Queste istituzioni 146 147

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queste istittizioiii Anno XXXIV n. 146147 Direttore: Siisr;io Risrvceirs Condirettore. AN I ONIO DI MA10

Vice Direttore: GIOVANNI VETRITTO Redattore Capo: SAvonA Anoo ri A Conìitio (1/ redazione: CARI A BASSU, Fsiiio

Bisoi i i, ROSALBA Coiti, FItNccScO 1)1 MAIO,

Ai i SSAN1)IU) HINNA, CLAUDIA LOPEDOTI:, GioiC;Io P•CoNo, Piut LUIGI PETRILLO, EL1SAB1ALIA Pi/LI, MASSIMII

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Ris.sLDo,

CLAUDIA SENSi, VALERi.A

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VELO, DONATELLA

Vis:o;iiosi,

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Co/laboratori: ARNALDO B,A;N,Asco, Anoi Lo RAri AGLIA, GIOVANNI BECHELLONI, GIUSEI'PI. BIIILFA, GiAN1Io\N(o BIvIFIN

LAEFES,

EN1Oc0 CANII;LI:\, OSVALDO CROCI, ROMANO BETTINI, DAVID Bx;i,

Giitoi SAIO CAIANIELLO, GABRIEI.F CAivi, MANIN CARAIIB.A, BERNAIwINO CA ADIrI, MARiO

Csoi ALI i, CsRi.o CHIMENTI, ÌVIAR(O CI\IINI, Giusii'I'L COGLIANDRO, MASSIMO

A. CONTE,

ERNEA Io D'Ai IIE1IGO, MASSINI0 Dc FELiCE, DONA [li i A Diii A PORTA, BRUNO DENTE, ANGInA

Fumo, .0, Sii vio

Di GRO;oIIio, Csni o D'ORTA, SERGIO FAIIIIRINI, M,sires Ros,no\ FERRARESE, PASQUAlI

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EDOARDO FROSINI, CARI

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FUSARO, FRAN

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A GACLIARDUCCI, FILANCO GAI

I A, M;R1NA GIGANTE, G 1USH'I'i, GOIIANO, Li N, Si mio LARICCIA, GIANNI LIMA, QuIItiNo ANNICI< MAGNIER, ADiri,E MAL;IIo, ROSA MAIORINO, GIAMPAoLo MAN/i.i I A, DONA O Mw:IANwIto, R\OI O MILAI, WsI:rFR Nms iii, Li INOII CSIROj\I, VINCLNT Osi iw, Ai.iss,\NDR0 GAMIIINO, GIULIANA GEMELLI, VAi ERI\ GIANNEI

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P,\i\Nz\, ANDIIIA PIILAINo, BERNARDO PI//E i 1 i, InN-\tIO PORFELLI, GIOVANNI POSANI,

rs Rossi,

Gr:iixi

LUICI SAI, GrINcAino SALVEMINI, MAR1\ TERESA SAI VEMINI, S IFFANO SFPF., UNIIIER li) SIRALINIt, FIL\N I sco SIDOTI, ALESSANDRO Snj, Firi)irIcft I) SI'ANSIGAII, VINCFNZO SPAZIANTE, Punto STEFANI, DA\ io SZANTON, JULIA SZANTON, SALVAToRE Tinici:sI, VAI LRIA TERMINI, TIZIANO TER/.ANI, GIAN UILA TOSATO, GUIDO VERUCCI, FEDERICO ZA.\II'INI, ANDREA Zoi'PINI MARIO REE, GIANNI RIOTTA, MARLELLO ROMEI, FRANI I

FABEUzIO SAcC0SI,.\NNI,

5eretau'ia ouìoiiniseuatiVa: PAOLA ZACCHINI Direzione e l?ee/azione: Via Ovidio, 20 - 00193 Roma Tel. 06.68136085 - Fax 06.68134167 E-mail: info6questeistitLlzioni.it - WWW.LlUtSteistitUzioni.it Periodico iscritto al registro della stampa del Tribunale di Roma al o. 14.847 (12 dicembre 1972) Responso bili': Gii )V \NNI BFCHEIJ ONI

Pditore: QUES.1.RE srI QLIESTE ISTITLJ7ION1 Riiiioi ISSN 1121-3353 .Staoipa: Spedalgraf_ Roma C'hiuso io tipografia il 15gennaio 2008 Foto di copertina: Francesca Biscotti Associato all'Uspi:

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Stampa Ptriodica I tal aoa


queste istituzioni n. 1461147 estate-autunno 2007

Indice

Meno siamo, meglio stiamo? La macchinadi governo, per favore

III

Taccuino i

Il fuli color: un passo verso l'ampliamento del mercato dei quotidiani? Barbara lannarella

6

La pipa di Magritte Giovanni Vetritto

13

Gli italici: a proposito di identitĂ postnazionali Enrico Caniglia e Andrea Spreafico

Gestione del patrimonio culturale e politiche del turismo 33

47

-

L'Albergo diffuso: a proposito di Partenariato pubblico-privato nel settore turistico Costanza Barbi La Gioconda di Leonardo o di Dan Brown? Le politiche del turismo culturale Elina De Simone e Amedeo Di Maio 1


L'imposta di soggiorno: una proposta per il federalismo fiscale Stefano Croella

60

SCRR:

ottantacinque anni di scienze sociali

93

Il Social Science Research Council: "75 years young" PaulB. Baltes

99

Il Social Science Research Council: plus change Kenton W Worcester

109

Internazionalizzazione: le scienze sociali in un mondo in rapida globalizzazione Helga Nowotny

113

The Social Science Project: Then, Now and Next / Kenneth Prewitt

122

Il SSRC e le politiche per la sicurezza sociale YasmineErgas

La Rete bifronte: rischi ed opportunitĂ in scala mondiale 133

"Offshoring: The Next Industria! Revolution?" A/an Blinder

150

Internet al collasso? Piuttosto, un'osteoporosi Claudia Lopedote

Saggio 164

'I

I! Presidente della Repubblica nel sistema politico italiano Mauro Tebaldi


queste istituzioni n 1461147 estate autunno 2007

editoriale

Meno siamo e meglio stiamo? La macchina di governo, per favore

Ha ricevuto grande eco il provvedimento sul taglio dei ministri, contenuto nel testo dell'art. 8 bis (presentato dai senatori Villone, Salvi, Calderoni, Manzione, Bordon), "Norme sulla formazione e composizione del Governo", della legge finanziaria 2008 (ddl n. 1817 del 2007), approvato dalla Commissione Bilancio del Senato. Sono pertanto abrogati il decreto legge 12 giugno 2001, n. 217 ("Modificazioni al d.lgs 30 luglio 1999, n. 300, nonché alla I. 23 agosto 1988, n. 400, in materia di organizzazione del Governo"), convertito in legge 3 agosto 2001, n. 317, e le successive modificazioni (1. n. 233 del 17 luglio 2006, "Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 18 maggio 2006, n. 181, recante disposizioni urgenti in materia di riordino delle attribuzioni della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dei Ministeri. Delega al Governo per il coordinamento delle disposizioni in materia di funzioni e organizzazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dei Ministeri Con l'emendamento taglia-ministri, "a partire dal Governo successivo a quello in carica all'entrata in vigore della presente legge", si ritorna alla legge Bassanini decreto legislativo 30 agosto 1999, n. 300 - che detta norme per "la razionalizzazione, il riordino, la soppressione e la fusione dei ministeri" e del relativo riparto di competenza, predisponendo al titolo I un tetto massimo anche per la compagine governativa: dodici i ministeri, ed un massimo di sessanta tra ministri, viceministri e sottosegretari di Governo (12 con portafoglio, 6 senza e 43 viceministri e sottosegretari). E "la composizione del Governo deve essere coerente con il principio stabilito dall'art. 51, comma 1, ultima parte, della Costituzione" (le pari opportunità). A volte ritornano, dunque. Almeno così ritiene Franco Bassanini (Il Governo snello, Corriere della Sera, 10 novembre 2007) il quale dà il benvenuto alla "cura dimagrante", prospettando la necessità, dopo una prima goccia nel mare, di portare avanti ed estendere queste misure, con il ridimensioIII


namento delle Camere parlamentari e delle altre assemblee elettive. Fino alle società pubbliche, ai consorzi ed alle agenzie. La vicenda tocca direttamente la questione della macchina di governo di cui ci siamo occupati nell'editoriale del n. 144: "Cominciamo bene... (a proposito di governare e amministrare)". La decisione presa dalla maggioranza in Senato parte da una migliore comprensione di quel problema? È questa la prima domanda da porsi. La risposta è facile. Il ritorno al modello di governo snello deriva dalle polemiche in tema di costi della politica. Tutta l'attenzione si è condensata attorno ad una sbrigativa concettualizzazione del problema in termini di "snellimento" dell'amministrazione statale. Formula magica per ritrovare efficienza dell'azione amministrativa ed aumentata capacità decisionale. Secondo le ripetute semplificazioni delle vulgate politiche di varia estrazione. Nella stessa finanziaria, infatti, sono previsti tagli per assessori ed enti locali ed un tetto alla dotazione degli organi costituzionali. D'altra parte, sui costi pubblici si era espresso, oltre ai giornali, il Libro verde sulla spesa pubblica del Ministero dell'Economia e delle Finanze (6 settembre 2007). Dunque, tagli e riduzioni. Così la notizia è quella che va ad assecondare gli umori dell'opinione pubblica, senza necessità di approfondire portata ed effetti dei tagli. Tanto gli elettori, anche quelli addottrinati, sono - come ha ben spiegato a suo tempo Mancur Olson - "rationally ignorant", poiché non possono dedicare il tempo e la fatica necessari a conoscere bene i termini dei dossier politici in agenda. Per la cronaca, vale ricordare che uno spiraglio di critica nel fronte compatto e silente, quando non soddisfatto e compiaciuto, di quanti hanno votato e accolto il provvedimento come un passo avanti verso una democrazia migliore, come nei desideri della gente, ci sono state soltanto due estemp6ranee voci dissenzienti. Clemente Mastella ha provato, tra le ore 10 e le 10.40 del 9 novembre, ad opporsi annunciando addirittura il suo voto contrario al taglio dei ministri, in quanto "è assurdò che la legge finanziaria esamini i problemi che attengono alla struttura di governo". Essendo questa, una questione politica che spetta al governo affrontare davanti al suo elettorato, e non al Parlamento. "Demagogia dilagante", afferma il Ministro della Giustizia; ma non capiamo affatto l'argomento: la questione Governo tocca soprattutto i rapporti con il Parlamento (e IV


non soltanto in termini di produzione di norme) in un sistema di democrazia rappresentativa. "Stronzata epocale" secondo Emma Bonino, la quale ha definito il provvedimento una dimostrazione eloquente dello "scarso senso istituzionale che c'è in giro" (Intervista al Corriere della Sera del 5 novembre 2007), criticando la procedura che, in definitiva, viene ad assolvere il Capo dell'Esecutivo dalla responsabilità politica di organizzare la squadra (per quanto, nel contesto di una legge come da art. 95 Cost.). Per non dire - aggiungiamo noi - dell'ulteriore conseguente affievolimento della responsabilità di curare il buon andamento della macchina statale. Ma non bastano poche battute (per questo abbiamo parlato di voci dissenzienti estemporanee) per affrontare problemi del genere. Avendo già dedicato attenzione al tema, possiamo riprendere il discorso da quanto abbiamo già osservato. Primo: la compagine governativa è non soltanto pletorica ma tale da scompaginare l'assetto semplificato dell"istituzione Governo" che lo stesso centro-sinistra aveva disegnato. Che poi questo assetto semplificato fosse pienamente condivisibile, aggiungevamo, è un altro discorso. Secondo: la compagine governativa è stata ampliata con la massima frettolosità. Quindi, ci chiedevamo: Terzo: perché tale fretta e perché decisioni prese all'ultimo momento? A parte ogni possibile vicenda contingente del negoziato fra i partiti della maggioranza, ciò non si giustifica. Infatti, se l'ampliamento dipendeva dalle esigenze di presenza al governo di tutte le forze politiche dell'assai variegata coalizione, queste esigenze erano note da tempo. Pertanto, il disegno dell"istituzione Governo" (e dei suoi legami con l'intero sistema amministrativo, da una parte, e con il siste ma politico, dall'altra) poteva essere messo a punto per tempo, non riducendosi a scegliere la soluzione più facile senza adeguata riflessione e studio delle alternative. Una possibile risposta l'abbiamo cercata supponendo che ciò fosse dovuto ad una pura e semplice sottovalutazione del problema della "macchina". Vecchia tara della classe politica italiana. Andiamo ai fatti. Nella primavera 2006, con la costituzione di un governo di larga coalizione dopo elezioni assai faticose, l'ampliamento della compagine governativa comportò necessariamente lo "spacchettamento" dei ministeri (decreto legge 18 maggio 2006, n. 181, contenente Disposizioni urgenti in materia di riordino delle attribuzioni della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dèi Mi-


nisteri, coordinato con le modifiche introdotte dalla legge di conversione). Data, appunto, la strada intrapresa dell'aumento del numero dei ministri, si parlò, d'altra parte, della necessità di "delineare con maggiore chiarezza il nuovo assetto delle competenze tra Ministeri e tra questi e la Presidenza del Consiglio dei Ministri". In quest'ultimo punto, anzi, si può intravedere la misura di compenso immaginata per fare fronte alla numerosità dei ministri (e quindi, dei ministeri) L'urgenza, comunque, era un'altra: garantire e blindare l'assetto di Governo all'interno del panorama variegato di forze politiche che hanno concorso alla vittoria del centro-sinistra. Oggi - trascorso oltre un anno dall'inizio dei lavori per riorganizzare e riaggiustare gli assetti ministeriali - si capovolge la prospettiva. Anche in ragione, forse, delle molteplici impasses in cui tale lavoro di riorganizzazione si è trovato, talvolta, realizzando di essere in un vero cui de sac. Allora, benedetta la campagna contro gli sprechi della casta e gli eccessivi "costi della democrazia" (meglio, non della democrazia, ma della "politica" così come operante)? Intanto dobbiamo ritenere che sia intervenuto un contrordine a proposito di spacchettamenti, oppure si va avanti? E, se così fosse, il nuovo Governo - quando sarà - dovrà riaccorpare e perdere un bel po' di tempo (a scapito della funzionalità)? O bisognerà pensare a collegamenti fra Governo e amministrazioni diversi da meccaniche identificazioni Ministri-Ministeri? Sono domande da porsi. Per conto nostro, sulla macchina di governo promettiamo una riflessione più distesa in uno dei prossimi numeri.

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queste istituzioni

taccuino

n. 1461147 estate-autunno 2007

Il Fuil color: un passo verso l'ampliamento del mercato dei quotidiani? di Barbara lannarella

il sistema editoriale è giunto oggi ad una svolta cruciale. Qualora dovesse prevalere una linea di tendenza livellatrice, contrassegnata dalla progressiva omologazione e standardizzazione di formule e contenuti, si restringerebbero inevitabilmente gli spazi di líbertá e di democrazia'Y

L

a nostra inchiesta suilo stato di salute del giornalismo italiano e sui cambiamenti prodotti negli ultimi decenni nel mondo della carta stampata, iniziata sui numero 136-137 di "queste istituzioni" con il tema dell'assenza in Italia di una stampa popolare e sui ruolo che ha giocato nel mondo dell'informazione nostrana questa differenza rispetto agli altri Paesi europei, continua soffermandosi su di un aspetto più riconoscibile e determinante di altri, avvenuto di recente sulla maggioranza dei quotidiani nazionali: l'adozione della tecnica del full color. La modifica del formato di stampa e il pieno utilizzo del colore rappresentano un cambiamento epocale per l'intera struttura produttiva di un quotidiano. Seguendo le preferenze dei lettori é le necessità di ottimizzazione dei costi di stampa, i principali quotidiani italiani hanno scelto il formato tabloid e fuil-color, avviando importanti progetti di rinnovamento dei processi di produzione.

Un cambiamento

epocale

L'autrice è esperta in Comunicazione. i


Dal bianco e nero al colore sono pochi i quotidiani italiani e stranieri, anche i tra i più autorevoli come "The Times", il tedesco "Die Welt" e lo spagnolo "El Pais" che non hanno ancora abbandonato la strada vecchia per la nuova. Da "Il Messaggero", primo in Italia ad adottare nel 2003 questa tecnica, a "La Repubblica", passando per il biasonato "Corriere della Sera" e l'austera "Stampa", convertitisi al colore tra l'estate 2005 e l'autunno 2006 tutti i giornali storici si sono dovuti adeguare alle esigenze di un cambiamento che investe in misura sempre maggiore la veste grafica ed iconografica e quindi estetica del medium a stampa, che come una signora stufa del suo abito vecchio e grigio si rifà il look per sembrare più giovane. Naturalmente alla base di questa inversione di tendenza c'è stata un'abile operazione di marketing editoriale, volta a catturare maggiori investimenti pubblicitari, che, negli ultimi tempi, a dire il vero, stavano languendo inesorabilmente per l'editoria cartacea nostrana. A guardare le cifre di mercato questo restyiling sembra aver fatto bene ai nostri quotidiani, e nell'ultimo biennio 2004-2006 si parla di trend più che positivi dall'entrata in scena della nuova tecnica del full color. I massicci investimenti effettuati dalle società editrici e starn- A chi piace il patrici di quotidiani negli ultimi anni, che hanno messo il no- colore? stro Paese all'avanguardia quanto a capacità di stampa in quadricromia, devono adesso cominciare a dare il loro "ritorno" in termini economici e di quote di mercato pubblicitario. I primi segnali sono stati certo incoraggianti: i dati contenuti in una ricerca2 effettuata dal portale ediland.it sull'industria italiana dei quotidiani nel biennio 2005-2006 sembrano suggerire che il mercato degli investitori, soprattutto a livello nazionale, abbia accolto positivamente la novità: in appena due anni, dal 2004 al 2006, gli annunci pubblicitari a colori sono cresciuti ad un ritmo del 30 per cento annuo, ed il relativo fatturato di oltre il 20 per cento, sempre su base annua. Certo, sempre dalla stessa ricerca si evince che non mancano i punti critici che occorre affrontare per poter liberare a pieno le potenzialità degli investimenti realizzati dalle aziende editoriali.

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In primo luogo i dati indicano come a livello locale la novità Un po' di non sia stata ancora ben assimilata ed apprezzata, come dimo- cifre stra il fatto che i prezzi di vendita degli annunci locali a colori sono pressoché identici a quelli in bianco e nero, laddove a livello nazionale il differenziale è superiore al 50 per cento. In secondo luogo, ed è la considerazione più importante, occorre che l'imponente capacità di stampa a colori disponibile venga sfruttata in tutto il su potenziale. La saturazione degli impianti costituisce certamente, dal punto di vista produttivo, la sfida più importante che il settore si trova ad affrontare Continuando a parlare di cifre, anche un'altra inchiesta 3 dal titolo "L'editoria italiana e le nuove sfide tecnologiche" curata da Giancarlo Salemi, docente di Storia del giornalismo europeo, alla Facoltà di Scienze della Comunicazione alla LUMSA, snocciolava dati più che positivi riguardo agli introiti pubblicitari nei primi nove mesi del 2005 dei quotidiani che avevano adottato il fuli color: primeggiava su tutti il quotidiano di Feltri "Libero" con un +37%, poi seguiva "Il Giornale" con +19%, "Avvenire" con +16% e "Repubblica" con +7,4%. Ma se il mercato ha accolto. con entusiasmo il cambiamento, i Sempre più lettori sono stati dello stesso avviso? Quando nel luglio del 2005 omologati... ilCorriere della Sera usciva, in versione a colori, rinnovato nella grafica e nel formato (ridotto di tre centimetri sia in altezza che in larghezza, e con il corpo del carattere aumentato per rendere più gradevole la lettura), non pochi storsero il naso tra lo zoccolo duro dei puristi, degli elitari, quelli per cui uscire con il "Corsera" sotto braccio rappresentava uno status del proprio establishment, del proprio habitus sociale e non soio una buona abitudine quotidiana. Certo l'uso che il giornale di via Solferino fece del colore fu all'inizio molto sobrio per cercare di non scalfire la sua identità, ma per molti fu comunque una caduta inequivocabile di stile. Vero fu che dopo il lancio del Corriere "a colori", seguirono a ruota in questa direzione gli altri grandi austeri quotidiani del nord, da "Il Giorno" al "Secolo XIX" alla "Stampa", l'ultima in ordine cronologico rispetto agli altri colleghi a rifarsi il trucco con un nuovo formato, impaginazione e naturalmente il colore. Chissà cosa avrà pensato il pensionato del piccolo cen3


tro piemontese quando ha iniziato a sfogliare la "sua" solita copia di giornale? Che forse si era ristretta ed era per di più stata imbrattata di colori sgargianti, come quei fogli spiegazzati che il nipote riportava ogni sera a casa dopo il viaggio in metropolitana in città? Sicuramente qualcuno gli avrà poi spiegato che si trattava dello stesso caro vecchio giornale che comprava abitualmente da cinquant'anni. Ecco qual è il rischio della rincorsa forsennata delle copie a tutti i costi: un appiattimento e un'omologazione fra testate che ora riguarda non solo i contenuti, ma anche la forma. Un tipo di giornalismo, quello che ha portato all'adozione del fuli color anche in Italia che si avvicina sempre di più al modello "popolare" americano, tipo "Usa Today", tutto colore e immagini, in formato tabloid, che sfidava negli anni Novanta il medium televisivo sul piano del linguaggio 4, ma era considerato dai quotidiani italiani più blasonati e aùsteri, vedi "La Stampa" il "Corriere della Sera", il prototipo di informazione culturalmente bassa sul piano contenutistico. Ma si sa i tempi cambiano. Ed è notizia di pochi mesi fa, pubblicata dai quotidiani economici5, del nuovo piano di sviluppo per il biennio 2008-20 10 che l'amministratore delegato di Rcs Media Group Antonello Perricone ha • presentato agli analisti di settore, in cui si prospettano due importanti novità volte a rilanciare l'immagine e il fatturato del settore della carta stampata della holding. Nuovo formato e nuova veste grafica da novembre prossimo per il Corsera, che grazie alla nuova tecnologia, diventerà ancora più compatto con una riduzione in verticale del formato, mantenendo le dimensioni in ampiezza. E poi anche La "Gazzetta dello Sport", primo quotidiano sportivo e il più letto in Italia, uscirà con il fuli cobr, quindi con tutte le pagine dotate di foto a colori. Dietro a queste considerazioni, sulla validità e sulla durevolezza Il vecchio dei cambiamenti in atto nel modo di fare i giornali oggi nel no- cede il passo nuovo? stro Paese, ci sono sempre degli interrogativi che gli addetti ai la- al vori della carta stampata si sono già posti ma che continueranno ad animare i dibattiti sul prossimo futuro del giornalismo italiano. Accanto alle tradizionali difficoltà di un mercato pubblicitario asimmetrico, di una struttura distributiva troppo rigida, di una 4


scarsa propensione degli italiani alla lettura dei quotidiani, si aggiungono l'insufficiente apporto degli abbonamenti e l'arretratezza economica di molte Regioni del meridione: tutti fattori che, in assenza di politiche attive di promozione del consumo di prodotti editoriali, sono destinati a far sentire il loro peso ancora a lungo. Si affacciano allora dubbi su quali siano i prodotti e i servizi di informazione destinati ad essere vincenti nel prossimo futuro, in un contesto caratterizzato da una sempre maggiore diffusione del mondo digitale. Quali i modelli di business che l'industria editoriale deve adottare per poter mantenere e, se possibile, accrescere le proprie quote di mercato? Concentrarsi sulla propria attività tradizionale o esplorare nuovi, e rischiosi, business, come, solo per fare un esempio, la televisione digitale? Quello che abbiamo visto accadere nelle redazioni dei quotidiani negli ultimi due anni, cioè cercare di rendere più competitivi con nuove tecniche, come quella del full-color, il medium tradizionale, invece di cadere nella tentazione di passare a contenitori e contenuti più tecnologici e interattivi, ha dato ragione a chi crede che, citando il motto hegeliano, la lettura del caro vecchio giornale, sia ancora la preghiera mattutina dell'uomo moderno. Anche quando assomiglia sempre più ad un camaleonte che vuole cambiare pelle per adattarsi a rispecchiare una società in continua evoluzione.

'VALERIO CAsIRoNovo, in V. CAsiRoNovo e N. TRANFAGLIA, La Stampa italiana nell'età della Tv 1975-1994, Editori Laterza, terza edizione 1999, p 82. 2 Rapporto 2005-2006 sull'industria italiana dei quotidiani pubblicata dal portale www.ediland.it . 3 Ricerca pubblicata dal giornale telematico Broadcasting e Video numero 338 del 27 ottobre 2005. ALBERTO PApuzzi, Professione Giornalista, Donzelli Editore, 1998, p. 99. Estratto dall'articolo di ANDREA SECCHI pubblicato sul quotidiano economico «Italia Oggi» del 17 Luglio 2007.

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istituzioni n. 1461147 estate-autunno 2007

La pipa di Magritte di Giovanni Vetritto

U

na delle più note tele del pittore surrealista René Magritte raftìgura, con inusitato realismo rispetto all'abituale stile dell'autore, molto semplicemente una pipa; ma reca, nella parte bassa della composizione, la scritta, solo apparentemente incoerente, "questa non è una pipa". A sottolineare, evidentemente, quanta distanza può esserci tra cose e parole, tra significato e significante, tra concetti e lessico. L'avvertimento, così cruciale e penetrante nella modernità no- Cose e vecentesca, assume oggi, neite trasrormazionl vorticose cli una po- parole stmodernità troppo spesso ingenua, sloganistica e inconsapevole, una pregnanza tutta particolare e semmai molto maggiore. Troppo spesso la velocità e la sintesi, caratteri essenziali di questi anni, vanno a scapito della nettezza dei concetti, delle necessarie distinzioni, perfino di un utilizzo corretto delle parole, secondo il significato per il quale esse sono nate. Così, è purtroppo sempre meno raro imbattersi in un loro uso improprio, o addirittura in un vero e proprio stravolgimento del loro senso; al punto che troppi lemmi sono oggi usati per confondere i concetti in un indistinto straniante, quando non addirittura per intendere l'esatto contrario di ciò che dovrebbero significare. Borghese, burocrate, laicità, garantismo, valori: questi e mille altri vocaboli sono in questi anni violentati nel dibattito pubblico, strappati alla concretezza dei concetti che dovrebbero sottintendere, pervertiti a giustificare convinzioni diffuse ma diametralmente opposte a quelle che un loro corretto uso dovrebbe accreditare. i

Tra le parole che negli ultimi anni hanno conosciuto un utilizzo Una difesa crescente quanto improprio e intellettualmente errato (se non ad- d'ufficio dirittura disonesto), una in particolare merita probabilmente più delle altre una difesa d'ufficio, una ricostruzione dei termini mi6


nimi di senso: la parola "riformismo" con il relativo aggettivo "riformista". Chi Sia riuscito, soprattutto nell'ultimo quindicennio, a vincere il comprensibile fastidio ed a seguire il dibattito politico quotidiano, avrà senz'altro notato il destino infelice cui questa parola è andata incontro negli anni del crollo delle ideologie e della delegittimazione di qualsivoglia Weltanschauung anche non dogmatica né assoluta. Il termine "riformismo" (come, ancora, il relativo aggettivo "riformista") è stato usato sempre più spesso per indicare, nel migliore dei casi, un asfittico funzionalismo centrista; nei peggiori, per legittimare la resa di qualsiasi cultura progressista non rivoluzionaria ed antisistema alla vulgata neoliberista e nella sostanza (pur legittimamente) conservatrice che informa di sé le politiche pubbliche dei Paesi dell'area dell'OcsE dopo il crollo dei Muri. Addirittura, nei casi più vicini all'analfabetismo non solo politico ma anche istituzionale, la parola viene ormai da anni utilizzata (per di più, con valenza implicitamente positiva ed elogiativa) a caratterizzare coloro che (singoli uomini politici o forze partitiche) abbiano approvato nuove leggi, in quanto tali già considerate riforme Un simile e perverso utilizzo del lemma giustifica l'idea che un cambiamento (qualsiasi cambiamento, comunque concepito e a qualsiasi fine mirato) sia di per sé una "riforma". Con una conseguenza addirittura paradossale agli occhi di quanti nella propria mente accoppiano ancora alla parola il concetto che essa ha illustrato per Ufl secolo e mezzo: che un politica (o un partito) che per avventura riuscisse a reintrodurre, con una oppprtuna modifica normativa, il feudalesimo nel proprio Paese, meriterebbe il titolo (per di più onorifico) di "riformista". È di tutta evidenza quanto tutto ciò sia insostenibile su un piano di contenuti. Ma vale la pena di notare anche, su un piano di consapevolezza degli strumenti, come una simile stravagante concezione su un piano di metodo cozzi con il fatto (ormai, viceversa, chiarissimo a tutti coloro che abbiano voluto studiare e comprendere le dinamiche concrete di evoluzione delle istituzioni pubbliche) che una nuova legge è solo la premessa di una possibile trasformazione, la rimozione di un eventuale ostacolo giuridi7


co-formale al cambiamento; cambiamento che poi, però, va pazientemente seguito e governato nella quotidianità delle sue implicazioni operative, economiche, organizzative. Simili contorcimenti lessicali appaiono, si diceva, agli occhi di La storia di chi conosca la storia della parola, poco meno che osceni. un concetto Il senso politico della parola "riformismo" si ritrova, infatti, nelle lotte interne alle forze politiche di progresso dell'Ottocento e del Novecento, a individuare uno dei due orientamenti strategici e metodologici di fondo tra i quali esse erano dilaniate. Da una parte, infatti, stavano coloro che, nella determinazione di perseguire equilibri sociali più avanzati, in termini di più ampi e diffusi diritti civili, di possibilità di conduzione della lotta politica, di maggiore giustizia economica, di eliminazione delle sofferenze delle classi e dei singoli svantaggiati, di correzione delle storture del sistema istituzionale, politico, economico e produttivo esistente, ritenevano via maestra quella del rivolgimento politico, del rifiuto del "sistema", del perseguimento di una palingenesi complessiva della collettività e delle sue istituzioni. Costoro erano i "rivoluzionari", o "massimalisti", ispirati da culture in vario mo do e in varie forme sovversive, anarchiche, giacobine, intransigenti, spesso anche violente. A petto di costoro, stavano coloro che miravano invece ai medesimi obiettivi di ridisegno della società cari ai primi; come allora si usava dire, con una retorica pubblica che appare ancora gradevole agli occhi di chi scrive, al «progresso civile e materiale della società. Ma, a differenza dei primi, questi ultimi predicavanoil gradualismo in luogo della palingenesi; il paziente lavoro di probiem solving istituzionale piuttosto che l'exit dal "sistema"; la pratica del paziente confronto di idee e programmi con metodo democratico rispetto alla rivoluzione violenta; insomma, la fatica della ricerca, per tentativi ed errori, di soluzioni concrete alle concretissime sofferenze della società; di "riforme", che si qualificavano come tali non per il fatto di inverarsi per mezzo di una legge "nuova" (che ben avrebbe, viceversa, potuto essere reazionaria, posto che la reazione ha a sua volta bisogno delle sue regole e delle sue norme); ma per il fatto dimirare a modifiche della realtà magari limitate ed apparentemente poco ambiziose, ma in definiE1


tiva indirizzate alla trasformazione della società, a beneficio degli ultimi, seppure rispettose di quel metodo dialettico che ad essi sembrava unica vera via di trasformazione, concreta e priva di drammatici contraccolpi, della società. Impossibilè non sottolineare quanta distanza vi sia tra il concet- Riformisti in di riformismo così delineato e l'utilizzo che della parola rifor- immaginari mismo si fa attualmente. Il presupposto, per così dire, ontologico dell'utilizzo della qualificazione, come si è appena cercato di riassumere, è che il "riformista" condivida gli obiettivi di equità e trasformazione sociale con il "massimalista" (oggi è di moda, per quest'ultimo, la parola "radicale", che pure meriterebbe a sua volta qualche necessaria precisazione, che pure non è possibile in questa sede). Se, viceversa, il presunto riformista è convinto che la società sia già oggi equa; che le istituzioni esistenti siano quelle possibili ed utili allo sviluppo ordinato e proficuo della collettività; che, in definitiva, non ci sia poi molto da cambiare, e che vadano semmai approvate (magari anche con urgenza) alcune "nuove leggi" (si badi, non riforme ) che rendano i meccanismi esistenti piu fluidi e più efficienti; ove egli di tutto ciò sia convinto, deve essere chiaro che nel difendere queste convinzioni egli esprime una posizione politica legittima ed anzi necessaria a quella dialettica di diverse posizioni che è il sale e la ragion d'essere stessa della democrazia; ma ha, molto semplicemente, bella e pronta 'nel vocabolario un'altra parola, altrettanto nobile e chiarificatrice della sostanza del suo essere: "conservatore". A dispetto di questa che appare a chi scrive una solare e perfino banale verità, da anni (e sempre più negli ultimi mesi) nel dibattito pubblico sembrano esserci solo "radicali" e "riformisti"; con le destre a rivendicare energicamente quello stesso titolo che un minimo di cultura politica dovrebbe spingerle semmai a rifiutare; ed anzi a sostenere polemicamente di essere "più riformiste" di certe sinistre non massimaliste. Con un surreale effetto di Babele politico-culturale, di biblica confusione delle lingue. Il malcostume intellettuale di questi "riformisti immaginari" ha molto a che vedere con un antico vezzo nazionale, divenuto una 9


sorta di malattia endemica dopo il crollo del fascismo: il rifiuto dei conservatori di. definirsi come tali, il terrore dell'etichetta di "destra", diffusi ed accettati con leggerezza; come se una fisiologica dialettica democratica potesse fare a meno della posizione di coloro che (di nuovo, legittimamente) richiedono la conservazione dell'esistente, in quanto più coerente con le loro idealità e più favorevole ai loro interessi. Questo vezzo perverso, che non è stato forse adeguatamente indagato da storici e sociologi, è tornato estremamente utile, a chi lo praticava, soprattutto dopo Tangentopoli, quando si è aperta l'eterna ed irrisolta "transizione" italiana; transizione nella quale qualifi carsi come "riformisti" automaticamente pareva dare una patente di "nuovo", indispensabile per candidarsi alla guida del Paese. Un simile distorto (ed intellettualmente spesso disonesto) utilizzo delle paròle ha finito però per intorbidire le acque del dibattito pubblico; al punto che, oggi, raccapezzarsi nella confusione e richiedere trasparenza di posizioni sta diventando francamente sempre più difficile. In questa sventurata congiuntura, non resta dunque che cercare Le parole di difendere le parole a mezzo di altre parole; di ricostruire un del orizzonte di senso per i concetti tornando a leggere le pagine pre- riformista ziose di antichi o più recenti maestri. Rispetto alla parola "riformista", per tornare al punto, torna soprattutto alla mente un celeberrimo e acutissimo editoriale che, orniai un quarto di secolo fa, un riformista a 24, carati come Fe derico Caffr scrisse per il quotidiano (niente affatto riformista) che, unico nel desolante panorama della stampa italiana, pubbli cava i suoi contributi eretici al dibattito pubblico. Quell' editoriale, mirabilmente intitolato alla "solitudine del riformista"l , rimette le cose in ordine con tale chiarezza da risul tare, oggi, perfino più prezioso che non quando fu scritto. Vi si ritrovano tutte le ragioni dell 'essere riformisti, tutto l 'orgoglio e la consapevolezza degli happyfew, tutte le frustrazioni di una battaglia intellettuale perennemente ripresa e perennemente di nuovo perduta nel Paese degli ideologismi e delle chiusure settarie dei "massimalisti" e dei "reazionari" (che tali restano anche se mascherati dal belletto della disonestà intellettuale e linguistica). 10


Vi sono fotografati con solare chiarezza l'attitudine del riformista a "operare nella storia, ossia nell'ambito di un 'sistema' di cui non intende essere né l'apologeta né il becchino"; la consapevolezza di essere deriso "come un impenitente tappabuchi", cui si aggiunge "loscherno di chi pensa che ci sia ben poco da riformare, né ora né mai"; la distanza dagli "strali del retoricume neoliberista" (proprio così, "retoricume neoliberista", con buona pace di certi autocelebrati riformisti, di fatto succubi di una sorta di reaganismo prt a porter); ma anche dalle "reprimende di chi gli rimprovera l'incapacità di fuoriuscire dal 'sistema"; senza mancare di sottolineare, però, che sono queste ultime "reprimende" a creargli "maggiore malinconia", data per scontata l'affinità ideale con i sognatori della palingenesi sociale, seppure limitata ai fini di maggiore uguaglianza sociale e libertà individuale, e scontate, viceversa, le radicali divergenze di metodo e di concezione dell'uom0 2 .

Gli anniversari aiutano a riproporre all'attenzione di tutti il "pazzi pensiero dei grandi del passato; in questo senso, non sorprende malinconici" che i venti anni dalla scomparsa (proprio in senso letterale) di Caffè, che cadono in questo 2007, siano stati ricordati così poco e così male, se non all'interno di cerchie ristrette di cultori della sua figura umana e del suo contributo intellettuale, in tempi nei quali fa evidentemente comodo la confusione dei concetti. Cerchie sempre minoritarie, in un Paese divorato dalla retorica e dall'ideologia; minoranze rassegnate ma pugnacie ostinate, seppure via via più esigue, di "pazzi malinconici", come li definiva, definendo se stesso, un altro gigante della "altra Italia" di cui sempre nel 2007 è caduto, nel disinteresse pressoché generale, quando non addirittura nella ricostruzione faziosa e distorta, il cmquantenario della morte: quel Gaetano Salvemini che è stato per tanta generazioni maestro di empirismo e "concretismo". I "pazzi malinconici"3 erano per Salvemini, ad un tempo, "liberali-democratici-socialisti-repubblicani", laici, ma sfuggenti alle catalogazioni, e per questo orgogliosi di una simile stravagante etichetta; in una parola, se sarà consentito ricostruirne il senso, forse proprio e soltanto riformisti È probabilmente proprio in questo senso che vanno lette le parole di Salvemini, usate in una lettera ad Ernesto Rossi, con le 11


quali ricordava a quest'ultimo che è possibile "rinunziare ai gargarismi rivoluzionari senza impantanarsi negli intrugli delle esarchie, pentarchie, tetrarchie, triarchie e che il diavolo se le porti tutte via" 4. Queste parole, ricordate di recente da Gaetano Pecora nel ricostruire il senso piui autentico e generale della lezione politica di Salvemini, echeggiano quella medesima doppia estraneità dai massimalismi e dai conservatorismi sottolineata (ed, anzi, rivendicata orgogliosamente) da Federico CafFe nel passo sopra riportato; estraneità che è la ragione di fondo dell'essere riformisti. Al pensiero ed all'opera di uomini come questi, problemisti e ostinatamente pragmatici, il Paese dovrebbe, se non altro, almeno il rispetto per le parole. E invece, chiudendo i libri che ci ripropongono queste consapevolezze, si viene rituffati nel cicaleccio di un dibattito pubblico che delle parole non dimostra nessun rispetto, perché non rispetta ed anzi teme la tetragona solidità dei concetti nella loro nettezza. Eh si, signor Renè, Ceci n'est pas unepie.

CAFFÈ, La solitudine del riJrmista, in «Il Manifesto», 29.1.1992, ora in Id., Scritti quotidiani, a cura di R. CARIJNI, Manifestolibri, Roma 2007, pp. 81 ss, meritoria raccolta degli editoriali pubblicati su quella testata dall'economista abruzzese, unico tributo editoriale nell'anniversario della sua scomparsa. 2 Ivi, passim. 3 11 passo salveminiano sui "pazzi malinconici" è G. SAIvEMINI, La pelle di zigrino, in «Il Mondo», 21.2.1953, più volte ripubblicato, da ultimo nella bella e intelligente antologia Id., Democrazia, laicità, giustizia, a cura di G. PECORA, Mephite, Avellino 2007, pp. 287 55. SALVEMINI, Lettere dall'America, Laterza, Bari 1967, vo!. Il, p. 115, citato nel bellissimo G. PECORA, Salvemini "pazzo malinconico' introduzione a G. Salvemini, Democrazia, laicità, giustizia, cit., p. 33.

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istituzioni

n.

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estate-autunno

2007

Gli italici: a proposito di identità postnazionali di Enrico Caniglia e Andrea Sprea fico

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n questi ultimi anni, a partire dall'attribuzione del diritto di voto agli italiani all'estero, si è diffuso un nuovo interesse per, e si sono moltiplicati gli studi su, gli italiani residenti in altri Paesi e la ancor più ampia categoria degli "italici" (cfr. ad esempio Bassetti 2005; Bechelloni 2004, 2006). Questo tipo di studi da un lato suscita una serie di curiosità teoriche e, dall'altro, solleva un bisogno di ricerche empiriche sempre più approfondite. Questo lavoro si propone di offrire un percorso teorico-empirico innovativo che potrebbe costituire una piattaforma utile allo studio dell"italicità" sotto il profilo identitario. A nostro avviso, il concetto di "italicità" ha il grande merito di svecchiare un dibattito, quello dell'identità italiana nel mondo, rimasto a lungo ignorato, come nel caso dei ticinesi, oppure impantanato nei tradizionali stereotipi degli emigrati, unicamente visti come "ambasciatori della cultura italiana nel mondo" e mai come portatori di un contributo specifico e distinto. In un mondo in cui la gente ha cominciato a spostarsi sempre più velocemente e a ridisegnare le proprie appartenenze al di là dell'identità nazionale tradizionale, l'immagine dell'immigrato italiano come un pezzo congelato dell'Italia di quaranta o cinquanta anni fa, rischia di essere del tutto fuorviante. Ma quali trasformazioni sociali suggeriscono di attribuire centralità interpretativa al concetto di "identità italica" rispetto, ad esempio, alla più tradizionale espressione di "cultura italiana nel mondo"? L'ipotesi che guida i nostri ragionamenti è che l'italicità offra, più di qualsiasi altro concetto, un modo per comprendere

Enrico Caniglia è ricercatore di sociologia presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Perugia. Andrea Spreafico è Postdoctoral Fellow in sociologia presso l'Instituto de Ciéncias Sociais dell'Università di Lisbona. 13


l'attuale riformulazione del senso di appartenenza e di solidarietà nel nuovo contesto mondiale ridisegnato dal capitalismo globale e dal processo di postnazionalizzazione della politica. Nelle scienze sociali contemporanee, la sfida della globalizzazio- Il sistema ne ha prodotto uno sforzo per l'elaborazione di concetti e catego- mondo ne utili per indagare i rapporti tra le nuove soggettività globali, globale che in prima approssimazione definiremo "transnazioni", e la progressiva organizzazione in senso postnazionale del sistema mondiale Quest'ultima è la conseguenza diretta delle esigenze di spostamento nello spazio di risorse, sia finanziarie sia umane, che accompagnano io sviluppo del capitalismo contemporaneo. In questo senso, la giobalizzazione si traduce in una autentica rivoluzione antropologica: gli uomini non agiscono entro un ambito nazionalmente delimitato, ma ne assumono uno globale. Ciò favorisce una mobilità umana senza precedenti che scuote fino alle fondamenta l'architrave delle identità sociali moderne: la nazione. L'identità individuale si sgancia da quella nazionale, con il risultato che la coincidenza tra identità, nazione, territorio e Stato viene a mancare. Ad esempio: un medesimo territorio nazionale può diventare il crocevia di identità differenti oppure una medesima identità si trova dispersa su Stati diversi invece di essere concentrata in uno soltanto. Se tutto ciò svuota di significato le affiliazioni, le appartenenze e le sòlidarietà fondate sull'identità nazionale, allora si pone il problema di quali altre forme di solidarietà collettiva possano svilupparsi in un mondo pressoché postnazionale. Appare corretto premettere che anche in passato sono esistiti intensi processi di mobilità internazionale: basti pensare ai flussi immigratori all'interno dell'Europa o dall'Europa. verso l'America e l'Australia. Ma spesso si traducevano o in un unico travaso da un posto a un altro, con relativo abbandono dell'identità originaria e l'assimilazione nell'identità nazionale di destinazione, oppure, al contrario, gli spostamenti si risolvevano nel ritorno definitivo in patria. Nell'uno o nell'altro caso, le nazioni costituivano l'ossatura imprescindibile della categorizzazione dei gruppi umani. Quegli uomini vivevano in mondo in cui la legge fondamentale era la divisione in Stati nazionali, un mondo dai confini netti 14


e precisi, visti come naturali, e valicabili solo attraverso la logica dell'assimilazione o del definitivo rientro nel Paese d'origine. Ciò ha gettato le basi per l'assunzione implicita di queste caratteristiche come le caratteristiche ovvie, scontate, naturali, del fenomeno immigratorio e degli spostamenti umani nel mondo. Ma la velocità, la frequenza, la continuità degli spostamenti che impone l'attuale logica capitalistica globale ha messo in discussione questi modelli, minando alla base anche ogni tentativo dell'organizzazione statuale di imbrigliare e controllare .tali flussi di mobilità. Ad esempio, fino a poco tempo fa i processi immigratori internazionali erano un rapporto esclusivo tra due nazioni, adesso coinvolge tre, quattro o più contesti nazionali alla volta. Non solo. Sempre più spesso, in diversi Paesi di immigrazione, i modelli classici dell'assimilazione degli immigrati nell'identità nazionale vengono sostituiti con modelli multiculturalisti, basati sul rispetto e sulla conservazione delle identità originarie, anche nelle generazioni successive. In questo modo si sacrifica l'omogeneità nazionale sull'altare di una società culturalmente plurale e si creano le condizioni per la formazione di identità a carattere transnazionale. In sintesi, le attuali ed inedite modalità di funzionamento del siNuove stema capitalistico contemporaneo, oltre a ridimensionare l'attac- forme camento degli individui allo Stato e all'appartenenza nazionale di comunitarle stampo tradizionale, stanno agendo nel senso di stimolare la formazione e il consolidamento di nuove forme comunitarie a carattere transnazionale e globale. Tale fenomeno non riguarda soltanto quelle popolazioni che per le loro vicende storiche particolari non hanno mai sviluppato un sentimento di appartenenza nazionale classico, in altre parole, non si tratta soltanto delle classiche identità diasporiche, come quella degli ebrei, e delle identità postcoloniali, come gli huaqiao cioè i cinesi che sono stati sudditi britannici (Ong 2001), ma anche di soggetti del tutto nuovi. L'aspetto più interessante è la riattivazione delle vecchie identità migratorie e la loro riformulazione in termini di identità transnazionali. Le radici di questa riattivazione potrebbero essere ritrovate nel fatto di aver mantenute vive le identità originarie per via dell'impostazione differenzialista e multiculturale tipica degli Stati di immigrazione come gli Stati Uniti, il Canada, l'Australia, il Brasile e l'Argentina. 15


Paradossalmente, in un mondo in cui l'esperienza dell'alterità e della differenza diventa un fatto quotidiano, in cui le appartenenze cessano di apparire proprietà naturali, l'esercizio di definire la propria identità o quelle altrui diventa ancora più importante che in passato. Sperimentare la diversità accresce la consapevolezza della varietà di manifestazioni possibili di presentazione di sé attraverso l'autocomprensione come parte di un, gruppo più ampio di cui si sceglie di affermare di essere parte, consapevolezza che si trasforma poi spesso in valorizzazione dell'azione di scelta di identificazione e dunque di distinzione. Nella tradizione occidentale, l'identità e la distinzione tra sog- La crisi dello getti collettivi si è presentata principalmente sotto forma di na- Stato zione. La nazione costituisce a sua volta il punto di arrivo e il u- nazionale... peramento di categorie di appartenenza più arcaiche, legate al locale (vicinato, villaggio), ai tratti somatici ("razza"), alla discendenza (stirpe, lignaggio) etc. La fusione con l'organizzazione statuale ha poi reso la nazione la forma principale dell'identità collettiva. Il legame tra i due fenomeni, Stato e nazione, è diventato così strettissimo, al punto che si è spesso prodotta una sovrapposizione semantica. Tale legame è stato per'certi versi costitutivo della stessa modernità occidentale: la nazione ha fornito una base di legittimazione extra procedurale e non coercitiva al potere statùale, mentre lo Stato ha trasformato la nazione nell'identità collettiva per eccellenza, ridimensionando il peso e l'importanza delle altre identità concorrenti, comprese quelle di matrice più moderna, come la classe sociale. Le scienze, sociali hanno contribuito a questo processo di sovrapposizione tra Stato e nazione assumendo tale compenetrazione come punto di arrivo delle trasformazioni storiche e considerandola implicitamente un dato di fatto extra analitico rispetto a qualsiasi analisi ulteriore sulla società moderna e sulle sue dinamiche di mutamento. In questo modo, le questioni fondamentali del discorso sociol6gico, come l'integrazione e la solidarietà sociale, hanno finito per coincidere, rispettivamente, con la partecipazione alla sfera pubblica nazionale e con il mantenimento di una coscienza (identità, appartenenza) nazionale, mentre il problema dell'ordine sociale è stato di fatto identificato con quello della tenuta della società-Stato. 16


Oggi si impone una rivoluzione copernicana nel modo di vedere e studiare i fenomeni sociali di integrazione e di ordine sociale. Lo Stato-nazione non può essere più considerato il punto di arrivo o un presupposto implicito, scontato, naturale, quanto invece qualcosa di estremamente problematico, il cui verificarsi storico è stato irrimediabilmente connesso a certe condizioni sociali che oggi appaiono in via di esaurimento (cfr. Beck 2003). Sòlo tale considerazione può aiutare a interpretare in modo più realistico e freddo quella che è la ricaduta più appariscente che oggi accompagna la disponibilità a trasferirsi altrove per seguire le condizioni economiche del mercato mondiale: la crisi del valore morale dell'essere cittadino di questo o quest'altro Stato. Sono state teorizzate,, ormai da un paio di decenni, le ripercussioni potenzialmente globali delle situazioni di rischio, la necessità della diffusione di una riflessività umana planetaria, che sia capace di concepire il pianeta come un tutt'uno interconnesso (cfr. ad esempio: Beck 2000, Morin 1994). Qui vorremmo tematizzare il bisogno di trasformare in attività concrete la consapevolezza progressivamente avvertita che molti dei vincoli e delle possibilità di mutamento nei diversi ambiti locali sono di natura globale, così come le ripercussioni dell'uso della tecnologia, delle scoperte scientifiche, delle decisioni politiche inerenti le risorse o la strategia geopolitica, ovunque esse siano prese. Gli interessi degli Stati sono frammentati, a volte riguardano solo una porzione delle élite o anche una porzione delle popolazioni ivi residenti, popolazioni che, in ragione dei processi di immigrazione e della diffusione dell'uso di una pluralità di mezzi di comunicazione, trovano legami transtatali più intensi con parti di popolazione di altri Stati rispetto ai legami intrastatali, spesso di natura conflittuale, moderata da istituzioni democratiche che, però, in diverse situazioni non sono in grado di tenere conto dei fattori globali.

