento dell’azione amministrativa. Anche la consolidata giurisprudenza di legittimità è ormai orientata a favore della legittimità della richiesta di rimborso dell’imposta di successione versata in eccesso a seguito di un’erronea valutazione di un bene ereditario effettuata bona fide dal contribuente nel redigere la dichiarazione di successione. La rettifica della dichiarazione di successione, che può avere luogo anche dopo la scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione stessa, se fondata, deve essere presa in considerazione dall’Ufficio ai fini della liquidazione dell’imposta dovuta ex articolo 33 del D.Lgs. 346/1990. Il discorso cambia quando il contribuente intenda far valere precisazioni o rettifiche diverse dai meri errori materiali o di calcolo. In tal caso, occorre utilizzare le stesse forme e rispettare gli stessi termini previsti per la dichiarazione che si intende correggere, la quale viene così sostituita da quella successivamente presentata. Ai fini delle imposte sui redditi (Irpef) anche il trasferimento mortis causa della farmacia ai familiari è fiscalmente neutro, nel senso che non emerge alcuna plusvalenza tassata e la farmacia ovvero la quota di partecipazione in società titolare di farmacia è assunta dagli eredi agli stessi valori fiscalmente riconosciuti in capo al defunto, con la conseguenza che la plusvalenza latente sarà tassata se e quando l’erede o gli eredi decidessero di vendere a loro volta la farmacia ovvero il 100% delle quote di partecipazione.
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Il passaggio della farmacia - Di padre in figlio e non solo
CASE HISTORY Donazione modale e successione: prevenire è meglio che curare? Alla luce di quanto esposto, un farmacista, che sia anche un valido imprenditore, deve assumere un atteggiamento proattivo nei confronti del passaggio generazionale. Tale atteggiamento impone, quindi, un’attenta pianificazione in vita della successione in farmacia. Ha tale scelta anche benefici fiscali rispetto al semplice trasferimento della farmacia mortis causa? Può l’apposizione alla donazione di un onere modale avere risvolti fiscali positivi? Il caso illustrato di seguito può fornire la risposta a tali domande. Farmacista, imprenditore individuale, vedovo e con due figli. Il patrimonio familiare è composto dall’azienda-farmacia e da beni immobili per un valore globale di € 800.000,00 e disponibilità liquide di € 160.000.00. Valore dell’avviamento dell’azienda-farmacia non iscritto a bilancio: € 2.000.000,00 Patrimonio netto contabile dell’azienda-farmacia, escluso l’avviamento: € 400.000,00 SUCCESSIONE MORTIS CAUSA DELLA FARMACIA ALL’UNICO FIGLIO FARMACISTA Supponiamo che il farmacista, come a volte accade anche in considerazione delle implicazioni psicologiche, decida di non disporre in vita del proprio patrimonio e abbia redatto testamento, attribuendo ad ogni figlio il 50% del proprio patrimonio e lasciando interamente i beni immobili e le disponibilità liquide al figlio non farmacista. Quindi: ♦ al figlio non farmacista: € 800.000,00 (beni immobili) € 160.000,00 (100% delle disponibilità liquide) € 720.000,00 (30% della farmacia) per un totale di € 1.680.000,00
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Parte V - Case history
♦
