Libretto BAUSLER INSTITUT

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B A U S L E R I N S T I T U T

Accademia di Belle Arti di Urbino



Presidente, Senatore Giorgio Londei Come Presidente non posso non essere orgoglioso e onorato della straordinaria attività della Scuola di Scenografia che con Il barbiere di Siviglia, realizzato per la XXXV edizione del Rossini Opera Festival, ha ricevuto consensi internazionali ed è stato portato in tournée per le Marche. Con il Bausler Institut si rinnova la piacevole consuetudine e il privilegio di essere un appuntamento di TeatrOltre, palcoscenico per le più importanti esperienze del teatro di ricerca italiano, dimostrando una versatile attenzione ai linguaggi del teatro e dello spettacolo. Grazie al lavoro di tutti i docenti che di concerto concorrono a lanciare gli studenti di questa nostra scuola verso sfide sempre più importanti.


La distanza e il bersaglio Direttore Prof. Umberto Palestini Entrati nell’aula-teatro della scuola di Scenografia dell’Accademia di Belle Arti di Urbino ci si accorge immediatamente che non c’è un palcoscenico, né un posto preciso dove potersi sedere e osservare. Si entra direttamente dentro la scena ed è il Bausler Institut che ci accoglie, severo e monolitico, tant’è che si è portati a scostarsi leggermente, quasi ad evitare quella presenza statuaria e vagamente ingombrante. Di conseguenza il movimento che siamo costretti a compiere si rivela di tipo elicoidale, a spirale, così che gli spettatori si spostano lentamente e disegnano con i corpi un vortice che si avviluppa su stesso. La sensazione che si ricava assomiglia ad una discesa agli inferi, scandita dalla ripetizione delle frasi registrate, sempre uguali, sempre diverse. Ogni presenza, ogni gesto e parola degli studenti reclama attenzione, mentre lo sguardo fatica a ricostruire con la mente lo spazio, il luogo dell’azione. Tutt’intorno è una luce verdognola, colore dell’aldilà, che domina e illumina le scene e i costumi, tingendo i muri e ogni cosa intorno e scolorando le videoproiezioni alle pareti. Il Bausler è un luogo chiuso, ossimoro tra un’architettura che deve trattenere,

conservare e l’opposta spinta naturale della giovinezza, che consiste proprio nell’uscire, nello spiccare il volo. Non a caso ogni correlativo oggettivo nel romanzo della Jaeggy, da cui l’opera teatrale è liberamente inspirato, è uno spazio circoscritto: il lago di Costanza, il perimetro delle stanze dell’edificio, finanche le passeggiate, più simili all’ora d’aria dei prigionieri, piuttosto che a momenti di svago nella natura. Nel Bausler Institut le studentesse, come ninfe perennemente in attesa, sembrano evocare la latenza e la reticenza, perché «omettere non è mentire» e se in verità sappiamo fin dall’inizio che qualcosa di ineluttabile deve accadere, non ne potremo mai conoscere né il senso né il fine. Nessuna possibilità di riscatto è data, poiché solo nell’attesa di ciò che si deve compiere è racchiuso il senso e il significato, visto che in definitiva l’attesa non è solo una porzione di tempo tra un inizio e la sua conclusione, bensì uno spazio fisico, una stanza dove poter essere chi non saremo mai:«pensavo ancora – scrive Fleur Jaeggy - che per ottenere qualcosa bisognasse andare dritti allo scopo, mentre soltanto le distrazioni, la vaghezza, la distanza che ci avvicinano al bersaglio, è il bersaglio che ci colpisce». Bruno Bettelheim nella sua interpretazione psicoanalitica delle fiabe, descrive La bella addormentata nel bosco come la rappresentazione dell’adolescenza, ovvero quel momento della vita di una persona in cui si alternano periodi di grandi e rapidi mutamenti, caratterizzati da passività e torpore contrapposti a


frenetica attività. A volte anche comportamenti pericolosi volti «a mettere alla prova se stessi e a scaricare una tensione interna». Sono numerose le fiabe che raccontano di personaggi femminili che dormono (o in morte apparente, come ad esempio Biancaneve), poi risvegliate da principi azzurri con un bacio. Eppure se è il silenzio a dominare le pagine del romanzo, nell’opera teatrale è come se si volesse dar conto di quella latenza che serra e inchioda l’adolescenza, perché in verità non c’è riposo nell’attesa, non c’è quiete nell’aspettare di essere colpiti da un bersaglio. Non a caso gli elementi naturali che si avvicendano nel Bausler Institut della scuola di Scenografia sono il fuoco e l’acqua, elementi contrapposti e antitetici che messi forzatamente in relazione finiscono sempre con l’amplificare l’effetto emotivo e drammatico: come il tè sempre bollente, rifiutato dalla donna la cui figlia tenta nel finale di dare fuoco, i fiammiferi che s’accendono a intermittenza e la bambola che brucia e porta via con sé i sogni e i desideri della giovinezza. Nella rappresentazione teatrale ogni cosa sembra sospesa e indefinita, come una promessa che si deve ancora compiere o un viaggio che deve terminare, tuttavia è una strana forza che si fa strada durante l’opera, una sorta di rabbia e di frustrazione, espresse dal ballo e dalle negazioni delle ragazze del Bausler, una serena violenza che si alterna alla quiete e al silenzio delle vestizioni per la notte e delle passeggiate mattutine. Notte e mattina, buio e luce, fuoco e acqua