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nel nuovo mondo globalizzato

Da tempo si è ormai evidenziato come appaia ormai riduttivo Il problema delle identità inquadrare l'attuale revival delle identità collettive (etniche, religiose, in generale. culturali) in termini strettamente nazionalistici o subnazionalistici. Per due ragioni fondamentali: 1) a differenza del recente passato, le identità che oggi si contendono il campo 17


globale non sono rivolte a costruire nazioni-Stato, non consistono in sentimenti di affiliazione che ruotano attorno alla rivendicazione di un suolo nazionale, ma sono transnazionali, al punto che sembra possibile parlare anche, come si vedrà più avanti, di "processi di identificazione culturale transtatale a carattere internazionale e temporaneo"; 2) le identità non sono l'effetto meccanico, deterministico, dell'influenza esercitata sugli individui da parte della discendenza, dei legami di sangue, del suolo, come sostengono le teorie del primordialismo (Shils 1957). Prendendo le distanze da quest'ultimo approccio, si tratta di interpretare le appartenenze e le soggettività collettive non più come un fatto acquisito e fondato metafisicamente, bensì come l'esito costante di processi di costruzione sociale, frutto interattivo di scelte in gran parte libere, autonome, che però a volte si appoggiano su nuove attribuzioni di significato, nuove ricostruzioni-reinvenzioni di elementi preesistenti, come può essere il colore della pelle per i neri o una certa versione interpretativa dell'islam per certi musulmani (cfr. Modood 2003), in diversi casi, al fine di restituire dignità perdute, significato all'esistenza, appoggio per la sicurezza di sé in condizioni di discriminazione, o semplicemente in condizioni di minoranza in un ambiente costituito da una pluralità di gruppi diversi, che hanno sguardi ed aspettative influenti, o in generale al fine di fornire elementi ai bisogni di riconoscimento e distinzione o basi per il perseguimento di interessi. Nella prospettiva che qui vogliamo suggerire, l'identità non sarebbe più da intendere come un presupposto "naturale" dell'individuo e del suo agire sociale, bensì una risorsa, tra le tante, utile da impiegare nella realizzazione di una serie di compiti sociali, e che funziona nella misura in cui viene resa visibile, viene argomentata e viene dimostrata come ragionevole, piuttosto che essere data per scontata, assunta come presupposto implicito o come fatto naturale. Per questo motivo occorre provare a scavare nella famiglia dei concetti legata alle concezioni costruzioniste dell'identità - al fine di evitare ogni reificazione di fenomeni come cultura, valori, civiltà, tradizione, comunità, etc., che li renda entità astratte, astoriche ed immutabili - e prestare attenzione alle pratiche linguistiche e organizzative con cui si costruiscono quotidianamente i fenomeni identitari, in modo da focalizzare la ricerca non sul che cosa è 18


l'identità collettiva, ma sul come viene definita e usata da parte degli attori sociali. Tali attori costruiscono e rappresentano (a loro stessi e agli altri) l'identificazione collettiva attraversò attività di categorizzazione e mediante argomentazioni e riferimenti linguistici, che assumono significato in riferimento al gruppo transtatale di individui in (potenziale) interazione che stiamo considerando. Come è noto a tutti coloro che si occupano di tali questioni, la L'identità teoria sociale ha continuato ad affastellare una serie di concetti collettiva dotati di un'aria di famiglia con quello di identità collettiva; ma come processo molto spesso tale sforzo concettuale ed astratto si traduce ni un'inconsapevole reificazione dei fenomeni sotto indagine: l'attività scientifica finisce cioè per contribuire a creare il fenomeno che sta studiando piuttosto che limitarsi a descriverlo e spiegarlo. Contro questo rischio, occorre assumere l'identità collettiva, ed i concetti/fenomeni usati per definirla (cultura, tradizione, civiltà, comunità, appartenenza etc.), come un processo e non come un'entità dzta. L'identità collettiva di un gruppo sociale consisterebbe, dunque, non tanto in un insieme di proprietà elencabili che lo caratterizzerebbero, bensì nell'esito di continue pratiche di interazione sociale con cui gli individui portano avanti le loro attività per tutti gli scopi pratici. In altre parole, le identità non sono da intendersi come proprietà costitutive degli individui sociali, bensì come forme di categorizzazione e classificazione degli uomini, che derivano dal loro bisogno di distinguersi una volta calati in una situazione (il bisogno di distinzione risulta funzionale al bisogno di costruzione e di sicurezza della propria supposta identità individuale grazie al suo far riferimento anche - tra altre cose - ad entità più ampie; cfr. Rosset 2004 e, per un approfondimento relativo ai processi di costruzione delle identità, Corradetti e Spreafico 2005, pp. 66-89). A questo scopo, non va trascurato il fatto che i flussi di popolazioni che attraversano il mondo contemporaneo hanno origini assai diverse: non si tratta, soltanto di immigrati, termine con cui si intendono in genere soggetti deprivati in cerca di un lavoro, o di rifugiati, soggetti in fuga dalle difficilissime situazioni del loro luogo di nascita, ma anche di professionisti, intellettuali, ricercatori, imprenditpri etc. che sfruttano ed inseguono le opportunità 19


di lavoro e di successo connesse al mondo globalizzato. In quanto soggetti provenienti dagli strati più elevati della popolazione, essi possiedono le risorse simboliche e materiali che consentono di gestire in prima persona la costruzione delle categorie e delle affiliazioni relative alla propria identità, piuttosto che subirle sotto forma di stereotipi e di altre forme di etichettature, spesso negative, come invece avveniva in passato. La deterritorializzazione e il carattere transnazionale delle Diaspore e nuove identità richiama subito il concetto di diaspora. Benché transazioni risulti utile in quanto rende più complessa l'immagine degli attuali flussi globali di popolazione, permettendo così di abbandonare l'idea di un semplice travaso da un posto ad un altro, il concetto si limita ad una constatazione fisica: un processo di dispersione dei membri di un soggetto collettivo in una miriade di territori e Stati differenti. Occorre invece tenere presente l'importanza dei legami che continuano a unire i soggetti coinvolti nella diaspora. Che cosa li tiene insieme nonostante la dispersione territoriale? Il concetto di "transnazione" viene impiegato proprio per indicare tale affiliazione e legame tra i membri di un processo diasporico. In termini teorici, dunque, sarebbe la coscienza di formare. un unico soggetto disseminato attraverso le frontiere politiche a far parte integrante dell'esperienza della diaspora e la condizione da essa implicata; la diaspora sarebbe creata dalla rappresentazione della dispersione e dalla volontà di mantenere dei legami e delle solidarietà malgrado questa dispersione. Da un lato vi sono probabilmente dei riferimenti comuni a tutte le identificazioni diasporiche immaginate, si pensi ad esempio al rilievo attribuito al viaggio, al mito del ritorno in una terra delle origini e al contempo, però, alla capacità di essere cosmopoliti: gli "ebraici", così come i "cinesi" ed altri "diaspòrici", si autovaluterebbero così positivamente come capaci di contemperare in sé la capacità cosmopolita (ad esempio di tolleranza, di adattamento, di rispetto bilaterale per la diversità) e il riferimento alla propria condizione di minoranza. Dall'altro, ogni diaspora avrebbe le sue specificità in termini di attivazione di riferimenti nelle incessanti situazioni di interazione che sono alimentate dal mondo globalizzato. 20


Per certi versi, le comunità che raccolgono i discendenti dell'e- Il concetto migrazione italiana degli ultimi duecento anni, le minoranze ita- di italicità: alcuni liane presenti nei Paesi confinanti con l'Italia, come il Canton Ticino e la Dalmazia, i membri di quella che e stata definita la interrogativi "nuova immigrazione" italiana, fatta di professionisti, ricercatori, manager etc., e tutti coloro che per formazione, interessi economici ed altre vicende personali sono venuti a contatto con la cultura italiana, costituiscono un'aggregazione comunitaria che presenta la fisionomia di un'identità transnazionale vera e propria e che è stata definita italicità. Per meglio chiarire i contorni di questo nuovo soggetto occorre premettere alcune precisazioni fondamentali. L'italicità: non consiste in un prolungamento dell'identità nazionale italiana o dello Stato italiaro, nel senso che il legame nazionalistico tradizionale appare debole o quasi inesistente, come dimostrerebbe il fatto che gli italici non sono mossi dal semplice desiderio di tornare a vivere in Italia. In questo senso, nell'italicità si riflette quel carattere deterritorializzato che caratterizzerebbe le nuove identità collettive prodotte dal sistema mondo globale; coinvolge spesso soggetti con pluri-appartenenze o esposti inevitabilmente ad altre culture e non solo a quella italiana; consiste principalmente in un esempio di potenzialità relazionale transtatale. L'italicità costituisce una risorsa di rete, cioè può essere immaginata come una rete - le cui ramificazioni sono espandibili fin dove vi sono individui interessati a fare riferimento ad elementi mobili di italicità nelle loro intcrazioni, di qualunque ampiezza geografica esse siano -, una rete attivabile nel momento in cui può rappresentare un vantaggio di fronte all'incertezza che domina l'età della globalizzazione. Come direbbe Touraine (1998), la scomparsa-disgregazione delle mediazioni sociali fra un'economia globalizzata fortemente dualizzante ed i parzialmente conseguenti ripiegamenti comunitari a carattere culturale, fanno sì che oggi l'attivazione di porzioni, magari locali, della rete italica possa offrire canali più sicuri di azione e di scambio, grazie ai quali resistere alle spinte atomizzatrici di certi aspetti della. globalizzazione, in un certo senso usando risorse culturali per alleggerire il peso di un'insicurezza che ha una natura economica ma anche politica 21


(data dalle difficoltà crescenti delle strutture politiche tradizionali ad offrire la regolazione di fenomeni che sfuggono alla loro portata, ciò che attiva forme di sub-politica e movimenti "culturali" di natura globale). La rete dell'italicità, così come è stata appena descritta, può es- Una sere una risorsa, un bene pubblico, per quei gruppi che la posso- costellazione no attivare immaginandola con contenuti ai quali attribuire un di valore positivo, fonte di orgoglio ma anche di rivendicazioni per riferimenti un eventuale riconoscimento di suoi aspetti ritenuti, e costruiti come, vitali per una sua reificazione in un dato contesto. Mettendo da parte gli italofihi (attratti dalla cultura e dagli interessi italici, ma non necessariamente prodotti da diaspore) - i quali, comunque, per certi aspetti possono condividere tali legami e tali solidarietà con gli altri italici -, gli italici che si trovano disseminati nel mondo possono fare riferimento a costellazioni di riferimenti identitari, di significato, simili. L'identità italica può essere concepita come un processo di identificazione messo in moto per svolgere l'interazione pratica che ci si trova a vivere in un determinato punto spazio-temporale del nuovo sistema globale. Analizzare il processo di identificazione nell'italicità, allora, permette al contempo di studiare dal punto di vista teorico come si formano oggi le identità collettive e, come caso particolare, come coloro che si avvalgono dell'italicità scelgono i riferimenti con cui la compongono e quali riferimenti considerano più frequentemente, in quali situazioni di interazione e perché, oltre che mediante quali processi di categorizzazione. Ciò che ci possiamo attendere - ma che solo una ricerca tramite alcune interviste in profondità può confermare, nei modi di cui si dirà più avanti - è che presso gli italici sia presente una costellazione di riferimenti come la valutazione positiva dell'attività imprenditoriale (che oggi trova appoggio in numerosi successi imprenditoriali degli italici nel mondo, nella diffusione che la moda ed il design italiano hanno ovunque e nei risultati della tecnologia sportiva: dalla Ferrari alla Magneti Marelli), considerata, immaginata e costruita come caratteristica unificante degli italici nel mondo, così come il contemporaneo sentirsi parte di un gruppo di persone che ha un passato glorioso di cui potersi 22


vantare (in genere il riferimento è fatto in relazione all'Umanesimo ed al Rinascimento, nella letteratura, nelle arti, nell'architettura, nella tecnica e così via fino alle capacità di mediazione politica), e un presente di successi nel campo dello sport, della gastronomia e dell'enologia. In sostanza, quando è necessario, un italico ha la possibilità di rifarsi a un bagaglio di riferimenti tra i quali scegliere per costruire una rappresentazionc di sé che, al momento di certe interazioni, gli permetta di riallacciarsi a un'identificazione in un collettivo immaginato al fine di raggiungere determinati obiettivi. Per questo, in alcune situazioni, un individuo può decidere di presentarsi dicendo: io sono italico e qui questo per me è motivo di orgoglio e financo di rivendicazione, o di vantaggio e di facilitazione, poiché essere italico è segno (una garanzia di) della capacità di flessibilità necessaria al buon imprenditore, o di gusto e di raffinatezza (qualità considerate, a torto o a ragione, universalmente spendibili) nella cultura, una cultura che affonda anche nella supposta capacità di recuperare una lunga serie di capacità-ricchezze di origine regionale-locale; è segno di tolleranza cosmopolitica e di capacità di adattamento. Altrettanto discutibile (perché spesso sconfessata dai fatti), ma possibile, è che l'essere italico possa essere presentata, costruita, immaginata come una condizione portatrice di elementi di comunione ben spendibili per facilitare gli scambi ed in genere la comunicazione, come il riferimento a una lingua (che molti italici non parlano) o a una religione (tra gli italici vi sono molti non cattolici, molti non praticanti, molti non credenti). Certo è che, indipendentcmcntc dalla realtà, se i mezzi di comunicazione diffondono l'immagine di un'italicità fondata sui cattolicesimo, tale riferimento sarà comunque spesso inserito nella costellazione dei riferimenti da coloro che scelgono di presentarsi come italici. Così come può succedere per il valore positivo, e correlato al precedente, attribuito alla famiglia. Il significato attribuito a un singolo riferimento può spesso essere parzialmente diverso da persona a persona, ciò non toglie che coloro che vi si riferiscono lo facciano considerandolo (anche a torto, ciò è secondario) un elemento della loro italicità condivisa (costruita come tale). Tutto ciò deve però trovare conferme e precisazioni in un lavoro di tipo empirico. 23


L'italicità, dunque, può assumere molte facce: può esseÈe vista Un marchio come un marchio riconoscibile e presentabile in determinati tipi riconoscibile di relazioni sociali, marchio che agli occhi dei non italici assume certi significati (e la differenza tra quelli attribuiti da questi ultimi e quelli attribuiti dagli italici andrebbe anch'essa indagata); essa può divenire in senso ampio il simbolo di uno stile di vita italico; oppure può éssere vista come un insieme variegato di valori, credenze e tradizioni che convivono insieme assumendo nel complesso una configurazione' specifica riconoscibile (il termine "vanegato", anzi, può voler dire che alcuni di questi valori e credenze sono comuni a quelli normalmente attribuibili ad altri gruppi culturali); oppure ancora, in un senso ristretto, l'italicità potrebbe manifestarsi come condizione emergente, sotto forma di esperienze, pratiche compiute e legami stabiliti in occasione di incontri avuti nel momento in cui si è deciso di divenire membri o comunque di partecipare ad associazioni che abbiano lo scopo di riunire, aiutare, valorizzare la condizione italica nel mondo (in questo caso l'italicità esiste nel momento in cui si agisce, in certi contesti, insieme ad altri che si percepiscono - la costruzione della percezione è reciproca ed interattiva - come italici, proprio perché hanno deciso di lavorare insieme per un obiettivo condiviso: l'obiettivo in un certo senso è italico e chi collabora a realizzarlo diviene di conseguenza in quel momento un italico, percepito ed autopercepitosi come tale). I mezzi di comunicazione svolgono ovviamente un ruolo potente di produzione-costruzione-ricostruzione dei riferimenti identitari, ma anche un ruolo di conservazione (spesso selettiva) della memoria storica e delle sue componenti più o meno valorizzate o da valorizzare - e i processi di costruzione della memoria e la sua diffusione sono un ulteriore spunto di approfondimento nel campo dell'italicità. Come ricorda Appadurai (2001), grazie all'immaginazione oggi i messaggi dei media sono rapidamente assimilati in modo attivo e selettivo, entro repertori locali fatti di ironia, umorismo, pratiche di resistenza, di riconversione, decontestualizzazione, rabbia, così come si possono creare "comunità di sentimento" frutto della condivisione di determinate rappresentazioni veicolate dai media. L'azione dei mass media (il capitalismo a stampa, di cui parlava Benedict Anderson - 1996 -, e il suo ere24


de il capitalismo elettronico), nella sua capacità di alimentare il processo di immaginazione dell'identità italica, risulta così fondamentale per la produzione di narrazioni (Appadurai 2001) e di discorsi (Foucault 1976) politico-scientifici dell'italicità, e soprattutto permette di immaginare quell'unità oltre i confini statali che offre la possibilità agli italici di percepire ùn'unità selettiva attraverso le frontiere, un possibile senso di vicinanza con altri italici in ogni parte del mondo - grazie al quale possono essere costruite alleanze strategiche transtatali nel settore del commercio, della finanza e potenzialmente anche in politica. La condizione di italico tende presumibilmente a farsi viva - Per una nel senso che viene tematizzata e impiegata più di frequente, cioè ricerca più frequente è l'uso dei riferimenti di cui si parlava sopra - sull'italicità quando ci si trova in una situazione in cui si crede di essere il portatore di un'identità specifica e distinta dalle altre, a cui si attribuisce nuovo valore, e/o nuovi significati, per sé e per gli altri. Per questa ragione, la prima tappa di una possibile ricerca dovrebbe indirizzarsi verso quei soggetti che più di altri vivono l'esperienza transfrontaliera dell'italicità, in particolare alcuni soggetti che si possono considerare esponenti tipici e di vertice dell'italicità, come il gruppo dei neo parlamentari eletti dagli italiani all'estero. Si tratta di un gruppo di soggetti che in virtù delle loro esperienze personali e per i ruoli che attualmente ricoprono, vivono in prima fila l'esperienza dell'italicità. Per questi soggetti, l'italicità non è una realtà teorica, concettuale, bensì una condizione che fa parte del loro vissuto politico, economico e professionale, oltre che • umano. Questi soggetti attraversano quotidianamente i vecchi confini delle identità nazionali e si ritrovano a fare i conti con la necessità di cercare altri riferimenti identitari che costituiscano le coordinate valoriali di un mondo ormai postnazionale. L'intervista ermeneutica (cfr. Montesperelli 1998), in profondità, potrebbe costituire una tecnica fondamentale di raccolta delle informazioni. Si parte dal presupposto che le identità culturali, come quelle transnazionali, non costituiscano un qualcosa di disincarnato, idealistico, bensì siano inscritte nelle biografie individuali. Analizzare queste biografie individuali attraverso interviste in profondità, in cui l'intervistato racconti le sue esperienze 25


personali, le pratiche e le iniziative in cui è inserito, le rappresentazioni che lo caratterizzano etc., consente di gettare uno sguardo alla realtà concreta, vissuta, dell'identità italica, invece di raccoglierla in forma di schemi meramente teorici. Permette anche di coglierne la storicità ed il suo costante divenire e trasformarsi sotto la spinta dei processi di mutamento sociale, piuttosto che assumerla come qualcosa di astorico e di perennemente uguale. L'italicità è da intendere come qualcosa di plastico e ancora in via di costante formazione e ridefinizione. Tali interviste potrebbero anche essere svolte sotto forma di in- Quali terazioni in cui l'intervistato sia spinto a riflettere sugli elementi caratteristiche di riferimento identificativo italicistico che entrano in gioco nel corso del suo agire in campo economico, politico e culturale. Tali elementi dovrebbero essere poi ricondotti, nell'interazione intervistatore-intervistato, al processo di previa riformulazione dei messaggi veicolati dalle comunicazioni (mediatiche e relazionali) cui il soggetto si è sottoposto nel tempo (cfr. Baumann 2003) e che hanno influenzato il suo personale processo di costruzione dell'italicità, rendendolo presumibilmente in parte simile per tutti. Si vedrà così se e in che termini sia possibile affermare che l'italicità sia immaginabile come un capo di abbigliamento, dallo stile riconoscibile al di là del cambiamento di alcune sue componenti, che viene indossato da alcuni individui insieme ad altri capi di abbigliamento (ad esempio, l'"argentinità" o l'autodefinirsi liberali in politica o favorevoli all'ambientalismo) in alcuni momenti e magari non in altri, cioè ad esempio non nelle situazioni di, interazione in cui questo capo d'abbigliamento non offra un vantaggio relazionalmente adeguato. La seconda tappa di tale possibile ricerca dovrebbe volgersi ad allargare il discorso alle diverse sfumature di italicità rinvenibili in individui che occupano posizioni diverse rispetto al rapporto tra cultura italica e cultura italiana. A questo scopo si potrebbe pensare a una serie di interviste a soggetti che costituiscano le differenti parti di cui si compone il più ampio universo italico (ad esempio, al fine di comprendere i meccanismi di costruzione delle costellazioni di riferimenti messi in moto in genere a seconda dei differenti contesti di vita). Si tratta cioè di distinguere quali 26


aspetti caratterizzano soggetti che hanno relazioni diverse con l'italicità dal punto di vista del loro bagaglio di immagini, idee, rappresentazioni, tasselli culturali, in modo da ricomprendere: 1) cittadini italiani di origine italiana residenti in Italia; 2a) cittadini italiani di origine immigrata, non discendenti di italiani e residenti in Italia; 2b) immigrati non discendenti di italiani e residenti in Italia da tempo ma non cittadini; 3a) discendenti di diversa generazione di genitore italiano residenti all'estero con cittadinanza italiana; 30 discendenti di diversa generazione di genitore italiano residenti all'estero senza la cittadinanza italiana; 4) chiunque al mondo, che non rientri nelle precedenti categorie, abbia adottato con sincero piacere un certo numero di tratti culturali considerabili eventualmente propri dell'italicità. All'interno delle interviste, che dovrebbero essere interamente Interviste registrate, si potrebbe poi introdurre una tecnica particolare (che articolate raccoglie in sé procedure di più tecniche differenti) che potrebbe rivelarsi di grande utilità per l'individuazione e l'articolazione dei riferimenti identitari più frequentemente impiegati nella costruzione di un'identità postnazionale, e la cui applicazione potrebbe offrire ottimi risultati anche rispetto al tema dell'italicità. In una prima fase, con tale tecnica si chiede all'intervistato di esplicitare verbalmente un certo numero di tali riferimenti: ad esempio, a un partecipante alle attività di un'associazione di italo-argentini finalizzata al sostegno di una serie di attività di promozione di riferimenti italicistici (partecipante che può dunque rientrare nei gruppi 3 o, in alcuni casi, 4, e chc può quindi essere individuato come italico) può essere domandato di provare a rivelare in base a quali elementi di identificazione sente di potersi presentare come "italiano/italico" e perché. Poi gli si dovrebbe proporre di metterli in un ordine gerarchico. In una seconda fase, si sottoporrebbe al medesimo intervistato un elenco - precedentemente preparato in base alle intuizioni del ricercatore ed alle sue antecedenti esperienze di intervista (elenco, dunque, suscettibile di essere fino a un certo momento progressivamente affinato) - contenente un certo numero di altri riferimenti identitari di tipo italicistico. Questo elenco andrebbe sottoposto solo a questo punto, così che nella prima fase non si venga influenzati di stimoli esterni. All'in27


tervistato verrebbe poi chiesto di commentare ciascun elementostimolo dell'elenco in riferimento alla domanda di partenza; in seguito, potendosi ora avvalere di tutti gli elementi comparsi sino a quel momento, ed anche di altri nel frattempo eventualmente giunti alla mente dell'intervistato, si domanderebbe all'individuo di riformulare la gerarchia personale precedente. A questo punto - e siamo nell'ultima fase - si chiederebbe all'intervistato di prendere da tale ultima gerarchia i primi 6-10 elementi e di disporre ciascuno di essi (rappresentato da un numero) all'interno di una cornice spaziale piana, domandandogli di disporli su di essa secondo il rapporto di vicinanza che percepisce tra ciascuno di loro e tutti gli altri (vi possono essere sovrapposizioni, disposizioni paritarie orizzontali, ancora verticali), alla fine - ricordando che tutte queste operazioni verrebbero commentate dall'intervistato ed eventualmente anche fotografate - gli si chiederebbe di tracciare delle linee per indicare l'intensità e la direzione delle eventuali relazioni che egli percepisce tra gli elementi così disposti. In questo modo si arriverebbe a disporre di una mappa articolata della costellazione dei riferimenti identificativi nell'italicità di ciascun intervistato, mappa che permetterebbe sia di operare dei confronti tra intervistati appartenenti a gruppi diversi, sia di costruire delle mappe di sintesi per ciascun gruppo e, volendo, per tutti i gruppi insieme. Ciò darebbe la possibilità di farsi un'idea molto più accurata dei processi di costruzione identitaria, delle categorizzazioni impiegate, dei riferimenti concettuali più diffusi e così via. In un'ultima eventuale fase aggiuntiva, rivolta ad esplorare la dimensione normativa, sarebbe poi possibile domandare all'intervistato di mostrare graficamente come secondo lui dovrebbe invece essere una mappa ideale dell'italicità potenzialmente condivisibile da altri italici. Non dovrebbe mancare, poi, un'attenta considerazione della distinzione tra le rappresentazioni che dell'italicità si fanno i non-italici (in base al senso comune ed agli stereotipi diffusi) - intervistabili con le stesse modalità sin qui descritte - e quelle che si fanno gli italici (eventualmente nelle loro diverse componenti), sempre seguendo l'idea che un individuo decida di adottare al momento di un'interazione una serie di rifetimenti identificativi più o meno temporanei §celti in base alla rappresen28

Mappe complesse


tazione personale che si è fatto dell'italicità, rappresentazione che a sua volta può essere il frutto del confronto operato dal singolo tra quanto proposto dai media, quanto proposto da altri italici e quanto proposto dai non-italici. L'attenzione posta a questi processi è data dal fatto che il problema che oggi si impone alla ricerca sociale è di riUscire a fornire una descrizione teorica accurata di come abbia luogo la costruzione dell'identità collettiva intesa come processo di identificazione situazionale e relazionale. Resta, infine, aperto un interrogativo fondamentale, relativo a quali forme della cittadinanza e a quali organizzazioni di partecipazione e di rappresentanza possano armonizzarsi con l'inedito profilo identitario degli italici; profilò che potrebbe risultare fortemente compatibile con modelli di cittadinanza flessibile, multipla, transnazionale o postnazionale in ragione delle trasformazioni indotte dai processi di mobilità e comunicazione compresi sotto il termine "globalizzazione". L'esistenza dell'italicità, nelle modalità individuate in seguito alla ricerca sopra prefigurata, potrebbe mostrare nei fatti come ancora una volta le affiliazioni transtatali superino e rendano arretrata l'idea di pacchetti di diritti e doveri connessi a legami con specifiche porzioni di territorio. Del resto, la stessa concessione del diritto di voto nelle elezioni politiche italiane a persone di fatto residenti in altri Stati mostra già la paradossale decostruzione della cittadinanza tradizionale, dato che i diritti politici in un Paese sono esercitati da persone che hanno doveri di solidarietà sociale solo in un altro Paese.

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queste istituzioni n 1461147 estate autunno 2007

dossier

Gestione del patrimonio culturale e politiche del turismo

Nel/a traiizione giuridica ed economica italiana, la gestione prevalentemente pubblica dei beni culturali ha garantito, nel/a maggior parte dei casi, la loro conservazione, sacrificandone, tuttavia, la fruizione e la valorizzazione. Quest'ultima è, invece, l'attività che, secondo molti, può produrre reddito ed occupazione e che, quindi, può costituire una potente leva di sviluppo economico - essenzialmente per i suoi positivi effetti sul turismo - vista l'ampia dffiisione dei beni culturali in Italia, anche in territori economicamente depressi. Studi sull'economia dei beni culturali hanno dimostrato che la fruizione del bene medesimo, tanto da parte dell'utente colto, quanto del turista "mordi efisggi' produce benefici effetti sull'economia locale. Effetti che riguardano principalmente il settore turistico, ma che si riverberano sul settore delle attività produttive, anche in virtù dell'emergere del nuovo fenomeno del turismo enogastronomico, incentrato sui prodotti di qualità del made in Italy. La. consapevolezza di ciò ha indotto non poche Pubbliche amministrazioni (in partico/ar modo a livello locale), le aziende private e il terzo settore ad interagire con lo scopo di pensare e porre in essere il perfezionamento del/a disciplina relativa alla protezione ed alla valorizzazione dei beni culturali, permettendo un adeguato intervento a livello nazionale, regionale e locale. 31


Gli articoli contenuti in questo dossier tendono a sottolineare ancora una volta come parlare di patrimonio culturale di un Paese significhi non soltanto, un riferimento al bene culturale in senso stretto ma, più generalmente, ad un più vasto sistema composto anche da tradizioni, usi ed attività culturali, il quale costituisce una delle più importanti leve di sviluppo su cui far affidamento per una rip resa economica del Paese. Peraltro, tale nostro sistema, pur imperniato sui beni culturali definibili 'randi attrattori ' quali il Colosseo, Pompei o la Galleria degli Uffizi, deve spendere risorse ed impegno anche per la valorizzazione e promozione dei beni culturali minori, meno noti e che, a dispetto del loro assoluto rilievo, non hanno visitatori oppure ne hanno in numero veramente esiguo. Al raggiungimento di tale obiettivo può essere indirizzato lo strumento del Partenariato pubblico-privato nel settore turistico. Ne .è un esempio il caso totalmente italiano dell'albergo diffuso, grazie al quale, accanto alla valorizzazione di un intero centro urbano, se ne mettono in risalto le tradizioni attraverso la collaborazione tra gli abitanti/attori del borgo/albergo. Lo strumento della tassa di soggiorno, infine, 'può costituire un ulteriore fonte di risorse da destinare alla tutela e valorizzaione del sistema, come dimostra 'il caso che presentiamo della sua possibile applicazione nel Comune di Roma (C.S.)

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istituzioni n. 146/147 estate-autunno 2007

L'Albergo diffuso: a proposito di Partenariato pubblico-privato nel settore turistico di Costanza Barbi

attuale poca disponibilità di denaro pubblico da utilizzarsi per le infrastrutture e, più in generale per tutte le piccole e grandi opere necessarie allo sviluppo del Paese è un problema dalle origini e dagli sviluppi complessi, .come ben sanno i lettori di questa rivista che al tema del partenariato ha dedicato un numero monografico (il n. 140143, annale 2006). Gli assetti consolidati da tempo in ogni settore sono stati stravolti per molteplici motivi, tra cui basta citare, ad esempio, la peculiarità del nostro sistema industriale composto, com'è noto, da una miriade di piccole e medie imprese che non riescono più a coprire i costi di realizzazione delle infrastrutture, né ad offrire garanzie sufficienti al sistema bancario. Tutto questo, unito all'arrivo di regole sopranazionali come le regole europee in materia di aiuti di Stato e gli accordi di Basilea 2 in materia creditizia ha contribuito a colpire in maniera particolare anche le amministrazioni locali. Queste, infatti, hanno dovuto aggiungere a quanto sopra accennato, anche le ricadute in materia di tagli alla spesa che sono susseguite alla rifòrma del titolo V della nostra Costituzione. Giocoforza, l'interesse dei privati e delle varie amministrazioni è dovuto andare verso opere capaci totalmente o parzialménte di autofinanziarsi, di rimborsare e remunerare con i futuri introiti, gli investimenti necessari. Ad oggi la soluzione utilizzata è quella del Partenariato pubblico-privato (d'ora in avanti anche pp)1 IL PARTENARIATO PUBBLICO-PRIVATO

Questo istituto è definito dalla Commissione Europea 2 come "forma di cooperazione tra autorità pubbliche e il mondo delle imprese, mira a Uautrice è laureata in sociologia, attualmente è consulente freelance in materia di projectfinancing e collabora con diversi studi professionali. 33


garantire il finanziamento, la costruzione, il rinnovamento, la gestione o la manutenzione di una infrastruttura o la fornitura di un servizio". Esso consente di avvalersi di modalità di finanziamento innovative e che ben si prestano alla realizzazione di grandi opere che spesso rivestono carattere d'urgenza ma che richiedono, d'altro canto, una grande efficienza. A questo punto si rende necessario accennare, all'interno della nostra analisi, al ruolo delle tecniche di Project financing prima poco o nulla utilizzate dagli enti pubblici. Con il termine PPP si fa riferimento ad una serie di strutture e concetti che comportano la divisione dei rischi e delle responsabilità tra il settore pubblico e quello privato. In un progetto Ppp l'autorità pubblica affida all'operatore privato, sulla base di uno specifico contratt0 3 l'attivazione di un progetto che spesso implica una complessa costruzione e gestione. Viene utilizzato in tutti gli ambiti: dalle autostrade ai parcheggi, agli eventi, al settore dei beni culturali, al turismo e si estrinseca nel cosiddetto Project financing, la finanza di progetto. Tali tecniche, mutuate dall'analisi finanziaria e dagli ambiti creditizi, rendono partecipe l'amministrazione, non solo - come è sempre accaduto - della gestione dei fondi stanziati ma anche e soprattutto degli strumenti di investimento che, uniti alla capacità di un progetto di ripagare in tutto o in parte l'investimento necessario .a realizzarlo, consentono anche la remunerazione del capitale investito dal privato. Con le leggi sull'autonomia (Bassanini 1, Testo Unico sull'ordinamento delle autonomie locali) e con la modifica del titolo V della Costituzione, le istituzioni locali si sono trovate a dover affrontare non solo la programmazione economica locale ma anche la gestione delle politiche sociali e culturali, nonché la promozione in senso turistico dei propri luoghi, senza nessun coordinamento né aiuto. E il turismo, a differenza di altri comparti, ha posto rilevanti questioni e numerosi temi di studio. UN MERCATO "LOCALIZZATO"

Per sua propria struttura, il turismo è arrivato ad essere un complesso fenomeno di dimensioni politiche, economiche, sociali, culturali, educative, biofisiche, ecologiche ed estetiche. Secondo una delle definizioni, il turismo si presenta come un "mercato 34


localizzato" 4 ; uno spazio cioè, in cui si scambiano beni e servizi e in cui è il luogo stesso a diventare parte integrante del prodotto scambiato. In questo modo, il turismo si configura .a tutti gli effetti come un processo industriale con un'offerta e una domanda propria e con degli stakeholders di vario tipo al centro di questa relazione. Questo processo industriale si presenta però, come mòlto particolare, e quindi difficile da affrontare e gestire, per almeno tre ordini di motivi: innanzitutto, all'interno dei processi turistici, lo scambio di domanda e offerta cambia continuamente e spontaneamente stabilendo i trend, le tipologie e le motivazioni, lasciando agli stakeholders il solo compito di gestirlo e strutturarlo. La seconda caratteristicaparticolare del fenomeno riguarda, invece, lo scambio stesso e i suoi attori. La comunità ospitante (che agisce in qualità di produttore e conservatore del bene scambiato) rappresenta il lato dell'offerta ma si struttura anche e soprattutto, come oggetto turistico, cioè come uno dei poli attrattivi su cui si basa la domanda. Infine, il turismo presenta una domanda infinita a fronte di una scarsità di risorse, altamente sensibili alle condizioni ambientali e alla pressione della stessa, rendendo necessari investimenti ingenti per la conservazione del prodotto e dei servizi scambiati. È quindi chiaro che la programmazione degli interventi e delle azioni mirate allo sviluppo turistico deve avvenire all'insegna della concertazione e della partecipazione non solo delle amministrazioni locali ma anche dei privati e dei cittadini, costituendo in questo modo una linea continua fra i vari attori dello sviluppo locale. Qui il concetto di sviluppo locale è inteso come capacità e volontà di rafforzare e favorire le politiche di sviluppo attraverso una composizione degli attori locali a reti ed a scale diverse, in opposizione ad un concetto negativo di localismo. Ciò che si vuole mettere in luce è la presenza o meno di quei fenomeni territoriali che emergono e si identificano nel quadro regionale e che esprimono azioni collettive volte a costruire il territorio stesso sulla base di capacità comuni di saperi e di partenariato, strumento privilegiato dell'apprendimento collettivo e della governance. La volontà di creare una forte sinergia fra soggetti pubblici e privati per la valorizzazione e promozione del sistema delle risorse esistenti in loco con un'azione partecipata mirata alla progettazione dal basso dello sviluppo turistico è un chiaro riferimento al ruolo essenziale che i soggetti privati detengono all'interno dei processi di "ricostruzione" del Paese. 35


IL SISTEÌvIA TURISTICO LocALE (STL)

Il ruolo centrale del territorio nelle politiche turistiche, ispirato da alcune esperienze locali e regionali, è stato formalmente riconosciuto a livello nazionale attraverso la legge quadro n. 135 del 29 marzo 2001 con la quale si è voluto 'valorizzare il territorio e la dimensione locale e riconoscerne complessità attraverso la definizione del Sistema turistico locale (STL).

Si definiscono STL i contesti turistici omogenei o integrati, comprendenti ambiti territoriali appartenenti anche a Regioni diverse, caratterizzati dall'offerta integrata di beni culturali, ambientali e di attrazioni turistiche, compresi i prodotti tipici dell'agricoltura e dell'artigianato locale o dalla presenza diffusa di imprese turistiche o associate. Gli Enti locali o soggetti privati, singoli o associati, promuovono gli STL attraverso forme di concertazione con gli enti funzionali, con le associazioni di categoria che concorrono alla formazione dell'offerta turistica, nonché con i soggetti pubblici e privati interessati 5 . Il STL è dunque un distretto turistico che nasce per lo sviluppo e la valorizzazione coordinata delle risorse turistiche locali e che risponde alla necessità di aumentare la competitività turistica di un'area territoriale. La novità del modello organizzativo proposto si concretizza in due aspetti fondamentali: l'esaltazione della dimensione territoriale dell'offerta turistica e la spinta, quasi obbligata, verso l'integrazione fra le diverse componenti del sistema, e in particolare fra gli attori pubblici e privati, non solo nella fasè di gestione, ma anche in quella dell'elaborazione progettuale. Tirando le somme. di questo breve excursus, è in sostanza necessaria, per la creazione di un progetto nell'ambito di un STL, da realizzarsi in regime di Ppp, la creazione (o il potenziamento) di fihiere turistiche integrate. Questo processo risponde a determinate esigenze; si tratta di sollecitare nuovi sistemi di relazioni di tipo produttivo ma anche di tipo informativo, consultivo e strategico tra i soggetti imprenditoriali privati di vari settori e i soggetti pubblici che intervengono nello sviluppo di uno specifico prodotto turistico o di uno specifico sistema territoriale. Un chiaro approccio nell'ottica del partenariato ancora poco recepito. Uno di pochi esempi realizzati è il c.d. Albergo diffuso, altro strumento per lo sviluppo turistico che coinvolge soggetti pubblici e privati. L'Albergo diffuso può essere definito come un albergo orizzontale, si36


tuato in un centro storico, con camere e servizi dislocati in edifici diversi, seppure vicini tra di loro, una struttura ricettiva unitaria che si rivolge ad una domanda interessata a soggiornare in un contesto urbano di pregio, a contatto con i residenti, usufruendo comunque dei normali servizi alberghieri. Tale formula si è rivelata particolarmente adatta per borghi e paesi caratterizzati da centri storici di interesse artistico ed architettonico, che in tal modo possono recuperare e valorizzare vecchi edifici chiusi e non utilizzati, ed al tempo stesso possono evitare di risolvere i problemi della ricettività turistica con nuove costruzioni. Ne parleremo più approfonditamente nel prossimo paragrafo. Al termine di queste riflessioni, una prima conclusione che si può trarre è che sicuramente la sfida per amministrazioni e consulenti che opereranno in regime di partenariato, per la realizzazione di progetti turistici, è quella di trasportare i modelli astratti di matrice giuridico-economica, come le leggi agevolative, nella realtà territoriale. Questo, a parere di chi scrive, è il grande valore aggiunto dei STL. La capacità di costituire un'interfaccia omogenea, un modello gestionale che sappia conciliare le peculiarità del prodotto turismo e della singola realtà locale con la macrorealtà del mercato globalizzato il quale ha la necessità di semplificare per vendere ovunque. - La peculiarità di ogni singola realtà turistica è infatti insieme valore e disvalore, in quanto, senza scomodare i grandi maestri dell'analisi di mercato, appare facile capire come una realtà in cui la dimensione massima che le imprese possono raggiungere gli vale la denominazione di "piccole e medie imprese", difficilmente attrarrà grandi capitali privati, mentre le difficoltà di creazione e gestione dell'impresa stessa all'interno di un mercato chiuso e per molti versi in declino esigono capitali, idee, sistemi di marketing adeguati a cui spesso è impossibile accedere. Questo non fa altro che limitare il dialogo, la conoscenza e le "richieste di aiuto" tra amministrazioni locali e Stato centrale sui finanziamenti. Il modello del STL andrà quindi necessariamente configurato per salvaguardare le peculiarità prima accennate, ricchezza tangibile di un territorio, rendendole comprensibili, standardizzando i processi di gestione ma non la gestione stessa che, dovrà quindi sempre star bene attenta a non smarrire l'identità territoriale dei luoghi. 37


UN'IDEA TUTTA ITALIANA: L'ALBERGO DIFFUSO

La domanda di turismo è oggi particolarmente variegata e l'autenticità di una proposta in grado di integrare interessi storici, culturali e paesaggistici è tra le prime motivazioni delle scelte effettuate. Rispetto all'offerta tradizionale, l'hotel di tipo classico è spesso caro, impersonale e "asettico", avulso dalla realtà e dal contesto vitale circostante. L'agriturismo stimola un forte richiamo, ma è spesso isolato, fuori mano, éd impone necessariamente un proprio mezzo di trasporto. La formula del Bed&Breakfast impone spesso la condivisione di un appartamento con altri, in casa di altri. L'Albergo diffuso rappresenta una via diversa, tipicamente italiana. La formula integra la diffusione orizzontale delle strutture dove gli ospiti soggiornano in vari immobili disseminati in un breve raggio nel centro urbano del paese o del piccolo centro, con una (o più) strutture centralizzate di servizi alberghieri classici (gestione e accoglienza, prima colazione, spazi comuni, etc) per tutti gli ospiti. La gestione e l'organizzazione centralizzate assicurano la qualità e lo standard dei servizi garantiti a tutti gli ospiti anche se alloggiano in camere sparse in un centro storico abitato e confermano che il modello non consiste in una sommatoria di case, ma è una vera e propria formula di tipo alberghiero. L'Albergo diffuso, come abbiamo detto, è un albergo orizzontale in cui i turisti ritrovano tutti i pregi di un hotel tradizionale offerti però, in un modo nuovo, appunto orizzontale. Il termine sta a significare, in primo luogo, che la struttura ricettiva non si trova racchiusa in un edificio di vari piani, dunque verticale, ma è disseminata all'interno del paese (in molti casi infatti si parla di paese-albergo), a stretto contatto concoloro che quel paese lo abitano e lo vivono. Le strutture ricettive dell'Albergo diffuso sono di norma case di pregio, o almeno abitazioni caratteristiche, ristrutturate e ammobiliate in modo tale da soddisfare le esigenze di comfort del turismo odierno, inserite in un contesto paesano con un forte sapore locale di elevato interesse storico e culturale. In secondo luogo, il termine sottolinea il significato che, nell'albergo di tipo orizzontale, le dinamiche sociali di tipo host-guest (ospite-ospitato) godono di una minore spersonalizzazione rispetto ad una struttura tradizionale. 38


Altro elemento di forte richiamo per indirizzare la scelta turistica verso l'Albergo diffuso è che il paese o il borgo nel quale è insediato è caratterizzato da un numero modesto di abitanti, in modo da garantire ai turisti la possibilità di avviare relazioni, di avere rapporti interpersonali con i residenti e gli altri ospiti. Cambia, pertanto, la "filosofia" della permanenza: più che clienti di un albergo, per qualche giorno si diventa parte di un vero e proprio vicinato, quasi un "componente" di quel borgo, temporaneamente inserito nella comunità. In questo contesto, la realtà paesana diventa una ulteriore "area turistica comune", dove parlare con le persone, scambiare esperienze e conoscenze, essere parte del vivere quotidiano e non vestirsi dello stereotipo del turista. D'altro canto, il paese o il borgo che lo ospita, anche se di piccole dimensioni, si deve presentare come una realtà viva, animata, "aperta all"alieno" e dotata di tutti i servizi di base (passeggiate, negozi, farmacia, chiesa, edicola, bar, pro loco ... ). È evidente, lasciando al lettore tutte le implicazioni e le speculazioni di carattere sociale e comportamentale, che l'Albergo diffuso non rappresenta soltanto una nuova formula alberghiera, ma anche una potenzialità di sviluppo di un territorio, non solo di carattere economico, ma anche sotto il profilo della crescita culturale e partecipativa dei residenti, i quali acquisiscono maggiore rispetto e consapevolezza del proprio territorio, del proprio patrimonio storico-ambientale e degli altri, con i quali stabiliranno dinamiche relazionali. L'Albergo diffuso è una formula di ospitalità italiana concepita negli anni Ottanta in Friuli, e messa a punto come modello vero e proprio negli anni Novanta in Sardegna. A seguito delle ristrutturazioni di alcuni paesi della Carnia per via del terremoto, si cominciò a pensare di utilizzare i borghi ormai disabitati come villaggi turistici ed a parlare di "alberghi diffusi". Questa intuizione, nata nel contesto delle tematiche di recupero dell'area, intendeva rappresentare un elemento in più per riqualificare la zona e riportarla nuovamente alla vita ed allo stesso tempo per rendere più attiva la salvaguardia del territorio. Attualmente in Italia si contano 52 Alberghi diffusi veri e propri, la maggior parte dei quali realizzati grazie a finanziamenti regionali e comunitari a sostegno delle aree rurali come i Programmi Obiettivo 2 e LEADER I-Il e +, mentre altrettanti si definiscono tali senza averne i requisiti. 39


Presente in 12 Regioni del nostro Paese, l'Albergo diffuso rappresenta la new generation dell'ospitalità sostenibile: talmente nuova che soltanto in tre Regioni italiane (Sardegna, Friuli e Marche) è contemplata in una normativa ad hoc. Il termine ha fatto l'ingresso ufficiale nella lingua italiana nell'ultima edizione del dizionario Zanichelli pubblicato nel novembre 2006. Tra i requisiti indispensabili perché una struttura possa essere definita a pieno titolo 'A1bergo diffuso", prioritaria è la localizzazione: l'insediamento dev'essere realizzato in piccoli paesi, borghi, centri rurali, comunità montane, con poche centinaia di abitanti ma con tutti i servizi di base funzionanti. In secondo luogo, è altrettanto indispensabile l'attitudine della comunità ospitante presente, la quale deve essere dotata di spirito di appartenenza al "borgo", alle proprie tradizioni ed alla propria cultura, ma allo stesso tempo dev'essere capace e predisposta all'accoglienza. Ulteriori elementi di caratterizzazione sono: - la disponibilità di immobili non abitati all'interno del paese, i quali siano adatti ad una ristrutturazione a fini turistici; - la possibilità di localizzare le strutture adibite all'accoglienza in posizione centrale, baricentrica rispetto alle camere e comunque vicine e facilmente accessibili (di solito si prevede una distanza massima tra gli immobili tale da non impedire di offrire a tutti gli ospiti i normali servizi alberghieri, che può variare tra.i 200 e i 500 m.); - l'offerta di servizi alberghieri per tutti gli ospiti alloggiati nei diversi edifici che compongono l'Albergo diffuso; - la presenza di una gestione unitaria, cioè una gestione che fa capo ad un unico soggetto per la fornitura sia dei servizi principali, relativi all'alloggio, sia degli ulteriori servizi forniti; - la necessità e la capacità di una gestione professionale, non standardizzata ma flessibile e dinamica, in grado di personalizzare i servizi e di mantenere elevato lo standard di prestazione, adeguandolo comunque alle moderne tecniche turistiche. Sottolineiamo il problema di un management adeguato e di una gestione professionale. È intuitivo che non è pensabile che un albergo così particolare possa essere gestito nel modo freddo e impersonale che caratterizza gran parte delle strutture alberghiere classiche, anche di quelle moderne o di piccole dimensioni. Pur rispettando il massimo rigore professionale per il rispetto dei canoni di servizio più adeguati, il coinvolgimento e 40


l'impegno degli addetti dev'essere conforme alla formula di base dell'Albergo diffuso, alle conseguenti motivazioni di scelta da parte del turista ed alla realtà culturale ed esistenziale locale, tipica di quell'insediamento. Per evitare la banalizzazione della formula, gli esperti invocano la cura della formazione professionale dei gestori e degli operatori (non a caso nel novembre 2005 è partita in Friuli la "Scuola Internazionale di specializzazione in Albergo diffuso"), ma anche una normativa unica e chiara per tutte le Regioni interessate. Uno stile riconoscibile, una identità leggibile in tutte le componenti della struttura ricettiva rappresenta infine l'ultimo requisito affinché l'albergo non si configuri come una semplice sommatoria di case ristrutturate e messe in rete. Tutti questi particolari permettono all'ospite di alloggiare nel confort e nel relax proprio di un normale albergo ma con un tocco in più, quello del sentirsi parte dell'insieme, "a casa", bene accolti e totalmente integrati in un mondo ancora sconosciuto ma amico e accessibile. ALCUNI DATI E PROSPETTIVE

Purtroppo, la diffusione degli Alberghi diffusi in Italia è stata sinora inibita da una assenza di normativa. Mancano dati certi del fenomeno. Si stima comunque che poco più della metà di queste strutture sono piuttosto "giovani", cioè sono attive da non più di tre anni e che il 90% rimane funzionante tutto l'anno. Delle località dove sono presenti gli Alberghi diffusi, circa il 33% ha un numero di abitanti compreso fra 1000 e 5000, mentre nel 30% dei casi si tratta di piccole realtà, con un numero di abitanti al di sotto delle 500 unità. Nel 5 1 % dei casi la struttura è composta da più proprietà con una gestione unitaria, mentre proprietà e gestione coincidono in quasi un quarto delle strutture; solo nel 3% dei casi si affiancano più proprietari-gestori (uniti da una forma cooperativistica, o di associazionismo, etc.). Si prevede una forte espansione del modello, anche perché rappresenta, per l'Ente locale, una possibilità di sviluppo del territorio, di recupero di aree in degrado, di incremento dell'efficienza e dell'imprenditorialità del comprensorio. Inoltre, vengono esplorate nuove vie le quali prevedono, ad esempio, la possibilità di realizzare Alberghi diffusi anche in località balneari per ri41


solvere i problemi di riqualificazione dell'offerta ricettiva, per rinnovare il panorama delle offerte di ospitalità e per evitare nuove costruzioni, nel rispetto del paesaggio. ELEMENTI DI MARKETING

Elenchiamo di seguito una serie di elementi che caratterizzano l'offering dell'Albergo diffuso e lo differenziano dalle proposte turistiche tradizionali: Articolazione della proposta: il turista che sceglie l'Albergo diffuso ha a sua disposizione una vasta gamma di possibilità, tutte offerte dallo stesso operatore, ricettivo: il prodotto offerto è di per sé differenziato, in termini di diverso livello di comfort delle varie unità abitative, distanza dal centro, caratteristiche architettoniche degli edifici e consente una politica che offre la possibilità di rivolgersi a differenti fasce di utenza con proposte diverse (anche nei prezzi). Novità della proposta: comporta numerosi vantaggi in termini di strategie di posizionamento nel mercato turistico e di unicità dell'offerta rispetto alle formule tradizionali. Inoltre, anche all'interno del panorama dell'Albergo diffuso, la diversità degli insediamenti, dovuti alla stessa connotazione storico-culturale-geografica del territorio italiano, permette differenziazioni sostanziali, con un'ampia gamma di proposte, tutte diverse e innovative nella loro originalità. Innovazione e integrazione la proposta, oltre che essere innovativa, si integra con altri settori economici del territorio consentendo: un incremento dei fattori di ricaduta economica sul territorio medesimo (ad esempio nel settore dei trasporti, nei servizi privati, nel commercio, nel terziario in generale e nell'artigianato tipico, etc), favorendo concreti volumi di indotto in realtà spesso prive di risorse lavorative; la realizzazione di. strutture imprenditoriali, per gli investimenti e la gestione, flessibili, moderne oggettivamente avanzate sul piano del metodo organizzativo; la valorizzazione, la conservazione e il recupero di un patrimonio rurale, storico, artistico, culturale, ambientale ed umano (tradizioni) del territorio; l'attivazione di un meccanismo d'integrazione fra le tipologie e modalità locali di offerta turistica esistenti nell'area. Il turista utilizzerà i servizi esistenti nel territorio per effettuare gite, visite a monumenti, etc. 42


Autenticità: a differenza degli alberghi tradizionali, l'Albergo diffuso permette ai turisti di vivere l'esperienza di un soggiorno in costruzioni agricole/paesane progettate per essere vere abitazioni contadine/locali, con aspetti strutturali quali muri, spazi, infissi, arredi ed impianti diversi da quelli progettati per i "turisti". [Albergo diffuso ha uno stile unico perché contemporaneamente rispecchia la personalità di chi lo ha voluto e lo spirito del territorio: La gestione ha l'obiettivo di. offrire un'esperienza legata al territorio anche nei tempi e nei ritmi, oltre che nei servizi e nei prodotti offerti. Quanto a comunicazione e commercializzazione, sito web e passaparola sono gli strumenti di marketing considerati più efficaci, utilizzati da tutte le strutture, spesso accanto a modalità più tradizionali. RELAZIONI SOCIALI

Un punto su cui la ricerca sociale e l'analisi dei comportamenti turistici sta effettuando un'ampia riflessione è ovviamente quello delle relazioni sociali che si sviluppano all'interno di questo tipo di ospitalità. E, in particolare, sui comportamenti definiti "antituristici" 6 . Vi sono, infatti, molti atteggiamenti spontanei e inconsapevoli che rivelano la mancanza di volontà, da parte della comunità nel suo complesso, di cooperare con quegli operatori che lavorano per lo sviluppo turistico. Si pensi, per esempio, alla segnaletica necessaria per raggiungere una località, molto spesso deficitaria e insufficiente o confusa, oppure ai vigili urbani che talvolta hanno comportamenti disattenti, o ancora a tutta una serie di scelte della municipalità che ignorano il profilo e l'immagine di "città turistica" che si vorrebbe trasmettere all'esterno. In sostanza quello che accade è che nelle prime fasi dello sviluppo turistico la località reagisce chiudendosi "a riccio" nei confronti degli ospiti. Chi vive di turismo si affanna a "costruire la scena turistica" secondo un modello di ospitalità tradizionale, mentre la comunità locale si allontana rapidamente da questo modello e tende a vivere gli, ospiti come intrusi, i quali turbano il regolare andamento della vita della comunità. La relazione che si instaura tra la comunità ospitante e quella ospitata è invece, nel caso dell'Albergo diffuso, mirata alla comprensione, alla solidarietà, alla cooperazione, all'autenticità del rapporto tra i cittadini e i turisti, i quali diventano per breve tempo parte del tessuto sociale del luogo. 43


Dal punto di vista psicologico, il cittadino non "subisce" la presenza dell'estraneo ma è, nei suoi confronti, il depositano di un know-how, di un'esperienza di vita quotidiana in quel luògo e per quel luogo che può trasferire ad altri rimanendo il protagonista del rapporto col territorio che gli appartiene. RJSPETTO DELIi'AMBIENTE CULTURALE

La proposta dell'Albergo diffuso si muove direttamente nella direzione del recupero del patrimonio artistico e culturale dei centri minori, perseguito con tenacia sia dalle politiche comunitarie che da quelle nazionali e locali e mostra di possedere le potenzialità per incrementare il reddito e l'occupazione dei piccoli centri, per mantenere o incrementare la popolazione, per recuperare aree in abbandono, senza per questo determinare interventi contaminanti sulla cultura, l'ambiente e l'identità dei luoghi. L'Albergo diffuso può avere la funzione di "animatore" culturale ed economico dei centri rurali, in particolare nei centri di piccole dimen sioni: con l'utilizzo della "reception" anche come "ufficio informazioni" della località, il centro rurale può essere rivitalizzato mantenendo al suo interno una complessità di funzioni: residenziale, commerciale, artigianale. La forza dell'Albergo diffuso ha una valenza significativa anche perché un piano di sviluppo turistico di una Regione, che voglia valorizzare una comunità locale e dare ad essa una prospettiva di sviluppo credibile, deve necessariamente essere un progetto globale, che tenga conto di tutti gli aspetti della vita della comunità. E per fare ciò si deve necessariamente porre al centro della propria riflessione l'eco-compatibilità delle scelte che vengono compiute. Non solo in termini di tutela del territorio e della natura, esigenza ormai sentita dalla maggior parte delle popolazioni locali, ma anche assimilando nel termine la promozione di comportamenti che siano conseguenti alla maturazione di questa sensibilità e che attengano alla sfera della quotidianità edelle relazioni inter-personali. Per il turista, alloggiare in un Albergo diffuso significa risiedere in una casa che si sente come propria che di conseguenza viene vissuta come propria, senza sprechi d'acqua, di corrente elettrica, attuando comportamenti ecologici positivi, in un ottica di riproducibilità e rispetto delle risorse. 44


L'Albergo diffuso è alternativo all'ospitalità convenzionale anche per la sua elasticità. Alcune strutture, come nel Molise, offrono convenzioni con negozi, produttori e ristoranti della zona. Altri assumono declinazioni tematiche, come il Sas Benas di Santu Lussurgiu in Sardegna, votato alla musica, nelle cui camere sono presenti strumenti musicali, ma non solo: agli ospiti viene data la possibilità di partecipare a laboratori ed eventi di carattere musicale. Sempre in Sardegna, che è la Regione capofila per il maggior numero di progetti sull'albergo diffuso, presentati in regime di Ppp, nasce l'Antica Dimora del Gruccione, che propone camere diverse l'una dall'altra, offrendo soggiorni personalizzati, gruppi di studio, lavoro e divertimento, laboratori degli antichi sapori, stage sul formaggio casizolu, sulle tinture naturali e la filigrana. O ancora l'albergo diffuso letterario, dove si possono trovare libri nelle stanze, menu letterari, con richiami cioè a testi letterari nei nomi, nei decori e negli arredi, organizzazione di serate letterarie. Nuovo ed interessante aspetto: l'Albergo diffuso può essere annoverato tra quelli che si chiamano "beni collettivi": primo perché sfrutta case originariamente appartenenti ai cittadini del paese e poi perché generando ricchezza economica e simbolica è un bene sentito da tutti e da tutti protetto e valorizzato, primi fra tutti i giovani. Per loro potrebbe essère un elemento di orgoglio e di vanto, ma anche uno strumento di sostentamento o di attività anche inserita nelle attività di volontariato. Un modo per non emigrare nelle grandi città. Infine, sappiamo che in materia di turismo la stagionalità è ancora un limite forte ad una occupancy spalmata su più ampi periodi. In un'ottica di sviluppo degli Alberghi diffusi, le forme di turismo di nicchia (turismo culturale, turismo rurale, sentierismo - segmenti a cui si riferisce questo tipo di offerta ricettiva) si rivelano un prodotto a grande valore aggiunto tutto l'anno. Ci sono grandi fasce di clientela individualista, poco incline a lasciarsi ingabbiare nel mondo dei pacchetti turistici (sempre più si parla, anche da parte dei Tour Operator più conosciuti, di dynamic packaging) le quali rappresentano il mercato ideale per un'offerta in grado di soddisfare criteri sempre più frammentati che ne rendono assai difficile la standardizzazione. Segmenti di clientela caratterizzati da desiderio di autonomia, di accoglienze relazionali, di maggiore arricchimento, di contatto diretto, di soggiorni brevi magari in prossimità dei luoghi di residenza o delle seconde 45


case. Quindi, concludendo, l'Albergo diffuso, con le sue caratteristiche e proposte esistenziali, è in grado di modulare e di proporre un tipo di offerta a carattere quasi artigianale e molto personalizzata.