al figlio farmacista: € 1.680.000,00 (70% della farmacia) Nella fattispecie la successione mortis causa non sconta alcuna imposta sulle successioni in capo al figlio farmacista in quanto il patrimonio netto contabile dell’azienda caduta in successione trova capienza nella franchigia lui spettante; viceversa il valore trasferito al figlio non farmacista verrà tassato per € 80.000,00 (importo eccedente la franchigia spettante), con l’aliquota del 4% (imposta sulle successioni dovuta: € 3.200,00). All’apertura della successione si viene a costituire tra i figli una comunione ereditaria che potrà gestire la farmacia per due anni. Allo scadere di tale termine, oltre a dovere essere stata regolarizzata la comunione ereditaria in società di persone (Snc ovvero Sas), deve essere trasferita la titolarità della farmacia in capo a soggetto in possesso dei requisiti previsti ex lege. La farmacia potrebbe, quindi, essere ceduta all’erede farmacista ovvero ad un terzo. In ogni caso, la plusvalenza realizzata è assoggettata a tassazione. Tale onere fiscale potrebbe essere evitato anticipando il passaggio generazionale in vita. Evidentemente il titolare, nel trasferire l’azienda, deve garantirsi un adeguato tenore di vita; potrebbe, quindi, gravare la donazione da onere modale costituito da un vitalizio. Come già rilevato, tale onere è tassato ai fini Irpef in capo al donante percipiente, ma è deducibile ex articolo 10 del Tuir in capo al donatario erogante. DONAZIONE CON ONERE MODALE DELLA FARMACIA A FAVORE DELL’UNICO FIGLIO FARMACISTA Supponiamo che l’onere modale sia pari a € 3.000,00 lordi mensili, pari a € 36.000,00 lordi annui. Ipotizzando che il donante abbia settant’anni, il valore complessivo dell’onere modale attualizzato sarebbe pari a € 1.440.000,00; conseguentemente, il valore globale donato al figlio farmacista non sarebbe pari a € 2.400.000,00, bensì a € 960.000,00. Quindi: ♦ al figlio non farmacista: € 800.000,00 (beni immobili) € 160.000,00 (100% delle disponibilità liquide) per un totale di € 960.000,00
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Il passaggio della farmacia - Di padre in figlio e non solo
♦
al figlio farmacista: € 960.000,00 (farmacia al netto dell’onere modale) Ipotizzando che non vi siano state donazioni pregresse rispetto a quella in oggetto, la stipula di una donazione d’azienda con onere modale comporterebbe la seguente tassazione: ♦ imposta sulle donazioni: nessuna imposta è dovuta in quanto il valore donato è inferiore alla franchigia; ♦ Irpef: l’onere modale (€ 3.000,00 lordi mensili, pari a € 36.000,00 lordi annui) è tassato in capo al donante ai fini Irpef, ma è deducibile ex articolo 10 del Tuir in capo al figlio donatario. Tale soluzione evita la tassazione sia ai fini dell’imposta sulle successioni sia, soprattutto, ai fini delle imposte dirette, pur consentendo un’equa suddivisione del patrimonio familiare. Prevenire a volte può essere meglio che curare.
Vendita d’azienda (cessione diretta) Si ipotizzi la vendita di una farmacia al prezzo di € 2.000.000,00. Tale operazione straordinaria genera in capo al titolare cedente una plusvalenza tassata ai fini Irpef in misura ordinaria, salva la facoltà, sussistendo i necessari requisiti di legge, per il titolare di assoggettarla a tassazione separata ovvero rateizzarla in cinque anni. Ipotizzando la tassazione ordinaria, il titolare dovrà, quindi, versare a titolo di Irpef: ♦ € 25.420,00 + (€ 2.000.000,00 - € 75.000,00 ) x 43%
Reddito imponibile
Aliquota
Irpef lorda
Fino a € 15.000,00
23%
23% del reddito
Oltre € 15.000,00 e fino a € 28.000,00
27%
€ 3.450,00 + 27% sulla parte che eccede € 15.000,00
Oltre € 28.000,00 e fino a € 55.000,00
38%
€ 6.960,00 + 38% sulla parte che eccede € 28.000,00
Oltre € 55.000,00 e fino a € 75.000,00
41%
€ 17.220,00 + 41% sulla parte che eccede € 55.000,00
Oltre € 75.000,00
43%
€ 25.420,00 + 43% sulla parte che eccede € 75.000,00
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Parte V - Case history