sono le coordinate del Bausler Institut, e se è quasi impossibile perdersi nelle scene dell’opera teatrale, appare assai più difficile ritrovare se stessi al termine dello spettacolo. Scrive Paul Valéry che “l’attesa è anticipazione, metà di un tutto, tempo guadagnato, accumulo. La sorpresa è retroazione, deficit, tempo perduto”. Nell’opera teatrale della scuola di scenografia dell’Accademia di Belle Arti di Urbino è andato in scena la descrizione di un vuoto apparente che si determina tra l’attesa e la sorpresa finale, il silenzio dell’adolescenza e della giovinezza contrapposti al segreto del sonno di una generazione che desidera svegliarsi ed uscire finalmente, definitivamente, dal Bausler Institut.


Al cospetto di immaginarie educande Sofia Vernaleone Una classe di giovani fenotipi specie se costituita per la maggior parte da individui di sesso femminile, non può che diventare all’occorrenza (Aula!)Teatro di nasi arricciati, sopracciglia aggrottate, bocche storte. L’adolescenza con tutti i suoi pruriti è certamente trascorsa da un pezzo, ma da buon Medioevo umano lascia alle sue spalle qualche piccola tortura, sia essa qualche foruncolo di troppo o semplicemente, un po’ di sano spirito del “non sono d’accordo, non sono per nulla al mondo d’accordo” (cit!). Tragico passaggio tra l’età in cui si vuole sempre avere ragione e l’età della ragione, tempi bui in cui la parola giudizio spesso e volentieri si riferisce solo ad un dente. Doloroso. Di sentimenti non si parla, è analogico. Così mi dicono. Viene fatta una sola eccezione, piuttosto frequente, a questo sistema di omissione emotiva, ed in effetti di qualcosa si discute molto: del FASTIDIO, signori. Non mi piace. Mi sta antipatica. Questo non mi sta bene. Che schifo. NO. NON. Qualcuno ha osservato la fauna studentesca, e ha capito che eviscerare la questione poteva essere una carta vincente. Esercizio: “Selezionare ed illustrare TRE cose che vi danno terribilmente fastidio. Solo tre.”

Da qui un dubbio di grande importanza: qual è il confine entro il quale è lecito compiere questa analisi dell’urticante? Seguono dibattiti privati sui massimi sistemi, più o meno sui generis “Mi danno noia gli egoisti… anche i capelli unti…”. Qualcuno prova fastidio per la bestemmia, e dall’altra parte del banco un altro arrossisce sentendosi chiamato in causa (e non in qualità di Dio). Complicità di teste che annuiscono alle antipatie del prossimo. Scopriamo che spesso si confonde il fastidio con la misantropia. Imputate le oche giulive, diverse folle infestanti come la zizzania e gente con “Poca acutezza di sguardo”.La pena di morte e l’amore…ognuno ha le sue priorità. Il passo seguente è ricercare la medesima carica di irritazione nella letteratura e nella musica. Baudelaire ed altri signori vengono non solo scomodati in servizio del nostro sdegno, ma la declamazione dei loro scritti è seguita da agghiaccianti canzoncine infantili e metallari che “cosa urlano a fare, sbattendo quelle teste, che fastidio ”. Appunto. Per la prima (e speriamo ultima) volta nella storia, il Pulcino Pio e Joyce concorrono nello stesso ambito. La settimana seguente l’acuto osservatore faunistico di cui sopra, dopo aver passato ai raggi il nostro disappunto, mette al centro del nostro tavolo un libro. Un romanzo di poche pagine, intitolato I beati anni del castigo, autrice Fleur Jaeggy. In breve, e senza svelare troppo ai futuri lettori ed astanti, la storia narra le vicende interne ad un collegio femminile sito nell’Appenzell, il Bausler Institute, finestre listate di bianco e vaste di-