In Italia le piĂš significative iniziative di Ppp hanno inizio negli anni Venti con la costruzione della prima autostrada, la Milano-Laghi, inaugurata nel 1925. 2 Libro verde adottato il 30 aprile 2004. Contratto di gestione appaltolconcessionePpp soc. mista.

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PAOLO Russo, convegno sul "Cultural Planning", IuAV, Venezia 2006. Art. 5 della legge n. 135 del 29 marzo 2001. 6 CNEL, Libro bianco sull'Antiturismo, CNEL, Roma, 1994.


istituzioni n. 1461147 estate-autunno 2007

La Giòconda di Leonardo o di Dan Brown? Le politiche del turismo culturale di E/ma De Simone e Amedeo Di Maio

Se si eccettuano le carovane di fedeli dirette alla Mecca, non c'è flusso di viaggiatori stranieri che sia rimasto del pari fedele al medesimo itinerario, dalle Alpi, a Roma e a Napoli... Quanto più le ruote passano sui medesimi solchi, tanto più i solchi s'approfondiscono rendendo quanto mai e4ftì cile alle carrozze uscirne per cercare nuove strade. (Thomas Adolphus Trollope, A LentenJourney, 1861)

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1 segmento del turismo culturale appare continuamente in crescita, non solo in Italia. Riferendoci solo al nostro Paese, indagini dell'ENIT, informano che sul totale degli arrivi dagli UsA, dalla Spagna e dal Portogallo, l'80% ha come motivazione la visita ai nostri beni culturali. Le stesse motivazioni riguardano l'85% degli arrivi dal Giappone, il 52% degli arrivi dalla Svizzera e dalla Francia, fino ad un minimo del 40% dei belgi'. Lo sviluppo economico della Cina ha determinato significativi flussi aggiuntivi di turisti nel nostro Paese, tutti indirizzati verso le nostre città d'arte. Appare quindi evidente che ci troviamo in presenza di un sempre più intenso trade offtra l'esigenza della tutela e conservazione dei beni culturali e l'altra legittima esigenza di fruizione degli stessi, anche al fin'edi saldi positivi della bilancia dei pagamenti turistica e, soprattutto, per sostenere il positivo contributo allo sviluppo economico locale. Il trade off cui abbiamo accennato si compone solo parzialmente di quello tradizionalmente considerato nella letteratura economica, e che si riferisce al fatto che l'intensa e spesso non efficientemente regolata frui-

Elina De Simone insegna Economia dei beni culturali presso la Facoltà di Lettere. Amedeo Di Maio in quella di Scienze Politiche, all'Università degli Studi di Napoli I2Orientale. L'articolo è il frutto di comuni riflessioni e conseguenti condivisioni delle posizioni in esso espresse. Amedeo Di Maio ha scritto i paragrafi 2 e 3 e Elina De Simone i paragrafi 4, 5 e 6.

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zione dei beni culturali può confliggere con la conservazione e la tutela del bene. Noi consideriamo anche il trade off tra la medesima intensa fruizione del bene e la qualità della fruizione medesima. Per quanto riguarda quest'ultimo aspetto, siamo consapevoli che entrare nel merito di questioni che hanno a che fare con le preferenze individuali non è sempre legittimo, anzi spesso si ritiene non lo si debba mai fare con gli strumenti analitici dell'economia. Il merito concerne la distinzione nella qualità del-. la fruizione, che implica necessariamente un sia pur timido giudizio di valore, ma questa distinzione appare necessaria perché riguarda incompatibilità, evidenti o latenti che siano, tra i benefici ottenibili dai diversi fruitori, effettivi e potenziali e, soprattutto la ridotta qualità si accompagna (diversamente da quello che dovrebbe legittimamente attendersi) ad una difficoltà di accesso per chi ha minori introiti monetari 2 . Insomma, in apparenza il classico caso di esternalità negativa nel consumo, che tuttavia riguarda il medesimo bene consumato tanto da chi genera l'esternalità negativa, tanto da chi la subisce e a quanto ci è dato sapere non è mai stato discusso in questo specifico settore e che riteniamo non sia risolvibile solo attraverso l'individuazione delle condizioni di efficienza, ma che debba invece trovare soluzione nella considerazione "meritoria" del bene. TRA TUTELA...

Nella tradizione giuridica ed economica italiana, la gestione eminentemente pubblica dei beni culturali se ha garantito, nella maggior parte dei casi, la conservazione o la tutela che dir si voglia, ha tuttavia sacrificato la fruizione e valorizzazione per usare il termine indicato nel nuovo codice dei beni culturali e del paesaggio (al Titolo Il). Quest'ultima è l'attività, secondo molti, che può produrre reddito ed occupazione e, quindi, vista l'ampia diffusione dei beni culturali in Italia, potrebbe costituire, in molti territori anche economicamente depressi, la principale possibile causa di sviluppo economico, essenzialmente per i suoi positivi effetti sul turism03 In questo contesto concettuale, per ora definito solo in fòrma estremamente sintetica, si inseriscono le modifiche istituzionali e normative che tendono ad affidare a livelli di governo diversi le due funzioni più sopra richiamate della tutela-conservazione e della fruizione-valorizzazione. Il citato codice (all'art. 7) e il.nuovo Titolo V della Costituzione affidano la prima attività allo Stato mentre devolvono la seconda attività alle Regioni. .

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L'azione di valorizzazione 'diviene, quindi, oggetto di legislazione concorrente, con l'ente centrale che detta comunque i principi generali, le linee guida (art. 7 del codice) e le Regioni che autonomamente individuano le procedure attuative ritenute più idonee. Se è possibile una distinzione concettuale, spesso di comodo, tra tutela e valorizzazione, è molto più complicato, se non impossibile, individuare quali attività concrete producano effetti solo sull'una o solo sull'altra. Da questa semplice e banale considerazione si diparte una serie di conflitti di competenza tra istituzioni. In conseguenza di un decreto ministeriale del 2002, nel quale si consente la esternalizzazione ai privati di servizi finalizzati ad una migliore fruizione ed alla valorizzazione del patrimonio artistico e culturale, si sono originate serie questioni, promosse sia dallo Stato che dalle Regioni, che hanno condotto a numerose sentenze del Consiglio di Stato (prevalentemente a favore delle Regioni) e della Corte Costituzionale (tendenti invece a dare ragione alle tesi espresse dallo Stato). Come abbiamo già riferito, la Costituzione, all'art. 118, prevede forme di intesa e di coordinamento tra i due livelli di governo che sono state con chiarezza recepite nel codice. Comunque, anche ai fini di questa nota, l'elemento rilevante è proprio quello connesso ad una distinzione normativa tra conservazione (tutela) e valorizzazione. E VALORIZZAZIONE

Il termine valorizzazione applicato al settore dei beni culturali è di uso piuttosto recente. È un termine privo di significato scientificamente rigoroso. Nel codice esso viene definito nell'art. 6 nei termini seguenti: la valorizzazione consiste nell'esercizio delle finzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione efruizione pubblica del patrimonio stesso. Essa comprende anche la promozione ed il sostegno degli interventi di conservazione del patrimonio culturale. Più oltre, nell'art. 111 deI citato codice, si recita che le attività di valorizzazione consistono nella costituzione ed organizzazione stabile delle risorse, strutture o reti, ovvero nella messa a disposizione di competenze tecniche o risorse finanziarie o strumentali, finalizzate all'esercizio delle finzioni ed al perseguimento delle finalità indicate all'art. 6 Quindi, in breve, cercando di interpretare questa labirintica sintassi, valorizzazione è qualsiasi esercizio di funzioni volte alle finalità citate, men49


tre le attività di yalorizzazione consistono nell'organizzazione dei fattori che possono essere utilizzati per le medesime finalità. Appare 'evidente la difficoltà dell'economista nel cogliere questa sottile distinzione tra la natura della valorizzazione (intesa come output) e l'attività della stessa (input). Diviene, a nostro avviso, più agevole la comprensione se leghiamo il concetto di valorizzazione a quello di fruizione, come già espressamente indicato nel 'Titolo del Titolo" TI del codice. Infatti, la lettura congiunta del capo I (fruizione dei beni culturali) e del capo Il (principi della valorizzazione dei beni culturali), fa comprendere come l'obiettivo prioritario sia quello di consentire che il bene culturale venga percepito come bene economico (fruibile, utilizzabile, investibile, producibile ecc.) e, nel rispetto di numerosi e rilevanti vincoli, venga conseguentemente valorizzato. Questo processo di valorizzazione non può certo avvenire attraverso la stima del patrimonio culturale, quale potrebbe scaturire dal gioco della domanda ed offerta nel mercato (vendere il Colosseo), quanto sulla scorta dell'utilizzo meritorio che del bene culturale sia possibile fare. Ricordando che i beni culturali volti alla fruizione sono gli istituti e i luoghi della cultura indicati nell'art. 101 ; allora si comprende come la fruizione (e la valorizzazione) si riferisca essenzialmente all'aspetto di efficiente ed efficaci' gestioni Ribadendo il concetto, si può allora definire la valorizzazione dei beni culturali come il processo di individuazione e realizzazione di una efficiente ed efficace gestione. Questo processo presuppone la precisa definizione degli obiettivi della gestione. Appare, infatti, evidente il non senso dell'auspicio di un'efficiente ed efficace gestione, ove non sia possibile stimarIa perché in assenza delle definizioni degli obiettivi perseguibili. La lettura che qui si propone intende, quindi, la valorizzazione come strumento (processo) per raggiungere obiettivi dat1 4. Quelli espressi nel codice riguardano la tutela-conservazione e la fruizione. Il processo di valorizzazione si trova, quindi, a dover affrontare un problema noto da tempo: quello, appunto, del possibile trade-off tra tutela-conservazione e fruizione. Questo trade-offdipende interamente dalla natura dei beni culturali. L'esigenza della conservazione discende per coerenza dalla definizione stessa del bene culturale. I tre attributi, propri del bene culturale maggiormente rilevanti per l'economista sono l'essere oggetto materiale, documento storico e quindi irrzproducibile. Infatti, risulta evidente che l'eventuale rovina o totale distruzione del bene culturale è un evento che non ne consente la riproducibilità, il che costituisce una perdita secca di beneficio per la collettività presente e per quella futura 5 . Ora, se la causa della 50


perdita, parziale o totale che sia, del bene è naturale (un terremoto, per fare un esempio purtroppo ricorrente in molte zone del nostro Paese) o dolosa (guerra, attentati terroristici), allora non c'è soluzione, mentre l'attività di tutela e conservazione dovrebbe riparare da altre cause possibili (abusivismo edilizio, infrastrutturazione intensiva nel territorio, ristrutturazioni discutibili, nuova e non compatibile destinazione funzionale del bene, ecc.). Il rischio di questi ultimi eventi negativi è, tuttavia, più frequente con riferimento ai beni pubblici culturali, intendendo con essi tutti quei beni diffusissimi nel territorio italiano che costituiscono le bellezze d'insieme (ad esempio, la piazza monumentale, il centro storico, ecc.) e non già gli istituti e i luoghi della cultura indicati nel citato art. 101 del codice (musei, biblioteche, archivi, aree archeologiche, parchi archeologici, complessi monumentali), che sono direttamente gestiti da soggetti, pubblici o privati, che hanno come compito anche, se non soprattutto, quello della conservazione e tutela. In quest'ultimo caso, il paradosso apparente è che la causa più probabile di possibile nocumento al bene è rappresentata dalla valorizzazione, intesa unicamente come fruizione (visita, consumo) ed è forse questa la ragione principale della poca attenzione alle modalità espositive, rappresentando molti musei (soprattutto quelli di minore dimensione e periferici) più depositi che luoghi di intrattenimento culturale. LA FRUIZIONE

Quest'ultimo aspetto non è di agevole soluzione, almeno sul piano politico (intendendo in questa sede con questo termine, certo interpretato in modo riduttivo, la scelta gestionale della cosa pubblica), perché se sul piano tecnico la conservazione viene immediatamente garantita quasi del tutto con il divieto totale di fruizione, l'eliminazione o una drastica riduzione della possibilità di fruizione determina la rinuncia ad una funzione comunque statutaria e rilevante sul piano sociale e culturale, nonché economico. Nel discutere di questi aspetti è bene non dimenticare che il trade-off del quale si sta parlando è un fenomeno recente, figlio della società dei consumi, ignoto anche solo pochi decenni or sono. Questo aspetto è uno dei tanti causati dalla grande trasformazione della società fordista-taylorista e che è divenuto più intenso nell'era della globalizzazione. In sintesi, nella società dei consumi, determinata essenzialmente dalla 51


riorganizzàzione del lavoro, accade che è l'alienazione del lavoro (perdita di senso) che si tenta di compensare con l'incremento del consumo. Con riferimento ai beni culturali, il fenomeno correlato al consumo è quello dell'attività turistica. Il turismo di massa è una attività di consumo che prende il significato di "momentanea discontinuità della quotidiana monotonia del lavoro parcellizzato ed alienante! Il turista attua una fuga a tempo dal lavoro, tuttavia rigidamente concordata con il suo datore di lavoro"6. Si attua una fuga a tempo mentre il desiderio reale è, probabilmente, quello di una fuga dal tempo che ha causato il bisogno e dato un significato al termine vacanza. Se la vacanza, il turismo, assume il significato di sottrazione concordata di un tempo dato da quello impiegato nel lavoro alienante, allora in quel tempo, quale che sia la sua ristrettezza, si dovrà massimizzare l'entità del consumo (intensità delle visite: ad esempio, l'Europa in sette giorni promessa dai tour operator agli emergenti turisti cinesi) 7. Se queste osservazioni appaiono condivisibili, allora il quesito conseguente è se il bene culturale possa essere considerato un bene di consumo di massa. Non v'è dubbio che esso, in molti casi, venga considerato tale. Basti pensare alla quantità di visitatori nei principali musei del mondo e alla modalità più frequente di fruizione: senza esprimere arbitrari e quindi insensati giudizi di valore cui abbiamo già accennato, non v'è dubbio che, ad esempio, intravedere la Gioconda di Leonardo, abbagliati dai flash degli altri numerosi visitatori e sapendo di essa solo che è un dipinto noto, e ammirarla invece insieme a pochi, con una giusta e costante illuminazione e preparati dalla lettura di un buon libro (non quello di Brown!), significhi consumare un bene diverso. Si potrebbe osservare che ciò è vero anche in settori diversi. Ad esempio, un bicchiere di vino pregiato è apprezzato in modo diverso se bevuto o no da un intenditore. Le differenze essenziali sono che la fruizione dell'intenditore non è affatto condizionata dall'altro consumatore e che non c'è nessuna ragione per desiderare che tutti divengano più o meno intenditori di vino. Dall'esempio fatto deriva che la tipologia di fruizione del bene (consumo di massa o consumo elitario, se vogliamo assegnare etichette distintive di comodo) non dipende dalla natura intrinseca del bene, ma dalle scelte delle modalità di gestione del soggetto offerente. Ipotizzando il criterio gestionale privato, volto alla massimizzazione del profitto e assumendo l'esistenza, nota al gestore, delle due tipologie di domanda di fruizione, osservata la disponibilità a pagare del visitatore di massa e il ricavo netto che ne discende, il gestore sarà disposto ad offrire una qua1it supe52


riore del bene (ridurre l'accesso al bene, nell'unità di tempo considerata, consentire soio alcune modalità di guida alla visita, ecc.). solo se il visitatore di élite è disposto a pagare una somma tale da condurre al medesimo ricavo netto per il gestore. Come è noto, la gestione pii frequente concerne istituzioni non profitS, che hanno quindi il vincolo della economicità (pareggio del bilancio) e la tutela del bene, ma non hanno direttive evidenti circa gli obiettivi da perseguire con l'attività di valorizzazione. Quel che rimane certo è che la natura della fruizione del bene, nei termini discussi, discende dalla scelta del gestore e che, salvo casi particolari, tale scelta sacrifica necessariamente i consumatori che preferiscono fruire del bene nel modo dal gestore scartato 9 Ricordando la natura prevalentemente non profit, quanto osservato fino ad ora non ha ancora tenuto conto delle fonti di finanziamento della maggior parte dei musei. La considerazione delle fonti, ci porta ad osservare che il visitatore effettivo versa tra il 10% ed il 15% del costo corrente di gestione'°. La tabella che segue ci dice che il prezzo di ingresso è, mediamente, pari a 5 euro (6 se consideriamo oltre i musei, anche i monumenti e le aree archeologiche) mentre, a parità di condizioni (stesso numero di visitatori' 1 ), senza i sussidi pubblici si dovrebbe pagare un prezzo di circa 42 euro (50 euro nel secondo caso considerato). .

2005

Musei 142 Istituti* 222

Visitatori. paganti (N.)

Introiti ingressi (€)

Tariffa media (€)

Costo di gestione annuo stimato (€)

6.265.106 31.835.583

5,08

265.296.525

15.529.755 93.971.432

6,05

783.095.266

.

Costo medio per visitatore pagante (€)

42,35 .

50,43

Ministero Beni Culturali e ns. elaborazioni Musei, circuiti museali, monumenti e aree archeologiche

Si tenga inoltre presente che i primi 30 istituti pii visitati in Italia assorbono l'86,75% dell'introito totale nazionale e che i primi 5 ne assorbono già il 60,59% (nell'ordine: I! Colosseo, Pompei, Galleriadegli Uffizi, Galleria dell'Accademia e Caste! S. Angelo). 53


È bene anche osservare che ci sono numerosi istituti (tra i 222 statali complessivi) che non hanno visitatori, anche se aperti al pubblico, e che altri che pure contengono beni culturali di rilievo non certo solo locale, ne hanno in numero veramente esiguo (ad esempio e a caso, il Bargello "solo" 50.000 visitatori, l'Area Flegrea 40.000, Il Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia 10.000, il Circuito Museale Galleria Sabauda 5.000). Ne discende che il turismo culturale (inteso unicamente come quello rivolto alla visita ai beni culturali 12) osserva in Italia, ma forse non solo qui da noi, due rilevanti caratteristiche: una domanda altamente concentrata e un finanziamento dell'offerta museale essenzialmente pubblico. IL FINANZIAMENTO

I biglietti di ingresso contribuiscono esiguamente al finanziamento dei costi di questi istituti, e molteplici indagini stimano che rappresentano. una altrettanto esigua componente della spesa di soggiorno del visitatore. Poiché, al contrario, la presenza dei beni culturali risulta determinante per l'entità del turismo culturale, ne dovrebbe discendere che i prezzi di ingresso dovrebbero essere più elevati e contribuire significativamente alla copertura dei costi. D'altro canto ci è difficile immaginare che portare la tariffa media da 6 a 12 o anche a 18 euro significa veder ridotto in modo significativo il turismo culturale a Venezia, Firenze, Roma o Pompei. L'incremento delle tariffe avrebbe anche un significato di equità, perché sposterebbe, sia pure parzialmente, l'onere del finanziamento dalla fiscalità generale verso il diretto fruitore e, ciò, come abbiamo già osservato, senza incidere negativamente sul numero degli arrivi nei nostri luoghi della cultura. Ma proprio questo elemento ci porta a rilevare che il livello dei prezzi, salvo che non sia almeno tale da approssimarsi al costo medio attuale per visitatore, non risolve l'eventuale problema del trade offtra conservazione e valorizzazione e riguardo all'altro trade off relativo alla qualità. Livelli di prezzo tali da ridurre il numero di visitatori e migliorare la qualità della fruizione, conducono tuttavia ad una altrettanto significativa riduzione delle esternalità positive generate dalla presenza dei beni culturali e, quindi, ad un non accettabile effetto negativo sullo sviluppo economico locale. Alla diversa qualità dell'offerta museale vi si accede comunque già attraverso una differenziazione nei prezzi. La dffi'renza nella qualità viene tuttavia offerta il più delle volte da altri soggetti che organizzano, ad esem54


pio, le prenotazioni e le visite guidate e il differenziale di prezzo serve a coprire tutti gli oneri marginali, sopportati dai musei e dai soggetti che curano le esternalizzazioni, ma non contribuiscono alla copertura dei costi della ordinaria gestione più sopra richiamati. Con esclusivo riferimento ai musei grandi attrattori una interessante sperimentazione di segmentazione dell'offerta, sulla base delle differenziazioni osservate delle preferenze e delle disponibilità a pagare dei visitatori, è stata di recente attuata nel famoso MOÌVIA di New York. Questa segmentazione è stata resa possibile da un rilevante processo di ristrutturazione, che ha totalmente modificato il disegno originario e che è tuttavia da ritenersi impraticabile nella maggior parte dei musei e dei luoghi della cultura in Europa dove è spesso bene culturale non solo il contenuto ma anche il contenente. Anche il secondo aspetto, connesso alla concentrazione spaziale dei visitatori, non appare risolvibile con politiche tariffarie. Infatti, la osservata sostanziale rigidità della domanda non consente, attraverso una differenziazione tariffaria tra i musei, di riallocare i visitatori. Solo un più curato coordinamento (in parte realizzato con i Circuiti museali) può far condurre ad una marginale decongestione, soprattutto attraverso la realizzazione di esposizioni temporanee e altri eventi culturali vari. Da tutte queste nostre osservazioni, ne discende che con le tariffe non si riescono a risolvere sia il finanziamento dei costi, sia il decongestionamento della domanda. La logica conseguenza è che le tariffe finiscono con l'avere un, effetto solo discriminatorio nei confronti di chi non ha la necessaria disponibilità a pagare. Il legislatore appare consapevole che esistono utenti che devono essere tutelati nell'accesso alla fruizione dei beni culturali. La norma (DM dell'il dicembre 1997 n. 507), attuata tramite un comitato ministeriale, prevede l'ingresso gratuito per i cittadini che hanno meno di 18 anni e più di 65, alle visite scolastiche, ai docenti ed agli studenti di alcune Facoltà (Architettura, Conservazione, Lettere), a chi vi accede per lavoro (guide, interpreti) e al personale del ministero. Inoltre, sono previste riduzioni per chi ha una età compresa tra i 18 ed i 25 anni e per i docenti a tempo indeterminato delle scuole. Il medesimo comitato ministeriale propone i livelli tariffari. Ma che senso ha far pagare tutti gli altri che non rientrano nelle fasce indicate di gratuità, se è lo Stato che finanzia la quasi totalità delle spese 55


di questi istituti 13 ? Se lo chiede anche Santagata in un suo recente lavoro 14 e raggiunge la conclusione che sarebbe preferibile, all'interno di una logica welfarista, l'ingresso gratuito generalizzato con la possibilità del contributo volontario da parte del visitatore. Per ciascun museo, una volta osservato il contributo volontario e sommato ai ricavi dei servizi commerciali ancillari si determina il deficit che verrà coperto dallo Stato e/o dal settore privato tramite donazioni e sponsorizzazioni. Con questa proposta Santagata si augura un significativo aumento della domanda. Questa proposta non ci sembra efficace per più motivi. Se lo scopo è l'incremento della domanda, i dati statistici del ministero è possibile interpretarli nel senso che il prezzo mediamente risulta un fievole determinante della domanda di fruizione dei beni culturali. Inoltre, come abbiamo cercato di descrivere, la domanda di fruizione si concentra verso i grandi attrattori e, pertanto, in questi casi, esiste il problema opposto, ovvero di un eccesso di domanda che in alcuni periodi dell'anno si approssima alla congestione. Ne discende che se pure le tariffe giocassero un ruolo significativo, allora non apparirebbe opportuna una unica politica dei prezzi, ma differenziata per istituti sulla base dei livelli di domanda effettiva osservata. A questo punto diverrebbe auspicabile individuare le condizioni che consentano l'autonoma fissazione delle tariffe da parte dei singoli istituti. Se è vero che la politica tariffaria non influenza la domanda (salvo, come abbiamo già visto, che non si raggiungano livelli non auspicabili per via dell'effetto sulle presenze turistiche), resta tuttavia il problema dell'equità. Forse la gratuità risolverebbe il problema, tuttavia molteplici sono gli aspetti che occorre discutere, almeno con riferimento ai grandi attrattori. Innanzitutto potremmo distinguere il concetto di formale pari opportunità da quello di accesso sostanziale al bene. La prima accezione comporta che nessun individuo è discriminato sulla base di elementi di censo o altro e per fortuna in molti Paesi ciò appare pienamente e definitivamente acquisito. La seconda accezione, invece, comporta una uguaglianza sostanziale nei livelli di partecipazione. Chiaramente, un tipo di policy che prevedesse un'assenza di tariffa di accesso dichiarerebbe una preferenza per un'uguaglianza di opportunità, ma non necessariamente per quella di effettiva partecipazione, poiché l'assenza di prezzo non costituisce, nel settore in questione, un efficace ed esaustivo incentivo. La gratuità non garantisce uguaglianza di partecipazione tra le classi sociali e la motivazione discende dalla famosa analisi di Frey e Pommerehnel 5 ri56


guardante l'influenza di reddito e istruzione sulla domanda di ricreazione dei beni culturali: se il maggiore reddito conduce ad una più elevata disponibilità a pagare è anche vero, tuttavia, che il più alto costo può condurre ad una domanda meno frequente di visite al bene. Inoltre, con la gratuità il soggetto (ad esempio, il grande e famoso museo) che maggiormente contribuisce alle presenze turistiche è totalmente escluso dai benefici finanziari che queste presenze hanno portato. È come se, per norma, si stabilisse l'assoluto divieto a correzioni nei fallimenti del mercato. Ne discende che insieme alla gratuità si dovrebbe prevedere, un finanziamento dei musei attraverso, ad esempio, una addizionale dell'imposta di soggiorno che dovrebbe compensare i costi marginali che i grandi attrattori sopportano a causa della totalità dei visitatori. Inoltre, l'assenza di prezzo può condurre a sottovalutazione del bene offerto. Il rischio si può evitare solo se la gratuità non è generalizzata, ma vale solo per alcune categorie e la ragione deve risultare evidente, per esempio il non discrimine sostanziale rispetto alla formale eguaglianza nell'accesso. Per questo riteniamo che è preferibile discutere quali devono essere le categorie beneficiarie. Sarebbe opportuno che la gratuità' si estendesse a. tutti coloro che non hanno raggiunto i trenta anni, indipendentemente se sono studenti, oltre che a chi ha superato 1 65 anni di età. Le ragioni del limite inferiore sono dettate dall'età media di ingresso nel mercato del lavoro e dalla considerazione che fino a quella età si è più facilmente incentivati a vivere esperienze eventualmente non ancora conosciute. Inoltre, essa dovrebbe riguardare tutte le offerte, anche le esposizioni temporanee. Un altro aspetto che occorre riprendere, ragionando in termini di fruizione ed accessibilità ai beni culturali, è l'evidente aporia generata dai due trade-off descritti in precedenza: il primò, più tradizionale, tra l'esigenza di tutela e conservazione da un lato e contemporaneamente quella di fruizione dall'altro, ed un secondo legato al rapporto tra fruizione del bene e qualità della fruizione medesima, aspetto poco enfatizzato dalla letteratura. Dal momento che la presenza di trade-offi si origina per la inesistenza di una soluzione del "conflitto", il problema si traduce inevitabilmente in una scelta di policy che esprime le preferenze del policymaker tra le due entità in gioco. Più che sulla scelta tra tutela e fruizione, riteniamo sia più interessante ragionare sulle modalità di fruizione: è da preferire un turismo di massa che garantisca la pressoché eguaglianza di accesso a tutti i potenziali fruitori dei beni culturali o bisogna invece, sulla base di riflessioni condotte 57


da Stigler e Becker 16 privilegiare un tipo di fruizione del bene culturale teso a diminuirne nel tempo la difficoltà informativa necessaria ad apprezzare il bene stesso facendone incrementare il consumo futuro? È una questione di difficile soluzione, ma non possiamo continuare ad ignorarne l'esistenza, attraverso una rimozione volta ad evidenziare solo gli aspetti positivi del turismo culturale. Per quanto abbiamo finora analizzato risulta chiaro che per noi l'equità, nel caso in questione, coincide con il consentire a tutti pari possibilità sostanziale di accesso a beni che vengono offerti a parità di qualitàe che questa dev'essere al più alto livello possibile. Solo una scelta pubblica consapevole delle caratteristiche dei beni culturali, idiosincratici per definizione, può costituire un'efficace risposta alle evidenti aporie legate alla fruizione del patrimonio culturale. ,

ENIT, Il turismo culturale, Dossier 2005. 2 Per una recente interessante riflessione sulla natura della scienza economica, si rinvia a PAS1NETFI L., RONCAGLIA A., Le scienze umane in Italia: il caso dell'economia politica, in «Rivista italiana degli economisti», 2006/3. Una stima recente è in Di 1vLio A., SESSA M., L'impatto economico dei beni culturali in Campania, in SOLIMA L. (a cura di), Economia dei beni culturali in Campania, Scabec, Electa, Milano 2006. ' Di IvLjo A., Governance e beni culturali: le

problematiche della esternalizwzione e della partecipazione pubblico-privato, in FORMEZ, La governance locale dei beni e dei servizi culturali. Linee guida e casi studio, Napoli 2005. Questa irriproducibilità oggettiva non ha niente a che vedere con il noto concetto di riproducibilità delle opere d'arte discusso da Walter Benjamin nel 1936 e solo il sempre più frequente artificioso inserimento dei beni culturali in modelli economici compatibili con le opere d'arte e con le "attività culturali" (cinema, televisione, moda, prodotti agricoli tipici, ecc.) può ingenerare equivoci che possono, a loro volta, condurre a scelte pubbliche non idonee alla valorizzazione dei beni culturali. Il concetto di riproducibilità è in Benjamin W., L'opera d'arte 58

nell'epoca della sua riproducibilittì tecnica, Einaudi, Torino 1966. 6 Di MAI0 A., DE SIMONE E., Il consumo dei beni culturali. Alcune questioni teoriche, in CiuSTALLO V., GUIDA E., MORONE A., PARENTE M. (a cura di), Risorse storico artistiche e attivazione territoriale, Atti del convegno, 2004. ' Per ulteriori approfondimenti si veda Di MAI0 A., Economia dei beni e delle attivittì culturali, Liguori, Napoli 1999. Già nel 1839 Charles-Augustin de Sainte-Beuve aveva previsto la natura coattiva del turismo organizzato: "È bene organizzare i viaggi come la guerra", scriveva nei suoi appunti su un fugace viaggio in Italia, "e non lasciare alle truppe un sol giorno di riposo", DE SAINTE-BEUVE C.-A., Viaggio in Italia, 1839, a cura di G. FAURE, Siracusa, 1991. 8 LICOM (International Council ofMuseums) definisce il museo come "una istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo. È aperto al pubblico e compie ricerche che riguardano le testimonianze materiali e immateriali dell'umanità e del suo ambiente; le acquisisce, le conserva, le comunica e, soprattutto, le espone a fini di studio, educazione e diletto". Questa bella definizione è stata solo parzialmente ed incomprensibilmente recepita nel Codice. Infatti, all'art. 101, c.2 l.a)


si definisce museo, "una struttura permanente che acquisisce, conserva, ordina ed espone beni culturali per finalità di educazione e di studio". Spariscono la comunicazione, il servizio sociale, l'ssenza di scopi di lucro e il diletto. 9 Hansmann H.B., The role of Nonprofit Enterprise, in «Yale Law Journal», 89 (5), ApriI 1980. 10 Questi valori percentuali si riducono sensibilmente se si considerano i costi in conto capitale e "tendono a zero" se si tiene conto dei valori patrimoniali. È evidente l'ipotesi implicita, certamente eroica, di assoluta anelasticità della domanda rispetto alla tariffa. 12 Esiste un turismo culturale dovuto all'offerta di eventi artistici (si pensi, ad esempio, all'Umbria Jazz o ai concerti sinfonici a Ravello) ed un altro, che coinvòlge soprattutto i giovani, determinato dall'offerta di un "clima" culturale composito (numerose e diffuse manifestazioni artistiche pubbliche e private, organizzate e

spontanee concentrate nello spazio e, meno, nel tempo. A differenza del turismo rivolto ai beni culturali, in questi due "segmenti" il nostro Paese ha un peso di gran lunga più basso. 13 Inoltre, sembra proprio caratteristica del nostro Paese stabilire norme dalla logica non sempre agevolmente individuabile. Pensiamo a due docenti di scienza delle costruzioni. Uno, ordinario, insegna ad Architettura, l'altro ricercatore, ad ingegneria. Il primo entra gratuitamente, l'altro paga. Pensiamo a due insegnanti di stessa disciplina nella scuola. Uno di ruolo a tempo indeterminato ha lo sconto, l'altro precario paga per intero. L'effetto, riteniamo non voluto, è una arbitraria regressività! " SANTAGATA

W., La fabbrica della cultura, Il

Mulino, Bologna 2007. 5 Fity B.S. E POMMERHENE W., Musee e mercati, Il Mulino, Bologna 1991. 16 STIGLER G.J. e BECKER G.S., De gustibus non est disputandum, in «American Economic Review», 67, 1977.

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istituzioni n. 1461147 estate-autunno 2007

L'imposta di soggiorno: una proposta per il federa lismo fiscale di Stefano Croelia

L

a Legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001 ha riorganizzato le funzioni legislative ed amministrative dello Stato, disegnando un progetto di decentramento delle finanze pubbliche noto come "federalismo fiscale". In questo nuovo quadro istituzionale, i governi locali hanno acquistato maggiori poteri tributari ed è stata estesa la possibilità per gli altri enti decentrati di applicare tributi ed entrate propri. La direzione della riforma è di sviluppare la finanza dei livelli inferiori di governo, in cui l'ente che eroga un servizio pubblico è in grado di finanziarlo attraverso la tassazione, con una più stretta connessione tra le entrate e le uscite pubbliche. L'imposta di soggiorno, la più tradizionale delle forme di imposizione del turismo, si colloca in questo contesto come uno strumento fiscale che consentirebbe ai Comuni di ottenere risorse per fronteggiare la pressione esercitata dai visitatori sulla domanda di servizi pubblici. Adottata già nei primi anni del Novecento in Italia ed in Francia, la sua vocazione è quella di essere una risorsa finanziaria per effettuare investimenti nel settore turistico e per coprire i costi generati dalla presenza sui territorio dei turisti. Vi sono infatti una serie di beni e servizi, consumati dal visitatore assieme alla popolazione residente, per i quali egli non sostiene alcun costo, andando a gravare sui contribuenti locali e sulla fiscalità generale. Si pensi, ad esempio, alla fruizione di quella parte del patrimonio artistico e culturale per la quale non è possibile imporre un biglietto di ingresso e che, periodicamente, necessita di manutenzione e restauro, come le viste sui monumenti, le facciate dei palazzi storici o le fontane. Inoltre, gli ordinari servizi garantiti per la comunità locale devono esse-

L'autore è funzionario dello Staif tecnico dell'assessorato alle Politiche economiche, finanziarie e di bilancio del Comune di Roma. 60


re rafforzati per soddisfare la domanda proveniente dai turisti. Tra essi si possono menzionare la pubblica sicurezza, il trasporto pubblico, la vigilanza e gli interventi di pronto soccorso. L'imposta di soggiorno, esperienza già consolidata in molti Stati europei ed extraeuropei, si presenta, dunque, come un tributo particolarmente utile per quei Comuni a forte vocazione turistica che necessitano di risorse per fornire alcuni dei beni e servizi pubblici utilizzati dalla popolazione non residente. Nella prima parte di questo articolo si analizza il contesto normativo della finanza decentrata in Italia e si fa cenno alle principali teorie economiche del federalismo fiscale. Nella seconda, si illustrano alcune esperienze dell'imposta di soggiorno all'estero, evidenziando le peculiarità di ogni Paese, mentre nella terza si affrontano alcuni studi sugli effetti economici legati a questa forma di tassazione. La quarta parte del lavoro è incentrata sulla stima del gettito di una eventuale imposta di soggiorno nel Comune di Roma attraverso quattro differenti metodi ispirati ai principali modelli stranieri. Si sono considerati, inoltre, gli effetti dell'imposta sulle presenze e sulla spesa dei turisti. IL CONTESTO NORMATIVO ED ECONOMICO DELIi'IMPOSTA DI SOG-

Come abbiamo già accennato, la riforma del Titolo V della Costituzione italiana, attuata con la Legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, ha -segnato una tappa fondamentale del processo di riorganizzazione delle funzioni legislative e amministrative che ha impegnato l'Italia a partire dai primi anni Novanta. In particolare, il ribaltamento dell'impostazione delle competenze dello Stato e delle Regioni nell'articolo 117 e la centralità dei Comuni nello svolgimento di funzioni amministrative, hanno comportato un riequilibrio del potere a favore dei livelli inferiori di governo. Il processo di riforma ha investito anche gli aspetti finanziari del decentramento, tanto che possiamo affermare che nel disegno di riscrittura della Costituzione si sono avviate due riforme: la prima relativa alla forma dello Stato e la seconda di tipo fiscale'. La modifica del tessuto normativo del Titolo V ha determinato un mutamento dei rapporti tra Stato, Regioni ed Enti locali prevedendo per questi ultimi due una maggiore autonomia finanziaria che, mutuando il termine dall'esperienza anglosassone, è stata denominata "federalismo fiscale" (fiscal federalism). 61


Questo processo di riforma sembra rispondere ai principi di decentramento ed autonomia degli Enti locali, recepiti dal nostro ordinamento ancor prima del novellato Titolo V e capisaldi del regionalismo europeo sancito dal Trattato di Maastricht all'articolo 5 con il principio di sussidiarietà. L'azione più incisiva della revisione costituzionale si è avuta sicuramente sull'articolo 117, dove la potestà legislativa esercitata da Stato e Regioni prevede ora un numero chiuso di competenze per il primo, un corpus di materie di competenza concorrente e le rimanenti assegnate alle Regioni in via residuale. L'articolo 118 stabilisce invece che "le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurare l'esercizio unitario, la legge non disponga il conferimento delle funzioni ad Enti superiori sulla base del principio di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza". A differenza del testo ante riforma, il primo centro di imputazione non è più la Regione ma il Comune; il principio di sussidiarietà coinvolge nello svolgimento delle funzioni amministrative anche le Province, le Città metropolitane, le Regioni e lo Stato. In base a tale criterio, infatti, le autorità competenti, compatibilmente con le dimensioni dell'ente, sono quelle territorialmente e funzionalmente più vicine al cittadino. L'articolo 119 prevede, infine, e r gli Enti loc al i un sistema tributario autonomo da quello dello Stato. con questo articolo che il federalismo fiscale viene introdotto in maniera più specifica nel nostro ordinamento ed è attorno ad esso che gravitano le maggiori difficoltà interpretative. Sotto la lente va sicuramente posto il rapporto tra l'art. 119 e l'art. 23 della Costituzione, il quale prevede una riserva di legge per l'imposizione di una prestazione patrimoniale (e, quindi, anche per l'introduzione di una imposta). Prima della modifica costituzionale, il potere normativo delle Regioni in materia tributaria appariva molto ridotto in quanto la riserva di legge dell'art. 23 era da leggersi come riserva di legge statale. Presupposto, soggetto passivo, base imponibile ed aliquota massima erano di competenza, quindi, dello Stato ed alla legislazione regionale, o alla potestà regolamentaie delle Regioni ed Enti locali, erano assegnati gli aspetti attuativi. Oggi invece l'articolo 23, alla luce del nuovo art. 117, è pienamente soddisfatto dalla legge regionale anche se sussistono i limiti assoluti negativi a legiferare per le materie di competenza esclusiva dello Stato ed i vincoli derivanti dall'obbligo per le Regioni ad esercitare i propri poteri nel rispetto della Costituzione e secondo i principi posti dalle leggi statali di

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coordinamento. Di sicuro interesse è la posizione chiarificatrice della Corte costituzionale in merito alla possibilità per gli Enti locali di "stabilire ed applicare" tributi ed entrate propri. Il nodo da sciogliere è se, in assenza di linee guida o di principio del legislatore statale, le Regioni e gli Enti locali possano disporre autonomamente. La Corte, con Sentenza n. 37 del 2004 ha stabilito che: "l'attuazione di questo disegno costituzionale richiede come necessaria premessa l'intervento del legislatore statale, il quale, al fine di coordinare l'insieme della finanza pubblica, dovrà non solo fissare i principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi, ma anche determinare le grandi linee dell'intero sistema tributario, e definire gli spazi e i limiti entro i quali potrà esplicarsi la potestà impositiva, rispettivamente, di Stato, Regioni ed Enti locali". Sintetizzando, possiamo dire che senza un primo passo dello Stato, Regioni ed Enti locali hanno un spazio di manovra molto limitato e, in particolare, le Regioni non possono introdurre nuovi tributi. Il quadro delle fonti di finanziamento dell'art. 119 va completato facendo menzione del sistema delle compartecipazioni al gettito dei tributi erariali e ricordando il fondo perequativo. L'IMPOSTA DI SOGGIORNO NEL FEDERALISMO FISCALE

L'imposta di soggiorno si colloca nel contesto del federalismo fiscale come una risorsa propria dei governi locali. Appare, dunque, utile un cenno alla teoria economica per giustificare l'opportunità di un tributo caratterizzato da uno stretto legame con il territorio. L'esistenza di diversi livelli di governo è stata largamente studiata e dibattuta dalla dottrina, dando vita ad un'ampia letteratura che si può ricondurre principalmente a due scuole: la Teoria tradizionale del federalismo fiscale e la Public choice2 L'analisi della Teoria tradizionale parte dalla tripartizione delle funzioni dello Stato proposta da Musgrave nel suo "The Theory ofPublic Finance" del 1959. Questi individua tre obiettivi che il settore pubblico deve perseguire: la stabilizzazione, la distribuzione e l'allocazione. Per comprendere il perché dell'organizzazione su diversi livelli del governo è opportuno individuare quale di essi sia il più adatto a svolgere queste tre funzioni. Sulla stabilizzazione, le posizioni sono per la maggiore omogenee: un impulso centrale alla sua realizzazione risulta necessario per dare efficacia all'azione di governo. .

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Anche per quanto riguarda la redistribuzione l'orientamento è ad accentrare tale funzione, perché le politiche locali atte a redistribuire il reddito a favore di fasce della popolazione più disagiate incentiverebbero gli spostamenti dei poveri verso le comunità più sensibili a questi temi, generando inefficienze e fallimenti. Rispetto alle politiche aiocative, i governi locali giocano invece un ruolo sicuramente maggiore. Prescindendo, infatti, dai beni pubblici puri, caratterizzati da non rivalità e non escludibilità perfetta (giustizia, difesa, sicurezza pubblica), il numero di servizi pubblici con connotazioni locali risulta essere molto elevato ed è proprio su questa funzione, quindi, che i governi periferici possono far valere le proprie prerogative (una su tutte la maggiore vicinanza con il cittadino rispetto allo Stato centrale) per garantire una maggiore efficienza e una migliore allocazione delle risorse. La preferibilità di un sistema locale di poteri che decida in merito alla fornitura di beni e servizi pubblici è sostenuto dalla Teoria tradizionale con il teorema di Oates del 1972. L'idea alla base del teorema è molto semplice e stabilisce che, in presenza di preferenze differenziate all'interno della popolazione, è auspicabile una soluzione che consenta diverse articolazioni nell'offerta di beni pubblici piuttosto che un'offerta centralizzata 3 Altro contributo importante è quello di Tiebout. Con il suo "voto coi piedi" del 1956 questi mette in luce le problematiche legate al voto all'interno delle comunità come strumento di espressione delle preferenze sulla spesa pubblica ed evidenzia la possibilita per i votanti di emigrare in altre comunità ove le proprie intenzioni di spesa non siano soddisfatte dalla classe governante. Infine, la Teoria dei "beni di club" di Buchanan, sempre all'interno della Teoria tradizionale, si concentra sulle dimensioni e competenze degli Enti locali4 Una teoria alternativa sull'esistenza di diversi livelli di governo è stata elaborata dalla scuola di Public choice5 . I suoi teorici riconoscono alla dottrina tradizionale il merito di aver sottolineato "l'appetito" dei decisori pubblici per le risorse private, ma riscontrano in essa tre grandi limiti: la mancata individuazione del processo con cui i cittadini partecipano alle scelte pubbliche; l'impossibilità degli elettori di vincolare o limitare l'azione dei politici/burocrati; l'incerta stabilità dell'élite dittatoriale. Nella Public choice assumono centralità i processi decisionali più che i risultati e ciò comporta la necessità di una analisi accurata sia dei meccanismi di scelta, sia della struttura politica. L'attività dei burocrati, dei politici e .

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dei gruppi di interesse viene così inserita nel modello in cui si determinano le preferenze pubbliche, andando a sostituire l'ipotesi tradizionale del "paternalismo benevolente". Un ruolo importante nello spostamento dei poteri tributari verso i governi locali è svolto, infine, dalle asimmetrie informative esistenti tra politici e cittadini/elettori e tra politici di livelli territoriali diversi. Come per la Teoria tradizionale, anche per la teoria della Public choice non si può affermare univocamente la preferibilità di un sistema decentrato. La maggiore partecipazione ed il maggior controllo sull'azione dei politici assicurati da un governo territorialmente più vicino ai cittadini sembrano però condurre ad un assetto istituzionale in grado di rendere più efficiente l'utilizzo delle risorse pubbliche. IMPOSTA DI SOGGIORNO: PRINCIPIO DEL BENEFICIO ED ATTUAZIONE DEL FEDERALISMO FISCALE

L'equità nella distribuzione del carico fiscale è un concetto che può essere differentemente inteso a seconda della comunità cui sifa riferimento. In una delle massime sulla buona tassazione di Smith è possibile tracciare i contorni della nostra analisi. Nel suo "An inquiry into the wealth of nations" egli sostiene, infatti, che "i sudditi di ogni Stato devono contribuire a mantenere il governo in proporzione quanto più stretta possibile alle loro rispettive capacità, cioè in proporzione al reddito di cui essi rispettivamente godono sotto la protezione dello Stato. La spesa del governo per gli individui di una grande nazione è come la spesa di amministrazione per i comproprietari in proporzione ai loro rispettivi interessi nella proprietà. Nell'osservare o nel trascurare questa massima consiste la cosiddetta eguaglianza o disuguaglianza delle imposte". Smith individua i due criteri principali dell'equa tassazione, che in seguito verranno elaborati dalla dottrina: il principio del beneficio e quello della capacità contributiva. Secondo il primo, detto anche della controprestazione, la contribuzione deve essere commisurata al beneficio ricevuto (protezione dello Stato) mentre per il secondo deve esistere un legame tra carico fiscale e le risorse possedute. L'imposta di soggiorno, se intesa come strumento fiscale attraverso il quale contribuire alla copertura dei costi di beni e servizi pubblici utilizzati dai turisti, trova giustificazione nel primo dei due criteri. Tramite es65


sa, infatti, è possibile stabilire una relazione tra il beneficio derivante dalla prestazione dell'operatore pubblico e l'onere (imposta) che deve essere sostenuto dal turista come corrispettivo per la stessa. Nel caso di beni in cui sia differenziabile il prezzo attraverso forme di benefitpricing, la copertura di questi costi aggiuntivi è possibile manovrando il prezzo di godimento 6 Non tutti i beni e servizi, però, sono finanziabili con tariffe che sopportino l'onere complessivo della fornitura pubblica e parte di esso, perciò, rischia di ricadere esclusivamente sulla popolazione locale, come nel caso della fruizione del patrimonio storico-artistico e di quello ambientale-naturale (non escludibilità del bene). L'imposta di soggiorno, dunque, consente di stabilire una relazione tra i benefici goduti dai turisti ed i costi da essi determinati attraverso l'aumento della domanda. Tale rapporto risulta essere ancora più evidente ove si intenda l'imposta come un tributo di scopo, ovvero un tributo "il cui gettito è destinato in tutto o in parte ad un fine ben definito, ad esempIo, alla realizzazione di un'opera pubblica" 7 In questa ottica, l'imposta di soggiorno, sottolineando il collegamento con la spesa e obbligando l'operatore pubblico ad uno specifico utilizzo del gettito, incontra anche un elevato grado di accettazione. Questo è ben evidente nel caso della taxe de sejour, ovvero la tassa di soggiorno francese, per cui a fronte del pagamento dell'imposta viene fornita gratuitamente al turista una Carte dY-Iote, che gli permette di ottenere dei vantaggi sulle prestazioni turistiche e consente di spiegare l'utilità del tributo come strumento di finanziamento dei servizi ad esso associati. Alternativamente, si può considerare l'imposta di soggiorno (sempre come rispondente al criterio del beneficio) ipotizzando l'esistenza di un determinato bene-turismo. Se con esso si intende, infatti, la fruizione del patrimonio storico-culturale ed ambientale-naturale, i beni e servizi, le strutture, le infrastrutture e quel complesso di attività utilizzate dal turista durante la sua permanenza nel Paese visitato, ci si può domandare come l'operatore pubblico decida di finanziare tale bene. Tramite l'imposta di soggiorno è possibile garantire gli investimenti e la fornitura del bene-turismo attraverso le risorse di coloro che ne beneficeranno, ovvero i turisti, realizzando in questo modo il principio del beneficio. La tassazione con una imposta di soggiorno risponde anche a ragioni di carattere equitativo ed in particolare di equità orizzontale tra i residenti ed i non residenti. In base a tale criterio, individui nella stessa situazione devono essere ugualmente tassati e non sempre questo si verifica nel caso di .