= € 853.170,00 (Irpef dovuta dal cedente). Ipotizzando un valore del magazzino di € 200.000,00, l’acquirente dovrà corrispondere a titolo di imposta di registro la seguente somma: ♦ (€ 2.000.000,00 + € 200.000,00) x 3% = € 66.000,00. Il valore di avviamento dà luogo ad ammortamenti fiscalmente deducibili per il cessionario in ragione di 1/18 del costo all’anno. Gli altri componenti dell’azienda acquisita saranno, invece, ammortizzabili in un periodo generalmente più breve. Ipotizzando un’aliquota fiscale media del farmacista cessionario pari al 35%, il beneficio fiscale annuo sarà pari a € 39.000,00 circa, che, attualizzato su un orizzonte di diciotto anni, determina un complessivo beneficio fiscale di € 572.000,00 circa. Analoghe considerazioni valgono per l’imposta di registro, deducibile in cinque anni; il costo reale al netto del beneficio connesso alla deducibilità è pari a € 44.000,00. Il vantaggio fiscale per il cessionario può essere ancora maggiore se il reddito generato dalla farmacia è in grado di sopportare, oltre a detti ammortamenti, anche il peso di interessi passivi su un eventuale finanziamento bancario che il cessionario potrebbe contrarre. È evidente, quindi, che un’attenta pianificazione dell’operazione, comprendente anche una ragionevole stima dei risultati futuri della farmacia, può portare a minimizzare il carico fiscale in capo al cessionario. Omettendo di considerare gli interessi passivi sia in termini di onere finanziario sia in relazione alla loro deducibilità fiscale, gli effetti economici per le parti sono quelli illustrati nella tabella che segue.
Cedente
Cessionario
Corrispettivo della cessione Irpef Beneficio fiscale Ricavo netto dell’operazione
€ 2.200.000,00
Corrispettivo della cessione
€ 2.200.000,00
€ 853.170,00
Imposta di registro
€ 66.000,00 – € 22.000,00 = € 44.000,00
€0
Beneficio fiscale (*)
€ 572.000,00
€ 1.346.830,00
Costo effettivo dell’operazione
€ 1.672.000,00
Differenza tra costo effettivo per il cessionario e ricavo netto per il cedente € 325.170,00
(*) Si precisa che il beneficio fiscale è stato attualizzato al tasso del 2,5% 89
Il passaggio della farmacia - Di padre in figlio e non solo
Cessione indiretta SENZA AFFRANCAMENTO DELL’AVVIAMENTO Ipotizziamo il caso di un farmacista che, anziché vendere l’azienda tout court, preferisca optare per la cosiddetta cessione indiretta (conferimento dell’azienda ex articolo 176, comma 1, del Tuir e successiva cessione, ex articolo 176, comma 2-bis, del Tuir, delle quote di partecipazione). Supponiamo che il valore di realizzo delle quote sia di € 2.200.000,00, il cui costo fiscalmente riconosciuto in capo al cedente sia pari a € 200.000,00. Il cedente realizza una plusvalenza di € 2.000.000,00 (€ 2.200.000,00 - € 200.000,00). Tale plusvalenza è tassata con le aliquote progressive Irpef soltanto per il 49,72% del suo ammontare e, quindi, per € 994.400,00; l’Irpef dovuta sarà, quindi, pari a € 420.762,00. Cedente
Cessionario
Corrispettivo della cessione
€ 2.200.000,00 € 420.762,00
Irpef
€0
Beneficio fiscale Ricavo netto dell’operazione
€ 1.779.238,00
Corrispettivo della cessione
€ 2.200.000,00 € 168,00
Imposta di registro
€0
Beneficio fiscale Costo effettivo dell’operazione
€ 2.200.168,00
Differenza tra costo effettivo per il cessionario e ricavo netto per il cedente € 420.930,00
Il cessionario, dal canto suo, acquista una partecipazione con un valore di carico fiscale di € 2.200.000,00 (pari al costo di acquisizione), ma il complesso aziendale sottostante continua ad avere un valore di carico fiscale di € 200.000,00 (in quanto conferito ex articolo 176 del Tuir in regime di neutralità fiscale), con la conseguenza che il cessionario non potrà dedurre dal proprio reddito d’impresa, tramite il processo di ammortamento, il plusvalore di € 2.000.000,00 pagato al cedente.