stese di verde ed acqua da contemplare, già che non c’è molto altro da fare. La voce narrante è un ex allieva della scuola, una fanciulla senza nome, che apre il vaso di Pandora della sua pubertà liberando fra le righe smanie, repellenze ed estrogeni. Ci sono polpacci grossi e seni appuntiti, odori forti e mani da vecchia e tutti questi umori turbano la sua quiete. E soprattutto, c’è Frèdèrique : allieva più grande, più affascinante, più intelligente delle altre. Frèdèrique che scrive con la sua bella calligrafia “ti abbraccio” ma nella “Realtà” è come priva di arti, di epidermide, di cuore. La studentessa X che ne soffre oltre ogni dire, e ripiega su un rapporto pseudo intellettuale, sfogando tuttavia il suo bisogno di affetto in conoscenze meno raffinate ma capaci di ridere, sudare e trasmettere calore. Atletico slalom e salto dell’ostacolo per non dichiarare particolari scomodi di alcun genere, invero risulta questa la volontà del romanzo, che nega ancor prima di aver affermato. Ci ritroviamo al cospetto di immaginarie educande, ed inizia il gioco dei neuroni specchio. Le nostre intenzioni vanno stranamente “all’unisono”, il fastidio ha messo d’accordo tutti e la Jaeggy a messo in accordo tutti i fastidi: il Bausler Institute ospiterà il nostro spettacolo. Repentinamente ci dividiamo in gruppi operativi, sulla base di attitudini ed aspirazioni. Il gruppo drammaturgia e quello sartoria compiono, in maniera diametralmente opposta, un elaborato lavoro di taglia e cuci. Il primo operando sul romanzo, al fine di ottenere da esso una sorta di

copione conforme ad un tempo di lettura non superiore ai 45 minuti: ne risulta una bozza iniziale nuda e cruda, troppo spudorata per sopravvivere alle leggi omertose di quell’universo “di sole femmine”. Allungare la minestrina, grazie, e consumarla educatamente. Il secondo imbastisce letteralmente un piano per vestire questo testo in deshabillé, collezionando vestagliette da notte compuntamente smaliziate ed austere divise da brava ragazza, o “bulldog obbediente” che dir si voglia.Altri progettano lo spazio, cercando di gestirlo inizialmente in piccolo, sotto forma di più modelli in scala 1:20, uno comprensivo dell’intera aula teatro, l’altro come indicazione numero 0 di una probabile facciata da collegio svizzero. Case delle bambole.Chi si occupa dei video parte dalle riprese di un momento topico dell’intero romanzo: la prima colazione. Ed in un momento di ingordigia e distrazione sfilano in timelapse tazzine colme di the, marmellata di rabarbaro “senza sangue” e tanto zucchero. Traboccante. È in questo rituale che l’indice glicemico di tutta la vicenda può essere sfogato, per il resto, solo dispacci. Da quel momento, ad eccezione di piccoli tilt del sistema e qualche ingranaggio difettoso (repentinamente richiamato all’ordine), i lavori nel nostro piccolo formicaio sito in Via Timoteo Viti procedono, a passo di marcia. Costruiamo di briciola in briciola qualcosa che a che vedere con il nostro futuro, prossimo e remoto. Non c’è canto di cicala che tenga.



Resoconto delle uscite e delle entrate di un esercizio Francesco Calcagnini

Resoconto delle uscite e delle entrate di un esercizio Francesco Calcagnini Ma come si rappresenta il vuoto? È forse la contraffazione di ogni luogo originario? Questa domanda è incastonata dentro il romanzo della Jaeggy e agisce indipendentemente dal fatto che si sia posta attenzione. L’estensione di un luogo originario da contraffare è soprattutto un’ipotesi incantevole che contiene più incognite della stessa domanda. La scrittura che narra le vicende di X dentro il collegio, è una lunga e velata esposizione di come sia possibile declinare questa contraffazione. Ciò nonostante prima di approdare a questa sintesi, altre tracce, altri interrogativi hanno guidato le nostre analisi. Il racconto trattiene molte più cose di quanto non dica, ed anche l’encomiabile esercizio di raffigurarsi cose e luoghi documenta sempre un’esattezza insoddisfacente. Ma spingere le intuizioni dentro un recinto ha il suo fascino, ed è stato bello e produttivo immaginare, o dedurre, la disposizione dei letti nelle camere, la forma delle mattonelle, il colore delle pareti, lo stile del servizio delle stoviglie in uso al Bausler Institut.Qualsiasi indagine incomincia inviando la scientifica che rileva le impronte laddove apparentemente non c’è nulla, ed anche setacciando con scrupolo è quasi inevitabile che si configuri solo una verifica incerta.L’autrice nell’esercizio delle sue funzioni non fa abuso di descrizioni, e nello stesso tempo sembra non tralasciare ogni dettaglio.