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beni indistintamente usati dai turisti e dalla popolazione locale. I primi, infatti, beneficiano di una serie di servizi pubblici, quali ad esempio le strade, la manutenzione di palazzi, le spiagge e la nettezza urbana per i quali, in assenza di specifiche imposte, non pagano nulla facendo ricadere l'intero onere della spesa sui residenti. Si pensi, ad esempio, allo sforzo che deve essere sostenuto dall'Ama o dall'Atac nel caso di eventi organizzati a• Roma, quando il potenziamento dei servizi offerti fa aumentare i costi senza che i beneficiari non residenti paghino direttamente per queste erogazioni, che vanno a gravare sui contribuenti locali e sulla fiscalità generale. Il finanziamento della spesa pubblica locale realizzato attraverso politiche tributarie ispirate al principio del beneficio consente, inoltre, di realizzare compiutamente il federalismo fiscale. Nell'individuazione di Musgrave dei livelli di governo idonei a svolgere le tre funzioni principali dello Stato (allocazione, redistribuzione e stabilizzazione) si è detto che le politiche allocative possono essere efficientemente realizzate dagli enti periferici, mentre le politiche redistributive trovano la loro naturale collocazione nel governo centrale: il criterio del beneficio risulta essere il metodo più idoneo per finanziare i beni pubblici locali, non prevedendo questo tipo di tassazione una forma di redistribuzione del reddito, bensì una connessione tra prezzo/imposta pagato e beneficio ricevuto. Tale principio trova, inoltre, grande consenso per la trasparenza nel rapporto tra prestazione pubblica e suo finanziamento, che consente agli elettori di giudicare gli eletti e che responsabilizza nell'utilizzo dei beni pubblici dei quali appare evidente il costo. ALCUNE ESPERIENZE STRANIERE DELL'IMPOSTA DI SOGGIORNO

Considerato il quadro normativo ed economico del federalismo fiscale vengono ora illustrate le esperienze dell'imposta di soggiorno in alcuni Paesi stranieri. La "taxe de sejour"francese La Francia, assieme alla Svizzera, è il Paese che da più tempo ha adottato l'imposta di soggiorno come fonte di finanziamento per opere utili al turismo e si presenta come caso interessante da studiare. Nelle città che realizzano promozione del turismo o protezione dell'ambiente, il Consiglio comunale può istituire la taxe de sejour sul pernottamento in una struttura ricettiva pubblica o privata. L'imposta si qualifica come specifica, non essendo commisurata alla spesa per l'alloggio, e può essere adottata in due diverse tipologie:

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taxe de selour au réel: viene applicata un'aliquota per numero di notti trascorse nel-

la struttura;

taxe de sejourforfetair: il debito d'imposta si calcola in base alla capacità di accoglienza dello stabilimento, a prescindere dal numero reale degli occupanti. Nel primo caso viene tassata la presenza reale, mentre nel secondo si procede con un forfait su quello che possiamo considerare il volume di affari dell'esercizio alberghier0 8 Il gettito della tassa di soggiorno deve essere impiegato per spese destinate a favorire la frequentazione turistica o per la protezione e gestione degli spazi naturali, a fini di tutela ambientale Per il suo utilizzo la legge distingue tra i casi in cui sia presente o meno un Ufficio del turismo nel Comune: ove vi fosse, la tassa è da considerarsi come una entrata obbligatoria del suo bilancio, mentre in sua assenza il prodotto è destinato a favorire le spese per il turismo più in generale. Le strutture assoggettate alla taxe de seour sono: alberghi, residenze turistiche, villaggi vacanze, campeggi, porti turistici, qualunque stabilimento ricettivo pubblico e gli immobili ad uso turistico. Tutti gli alloggi, a prescindere dalla loro natura e categoria, possono essere sottoposti sia all'uno sia all'altro regime impositivo contemporaneamente. È nelle facoltà dell'amministrazione comunale decidere di tassare esclusivamente alcune di strutture ricettive con entrambe i regimi, assoggettando gli altri esclusivamente all'imposta au réel o forfetaire. La tassa di soggiorno au réel viene pagata da tutti i soggetti individuati dalla legge 2333-29 (tutte le persone che non sono domiciliate nel Comune e non vi possiedono una residenza in ragione della quale sono suscettibili della tassa di abitazione) e varia a seconda della natura dell'alloggio (albergo, camping etc.), della categoria (numero di stelle) e del numero di notti trascorse nella struttura. La tassa dovuta dal turista è pari alla tariffa (in relazione al tipo e categoria di alloggio) moltiplicata per il numero di notti del suo soggiorno. Il tributo oscilla tra un minimo di 0,2 euro a un massimo di 1,5 euro per persona a notte, in base alla delibera del Consiglio comunale. La tassa di soggiorno au réel non è da considerarsi come base imponibile ai fini del calcolo dell'Iva. Nella forma forfettaria (forfetaire) l'imposta di soggiorno viene applicata a prescindere dal numero effettivo degli occupanti della struttura. Dal tributo sono esenti gli esercizi operanti da meno di due anni. La classificazione degli alloggi ed i rispettivi tributi sono gli stessi di quella au réel. L'importo della tassa relativo ad ogni debitore è ottenuto moltiplicando i seguenti elementi: - capacità di accoglienza. Tale numero è oggetto di una riduzione obbligatoria che varia a seconda della durata di apertura dello stabilimento nel periodo di imposta. Questa riduzione è del 20% se il suddetto periodo è compreso tra 1 e 60 notti, del 30% se il periodo è superiore a 60 ma inferiore a 105 notti, del 40% se superiorè a 105 notti; - la tariffii fissata dal Consiglio comunale. La tariffa è compresa tra gli 0,2 e 1,5 euro ed è determinata dal Consiglio comunale in base alla 2333-50; - il numero di notti compreso tra ilperiodo di apertura e il periodo di imposta. .

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A differenza della tassa au réeh l'imposta di soggiorno forfetaire va inserita nella base imponibile dell'Iva 9 dal 1994. Per tutti e due i regimi sono previste esenzioni per i minori di 13 anni e per particolari categorie quali: i minori nei centri vacanza per bambini "approvati"; i funzionari dello Stato chiamati temporaneamente in una stazione turistica; persone minorate; anziani che beneficiano di aiuto a domicilio; persone in centri di alloggio e reinserimento sociale. Le riduzioni riguardano, invece, le famiglie numerose titolari della "carta famiglia numerosa" e, ove deliberato dal Consiglio comunale, i beneficiari di assegni vacanza ed i minori di 18 anni. Per la tassa fo rfetaire non sono previste esenzioni e riduzioni ad eccezione degli stabilimenti attivi da meno di due anni. Per comprendere il funzionamento di questa imposta si può considerare l'esempio della città di Parigi. Il gettito raccolto nella capitale francese è stato per il 2003 di 23,27 milioni di euro e per il 2004 di 27,44 milioni di euro. Il valore iscritto a budget per il 2005 è stato di 27 milioni ed il gettito votato dal Conseil Municipal per il 2006 è stato di 29,1 milioni di euro con un peso nel budget rispetto alle altre imposte e tasse dell'1,26%. Le voci di spesa più consistenti finanziate tramite l'imposta sono risultate, per il 2006, le sovvenzioni agli Uffici del turismo e il contributo alla prefettura di polizia, ma registra anche ampio peso la spesa per la mobilità. Ripartendo i contributi della tassa per grandi aree abbiamo: spese per sicurezza e ordine pubblico: 10.052.040 euro, 34,5% sp/tot spese turistiche in generale: 7.896.225 euro, 27,1% sp/tot spese per cultura: 6.456.638 euro 22% sp/tot di cui 3.142.613 euro in spesa per investimenti spese per viabilità ed investimenti vari: 4.695.097 euro, 16% sp/tot Confrontando il prodotto dell'imposta di soggiorno con le spese di funzionamento e di investimento per il settore culturale, si nota invece che il gettito destinato a spese culturali va a coprire il 4,3% della prima e il 2,8% della seconda voce.

New York City Hotel Room Occupancy Tax L'Hotel Room Occupancy Tax viene applicata sull'occupazione o sul diritto di occupare una camera di hotel nella città di New York e consiste in una percentuale calcolata sul costo della stanza più un flat amount giornaliero che varia a seconda dell'affitto. Per hotel si intende qualsiasi struttura, o porzione di essa, che venga regolarmente usata e tenuta aperta per affittare stanze, includendo perciò hotel-appartamento, motel, pensioni, case in affitto, club, bungalow e bed-and-breakfast. Nel 2004 si è stabilito con legge che una costruzione non è da considerare un hotel ai fini impositivi se le camere sono affittate ad ospiti per non più di 14 giorni in totale o per due occasioni al massimo nell'arco di un anno. L'HotelRoom Occupancy Tax, adottata nel 1970, è rimasta in somma fissa (da 0,5 a 2 $)fino al 1986 quando si è aggiunta una quota del 5% sul prezzo della stanza. Nel 1990 per le camere superiori ai 100 $ lo Stato ha introdotto un'ulteriore aliquota del 5%, mentre la Città ha aumentato quella ordinaria al 6%. Le risorse aggiuntive raccol69


te grazie a questi incrementi sono servite per lo sviluppo del turismo e per la creazione del New York Con vention and Visitors Bureau, l'agenzia per il Turismo newyorkese. Nel 1994 sia lo Stato sia la Città hanno abrogato gli aumenti del 1990, eliminando l'imposta statale del 5% sugli alberghi di lusso e riportando l'aliquota della Hotel Room Occupancy Tax al 5% cui va aggiunta la quota fissa compresa tra gli 0,5 e i 2 dollari. Dal i aprile 2005, gli operatori che già raccolgono l'HRoT devono riscuotere, 1 secondo le stesse modalità, anche una imposta in somma fissa sull'occupazione di una unit 10

in un hotel dell'ammontare di 1,5 $ (Fee on Hotel Occupancy in New York City). Dal 1995 al 2001 l'HRoT è stata una delle fonti fiscali per la città che, con un tasso annuale del 15%, è cresciuta velocemente, raggiungendo nel 2001 i 242 milioni di dollari. Questa espansione è legata al buon andamento del turismo, dal cui volume d'affari dipende il gettito dell'imposta che ha subito infatti nel 200112002, a causa degli attentati dell'il settembre, una flessione del 24% scendendo a 184 milioni di dollari. Il gettito previsto della HROT è di 294 milioni di dollari per il 2006 e di 309 milioni di dollari per il 2007, con un incremento rispettivo del 14,4% e del 5,1%. TransientAccomoeation Tax (TAT) nelle Hawaii Le Hawaii sono un caso di come una imposta di soggiorno, Transient Accomodation Tax (TAT), possa essere utilizzata per dare sostegno al settore turistico attraverso una fondo vincolato (imposta di scopo). La Transient Accomodation Tax nelle Hawaii è regolata dal Chapter 237-D (articoli 237D-1 fino a 237D-17). Per TransientAccomodation la legge intende la fornitura di una stanza, appartamento, suite o qualunque altra forma di alloggio occupata per meno di 180 giorni consecutivi da una persona residente o non residente alle Hawaii. Tale alloggio può essere un hotel, un hotel-appartamento, un motel, un condominio, un appartamento, una cooperativa di appartamenti, una pensione o una qualsiasi altra struttura nella quale sia fornita questo tipo di prestazione. L'imposta viene applicata con un'aliquota del 7,25% sul gross rental income (reddito lordo generato dall'affitto). Sono previste esenzioni per particolari tipologie di soggiorni come quelli motivati da cure mediche, i dormitori scolastici, gli alloggi dei militari permanenti alle Hawaii e altre categorie elencate dalla legge (Chapter 237 D 1998). Il gettito dell'imposta viene così diviso tra fondi speciali e contee: - il 17,3% va al Convention Center Enterp rise Special Funa per finanziare le spese del Convention Center (turismo congressuale); - il 32,6% viene depositato nel Tourism Special Fund per finanziare la promozione e l'attività di ricerca attraverso l'Hawaii Tourism Authority. Dal 2002, se il fondo supera i 62,229,000 $ il primo milione di dollari, e non oltre, va per il 9% allo State Parks Special Fund e per il 10% allo Special Lend and Development Fund; - il 44,8% viene ripartito tra le varie contee con Honolulu che riceve il 44% di questo stanziamento; - il 5,3% va al Transient Accomodation Tax Trust Fund allo scopo di coprire eventuali insufficienze nel Tourism Special Fund. 70


Tra le azioni di sostegno al turismo hawaiano sviluppate negli anni Novanta, la più importante è stata sicuramente l'approvazione dell'Act 156, con il quale sono stati istituiti l'Hawaii Tourism Authority (HTA) ed il Tourism Special Fund (TsF), un fondo dedicato al turismo, finanziato tramite una quota della TAT per supportare l'attività della HTA. La HTA, tutt'ora operativa, è competente per le seguenti materie: - organizzazione e direzione delle politiche turistiche con una prospettiva statale, - sviluppo e implementazione di un piano di marketing turistico per le Hawaii, - amministrazione dei programmi e delle attività a sostegno dell'industria turistica, - sviluppo e monitoraggio del Tourism Strategic Plan, - coordinamento delle attività pubbliche e private di ricerca, promozione e programmazione del turismo.

L'HTA è composto da un presidente e da un vice presidente, che restano in carica per un anno, e da un Consiglio, Board ofdirectors (B0D), formato da 16 membri che rappresentano l'industria del turismo, i gruppi di interesse, la comunità e i governi delle 4 contee, a tutela perciò sia degli interessi pubblici che di quelli privati. Il ruolo degli operatori privati in questo tipo di imposte è infatti molto attivo, essendo a tutti gli effetti gli albergatori coloro che raccolgono l'imposta per conto dello Stato, senza gravare la collettività di ulteriori costi amministrativi. Nello specifico, i gruppi maggiormente interessati alle decisioni di spesa sono gli albergatori, le compagnie aeree (che garantiscono i collegamenti con i mercati principali) e le banche. La rappresentanza nel Consiglio dei vari interessi che gravitano attorno al turismo aiuta sicuramente a perseguire una strategia unitaria per il settore e ad aumentare anche il livello di accettabilità dell'imposta di soggiorno, perché appare più evidente la relazione tra la spesa pubblica e i vantaggi da essa derivanti. Nel 2005 il gettito della ThTè stato di 195 milioni di dollari circa ed ha generato un Tourism Special Fund di 63,8 milioni di dollari, con un incremento rispetto all'anno precedente del 7,3%. Eco-tassa delle Isole Baleari Con la legge n. 7 del 23 aprile 2001 il Parlamento delle Isole Baleari istituì una imposta di soggiorno denominata Eco-tassa. Questa esperienza è stata molto breve e a causa della richiesta di sospensione da parte dell'Avvocatura dello Stato l'imposta è stata applicata solo dal maggio 2002 fino al 2004.

L'Eco-tassa (per esteso: Impuesto sobre las Estancias en Empresas Turisticas de Alojamento destinado a la dotaciòn del Fondo para l.a Mojora de la Actividad Turisticay la Preservaciòn del Medio Ambiente) si configurava come una imposta di scopo, poiché il suo gettito era destinato ad un fondo (Fondo para la Mejora de la Actividad Turisticay la Preservaciòn del Medio Ambiente) per finanziare tre linee di intervento: rimodellazione e recupero di aree, recupero di risorse e spazi naturali, valorizzazione delle risorse patrimoniali. L'Eco-tassa colpiva il soggiorno dei cittadini spagnoli e degli stranieri nelle strutture di ricezione turistica dell'isola. 71


Erano soggetti passivi di imposta coloro che pernottavano in un hotel, hotel appartamento, appartamenti turistici, "case turistiche", camping, hotel rurali, agriturismo, stabilimenti che la legge considera imprese turistiche ed immobili affittati da persone fisiche e giuridiche. La base imponibile poteva essere determinata attraverso tre differenti regimi: Estimaciòn directa: come regime generale; la base imponibile era data dal numero di giorni effettivi del soggiorno moltiplicato per la cuota tributaria, che varia dagli 0,25 ai 2 euro a seconda della tipologia e qualità dell'alloggio. Si può osservare come l'imposta fosse ispirata al criterio della capacità contributiva, essendo le aliquote modellate in base alla categoria della struttura e conseguentemente in base al prezzo. Estimaciòn objetivas questo regime calcolava la base imponibile attraverso "segni, indici, e moduli" quali il tipo di categoria dello stabilimento, il periodo di apertura, il livello di occupazione e la localizzazione sul territorio e veniva a configurarsi come una sorta di regime forfettario. Estimaciòn indirecta: si applicava in accordo con la legge tributaria generale; quando l'amministrazione tributaria determinava la base imponibile teneva conto preferibilmente dei "segni, indici e moduli" utilizzati nell'estimaciòn objetiva. Per il 2002 il gettito previsto fu di 30 milioni di euro mentre per il 2003 le entrate furono di 56 milioni di euro. L'imposta non è più vigente.

Tassa di soggiorno e tassa del turismo nel Cantone di Vaud In Svizzera la maggior parte dei Cantoni riscuote una imposta di soggiorno. In Vaud vigono una imposta di soggiorno cantonale, una imposta del turismo, sempre a livello cantonale, ed una imposta di soggiorno comunale. La legge 935.11 dell'il febbraio 1970 del Cantone del Vaud si occupa dello sviluppo del turismo, individuando gli strumenti e le istituzioni preposte a tale fine. Tra essi i più rilevanti sono sicuramente il Fonds d'equipement touristique e gli organi riconosciuti dallo Stato come il Conseil dii tourisme, la Commission du secteur Hotelier, l'Ufficio del turismo (Orv) e gli Uffici locali del turismo. Il Fonds d'equipement touristique appare la caratteristica più interessante dell'esperienza del Vaud dell'imposta di soggiorno. Esso è destinato a facilitare il finanziamento delle strutture alberghiere, tramite aiuti all'investimento per progetti complementari all'offerta esistente nella Regione. Si tratta di un aiuto che può consistere in una garanzia, in un prestito, con o senza interessi, o in un contributo a fondo perduto. Il Fondo è finanziato tramite una quota dell'imposta di soggiorno cantonale e un contributo di natura statale. L'Ufficio del turismo (Onì) per svolgere i compiti ad esso assegnati può contare su un contributo statale annuale e sul gettito della Tassa del turismo. La legge sul turismo (LTou) dell'li febbraio 1970 e il regolamento del 19 febbraio 1993 disciplinano il funzionamento e la tariffa dell'imposta cantonale di soggiorno e dell'imposta del turismo. 72


Taxe Cantonale De Sejour Sono soggetti al pagamento di questa tassa coloro che soggiornano presso un hotel, un hotel-pensione, una locanda, una casa di cura, un hotel-appartamento, un campeggio, una barca su un porto, un istituto, un collegio, una casa d'infanzia, una villa, uno chalet, un appartamento, una camera o un altro stabilimento di questo tipo (art. 30 LTou). La Taxe Cantonale De Sèjour è individuale, collettiva o forfettaria e può essere percepita su base giornaliera, settimanale, bimestrale o annuale a seconda della struttura ospitante. Laliquota per persona a notte varia tra i 40 e gli 80 centesimi di 'franco mentre le quote settimanali e bimestrali variano a seconda della durata effettiva del soggiorno e della natura dell'alloggio in base ad un modello relativamente complesso di modulazione dell'imposta' I.

Taxe de Tourisme (cantonale) La Taxe de Tourisme è una imposta cantonale dovuta dai titolari di licenze di stabilimenti pubblici e strutture di ricezione turistica in generale. L'imposta è pari al 10% della licenza e deve essere di almeno 20 franchi all'anno. Il prodotto della Taxe de Tourisme è completamente destinato all'Ufficio del Turismo.

Taxe communale de séjour La tassa comunale di soggiorno viene determinata dai vari Comuni del Cantone e può essere ordinaria o forfettaria. Una parte del gettito dell'imposta è riservato al Cantone mentre il rimanente è una entrata dell'amministrazione comunale. Questa imposta per il Vaud è l'entrata comunale in termini assoluti dal gettito più basso, con 5801 milioni di franchi raccolti nel 2004. Il suo peso però non è irrilevante sul bilancio, rappresentando il 3,5% delle entrate annuali e il 4% circa di quelle complessive. Le aliquote per il metodo ordinario variano a seconda della, tipologia di albergo e vanno, ad esempio, nei Comuni di Sainte-Croixe e Bullet da un minimo di 0,50 franchi per i camping a un massimo di 1,2 franchi per alberghi a 3 e più stelle. Anche per questa imposta sono previste forme forfetarie a base settimanale e bimestrale.

Michigan: County Level Accomodation Tax Lo Stato del Michigan dagli anni Settanta ha adottato una imposta di soggiorno a livello di contea per consentire il Finanziamento di opere, infrastrutture ed attività di promozione in favore del settore turistico. Il gettito del tributo è infatti generalmente gestito dagli Uffici del Turismo Locali in collaborazione con l'amministrazione locale. Il Michigan Public Act 263 del 1974 consente alle contee in cui sia presente una città di almeno 40.000 abitanti e con popolazione inferiore alle 600.000 unità di istituire la Accomodation Tax. Dal 1985 per alcune contee (Wayne, Oakland e Macomb) è consentito il superamento delle 600.000 persone. L'imposta si applica su qualsiasi attività economica riguardante la fornitura di camere ed alloggi (ad eccezione degli ospedali e delle case di cura) ad un transient guest, che la legge definisce come una persona fisica che sia ospitata per meno di 30 giorni. 73


Il tributo è di tipo ad valorem: le contee con popolazione inferiore alle 600.000 unità possono adottare una aliquota massima del 5% sul prezzà della stanza mentre quelle con popolazione superiore posso arrivare al 6%. L'amministrazione dell'imposta è a livello di contea se non si superano i limiti di popolazione. Ove si vada oltre le 600.000 persone diviene competente il Michigan De-

pariment of Treasury, Bureau ofRevenue. Il prodotto della tassa è così diviso nei suoi utilizzi principali: - amministrazione della tassa 5-10% - finanziamento degli investimenti per il turismo 80% - finanziamento attività legate al turismo 10-15%. Il gettito prodotto viene depositato in un Fondo Speciale che può essere utilizzato dalla contea o da una autorità individuata dalla legge per perseguire i seguenti scopi: - copertura dei costi di amministrazione e attuazione dell'ordinanza; - finanziamento, acquisto, costruzione, miglioramento, ampliamento, riparazione e manutenzione di infrastrutture congressuali e di intrattenimento (Convention and entertainmentfacilities), compreso il pagamento del debito e degli interessi contratti per la costruzione delle stesse; - pagamento degli affitti presenti e futuri da parte della contea verso una autorità organizzata secondo le leggi statali per gli stessi scopi individuati sopra (finanziamento, acquisto etc.); - promozione (promotion and encouragement) di attività turistiche e congressuali della contea; - costruzione di musei nelle città con popolazione superiore alle 180.000. Tale scopo è stato reso possibile dall'emendamento alla legge tramite il Public Act 13 del 1989, fatto appositamente per la contea del Kent. Intorno all'ampia definizione di promotion and encouragement oftourist and convention business in the còunty si sviluppa il puntà debole di questa imposta, poiché una interpretazione estensiva della norma ha consentito l'utilizzo del gettito per finalità difficilmente collegabili al settore turistico. La legge individua invece in maniera più rigorosa le Convention and entertainment facilities, indicandole come all or anypart, or any combination ofconvention ha/Is, audi-

toriums, stadiums, music ha/Is, arenas, meeting rooms, exhibit areas, and related public areas (PA 263 del 1974). Il PA 263 ha spinto le contee a stipulare accordi con le Convention and Visitors Bureau (CvB), agenzie indipendenti o facenti parte delle Camere di còmmercio locali. L'accordo consiste sostanzialmente nel versamento di una percentuale dell'Accomodation Tax in cambio dello sviluppo e dell'implementazione di un programma turistico. Le CvB dipendono così fortemente dal gettito dell'imposta, (in molti casi risulta essere l'unica o comunque la più sostanziosa fonte di finanziamento) che vengono a trovarsi in conflitto con l'altro gruppo di interesse che esse rappresentano, ovvero gli albergatori. Nelle CVB infatti devono essere contemperate le esigenze del governo locale, spesso interessato alla costruzione di attrezzature, supporti a festival e organizzazione di iniziative a carattere locale, e quelle degli operatori privati che, svolgendo un ruolo attivo 74


nella raccolta dell'imposta, vogliono far sentire la propria voce sulle politiche e sui programmi da attuare. Gli albergatori spingono inoltre per essere rappresentati nelle CVB perché è su di essi che il tributo finisce per gravare, a differenza dei commercianti e dei ristoratori che traggono ugualmente vantaggio dalle attività finanziate tramite l'Accomodation

Tax. Questo aspetto consente di mettere in luce una questione di equità delle imposte di soggiorno, essendo il settore alberghiero tassato maggiormente rispetto altre imprese legate al turismo. Tourist Tax Croata La Croazia tramite il Tourist Tax Act del 1995 ha regolato il sistema impositivo gravante sui turisti e sui fornitori di alloggi. L'imposta di soggiorno, denominata Tourist Tax, è dovuta: - dai cittadini e dagli stranieri che soggiornano fuori dalla propria residenza in una struttura che fornisce servizi di accoglienza turistica quali hotel, motel, appartamenti turistici, etc.; - dai possessori e dagli occupanti di una casa in una zona turistica dal 15 giugno al 15 settembre; - dai possessori e dagli occupanti di una nave attraccata al porto di turismo nautico quando questi sono a bordo. I possessori di nave permanentemente attraccata sono soggetti ad imposta di tipo forfettario. La Tourist Tax è pagata per ogni pernottamento ed è prevista una differenziazione delle tariffe dalle 2 alle 7 kuna a seconda della zona dell'alloggio, caratteristica questa che la differenzia dalle imposte di soggiorno che si sono incontrate nel lavoro. Sono soggetti passivi anche i cittadini che forniscono servizi turistici all'interno della propria casa. Questi sono tenuti a pagare una quota annuale in base al numero di unità (letto) ed alla categoria dell'alloggio che varia tra le 150 e le 300 Kuna. Il gettito atteso per il 2007 è di 290 milioni di kuna, pari circa a 40 milioni di euro, ripartito per il 65% alle città turistiche, per il 10% alle íupanije (contee) turistiche e per il 25% a spese relative al turismo croato. Confrontando il gettito della Tourist Tax con le altre fonti fiscali si vede che il suo peso sulle entrate complessive, prendendo come riferimento la media degli anni 20032005, è dello 0,3%.

Germania, Wiesbaden In Germania non esiste una imposta di soggiorno adottata diffusamente sulle strutture ricettive del turismo. È prevista tuttavia la possibilità per i Comuni riconosciuti dallo Stato come luoghi di cura (health resort) di applicare una imposta denominata Kurtaxe, che si può ricondurre al modello delle imposte di soggiorno. Per vederne il funzionamento si è preso il caso di Wiesbaden, capitale del Lander Hessen (Assia). L'approvazione del Comune come luogo di cura è condizione preliminare all'adozio75


ne della Kurtaxe, la quale può essere istituita con una legge comunale sulla base della legge locale e in accordo con le leggi fiscali del Land. Ciascun non-residente della città di Wiesbaden che usufruisca delle prestazioni di una clinica, la cui persona giuridica sia una società per azioni, è tenuto a corrispondere una imposta in somma fissa di 1,53 euro per persona al giorno. Nel 2004 la tassa ha consentito di raccogliere circa 180.000 euro ed è scesa a 160.000 euro nel 2005. Il gettito è destinato e gestito dalla Kurbetriebe der Landeshauptstadt Wiesbaden, una società esterna al Comune.

Bruxelles La città di Bruxelles si caratterizza per avere l'imposta locale sugli hotel, che possiamo considerare alla stregua di una imposta di soggiorno, con una aliquota molto elevata, pari al 10% del costo della stanza. Flmpòt sur les chambres d'/n9tels et depensions viene applicata sulla locazione di camere di hotel, pensioni e strutture equivalenti e, dal 2005, anche sulle stanze nelle case di

appuntamento, maisons de rendez-vous. La tassa è fissata al 10% della somma percepita per ogni affitto, distinto in ragione delle prestazioni secondarie e dei servizi d'illuminazione e di riscaldamento. Il soggetto passivo è colui che fornisce l'alloggio ed è prevista anche la possibilità di un pagamento annuale forfettario, deciso dal consiglio del Borgomastro, che non può essere comunque inferiore all'imposta dovuta nel caso di affitto di tutte le stanze per 300 giorni.

Livello di

Francia

Nyc

Taxe de séjour

Hotel Transient Room Occu- Accomodation pancyTax Tax

Eco-cosa

Comune

Comune

Regione

Hawaii

Stato

Baleari

imposta

Michigan

Croazia

Hotel Tax

TourLst

Contea

Centrale

Ad Valorem

Insomma

Cantonale:

5% costo

05-0,8 franchi a

stanza o

2-7 kuna a notte

Tax

governo Tipo di

VaudSvizzera

Comune e Cantone

Sia ad valorem Ad fissa ordinaria sia in somma vale rem e forfettaria fissa Insomma

Insomma fissa con metodo diretto

Insomma fissa ordinaria e

fissa

forfettaria

e indiretto Aliquota a persona

0,2-1,5 euro a notte

5% costo stanza +

7,25% ricavi

0,25-2 euro al giorno

05-2 dollari a notte

notte

6% costo stanza

Comunale:

(dedroit)

0,5-3 franchi a notte Gettito

2006: 29 milioni di euro

2005: 250 milioni di dollari

2005:

2004:

195 milioni di dollari

53,6 milioni

2005: 4 milioni

di euro

di franchi

(previsione)

N.d.

(Tassa Cantonale

2007: 290 milioni di kuna - (previsione)

di soggiorno) Vincolo

Promozione

Nessun

gettito

turistica

vincolo

76

34,2% Fondo per il turismo

Fonde pare la Mejora

Promozione

Promozione

Promozione

e strutture turistiche

turistica

turistica


GLI EFFETTI ECONOMICI DELI]IMPOSTA DI SOGGIORNO: EVIDENZE EMPIRICHE

L'introduzione di una imposta di soggiorno deve essere valutata ponendo attenzione ai suoi effetti sui prezzi e sul mercato turistico. Alcuni studi relativi alle Hawaii e a Nyc hanno cercato di valutare gli effetti sulla domanda tenendo conto della tassazione degli alberghi di lusso.

Impatto della Hotel Tax nelle Hawaii sulla domanda turistica L'impatto della Hotel Room Thx nelle Hawaii, introdotta nel 1987, è stato oggetto di numerosi lavori che, per grandi linee, concordano nel ritenere non rilevanti sulla scelta turistica gli effetti dell'imposta. Combs ed Elledge 12 (1979) affrontarono il problema dell'elasticità della domanda di alloggi sostenendo, seppure senza evidenze empiriche, che l'introduzione di una piccola imposta ad valorem sulle stanze e sulle altre forme di alloggio temporaneo avrebbe avuto un impatto molto ridotto sull'industria alberghiera, consentendo ai governi locali di raccogliere un gettito consistente. La sostanziale inelasticità della domanda, secondo Combs ed Elledge, permetteva di traslare il carico fiscale interamente sul turista con effetti pressoché nulli sui redditi delle imprese turistiche. Fujii, Khaled e Mark 13 trattando l'esportabilità delle imposte, ipotizzarono neI 1985 una Hotel tax ad valorem sugli alloggi delle Hawaii, giungendo a conclusioni leggermente. differenti. Secondo essi infatti l'elasticità della domanda era significativa e negativa, mentre la curva dell'offerta non era perfettamente elastica. L'imposta sarebbe così gravata per i 2/3 sul turista e per 1/3 sugli albergatori prevedendo effetti, seppure di entità modesta, sulle strutture ricettive. Bonham, Fujii, Im e Mark 14 nel 1992 utilizzarono un approccio differente, avvalendosi di dati reali e non stimati del reddito, e presentando perciò delle basi empiriche più solide. Il modello econometrico adottato, A rima Noise Model, è caratterizzato dall'utilizzo della serie storica interrotta (interrupted series analysis) che consente di analizzare il reddito prima e dopo l'introduzione del tributo, considerando i periodi 1980-1987 (anno in cui viene adottata la Hotel Room Tax) e 1987-1990. L'Arima Noise Modelè in grado inoltre di eliminare le componenti sistematiche, i cui effetti possono confondersi con quelli determinati dall'imposta. ,

77


Fig. i - Logaritmo del prezzo delle stanze di hotel nel periodo 1980-1 990. HOTEL PJWAL FElCE IN LOGA1UThMS

eo

-08 -.16

4.60 •.24 4.40 .

.32

-.48 4 •.56 UO •.64 -.72

360 80

81

82

83

84

85

86

87

88

89

Fonte Bonham, Fujii, Im e Mark

I risultati dello studio suggeriscono che l'Hotel Room Tax si trasferisce quasi completamente sul turista senza una significativa perdita di reddito da parte degli albergatori,. come si evince dalla figura 1 relativa al periodo 1980-1990. La figura 2 mostra che prima e dopo l'intròduzione dell'imposta non ci sono sensibili cambiamenti nel reddito e ciò è dovuto evidentemente alla possibilità di traslare il tributo sui turisti in proporzioni anche maggiori di quelle indicate da Fujii, Khaled e Mark. La traslazione è anche confermata dall'alto tasso di occupazione degli alberghi hawaiani (nei mesi di punta supera anche il 90%) alla quale è in genere associata una scarsa elasticità dell'offerta. I tre studi, seppur con alcune differenze, concordano sui risultati: l'elasticità della domanda appare bassa e la rilevanza dell'introduzione dell'imposta scarsa. Ciò trova spiegazione probabilmente nel fatto che il tributo rappresenta appena l'1,5% del costo totale della vacanza e se a ciò si aggiunge che esso è spesso ignorato dai turisti, è facile concludere che gli effetti negativi di una Hotel TeL,c, ove essa sia di ridotta entità, sono trascurabili.

78


Fig. 2 - Logaritmo del reddito degli hotel nel periodo 198011990. RRAL HOTBL RENTAL REVENUE IN LOOARIThMS

LIE

&40

80

81

82

83

84

85

86

87

88

89

Fonte Bonham, Fujii, Im e Mark

La riduzione delle imposte sugli hotel di lusso a Nc del 1994 Uno studio dell'IBo (Indzendent Budget Office) 15 sulla riduzione delle imposte degli hotel, adottata a New York City nel 1994, può essere utile per osservare le variazioni della domanda.del turismo di lusso a seguito di una modifica tributaria. Prima della riforma a New York le tasse gravanti su una stanza il cui costo fosse superiore ai 100 dollari raggiungevano un'aliquota del 21,25%, per l'effetto combinato delle imposte sulle vendite statali e cittadine, dell'hotel tax cittadina, che era stata portata dal 5 al 6%, e di una ulteriore tassa statale del 5% sulle stanze di lusso. Nel 1994 l'amministrazione della città ha abbassato l'aliquota dal 6% al 5% e lo Stato ha abrogato la tassa del 5% introdotta nel 1990, portando l'aliquota complessiva sugli alberghi al 15,25%.

79


Fig. 3: Aliquota complessiva delle imposte sull'affitto di una camera d'albergo. Prior to Ju11y1986

§RIMEffiRE] 10.25% I

Juty 1986 June 1990

15.25% 120.25%

Septl99O

121.25%

o Sept1994

116.25%

I

Dec. 1994 I

0%

I

I

10%

I

15.25% I

20%

• • Combined State and City Generai Saie4Tax O City Hotel Occupancy Tax' O StateHotelOccupancyTax

Fonte: IBO

Nel lavoro si cerca di capire se la crescita del tasso di occupazione delle stanze verificatosi dal 1994, come mostrato dalla figura 4, sia legata al taglio della pressione tributaria o ad altri fattori non imputabili alle scelte di politica fiscale. Tali fattori sono ad esempio l'aumento dei redditi nei Paesi di origine, la riduzione della criminalità a New York negli Novanta ed il miglioramento della qualità delle stanze. Per isolare l'effetto dell'imposta, l'IBo ha utilizzato un modello in cui tasso di occupazione e prezzo della stanza sono variabili dipendenti, espresse in funzione del valore presente e passato dell'imposta e degli altri valori che influenzano il turismo (criminalità, crescita domanda, etc.). I risultati del modello indicano che una riduzione dell'i % della pressione fiscale determina un incremento dello 0,34% del tasso di occupazione degli hotel e dello 0,,1 8% del prezzo delle stanze, con la domanda che appare quindi poco elastica. Alla contrazione dell'i % delle imposte consegue infatti una variazione delle due grandezze molto inferiore all' 1%, che non è in grado perciò di spiegare la crescita del 1994. Più precisamente, il taglio di 6 punti percentuali dei tributi ha generato un aumento del tasso di occupazione degli hotel dell'i ,47%, mentre la riduzione della criminalità ha avuto un effetto del 6,4%. Tassare il turismo di lusso può risultare molto vantaggioso poiché generalmente quel segmento della domanda è poco reattivo alle variazioni dei prezzi, come è stato dimostrato dallo studio Per lo stesso motivo, una riduzione delle tasse potrebbe non determinare gli effetti desiderati in questa fascia di mercato, causando invece una contrazione del gettito. 80


Fig. 4: Confronto tra pressione fiscale e tassi di occupazione delle camere a Nyc. Figure 2. Hotel Occupancy Tax Revenues and Rates O City Thx Revenues - City Hotel Occupanoy Tax Ratei' • • Combined City and State Hotel Occupanoy Tax Rates 160

14.0

140

17.0

120

o

100

Ico

ao

17 7 —'a 4.0

40

2.0

20

o

60 163

1020

1992

1674

1905

City Fiscal Vear

City Hotel Occupancy an.d Room R ates*** (Twelve Month Backward Moving Averages) 153

62

160

60 76

.0 140 -.130

74 120 72 110

70

160 90

63

1530

1960

1972

C61yT63 1606220

1694

1655

66

CftyTax Cut CtyR5ca1Y60T

Fonte IBO

UNA POSSIBILE IMPOSTA DI SOGGIORNO NEL COMUNE DI Roivi

Si passa ora a considerare una ipotesi di imposta di soggiorno nel Comune di Roma. Nel 2005 il numero di visitatori della capitale, in base agli arrivi alberghieri, è stato di 6.789.750, con una crescita rispetto al 2004 del 7,79%. Gli esercizi ricettivi negli ultimi sette anni sono più che raddoppiati, so81


prattutto grazie al cosidetto effetto Giubileo, arrivando nel 2005 a contare 817 hotel e 80.000 letti circa. Un dato interessante da studiare per comprendere le dimensioni economiche dei settore è la spesa dei turisti. L'Ufficio Italiano Cambi ha stimato questa grandezza per la sola parte straniera in circa 3,7 miliardi di euro, con un incremento neI 2005 di 500 milioni di euro. La presenza di turisti a Roma, oltre a generare reddito e impiego per le attività ad essa legate, è fonte per la città di costi aggiuntivi, a causa della quantità maggiore di servizi che l'amministrazione deve offrire soprattutto nei periodi di grande affluenza. Determinare questa spesa aggiuntiva è complesso poiché molti beni e servizi sono utilizzati indistintamente da residenti e non residenti. Tra essi, quelli a connotazione piii strettamente turistica sono ad esempio la fruizione, il mantenimento ed il restauro del patrimonio artisticoe culturale della città, per i quali il biglietto di ingresso riesce solo in piccola parte a coprire le spese, che per il resto gravano sui contribuenti. Il trasporto pubblico presenta il medesimo problema poiché il biglietto finanzia solo una quota del servizio. Lo scostamento tra prezzo pagato e costo della prestazione inoltre aumenta nei periodi di picco della domanda turistica, quando si deve assicurare ugualmente il servizio. Per avere una idea di quanto la pressione turistica possa incidere sulla normale attività svolta dall'amministrazione comunale sul territorio, si possono confrontare i dati relativi a due Municipi interni alla città di Roma, uno ad alta e l'altro a bassa vocazione turistica, il I e il VII. Questa differenza non va intesa come un confronto tra i costi che le due amministrazioni territoriali devono sostenere, non essendo molti dei servizi erogati di loro competenza. La finalità è invece quella di osservare alcuni indicatori dei costi aggiuntivi legati alla presenza turistica. Il Primo Municipio comprende tutta l'area del centro storico, mentre il Settimo Municipio è composto dai quartieri Tuscolano (parte), Prenestino, Centocelle, Collatino (parte), Alessandrino, Don Bosco (parte) e dalle zone La Rustica, Tor Cervara (parte), Tor Sapienza (parte), Torre Spaccata (parte). Il Primo Municipio ha una superficie di 1430 ha ed una popolazione di 122.634 abitanti, mentre il Settimo Municipio ha una superficie di 1906 ha ed una popolazione di 124.297; essi rappresentano rispettivamente l'l,ll% e l'i ,48% dell'intero territorio comunale. 82


Ad una estensione molto simile corrisponde una presenza alberghiera nettamente differente, con 506 strutture per il Primo Municipio (63% del totale) contro le sole 3 (0,375%) del Settimo Municipio 16 L'affluenza turistica segna un netto stacco tra le due aree, con arrivi e presenze annuali nel Primo Municipio rispettivamente pari a 3.202.317 e 7.712.691 e per il 'Settimo Municipio' pari a 18.951 e 45.483. Per avere una idea della rilevanza della presenza di visitatori nel Primo Municipio, basti osservare che nel mese di maggio, ai 122.634 residenti, si aggiungono in media in un giorno 26.958 turisti che alloggiano negli alberghi sul territorio, ovvero circa il 22% di persone in più. Questa maggiore presenza si traduce in una maggiore necessità di servizi. Se si considera ad esempio che nel 2000 negli 800 alberghi della capitale erano presenti circa 38.000 bagni, si può stimare che il sistema fognario del Primo Municipio dovesse servire ulteriori 24.000 bagni oltre quelli della popolazione residente, con un presumibile aumento dei costi anche per la sola ordinaria manutenzione. I dati relativi ai servizi svolti dall'Aivt' indicano un lavoro superiore nel Primo Municipio. La pulizia delle sue strade avviene nella maggior parte delle vie 2 o 5 volte alla settimana, con le zone più turistiche spazzate quotidianamente ed il Lungotevere ogni 10 giorni. Nel Settimo Municipio invece circa la metà delle strade è pulita 3 volte al mese e le restanti 2 e 4 volte alla settimana. La raccolta dei rifiuti solidi per il 2003-2004 è stata di 134.417 tonnellate, attraverso 2.854 contenitori, per il Primo Municipio e di 53.325 tonnellate, attraverso 1.881 contenitori, per il Settimo Municipio, con una differenza più che doppia in termini di volume e superiore a un terzo per attrezzature. Questo comporta perciò un utilizzo pii intenso per il centro storico di mezzi e operatori rispetto alla pulizia di un quartiere periferico, associato naturalmente a costi più elevati. L'amministrazione del centro storico, oltre ad interessare i turisti che vi soggiornano, è diretta anche a coloro che pur pernottando in altre zone della città vi si recano per ragioni legate al viaggio, essendo lì collocata la quasi totalità delle più note attrattive della capitale. I dati 17 di luglio 2006 indicano presenze pari 1.964.030 con una media giornaliera quindi di 65.468 persone. Si può ipotizzare che la maggioranza di esse trascorra almeno parte della propria giornata all'interno del Primo Municipio e quindi quelli che sono i servizi ordinari per i circa 122.634 residenti devono essere rafforzati per soddisfare la domanda proveniente dai visitatori. Tali servizi comprendono ad esempio la pubblica sicurezza, il poten:

83


ziamento delle linee di trasporto pubblico, la vigilanza nelle stazioni della metropolitana e gli interventi di pronto soccorso. Ulteriore differenza è data anche dai dieci Punti di Informazione della città, che sono ovviamente tutti all'interno del centro storico, essendo la loro attività di carattere prettamente turistico. Viste le caratteristiche del mercato turistico della capitale, e considerati i costi legati alla presenza dei visitatori nella città, si può ora provare a stimare il gettito di una imposta di soggiorno a Roma, ipotizzando differenti aliquote anche sull'impronta di alcuni dei modelli stranieri che si sono ricordati. Si utilizzeranno dati dell'EBT per le presenze ed i tassi di occupazione degli alberghi, mentre per i costi delle stanze ci si baserà sulle indicazioni dei prezzi presenti sul sito dell'Agenzia di promozione turistica del Comune di Roma, www.romaturismo.it , e sui dati di uno studio della Mkg Consulting del 2004. Il metodo parigino Il gettito raccolto a Parigi tramite l'imposta au réel e au forfait, considerando la grande consistenza della sua domanda ed offerta turistica, è relativamente basso, aggirandosi attorno ai 27 milioni di euro con i suoi oltre 1.400 hotel, 150.000 letti e più di 31 milioni di presenze. Roma, che nel 2005 contava 817 hotel, 80.000 letti e 16 milioni e mezzo di presenze, non sembra una città dove poter adottare un metodo di tassazione con aliquote così basse, poiché troppo ridotte sarebbero le risorse che si raccoglierebbero. Figura 5: Tariffe dell'imposta di soggiorno di Parigi CATEGORIA

PREZZO PERSONA/NOTTE

Hotel a 4 stelle e superiori o strutture equivalenti

1,5 euro

Hotel a 3 stelle o strutture equivalenti

1 euro

Hotel a 2 stelle, villaggi vacanza e altre strutture equivalenti

0,78 euro

Hotel a 1 stella villaggi vacanza e qualsiasi struttura equivalente

0,42 euro

Hotel classificati senza alcuna stella o qualsiasi struttura equivalente

0,2 euro

Camping e caravange

0,2 euro

84


Applicando nella capitale le tariffe del 2006 di Parigi si ottiene infatti con il sistema au rée1 nel 2005, un gettito di poco inferiore ai 20 milioni di euro, ipotizzandoperò la totale assenza di evasione ed elusione fiscale. Dalle 4 e 5 stelle si raccoglierebbero circa 12 milioni di euro (61%), dalle 3 stelle poco più di 6 milioni (31%), dalle 2 stelle 1 milione e mezzo (8%) e dalle strutture ad una stella meno di 10 mila euro (0,05%). Se si considera che la domanda e l'offerta turistica della capitale francese sono circa il doppio rispetto a quelle di Roma, la differenza di soli 7 milioni di euro nel gettito ci induce a ridurre fortemente le stime di entrata. Con il sistema auforfaitse le riduzioni applicate sulle unità di accoglienza (letti) fossero del 40% (il metodo forfettario francese prevede una riduzione delle unità di accoglienza del 40% nel calcolo dell'imposta quando l'albergo lavori per più di 105 giorni in un anno) e se il periodo di imposta fosse di 365 giorni, il gettito sarebbe nel 2005 di 21,7 milioni di euro. Le 4 e 5 stelle raccoglierebbero 14 milioni di euro (65%), le 3 stelle poco sotto i 6 milioni (28%), le 2 stelle circa 1,6 milioni (7%) e le strutture ad una stella 214 mila euro circa (0,6%). Questo sistema garantirebbe probabilmente fenomeni di evasione più contenuti perché "l'inventano" dei letti di albergo è periodicamente monitorato dall'EBT.

Il metodo di New York New York si distingue da Parigi per avere sia una componente fissa dell'imposta sia una variabile in funzione della spesa sostenuta per il pernottamento. Non avendo dei dati ufficiali sui prezzi degli alberghi, ci si baserà su uno studio del 2004 della Mkg Consulting (che però non considera le strutture ad 1 e 5 stelle) e sui costi orientativi delle camere singole e doppie negli alberghi a 5 stelle indicati dall'Agenzia Èuristica del Comune di Roma. Rispetto a questi ultimi, non potendo conoscere la distribuzione per tipologia di camera, si sono considerate due ipotesi: - tutte le stanze nei 5 stelle sono delle singole - tutte le stanze nei 5 stelle sono delle doppie. I prezzi ottenuti sono stati rispettivamente di 424 e 768 euro e consentono di avere degli estremi all'interno dei quali far oscillare la stima. Per ambedue le fonti si ipotizza che le stanze, ove non si tratti di singole, ospitino due persone, con una valutazione che non sarà perciò molto accurata, non prevedendo le famiglie con tre o più componenti. È importante sottolineare infine che i dati si riferiscono ad anni diversi che però, rientrando nello stesso biennio, sono sufficientemente confrontabili. Il modello di New York prevede una quota fissa compresa tra i 50 centesimi e i 2 dollari, in base al prezzo per persona a notte, più una quota del 5% sul costo a persona della stanza. Le spese stimate per il pernottamento sono: - di 424 (singola) e 384 (doppia) euro a persona per le 5 stelle 85


- di 185 euro a persona per le 4 stelle - 106 euro a persona per le 3 stelle - 74 euro a persona per le due stelle Sostituendo le cifre in dollari con cifre in euro per la parte fissa, il gettito totale si dovrebbe aggirare, con i dati del 2005, tra i 158,3 e i 160,8 milioni di euro. Per la parte dell'imposta con aliquota percentuale dalle 5 stelle si otterrebbero tra i 26 e 23,5 milioni di euro (20%), dalle 4 stelle oltre 63 milioni (49%), dalle 3 stelle circa 32 milioni (25%) e dalle 2 stelle 7,2 milioni di euro (6%). Per la parte fissa le 5 stelle raccoglierebbero 2,45 milioni di euro (8%), le 4 stelle 13,66 milioni (42%), le 3 stelle 12,14 milioni (38%) e le 2 stelle 3,9 milioni di euro (12%). Ad un gettito più consistente rispetto al modello francese, corrisponde ovviamente una pressione fiscale estremamente più elevata. Se si considera poi che l'Iva sugli alberghi in Italia è al 10%, un'imposta di questo tipo farebbe salire la pressione fiscale sul settore di ulteriori 5 punti percentuali, portando l'aliquota complessiva al 15% con probabili effetti non trascurabili sulla competitività. Il modello di New York verrà ripreso in seguito per simulare un'imposta sulle stanze di lusso sulla base di quella applicata nella città americana nel 1990.