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Parte V - Case history
CON AFFRANCAMENTO DELL’AVVIAMENTO Ipotizziamo, infine, il caso della cessione indiretta con affrancamento dell’avviamento. Il cedente affranca l’avviamento pagando un’imposta sostitutiva del 12% (€ 240.000,00). Cedente
Cessionario
Corrispettivo della cessione
€ 2.200.000,00
Corrispettivo della cessione
€ 2.200.000,00
Imposta sostitutiva affrancamento € 240.000,00 avviamento
Imposta di registro
€ 168,00
€0
Beneficio fiscale (*)
€ 572.000,00
Beneficio fiscale Ricavo netto dell’operazione
€ 1.960.000,00
Costo effettivo dell’operazione
€ 1.628.168,00
Differenza tra costo effettivo per il cessionario e ricavo netto per il cedente - € 331.832,00
(*) Si precisa che il beneficio fiscale è stato attualizzato al tasso del 2,5%.
Avendo affrancato l’avviamento, il cedente non realizzerà alcuna plusvalenza e, quindi, all’atto di cessione delle quote non sarà dovuto nulla a titolo di Irpef. Il cessionario, analogamente alla cessione diretta dell’azienda, potrà ammortizzare l’avviamento iscritto a bilancio, con i conseguenti benefici fiscali. Non potrà, invece, dedurre gli interessi passivi in quanto l’eventuale debito contratto avrà natura personale e non aziendale. A fronte di questo non dovrà, però, corrispondere alcuna imposta di registro in misura proporzionale, essendo dovuta unicamente l’imposta di registro in misura fissa (€ 168,00).
Operazione straordinaria
Cedente
Cessionario
Cessione diretta
€ 1.346.830,00
€ 1.672.000,00
Cessione indiretta senza affrancamento dell’avviamento
€ 1.779.238,00
€ 2.200.168,00
Cessione indiretta con affrancamento dell’avviamento
€ 1.960.000,00
€ 1.628.168,00
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Il passaggio della farmacia - Di padre in figlio e non solo
Operazione straordinaria
Differenza tra costo effettivo per il cessionario e ricavo netto per il cedente
Cessione diretta
€ 325.170,00
Cessione indiretta senza affrancamento dell’avviamento
€ 420.930,00
Cessione indiretta con affrancamento dell’avviamento
- € 331.832,00
È, pertanto, evidente che il corrispettivo di cessione dell’azienda differirà da quello di cessione delle quote di partecipazione e che quest’ultimo dipenderà dal fatto che il cedente abbia optato o meno per l’affrancamento dell’avviamento (cfr. articolo 176, comma 2-ter, del Tuir). Non esiste una soluzione univoca in quanto gli effetti in capo al cedente e al cessionario non sono identici e, quindi, la soluzione definitiva dipenderà anche dalla forza contrattuale delle parti.
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CONCLUSIONI di Quintino Lombardo Poche considerazioni ancora per approfittare ulteriormente della pazienza dei lettori. Nonostante l’impegno profuso per illustrare e semplificare al massimo gli argomenti trattati, la lettura delle pagine precedenti potrebbe non essere risultata facile come gli autori avrebbero voluto. Vi preghiamo di non volercene a male. Sono state affrontate questioni complicate, sia sotto il profilo giuridico che sotto quello fiscale; e si è cercato di fare tutto il possibile per semplificare senza banalizzare, con l’obiettivo di fornire ai titolari di farmacia interessati al passaggio generazionale delle proprie aziende i primi elementi di base per orientarsi e farsi qualche idea. In quanto scritto non vi è ovviamente alcuna pretesa di esaustività, perché di molto altro si poteva parlare. La vita concreta è molto più varia e complicata di quanto si possa immaginare e le aspettative e le esigenze del titolare di farmacia e dei familiari coinvolti possono essere valutati soltanto caso per caso. La soluzione individuata in una vicenda familiare può non essere la migliore o la più opportuna in altre circostanze sia pure somiglianti o assimilabili. Solo una consulenza professionale specifica può stabilire qual è la via più utile da seguire per il passaggio generazionale nella farmacia, tenendo conto delle mille questioni da affrontare. Per usare uno slogan, non esiste il prêt à porter, solo abiti tagliati su misura con l’aiuto indispensabile di sarti volenterosi. In concreto, affrontare l’argomento del passaggio generazionale della farmacia alla quale si sono dedicati anni di vita, di lavoro e di impegno professionale, può risultare difficile o addirittura sgradevole. La qualità del dialogo tra i familiari può fare la differenza, ma aiuta molto anche tenere presente un concetto fondamentale: l’impegno, la concordia e la compattezza di una famiglia può fare la fortuna di una farmacia, ma il conflitto familiare può risultare molto dannoso se non addirittura letale. Il passaggio generazionale rientra nella propria responsabilità di professionisti ed imprenditori. Occorre avere il coraggio