Ma come si rappresenta il vuoto? È forse la contraffazione di ogni luogo originario? Questa domanda è incastonata dentro il romanzo della Jaeggy e agisce indipendentemente dal fatto che si sia posta attenzione. L’estensione di un luogo originario da contraffare è soprattutto un’ipotesi incantevole che contiene più incognite della stessa domanda. La scrittura che narra le vicende di X dentro il collegio, è una lunga e velata esposizione di come sia possibile declinare questa contraffazione. Ciò nonostante prima di approdare a questa sintesi, altre tracce, altri interrogativi hanno guidato le nostre analisi. Il racconto trattiene molte più cose di quanto non dica, ed anche l’encomiabile esercizio di raffigurarsi cose e luoghi documenta sempre un’esattezza insoddisfacente. Ma spingere le intuizioni dentro un recinto ha il suo fascino, ed è stato bello e produttivo immaginare, o dedurre, la disposizione dei letti nelle camere, la forma delle mattonelle, il colore delle pareti, lo stile del servizio delle stoviglie in uso al Bausler Institut.Qualsiasi indagine incomincia inviando la scientifica che rileva le impronte laddove apparentemente non c’è nulla, ed anche setacciando con scrupolo è quasi inevitabile che si configuri solo una verifica incerta.L’autrice nell’esercizio delle sue funzioni non fa abuso di descrizioni, e nello stesso tempo sembra non tralasciare ogni dettaglio. Quasi in controluce, stacca per il lettore la dinamica dei fatti e degli affetti inclusi tra la parentesi della beatitudine e del castigo che custodiscono un tempo dispari. La scrittura ricostruisce le impressioni di un adolescente ma


la sintassi, diversamente giovane, non è mimetica ed è protesa, se possibile, a sottolineare e a marcare l’insicurezza di questa differenza, né si astrae né si ritrae nello specchio di un io narrante. Credo che questa schizo-precisione sia stata l’incognita che non ha mai abbandonato questo progetto. Riguardando tutte le tavole ed i disegni nelle loro evoluzioni successive, è facile accorgersi che gli elementi che strutturavano il progetto sono sempre gli stessi, ed è nella ripetizione, come ampiamente dimostrato, che hanno

atto le differenze. Se i primi disegni e le prime tavole cercavano di descrivere il luogo di questi accadimenti, lo spazio che abbiamo determinato attraverso questo tempo sembra invece proteggere la letteratura da qualsiasi complemento oggetto. La natura di questa scelta non è di natura speculativa, ma è avvenuta per sottrazioni silenziose andando a costituire non uno spazio neutro ma un luogo di epifanie e di collisioni che aspetta di essere abitato ed agito.








TeatrOltre 2016

BAUSLER INSTITUT Con Giulia Astolfi liberamente ispirato a Edvige Cecconi Meloni I beati anni del castigo Daniela Ciaparrone di Fleur Jaeggy Aurelia D’Alessandro Federica Foglia Progetto Jessica Fuina Scuola di Scenografia Virginia Gidiucci Chiara Lavana Drammaturgia Mattia Michetti Sofia Vernaleone Alessandra Romagnoli Lucia Bramati Nyke Sama Francesca Di Serio Angelica Sbrega Monica Scaloni Con la partecipazione Giulia Schiavone amichevole di Federica Serra Maria Paola Benedetti Daniela Tebaldi Giorgio Donini Giada Tonioni Francesca Gabucci Francesco Zanuccoli

Si ringrazia Luigina Bocconcellii Giorgio Castellani Enrico Castellucci Massimo Castellucci Valerio Corzani Antonio Curcetti Amenris De Angeli Angelo Di Serio Luca Domenicucci Giorgio Londei Paola Mariani Giuseppe Mascia Maria Grazia D’Amico Umberto Palestini Davide Riboli Andrea Solomita Luisa Valentini Luca Vannoni

Direttore di Scena Lucia Petroni Costruzioni Jurgen Koci Tommaso Nardin Francesco Zanuccoli Mattia Michetti Attrezzeria e decorazioni Irene Trenta Daniela Ciaparrone Alessandra Romagnoli Marcella Fiordegiglio Costumi Federica Torroni Maria Chiara Torcolacci Virginia Gidiucci

Sculture di scena Marcella Fiordegiglio Federica Foglia Jessica Fuina Irene Furlan Sarah Menichi e Nicolò Bagar Jessica Pelucchini Marika Ricchi Luci Alberto Cannoni Francesca di Serio Fonica Lucia Bramati Alessandro Lucarini Filippo Pirrello

Video Mattia Bonomi Sofia Rossi Foto di scena Mattia Michetti Sarah Menichini Francesco Secchi Libretto a cura di Marcella Fiordegiglio Addestramento delle educande Monica Miniucchi Coordinamento progetto Francesco Calcagnini Lucia Petroni


pagina dedicata aFabbrini pianoforti


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