Il metodo della correlazione tra stelle ed imposta ordinario Un altro metodo che si può utilizzare, ispirandosi alla capacità contributiva del turista, è quello di determinare l'imposta in base alla categoria dell'hotel. In particolare si considererà che ad ogni stella dell'alloggio corrisponda un euro di imposta. Il gettito che si ottiene in questo modo al 2005 è di 56 milioni di euro, con le 5 stelle che raccoglierebbero 6 milioni di euro (11%), le 4 stelle 27,3 milioni (48%), le 3 stelle 18,2 milioni (33%), le 2 stelle 3,9 milioni (7%) e le strutture ad una stella 496 mila euro (1%). Il metodo è molto affine quello dell'imposta francese, ma ovviamente, con aliquote più elevate, consente di ottenere un gettito superiore. È interessante vedere quale sia il peso di questa imposta sulla spesa sostenuta per l'alloggio, al fine di evidenziare su quale tipologia di turista essa gravi maggiormente in termini relativi. Riferendosi i dati al costo della stanza, si ripete anche in questo caso l'ipotesi che ogni alloggio ospiti due persone. Il peso relativo ad ogni categoria è di seguito sintetizzato: - 5 stelle singola: 5 euro su 424 euro, pari all' 1,18% - 5 stelle doppia: 5 euro su 384 euro, pari all' 1,3 % —4 stelle: 4 euro su 185 euro, pari al 2,16% - 3 stelle: 3 euro su 106 euro, pari al 2,83% - 2 stelle: 2 euro su 74 euro, pari al 2,7% Si può notare che i prezzi per categoria crescono più che proporzionalmente rispetto all'imposta, con la conseguenza che sulle strutture di tipo medio/basso il tributo esercita una pressione relativa maggiore. Questa osservazione implica una questione di equità che verrà in seguito analizzata, proponendo un altro schema impositivo in grado di rendere più omogeneo il peso del tributo rispetto alle differenti categorie di albergo. 86


Il metodo della correlazione tra stelle ed imposta foifettario La gestione dell'imposta può avvenire anche con soluzioni' forfettarie, su ispirazione del modello francese e svizzero. Si considera come base imponibile la capacità di accoglienza della struttura, con delle riduzioni che consentono di avvicinare il tasso di occupazione delle unità stimato a quello reale. L'inventano delle strutture ricettive al 2005 contava 817 hotel e 80.908 letti, con un tasso di occupazione del 56,54% (dato riferito ai letti). Adottando un tasso presunto di occupazione del 50% il gettito che si ottiene, sempre applicando un euro di tassa per ogni stella e considerando il periodo di imposta di 365 giorni, è, nel 2005, di 50,7 milioni di euro. Le 5 stelle raccoglierebbero 6 milioni di euro (12%), le 4 stelle 26,2 milioni (51%), le 3 stelle 14,8 milioni (29%), le 2 stelle 3,3 milioni (7%) e le strutture a una stella 424 mila euro (1%) Confrontando il gettito ottenuto con quello del metodo basato sulle presenze reali si vede che non sussistono grandi differenze. La categoria che maggiormente si avvantaggerebbe sarebbe quella a 3 stelle, con una pressione fiscale più bassa di 3,4 milioni di euro.

L'imposta aggiuntiva sugli alberghi di lusso Il peso relativo dell'imposta sul costo della stanza ottenuto dal metodo della correlazione ordinario e l'appètibilità di un aumento del gettito sono motivazioni a sostegno di una imposta che incida maggiormente sugli alberghi di fascia alta, come avvenuto a New York nel 1990. Mantenendo le caratteristiche del metodo della correlazione ordinario si aggiunge una aliquota del 3% esclusivamente sugli alberghi a 5 stelle. Anche in questo caso si stima il costo delle stanze distinguendo tra singole a 424 euro e doppie a 384 euro a persona. Il gettito addizionale che si otterrebbe oscilla tra i 15,6 milioni di euro ed i 14,14 milioni di euro, per un gettito complessivo di circa 71,6/70 milioni di euro. L'imposta a persona sarebbe compresa tra i 17,7 euro e i 16,5 euro, con una pressione fiscale sulle 5 stelle intorno al 4% (in riferimento alla sola imposta di soggiorno). Un'alternativa potrebbe essere quella di mantenere sugli alberghi di lusso solo l'imposta al 3%, in modo da rendere inferiore la differenza con le altre categorie. Le entrate complessive sarebbero di 65,4/64 milioni di euro nel 2005. Una soluzione di questo tipo consentirebbe inoltre di aumentare il gettito senza avere significative ripercussioni sulla domanda, grazie alla inferiore elasticità del turismo di lusso. L'esperienza di New York ha mostrato infatti la sostanziale indifferenza alle variazioni di prezzo (sempre all'interno di incrementi/decrementi contenuti) di chi soggiorna in strutture dal costo molto elevato.

Effetti dell'imposta sulla spesa e sulle presenze turistiche Si possono stimare gli effetti dell'imposta di soggiorno sulla spesa totale e sulle presenze dei turisti, provando a ipotizzare tre diverse elasticità della domanda rispetto al prezzo. Si ricordi che l'elasticità della domanda turistica 18 è pari a: 87


O metodo francese ordinario

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140

120

• metodo francese forfetarlo

100

Ometodo di nyc

80 O metodo della correlazione stelle Imposta ordinario

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40

•método della correlazione stelle imposta forfetarlo

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Gettito in milioni di euro

O imposta sugli hotel di iusso(gettio aggluntivo)

Grafico riassuntivo dei gettiti in base ai diversi metodi

dove P1 in questo caso indica gli arrivi e Vi il costo del paniere dei beni e servizi utilizzati dai turisti durante il loro soggiorno. La spesa invece varia al variare del prezzo del paniere V secondo la formula:

S/V=P(1—ci) Gli arrivi negli alberghi a Roma nel 2004 sono stati 6.299.218, con una permanenza media di 2,4 giorni. Le variazioni di prezzo che si considereranno sono quelle determinate dal tributo con il metodo delLa correlazione tra stelle ed imposta ordinario. L'imposta media giornaliera, in base alle presenze per categoria di albergo, è di 3,32 euro, che moltiplicata per la permanenza media dà una quota totale di 8 euro su un costo complessivo medio per il viaggio di 557 euro' 9 . La variazione percentuale determinata dal tributo sarà perciò dell'1,436%: V/V=0,01436 Il primo caso considerato è quello di domanda inelastica ed in particolare E1 = 05. Con questa elasticità gli arrivi si riducono dello 0,718%, con un effetto negativo sul getto di 362 mila euro. La spesa aumenta invece di 25,19 milioni di euro. Se l'elasticità è molto elevata, ed in particolare ; = 1,8, le presenze si riducono del 2,6%, con un effetto negativo sul getto di 1,3 milioni di euro e con la spesa che si contrae in termini assoluti di 40,31 milioni di euro. . Se l'elasticità è molto vicina all'unità, ed in particolare; = 1,1, le presenze si riduco88


no dell'1,6% con un effetto negativo sul getto di 796 mila euro e con la spesa che si contrae in valore assoluto di 5,04 milioni di euro. Se ci = 0,9 le presenze si riducono dell'i ,3% con un effetto negativo sul getto di 651 mila euro e la spesa aumenta in termini assoluti di 5,04 milioni di euro. In tutti e tre i casi, corrispondendo al metodo della correlazione tra stelle ed imposta ordinario un gettito per il 2004 di 51,19 milioni di euro, si ha un beneficio netto rispetto alla variazione della spesa, che risulta più o meno elevato a seconda dell'elasticità della curva di domanda. L'introduzione dell'imposta, aumentando le entrate dello Stato, è in grado perciò di bilanciare la minor spesa generata dalla riduzione degli arrivi. Per il 2005, non conoscendo la spesa per il viaggio dei turisti di questo anno, si possono solo stimare le variazioni della spesa e confrontarle con il gettito, che attraverso il metodo della correlazione tra stelle ed imposta ordinario sarebbe di 56 milioni di euro. In base alle differenti elasticità la spesa varia nel seguente modo: Con ci = 0,5 (domanda inelastica) la spesa aumenta di 27,15 milioni di euro. Con = 1,8 (domanda molto elastica) la spesa si riduce di 43,45 milioni di euro. Con = 1,1 (elasticità unitaria) la spesa si riduce di 5,43 milioni di euro. Con £i,r = 0,9 (elasticità unitaria) la spesa aumenta di 5,43 milioni di euro. Anche in questo caso, il confronto tra gettito dell'imposta e perdita in termini di spesa totale è positivo, presentando valori molto interessanti soprattutto nel caso di domanda con elasticità pressoché unitaria, dove i benefici netti oscillano tra i 50 e i 60 milioni di euro annui. 'TREMONTI G., VITALETrI G., ilfederalismofiscale: autonomia municipale e solidarietà sociale, Mondadori, Milano 1995. 2 Di MAJO A., Lezioni di scienza delle finanze, ECIG, Genova 2003. 3 RAPALLINI C., LusIGN0LI L., Di MAJ0 A., Autonomia Tributaria e federalismo fiscale, Quaderni Formez n. 39, 2005. "Di MAJO A.,' Lezioni di scienza delle finanze, EcIG, Genova 2003. 5 Buc »ii J., MUSGRAVE R., Public finance andpublic choice: two contrasting vision of the State, MIT Press, Cambridge, Mass 1965. 6 LORENZINI S., Impatto del turismo sulla finanza locale toscana, Irpet n. 5, aprile 2004. 7 LEONARDO PERRONE, audizione alla Camera del 16/3/2005. 8 Economia pubblica, n.5/2004, pp 6-39. Stabilito dal "Bollettino ufficiale delle imposte 3B-1-94". iO Per unit in un hotel si intende una stanza o una suite.

Per approfondimenti si veda art 30 della Legge sul Turismo. 12 COMBS ED ELLEDGE, Effects of a Room Tax on Resort Hotels/Motels in «National Tax Journal», VoI. 32 (1979) pp. 201-207. 13 Fujii, }(HALED e MARK, The exportability of Hotel Occupancy and other tourist taxes, in «National Tax Journal», VoI. 38 (1985) pp. 169-177. 14 Fuju, IM e MARK, The impact of the Hotel Room Tax: an interrupted time series approach, in «National Tax Journal» Voi. 45(1992) pp. 433441. 15 IBO, Reductions in the City's Hotel Occupancy Thx Rate: The Jmpact on Revenues, in www.ibo.nye.ny.usliboreports/pubtaxl.htmi. 16 J dati relativi alle strutture alberghiere e alle presenze turistiche si riferiscono all'anno 2004. 17 Fonte dei dati: EBT. 18 CANDELA G., Manuale di Economia del Turismo, CLUEB, Bologna 1996. 19 Fonte: "Rapporto 2005 sul turismo Roma", Roma 2005, 89



queste istituzioni n 1461147 estate autunno 2007

SSRC:

dossier

ottantacinque anni di scienze sociali

I rapporti tra il Consiglio italiano per le Scienze Sociali e il Social Science Research Council risalgono alle origini del Css, anzi in verità aiprolegomeni, dal momento che l'SsRcJi tra gli ispiratori e pro.motori del Comitato per le Scienze Politiche e Sociali (Co. S.Po. S.), che operò dal 1966 al 1973 con il contributo, fra gli altri, di Norberto Bobbio, Franco Modigliani e Manlio Rossi Doria. Da questa esperienza prese le mosse, nel 1973, il Css. Come racconta - con dovizia di particolari ed interessanti aneddoti in grado di rendere l'atmosfera del tempo - Alessandro Si'j, Segretario generale del Css, nel volume Scienze sociali e società italiana. L'esperienza del Consiglio italiano per le Scienze Sociali (Marsilio, 2006): 'Il Cosos nacque da una convenzione della durata di tre anni, in seguito rinnovata per altri tre, e quindi durata in tutto sei anni, tra la Fondazione Adriano Olivetti, che aveva sede a Roma, di cui era segretario generale il dottor Massimo Fichera, e la Ford Foundation a New York, sotto l'egida del Social Science Research Council, il cui presidente era il professor Pendleton Herring. Entrambe le fondazioni erano interessate, se pur per diverse ragioni, ad accelerare il progresso e ad elevare il livello nel nostro paese delle scienze sociali, di cui gli Stati Uniti erano da noi considerati il modello ideale, mentre noi stessi ci consideravamo dei principianti da erudire e da avviare sulla buona strada". 91


Un modello, quindi, se non altro perché aveva una già lunga storia da raccontare, essendo l'SsRc nato nel 1923. Ma soprattutto perché era ed è il risultato sorprendente di una scelta determinata e volontaristica, da parte di un gruppo di scienziati sociali, di rompere la condizione di splendid isolation - che non rfi4geva più tanto, considerate le condizioni politiche e sociali in cui versava la società— in cui le scienze sociali avevano continuato a vivere, ognuna confinata entro l'area della singola disciplina di appartenenza. L'urgenza era data dalla crescente domanda di riflessione, approcci e soluzioni creative ed innovative ai problemi critici di rilevanza sociale. Attorno ai quali l'SsRc è riuscito a mobilitare ricercatori, policy makers, professionisti, attivisti ed altri esperti del settore pubblico e privato. Il Css continua quindi a seguire le attività deII'SSRC, a partire da un tema topico, quello dell'interdisczlinarietà, sul quale abbiamo pubblicato l'intervento di Diana Rboten, "La sfida interdiscz,ilinare" (queste istituzioni, n. 133-13412004, pp. 2936). In questo numero, proponiamo una serie di cinque contributi pubblicati dalla' rivista dell'SSRc, Items, sull'esperienza delle scienze sociali americane, che nel 2008 conterà ottantacinque anni. Dei primi settantacinque anni si parla negli articoli di Kenneth Prewit't e di Paul B. Baltes. Quest'ultimo rivendica la tenera età dell'SsRc in quanto istituzione e "vettore primario di costruzione della condizione umana e delle sue dinamiche di continuità e cambiamento ' le cui potenti leve sono, in sintesi, la ricerca pura ed applicata, la metodologia interdisczplinare e l'internazionalità. Un'associazione di frontiera, insomma. Che spinge costantemente oltre i confini delle disczpline, delle scuole e delle correnti di pensiero, della riflessione teorica pura. Ed oggi, oltre i confini degli Stati-nazione. E lofa perché è un'istituzione che si mantiene in linea con il tempo nekquale vive. Come spiega Helga Nowot-ny nel suo contributo sulla sfida che la globalizzazione pone alle scienze sociali sul piano cognitivo ed epi stemologico in primo luogo. Ed in relazione all'orientamento alproblem solving di cui parla Yasmine Ergas, a proposito delle politiche per la sicurezza sociale che l'SsRc promuove e contribuisce a mettere a punto. Una storia da cui (ri-)partire, in occasione dei trentacinque anni del Consiglio italiano per le Scienze Sociali.

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istituzioni

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Il Social Science Research Council: "75 years young" di Paul B. Baltes

ultima volta che il Social Science Research Council ha festeggiato un anniversario è stato venticinque anni fa, in occasione del suo cinquantesimo compleanno. I compleanni delle istituzioni sono diversi da quelli delle persone, e la differenza ha una valenza non trascurabile. Oltrepassati i trent'anni, le persone iniziano a desiderare con forza crescente il ritorno alla giovinezza. Per di più, la vita delle persone è caratterizzata dalla finitezza, ed i casi di straordinaria longevità sono, per l'appunto, rubricati tra le eccezioni. Un vecchio aneddoto esemplifica la questione. Circa 250 anni fa, Bernard de Fontenelle (1657-1757) era segretario permanente dell'Académie franaise. Un giorno, Fontenelle - che visse fino all'età di 99 anni - era in Accademia, seduto vicino ad un collega più giovane, di soli 89 anni. Questo amico chiese preoccupato a Fontenelle: "Secondo te, perché ci è concesso di invecchiare così a lungo? Forse ché l'Altissimo ci ha dimenticati? Dio non sa che siamo ancora in giro?". Fontenelle, noto per il suo cinismo e la sua saggezza pragmatica, bisbigliò: "Shhh, shhh, caro collega, non così ad alta voce!". Non così per le istituzioni. La vita delle istituzioni in un certo senso non ha vincoli di tempo; perciò le istituzioni possono farsi sentire forte e chiaro nei luoghi in cui la loro età è considerata con rispetto. Più vecchie sono, meglio è, dal momento che una più lunga tradizione è fattore di prestigio, di buona salute e di influenza. Le istituzioni si reggono sulle spalle di molti individui, e molti sono quelli alla cui attenzione esse si pongono, di generazione in generazione. Le istituzioni hanno potenzialmente il dono dell'eternità. Il Social Science Research Council (SsRc) è quindi giovane, a soli settantacinque anni.

Lautore è psicologo presso il Max Planck Institute for Human Deuelopment di Berlino ed è membro del Board of directors del SSRC. 93


Il fatto che le istituzioni possano vivere più a lungo degli uomini spiega le ragioni del potere che i domini del "sociale" e del "culturale" esercitano sull'individuo. Subito dopo il genoma, le istituzioni sono il vettore primario di costruzione della condizione umana e delle sue dinamiche di continuità e cambiamento. Avere consapevolezza della portata dello schema "sociale-culturale-istituzionale" è una condizione non comune, ad esempio, in psicologia. Si tratta di un'abilità che l'esperienza all'interno del SSRC contribuisce ampiamente a sviluppare, grazie alla sua vocazione all'interdisciplinarità che consente ai ricercatori di andare oltre il paradigma del singolo individuo (dove invece si ferma la scienza behaviorista mainstream). RICERCA PURA, APPLICATA E COMPARATIVA

In primo luogo, i fondaiori del Consiglio decisero di collocare l'associazione direttamente nel punto di intersezione tra scienza, società e riforme sociali. Operativamente, ci sono diversi modi di leggere ed interpretare questa impostazione originaria. Uno è che il Consiglio, sin dal suo avvio, è stato e resta impegnato nell'opera di coniugare ricerca pura e ricerca applicata o action research all'interno del lavoro delle scienze sociali. Insieme a questa enfasi, poi, c'è una funzione importante, ovvero incoraggiare la comunicazione tra scienze sociali e settori pubblici e privati. Con questo spirito, il Consiglio ha in più occasioni rappresentato il punto ed il luogo di incontro tra soggetti, volontà e gruppi di interesse dissimili, i quali partendo da differenti prospettive e punti di vista - aspirano tutti a migliorare la società. Capita, allora, che il Consiglio sia spinto e tirato in direzioni diverse ed opposte a seconda dei trend più in voga nel mondo accademico ed in quello politico (la cui agenda è continuamente aggiornata), nonché nell'ambito delle altre'istituzioni attive nel campo dell'analisi e delle riforme sociali. Non è agevolé soddisfare queste esigenze - spesso tanto discordi se non incompatibili - e, allo stesso tempo, mantenere l'assetto coerente del proprio programma di avanzamento delle scienze sociali e di promozione dell'interesse collettivo. Ecco perché è fondamentale per il Consiglio ricevere il sostegno delle altre istituzioni, dei sostenitori e degli stakeholder coinvolti. Supporto, questo, che deve garantire al Consiglio le necessarie risorse economiche, senza però distoglierlo dall'impegno in favore dello sviluppo delle scienze sociali e delle sue aree. Solo continùan94


do ad attrarre i migliori ricercatori, il Consiglio sarà in grado di raggiungere il suo obiettivo: esplorare i modi in cui la conoscenza basata sulle scienze sociali può essere applicata al servizio dei problemi di interesse comune. INNOVAZIONE METODOLOGICA E TEORICA

Nel corso della sua storia, il Consiglio ha aggiunto un secondo elemento distintivo al proprio profilo, assumendo un ruolo di frontiera nel campo della sperimentazione e messa a punto di proposte metodologiche e teoriche da applicare alle scienze sociali. Infatti, la performance del Consiglio in questo ambito è eccellente, coprendo molti, disparati topic il ruolo della matematica nelle scienze sociali; i metodi di ricerca per sondaggio; i metodi di analisi qualitativa ed interpretativa/ermeneutica; gli indicatori sociali ed il ruolo dell'etica nel progettare e condurre una ricerca; e così via. Giunto al traguardo dei settantacinque anni, il Consiglio deve continuare ad impegnarsi per mantenere il proprio primato nella funzione di edificazione dell'impiantò teorico e metodologico delle scienze sociali. Al momento, per esempio, il Consiglio si sta applicando ad affrontare la sfida posta dalle nuove tecnologie nelle aree della genetica e delle neuroscienze. È giunto il momento che le scienze sociali siano consapevoli piii e meglio - delle chance che una stretta collaborazione con le neuroscienze è in grado di offrire, al fine di dischiudere nuovi orizzonti nella comprensione di temi quali: corso della vita, invecchiamento, genere, classi sociali, formazione ed istruzione. Così anche in area di genetica e nuove tecnologie, in cui capita che le scienze sociali tendano ad assumere un ruolo di sostanziale passività, in parte giustificata dal fatto che, rispetto ad altre nazioni, la discussione sviluppata in America sui temi dell'interfaccia "menoma-comportamenti-società" è completamente bloccata entro discorsi sulla razza Nondimeno, la sfida metodologica e teorica del Consiglio non si limita all'intreccio tra scienze sociali e scienze della vita. Coinvolge approcci metodologici e teorici apparentemente opposti all'interno delle stesse scienze sociali. Si pensi alle dinamiche negative che ruotano attorno alla discussione attuale tra 'ermeneutica e decostruttivismo ( ... ). Viste le varie congiunture, il Consiglio deve poter' svolgere un utile ruolo di ricomposizione tra discipline. La sua lunga tradizione, infatti, ne fa il soggetto miglio95


re per evitare l'isolamento e la bias che caratterizzano ciascuna disciplina presa singolarmente. Ad esempio, la biologia: il discorso tra scienze sociali e scienze biologiche è assai dialettico, ponendo alle prime una sfida di non poco conto. I biologi sono spesso poco equipaggiati ad affrontare e misurare gli aspetti culturali e sociali, ed hanno bisogno di ricorrere all'expertise degli scienziati sociali per misurare i comportamenti, identificare i metodi di quantificazione del contesto micro e macro nel quale gli uomini vivono. Sono queste alcune opportunità attraverso le quali il Consiglio cerca di ritagliarsi un ruolo e di farsi conoscere quale una delle principali istituzioni responsabilmente attive - sul fronte teorico e pratico - nel campo delle scienze sociali. INTERDISCIPLINARITÀ

Il terzo caposaldo del profilo dell'SsRc - sul piano storico forse quello fondativo - è l'interdisciplinarità. Si tenga presente che l'assettò attuale del Consiglio è stato costruito attraverso la collaborazione tra sette organizzazioni scientifiche. Nel dare vita al Consiglio, queste organizzazioni hanno riconosciuto la debolezza intrinseca della struttura tradizionale ed istituzionale delle scienze e della ricerca; struttura che favorisce la disciplinarità. Quest'ultima, tuttavia, non riflette l'assetto e l'organizzazione del mondo reale. Questa consapevolezza originaria del Consiglio è stata assai feconda. L'esperienza nel Consiglio ha tracciato nuove vie, aprendo. gli occhi dei ricercatori su modi alternativi di leggere la realtà, avvicinandoli ad approcci differenti allo studio dei comportamenti e della società, quali quelli della sociologia, dell'antropologia, dell'economia, della storia, delle scienze politiche. Il valore aggiunto che quindi è in grado di offrire il Consiglio è di enorme rilevanza: per gli individui, per le discipline, per le istituzioni di eccellenza. Le università, ad esempio, beneficiano del dibattito e del training interdisciplinare sviluppato dal Consiglio, poiché possono condurre ad unità esperienze sviluppate in campi di ricerca che, nelle stesse università, sono solitamente non comunicanti. Il principio è mettere in relazione le discipline, creando reti di studiosi che a casa propria sono specialisti di una sola particolare disciplina. Due sono le direzioni di questo sforzo: stabilire un collegamento con le scienze umane e gettare un ponte verso le scienze comportamentali. Sforzo, questo, che deve esercitarsi a tutti i livelli della formazione e del96


le pratiche, pre e post laurea, per arrivare all'aggiornamento dei vertici e dei decani della comunità accademica. INTERNAZIONALITÀ

Il quarto punto fermo dell'architettura del Consiglio è l'internazionalità. La comunità degli scienziati americani è poco informata sui lavoro che viene svolto al di fuori degli Stati Uniti, ignorando spesso anche quello che avviene in Europa. Sin dagli esordi, l'SsRc si è impegnato al fine di colmare questa lacuna, portando negli Stati Uniti gli studi migliori condotti nel campo delle scienze sociali dalle altre nazioni. Allo stesso tempo, il Consiglio ha avuto una parte rilevante nell'incoraggiare lo sviluppo delle scienze sociali in altri Paesi. Come dimostrano i programmi internazionali di ricerca e le analisi comparative tra Paesi. All'inizio, si trattava di un'area di studio a sé, la "Foreign Area Trading and Research", che ha coinvolto centinaia se non migliaia di giovani studiosi e ricercatori, nel settore pubblico e privato, sollecitandoli a guardare alle altrui esperienze. Recentemente, si è aperta una riflessione su questo slancio verso l'internazionalità. Ci si è interrogati se il Consiglio faccia ancoraabbastanza, alla luce della riformulazione delle aree di studio che sembra aver compresso tale vocazione. In realtà, così non è. La storia è differente: nella sua tradizione, il Consiglio ha sempre cercato di innovare le scienze sociali e mettere alla prova la propria capacità di adattamento, per dirla come gli scienziati dell'evoluzione. L'interesse a monte è fare buon uso dell'internazionalità a vantaggio dell'interesse comune, della ricerca in ambito specialistico, ma anche delle discipline in genere, per l'avanzamento delle scienze sociali. L'internazionalità ha via via assunto nuove forme e significati, acquistando rilevanza non solo agli occhi di quanti sono interessati a conoscere specifiche culture e luoghi, ma anche agli occhi di tutte le altre discipline. E un modo di vivere. Con questo spirito, il Consiglio non intende abolire la propria area di studi internazionali, ma - al contrario - arricchirla e potenziarla, promuovendo la dimensione internazionale in tutte le aree della ricerca ( ... ). Il Consiglio è fondamentalmente un'impresa collettiva. Fatta dagli uomini per gli uomini. Il migliore intervento dall'alto che il Consiglio può volere è la passione, il sostegno, l'impegno e la cooperazione da parte de97


gli altri partner istituzionali, i quali potranno poi restare suilo sfondo, invisibili come desiderano. Diversamente da Bernard de Fontenelle, il Consiglio chiede a dio di non dimenticarsi di esso, affinché l'SsRc possa continuare a vivere, facendo affidamento sul sostegno del proprio pubblico al fine di contribuire a cambiare il mondo. L'assetto generale del Consiglio resterà immutato; è sulle metodologie e sui temi che di dovrà impostare una riflessione in grado di anticipare le prospettive future.

* Questo e l'articolo che segue sono stati pubblicati Item.s Social Science Research Counci1 Volume 52, number 4, December 1998.

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istituzioni

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estate-autunno

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Il Social Science Research Council: pIusàchange di Kenton W Worcester

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SSRC è stata una delle organizzazioni professionali fondate tra le due guerre con lo scopo di stimolare la ricerca e promuovere ~ nuove forme di conoscenza 1 . Nei primi mesi del 1923, un piccologruppo di scienziati sociali provenienti dall'American Political Science Association, dall'American Sociologica1 Society, dall'American Economic Association e daJl'American Historical Association, si incontrarono informalmente per valutare i modi attraverso cui assistere i propri studiosi e ricercatori nella ricerca di fondi finalizzati a "field work and other special research", ad "inquiries of a fundamental nature", alla "publication of results of scientific research of a type that do not possess immediate commercial value". Nonché, al fine di far conoscere ed apprezzare il valore delle scienze sociali "to the appropriate university authorities and to the general public" 2 . A questo primo gruppo si unirono presto alcuni rappresentanti dell'American Statistics Association, dell'American Psychological As sociation e dell'American Anthropo/ogical Associatiòn. Gli iniziali accòrdi informali presto non furono pii sufficienti; così, alla fine del 1924, il Consiglio fu registrato (per ragioni di convenienza, nello Stato dell'Illinois). Il carattere distintivo del Consiglio fu da subito il sùo focus esclusivo sull"avanzamento delle scienze sociali" 3 . I fondatori dell'SSRC tra i quali lo scienziato politico Charles E. Merriam dell'Università di Chicago; l'economista Wesley Clair Mitchell, direttore della ricerca presso il National Bureau ofEconomic Research (NBER); lo psicologo Beardsley Rumi, direttore del Laura Spelman Rockefeller Memorial (Lsiìvt) si raffiguravano un'organizzazione la cui priorità d'azione sarebbe stata il miglioramento della qualità e dell'infrastruttura della conoscenza. Il fine non era elaborare e proporre nuove misure giuridico-normative (o comunque diversa-

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L'autore è direttore dell'International Dissertation Field Research Fellowship Program. Lavora nel campo della storia presso il Social Research Council daI 1973.

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mente migliorative) in favore delle scienze, né rappresentare gli interessi di ciascuna disciplina o indirizzo singolarmente presi. Merriam sperava piuttosto che il Consiglio potesse diventare una "more adeguate organization of our technical research, and its coordination with other and closely at lied fields of inquiry" 4 Era stato ormai stabilito che le Commissioni all'interno del Consiglio avrebbero dovuto occuparsi di "planning exercise", o quello che poi divenne noto come research plannlng , pianificazione della ricerca. La formazione degli studiosi avrebbe quindi reso i singoli ricercatori in grado di portare avanti autonomamente i propri progetti di ricerca; mentre le commissioni avrebbero guidato e stimolato la ricerca in una determinata area, senza farsene direttamente ed operativamente carico. Secondo tale disegno, i processi di pianificazione della ricerca erano lo strumento attraverso cui le Commissioni avrebbero valutato i temi di studio, deciso come mobilitare le risorse, identificando gli ostacoli e mettendo a punto strategie efficaci per la ricerca. Le Commissioni, in altre parole, acquisivano lo status di leader intellettuali e programmatici. Nell'ambito del completamento di un singolo programma di pianificazione della ricerca, quindi, il Consiglio poteva integrare - invece di competere con - i lavori condotti nell'ambito della ricerca universitaria e delle discipline accademiche. Riuscendo a mettere in comunicazione i diversi studiosi, il Consiglio ritagliava per se stesso un ruolo assai differente da quello svolto dalle università e dai college, dalle discipline e dai dipartimenti, nonché dai think-tank per le politiche pubbliche. Area franca, al di fuori dell'andirivieni dei campus universitari, l'SsRc era in grado di offrire ai suoi membri una tregua dal coinvolgimento continuo con studenti, colleghi, decani, contribuenti, legislatori. I membri delle Commissioni venivano incoraggiati ad approfondire il proprio oggetto di studio senza badare a confini disciplinari, polemiche interne, interessi acquisiti. Nel tempo, gli studiosi del Consiglio si sono abituati a pensare a se stessi quale parte di un College invisibile, dove operano sinergicamente ricercatori e pianificatori della ricerca. La membership ha acquisito così il carattere di uno status professionale elevato; come prima istituzione nazionale per le scienze sociali nel mondo, il Consiglio ha definito un chiaro ruolo per i singoli scienziati sociali e, allo stesso tempo, si è battuto per accrescere l'autorità delle scienze sociali. Quattro aspetti del concetto originario che è alla base del Consiglio meritano una particolare enfasi. Primo, la sua organizzazione parte dall'as.

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sunto che le scienze sociali sono un'impresa collettiva che richiede la combinazione di molteplici punti di vista. Un'operazione intrinsecamente interdisciplinare 5 . Invece che alla promessa di sviluppare una riflessione onnicomprensiva e adatta a tutti gli scopi, il Consiglio ha affidato la sua missione alla costituzione di una piattaforma di incontro per gli studiosi appartenenti a diverse tradizioni, nello spirito di una costante fertilizzazione intellettuale, di tipo trasversale, orientata al pro biem solving. Secondo, il Consiglio è anche un organismo intermedio, posto all'interno di una fitta rete di relazioni che collega associazioni disciplinari, centri di ricerca, agenzie governative, fondazioni private, apparati internazionali ed altre organizzazioni attive nell'ambito della produzione della conoscenza. I legami con le fondazioni che supportano la ricerca sono tra i più importanti. Le fondazioni, infatti, erogano i fondi indispensabili alla ricerca, ma sono anche lo strumento attraverso il quale il Consiglio agisce da intermediario tra ricercatori e finanziatori della ricerca. Si tratta di un ruolo fondamentale, se si pensa che all'inizio il governo federale non era preparato a svolgere una funzione simile, attraverso la costituzione di un'agenzia centrale per il finanziamento delle scienze sociali. Le relazioni "interscientifiche" sono altrettanto importanti ( ... ). Il Consiglio ha sempre prestato attenzione a non trasformarsi in una lobby delle scienze sociali a livello federale, mentre ha da sempre accolto le sfide epocali, tra cui la costituzione della National Science Foundation nel 1950. Terzo, al fine di trarre utilità dai cambiamenti che si verificano nelle condizioni sociali e nei metodi di indagine, il Consiglio è stato disegnato come un'organizzazione quanto più elastica possibile. Anche agli esordi, le sue Commissioni di pianificazione della ricerca avevano il compito di stilare progetti delimitati nel tempo (cinque o sei anni). Così avveniva anche per i progetti dei ricercatori, i quali erano autorizzati a continuare una stessa ricerca solo a fronte di una dimostrata attualità e rilevanza del topic. La regola della flessibilità ha favorito la nascita di nuove Commissioni, sotto-Commissioni e Gruppi di lavoro, talvolta coinvolgendo alcuni studiosi in più di una ricerca; oppure, quando necessario, è stato incoraggiato un flusso di ricercatori da una Commissione all'altra, facendoli poi tornare ai temi originari, o indirizzandoli verso nuovi Gruppi di studio, o inserendoli negli organi di governo del Consiglio. Quarto ed ultimo punto; il Consiglio fu concepito come spazio ideale per la ricerca al fine di porre le basi di un approccio più razionale alla gestione dei problemi della società. In parte, questa era una questione atti101


nente al policy making; ma, più in generale, il Consiglio ha insistito sul valore pragmatico delle scienze sociali. Dal punto di vista di Merriam e dei suoi "capitains of intellect" 6 le scienze sociali avevano il dovere di applicarsi ed indirizzarsi ai problemi del mondo reale, prediligendo un'impostazione più empirica, attenta ai dati. Le scienze sociali, secondo Merriam, avrebbero potuto diventare più "scientifiche" solo attraverso la valutazione di teorie ed ipotesi in relazione ai reali problemi della società: "Quello che l'SsRc intende fare - affermava David Featherman - è usare i problemi sociali attuali come un laboratorio per la ricerca. Il laboratorio in questione fornirà il terreno di prova alle teorie ed alle ipotesi; così facendo, genererà nuova conoscenza sulle caratteristiche proprie del comportamento umano e delle istituzioni sociali. La conoscenza scientifica così prodotta sarà la base - evidenza e legittimazione - di un policy making informato" 7 Ciascuna di queste premesse (interdisciplinarità, relazioni interscientifiche, flessibilità istituzionale, avanzamento scientifico nell'interesse della società) riflette la sensibilità progressista deweyana che caratterizzava il nucleo compatto di accademici e filantropi che crearono l'SSRc. Questi uomini cercarono di perfezionare la costruzione della conoscenza nell'ambito delle scienze sociali, ponendo fine ai danni di certi diffusi approcci parascientifici. Tutti insieme, i principi di organizzazione del Consiglio pongono le basi di una nuova tipologia di istituzione che fonda la sua legittimità sulla vitalità delle reti e dei programmi che ha creato, così come su tutti i suoi prodotti. Talvolta la natura apparentemente indiretta dell'impegno del SSRC per le scienze sociali desta qualche perpiessità negli esterni; non così per gli interni, i quali ne comprendono appieno i1 senso e la portata, essendo parte di un gruppo di studiosi che si pongono a monte di una trasformazione qualitativa nella coerenza, nella rilevanza e nella scientificità della conoscenza sociale. L'impatto della generazione del 1920 va anche oltre. Merriam, Mitchell e numerosi altri rimasero attivamente coinvolti anche molto tempo dopo aver ceduto, negli organi di governo, il passo ad altri. Nei fatti, le linee di comunicazione che le prime generazioni avevano stabilito con i fondatori - in particolare con la Rockefeller Foundation (che nel 1929 inglobò la Laura Spelman Rockefeller Memorial), con la Carnegie Corporation, con la Julius Rosenwald Estate e con la Russel Sage Foundation - furono quelle che nel tempo assicurarono solidità al Consiglio fino alla fine della seconda guerra mondiale. Merriam fu membro del Board of Directors del Consiglio fino al 1948, ,

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quando decise di ritirarsi. Nello stesso anno, il Comitato direttivo nominò presidente dell'SsRC uno scienziato politico di Harvard, E. Pendieton Herring. L'inevitabile ascesa di una nuova generazione alla guida del Consiglio - a partire dalla ventennale presidenza di Herring (1948-1968) - coincise con l'età d'oro che l'istruzione superiore visse nel dopoguerra. La crescita delle risorse e del capitale umano diede al Consiglio nuove opportunità di sviluppo dello status delle scienze sociali e dei risultati da esse conseguiti. Allo stesso tempo, come argomentato dallo storico Thomas Bender, "le scienze sociali apparivano sempre più all'altezza delle nùove sfide" 8 Il Consiglio, subito dopo la fine della guerra, mise insieme un ampio portafoglio di programmi ed attività che includevano metodologie, aree di ricerca, temi interscientifici, formazione e problemi interni. L'attenzione ai metodi di ricerca è sempre stata centrale per il Consiglio; mentre le nuove iniziative nei campi della statistica storica, della sociolinguistica, del sondaggio e della teoria dimensionale riflettevano la voglia di innovazione propria di quell'epoca. In più, producendo pubblicazioni e report in materia di metodologia di ricerca, le Commissioni del Consiglio sponsorizzarono workshop di formazione e programmi con borse di studio per introdurre i giovani laureati alla conoscenza dei metodi più innovativi. Herring ed altre figure di spicco furono strenui e fermi sostenitori del "new rigorism in the human sciences" 9 Il Consiglio mirò a sviluppare il proprio impegno oltre le questioni di metodo e formazione. Nei primi anni Cinquanta furono inaugurate alcune nuove Commissioni su specifici argomenti, tra cui la Commissione per gli Studi slavi ed est-europei (1948-71) e la Commissione di Studi arabi e mediorientali, che coniugavano la formazione con un'accentuata enfasi sulla pianificazione della ricerca. Alla fine degli anni Cinquanta, poi, il Consiglio avviò una collaborazione con l'American Council ofLearned Societies creando una rete di Commissioni su aree co-sponsorizzate, soprattutto sull'America latina (1959-96), l'Oriente (1959-96), la Cina (1959-81), il Giappone (1967-96), gli Studi Africani (960-96). Nel 1975, il Consiglio organizzò una Commissione congiunta sull'Europa occidentale, e nell'anno successivo sui Sud e Sudest asiatico. Un paio di Commissioni di pianificazione della ricerca si imposero per gli standard della loro attività accademica. Tra le più note, c'è la Commissione di Politica comparata (1954-72) presieduta da Gabriel Almond. La Commissione "collaborò alla produzione di oltre trecento rapporti ( ... ), .

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sponsorizzò ventitre conferenze, ed altre sei come partner, e condusse cinque workshop estivi" 0 , editando poi una serie di Otto volumi (Studies in Political Development) che ebbe innegabile impatto ed influenza sugli studi delle aree in via di sviluppo. Un'altra importante Commissione fu poi quella sulla crescita economica (1949-68) del premio Nobel 1971 Simon Kuznets ( ... ). La Commissione sul comportamento politico (1949-64) fu strettamente legàta alla rivoluziòne behaviorista che trasformò le scienze politiche e la sociologia - sia la ricerca sia l'insegnamento - nel corso degli anni Sessanta". Le Commissioni del Consiglio hanno sempre accolto gli approcci delle diverse discipline. In quel periodo, tuttavia, furono le scienze politiche, l'economia e la psicologia gli elementi di spiccata vitalità nella vita dell'istituzione. Aspetto di rilievo del Consiglio era la sua abilità ad attingere ai talenti ed alle forze di studiosi di spicco impegnati in molteplici campi. Come detto da David Sills, la membership delle Commissioni dopo la guerra "reads like a 'who's who' of the social sciences". Per citarne alcuni: Clifford Geertz, V. O. Key Jr., Frank Knight, Gardner Lindzey, Frederick Mosteller, Neil Smelser, C. Vann Woodward, e altri ancora 12 . Uno sguardo alla lista delle Commissioni e dei borsisti la dice lunga sull'SSRC e sulla sua capacità di attrarre i migliori studiosi e sostenere quelli che lo sarebbero diventati. Tra questi ultimi, nel 1945, ci sono i nomi di quanti furono insigniti dei Demobilizeci Awards dal Consiglio: Gabriel Almond, James McGregor Burns, Morris Janowitz, Paul Sweezy. Tutti, tranne Sweezy, diventarono poi membri delle Commissioni dell'SsRC. Dieci anni dopo, nelle Commissioni troviamò Merle Curti, Robert Dahl, Joseph Hope Franklin, Melville Herskovits, Henry Kissinger, Paul Lazarsfeld, Robert Merton, Lucian Pye, Thomas Schelling. A partire dal 1970, troviamo Norberto Bobbio, John K. Fairbank, Eugene Genovese, Samuel Huntington, Chalmers Johnson, Arthur Okun, Marshall Shulman. Celata dietro il dinamIsmo e l'accresciuta sensibilità verso l'internazionalità che caratterizzarono le scienze sociali del dopoguerra, non sfugge la strategicità del ruolo svolto dalla Guerra fredda. La spinta data dall'atmosfera di antagonismo delle superpotenze è stata un fattore critico, spesso indiretto e talvolta contestato, che però ha alimentato la crescita delle università, ha ridisegnato le priorità della ricerca, ha galvanizzato i centri di ricerca, ha costruito sistemi di informazione ed ha definito i confini entro cui erogare le borse di studio. Questo periodo è solo di recente oggetto dell'attenzione degli studiosi che indagano le connessioni tra aree di 104


studio, centri di ricerca, imperativi della politica estera ed attività di grant-making nelle scienze sociali. Stanley Heginbotham ha con molta franchezza ammesso che "agli obiettivi della guerra fredda si deve molta dell'attività di grant-making svolta dalle fondazioni private nell'ambito dello scambio formativo e delle borse di studio internazionali" 13 . Tale considerazione ha colpito molti osservatori come un'ammissione tardiva e riduttiva ("too littie, too late"), mentre altri hanno preferito ribadire che anche i programmi di ricerca precedenti al conflitto mondiale erano stati in grado di funzionare senza compromettere la propria integrità accademica14 Ciascuno di questi sviluppi - l'espansione dell'istruzione superiore, l'aumentare della pressione sul raggiungimento dei risultati scientifici, l'agenda della guerra fredda che allo stesso tempo rendeva il Consiglio un'organizzazione complice e potenzialmente sovversiva (nel 1954, il Consiglio, la Rockefeller Foundation, la Ford Foundation e la Russeil Sage Foundation furono indagate da una commissione del Congresso per, nelle parole di Herring, "a conspirancy to take over the control of public affairs"5) - caratterizzarono il contesto operativo del Consiglio dal 1940 al 1960. Nei primi anni Settanta, tuttavia, l'era della crescita inarrestabile si avviava al tramonto. La fiducia nelle potenzialità delle scienze sociali (basate su evidenze di tipo tecnico) per lo sviluppo di politiche pubbliche significative diminuiva, e così anche gli alti ideali del 1950-60, che si dissolvevano nel pessimismo degli anni Settanta. Su tutto, gli scienziati sociali furono accusati dei fallimenti delle politiche nazionali ed estere delle amministrazioni Kennedy e Johnson. Nel frattempo, maggiore attenzione veniva posta sull'autofinanziamento della ricerca. Nel 1973 ci fu un piccolo episodio rivelatore l'Army Institute for Behavioural and Social Sciences si rivolse alla Commissione su "Lavoro e personalità nella mezza età" per un possibile sostegno alla ricerca incentrata sulla carriera militare. Mentre il Consiglio si determinava a fare domanda per il finanziamento, molte altre Commissioni interne si posero criticamente. Anche se il Program & Policy (P&P), il principale componente dell'apparato di governo per le politiche pubbliche, espresse il suo parere favorevole sull'ammissibilità del finanziamento - visto che "the acceptance of such funds would involve no special reporting or other special conditions requested by the grantor" - l'Army Institute ritirò la sua offerta. Un anno dopo, il P&P tornò sull'argomento delle risorse per la ricerca e concluse che "neither governmental nor any other grants for .

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research that is classified or similarly restricted may be accepted by the Council under any circumstances" 16• Altro elemento di discussione in grado di riflettere il cambiamento dei tempi fu il dibattito sulla composizione demografica della rete e dello staif del Consiglio. Il Comitato direttivo dispose che il Presidente stilasse una relazione annuale per il P&P sulla composizione delle sue Commissioni (...)17. Nel 1973, poi, il direttivo stabilì che l'organizzazione mettesse a punto "guidelines for the stafflng of committees which take into consideration the range of talent, ingenuity, experience and ability in the social science community, especially with reference to race, sex, age, ethni• city, and foreign status "lS. Alla fine degli anni Settanta, il numero di donne attive nelle Commissioni era cresciuto rispetto ai primi anni del decennio ( ... ). I cambiamenti nel contesto istituzionale possono aver avuto una funzione significativa come l'hanno avuta quelli demografici. Negli anni Venti ed anche negli anni Cinquanta, pochissime istituzioni operavano nelle stesse àree del Consiglio. Non più nel 1970, quando ci fu una proliferazione di think tank, centri di ricerca, associazioni di studiosi, commissioni ad hoc, interessate ai temi tradizionali del Consiglio e, presto, alla pianificazione della ricerca. Le agenzie federali, tra cui la National Science Foundation, iniziarono a giocare un ruolo di leadership in alcune aree delle scienze sociali. Per questa ragione, il Premio Nobel Herbert Simon, che diresse le Commissioni del Consiglio dal 1958 al 1971, lasciando il Comitato direttivo, sollevò la questione se ancora esisteva una ragione convincente, raison cl'etre, per il Consiglio 19 . È argomentabile se l'identità dell'SsRC quale luogo di comunicazione e scambio tra studiosi sia stata erosa e sia diventata ingarbugliata a causa dei mutamenti nel • contesto della ricerca. I cambiamenti dei primi anni Settanta all'interno del Consiglio erano il segnale della fase di transizione che l'organizzazione stava attraversando (. In secondo luogo, trovare un presidente in grado di avere la considerazione ed il rispetto delle Commissioni, dei sostenitori e dello staif risultò un'impresa più ardua del previsto, e coloro che ci riuscirono poi non si dimostrarono comunque adatti all'incarico. Dopo che Pendieton Herring lasciò la Presidenza, seguì Henry Riecken, uno psicologo (vice-presidente di Herring) che era stato a capo del programma per le scienze sociali e comportamentistiche presso la National Science Foundation. Reicken si

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dimise nel 1971 e fu nominato Ralph Tyler, direttore e fondatore del Center for Advanced Studies in the Behavioural Sciences. Eleanor Sheldon, sociologa empirica alla Russe! Sage Foundation divenne presidente nell'autunno de! 1972 e lasciò dopo sette anni. Le succedette Kenneth Prewitt (1979-85), scienziato politico della University di Chicago ed ex direttore del National Opinion Research Center. E ancora, Francis Sutton, architetto del programma internazionale del dopoguerra alla Ford Foundation (...). Si tratta di un nutrito gruppo di personalità di spicco, altamente indicativo dell'ampia rappresentanza intellettuale dell'organizzazione, ma sulla cui dinamica - in termini di efficienza della Presidenza dopo Herring —ci si può bene interrogare. In terzo luogo, il direttivo fu organizzato nel 1975 in modo tale che ciascuna associazione disciplinare avesse un suo rappresentante e non tre, riducendo così le spese e dando a ciascun membro la possibilità di fare sentire la propria voce sulle questioni del Consiglio. Decisione che però ebbe lo svantaggio di indebolire la relazione tra Consiglio ed associazioni ( ... ). Negli anni Settanta e successivi, il Consiglio affrontò le sfide ormai familiari poste dalla messa a punto di strategie di ricerca innovative, e di un'agenda per la formazione; così come quelle derivanti dalla necessità di attrarre e mantenere il supporto dei finanziatori, e di rinnovare la rete degli studiosi. Ma si è anche confrontato con un piii largo progetto: riaffermare e ridefinire se stesso in un contesto intellettuale, culturale ed istituzionale in costante trasformazione. Nonostante questi cambiamenti, l'abilità del Consiglio nel promuovere un'agenda per la ricerca e nel creare le infrastrutture necessarie continuerà a riflettere i principi di base così come messi a punto dalla generazione che ne fece .parte nel periodo tra le due guerre, e che furono parzialmente ridefiniti nel dopoguerra. I Ci sono poi anche l'American Council of Learned Societies (1919), l'American Law Institute (1923), il Brookings Institution 1(1927), il Counci! on Foreign Relations (1921), l'Institute for Advanced Study (1930) e il National Bureau ofEconomic Research (1920). 2 "A Decade of Council History," The Social

Science Research Council: Decennial Report, 1923-33 (SsRcl933), p.l. 3 ELBRIDGESIBLEY, Social Science Research Council: The First Ffty Years (SSRC 1973), p. 2. ' Citato in BARRY D. Kiu, Charles E. Merriam

and the Study ofPolitics (University of Chicago Press, 1974), p. 107. Si veda anche DOROTHY Ross, The Origins ofAmerican Social Science (Cambridge University Press, 1991), cap. 10. Come evidenziato da David Silis, la parola "interdisciplinary" non esisteva agli inizi del 1920 ed ebbe una lunga incubazione prima di giungere a significare attività che "combined the. methods and perspectives of the different disciplines." V. DAvrn L. SILu, A Note on the Origin of "Interdisciplinary", in Items 40, no. I (March 1986): 17. 107


6 Da THORSTEIN VEBLEN, The Higher Learning in America (1918). ' Dvrn FEATHERMAN, SSRC, Then and Now: A Commentary on Recent Historical Analysis, in Items 48, no. 1 (March 1994): 15. 8 THOMAS BENDER, "Po!itics, Intel!ect, and the American University", in American Academic Culture in Transformation: Ffiy Years, Four Disciplines ed. THOMAS BENDER and CAvi. E. SCHORSKE (Princeton University Press, 1998), p. 31. 9 CARI E. SCHORSKE, "The New Rigorism in the Human Sciences, 1940-1960", in Bender and Schorske, p. 309. IO LucIAi'J W. PYE, "Foreword", in The Formation ofNational States in Western Europe ed.. CHARLES TILLY (Princeton University Press, 1974), p. ix. 11 Alcuni esempi sono contenuti nella bibliografia di Sibley, cap. 4. 12 DAWD L. Sias, Requiem for P61? in Items 50, no. 4 (December 1996): 95. 13 STANLEY J. HEGINBOTHAM, Rethinking International Scholarsh,: The Challenge of Transition from the Coli War Era, Items 48, nos. 2-3 (June-September 1994): 34. 14 Uno storico della Guerra fredda in Asia, Bruce Cumings, ha reclamato che "it is a bit much, of course, for the SSRC only to acknowledge this now... when it spent all too much time in the 1960s and 1970s denying that the state had any influence on its research programs.... The academic integrity of the [area studies] institutes themselves was compromised by a secret and extensive network of ties to the CIA and the FBI". V. BRUCE CUMINGS, "Boundary Displacement: Area Studies and International Studies During and After the Cold War", in Universities and Empire: Money and Politics in the Social Sciences During the Coli War ed. CHRISTOPHER SIMPSON (New Press, 1998), p. 179. Tre accademici degli Studi sovietici e post-soviedci, poi, hanno ribadito che "Slavic and Eurasian area scholars and funders produced results strikingly independent of assumptions driving Us political preferences", ROBERT T. HUBER,

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BLAIR A. RUBLE AND PETER J. STAVRAKIS, Post-

Cold War "International" Scholarship: A Brave New World or the Triumph ofForm over Substance? Items 49, no. 1 (March 1995): 30-31. 15 Lo Special Committee to Investigate Foundations, presieduto dal rappresentante del Tennessee B. Carroil Reece, si riunĂŹ in seduta tra maggio e giugno 1954 per discutere delle attivitĂ delle fondazioni esenti dalla tassazione. "The thesis supported by the staif testimony and the general witnesses appeared to be that great changes had occurred in America in the direction of socialism and collectivism... rhrough a 'diabolical conspiracy of foundations and certain educational and research organizations. one rebuttal witness was heard, Pendleton Herring". V. F. EMERSON ANDREWS, Foundation Watcher (Princeton University Press, 1973), pp. 146-147. Herring disse poi in un'intervista che "their charges were bizarre. The Council, they asserted, was the apex of a pyramid of power. And this power was maintained through interlocking contacts that brought together the overweening influence of private philanthropy and public policy, and the whole thing was, in effect, a conspiracy to take over the control of public affairs". E. PENDLETON HERRING, Intervista in Political Science in America: Oral Histories of a Disc,line ed. MICHAEL A. BAER, MALCOLM E. JEWELL AND LEE SIGELMAN (University of Kentucky Press, 1991), p. 38. 16 Committee on Programs and Policy Minutes, March 15-16, 1974. RAc, Accession I, Series 9, Box 364, File 2145. 17 Committee on Programs and Policy Minutes, March 25, 1972. RAc, Accession I, Series 9, Box 364, File 2140. 18 Lettera di Herbert A. Simon al Comitato direttivo del SSRC, citato in Committee on Program and Policy Minutes, March 2 1-22, 1975RAc, Accession I, Series 9, Box 364, Folder 2145. 19 Board ofDirectors Minutes, March 23-24, 1973. RAC, Accession I, Series 9, Box 364, File 2141.


istituzioni n. 1461147 estate-autunno 2007

Internazionalizzazione: le scienze sociali ed un mondo in rapida g l o ba lizzazi o ne* di Helga Nowotny

iamo concettualmente equipaggiati per affrontare un mondo in rapida globalizzazione? Disponiamo dei mezzi e degli strumenti necessari - in termini di competenze scientifiche, organizzazione professionale e metodologia - ad accogliere le sfide poste in agenda dall'iniziativa Human Capitali? Sono tre i rischi principali nell'intraprendere una road mapping - guardare avanti, fare una cartografia ed una mappa del terreno ricorrendo ai migliori mezzi cognitivi e tecnici a disposizione - mirata ad acquisire una visione globale all'interno di un particolare campo di indagine. Il che richiede conoscenza ed immaginazione collettiva sui vettori del cambiamento, così come su quanti sono poi toccati e profondamente influenzati dai cambiamenti. E individuazione di connessioni tra scienze diverse e fra altre forme di conoscenza e pratiche resta un fattore cruciale. Ilprimo rischio è che la ricerca di una competenza globale su di un tema si imbatta in territori dove non esiste in realtà alcuna mappa. O peggio, le mappe esistenti individuate - prese così come sono e standardizzate - magari concepite e disegnate per scopi molto diversi, possono essere facilmente male interpretate, così da mettere i ricercatori su strade errate, senza che neanche vi sia il minimo sospetto. Questo è il rischio insito in ciò che Pierre Bourdieu 2 chiama "les ruses de la raison impérialiste", l'inganno nascosto del dare per scontate le pretese di ciascuna cultura di essere universale. Secondo Arjun Appadura1 3, esistono due opzioni di internazionalizzazione. La prima consiste nel non problematizzare ed esplicitare l'armatura nascosta dell'ethos della ricerca, prendendolo così come è, quale dato una volta per tutte. E cercare degli alleati. Questa è la versione debole dell'internazionalizzazione. La seconda è invitare gli altri ricercatori ed esperti al confronto, al dibattito sugli elementi centrali dell'oggetto

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L'autrice è vice-Presidente dell'European Science and Techno!ogy Assembly dello Swiss Federa! Institute of Technology di Zurigo. 109


della ricerca, ciascuno da diverse società, con le proprie idee sulla centralità delle nuove forme di conoscenza. Quest'ultima è la versione forte dell'internazionalizzazione, nella quale la partecipazione non richiede una preliminare e precedente adesione ad idee specifiche su quale tracciato seguire (Appadurai 1997). Il secondo rischio emerge quando non ci sono strade riconoscibili. Lisa Anderson afferma che la buona ricerca delle scienze sociali deve contribuire a capire e risolvere i problemi sociali. Tuttavia, il reale processo di ricerca del consenso sulle priorità delle politiche pubbliche, di una loro definizione e della successiva disposizione all'azione, all'intervento concreto, è irto di difficoltà, soprattutto in un contesto globale allargato.. Quello che può sembrare un percorso solido e di facile individuazione sulla mappa di un ricercatore, potrebbe non esserlo affatto per un altro, all'interno di tutt'altra realtà sociale. Qui il percorso tracciato semplicemente scompare, si inabissa nel fango, nei terremoti e nel deserto di terre sconosciute, fino a diventare irriconoscibile. Eppure, anche in tali condizioni, gli uomini sono in grado di realizzare una forma di vita, e le comunità sociali di attribuire significato ai loro, legami. Le strade intese secondo la concettualizzazione di tipo occidentale possono non essere tali o realmente esistenti altrove. Eppure, la gente continua a muoversi, interagisce e comunica lo stesso. Il terzo rischio ha a che vedere con il processo vero e proprio della mappatura, l'atto di stabilire/affermare un qualche tipo di corrispondenza tra diverse realtà sociali e la loro rappresentazione guidata dalla ricerca. La mappatura è il processo più simile alla sperimentazione che le scienze sociali conoscono. Ma qual è la validità delle procedure di mappatura, quando si ricorre ad una pluralità di metodi, ciascuno dei quali risponde ad un tipo specifico di domande, tutti però riconducibili ai criteri di replicabilità? Qual è il ruolo giocato dai cambiamenti materiali nei processi di ricerca (ad esempio, l'accesso a nuovi metodi di raccolta di dati empirici come le interviste auto-somministrate con il supporto del computer, computer-assisted self-interviewing 4 In altre parole, gli oggetti sociali come sono prodotti, riprodotti, stabilizzati e destabilizzati, deformati e riformati, secondo procedure simili a quelle in uso nelle scienze sociali? Nessuno di questi rischi è insormontabile. Ma devono servire da ammonimento per le numerose concettualizzazioni culturali assimilate che sottostanno alle nozioni eterogenee di quello che la ricerca nelle scienze sociali costituisce e della sua portata a livello globale. Una migliore prepa)?