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Il passaggio della farmacia - Di padre in figlio e non solo
di esaminare con obiettività la situazione e di cominciare a discutere sul da farsi senza esitazioni, se si ritiene che sia giunto il momento giusto, in modo da far emergere aspettative ed aspirazioni professionali ed economiche di ciascuno dei familiari. I rapporti tra le generazioni possono non essere semplici, ma è necessario tenere presente l’obiettivo interesse aziendale prima ancora che i singoli interessi individuali, evitando di assecondare l’inevitabile tendenza di alcuni a portare su un piano economico la difficoltà dei propri rapporti personali con gli altri. Ma qual è il momento giusto per ragionare sul passaggio generazionale? Neppure in questo caso esiste una risposta valida per tutti, solo qualche criterio da tener presente, suggerito dall’esperienza. Non è bene attendere di essere troppo in là con gli anni, è opportuno affrontare l’argomento quando si è ancora in pieno possesso delle proprie energie professionali, in modo da poter gestire la fase del passaggio, di organizzarla nel tempo, di verificare se l’impianto giuridico progettato è utile o se abbisogna di una messa a punto. D’altra parte, come abbiamo visto, gli strumenti ipotizzabili sono molteplici e “passaggio generazionale” non per forza vuol dire cedere la farmacia da un giorno all’altro e mettersi masochisticamente in una posizione di necessità economica e professionale. Soprattutto se si ritiene di avere ancora un contributo da dare, possono essere ipotizzate soluzioni che prevedano un distacco graduale, tenendo conto dell’impegno di tutti. Poi bisogna ovviamente guardare, con tutta l’obiettività possibile, all’impegno, alla maturità ed all’esperienza professionale dei familiari che magari già da anni collaborano in farmacia. Anche in questo caso occorre equilibrio e senso di responsabilità: senz’altro bando ai privilegi, il ponte di comando bisogna guadagnarselo, ma i familiari farmacisti (ormai magari con i capelli bianchi) devono vedere dinanzi a sé la concreta prospettiva di un’effettiva crescita professionale. Ad ulteriore incoraggiamento, infine, va considerato che il superamento di un conflitto familiare conseguente all’apertura di una successione per causa di morte può risultare molto compli-
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Conclusioni
cato e difficile e che un contenzioso aspro tra gli eredi può talvolta mettere concretamente in pericolo l’attività della farmacia, la prosperità dell’azienda, la qualità dei rapporti personali e familiari. Il nuovo brevissimo termine di due anni di gestione provvisoria degli eredi certo non agevola la discussione ed è un motivo in più perché il titolare si occupi personalmente, quando è in vita ed ha le energie per farlo, delle questioni connesse al passaggio generazionale della propria farmacia. Tutti sono d’accordo sul fatto che il mondo sta cambiando con velocità molto maggiore rispetto al passato e, come si sa, il mondo delle farmacie non fa certo eccezione. In tale contesto di continuo ed indispensabile adattamento delle strategie aziendali, il passaggio generazionale appare davvero una questione cruciale perché il sistema delle farmacie italiane, l’attività delle quali è in molti casi organizzata su base familiare, consolidi la propria vocazione al servizio dei cittadini mantenendosi sempre al passo con il mutare delle esigenze sanitarie e sociali.
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