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razione di fronte ai processi di globalizzazione presuppone una migliore comprensione di come la globalizzazione, così come la tecnologia, altera la natura delle interazioni sociali - non solo tra i soggetti della ricerca, ma anche nella stessa relazione dei ricercatori con i propri oggetti e soggetti di indagine. La ricerca europea delle scienze sociali, tutt'altro che equipaggiata ad immergersi nella sfida, è tuttavia sulla strada giusta per affrontare la diversità all'interno delle culture e delle tradizioni di ricerca, dei sistemi nazionali di ricerca, della comparabilità dei dati. Il V programma quadro dell'Unione europea contiene alcuni elementi innovativi finalizzati alla realizzazione di una migliore integrazione della ricerca nel campo delle scienze sociali in quelle aree di particolare rilevanza per le politiche comunitarie. Migliorare la qualità della vita e gestire le risorse viventi, creando una società dell'informazione più user-friendly, più alla portata di tutti, o promuovere una crescita competitiva e sostenibile richiedono una assai più forte cooperazione con le scienze naturali e con l'ingegneria. Una dimensione importante del Programma si incentra sullo sviluppo mirato della conoscenza delle scienze sociali alla base delle decisioni di policy di un'ampia classe di problemi di rilievo pubblico. Mettere in più stretta relazione i fruitori della conoscenza prodotta dalle scienze sociali ed i produttori è un elemento centrale del Programma. Questi passi non necessariamente implicano l'internazionalizzazione. Ma rappresentano una pietra miliare nella direzione dell'europeizzazione delle scienze sociali. Quando si studia l'emergere di una nuova identità europea comune, superare le differenze di lingua e quelle culturali ad esse legate, soddisfare la domanda di comparabilità dei dati • e realizzare una comprensione armonica, omogenea del funzionamento delle diverse istituzioni politiche, richiede uno sforzo inedito nel miglioramento delle capacità dei ricercatori delle scienze sociali. E, con esso, l'espansione di un training graduale ed una varietà di schemi di interscambio tra studenti Nessuno di questi sforzi assicura che un'abilità di ricerca con una competenza a livello globale nel campo delle scienze sociali si concretizzi, ma essi possono ampliare ed approfondire l'esperienza delle voci europee e la possibilità che esse siano ascoltate nella comune ricerca. * Pubblicato su Items Social Science Research Council, Volume 52, numbers 2/3, June/September 1998

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'The Human Capital Initiative (Hci) is a framework for a sustained research effort targeting six problems facing the nation, comrnunities, and families: aging, literacy, productivity, substance abuse, health, and violence. In the Hci, the term "human capitl" has been borrowed from economics and broadened to reflect the view that human potential is a basic resource and that understanding the human mmd and behavior is crucial to maximizing human potential.

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2 PIERRE BURDIEAU, Sur les ruses de la raison impérialiste, in «Actes de la recherche en Sciences Sociales», mars 1998 1 pp. 109-118, 12-122 3 ARJUN APPADURAI, The Research Ethic and the Spirit oflntèrnationalism, in «Items», vo1. 51, no. 4, pp. 55-60 TURNER C. F., Adolescent Sexual Behavior, Drug Use, and Violence: Increased Reporting with Computer Survey Technology, «Science», voi. 280, May 8, pp. 867-873.


istituzioni n. 1461147 estate-autunno 2007

The Social Science Project Then, Now and Next di Kenneth Prewitt

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e discipline. Prima della Guerra civile le scienze sociali come categoria a sé già esistevano. Tuttavia, si trattava per lo piit di una combinazione frastagliata di economia, storia e scienze politiche, solitamente intesa quale porzione di un curriculum di filosofia morale, soggetto alle influenze di matrice clericale. Le scienze sociali come le conosciamo oggi, invece, prendono forma negli ultimi decenni del XIX secolo, all'interno della struttura istituzionale che esse iniziavano a darsi, nella relazione che stabilivano con il processo di riforma sociale e dello Stato, nonché nella decisione di improntare il proprio modello sull'esempio delle scienze naturali, con una particolare enfasi sul positivismo. Sul piano istituzionale, le scienze sociali si sono formate all'interno di quelle che oggi sono le principali discipline a tutti note: economia, scienza politica, psicologia, sociologia, e - da ultimo - antropologia. La storia di questo assetto istituzionale avrebbe potuto avere un diverso sviluppo ed in qualche modo l'ha anche avuto - se ad esempio l'economia politica fosse stata una disciplina unica invece che doppia, se la psicologia fosse stata parte della biologia e non disciplina a sé, se lo studio delle relazioni sociali avesse costituito la materia sovraordinata alla sociologia, all'antropologia e a molta parte della psicologia. Fino al presente, con la proliferazione di specializzazioni e sotto-materie, e con la continua tensione delle discipline verso l'interdisciplinarietà e l'impostazione meta-disciplinare. Nonostante tutti gli sforzi per rompere i confini delle principali discipline, le cinque indicate mantengono la propria egemonia all'interno della cultura accademica americana. Insieme a questa struttura disciplinare si sviluppò un professionalismo ancora embrionale, che mirava alla formazione dei laureati e all'istituzione di processi di acquisizione di credenziali e di controllo sui professioniLAutore è stato Presidente de!

SSRC.

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sti; nonché organizzazioni internazionali e riviste scientifiche che misero a punto criteri e canoni condivisi di valutazione dei lavori scientifici e dell'avanzamento professionale. La ricerca divenne la chiave della carriera professionale, come accadeva già nella comunità accademica tedesca che ispirò in larga parte la pratica delle scienze sociali americane. L'avanzamento professionale orientato alla ricerca trovò presto una collocazione all'interno del sistema universitario allora in espansione. Le prime evidenze sono quelle rintracciabili nella ricerca universitaria del XX secolo, soprattutto nelle università pi1 giovani: Clark, Johns Hopkins, e l'Università di Chicago. Dai primi anni del XX secolo, la forma di organizzazione dominante delle scienze sociali riguardò le strutture disciplinari promosse attraverso il professionalismo orientato alla ricerca, svolta principalmente dalle università. Tale professionalismo fu un fattore importante. Fu consapevolmente e strategicamente diretto a conseguire un potere ed uno status che avrebbe poi messo le scienze sociali in grado di reclamare la propria autorità - se possibile, il monopolio dell'autorità - su di un corpo definito di conoscenza. All'ordine del giorno c'era la definizione della conoscenza cui attribuire uno status privilegiato. Sullo sfondo di infinite dislocazioni sociali e culturali associate all'industrializzazione, all'urbanizzazione, all'immigrazione ed alla dinamica "espansione e frenata" dei cicli economici dell'ultimo decennio del )UX secolo, chi poteva fornire una riposta autorevole? Chi era in grado di spiegare le cause della depressione economica e della aggressività industriale, o invocare un nuovo, ordine politico? Chi avrebbe messo a punto nuovi principi fedeli ai valori degni di salvaguardia e però adeguati alle inattese nuove condizioni storiche? Chi poteva formulare le soluzioni necessarie alle nuove forme di disuguaglianza economica e sociale? Chi, ancora, avrebbe delineato i confini appropriati tra l'autorità statale e l'imprenditoria capitalista? A fronte delle discontinuità storiche e delle dislocazioni sociali, insieme al sorgere di dottrine economiche inedite, non mancavano i dùbbi circa la capacità del governo di garantire l'ordine sociale. Questi dubbi sulla democrazia avrebbero dato vita al movimento progressista con la sua enfasi sulla non partigianeria, l'efficienza del governò, le riforme elettorali, la separazione tra amministrazione e politica. Centrale a queste nuove tematiche politiche era l'intento di indebolire i partiti politici corrotti ed il loro controllo sulle politiche pubbliche. In parte, questo risultato doveva essere conseguito con il trasferimento delle deci114


sioni politiche dai funzionari eletti ai funzionari nominati. Questi ultimi sarebbero prima passati per una formazione ad hoc, non di parte, adiuvati da consiglieri esperti. In questo contesto di discontinuità storica e di riforme politiche, quindi, le giovani scienze sociali iniziarono a considerarsi in grado di offrire alla società una nuova forma di intelligenza sociale a beneficio del nuovo ordine sociale e del progresso economico. Da non dedurre dai principi primari statici. Il momento era troppo dinamico per avere risposte dalle antiche discipline storiche e filosofiche. Nuove verità su nuove realtà sarebbero emerse dall'osservazione sistematica delle società contemporanee. E poiché i rapidi cambiamenti portavano con sé la spinta al disordine, alla frammentazione ed alla violenza civile, la sfida per la nuova democraia industriale era quella di incanalare il cambiamento mantenendolo nei binari. Non bastava l'esortazione morale. Le giovani scienze sociali offrivano di più: pareri esperti, supportati dalle statistiche. Le scienze socialiamericane si formarono con un chiaro progetto: fare funzionare meglio la democrazia liberale americana. Questo è e resta l'intento primario delle scienze sociali, anche oggi. Non è certo difficile coglierlo nelle scienze politiche, con il loro interesse per la teoria e le pratiche delle istituzioni politiche americane. Così l'economia, che in sostanza si occupa di modelli per far funzionare meglio il sistema di mercato capitalista. La sociologia non si è mai allontanata dallo studio dei pattern del disordine sociale e dell'integrazione sociale, o del sistema di opportunità e di mobilità sociale, oggetti di studio presenti al suo interno già oltre un secolo fa. La psicologia si occupa di socializzazione, apprendimento, maturazione, razionalità individuale, dinamiche di gruppo e simili, tutte all'interno di un ampio ventaglio di esperienze della realtà americana. Insomma, il progetto delle scienze sociali americane è stato ed è l'America. Un progetto talvolta in tensione con un diverso progetto: quello della costruzione di una scienza della politica, o dell'economia, o della psicologia. Tuttavia, un'attenta lettura della storia delle discipline dimostra come il "progetto America" abbia sempre avuto la precedenza sul "progetto scienza di", pertanto la domanda delle scienze sociali per le verità universali ha a che fare, sul piano empirico, con l'esperienza di questa società in questi tempi storici. Questo è un fatto, non una premessa, né un giudizio. E non dovrebbe sorprendere nessuno. La stessa cosa può infatti essere affermata per le scienze sociali tedesche, francesi o inglesi dello stesso periodo. 115


Gli studi internazionali. Le relazioni internazionali - ovvero lo studio delle alleanze e dei trattati di sicurezza, dei commerci internazionali e della finanza, della costruzione e del funzionamento delle organizzazioni internazionali - hanno in sostanza coinciso con i modi in cui gli Stati Uniti hanno partecipato e sono stati influenzati dalle questioni internazionali. Le relazioni internazionali sono quindi state un'estensione del progetto americano di tutelare la propria esperienza di grande democrazia liberale da attacchi e minacce esterne, nonché di esportarla all'estero. L'ingiunzione "rendere il mondo sicuro per la democrazia" ("to make the world safe for democracy") è stata il manifesto di questo progetto, del quale ha ora preso il posto un altro motto: "to make the world safe from terrorism". Gli studi più esplicitamente non-americani - ovvero gli studi esteri a partire dalla fine della seconda guerra mondiale - erano inizialmente ammessi e tollerati secondo uno spirito propriamente americano: il titolo VI del National Defence Education Act che istituì centri di ricerca, programmi e borse per gli studi di area e di lingua, sulla scia degli sviluppi dello Sputnik e della preoccupazione per il possibile successo dell'Unione Sovietica che avrebbe potuto attrarre nella sua sfera di influenza anche le nuove nazioni africane ed asiatiche. Furono perciò destinati consistenti fondi di origine federale e filantropica alla formazione ed insegnamento delle lingue straniere, in modo che gli Usa potessero esercitare in maniera intelligente la propria leadership mondiale. Veniamo all'antropologia, che è stata la disciplina di punta, insieme alla storia, degli studi di area. La disciplina meglio attrezzata per conoscere l'altro, lo straniero. Meno interessata alla realtà domestica, l'antropologia era epistemologicamente più preparata a confrontarsi con culture interamente diverse per quanto concerne l'educazione dei bambini, il mantenimento dell'ordine sociale, l'organizzazione della produzione economica, la garanzia della giustizia sociale e così via. Va però rimarcato che quando si dice che le scienze sociali americane hanno quale loro primo progetto l'America, non si intende dire che esse condividano la politica estera americana, o le pratiche capitalistiche, il funzionamento del sistema della giustizia, la distribuzione della ricchezza, le politiche messe in atto dalle imprese multinazionali. Gli scienziati sociali sono spesso stati critici, così come altre volte hanno sostenuto e difeso i valori e le pratiche dominanti. 116


•Gli studi di policy. Gli studi di policy non sono separati dagli altri, quanto piuttosto incorporati, "embedded" nelle scienze sociali. Le radici di questo assetto stanno nelle origini del professionalismo. Alla fine del XIX secolo, le scienze sociali si imposero attraverso una forte alleanza con i movimenti di riforma sociale. Luso che si iniziava a fare delle statistiche era insieme un progetto delle scienze sociali ed uno sforzo di descrizione delle tristi condizioni del lavoro minorile, delle disuguaglianze sociali, delle condizioni di vita delle periferie e dei ghetti urbani. Gradualmente, poi, le figure emergenti delle scienze sociali giunsero alla conclusione che differenze stridenti in materia di politiche sociali ed economiche all'interno delle scienze sociali ne avrebbero compromesso l'autorevolezza. Allora, ci fu uno smantellamento dell'agenda di riforma esplicita, e una richiesta di neutralità ed oggettività scientifiche necessarie nell'interazione delle scienze sociali con lo Stato attuale. La credibilità al posto della richiesta di riforme come base per costruire l'influenza delle scienze sociali. La distinzione tra "advocacy" e neutralità ha molto a che vedere con il tipo .di pratica delle scienze sociali che cercano da tempo, senza ricevere molti riconoscimenti, di distinguere tra ricerca di base e ricerca applicata. Persino tra i puristi che con maggiore determinazione difendono l'importanza della ricerca di base esiste la convinzione 'che le verità scoperte saranno in qualche modo utili, a vantaggio di economia, pubblico, politiche sociali, sensibilità culturali. È raro lo scienziato sociale che è davvero indifferente all'eventualità che le sue scoperte siano rilevanti per le aree che si collocano al di là delle discipline. La distinzione che davvero conta è quella tra advocacy e neutralità. Ben oltre i confini delle scienze sociali. Entriamo nell'area in cui interessi politici ed economici in conflitto sono alla ricerca di alleati tra gli intellettuali o di teorie sociali che ne supportino i fini politici di derivazione. È un territorio impervio, pieno di trappole per i meno consapevoli e navigati ed anche per coloro pit attenti alle contraddizioni implicate. Può esserci conoscenza sociale allo stesso tempo utile e concretamente impiegata, restando però al di fuori di pressioni di parte? Gli esponenti delle scienze sociali formatesi nel liberalismo pragmatico, soprattutto a partire dagli anni Venti, hanno insistito molto su questo punto. La perdita di un'esplicita agenda delle riforme, tuttavia, non ha compromesso l'impegno delle scienze sociali per studi di rilevanza. Ha solo imposto la ricerca di un nuovo contesto nel quale rendere operativi i ri117


sultati della ricerca nell'ambito degli affari dello Stato e della società. Wesley Mitchell, tra i fondatori del SSRC lo dice chiaramente: "Non è la mancanza di volontà ad ostacolare il progresso sociale, bensì la mancanza di conoscenza. Noi andiamo a segno con la filantropia e civettiamo con le riforme.., abbiamo bisogno quale guida per il dispendio di energia di conoscenza certa delle interconnessioni causali tra fenomeni sociali". Mitchell non era in cerca della scienza per la scienza. L'agenda era quella di continuare ad essere politicamente rilevanti e socialmente significanti, ma arricchita, paradossalmente, dallo sviluppo di una scienza apolitica. Nell'oggettività si sarebbe trovata la credibilità; la credibilità avrebbe fondato la legittimità; la legittimità avrebbe da ultimo fornito le basi per l'applicazione della conoscenza conseguita agli scopi sociali ed ai fini politici. Il cerchio si chiude. Gli scienziati sociali saranno al di fuori degli interessi ma con la speranza di essere utili ad essi. La contraddizione interna ha adombrato le scienze sociali in tutta la loro storia. E spiega anche quello che è diventato il centro dei policy studies. Primo, lo studio dei processi di policy: chi se ne occupa, chi è coinvolto, quali interessi sono espressi, quanto bene funzionano le istituzioni; in secondo luogo, gli, indicatori sociali: la descrizione (dinamica) del cambiamento nelle condizioni sociali ed economiche. Terzo, la valutazione o analisi successiva del raggiungimento dei goals. Punti rilevanti ai fini della oggettività e neutralità più che dell'advocacy. Gli studi di policy sono considerati americano-centrici, ovvero incentrati quasi esclusivamente sulle politiche degli Stati Uniti. In effetti, questi studi operano per tenere gli altri due domini (discipline e studi internazionali) nell'ambito dei progetti di miglioramento del funzionamento politico, sociale ed economico della società. OGGI

Cambiamenti recenti ed in corso. Partiamo dagli studi di area e da quello che essi possono significare per la produzione di conoscenza basata sulle discipline. La divisione primaria del lavoro accademico è, di certo, quella per discipline. Un secolo di lamenti sull'egemonia delle discipline non è riuscito a smuovere lo status quo. Le discipline hanno a che fare con i confini. Si distinguono tra.di loro per gli oggetti di studio: la politica non è lo stesso dell'economia, l'economia non è la psicologia, e questa non è la cultura, e così via. 118


Gli studi di area, invece, non sono mai stati considerati come una nuova disciplina e, infatti, esse attingono da tutte le scienze sociali ed umanistiche. Tuttavia, alle distinzioni basate sui confini tra discipline, esse oppongono la distinzione di confini tracciati dai cartografi. Ciascuno sa a quale area pertiene in base alla regione per la quale di solito acquistano i biglietti aerei. Gli studi di area sono un fenomeno del dopoguerra e in ciò i confini geografici hanno influito non poco, nella loro configurazione dalla seonda guerra mondiale alla fine degli imperi coloniali. Seppur permeabili grazie a fenomeni di prestito culturale, rotte commerciali, alleanze di sicurezza, movimenti migratori, religioni mondiali. La seconda metà del XX secolo, caratterizzata dallo Stato-nazione e dalla competizione fra superpotenze, è stata un periodo storico nel quale aveva senso organizzare la conoscenza per schemi di contrapposizione tra Asia ed Europa occidentale, Africa e Medioriente, America latina ed Unione Sovietica. All'indomani della fine della polarizzazione della guerra fredda, con una nuova consapevolezza del trend e dell'incidenza dei flussi migratori e dei contatti tra popoli, idee, istituzioni, tecnologie, beni di consumo, ci si confronta con l'inadeguatezza delle nozioni tradizionali adoperate dagli studi di area quali sistemi chiusi di relazioni sociali e categòrie culturali. Questa verità ha portato il Social Science Research Council e l'American Council ofLearned Societies a disegnare una distinzione concettuale tra studi di area e conoscenza basata sulle aree. I primi hanno fatto delle regioni nel loro complesso l'unità prima di analisi. Si tratta di un'iper-semplificazione che aiuta a fare alcune distinzioni. Essere uno studioso di area significa partecipare ad un'impresa volta a conoscere tutto il possibile di una regione del mondo: lingue, storia, cultura, politica e religioni. L'espressione "conoscenza basata sulle aree" sta ad indicare che l'attenzione della produzione di conoscenza parte da una data regione, ma poi si applica all'analisi di trends e fenomeni che trascendono quella specifica area, collegando tra loro, in un unico processo, eventi geograficamente distanti, ma affini per cultura, economia, strategia ed ecologia. Per meglio comprendere i fenomeni di una data area, allora, bisogna collocare quell'area nel contesto più ampio del fenomeno globale nel quale essa rientra, senza tuttavia astrarla dal proprio contesto di riferimento. I trend globali rinforzano la specificità di un luogo. La globalizzazione non è un fenomeno monolitico ed omogeneo. I processi che esso implica, i modi in cui sono elaborate le risposte sono tutti influenzati dalla storia e dai valori specifici di un'area. Con l'espressione "conoscenza basata sulle 119


aree" il Consiglio intende indicare lo studio della reciproca influenza tra fenomeni globali e fenomeni locali. Il passaggio concettuale dagli studi di area alla conoscenza sviluppata su base di area è stato stimolato anche dal fatto che il dominio delle scienze sociali di impostazione americana è stato sfidato da forti comunità scientifiche emergenti in altre parti del mondo. La ricerca è sempre stata un'impresa internazionale, e tuttavia quella statunitense ha a lungo mantenuto uno status privilegiato a partire dal secondo conflitto mondiale. Non è più così; gli Stati Uniti costituiscono sempre meno un punto di riferimento per i molti studiosi che operano in altre località del mondo. L'internazionalizzazione della produzione di conoscenza ha prodotto conseguenze importanti per le discipline sociali ed umanistiche di approccio americano-centrico. Con le molte rilevanti esperienze di studio e ricerca in giro per il mondo, per essere al passo con le novità in campo di modelli econometrici, gerontologia, letteratura comparata, analisi culturale non basta conoscere quanto prodotto e sperimentato negli Stati Uniti. Così anche per i modelli interni alle singole discipline (politica, economia, sociologia) che non sono più considerati unici, indiscussi ed universali (si veda il caso della democrazia elettorale, o del mercato e del nucleo famigliare). Gli Stati Uniti sono tuttora una parte importante del quadro, come lo sono in ambito militare, economico, industriale, cinematografico, scientifico e tecnologico. Tuttavia, sono sempre un luogo come tanti altri, nel tentativo di guidare e controllare gli eventi che lo investono. Sono stati alcuni genitori di calciatori organizzati in un movimento ad obbligare la Nike a non fare ricorso al lavoro minorile pakistano per la produzione delle palle da football. Se le pratiche di lavoro in Pakistan possono essere influenzate da un movimento internazionale per i diritti umani, allora possono esserlo anche le strategie di marketing statunitensi. Come il terrorismo, che può arrivare da lontane grotte situate su montagne difficili da raggiungere. Si fa strada, così, l'ipotesi che il progetto complessivo alla base delle scienze sociali negli Stati Uniti è oggi poco idoneo a cogliere i trends dei processi in corso nel XXI secolo. Non che lo Stato-nazione non conti più o che i valori e gli aspetti locali non abbiano rilevanza. Qualunque sia l'equilibrio tra globalizzazione e localismo, omogeneizzazione e differenziazione, i fenomeni implicati sono di difficile lettura per le scienze sociali di vecchia impostazione. Si prenda il caso dei policy studies. Oggi ci sono fitti calendari di incontri in ambito internazionale per definire politiche quali la sicurezza 120


alimentare, l'alfabetizzazione, i diritti umani, i flussi di immigrazione, i tassi di natalità e mortalità, i virus e le epidemie, l'esplosione di conflitti civili, i cambiamenti climatici, e così via. In queste sessioni comuni c'è molta attenzione ad una migliore comprensione della dimensione umana dei problemi, dei contesti sociali o degli ostacoli al riscatto da condizioni sociali difficili. L'appello è qui alla conoscenza di tipo sociale propria delle scienze sociali. Ed è un appello ad una non meglio definita comunità internazionale delle scienze sociali - né quella statunitense, né quella di ogni altro Paese - ad una comunità in grado di porre le condizioni globali a fondamento del proprio progetto.

Doì'n Dove stiamo andando. Se una qualunque di queste analisi è ragionevolmente corretta, il futuro non assomiglierà al passato. Costruiremo una comunità internazionale delle scienze sociali, con il principale interesse per le interdipendenze tra locale e globale. Gli Stati Uniti continueranno a rappresentare ùn particolare ambito locale di studio, ma saranno uno tra tanti altri, non più un modello universale. Gli studiosi ricercheranno connessioni tra i trend globali e le soluzioni a livello locale. Costruendo così un set condiviso di temi teorici, e nuove metodologie per spaziare in ambiti e scale differenti. Non sarà semplice. Anche se gradualmente, le committenze locali e la forte domanda americana per studi ed applicazioni di immediata produttività per l'educazione secondaria renderarno molto difficile il cambiamento nella direzione che ho tracciato. Tuttavia, l'indubitabile ritorno intellettuale del cambiamento sarà un guadagno per il sistema americano di alta istruzione. Nel momento in cui le scienze sociali diventeranno un progetto sempre meno nazionale, il fermento intellettuale attorno ad esse aumenterà. A spingerci sarà l'obiettivo dell'inversione di rotta: fare degli studiosi persone consapevoli di ciò che altrove i loro colleghi possono offrire, e sensibili al contesto internazionale nel quale pure si colloca il livello locale, compresi gli Stati Uniti.

* Pubblicato su Items Social Science Research Council, Volume 3, number 1-2, Spring 2002, pp. 5-9. 121


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Il SSRC e le politiche per la sicurezza soc i a l e* di YasmineErgas

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127 aprile 1933, la Rockefeller Foundation si mise in contatto con il Social Science Research Council chiedendogli di ricevere entro 48 ore "proposte di ricerca, da avviare immediatamente, sui problemi urgenti che l'Amministrazione federale aveva di fronte, nell'ambito dell'emergenza nazionale del momento" 1 . L'urgenza era tale che lo staif del Consiglio, senza attendere la normale procedura di approvazione, rispose di propria iniziativa e responsabilità. Le proposte presentate coprivano una vasta area: un programma integrato per i servizi tecnici e di inchiesta del governo federale; la questione "autosufficienza nazionale vs economia internazionale"; l'esame delle proposte per stimolare la ripresa commerciale 2 ed altro. Man mano che i lavori procedevano, il Consiglio istituì una speciale Commissione temporanea 3 , organizzò almeno due conferenze frequentate principalmente dai policy makers, e preparò un rapporto, Report on a Tentati ve Plan for a Proposed Investigation, in tema di "Protezione pianificata contro la disoccupazione e la dipendenza7 4 . Una prima bozza del rapporto fu presentata informalmente all'Amministrazione federale nel giugno 1934, poco prima dell'insediamento della Commissione governativa sulla Sicurezza economica 5 . Nell'aprile 1935, fu aggiunta una nuoya versione del rapporto all'interno dell'agenda di riunione della Commissione del SSRC sulle politiche e la pianificazione, con la dicitura "confidential". Anche quel testo era provvisorio, poiché la versione definitiva avrebbe dovuto attendere che l'Amministrazione federale fissasse innanzitutto il proprio programma. Nondimeno, due punti erano già chiari. In primo luogo, il Consiglio - supportato dalla Rockefeler Foundation - avrebbe dovuto ricoprire un ruolo fondamentale nella promozione e conduzione della ricerca al fine di orientare le politiche dell'Amministrazione, e tenendosi in contatto diretto con i soggetti che

1Autrice è consulente del SSRC per lo sviluppo dei programmi e le relazioni esterne. Ha fondato la rivista 7l'temoria: rivista di storia delle donne. 122


nei fatti stavano mettendo a punto i programmi dell'Amministrazione. In secondo luogo, il Consiglio avrebbe costantemente ricordato aj suoi interlocutori l'importanza di un approccio globale all'Emergenza (così era sovente chiamata la crisi economica) e, nello specifico, ai temi dell'assicurazione e dell'assistenza sociale 6 Nel rapporto era reso esplicito il cambio di paradigma che aveva caratterizzato il New Dea!: da una visione colpevolizzatrice dei fallimenti economici di tipo individualistico (la 'responsabilità individuale) ad un approccio che guarda alle dinamiche dell'intera società; da un'azione frammentata ai programmi generali; dall'iniziativa privata alla responsabilità di governo. Gli autori del rapporto, Bryce Stewart e Meredith Givens, posero l'accento sull'emergere di un nuovo punto di vista, rifacendosi al discorso inaugurale di Woodrom Wilson di due decenni prima: "Non può esserci uguaglianza di opportunità - primo prerequisito della politica - se uomini, donne e bambini non sono protetti dalle conseguenze dei grandi processi sociali ed industriali; processi sui quali non è possibile esercitare alcuna forma di controllo e di influenza, o ai quali semplicemente non è possibile fare fronte". Secondo il Rapporto, quindi, la necessità da parte della società di proteggere i propri membri non era più solo un'esigenza di carattere umanitario, bensì un imperativo sistematico, strumentale ad "assicurarne la stessa sopravvivenza" 7 Fassistenza non poteva più costituire la parola chiave delle politiche. La stessa parola era gravata dal "peso dell'eredità di significati e connotazioni tradizionalmente associate al vecchio modello di aiuto alle persone non autosufficienti ed inabili" 8 . La prospettiva di tipo sociale chiamata in causa dai fatti della Grande Depressione non era, nei fatti, legata soio a quella contingenza storica: sarebbe stata "comunque giustificata al fine di formulare una risposta ai rischi permanenti indotti dalla disoccupazione e dalle forme di dipendenza legate ad infortuni, malattie, vecchiaia, nuovi paradigmi tecnologici, disorganizzazione del mercato del lavoro... Di fatto, le conseguenze sociali di tali rischi sono solitamente considerate meno preoccupanti solo in ragione della loro dispersione temporale" 9 . Se "dal punto di vista del lavoratore tutti i tipi di disoccupazione o di dipendenza significano la stessa cosa - ovvero la cessazione del guadagno e la diminuzione dei risparmi - le diverse forme di disoccupazione e di dipendenza a loro volta sono riconducibili ad un medesimo discorso, dal punto di vista sociale ed individuale"lO. Per risolvere il problema in una prospettiva olistica, il quadro della situazione così come si presentava non era di nessun aiuto: le iniziative di.

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sparate di comunità ed agenzie governative in competizione fra loro, con forte frammentazione delle responsabilità e contrazione delle risorse, si affastellavano nel tentativo di affrontare la crisi giorno per giorno, senza l'abilità di costituire un sistema più intègrato e razionale. Come invece sarebbe stato importante farei!. Pertanto, "un'attenta, scientifica ed oggettiva disamina dell'intero quadro dell'assistenza negli Stati Uniti doveva, prima o poi, essere compiuta". Di più, era richiesto uno "sforzo di ricerca intenso ed in piena indipendenza, che non fosse intralciato dalle responsabilità immediate nei confronti dell'amministrazione, ma che fosse in effettivo contatto con i suoi problemi" 2 Il Direttivo del Consiglio fu concorde circa gli elementi fondamentali dell'analisi del rapporto. Nel luglio 1935, il Direttivo nominò una Commissione sulla Sicurezza Sociale affinché esaminasse "i problemi dell'assistenza e dell'assicurazione sociale in relazione al rapporto tra diversi tipi di assicurazione e tra questi e l'assistenza, e rispetto agli effetti di assicurazione ed assistenza sulla stabilità economica, tenendo sempre presente il problema della sicurezza sociale nel suo insieme" 3 . Altro compito affidato alla Commissione era "mantenersi in contatto con i funzionari pubblici e le agenzie private.., orientando così la ricerca verso canali socialmente utili.., mettendo insieme e diffondendo i risultati della ricerca in modo comprensibile.., e ponendoli poi all'attenzione degli interessati e di quanti rivestivano ruoli tali da potersene servire per concretarne il valore potenziale per la società." Tuttavia, le istruzioni per la Commissione escludevano esplicitamente che questa formulasse "suggerimenti o dichiarazioni su politiche ed azioni concrete" 4 Al suo settimo anno, la Commissione allestì uno spazio nel quale discutere e riformulare alcuni temi urgenti, oggetto di frequente confronto, in termini di progetti di ricerca. Furono chiamati a discutere quanti provenivano dalle reti di policy attivate e mobilitate dal New Deal. Frank Bane, ad esempio, aveva presieduto la Commissione temporanea speciale del Consiglio nel periodo di preparazione del rapporto ed era poi• stato Direttore dell'American Public Welfare Association, nonché, nel 1935, Direttore esecutivo del Comitato per la Sicurezza Sociale. Joseph H. Willits, primo presidente della Commissione del Consiglio sulla Sicurezza Sociale, era poi diventato Direttore esecutivo della Commissione federale sulla Sicurezza Economica che esaminò le carte intermedie della Commissione temporanea del SSRC, e preparò l'approvazione del Social Security Act. J. Douglas Brown, membro del Consiglio dal 1937 al 1942, ave.

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va anche lui preso parte ai lavori della Commissione sulla Sicurezza Economica, come anche Eveline M. Burns che poi divenne membro attivo all'interno della Commissione del Consiglio 15 Forse non sorprende che la Commissione del Consiglio avvertì continuamente l'attrazione verso la politica del suo tempo. Nel report sulla sua attività dei primi due anni si legge: "Non si dovrebbe mai perdere di vista l'insieme dei rischi incombenti su un progetto portato avanti da un'organizzazione di ricerca indipendente e focalizzato su problemi di urgente attualità e con prospettive di breve-termine - o anche incentrato sulla convenzionale ricerca accademica - ma comunque in un campo caratterizzato da alta problematicità e conflittualità. Da una parte, c'è il rischio di esaurire la proprie energie nel tentativo di soddisfare le richieste provenienti dalle agenzie governative su una moltitudine di aspetti, o su compiti di mera routine... D'altra parte, è grande il rischio che i membri della Commissione siano usati dai gruppi di interesse, dai funzionari o altri, affinché tolgano loro le castagne dal fuoco. Per chi non è mai stato un attento osservatore delle controversie del settore, sono inimmaginabili lo zelo fanatico e l'asprezza che caratterizzano (come ad uno sguardo innocente non parrebbe) le dispute su differenze minori di dottrina o di procedura... Ciò che il Consiglio ha cercato di fare è stato intraprendere e promuovere un tipo di ricerca che illumini le aree in cui al momento l'atmosfera è molto calda ma poco illuminata; e pertanto ampliare i campi entro cui è possibile trarre conclusioni derivate dai fatti e non dai pregiudizi" 16 Tra le aree "surriscaldate" che la Commissione voleva illuminare c'era la problematica sull'assicurazione per gli anziani e sugli effetti delle misure federali in relazione ai piani di assicurazione privati. In particolare, uno studio degli effetti potenziali del Social Security Act sui piani pensionistici industriali aveva esaminato le implicazioni ed il sostegno dell'Emendamento Clark 17, che intendeva esentare dalle tasse destinate alla Social Security le compagnie che offrivano piani pensionistici rispondenti a precisi criteri. Lemendamento fu presto archiviato dopo l'approvazione del Social Security Act. Tra le altre ragioni, perché i suoi proponenti all'interno delle compagnie assicurative avevano scoperto che il Social Security Act aveva accresciuto, invece che ridotto, i loro affari 18 L'allocazione del rischio era ancora una volta diventata un tema pressante nell'agenda pubblica. Il cambio di paradigma sottolineato dagli autori del Report del Consiglio è stato oggetto di costante critica nel corso di al.

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meno due decenni. Il fatto che le istituzioni e gli organismi di governo siano in una posizione migliore e/o meglio equipaggiati dal punto di vista normativo per far sì che determinati costi associati a fattori di tipo pubblico o privato, ordinario o straordinario - dalla vecchiaia alla de-industrializzazione - non ricadano soltanto sugli individui e sulle famiglie oggi può essere contestato negli Stati Uniti, e piii che mai all'indomani dall'approvazione del Social Security Act. È cresciuta in modo impensabile anche l'attenzione a fattori quali: l'autonomia individuale e la possibilità di scegliere, i mercati del rischio, la competizione tra i gestori del rischio, l'efficienza. Settanta anni fa, il Consiglio nominava la Commissione sulla Sicurezza Sociale al fine di portare le scienze sociali a confrontarsi con la riallocazione dei rischi generati dalle dislocazioni economiche della Depressione. Nel luglio 2005, il Consiglio ha formato un nuovo gruppo di lavoro sulla Privatizzazione del rischio, per esplorare i trends correnti dell'allocazione del rischio. L'analisi offre una lente attraverso la quale interpretare le basi in evoluzione della cittadinanza nell'assetto della regolazione attuale.

* Pubblicato in Items Social Science Research CounciL Volume 5, number 4, 2006, pp. 24-26

Socti. SCIENCE RF.SEARCH CouÌ'c1L, Com-

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ibid., p. 8-9. ibid., p. 9. "ibid., p. 16. 12 ibid., p. 16.

missione sui Problemi e le Politiche, Minute della riunione del 25 novembre 1933, Appendice 11. Cf. anche DAVID L. SILLS, Council

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Marks the 50th Anniversary oflts Committee on Social Security, «Items», 39-3 (September, 1985). 2 ibidem. 3 Estratto da S0cIAL SCIENCE RESEARCH C0UNcIL, AnnualReport, 1934-35. SOCIAL SCIENCE RESEARCH C0UNcIL, Planned Protection Against Unemployment and Dependency: Report on a Tentative Plan for a Proposed Investigation, November, 1934. «Prefatory Statement," Ibid. 6 ibid., p. I. ibid., p. I. 8 ibid.,p.3.

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Report della Commissione sulla Social Security del Social Science Research Council (1luglio 1935-30 giugno 1937), appendice 10, p.l. La Commissione fu smantellata nel 1942 per molteplici ragioni, ma principalmente perché molti dei suoi membri furono coinvolti nella guerra. V. Siu.s, op cit. 14 ibidem. 15 Altri esempi dell'interpenetrazione del Consiglio e dell'Amministrazione sono i membri Louis M. Brownlow e Winfield W. Riefler. Brownlow guidò la FDR's Committee on Administrative Management (la c.d. "Brownlow Committee"); Riefler, membro della Federa!


Reserve, (che era stato Chief Economic Advisor dell'FDR Emergency Council) era Executive Director del Centrai Statistical Board, ÂŤfece parte del Technical Board of the Committee on Economic Security e poi divenne segretario della Commissione sui Federal Open Market. 16

Report della Commissione sulla Social SecurĂšy del Social Science Research Council (1luglio 1935-30 giugno 1937), appendice 10, p.l. 17 RAINARD B. ROBBINS, Prelirninary Report on the Status oflndustrial Pension Plans As Affected

by Old Age Benefit, Sections of the Social Security Act (March 21, 1936); "Supplementary Report on the Proposed Substitutefor the Clark Amendment (May 27, 1936) to the Committee on Social Security of the Social Science Research Council". Per una breve descrizione del Clark Amendment si veda Social Security Administration, Research Note #9, The Clark Amendment to the Social Security Act in http://wwwssa.gov/history/clarkamend.html 18 ibid.

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queste ,stituziorn n 146/147 estate autunno 2007

dossier

La Rete bit ronte: rischi ed opportunità in scala mondiale

Negli anni Novanta, l'espansione delle tecnologie e delle infrastrutture di comunicazione ed informazione ha concoro a determinare mutamenti ed assetti inediti nell'ambito dell'industria e del commercio, del lavoro, dei diritti e delle libertà. Su scala globale. Oggi. si comincia a parlare di possibile prossima saturazione delle infrastrutture a fronte di un'esplosione del numero e della qualità di servizi, contenuti ed applicazioni che devono essere veicolate. Non si può dire che ciò sia vero in uguale misura in tutte le parti del pianeta, e nemmeno in quelle più sviluppate, ovvero in tutti i Paesi evoluti. Per esempio, in Italia, la saturazione ancora non si intravede, e in alcune parti del Paese le infrastrutture mancano o sono poco sviluppate. La rfiessione, in questo caso, sifocalizza sui clienti trascurati. Mentre, in generale, c'è attenzione ai molteplici profili degni di tutela e di intervento attivo da parte del setto re pubblico. Sì, di intervento pubblico, ancora una volta, si deve parlare. Quantomeno in termini di presidio attento del settore delle comunicazioni e, specificamente, di quelle elettroniche. Il bisogno di garantire una qualche presenza del regolatore pubblico all'interno delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione è in realtà sempre esistito, anzi è un dato ad esse ingenito. Quando si parla di Internet, spesso, si perde di vista il fatto che si tratta sempre e comunque di comunicazione ed informazione digitalizzata, che segue 129


percorsi di veicolazione e diffusione interattiva e su larghissima scala (mondiale). Quindi, lungi dal rendere obsoleti i principi di tutela e promozione dei diritti e delle libertà inerenti (sviluppo della personalità, manifistazione del pensiero, cittadinanza, accesso, cultura e socialità, integrità, reputazione, privacy, etc.), la Rete sottintende un ripensamento ed un ammodernamento degli strumenti e dei presupposti che assistono quelle stesse forme ed azioni di tutela e promozione. Poiché, questa volta, il cambiamento quantitativo intervenuto nelle comunicazioni è tale da stravolgerne la qualità stessa, sul fronte delle opportunità, ma soprattutto su quello della tutela e del controllo. Lo dicono i due contributi di questo numero. Con Alan Blinder che su Foreign Affairs si è occupato del fenomeno dell'offihoring, invocando una nuova consapevolezza dei processi in atto da parte dei Governi delle nazioni progredite per "ripensare i programmi, attualmente inadeguati, di sostegno ed intervento per guidare gli aggiustamenti del commercio" e "rammendare ed irrobustire la sfilacciata rete di sicurezza dei lavoratori che vengono espulsi dal mercato del lavoro, mettendo a punto programmi efficienti in materia di assicurazioni e sussidi di disoccupazione, riconversione dei lavoratori, assicurazioni mediche, pensioni ed assistenza pubblica". E con il Nemertes Research Group che, a nome degli Internet providers, pone un aut aut al Governo americano: "investire 137 miliardi di dollari per potenziare l'infrastruttura di Internet in termini di accesso a banda larga ed industria delle reti dorsali", "adoperare la leva fiscale, con la detassazione delle società del settore, e mettere in atto opportune politiche commerciali e globali (es.: regulatory holidays)" o rassegnarsi alla nascita di una Rete con differenti livelli di qualità e, capacità di trasporto, sulla base delle diverse capacità e disponibilità a pagare. Sono due facce della stessa medaglia. Da una parte, la sfida al mercato del lavoro dei Paesi avanzati: l'offihore outsourcing quale processo di crescente e progressiva migrazione e riallocazione delle professioni (prodotti e servizi) verso continenti in rapida crescita - Cina ed India in testa - con ancora bassi livelli di capitale economico (e spesso tecnologico), ma con altissima intensità di capitale umano e, recentemente, con tassi sorprendenti di acquisizione e sviluppo di skills e conoscenze ad hoc in grado di soddisfare la domanda di lavoro proveniente dai grandi mercati esteri, tipicamente di lingua anglosassone. L'offihoring, allora, è il risultato di una formula alquanto semplice: competenze (minime) + informatica e nuove telecomunicazioni. Con il saggio di cui pubblichiamo la traduzionen italiana, Blinder ha suscitato un'ampia discussione su quella che, nell'ambito per ora limitato al mondo anglofono (telecomunicazioni e comunanza di lingua interagiscono potentemente), potrebbe essere una nuova "rivoluzione industriale" Torneremo sulpunto. Dall'altra parte, c'è l'oggettiva messa in discussione delle garanzie (e dei presupposti) di universalità ed uguaglianza dell'accesso e dell'utilizzo della Rete. Con la corsa agli inve130


stimenti in infrastrutture e tecnologie di rete in grado di assecondare il flusso ingente ed in crescita geometrica di servizi e contenuti che transitano sulla Rete. Con il rischio che, se gli investimenti non risulteranno sufficienti, non saranno certo le grandi imprese commerciali a dover rinunciare al proprio business. Due logiche affini, ovvero far valere un vantaggio comparativo. Riducendo i costi (il costo del lavoro e la sua produttività ), nel primo caso. Pagando per garantire efficienza e remuneratività al proprio capitale ed investimento, in un contesto di risorse (capacità di Rete). scarse, dall'altro. Il trait d'union è il ruolo del soggetto pubblico a garanzia dei diritti che devono condividere lo spazio vitale con questi interessi forti in grado di pagare, di fare pressione sui luoghi di decisione, di organizzarsi, di farsi sentire.

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istituzioni n. 1461147 estate-autunno 2007

"Offshoring: The Next Industrial R evo l uti on?"* di A/an B/inder

li economisti che insistono nel dire che l'"offihore outsourcing" è solo un'evoluzione di routine del commercio internazionale considerano con troppo distacco la portata del cambiamento che questo fenomeno con tutta probabilità comporterà. Le società sviluppate ed i loro governi farebbero bene a prepararsi. E in fretta.

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UNA CONTROVERSIA DA IUCONSIDERARE

Nel febbraio 2004, quando, con un'affermazione sui commercio, N. Gregory Mankiw, professore di Harward e poi presidente del Consiglio di consulenza economica della Casa Bianca, sollevò un polverone nell'intero Paese, gli economisti accorsero in sua difesa. Mankiw, commentando il fenomeno impropriamente definito "offshoring" (o "offshore outsourcing") - ovvero, la migrazione dei lavori, ma non dei lavoratori, dai Paesi ricchi a quelli poveri - sosteneva che si tratta "solo dell'ultima forma di profitto in campo commerciale, della quale gli economisti hanno parlato sin dai tempi di Adam Smith... Rispetto al passato, sono aumentati i beni commerciabili, e questa è una buona cosa". Nonostante i politici Democratici e Repubblicani hanno nella stessa misura criticato con forza l'atteggiamento indifferente di Mankiw nei confronti delle problematiche del lavoro negli Stati Uniti, gli economisti hanno preferito allearsi per dare sostegno alla sua tesi sull'offshoring come semplicemente solito business internazionale. I presupposti economici di questa tesi sono sostanzialmente ragionevoli: ilnoto principio del vantaggio comparativo fa sì che il commercio di nuovi prodotti comporti un complessivo miglioramento della produttività e del benessere. Tuttavia, Mankin ed i suoi difensori non valutano

Già pubblicato in «Foreign Affairs», 0 1/0312006 133


con i giusti parametri l'importanza dell'offshoring e dei suoi effetti dirompenti sulla ricchezza delle nazioni. Talvolta un cambiamento di tipo quantitativo è talmente importante ed esteso da indurre variazioni di tipo qualitativo. Come con ogni probabilità accadrà con l'offshoring. Fino ad oggi abbiamo visto solo la punta dell'iceberg, le cui effettive dimensioni potrebbero essere sbalorditive. Sicuramente il gran chiasso attorno all'osservazione di Mankiw è stato grottesco, fuori misura rispetto all'importanza attuale dell'offshoring, che è ancora un fenomeno per lo più proiettato verso il futuro. Anche se non esiste un corpo di dati di una qualche affidabilità a livello nazionale, alcuni studi frammentari indicano che ad oggi, negli Stati Uniti, sono molto meno di un milione gli impieghi nel settore dei servizi persi a causa dell'offshoring (certo, un milione è una cifra considerevole, ma se si considera il gigantesco mercato del lavoro statunitense in rapida crescita, la cifra corrisponde ad un valore, in termini di perdita lorda standard di occupazioni, inferiore alle due settimane); ad ogni modo, i costanti miglioramenti delle tecnologie e delle comunicazioni a livello globale, in teoria, disegnano lo scenario di un futuro sempre più colpito dal fenomeno dell'offshoring nel settore dei servizi impersonali: quelli che possono essere erogati elettronicamente su lunghe distanze con scarso o nessun deterioramento della qualità del servizio stesso. Ciò detto, è necessario non guardare all'onda di offshoring in arrivo come ad una imminente catastrofe. Né si deve cercare di fermarla. I ritorni medi del commercio fanno sì che, su scala globale, non vi è perdita se esistono incrementi di produttività. I Paesi industrializzati, tra cui gli Stati Uniti, non sono solo esposti alle intemperie che ne derivano, ma beneficiano anche dei corrispondenti cambiamenti nel corso degli anni. Perché ciò continui a verificarsi, i governi e le società sviluppate devono fronteggiare le sfide massicce, complesse e dalle mille sfaccettature poste dall'offshoring. I sistemi informativi nazionali, le politiche commerciali, i sistemi scolastici, i programmi sociali di welfare, e la politica, devono tutte adattarsi alla nuova realtà. Sfortunatamente, non è questo che si sta verificando. AGGIORNARE IL CONCETTO DI VANTAGGIO COMPARATIVO

Gli scambi commerciali tra Paesi sono fondati sui medesimi presupposti che spingono gli individui, le imprese, le regioni, ad entrare in affari: far fruttare i propri vantaggi comparativi. Alcuni di questi sono "naturali": il 134


Texas e l'Arabia Saudita sono letteralmente seduti su depositi ingenti di petrolio, che sono invece inesistenti a New York ed in Giappone. Sempre la natura, poi, ha cospirato nel fare delle isole Hawaii una meta turistica assai più seducente della Groenlandia. Nessuno può fare alcunché per incidere su questo tipo di vantaggio. Tuttavia, nell'economia moderna i capricci della natura sono di gran lunga meno determinanti di quanto lo siano stati in passato, poiché la maggior parte dei vantaggi comparativi sono il prodotto dell'azione dell'uomo, ed in misura minore delle condizioni date in natura. La concentrazione di compagnie hardware informatiche a Silicon Valley, ad esempio, non ha niente a che vedere con depositi naturali e floridi di silicio; ha invece ha che fare con il favoloso Centro di Ricerca di Palo Alto della Xeros, con la vicinanza dell'Università di Stanford, con l'arrivo in loco di due giovani uomini, Hewlett e Packard. Alle stesse condizioni, Silicon Valley sarebbe potuta sorgere in ogni altro luogo. Un aspetto rilevante di questa realtà moderna è che gli schemi che seguono i vantaggi comparativi di matrice umana sono soggetti a continui mutamenti nel corso del tempo. L'economista Jagdish Bhagwati ha denominato questo fenomeno "vantaggio comparativo caleidoscopico". Si tratta di un fenomeno cruciale ai fini della comprensione di un altro fenomeno, l'offshoring. Un tempo, il Regno Unito aveva un vantaggio comparativo nel campo della manifattura tessile. Poi il primato è passato agli Stati Uniti, precisamente al New England, e con esso anche i lavoratori hanno attraversato l'Oceano. Qualche tempo dopo, c'è stato un secondo cambio di mano, questa volta in Carolina, spostando il mercato del lavoro nel Sud degli Stati Uniti. Oggi, il primato nell'industria manifatturiera del tessile si trova in Cina ed in altri Paesi dove il costo del lavoro è basso. E gli impieghi che si era abituati a considerare "American job" sono emigrati. Certamente, non ogni cosa può essere oggetto di commercio lungo grandi distanze. In ciascuna epoca, le tecnologie disponibili - soprattutto quelle di trasporto e di comunicazione - hanno largamente determinato ciò che poteva essere esportato/importato a livello internazionale e cosa invece no. Gli economisti sono concordi nel dividere i beni ed i servizi globali in due categorie: commerciabili e non commerciabili. Tradizionalmente, il discrimine tra le due tipologie era rappresentato dalla possibilità di mettere il bene in una scatola e spedirla (materie prime ancora grezze come beni lavorati e trasformati). Ciò che, al contrario, non entrava in 135


una scatola (ad esempio, i servizi) o era troppo pesante da spedire (le case) era considerato non commerciabile. Nondimeno, la tecnologia è in perenne evoluzione, ed i trasporti e le comunicazioni sono man mano diventate meno costose e più agevoli. Sicché la linea di confine tra beni commerciabili e beni non commerciabili si sposta incessantemente. Diversamente dal vantaggio comparativo, questo cambiamento è tutt'altro che caleidoscopico: va in un'unica direzione, quella dell'incremento di volume delle cose commerciabili. Il vecchio principio secondo cui "se non entra' in una scatola, non è commerciabile" è pertanto obsoleto, senza possibilità di ritorno. Si può dire che oggi i pacchetti di informazioni digitalizzate svolgono il ruolo delle vecchie scatole, ragione per cui i servizi che possono essere scambiati a livello internazionale sono molti di più, e saranno sempre più numerosi. In futuro - come in gran parte sta già avvenendo - la chiave per distinguere tra tipologie di beni e servizi non sarà più quella della scatola. Piuttosto, sarà quella del recapito per via elettronica. LE 'TRE RIVOLUZIONI INDUSTRIALI

Adam Smith scriveva The Wealth ofNations nel 1776, quando la prima Rivoluzione industriale stava iniziando. Certo il pensiero di Smith era fuori dall'ordinario, eppure egli non riuscì ad immaginare quello che sarebbe poi accaduto. Con la migrazione, nei Paesi industrializzati, dei lavoratori dalle fattorie alle industrie, le società si trasformarono in maniera radicale. Lo spostamento interessò masse di lavoratori. Secondo alcune stime, nel 1810 l'84% della forza-lavoro degli Stati Uniti era occupata nell'agricoltura e solo il, 3% nell'industria. Nel 1960, quest'ultima percentuale era salita al 25%, mentre l'agricoltura impiegava appena l'8% dei lavoratori (oggi, ancora meno: il 2%). Gli stili e i luoghi di vita della gente, l'istruzione dei figli, l'organizzazione dell'economia e dei commerci, le forme e le pratiche di governo, tutto fu stravolto per adeguarsi alla nuova realtà. Si giunse così alla Seconda Rivoluzione industriale, con un'ulteriore migrazione dei lavori, questa volta verso il settore dei servizi, via dall'industria. Cambiamento, questo, che ancora oggi è visto con qualche preoccupazione negli Stati Uniti e in molti altri Paesi ricchi, dove la gente lamenta la perdita degli impieghi nell'area manifatturiera. Nei fatti, i nuovi lavori nel terzo settore erano comparsi ben prima e più in fretta della len136


ta decadenza e scomparsa di quelli del settore secondario. Nel 1960, ad esempio, circa il 35% dei lavoratori americani impiegati in settori diversi dall'agroalimentare producevano beni di consumo, mentre il 65% di loro produceva servizi. Nel 2004, quindi, solo un sesto di questi stessi impieghi erano localizzati in industrie, per la produzione di beni, mentre i restanti cinque sesti producevano servizi. Si tratta di un andamento globale e in crescita. Tra il 1967 ed il 2003, secondo i dati dell'OECD (Organisation for Economic Cooperation and Development), la percentuale di impieghi nel settore dei servizi sul totale è aumentata di circa 19 punti percentuali negli Stati Uniti, di 21 in Giappone e di 25 in Francia, Italia e Regno Unito. Siamo adesso nelle prime fasi della Terza Rivoluzione industriale, l'era dell'informazione. Il flusso di informazione a livello globale a costi e sforzi contenuti ha grandemente esteso il raggio dei servizi commerciabili, e molto altro deve ancora venire. Le rivoluzioni industriali, infatti, sono affari non di poco conto. Proprio come le due precedenti, anche questa terza rivoluzione comporterà ampi e 'sconvolgenti aggiustamenti ai modi in cui gli americani e gli abitanti delle altre aree sviluppate lavorano, vivono, crescono i propri figli. Ad ogni modo, l'adozione di una prospettiva storica dovrebbe contribui're a temperare i timori sull'offshoring. La prima Rivoluzione industriale non significò la fine dell'agricoltura, e tantomeno quella della produzione alimentare negli USA. Più semplicemente, fece sì che un numero sempre decrescente di americani dovessero lavorare nelle fattorie per soddisfare il fabbisogno alimentare dell'intera popolazione statunitense (per un'interessante coincidenza storica, il numero di americani impiegati nelle fattorie oggi è lo stesso del 1810, ovvero due milioni di persone. Ma cambiano le percentuali). La principale ragione di questo cambiamento non è il commercio estero, ma una migliore produttività delle fattorie. E, dato ancora più importante, lo spostamento di massa del lavoro dalla campagna alla città non produsse disoccupazione di massa. Al contrario, si risolse in una riallocazione su larga scala del lavoro all'interno delle industrie. Allo stesso modo, la seconda Rivoluzione industriale non ha segnato la fine della produzione manifatturiera, neanche negli Stati Uniti che pure è in testa nella corsa alla riconversione nei servizi. La percentuale della forza lavoro americana impiegata nell'ambito manifatturiero è crollata a partire dal 1960, ma il numero assoluto di lavoratori del settore ha seguito un trend decrescente trascurabile. Tre sono le forze che hanno guidato 137


questi cambiamenti. In primo luogo, l'incremento della produttività nel settore manifatturiero ha fatto sì che sempre più beni fossero prodotti con meno e meno lavoro. Secondo, con il miglioramento delle condizioni di vita verso un benessere generalizzato a livello mondiale, i gusti dei consumatori si sono evoluti, creando una consistente domanda di servizi (ristoranti, vacanze) ai quali destinare porzioni crescenti dei propri guadagni, a scapito della domanda di beni (vestiti e refrigeratori). In terzo luogo, gli Stati Uniti oggi importano una percentuale di beni destinati al consumo interno che è maggiore di quella registrata cinquant'anni fa. Il PIL americano è composto da una percentuale di produzione manifattunera che nel 2004 era inferiore al 17%, e nel 1953 era pari al 30%. È forse l'indicatore quantitativo più chiaro della portata della seconda Rivoluzione industriale. Come nel caso della precedente rivoluzione, non si è verificato un fenomeno di disoccupazione di massa. La terza Rivoluzione industriale rivestirà pari funzione nei prossimi numerosi decenni. I lavori che rientrano nelle categorie interessate dai processi di emigrazione propri dell'offshoring non scompariranno del tutto negli Stati Uniti o nelle altre nazioni ricche, ma rappresenteranno una porzione sempre 'più piccola dell'intera forza lavoro. Questa riduzione trasformerà le società in modi differenti, molti dei quali sono inimmaginabili al momento, poiché i lavoratori dei Paesi coinvolti troveranno altre occupazioni ed attività. E non assisteremo, ancora una volta, alla disoccupazione di massa. Nei fatti, i guadagni a livello globale derivati dalle prime due rivoluzioni industriali sono stati ingenti, e con ogni probabilità sarà lo stesso con questa terza rivoluzione. A patto che siano messi in atto gli opportuni aggiustamenti economici e sociali. QUESTA VOLTA É UNA QUESTIONE PERSONALE

Quali sono i lavori a rischio di offshoring? Nel passato, quando contava fare entrare le cose in una scatola, si distingueva tra lavoro manifatturiero e lavoro non manifatturiero. In linea con ciò, i lavoratori del settore manifatturiero dei Paesi ricchi sono stati abituati a considerarsi in competizione con i mercati esteri. Tuttavia, con l'espansione del dominio dei servizi commerciabili, molti lavoratori del terziario dovranno convertirsi all'idea medita, certo non picevole, che anche loro sono in competizione sul mercato globale. I lavoratori impiegati nei servizi sono molti di più di quelli del settore manifatturiero. 138


Molti credono che la distinzione critica per il mercato del lavoro è e rimarrà quella fra lavoratori con competenze specifiche (o istruiti) e quelli meno istruiti o con impieghi che non richiedono competenze qualificate. In breve, medici versus operatori di cail center, per dirne una. Segue che, secondo questa credenza, il rimedio che le nazioni ricche dovrebbero attuare, allora, è investire nell'istruzione e nella formazione specialistica dei lavoratori. Tuttavia, questa convinzione non coglie la natura del fenomeno. A parità di condizioni, certamente una migliore formazione ed istruzione sono elementi apprezzabili, in termini di migliori ritorni per le società avanzate e di maggiore flessibilità ed adattabilità della forza lavoro rispetto ai cambiamenti del mercato e della società stessa. Il problema insito nel considerare l'istruzione e la formazione quale rimedio alla potenziale perdita di posti di lavoro, nondimeno, è che rispettò alle "altre condizioni" non vi è uguaglianza. In futuro, la linea di demarcazione critica sarà con tutta probabilità la possibilità di recapitare servizi ed altri tipi di lavoro attraverso un cavo (o con connessioni wireless), senza deterioramento o alterazione (se non in misura trascurabile) della qualità degli stessi. Questa demarcazione medita si pone chiaramente su un piano altro da quello della distinzione tradizionale tra lavoro del tipo "high skill" ed impieghi a bassa o scarsa competenza specifica/professionale. Alcuni esempi di vario genere potranno essere di aiuto nell'illustrare quanto sia complessa - o meglio, non tradizionale - la nuova demarcazione. È assai improbabile che servizi offerti dagli autisti di taxi così come anche quelli dei piloti dell'aviazione siano veicolati attraverso lunghe distanze elettronicamente. Quello del tassista è un lavoro che non richiede alcuna specifica competenza difficile da acquisire; guidare un aeroplano, invece, è l'opposto. D'altra parte, poi, dattilografia (lavoro con scarse competenze) ed analisi di sicurezza (lavoro con competenze altamente professionali) sono servizi che già vengono veicolati elettronicamente dall'India, anche se al momento il fenomeno ha proporzioni ridotte. La maggior parte dei fisici non deve temere che il proprio lavoro sia soggetto all'offshoring, ma 'i radiologi sì. I funzionari di polizia non saranno rimpiazzati da sistemi di monitoraggio elettronico, ma qualche guardia giurata sì. Uscieri e manovratori di gru sono forse immuni alI'offshoring; i programmatori informatici ed i ragionieri no. In breve, la linea di confine tra lavoro che produce servizi erogabili elettronicamente (quindi candidati all'offshoring) e lavoro che produce servizi altri non corrisponde a quella tradizionale tra lavoro altamente professionale e lavoro senza competenze. 139


Negli Stati Uniti e nelle altre aree sviluppate, la frazione di servizi che potrebbe essere interessata dal fenomeno dell'offshoring è destinata a crescere in seguito all'evoluzione tecnologica da una parte, e alla modernizzazione (maggiore prosperità, formazione della forza lavoro) di Paesi quali la Cina e l'India dall'altra. E ipotizzabile che il numero di impieghi nel settore dei servizi esposto al rischio della competizione internazionale superi il numero complessivo degli impieghi in ambito.manifatturiero. Pertanto, a fare i conti con la competizione a livello globale non sarà più la minoranza dei lavoratori dei Paesi ricchi come accade adesso, bensì molte più persone. Non esiste ancora un lessico specifico, e men che meno un qualche insieme sistematico di dati, che possa aiutare la società ad orientarsi negli scenari imminenti del nuovo mercato del lavoro. Ecco allora un contributo suggestivo in termini di prontuario terminologico. I servizi che non possono essere erogati elettronicamente o che subiscono un significativo deterioramento se lo sono, hanno una caratteristica essenziale: il contatto interpersonale, faccia-a-faccia è intrinsecamente necessario o quanto meno altamente desiderabile. Il cameriere che serve la cena, il medico che ci illustra il nostro check up annuale, il poliziotto che fa il suo servizio di ronda: i robot controllati dall'India non garantirebbero lo stesso servizio. Al contrario, l'interazione faccia-a-faccia non è indispensabile nell'ambito dei contatti che si stabiliscono telefonicamente con l'operatore che organizza una tele-conferenza o con l'impiegato che registra una prenotazione per un volo aereo. Lui o lei potrebbero già essere in India. Il primo gruppo di compiti possono essere definiti servizi da erogare in presenza/personalmente, o semplicemente servizi personali; il secondo gruppo di attività sono servizi erogabili impersonalmente, o servizi impersonali. Nel nuovo mondo del commercio elettronico globalizzato, i servizi impersonali hanno molte cose in comune con i beni manifatturieri che bisognava inserire in una scatola. Più di quanto invece condividono con i servizi personali. È chiaro che molti servizi impersonali sono destinati a diventare commerciabili e quindi esposti ai processi di offshoring. Al contrario, la maggior parte dei servizi personali hanno caratteristiche. che non possono essere veicolate attraverso un cavo. Alcuni richiedono il contatto interpersonale (la cura dei bambini), altri sono intrinsecamente a forte contenuto interpersonale e di contatto (infermeria), alcuni implicano alti livelli di fiducia personale (psicoterapia), ed altri ancora dipendono da elementi locali specifici (lobbying). 140


In ogni caso, il discrimine tra servizi personali ed impersonali cambierà nel tempò. Con migliori tecnologie, sempre più servizi personali diventeranno impersonali. Nessuno può predire fin dove si spingerà questo processo. La Forrester Research provocò un'agitazione dei media quando, pochi anni fa, stimò che 3,3 milioni di posti di lavoro del settore terziario statunitense sarebbero emigrati entro il 2015, con una media di circa 300 mila impieghi l'anno. Sembra un'enormità, finché non si considera che la media di posti di lavoro persi dal mercato del lavoro americano supera i 500 mila posti a settimana. Considerate le probabili evoluzioni tecnologiche del prossimo decennio, la cifra di 3,3 milioni è una stima bassa. Infatti, uno Studio del 2003 effettuato dalla Berkeley ed una recente ricerca di McKinsey affermano che l'il % dei posti di lavoro americani sono a rischio di offshoring. Il primo studio si basa sulla stima del trend all'interno dei settori nei quali il fenomeno ha già fatto la sua comparsa o è imminente. Il che significa che i ricercatori hanno valutato la punta, visibile, dell'iceberg. Il futuro ci dirà il resto. Per avere un quadro del numero di posti di lavoro americani a rischio, si pensi alla composizione del mercato di lavoro negli Stati Uniti alla fine del 2004, quando si contavano 14,3 milioni di impieghi nel manifattunero. La maggioranza di questi produceva cose da mettere in una scatola, pertanto erano potenzialmente tutti trasferibili altrove. Circa 7,6 milioni di americani lavoravano nell'edilizia e nelle miniere. Anche se producevano beni e non servizi, questi lavoratori non erano a rischio di offshoring (un chiodo non si martella attraverso Internet). In aggiunta, c'erano 22 milioni di posti di lavoro in ambito di governo locale, statale e federale. Lavori per lo più finalizzati ad erogare servizi impersonali che non richiedono la compresenza; eppure, non sono questi impieghi destinati all'offshoring, per ovvie ragioni politiche. Il commercio al dettaglio dava lavoro a 15,6 milioni di cittadini, molti legati alla compresenza fisica del venditore, anche se la vendita online è in crescita, esponendo al rischio di offshoring molti posti di lavoro. Questi i casi ovvi. La classificazione fatta, tuttavia, tralascia la .maggior parte dei lavori del settore privato relativi ai servizi: circa 73,6 milioni nel 2004. Si tratta di una categoria assai eterogenea che spazia dai servizi di istruzione e salute (17,3 milioni) ai servizi professionali e commerciali (16,7 milioni), dal divertimento e turismo (12,3 milioni) ai servizi finanziari (8,1 milione), dal commercio all'ingrosso (5,7 milioni) ai trasporti (4,3 milioni). E ancora, dai servizi informativi (3,2 milioni) alle utenze 141


domestiche (0,6 milioni), ed altri servizi (5,4 milioni). t complicato dividere queste ampie categorie in servizi personali e servizi impersonali. E lo è ancora di più predire quali di questi in futuro saranno erogabili elettronicamente sulle lunghe distanze. Nondimeno, è possibile tracciare un quadro generale di quale di questi lavori potrebbe essere candidato all'offshoring. Il settore della salute è oggi cinque volte più grande di quello dell'istruzione, e la maggior parte dei suoi impieghi sembra proprio destinato a rimanere un servizio personale, per lungo tempo (se non per sempre). Con alcune eccezioni, tra cui la radiologia. Più in generale, i test di laboratorio sono già stati esternalizzati dalla maggior parte dei fisici. Potranno agevolmente esserlo al di fuori della nazione, non semplicemente di una città. Con un poco di immaginazione, si può prevedere che altri servizi medici siano presto svolti da dottori a migliaia di chilometri da noi. Ne è la prova il fatto che alcuni interventi chirurgici sono già effettuati da robot controllati dai medici attraverso collegamenti via fibra ottica. I servizi di istruzione sono anch'essi preferibilmente erogati in compresenza, ma sono sempre più costosi. Certo l'istruzione per via elettronica non potrà sostituire il contatto personale necessario per la cura dei bambini fino ai dodici anni (ovvero, la maggioranza degli impieghi nel settore in questione). Ma le lezioni del college diventeranno sempre più dispendiose, ed allora con ogni probabilità l'istruzione online apparirà una soiuzione sempre più attraente, se non indispensabile. La gamma di servizi professionali e commerciali, poi, comprende un insieme disparato di impieghi, dai manager agli architetti, dagli stenografi ai portieri. Ciò detto, se si va ad esaminare la lista sulla base di alcune sottocategorie, emerge che molti di questi lavori sono potenzialmente trasferibili. Ad esempio, lo sviluppo tecnologico futuro potrebbe decidere la porzione di servizi di contabilità da erogare elettronicamente da Paesi con un costo del lavoro molto più basso. L'industria dell'intrattenimento e del turismo sembra essere più al sicuro. Se si va in vacanza in Florida, non ci si aspetta certo che il bagnino o la cameriera si trovino in Cina. Gli addetti alle prenotazioni, invece, possono lavorare, e già lo fanno, a distanza. In termini complessivi, sono più numerosi i lavori che non potranno essere trasferiti. I servizi finanziari - settore che include molti lavori ben retribuiti - costituiscono un'altra area soggetta a radicali mutamenti futuri. Oggi, gli Stati Uniti erogano all'estero molti più servizi finanziari di quanti ne tra142


sferiscano. Forse sarà così per alcuni anni ancora. Finché il progresso nel campo delle telecomunicazioni e lo sviluppo di adeguate competenze in Cina e ancor di più in India (dove in molti parlano la lingua inglese) non cambierà le cose definitivamente. Il commercio all'ingrosso è tutto sommato simile a quello al dettaglio, ma con minore necessità di contatto personale, quindi più esposto ai rischi di offshoring. Lo stesso vale per i trasporti e le utenze domestiche (gas, elettricità; energia). I servizi informativi sono la quintessenza dei lavori che possono agevolmente essere erogati elettronicamente. Quasi tutti sono quindi trasferibili altrove. Infine, ci sono gli altri servizi: una categoria generica che però - se si considerano le sue sottocategorie (riparazioni e servizi di lavanderia, ad esempio) - richiede un servizio di tipo personale. Il panorama dei servizi scoraggia dal generalizzare. Eppure, una stima approssimativa, basata sui numeri snocciolati, induce ad affermare che il numero di posti di lavoro statunitensi nel settore dei servizi che potrebbero essere trasferiti all'estero e di qui erogati elettronicamente è pari a duetre volte il numero di impieghi (circa 14 milioni) attualmente esistenti nel settore manifatturiero. Una larga porzione del mercato del lavoro degli Stati Uniti sembra quindi scampare al pericolo. Anche se nessuno sa quali ulteriori cambiamenti porterà con sé il progresso tecnologico. UN MALE SENZA CURA

Un'ulteriore dose di analisi economica completerà il quadro, aggiungendo forse qualche preoccupazione. Gli economisti parlano della "malattia da costi" ("cost disease") dei servizi personali, chiamandola malattia di Baumol (avendola scoperta l'economista William Baumol). Il problema nasce dal fatto che per molti servizi personali è impossibile - o altamente controproducente - che si verifichino aumenti di produttività. Per la categoria dell"impossibile" si pensi a quante ore di lavoro di musicisti sono servite per l'esecuzione di un quartetto d'archi di Mozart nel 1790, rispetto al 1990; o quanti autisti di autobus sono necessari oggi per accompagnare a scuola gli studenti, rispetto ad una generazione fa. Per la • seconda categoria dell indesiderabilita , prendiamo in esame gli insegnanti. La loro produttività può facilmente essere migliorata, aumentando il numero di studenti per classe. Ma secondo la maggioranza delle persone questo aumento di produttività non è altro che un deterioramento della qualità dell'istruzione, come del resto è dimostrato dalle ricerche sul 143


tema. I servizi personali - nel cui ambito c'è poco spazio per autentici miglioramenti della produttività e, di contro, i livelli di retribuzione crescono costantemente - sono condannati ad essere, nel corso del tempo, sempre più costosi (in termini relativi). Questo è il succo della malattia di Baumol. Nessuno di questi problemi affligge il settore manifatturiero. Negli anni, per esempio, l'industria automobilistica ha ridotto a ritmi sostenuti il numero di ore di lavoro necessarie a costruire un'automobile: un incremento di produttività che non ha avuto ricadute negative sulla qualità. Ancora una volta, è evidente che i servizi impersonali assomigliano alla produzione dei manufatti, più che ai servizi personali. Grazie ai sensazionali progressi delle tecnologie di telecomunicazione, ad esempio, le compagnie telefoniche sono in grado di gestire molte più chiamate con molti meno operatori rispetto ad una generazione fa. La qualità degli apparecchi telefonici è migliorata, non certo peggiorata, a fronte di prezzi relativi precipitati. La previsione contenuta nella teoria della malattia di Baumol - i prezzi dei servizi personali (istruzione e divertimento) aumenteranno rispetto ai prezzi dei manufatti e dei servizi impersonali (automobili e traffico telefonico) - è supportata dalla storia. Nei fatti, la teoria spiega gran parte delle ragioni per le quali i prezzi delle cure mediche e dell'istruzione secondaria sono cresciuti a ritmi più sostenuti rispetto agli indici dei prezzi al consumo, nel corso dei decenni. L'aumento costante dei prezzi relativi ha conseguenze di facile previsione. Le curve di domanda seguono un andamento discendente poiché la domanda di un bene declina man mano che il suo prezzo sale. Applicato al caso in esame, nel corso del tempo si avrà una caduta della domanda relativa di molti servizi personali, insieme ad una crescita della domanda relativa di numerosi manufatti e servizi impersonali. La principale eccezione è costituita dai servizi personali che ricadono nella categoria di beni di lusso (infatti, una maggiore ricchezza individuale induce ad un incremento della domanda) e dai pochi prodotti e servizi impersonali che in economia sono detti "beni inferiori" (a fronte di maggiori risorse e disponibilità economica, la loro domanda diminuisce). La malattia di Baumol si ricollega al problema dell'offshoring in maniera alquanto sconcertante. I nuovi pattern del commercio faranno sì che gran parte dei servizi personali resteranno dove sono, mentre molti dei servizi impersonali insieme alla produzione di beni migreranno nei Paesi 144


in via di sviluppo. Posto che è alta la probabilità che la domanda di servizi personali sempre più costosi subisca una contrazione rispetto, alla domanda di prodotti e servizi impersonali sempre più economici, i Paesi ricchi dovranno fare alcuni aggiustamenti ulteriori nell'ambito del mercato del lavoro. Tra questi, un'operazione di riallocazione del lavoro da un settore all'altro. Un altro aggiustamento interesserà i salari reali: con l'aumento di lavoratori delle nazioni ricche in cerca di occupazione nel settore dei servizi personali, i salari reali per questi impieghi diminuiranno, a meno che non si verifichi un forte bilanciamento dell'accresciuta domanda di lavoro. E il caso dei servizi personali di lusso (chirurgia plastica ed autisti privati) la cui previsione sui salari è più rosea di quanto lo sia quella dei servizi personali ordinari (barbieri e parrucchieri, insegnanti di scuola primaria). UOMO AVVISATO MEZZO SALVATO?

Cosa fare allora? È più facile tracciare i profili della soluzione che non prescrivere un rimedio specifico. Per la verità, questo articolo mira a sollecitare quante più persone intelligenti a pensare in maniera creativa al problema. La cosa più ovvia è quello che si deve evitare: le barriere protezionistiche contro l'offshoring. Erigere muri contro il commercio tradizionale di manufatti e beni fisici è già abbastanza complicato. La propensione naturale dell'umanità per il commercio e lo scambio, insieme al potere dei vantaggi comparativi, non favorisce la tenuta di queste barriere, che finiscono con il fallimento o con danni collaterali di ampia portata. A maggior ragione, è ancora più difficile (leggi: impossibile) arrestare il commercio elettronico. Ci sono fin troppi "porti" che devono essere controllati. La Guardia costiera non può interdire il commercio di servizi elettronici erogati tramite Internet. I Governi, poi, rischiano di provocare enormi danni nel tentativo di porre un freno a questi scambi, senza poi neanche riuscire a derogare alle leggi dell'economia e ad imprimere una svolta al cammino delle forze della storia. Dunque, esistono misure costruttive ed allettanti per limitare questo processo? In primo luogo, le nazioni ricche quali gli Stati Uniti dovranno riorganizzare le caratteristiche del mondo del lavoro, al fine di sfruttare il proprio vantaggio comparativo nell'ambito dei servizi che non possono essere trasportati, perché devono restare in prossimità dei luoghi nei quali si 145


trova il denaro. Ciò significa, in parte, una più marcata specializzazione nell'ambito dei servizi personali che devono essere erogati in compresenza fisica (perché è preferibile o perché è indispensabile). Sicché la forza lavoro statunitense del futuro conterà al suo interno molti più avvocati divorzisti che legali per la stesura di contratti standard, più internisti che radiologi, più commessi che dattilografi. Il sistema di mercato è molto efficiente in termini di aggiustamenti, anche quando si tratta di intere masse di lavoratori da ricollocare. Ci è riuscito in passato e lo rifarà. Per quanto, occorre del tempo e gli sviluppi possibili non sono noti. In aggiunta, si sa che le trasformazioni che investono larghe popolazioni di lavoratori hanno ricadute sociali violente. In secondo luogo, gli Stati Uniti e le altre nazioni ricche dovranno trasformare i propri sistemi di istruzione e formazione in modo da formare futuri lavoratori destinati a quegli impieghi che effettivamente saranno disponibili nelle società. Sostanzialmente, si tratta di formare più lavoratori nell'ambito dei servizi personali e meno per quelli impersonali e di produzione di manufatti. Concretamente, l'implicazione per, ad esempio, l'educazione ed istruzione dei bambini, è semplicemente che più alti livelli di istruzione bilanciano i processi in atto, poiché una forza lavoro più istruita e preparata è anche più flessibile, in grado quindi di destreggiarsi velocemente con compiti ed incarichi non routinari e di fare fronte a sempre nuove e diverse occupazioni. Tuttavia, l'istruzione non è la panacea. Anzi, gli esempi precedenti dimostrano che le nazioni ricche manterranno sul proprio territorio molti più lavori basati su limitate competenze. In futuro, le scelte e le strategie di istruzione dei giovani si riveleranno quanto mai centrali. Eppure, gli operatori dell'istruzione sono ben lontani dall'iniziare a pensare a questa sfida. Dovrebbero farlo subito. Al contrario di quanto si creda, le competenze degli esseri umani potrebbero diventare più rilevanti di quelle dei computer e delle macchine. I geni del computer potrebbero, dopotutto, non essere gli eredi del pianeta, quanto meno non gli strapagati geni dell'informatica dei Paesi sviluppati. La creatività avrà un prezzo. Thomas Friedman ha giustamente sottolineato che è fondamentale distogliere i giovani da quei compiti che sono routinari o che possono diventarlo, orientandoli verso lavori che invece richiedono immaginazione. Sfortunatamente, la creatività e l'immaginazione sono notoriamente doti che non si insegnano a scuola, non facilmente. Anche se gli Stati Uniti, su questo piano, sono un passo avanti rispetto alla Germania ed al Giappone. Oltretutto, è difficile immaginare 146


che posizioni a forte contenuto di creatività potranno mai rappresentare una fetta maggioritaria del mercato del lavoro. Cosa faranno tutti gli altri? Un terzo sforzo che le nazioni avanzate dovranno fare è ripensare i programmi, attualmente inadeguati, di sostegno ed intervento per guidare gli aggiustamenti del commercio. Fino ad oggi, la performance di questo sostegno è tutt'altro che lodevole. Man mano che gli americani - così come i britannici, i tedeschi, i giapponesi - si troveranno, sempre più numerosi, a fare i conti con la necessità di adeguarsi alla dislocazione deIl'offshoring, i programmi di supporto dovranno essere più estesi e più efficaci. In termini più generali, gli Stati Uniti potrebbero trovarsi nella necessità di rammendare ed irrobustire la sfilacciata rete di sicurezza dei lavoratori che vengono espulsi dal mercato del lavòro, mettendo a punto programmi efficienti in materia di assicurazioni e sussidi di disoccupazione, riconversione dei lavoratori, assicurazioni mediche, pensioni ed assistenza pubblica. Al momento, il sistema di sicurezza sociale degli Stati Uniti è uno dei più esili nel mondo industrializzato e sembra esserci poca se non nessuna, volontà politica di rafforzarlo. Se però una porzione sempre più larga di popolazione inizia ad avere bisogno, sempre più spesso, di una rete di sicurezza, la situazione dovrà cambiare. In Europa occidentale il problema è opposto: rispetto agli standard statunitensi, lì le reti sociali di assistenza sono ampie e radicate. La domanda è se queste reti sono nel lungo tempo sostenibili e se lo saranno nel momento in cui saranno utilizzate sempre più intensamente. UNA VISIONE IMPERFETTA

Nonostante il gran baccano politico, l'offshoring in ambito di piccoli servizi è in corso già da tempo. E potrebbe risultare in una terza rivoluzione industriale, con l'effetto di trasformare la società. Detto ciò, la minaccia proveniente dall'offshoring non va enfatizzata. Se la prima Rivoluzione industriale non ha sancito la fine dell'agricoltura nei Paesi ricchi, e la seconda non ha fatto scomparire la produzione di manufatti, perché mai la terza dovrebbe trasferire tutti i servizi di tipo impersonale altrove? Non accadrà, come non si verificherà un fenomeno di disoccupazione di massa. Per quanto i necessari aggiustamenti implicheranno uno stress sociale per le nazioni interessate, che sembrano del tutto impreparate ad affrontare le trasformazioni di una terza rivoluzione industriale. 147


Forse la necessità più impellente sui lungo periodo è farsi un'idea di come impostare la formazione dei giovani di oggi per i lavori di domani, quelli disponibili tra dieci-venti anni. Sfortunatamente, posto che la distinzione tra servizi personali (che hanno maggiori probabilità di rimanere sul territorio) ed impersonali (che invece sono candidati all'offshoring) non coincide con quella tradizionale tra lavori qualificati e lavori con poche o scarse competenze, non basta dare ai giovani più istruzione. Con il dispiegamento della transizione, il numero di persone soggetti all'offshoring nei Paesi ricchi esploderà. Si può prevedere che questi soggetti andranno a formare una potenziale forza politica all'interno dei propri Paesi. Negli Stati uniti, lo stress del mercato del lavoro è stato, fino ad oggi, sempre molto acuto per i lavoratori meno istruiti e con meno competenze, ovvero per coloro che sono meno propensi e meno capaci di far sentire la propria voce attribuendole un peso politico. Al contrario, le nuove categorie di lavoratori esclusi dal mercato, in particolare quelli che provengono dai ceti più istruiti, non saranno né passivi né inerti. E saranno numerosi. Il libero mercato sarà quindi presto soggetto a grandi scossoni. L'offshoring su larga scala di servizi impersonali trasferiti dalle nazioni ricche a quelle povere potrebbe anche pesare diversamente sulle diverse caratteristiche del quadro economico degli Stati Uniti e dell'Europa. Il mercato del lavoro statunitense, più fluido e flessibile, probabilmente si adatterà meglio e con migliori risultati ai mutamenti radicali che investiranno i luoghi di lavoro e l'istruzione, rispetto al più rigido mercato del lavoro europeo. Al contrario di quello che si pensa, gli Americani e i residenti delle nazioni di lingua inglese hanno meno ragioni per temere le sfide provenienti dalla Cina (per lo più nel settore manifatturiero), e molte più per guardare con preoccupazione a quelle poste dall'India nell'ambito dei servizi. L'India sta migliorando le sue capacità di sfruttare il già ingente vantaggio comparativo nella conoscenza e diffusione della lingua inglese. Gli econo misti Jagdish Bhagwati, Arvind Panagariya e T. N. Srinivasan intendevano rassicurare gli americani quando scrissero che "Riversare sui mercato del lavoro trecento milioni di lavoratori qualificati in India e in Cina richiederà qualche decennio". Avevano ragione. In effetti, qualche decennio è esattamente l'unità e la prospettiva temporale che la gente deve adottare per sviluppare riflessioni sui tema. Trecento milioni di lavoratori sono pari a circa il doppio della forza lavoro statunitense. Tanti altri effetti dell'imminente trasformazione industriale sono diffici148


li da predire o immaginare. Un caso: per decenni si è creduto che la vita economica moderna fosse caratterizzata da luoghi di lavoro sempre più stranianti e disumani, come in Tempi moderni di Charlie Chaplin. Invece, è possibile che lo spostamento del mercato del lavoro verso i servizi personali rovesci, nei Paesi ricchi, questa tendenza, in termini di minore alie nazione e maggiore soddisfazione per la vita lavorativa. Purtroppo, il futuro conserva il suo mistero. A. ogni modo, l'offshoring si rivelerà con ogni probabilità molto più che semplicemente affari ("business as usual").

(Traduzione di 6'. Lopedote)

149


queste istituzioni n. 1461147 estate-autunno 2007

Internet al collasso? Piuttosto, un'osteoporosi di Claudia Lopedote

U

no studio di Nemertes Research Group', "The Internet Singularity, Delayed: Why Limits in Internet Capacity Will Stifle Innovation on the Web", riportato dal quotidiano tedesco Sueddeutsche Zeitung, fissa aI 2010 la probabile data del collasso di Internet, a causa della saturazione delle infrastrutture, inadeguate alla richiesta di traffico per contenuti sempre più ingombranti e pesanti (video in streaming, peer-to-peer file sharing, dowloading di musica e filmati dal Web), che richiedono connessioni, trasmissioni e servizi veloci e costanti, di alta qualità: "As bandwidth demand increases it is most likely to be constrained by the broadband pipe that connects the user to the Internet. Ukimately, the limitations of this pipe will degrade the Internet experience and prevent the deployment of bandwidth intensive applications" 2 . VERSO LA SATURAZIONE DELLA RETE

Secondo la società Netcraft, sono oltre 100 milioni i siti Web oggi, contro i 18 mila di dieci anni fa, con 360 milioni di utenti e con un traffico pari à 161 miliardi di gigabyte. Ai quali si aggiungono i tanti dispositivi wireless (telefoni mobili, Blackberrys, game console, etc.) che generano la domanda di ulteriori accessi alla Rete, con una crescita esponenziale nel consumo di banda larga. Ragione per la quale, la Nemertes Research applica la legge di Moore (le prestazioni dei processori e il numero di transistor ad esso relativo raddoppiano ogni 18 mesi) non al volume del traffico, bensì alle applicazioni e ai dispositivi che lo stimolano e/o veicolano. I rischi? Non il collasso, in verità. Per quanto la stampa, compatta, abbia dato risalto allo studio in questione sfruttando la notiziabilità dell'implosione, è la stessa Nemertes a concludere che la risposta alla domanda "Internet collasserà?", è "No. It's simply not possibile, the Internet's fundamental architecture precludes it". Piuttosto, sono ipotizzabili rallentamenti, interruzioni, o sospensioni delle applicazioni Internet con meno 150


potere e/o con inferiore capacità di pagare per accedere alla Rete (o ai core routers) ed ottenere la trasmissione dei propri contenuti: "The Internet nelle parole del Presidente di Nemertes Research, Johna Till Johnson is inherently self-protecting. You can't push more traffic onto the 'Net than it can handle. This means that studies which focus just on growth rates of existing traffic on the Internet miss the issue of how much more traffìc could be appearing on the 'Net - based on the measured demand by business and consumer users - if Internet capacity were sufficient to accommodate it". Secondo una suggestiva similitudine, gli utenti di Internet (non quelli che accedono ai core routers con connessioni rapide a banda larga) potrebbero presto trovarsi nella situazione ormai comune dei guidatori bloccati nel traffico, impiegando gran parte del loro tempo nel tentativo di raggiungere la meta. Not a positive user experience. -

I limiti all'innovazione non sono solo tecnologici D'altra parte, Nemertes dipinge un ulteriore, deteriore scenario: l'arresto dell'innovazione tecnica e commerciale, nel campo dei servizi (perché progettare nuove avveniristiche applicazioni che non potrann9 poi avere funzionalità garantita?), come dei contenuti. A rischio di competitività. Una sorta di osteoporosi del mercato delle nuove tecnologie. Non una prospettiva da poco, se si pensa che in Europa l'IcT (Information and Communication Technology) guida il 50% della crescita di produttività e che, secondo uno studio del MIT, la banda larga stimola l'occupazione e lo sviluppo economico (al punto che è nata una specifica area di studi, la Internet Economics). Per non dire pòi delle opportunità che crea sul versante di consumatori ed utenti nelle loro specificazioni di cittadini, clienti, imprese, istituzioni culturali, economiche, sociali e politiche, associazioni per la promozione di diritti, libertà, conoscenza ed informazioni utili, etc.. Al punto che la banda larga è entrata, tra le priorità, nell'agenda dei Governi di quasi tutto il mondo. Ora, esprimere preoccupazione per lo stato di salute di Internet tout court non basta. Per quanto sia un fenomeno, anzi il fenomeno espressione della globalizzazione (il Villaggio globale di Marshall McLuhan) e dell'interconnessione (la Six Degrees ofSeparation Theo7y di Ithiel de Sola Pool e Manfred Kochen), è innegabile il divario o digital divide - talvolta incommensurabile - esistente in termini di diffusione e grandezza del fenomeno stesso da Paese a Paese, da un Continente all'altro. Con cinque 151


miliardi di persone escluse. In effetti, la ricerca in questione distingue fra cinque macro regioni: Nord America, Europa, America Latina, Asia, Africa-Medio Oriente. Nel 2006, lo United States Census ha stimato che, su un totale di circa 1,2 miliardi di utenti Internet, ben 234 milioni sono cittadini degli Stati Uniti d'America. In Italia, terzultima in Europa per accessi, il quadro è assai differente: secondo l'Osservatorio permanente sui contenuti digitali (c£ l'indagine commissionata ad AcNielsen nel giugno 2007), solo il 36% degli italiani3 accede ad (non necessariamente possiede) una connessione Internet, e solo il 23% quotidianamente. In Europa, con 221 milioni di naviganti, sono al primo posto i Paesi Bassi (83% della popolazione), e all'ultimo la Russia.

Gli interessi e le politiche di intervento Il problema, nondimeno, è come promuovere o come non ostacolare questa crescita. O meglio, chi deve. sostenerla concretamente. È il tema del sostegno all'innovazione. Secondo Nemertes, la strada per evitare la catastrofe è una sola: investire 137 miliardi di dollari per potenziare l'infrastruttura di Internet in termini di accesso a banda larga ed industria delle reti dorsali, in considerazione dell'architettura esistente (reti fisiche diverse, private, indipendenti, ma interconnesse): 42-55 miliardi solo negli Stati Uniti - ovvero il 6070% in più di quanto i provider hanno intenzione di investire (72 miliardi di dollari) - per i prossimi cinque anni, al fine di soddisfare una domanda (contenuti che devono transitare sulla Rete) che supera di gran lunga l'offerta (determinata dalla capacità della Rete stessa). Dice Larry Irving, co-Presidente dell'Internet Innovation Alliance: "It's important to note that even if we make the investment necessary between now and 2010, we still might not be prepared for the next killer application or new internet-dependent business like Google or YouTube. The Nemertes study is evidence the exaflood is coming". Gli strumenti: adoperare la leva fiscale, con la detassazione delle società del settore, e mettere in atto opportune politiche commerciali e globali (es: regulatory holidays). Sulla base del principio implicito - pienamente condivisibile - secondo cui l'intervento pubblico è il presupposto dell'uguaglianza delle opportunità e dei diritti che il mercato non contempla. Tuttavia, questo non deve ingenerare un automatismo tale per cui i co152


sti delle inefficienze private ricadono sul pubblico sempre e comunque. Soprattutto in un mercato altamente remunerativo. E non sorprende che la domanda-rivendicazione di maggiori risorse ed investimenti pubblici nelle comunicazioni elettroniche provenga da un soggetto la cui bias è evidente: il committente dello studio di Nemertes è, infatti, The Internet Innovation Alliance (www.internetinnovation.org ), una lobby di Internet provider americani (tra cui il colosso AT&T), secondo i più; un gruppo non-profit dedicato all'approfondimento. dei temi della tecnologia "broad band", secondo l'interessata. LA BANDA LARGA CONTRO L'INQUINAMENTO

Anche se, il legittimo sospetto è mitigato dalla constatazione che un'altra fonte sul fronte opposto si attesta sulla stessa linea di analisi: l'Amencan Consumer Institute, l'associazione a tutela dei consumatori negli Stati Uniti. In un articolo il cui titolo è un perentorio manifesto d'intenti (G. De Palma, "Per salvare il pianeta serve la banda larga. Se tutti usassero le connessioni veloci si eviterebbero 1 miliardo di tonnellate di emissioni nocive", Corriere della Sera, 12 dicembre 2007), sono riportati i dati contenuti nel Rapporto sull'inquinamento responsabile dell'effetto serra, "Broadband Services: Economic and Environmental Benefits" (31 ottobre 2007) 4 . Un miliardo di tonnellate di emissioni nocive sono pari all' 11% delle emissioni americane. Tuttavia, non sono le infrastrutture di rete a migliorare il mondo, bensì i servizi che è possibile erogare attraverso la banda larga, in alternativa ed in sostituzione di quelli equivalenti, con caratteristiche fisiche e tangibili. Alcuni esempi: l'e-commerce invece dello spostamento fisico di merci e persone, con annessi imballaggi, magazzini, incarti e bòlle di accompagnamento; il telelavoro invece del pendolarismo e del traffico urbano con relativi costi di riscaldamento, illuminazione e simili degli uffici e dei palazzi; la teleconferenza al posto della confluenza di poche o moltissime persone in uno stesso luogo; la digitalizzazione di molti beni di intrattenimento che ne evita la riproduzione e moltiplicazione fisica attraverso una disponibilità generalizzata e on demand. Tuttavia, la disponibilità di banda larga non sembra compiere il miracolo, se non vi è un'offerta di servizi online che spinge il pubblico a sostituire in misura crescente il consumo di servizi fisici, modificando la propria domanda di beni. Negli Usa, il 95% della popolazione ha accesso alla banda larga, ma solo il 45% ne usufruisce concretamente: "As noted 153


in this study, only one in two of every American household subscribes to broadband Internet services, despite the fact broadband access is available to nearly 95 out of every 100 homes 5 . Broadband subscriptions cannot be mandated in a market economy like the U.S., but the potential environmental benefits documented in this study - most notably the reduction in greenhouse gases - can be fully realized only if broadband investment, delivery and consumption continue to expand at a rapid pace" 6 .

Disfi4nzioni e inefficienze di mercato Ma torniamo agli egoismi di mercato. Dopo ampi processi di liberalizzazione nel corso degli anni Novanta, il mercato - le cui logiche automatiche ed i cui equilibri invisibili ed efficaci sono tanto lodati alla bisogna - in questo caso sembra fare qualche passo indietro, chiamando Io Stato ad assumersi una parte di oneri e responsabilità. In Italia, ad esempio, si procede per mezzo del supporto all'operatore pRi forte affinché esso sostenga gli investimenti necessari ad aprire, in un secondo momento, le reti agli altri operatori. In un quadro di attenta regolamentazione. Si chiede flessibilità ed apertura, ma si dimostra di non avere le forze ed il coraggio per cogliere le sfide e le opportunità del mercato. Eppure, proprio in Italia si rileva una sottoutilizzazione delle reti, in particolare della fibra ottica, non per mancanza di infrastrutture in generale, bensì sull'ultimo miglio che collega i singoli utenti alla rete. Investimento che spetterebbe all'operatore, in una logica di competitività nella conquista del cliente. E che ha già le sue agevolazioni in termini di prassi e giurisprudenza, laddove - in prima battuta - è stato affermato il principio di servizio universale delle comunicazioni come "diritto a ricevere/accedere a", da cui discendono il rilievo e l'interesse pubblico, e pertanto il fatto che il soggetto pubblico si faccia carico della costruzione delle infrastrutture necessarie (i costi delle opere di scavo per la posa dei cavi, lo sgombero e la liberalizzazione di una parte delle frequenze per la trasmissione via radio a banda larga del sistema WiMax 7. E così via); in seconda battuta, poi, è stato sancito il diritto degli operatori concorrenti ad accedere alle infrastrutture esistenti (es. di Telecom Italia) sulla base di accordi di interconnessione, a condizioni economicamente ragionevoli e non discriminatorie, qualora la predisposizione di nuove infrastrutture non appaia una soluzione desiderabile sul piano dei costi e/o della logica com154


plessiva. Pur con la previsione di limitazioni a garanzia della tutela dell'investimento dell'operatore che deve potere godere della compensazione del successo ottenuto a partire dall'assunzione di un rischio: "To achieve such compensation, it may be necessary... to exclude others from access to the input for a certain period of time... even when this entails eliminating effective competition during this period '8 Secondo gli autori del rapporto Nemertes, la sola speranza di colmare il gap una volta per tutte è data dalla possibilità che l'innovazione tecnologica disegni e realizzi soluzioni di accesso sempre meno legate all'investimento intensivo di capitali: ADSL, fibra ottica, alternative wireless per l'ultimo miglio, etc.. Altrimenti, non resta che rassegnarsi ad assistere ad una comprèssione della domanda: "access almost certainly limits what users expect to do. If access becomes so limiting, then users may decide not to use the Internet and thus reduce the need for additional investment. In such a situation, the market for innovative new Internet-based services would quickly dry up. UNA, CENTO, MILLE RETI

La Rete è mille, differenti cose: informazione, business, e-commerce, elearning e formazione, community intrattenimento, comunicazione interpersonale (many-to-many, many-to-one, one-to-one, one-to-many), mail, chat, blog, telefonia, instant messaging, e-tv, Second Life, e-government, e-democracy (in misura assai limitata), attivismo, vetrine, siti personali, etc.. In ragione delle caratteristiche stesse di Internet come insieme di reti interconnesse di diversa natura e capacità, si ripropone ciclicarnente la problematica degli equilibri (non solo economici), tra operatori: e infatti evidente che i benefici della connettività dipendono dal numero di utenti collegati, e nel collegamento tra reti di dimensione differente sono soprattutto i clienti della rete più piccola ad ottenere i maggiori vantaggi. Crèmer, Rey e Tirole (2000) hanno sviluppato, ispirandosi al noto lavoro di Katz e Shapiro (1985 9), un modello che dimostra come, in un accordo di peering, possano sorgere incentivi a degradare la qualità dell'interconflessione, quando le reti sono di dimensioni differenti. Infatti, in una interconnessione è necessario stabilire la capacità dei collegamenti e dei routers messi in comune. Un mancato adeguamento della capacità può 155


portare a fenomeni di congestione frequenti, rendendo più difficoltoso raggiungere utenti non collegati alla propria rete" 10 . Sicché si creano fenomeni di opportunismo o free riding, tali per cui alcuni operatori decidono di non investire in infrastrutture e tecnologie evolute (dimensioni delle reti, estensione geografica, ampiezza di banda, volumi di traffico, punti di accesso, etc.) per sfruttare le esternalità positive delle reti altrui. Si tratta di comportamenti anti-competitivi contrari allo spirito (in concreto non ha funzionato) del dettato normativo del principio comunitario del "ladder of investment" (2003) volto a favorire l'innovazione nei Paesi membri (nel Rapporto 2006 dei Regolatori Europei 1 ' sulla concorrenzialità nella larga banda in Europa, l'Italia figura al terzultimo posto nonostante gli ingenti investimenti pubblici). In Europa, la diffusione della banda larga è del 10%, e la stessa commissaria europea Viviane Reding ha detto: "I cannot see how Europe can go into the knowledge economy with the infrastructure of the industrial era still in place in some regions... The goal is to have sustained effective competition without ongoing regulatory intervention; for example, to have competing companies delivering services over their own infrastructures, and not being dependent on access being provided by a stronger competitor" 12 Quest'ultima affermazione riporta alla condizione, di segno inverso, dei nuovi operatori che si affacciano sul mercato, ma con poche o scarse chance di successo in ragione delle elevate barriere di ingresso - non transitorie ma strutturali - costituite dagli alti costi iniziali delle infrastrutture. Qualora i nuovi decidano comunque di investire, dovranno fare i conti con la rendita di posizione degli incumbents (principali controllori del backbone, ossia dell'infrastruttura essenziale di trasporto delle informazioni) che garantiscono prezzi più competitivi per gli stessi servizi, e che possono addirittura agire quale freno ad ulteriori sviluppi tecnologici ed applicativi al fine di conservare i propri vantaggi e/o mantenere i costi al di sopra di una determinata soglia, costringendo i concorrenti ed i content provider ad appoggiarsi alle proprie reti. Soprattutto da quando, con la convergenza tecnologica, i proprietari delle reti sono anche content provider essi stessi, nella logica di una crescente integrazione verticale dei mercati. .

ESERCIZI DI DISTINZIONE

Sulla base di questa varietà di scopi e tipologie di utenti, poi, è da tempo che si parla dell'ipotesi di una differenziazione all'interno della Rete, basa156


ta sulla disponibilità a pagare un dato prezzo, nella veicolazione di pacchetti di dati che necessitano priorità o garanzie di qualità della connessione per la trasmissione e l'erogazione dei contenuti/servizi. La Rete si basa sulla massima ed ampia usabilità con il minimo delle risorse. Internet, infatti, funziona sulla base del protocollo I (Internet Protocol) che lavora secondo il "best effort racket delivery", e dei protocolli di trasporto Tc (Transmission Control Protocol) e UDP (User Datagram Protocol) che invece garantiscono un uso ottimale dell'Ip, in termini di consegna dei pacchetti (ritardi, congestioni, ritrasmissione, consecutio temporum, verifica degli errori) e costruzione di un canale di comunicazione affidabile tra i due processi applicativi. Vi sono però strumenti aggiuntivi di controllo a livello di gestione della rete (v. ICMP, Internet Control Message Protocol; semantica di rete At-most-once o At-least-once). Si tratterebbe di istituire Internet a due velocità, alcune reti di serie A ed altre di serie B, C, e così via. Se ne è parlato negli USA in sede congressuale di ridefinizione del Communication Act del 1996, col risultato di sollevare proteste e allarmi ovunque ad opera delle grandi compagnie di telecomunicazioni. Ha iniziato il Ceo di AT&T, Ed Whitacre, su Business Week di novembre: "Perché [Google, Yahoo, Amazon, ndr.] dovrebbero usare la mia rete? Internet non può essere gratuita, noi e le cable company abbiamo fatto investimenti, e questi si aspettano di usare queste reti gratis: è una stupidaggine". La Federal Communications Commission (Fcc) valuterà. Il modello di business invocato dalle Telco prevede quindi il pagamento da parte dei content provider per l'uso della rete o per alcuni servizi di banda larga, sulla base di una naturale segmentazione del mercato tra servizi/contenuti gratuiti e servizi a pagamento, laddove per i primi è ipotizzabile che la qualità (velocità, efficienza) sia meno importante. In parte è quanto già avviene attraverso alcuni software che agiscono da filtro del traffico che deve transitare lungo la Rete, dando priorità ai contenuti a pagamento. Negli USA, America On Line e Yahoo! offrono già ai loro clienti un francobollo elettronico che dà priorità alle mail affrancate come vere e proprie email raccomandate 13 . Il modello del best effort varrà pi1 per alcuni. Le Telco hanno cercato di aprirsi una via in tal senso, dissipando i dubbi ed i timori che un siffatto modello comporta sui piano del controllo sui servizi (contenuti e connessioni), in nome della libera contrattazione con i clienti, e con il richiamo alle altre utili applicazioni di un simile discrimine (e controllo) dei contenuti: ad esempio, arginare la pornografia (quella amatoriale, forse), prevenire il terrorismo e altri cybercrime, limi157


tare il P2P tutelando il diritto d'autore e la proprietà intellettuale. Non così secondo i sostenitori della Rete libera. Già nel 2006, David Clark, esperto delle nuove tecnologie, richiamava l'attenzione del pubblico e dei governi sulla complicata architettura di Internet e sulla sua intrinseca mancanza di sicurezza, ogni giorno più fragile e più difficile da gestire: "Potremmo assistere a uno stallo dell'utilità della Rete, forse si potrebbe addirittura tornare indietro". Sempre nel 2006 (La Stampa, 03.11.2006), l'inventore di Internet come la conosciamo oggi, Tim Berners-Lee, parlava di "bad things" all'orizzonte: informazioni sbagliate e strategie di disinformazione, e allo stesso tempo forme di controllo e censura intrecciate a manipolazioni ormai generalizzate, con un numero incalcolabile di vittime spesso inconsapevoli. Nel frattempo, sono stati condotti studi mirati a progettare nuovi sistemi in grado di distinguere tra i diversi segmenti del- vasto mercato dei servizi di Internet. Secondo l'idea di MacKie-Mason e Varian 14, denominata Smart market, un sistema di rivelazione della disponibilità a pagare di ciascun utente potrebbe risolvere il problema: "i diversi routers assegnerebbero la capacità trasmissiva disponibile selezionando i pacchetti a maggior valore dichiarato, richiedendo il pagamento del più basso tra i valori segnalati nei pacchetti effettivamente inviati. Quindi, si realizzerebbe automaticamente un'asta di tipo Vickrey' 5 È noto che questo meccanismo fornisce i corretti incentivi per la rivelazione delle disponibilità a pagare, e che i prezzi di equilibrio forniscono segnali corretti per l'eventuale espansione della capacità dei collegamenti" 16 .

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LA NUOVA MARGINALITÀ DELLE RETI

Chiaro che ad essere penalizzati sarebbero i contenuti e gli usi non meno attrattivi, non meno utili, bensì a carattere non primariamente commerciale, quanto piuttosto interpersonale, di contatto e socializzazione, comunitario ed amatoriale. Che poi sono la maggioranza. I più pensano forse al chatting, al gaming, ai blog e ad altre forme espressive di minore rilievo per la collettività (qualcuno, forse, vedrebbe con favore il ridimensionamento di applicazioni per il tempo libero non proprio "alte"), da sacrificare senza grandi dispiaceri. Vi sono però altri casi, che hanno reso possibile la ricostruzione di comunità linguistiche (o etniche, o geografiche) minoritarie in spazi virtuali, recuperando una ricchezza ed una (bio)diversità, che pure non è economicamente appetibile (potrebbe di158


ventarlo). E comunque, tornando agli usi "bassi" della Rete, c'è chi è pronto a dimostrare che oltre le apparenze si muove ben altro. Come spiega Derrick De Kerckhove: "Non potremmo comprendere le chiacchiere insensate delle chat line, i fiumi di emoticon e di battute che scorrono tra un telefonino e l'altro, senza intravedere alle loro spalle la pulsione erotica che muove il fondo della vita sociale, il desiderio ardente di congiungersi all'altro da sé. In questo scenario, la parola connessione non è altro che il culto tramite cui si manifesta la vocazione di ogni comunità nascente a congiungersi in uno stato di comunione per mezzo di una comunicazione. Qui il contenuto passa in secondo piano rispetto all'effervescenza sociale", che è il cuore del medium stesso. Il vecchio slogan di Marshall McLuhan "il mezzo è il messaggio" non è mai stato così veridico come per i nuovi media, i quali "tendono a caratterizzarsi non come vettori di contenuto, ma come agili ambienti connettivi. Il corpo è il messaggio dei nuovi media elettronici". Non a caso, Internet è lo spazio di sperimentazione di forme estreme (ai limiti della legalità o della accettabilità sociale dal punto di vista del paradigma tradizionale e dei concetti mainstream di relazione, socievolezza, intimità, etc.) di intelligenza collettiva (Pierre Lévy), di collaborazione e connessione. È lo spazio della c.d. cultura della convergenza: quella dei prosumer, produttori-consumatori, ovvero consumatori attivi nella (ri)produzione e manipolazione di materiali, attraverso una creazione originale o un apporto personale (quid novi) a prodotti già esistenti 17, come il bricoleur di Claude Lévi-Strauss. E a metterli in comune. Ponendo le basi per una nuova economia ed un inedito sistema culturale, come sottolineato da Henry Jenkins, professore al MIT di Boston, ed autore di La cultura convergente (Apogeo, Milano, 2007). Secondo De KerckhovelS, si tratta, in sostanza, della ricostruzione della sfera pubblica (o meglio, di una sua replica) in forma di "tanti addensamenti a carattere neo-tribale, ognuno dei quali dotato di un proprio ordine etico che travalica la morale universale, i suoi strumenti, i suoi paradigmi. È per questo che la maggior parte dei cybernauti violano la legge del copyright spontaneamente, sacrificando i propri doveri di cittadinanza al piacere di congiungersi al gruppo tramite informazioni, simboli, suoni e affetti condivisi". Fino alla messa a punto di vere e proprie tattiche di resistenza al potere - tattiche, non strategie, poiché si "lotta" senza possedere un territorio, effettuando continue incursioni, in un processo di incessanti, esigue conquiste - che danno alla Rete il sapore neo-romantico di strumento "tramite cui affinare e socializzare le radicate tattiche di 159


furbizia popolare, tutti quei metodi minuscoli tramite cui il popolo si è sempre difeso dallo sguardo aggressivo del potere. Il passaggio al quale assistiamo si manifesta tuttavia sotto forma di una vera e propria mutazione antropologica, in cui cio che prima si esprimeva in termini di resistenza si traduce oggi in "creazione" e "ricreazione". Sempre De Kerckhove osserva che la potenzialità largamente realizzata di Internet è quella di mettere insieme "sensibilità prima troppo esigue e sparpagliate per manifestarsi in modo operativo e visibile". Sicché, "la mappa del potere e il volto della tecnologia si trasfigurano", fino a creare veri e propri totem che coagulano nuove comunità di esperienza, le tribù postmoderne, il cui legame è basato in larga parte sulle emozioni, i simboli ed il sentire condiviso, "come le nuove matrici dell'essere-insieme, come i nuovi presupposti di ogni fusione collettiva". Scrive Pierre Musso (L'ideologia delle reti, Apogeo, Milano, 2007): "La tecnologia è il totem della società postmoderna, il nuovo oggetto di culto e il suo riferimento simbolico di base". Gli Internet providers - sulla base di una ovvia logica economico-commerciale - potrebbero decidere di specializzarsi in alcuni servizi ad alto valore aggiunto (tipicamente, quelli aziendali e di business), trascurandone altri. È il caso dei siti dei content provider, le cui pagine Web richiedono una notevole capacità di banda, molte risorse ed un'alta capacità trasmissiva, senza ricavi degni di nota per i gestori delle reti più grandi e veloci. E quanto sta accadendo con alcuni gestori di dorsali internet (IBo) che hanno spostato il focus della loro attività nel mercato business. Del resto, con lo sviluppo e la diffusione delle tecnologie di trasmissione via cavo ottico (e la conseguente crescita degli operatori) che assicurano sempre maggiore ampiezza di banda assicurata, aumenta la domanda di larghezza di banda a livello di dorsali. UN EQUILIBRIO TRA LIBERTÀ E DIRITTI

La principale annotazione da fare attiene ai profili del diritto di comunicazione ed informazione (sono i grandi temi del servizio universale, dell'accesso, dei diritti di cittadinanza, della tutela e promozione delle diversità - linguistiche, etniche, e così via) - il cui risvolto soggettivo (del cittadino verso lo Stato e verso i media) è stato affermato dalla Corte costituzionale in termini di pluralismo interno ed esterno a garanzia (sentenze n. 826/1988 e n. 420/1994) del "massimo dipluralismo esterno, al fine di soddisfare, attraverso una pluralità di voci concorrenti, il diritto del

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cittadino all'informazione"— tanto più che Internet è stata da sempre considerata un bene pubblico, la cui nascita si deve ad investimenti governativi nel campo della difesa statunitense (Arpanet, Advanced Research Projects Agency Network, 1969). È su questo piano che si può ragionevolmente formulare una proposta per ridisegnare la funzione ed il ruolo dell'attore pubblico nell'ambito di Internet, non soio come garante della concorrenza, ma anche dell'uguaglianza di accesso alla Rete stessa, da parte dei diversi operatori (Internet e content provider, sviluppatori di tecnologie e software), ma soprattutto da parte dei diversi pubblici. Con la messa a punto di politiche di regolazione che facilitino gli investimenti privati per l'innovazione. È questa la direttrice di intervento evidenziata nel corso del secondo incontro dell'Internet Governance Forum (IGF) 19 dalla componente che ha partecipato in rappresentanza degli operatori di rete. Soprattutto con riferimento alla predisposizione di un ambiente favorevole allo sviluppo ed alla diffusione di nuove tecnologie, in prima linea la broad band, che concili la liberalizzazione con una regolazione pro-competitiva: "Achieving the public service value of the Internet requires universal and affordable access to ICT infrastructure for all... this requires a stable legal and regulatory structure that make it safe for business to invest". In tema di sviluppo del settore delle frequenze radio, poi, il Forum ha portato all'attenzione dei policy maker la necessità di eliminare le restrizioni sulle tipologie di servizi erogabili, al fine di concentrare l'attenzione sul più ampio accesso, che includa le popolazioni marginali, ovvero escluse da Internet, con incentivi agli operatori che inseriscono nei propri piani la copertura di aree e regioni non remunerative. In Italia, si potrebbe iniziare dall'impostazione di criteri di assegnazione delle licenze per trasmettere sulle frequenze 'WiMax (e di revisione di quelli per le frequenze Umts già assegnate) che tengano conto, come auspicato dalla Commissione europea, dell'interesse della collettività, non solo della performance economico-finanziaria. Facendosi ad esempio promotore di politiche volte a favorire l'adozione di standard favorevoli ad un più ampio e sicuro accesso: "Oltre a creare condizioni efficienti di ingresso sia delle imprese che degli utilizzatori, il settore pubblico può divenire un fornitore di contenuti tali da incentivare la connessione, ampliando il mercato potenziale ed innescando così un circolo virtuoso di opportunità di sviluppo per il mercato. La presenza di elevati costi fissi e affondati per costruire le reti fisiche e i bassi costi di utilizzo in assenza di congestione sembrerebbero portare verso condizioni di mono161


polio naturale che però sono superate dal fatto che vi sono reti alternative già funzionanti" 20 . Tenendo bene a mente che sono i servizi a conferire valore ad Internet. Nondimeno, le infrastrutture sono risorse critiche, in termini di politiche e di governance con effetti non limitati al solo settore delle comunicazioni.

http://www.nemertes.com/internet_singularity_delayed_why_limits_internet_capacity_wil l_stifle_innovation_web? 2 Nemertes ha fatto ricorso ai seguenti strumenti metodologici e fonti per la valutazione e misurazione della domanda e della capacità della banda larga: research data e statistiche sui traffico raccolte da organizzazioni accademiche quali CALDA e MINTS; User demand data provenienti da una varietà di fonti, tra cui Pew Research ed il Center for The Digital Future dell'Usc Annenberg School; documentazione di pubblico accesso, compresi i dati finanziari dei vendor/service provider; oltre settanta interviste confidenziali ad imprese, grandi gruppi, fornitori, service providers, e compagnie di investimento; interviste a centinaia di dirigenti de!l'information Technology che hanno partecipato con regolarità alle indagini di benchmarking condotte da Nemertes; cifre e dati sugli investimenti dei service providers e sulla produzione di attrezzature da parte delle grandi compagnie di telecomunicazione. La ricerca tratta indipendentemente gli investimenti in infrastrutture ed i patterns di traffico sulle stesse, in modo da valutare se, ad esempio, un rallentamento del trend incrementale della domanda sia fisiologico o, invece, indotto dall'offerta insufficiente. Secondo le ultime stime della Commissione europea, l'italia è al quarto posto in Europa per diffusione della banda larga, in larga parte per la carenza, sul versante delle reti di accesso, di reali I

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infrastrutture alternative al doppino telefonico. Le tecnologie wire!ess come il WiMax potrebbero dare un importante contributo alla riduzione del divario digitale, mettendo a disposizione più banda larga per tutti garantendo il diritto all'accesso veloce alla rete come moderno servizio universale. Con l'assegnazione delle frequenze WiMax (entro il 2008), l'ambizioso obiettivo de! Governo è di azzerare il digital divide entro i! 2011.

Aci, Broadband Services: Economic and Environmental Benefits. A cura di Joseph P. Fuhr Jr. e Stephen B. Pociask. Fonte: http://www.aci-citizenresearch.org/Final%2øGreen%2øBenefits.pdf. 5 KAGAN RESEARCH: Broadband Cable Financial Databook 2006. Kagan reports cable high speed data service is available to at least 94% of al! Us househo!ds. The National Cable & Telecommunications Association reports 119.1 mi!lion housing units in 2006, in www.ncta.com 6 AcL,p.3 7 In tema di aste per l'assegnazione delle frequenze per la trasmissione con lo standard WiMax, la Commissione europea ha emanato una comunicazione che mette in agenda la revisione delle modalità di svolgimento delle stesse e di concessione delle licenze. L'iter della riforma del quadro rego!amentare in materia di comunicazione elettronica (c.d "Review") sarà poi formalizzato, per entrare in vigore entro i! 2010. L'obiettivo è quello di favorire criteri e lineeguida che non agevolino automaticamente gli


operatori con rendite di posizione, ma le offerte migliori (copertura e servizi) ai minori costi per gli utenti. 8 Cf. European Commission Draft Guidelines on the application ofArt. 82, §219, dei Trattato di Roma, 08 giugno 2005. 9 KATZ, M.L., SI-iAiIRo, C. (1985), Network Externalities, Competition, and Compatibility, in «The American Economic Review», voi. 75, pp. 424-440. IO CAIU.o CAMBINI-ROBERTO RosoN, Interconnessione e competizione nella rete Internet, 2002. Fonte: http:/lenteos2.area.trieste.it/russol Introlnfo2001-2002/Tcp-Ip (Rutgers%20e%20teoria)/. Il Cf. www.erg.eu .int 12 CEPs Task Force, 15 settembre 2005. 13 11 'francobollo' elettronico costerà, a seconda del volume di posta, tra un quarto di centesimo di dollaro ed un centesimo, ed è destinato ad essere usato soprattutto dalle compagnie che inviano, in modo legittimo, una alta quantità di messaggi. Le e-mail di prima classe riceveranno un automatico 'certificato di garanzia' da Aol e Yahoo (ma il progetto non è ancora delineato nei dettagli) che farà arrivare i messaggi elettronici direttamente a destinazione evitando i filtri di vario tipo che selezionano i messaggi, bloccandoli se inviati ad un alto numero di destinatari, o che fermano le immagini spesso allegate

alla posta elettronica. Le e-mail col francobollo saranno trattate come le due compagnie trattano adesso i messaggi il cui mittente è conosciuto al destinatario". Yahoo!-Aol, ecco l'e-mail che si paga. Nasce la posta di prima classe, in «la Repubblica», 5febbraio 2006. 14 MACKIE-MASON, J.K. ANO H. VAJUAN, "Pricing the Internet". In KAHIN B., KELLER J., Public access to the Internet, MIT Press, Cambribge MA, 1995, pp. 269-3 14. 15 Le offerte sono contemporanee e segrete. L'offerente con la proposta più alta si aggiudica la merce al prezzo della seconda più alta. 16 C. CAMBINI-R. RosoN, op. cit. 17 Creazione originale contemplata e riconosciuta anche' dalla normativa italiana sul diritto d'autore. Si veda la legge .22 aprile 1941, n.633 (art. 4). 18 DERRICK DE KERCKHOVE, VINCENZO SuscA, Tecnologia fa rima con magia, in «L'Espresso», n. 52, anno LIII, 3 gennaio 2006, pp. 130-132. 19 Rio de Janeiro, 12-15 novembre 2007. Questi i profili della discussione: Access; Diver sità; Openness; Security. Fonte: http://www.intgovforum.org 20 CAMBINI C., VALLETTI T., "I servizi Internet: struttura di mercato e concorrenza", in GARRONE P., MARlorri S. (a cura di), L'economia digitale, Il Mulino, Bologna, 2001.

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queste istituzioni

n. 1461147 estate-autunno 2007

saggio

Il Presidente della Repubblica nel sistema politico italiano di Mauro Tebaldi

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1 ruolo istituzionale del capo dello Stato italiano rappresenta, per chi intende analizzano con i metodi delle scienze sociali, un problema complesso. Lo è per diverse ragioni, che rendono la presidenza della Repubblica,a detta di uno dei suoi massimi studiosi (Cheli 1985), l'istituzione più enigmatica del nostro ordinamento. Qui mi preme sottolineare, in particolare, due questioni controverse, dalle quali dipende la scarsa attitudine della scienza politica a praticare questo ambito di ricerca; al punto che, a dispetto del suo continuo progredire, la letteratura sul sistema politico italiano ha relegato il ruolo del capo dello Stato in secondo piano, sia che lo si intenda come uno degli explicans del funzionamento sistemico, sia che lo si consideri come l'explicandum. Dalla reazione a questi problemi, come vedremo, discendono anche le "contromosse" teoriche e metodologiche qui adottate. PROBLEMI, TEORLk E . METODO

Il primo aspetto solleva alcune questioni circa la strategia di ricerca da intraprendere, data la natura monocratica dell'istituzione. Il ruolo marcatamente individuale del capo dello Stato renderebbe plausibile ipotizzare i suoi comportamenti determinati, in tutto o in parte, da fattori idiosincratici. Gli approcci che accolgono questa impostazione si fondano sull'assunto che ciascun settennato faccia storia a sé, e che, dunque, l'uso più o meno incisivo dei poteri presidenziali dipenda essenzialmente dalle qualità specifiche (culturali, etiche, relazionali, caratteriali, ecc.) del detentore della carica. A ciascun presidente farebbe capo, pertanto, una peculiare interpretazione del ruòlo: un vero e proprio stile presidenziale, unico, irripetibile e incomparabile. L'autore è professore associato di Scienza Politica, all'Università di Sassari e professore incaricato di Politiche Pubbliche all'Università di Genova. 164


La nostra scelta metodologica privilegia invece l'adozione di strumenti comparatistici. Essi prendono corpo a partire da un'ipotesi-guida, in base alla quale i comportamenti presidenziali sarebbero comparabili e generalizzabili poiché sottoposti all'influenza di fattori politico-istituzionali che ne determinerebbero, in larga misura, le opportunità e le modalità d'azione. Pit in particolare, si è inteso impostare l'analisi sulle condizioni strutturali e processuali (imperniate sugli assetti istituzionali e su quelli del sistema partitico) entro le quali il ruolo è calato, e che si può ipotizzare ne plasmino i tratti di fondo, oltreché la propensione ad intervenire nelle decisioni pubbliche. Con questo non si vuole peraltro sostenere che la storia personale dei presidenti della Repubblica sia irrilevante per comprenderne i comportamenti istituzionali. Al contrario, mai come in questo caso possiamo affermare che la storia conta. Essa diviene una variabile esplicativa essenziale per mettere a fuoco alcuni passaggi cruciali dei diversi settennati, a partire dalla fase elettorale. Le caratteristiche personali e le esperienze pregresse dei capi dello Stato sono un fattore certamente rilevante per catturare il consenso necessario alla loro elezione; esse possono influire, non di meno, sulla continuità delle interazioni fra elettori ed eletto nel corso del mandato. Il secondo aspetto problematico può apparire a prima vista congruente con l'immagine sfocata che alcuni autori offrono del Presidente della Repubblica italiana. La poca attenzione verso l'istituzione di vertice del nostro parlamentarismo sarebbe infatti dettata dalla debolezza dei suoi poteri formali, soprattutto se raffrontati con quelli delle sue istituzioni "antagoniste", parlamento e governo. Salvo poi chiedersi quale sia la salienza esplicativa di tali poteri quando essi si dilatano, fino a mutare le fattezze e gli equilibri del parlamentarismo nostrano (Fabbrini 1997; Rebuffa 1996). A ben vedere, infatti, fin dai suoi primissimi esordi, l'azione del Quirinale ha dato prova di grande versatilità e flessibilità. Esso si è adattato alle diverse stagioni attraversate del nostro sistema politico facendo leva sulla laconica disciplina costituzionale, che ne definisce per sommi capi i poteri salienti e lascia ampi spazi ai detentori della carica sul come interpretarli, quando farli valere e quanto estenderli. Cosicché, senza modifiche sostanziali all'impianto normativo da cui trae legittimazione, il Presidente della Repubblica ha talvolta influito profondamente sui processi politici del nostro parlamentarismo, allargando in massimo grado il pro165


prio bagaglio potestativo; in altre occasioni si è invece mantenuto ai margini delle arene decisionali, limitandosi ad una partecipazione in chiave notarile. Proprio per segnalarne l'estensione variabile, i poteri del capo dello Stato, sono stati accostati al movimento di una fisarmonica. Si tratta di un'immagine con una esplicita consistenza teorica, alla quale faremo costante riferimento nel prosieguo del lavoro. Grazie a questa metafora, si rende immediatamente percettibile lo scostamento fra la base normativa, scarna e mal definita, e la portata effettiva del potere del capo dello Stato, che in alcune circostanze può accrescersi oltre misura, fino a confliggere con gli altri organi del circuito istituzionale - parlamento e governo - o con soggetti istituzionalmente rilevanti all'interno di quello stesso circuito, come la maggioranza o l'opposizione parlamentare. Gli effetti di questa variabilità sono stati interpretati in modo contrastante. I critici sostengono che la "fisarmonica presidenziale" costituisce un pericolo per il sistema parlamentare disegnato dai costituenti. Una sorta di patologia in forza della quale una figura sottratta al controllo democratico e politicamente irresponsabile può assumere in sé, con scarsi limiti formali, i cruciali poteri di nomina del premier e di dissoluzione del parlamento, oltreché uno sconfinato potere di messaggio. Coloro, invece, che difendono l'assetto istituzionale del capo dello Stato a "geometria variabile", ne enfatizzano il ruolo e le funzioni equilibratrici, fisiologicamente vocate allo sblocco degli stati di crisi del nostro sistema parlamentare. Se, tuttavia, la metafora della fisarmonica richiama gli scostamenti fra regole e prassi dei poteri presidenziali, prima di valutarne le conseguenze sistemiche, è bene comprendere le ragioni e l'ampiezza del fenomeno. Per fare ciò, il nostro ragionamento prenderà le mosse da un esercizio tassonomico. Esso cercherà di definire il quadro realistico dei poteri presidenziali in ambito politico, a partire dalle sue attribuzioni, formali e informali, dei processi e delle sfere politiche in cui egli è coinvolto con proprie autonome capacità di scelta.

I POTEBJ DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA: UNA TIPÒLOGIA

La letteratura sui poteri del Presidente della Repubblica è cospicua. Nell'ambito del diritto costituzionale sono state proposte varie classifica166


zioni, il cui obiettivo è di coniugare le risorse normative a disposizione del capo dello Stato con le funzioni che egli dovrebbe svolgere nel sistema politico. Ne discende una lettura in chiave prettamente prescrittiva, la cui enfasi poggia sulla capacità di e'sprimere con esaustività l'insieme dei compiti in cui si esaurirebbe, a detta di tali autori, il dover essere del Presidente della Repubblica. Quando però si intende passare dalla dimensione prescrittiva a quella empirico-descrittiva, tali strumenti paiono di limitata utilità euristica. Il punto è che la sola classificazione in base all'ammontare di risorse normative è di scarso aiuto se l'attenzione del ricercatore si sposta dai puri atti formali ai fatti sostanziali che definiscono la condotta presidenziale. Quando cioè si passa, per dirla altrimenti, dalla prospettiva dei poteri a quella del potere, potenziale e attuale, esercitato dal Presidente della Repubblica. Se lo si guarda da questo versante,, le risorse normative sono una delle caratteristiche che influiscono sul potere del capo dello Stato. Esse gli conferiscono la possibilità di agire a duplice livello: strutturale e. processuale. A livello strutturale generano la capacità di operare sugli elementi che costituiscono l'impalcatura del regime democratico: le regole del gioco, i valori dominanti della comunità, la struttura dei ruoli in cui si articola il potere politico (Easton 1965). Le regole del gioco politico, che possono essere sia vere e proprie norme giuridiche, sia regole osservate di fatto, stabiliscono i tipi riconosciuti di comportamento che possono essere adottati nella lotta per la conquista del potere politico e nelle condotte volte a influenzarlo. I valori, o principi politici dominanti del regime, orientano l'azione di governo e delineano l'area entro la quale essa può esplicarsi, e ci si aspetta che si esplichi. Nei regimi politici liberal-democratici, i valori operano non tanto nel senso di indicare obiettivi precisi all'azione di governo, quanto in quello di porre a essa dei limiti negativi e un orientamento generale. La struttura organizzativa del potere politico, infine, determina i diversi ruoli, e le corrispondenti diverse forme di esercizio, del potere politico, nonché il modo in cui essi sono stabilmente coordinati (Stoppino 1982, 235). Oltre che nei riguardi del regime politico, e quindi oltre al livello strutturale, il Presidente della Repubblica opera anche a livello processuale. Più precisamente, egli ha capacità di intervento nei processi politici in cui si articola tanto la lotta per il potere, quanto l'esercizio del potere stesso. In questo senso egli si relaziona con le altre istituzioni del sottosistema 167


governo-parlamento, e con i partiti che le permeano, in ordine alla selezione e al rinnovo del personale di governo, e alla formulazione/assunzione di decisioni politiche. Quest'ultima osservazione sposta il nostro ragionamento sulla seconda variabile dello schema tipologico. Se li si esamina piÚ a fondo si può agevolmente rilevare che entrambi i livelli di azione, sia quello strutturale, sia quello processuale, intersecano le due diverse sfere entro le quali si articola l'attività politica. Nella sfera della politics il capo dello Stato presidia e interviene su molteplici fattispecie (regole, ruoli e comportamenti competitivi) che definiscono la lotta per il potere nella nostra poliarchia; in termini di policy, egli è in grado di presidiare e intervenire sia sui valori, nel rispetto dei quali è consentito emettere decisioni vincolanti, sia su specifici obiettivi e contenuti delle decisioni.

Fig. 1 - Tipologia dei poteri presidenziali

strutturale

Rule maker

Value controller

Crisis solver

Policy adviser

Livello d'azione

processuale

politics

policy Sfera d'azione

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Rule maker Il giudizio della letteratura pii autorevole è concorde nell'asserire che il potere di formazione del governo, insieme a quello di scioglimento delle camere, è il punto chiave della funzione presidenziale: quello che maggiormente la connota come autonomo centro potestativo nella forma di governo disegnata dalla nostra Costituzione, e poi messa in atto in senso materiale'. Il giudizio si rafforza alla luce dello sviluppo che il ruolo del Presidente della Repubblica ha avuto nel corso della prima repubblica e, ancor piii, nella fase di transizione, quando la sua progressiva centralità istituzionale ha fatto capo principalmente (anche se non esclusivamente) all'esercizio attivo, e talvolta scevro da condizionamenti esogeni, dei poteri di designazione e nomina del governo. Se, dunque, l'evoluzione dell'istituto mostra che nel processo di formazione dei governi si aprono molteplici spazi di discrezionalità per il Presidente della Repubblica, altrettanto cruciale è stabilire in quale misura e per quali ragioni tali spazi vengono occupati dal capo dello Stato con autonome decisioni. A questa serie di interrogativi è stato risposto affrontando il problema da diverse prospettive. Da un punto di vista strutturale, si è guardato alle fonti e al repertorio normativo che regolamenta la condotta presidenziale. Sotto questo aspetto, ciò che rileva è la pronunciata laconicità della disciplina costituzionale relativa alla scelta e alla nomina del presidente del Consiglio. Perciò sono invalse, nella prassi, differenti convenzioni che hanno consentito al capo dello Stato una certa libertà di manovra tanto sui piano procedurale, quanto sui criteri di selezione e designazione dell'incaricato (Ruggeri 1990). Come abbiamo già accennato, i contorni potestativi che l'Assemblea costituente ha tracciato per delimitare lo spazio d'azione del capo dello Stato sono alquanto vaghi. Addirittura, quando attivati per intero, i poteri di cui andiamo parlando consentono al suo possessore di incidere sull'identità dei governi nascenti fino a far prevalere la propria volontà su quella dei partiti politic1 2 Alla variabilità degli strumenti di consultazione e di affidamento dell'incarico si coniuga quindi la flessibilità del ruolo presidenziale nell'accentuare o limitare autonomi indirizzi di scelta del candidato ritenuto pi1 adatto a trasformare in governo una potenziale maggioranza. La struttura poco definita dei vincoli e delle opportunità formali giustifica il fatto che la latitudine dei poteri presidenziali possa estendersi da un estremo massimo in cui il Presidente della Repubblica esercita la propria scelta .

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dell'incaricato e/o sulla composizione del governo prescindendo, in tutto o in parte, dalle indicazioni della potenziale maggioranza (governi a vòcazione presidenziale), ad un estremo minimo nel quale il presidente si configura come semplice e meccanico veicolo di decisioni assunte da una specifica coalizione di maggioranza (governi a vocazione maggioritaria) 3 Non possono inoltre essere trascurati quei poteri di nomina che fanno del Presidente della Repubblica un attore rilevante nella definizione dei rapporti di forza governativi e parlamentari. L'interpretazione della norma che regola la nomina di cinque senatori a vita (art. 59 cost.) è lasciata all'arbitrio presidenziale. Poiché tale facoltà è stata esercitata tanto nel senso di cinque nomine in totale, quanto in quello di cinque per presidente (questa la prassi seguita da Pertini e Cossiga), è evidente che quest'ultima interpretazione conferisce al capo dello Stato indubbie possibilità di influenzare gli equilibri in parlamenti a maggioranze risicate e/o poco coese, con ripercussioni altrettanto prevedibili sull'attività dei governi retti da simili maggioranze. Lo scioglimento anticipato delle camere costituisce uno dei poteri fondamentali che le costituzioni di molti regimi parlamentari assegnano al capo dello Stato, sia esso monarchico o repubblicano. Lo sviluppo dei diversi sistemi partitici ha poi determinato, nei fatti, lo spostamento della titolarità dell'istituto verso il capo dello Stato oppure verso il governo 4 Anche il sistema parlamentare disegnato dai nostri costituenti, come si è già detto, prescrive questo meccanismo di riequilibrio e affida la funzione di sblocco dell'asse di interazione governo-maggioranza ai poteri del Presidente della Repubblica. Lo fa, tuttavia, con estrema laconicità. Pur evidenziandosi in Assemblea costituente una volontà diffusa, intesa a scongiurare la prassi statutaria dello scioglimento-sanzione a danno del parlamento, la salvaguardia da temute degenerazioni fu riposta in un solo, scarno articolo (art. 88). Esso si limitò a stabilire due requisiti minimi alla libertà di scioglimento da parte del presidente: la previa consultazione dei presidenti delle camere e l'impossibilità di esercitare tale facoltà negli ultimi sei mesi del suo mandato (il cosiddetto "semestre bianco") 5 . A ciò va ovviamente aggiunto l'obbligo di controfirma di un membro del governo - in questo caso il presidente 'del Consiglio - come richiesto per qualsiasi atto emanato dal capo dello Stato (art. 89). Mancano dunque riferimenti, anche vaghi, circa le procedure e le condizioni che rendono politicamente e istituzionalmente possibile, quando non auspicabile, l'esercizio di questa rilevantissima prerogativa presidenziale. Da qui una .

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serie di interventi, soprattutto in sede giuspubblicistica, che hanno cercato di stabilire la titolarità del potere di scioglimento, le sue procedure e le circostanze che lo qualificano come lecito e/o ammissibile, sia in punto di diritto che nella prassi politica 6 . La questione è ben tratteggiata da Fusaro (2003, 86), quando afferma che "il problema sta nel fatto che a differenza di altri poteri presidenziali, lo scioglimento è uno di quelli (con la nomina del presidente del consiglio, ma fors'anche di più) per i quali nessun presupposto è normativamente indicato sicché il suo esercizio si fonda interamente su valutazioni opinabili, intrinsecamente politiche, riguardo alle quali è impossibile sceverare il merito della legittimità: tant'è che le costituzioni che attribuiscono effettivamente al capo dello Stato il potere di scioglimento sono anche quelle che gli conferiscono espressamente un ruolo politico".

Crisis solver Passando dal piano strutturale a quello processuale, l'intervento del capo dello Stato nella sfera della politics riguarda essenzialmente i rapporti che egli intrattiene con i partiti politici nei, processi di formazione dei governi e di dissoluzione delle camere. Si tratta qui di capire quali effetti esercitino le diverse configurazioni sistemiche sulle capacità di manovra del Quirinale nei momenti di crisi del parlamentarismo. Possiamo innanzitutto esaminare le due configurazioni che stanno agli estremi. L'area del parlamentarismo bipolare è quella che offre minori opportunità di azione al capo dello Stato. Essa ne limita in massimo grado l'autonomia quando la forma di governo si avvicina al parlamentarismo competitivo su base primoministeriale quanto più cioè ci si avvicina alle dinamiche concorrenziali e decisionali del modello Westminster. I vincoli tendono invece ad essere meno ferrei al crescere delle imperfezioni dell'assetto maggioritario e della instabilità delle coalizioni in concorrenza. Alla prima configurazione si avvicina la forma di governo in cui operò Einaudi nel corso della prima legislatura (1948-'53) 7; alla seconda quella che fece da contesto all'ultima parte del settennato di Scalfaro (dal 1996 al 1998). All'inverso, il grado più elevato di attivismo presidenziale, sia per intensità che per repertorio d'azione, tende a verificarsi nei momenti di più elevata destrutturazione del sistema parlamentare. Vale a dire quando i fenomeni di crisi della rappresentanza politica e di deficit di governabilità 171


sono tali da paralizzare il funzionamento degli organi di indirizzo politico. Nel caso estremo del periodo transitorio fra prima e seconda repubblica (1992-'96), il presidente Scalfaro esercitò una funzione di supplenza temporanea di poteri altrui, dato l'incerto travaglio del sistema dei partiti. Non può inoltre sorprendere, se il ragionamento è corretto, che l'ultimo biennio della presidenza Cossiga (1990292) - quando la crisi del sistema partitico cominciò a manifestarsi e la domanda di riforme si fece più pressante - abbia visto una crescita cospicua, quantitativa e qualitativa, di interventi presidenziali. Pur non catalogabile come un ruolo di supplenza istituzionale, l'azione del Quirinale contribuì ad accelerare il processo di mutamento del sistema politico verso l'approdo maggioritario facendo leva su tutta la gamma di poteri disponibili, in particolare quelli, per alcuni versi innovativi, di esternazione. Resta il fatto, tuttavia, che gran parte dei capi dello Stato, dal '48 ad oggi, abbiano svolto il loro elevatissimo compito istituzionale entro un contesto competitivo multipolare che ha alternato alcuni periodi di stabilità delle coalizioni di governo ad altri di marcata instabilità, oltreché periodi di maggiore o minore chiusura a formule alternative. Queste condizioni, insieme al grado di conflittualità interpartitica nei momenti di scollamento delle maggioranze, hanno offerto ai presidenti della Repubblica diverse opportunità d'intervento. In generale, si può dire che l'esercizio dei poteri inerenti la soluzione di crisi (e, quindi, l'azione presidenziale in due repertori fondamentali: la formazione dei governi e l'eventuale scioglimento anticipato del parlamento) sia dipesa dal grado di stabilità delle coalizioni di governo, e che la propensione all'uso intensivo di simili poteri sia connessa al tipo di competizione fra i partiti per i ruoli di governo, ed alla dimensione del conflitto nelle maggioranze in crisi. Ammesso, dunque, che le stagioni politiche a maggior tasso di stabilità di governo collimino con i periodi di minore attivismo da parte dei presidenti della Repubblica (così, per esempio, nella presidenza Segni, o nella prima parte dei settennati Saragat, fra il 1965 e il '68, e Cossiga, fra il 1985 e l'87, oppure nell'ultima parte della presidenza Pertini, dal 1983 all'85), resta invece da spiegare ciò che è accaduto nei periodi di declino di ciascuna formula di governo e di passaggio alla successiva. Il primo effetto è, ovviamente, che la frequenza delle crisi e, quindi, dell'instabilità, accresce i repertori d'azione e il loro uso reiterato. Con quale grado di discrezionalità? E con quale efficacia? Gli esempi di Gronchi, Saragat (dal 172


1968 in poi), Pertini (fra il 1978 e l'81) individuano nella difficoltà a pacificare coalizioni di governo potenzialmente effettive per impraticabilità di alternanza ma fortemente conflittuali in due o più componenti la condizione più favorevole per sviluppare un'azione autonoma e vincolante del capo dello Stato, in particolare nei processi di coalition building. Sottolineiamo quest'ultimo aspetto poiché il potere di dissoluzione delle camere è sempre stato esercitato dal Presidente della Repubblica sotto l'attento controllo dei partiti politici, specificamente di quelli dotati di maggior potenziale di coalizione nell'area di maggioranza. Nessun capo dello Stato, neppure quelli che più sovente sono ricorsi allo scioglimento anticipato (Leone, Pertini e Cossiga), ha mostrato, nel corso della prima repubblica, la tendenza a disporre di tale potere in chiave presidenziale, ossia come sanzione nei confronti del parlamento e, soprattutto, in contrasto con le intenzioni dell'assemblea legislativa. La decisione di non sciogliere in anticipo le camere deriva dai vincoli che il sistema dei partiti impone al capo dello Stato. È chiaro che quanto più si fanno ineludibili - quanto più, cioè (come nel caso del recente sviluppo bipolare) si accresce la coesione entro le coalizioni in lizza e i poli riconoscono e legittimano la funzione unificante delle rispettive leadership - tanto meno il Presidente della Repubblica può intervenire autonomamente nel processo di scioglimento. Molti sostengon0 8 che, in questo caso, l'art. 88 cost., così com'è, parrebbe, oltreché ambiguo, anacronistico, poiché affiderebbe il potere di scioglimento ad un soggetto istituzionale non più legittimato ad esercitarlo, potendosi così ingenerare un pericoloso conflitto di attribuzioni. Non desta pertanto sorpresa la proposta di prendere atto, già da ora, del percorso maggioritario compiuto dal nostro sistema politico e di perfezionano con una modifica costituzionale: quella che prevederebbe un cambio di mano del potere di scioglimento dal capo dello Stato al capo del governo 9 .

Value controller La teoria costituzionale indica i molteplici poteri di influenza del capo dello Stato nei confronti della diade governo-maggioranza. Con questi poteri il Presidente della Repubblica si attiva spingendo le forze politiche o le istituzioni di vertice (governo e parlamento) a seguire determinate direzioni di marcia oppure a riflettere su certe linee politiche adottate o in via di adozione, o ancora a colmare determinate lacune nell'attuazione della Co173


stituzione. E non è necessario che ciò avvenga con l'ausilio di deliberazioni formali o di obblighi procedurali. Né che siano previamente esplicitati il destinatario e l'oggetto dell'intervento presidenziale. Sebbene i poteri di consiglio e di stimolo siano quasi sempre orientati verso il perseguimento di determinati obiettivi, può accadere che questi ultimi siano implicitamente indicati attraverso la pura denuncia di alcuni mali o di determinate disfunzioni (così, per esempio, Baldassarre e Mezzanotte 1985, 16). Uno degli elementi qualificanti di questo gruppo di poteri, è quello che consente al suo titolare di agire, a livello strutturale, sulla componente valoriale del regime. Si tratta di una serie di strumenti, formali e non, con i quali il capo dello Stato esprime la propria autorevole posizione circa la messa in atto dei valori sui quali il regime, in particolare la sua base sociale, trova sostegno e riferimento costante. Parliamo qui di valori nel senso ampio attribuitogli da Easton (1965); vale a dire gli orientamenti che segnano l'ampiezza del campo di azione del potere politico, con particolare riferimento a quelli costituzionalmente statuiti, di carattere molto generale e astratto. Fatta salva la capacità di indirizzare l'azione di governo ex ante, attraverso il procedimento di nomina del primo ministro' 0, oppure ex post, mediante l'arma della controfirmahl, il fatto nuovo, su cui si confronta da qualche tempo la letteratura giuspubblicistica circa il suo grado di legittimità12, consiste nella tendenza a utilizzare con crescente pervasività, da Pertini in poi, il cosiddetto "potere di esternazione" sia per i temi "alti" dell'indirizzo politico, sia per l'attività politica quotidiana dei governi (Merlini 1995). Con il termine esternazine, come meglio specificheremo in seguito, ci riferiamo a una serie di atti di natura eterogenea, oltreché, per molti aspetti, controversa: atti formali, come i messaggi al parlamento (siano essi letti nell'atto di investitura formale del nuovo Presidente, oppure inviati alle camere durante il suo mandato) e i messaggi alla nazione. E atti che, al di fuori dei protocolli formali, consentono di esaltare le capacità comunicative e retoriche del presidente, fino a collocarsi fra gli strumenti più efficaci nel suggerire questo o quell'intervento di policy, senza limite alcuno nelle materie, nei tempi e nei modi con i quali questi autorevoli pareri possono essere rilasciati 13 Fra le modalità di esternazione di tipo protocollare, rientrano molteplici atti essenzialmente riconducibili allo svolgimento delle funzioni rappresentative del capo dello Stato. Da un lato essi si configurano come atti .

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necessari, cioè obbligati da una procedura che impegna formalmente il presidente a esprimersi in quella specifica occasione e in altrettanto specifiche circostanze, ovvero contesti nei quali è necessario, non per motivi di convenienza, ma perché è richiesto dalla natura stessa di tale ruolo simbolico che il Presidente della Repubblica "parli" (Dogliani 1997, 222). Quando invece le modalità dell'esternazione hanno carattere di arbitrarietà - sono cioè estranee a programmi, schemi o procedure che prevedono un intervento presidenziale pur senza vincolarne i contenuti - il presidente fa valere nella massimaestensione lalibertà di manifestare in pubblico le proprie opinioni, qualora egli intenda avvalersene al di fuori di modi e tempi previsti o predefiniti: quando, cioè, siano i fatti del momento a dettarne l'urgenza, oppure siano questioni contingenti a esigere spiegazioni e commenti da parte del capo dello Stato, in qualità di garante della Costituzione e di rappresentante dell'unità nazionale. In entrambi i casi, gli interventi pubblici del capo dello Stato possono richiamare, talvolta in forma solenne, talaltra in modo informale, sia i valori costituzionali, sia valori più generali, che possono essere ritenuti patrimonio collettivo dell'umanità. Si tratta di casi in cui il Presidente della Repubblica, dall'alto della sua magistratura, può svolgere due funzioni analiticamente distinguibili, ambedue connesse alla salvaguardia dei valori dominanti del regime. La prima funzione potremmo definirla pedagogica. Essa si estrinseca nel costante richiamo ai grandi orientamenti a cui la politica democratica dovrebbe fare continuo riferimento, sia per esprimere una fattiva adesione ai valori costituzionali in cui tali orientamenti sono spesso richiamati, sia per onorare codici valoriali ancor più estesi (i diritti umani, la pace, il lavoro, il progresso civile, ecc.) ma non meno rilevanti per definire il quadro delle finalità generali che i regimi democratici dovrebbero perseguire e ai quali dovrebbero costantemente ispirarsi. La seconda funzione, che potremmo definire di intregrazione simbolica, è invece rivolta ad unificare la comunità nazionale, proprio in virtù dei valori supremi racchiusi nei simboli di identità collettiva (la bandiera, l'inno, le celebrazioni, le ricorrenze, ecc.) di cui il capo dello Stato è tanto il supremo custode, quanto il più illustre cerimoniere.

Policy adviser Oltreché sui valori del regime, il capo dello Stato può agire direttamente sui processi di policy making attraverso esternazioni e messaggi. Ovvero 175


mediante quell'insieme di interventi con i quali i presidenti della Repubblica intendono, per via formale o informale, esprimere una propria opinione, anche divergente da quella del governo, al fine di influenzare il corso di determinati processi decisionali. In relazione all'uso di questo potere, si è osservato con tecniche quantitative e qualitative l'andamento delle esternazioni presidenziali, opportunamente classificate a partire dalla presidenza Pertini, fino al primo biennio della presidenza Ciampi. Ciò che è emerso può essere riassunto nelle seguenti ipotesi, (Tebaldi 2005). L'andamento ondivago del trend delle esternazioni, unitamente alla loro concentrazione in uno o più periodi del mandato, sottolinea la presenza di correlazioni forti con altre variabili indipendenti; in particolare, con i processi di trasformazione e consolidamento sia del sistema dei partiti, sia delle relazioni governo-parlamento. Relativamente alla correlazione esternazioni/politica delle istituzioni si può ritenere che la quantità e la rilevanza delle esternazioni sia inversamente proporzionale al grado di forza del binomio governo-maggioranza parlamentare. Ciascun presidente sembra ritagliarsi spazi personalizzati di esternazione che fanno capo sia ai vincoli a cui è sottoposto, sia alle risorse proprie di cui può avvalersi. La prima ipotesi nasce dall'osservazione delle esternazioni in ciascun anno di mandato e il loro trend nell'arco del singolo mandato. Non si è riscontrata alcuna relazione diretta tra la variabile quantitativa che rileva il numero di esternazioni e la variabile temporale che circoscrive l'anno di mandato; nel contempo si .è evidenziata una distribuzione non lineare delle esternazioni, che tendono a concentrarsi in uno o più periodi apparentemente casuali. È proprio questa apparente casualità che ci ha fatto porre un nuovo quesito: perché vi sono periodi del mandato in cui l'esercizio del potere di esternazione aumenta o, viceversa, diminuisce? Più in particolare, quale o quali variabili influenzano tale esercizio di potere? A partire dal 1989, durante la presidenza Cossiga, si è registrato un radicale mutamento nell'uso delle esternazioni; lo stesso presidente ne ha indicato la ragione nel deterioramento della situazione dei partiti e delle stituzioni 14 Vi è inoltre una tesi che pone entro una precisa cornice storico-istituzionale il problema delle esternazioni presidenziali. In base a queste argomentazioni, se è vero che sono stati gli anni recenti a mettere in luce connotati diversi e più forti rispetto a quelli registrati in passato, ciò è acca.

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duto sostanzialmente per effetto dell'accentuata ridefinizione che si è manifestata nel sistema dei partiti e nei circuiti del governo parlamentare, con conseguenti accresciute difficoltà nell'esercizio delle funzioni di direzione e di selezione delle scelte pubbliche (Chimenti 1997, p. 260). Di qui il maggior peso dei vari apparati equilibratori o di garanzia del sistema (dalla magistratura, alla corte costituzionale, al Presidente della Repubblica), ossia delle funzioni arbitrali, nonche la ricerca di ruoli di supplenza verso la sfera della politica attiva", in una dinamica che ha progressivamente portato ad orientare l'azione del capo dello Stato verso lo svoigimento di un ruolo peculiare "di mediazione e di sutura" tra le varie componenti, sociali e istituzionali, la cui divaricazione si è andata aggravando (Cheli, 1985). Si può quindi ipotizzare che in periodi di crisi, transizione e consolidamento il sistema dei partiti venga attraversato da forti tensioni che, sull'onda del rinnovamento e della trasformazione, rischiano di produrre sconfinamenti, se non opportunamente controllati, sia del ruolo della maggioranza, sia di quello dell'opposizione; possono cioè indurre uno o più attori istituzionali a valicare i limiti costituzionalmente sanciti, a difesa dei quali si rende necessario l'intervento del capo dello Stato 15 . A seguito di ciò, relazionandosi alle domande e alle esigenze che il sistema politico-costituzionale gli pone in quei particolari periodi storici di trasformazione, egli eserciterebbe con maggiore frequenza il potere di esternazione. Secondo questa chiave di lettura, insomma, le esternazioni presidenziali sarebbero principalmente il prodotto di fattori esogeni, piuttosto che la risultanza dei rapporti di forza fra i partiti e della loro capacità a dar luogo ad alleanze stabili. Il secondo spunto argomentativo, emerso dall'osservazione delle relazioni intercorrenti tra esternazioni e politica interna, è basato sull'impianto logico secondo il quale si può esternare molto perché la situazione politica interna è particolarmente "calda", ma solo a patto che lo stato delle relazioni fra i partiti di maggioranza e il governo che sostengono consenta di far ciò. Ne consegue che quando il binomio maggioranza/governo è debole il Presidente della Repubblica esterna; quando il raccordo è forte, allora il Quirinale tende ad essere molto più cauto nelle sue interferenze sul policy making, malgrado la presenza di questioni oggettive capaci di arroventare il clima politico. Ciò non significa, peraltro, che il Presidente della Repubblica debba necessariamente ridurre in termini assoluti la propensione ad esternare. Egli può infatti "recuperare" in altri settori politi177


camente neutri, dove la voce del capo dello Stato può essere ugualmente rilevante ed autorevole, ad esempio su determinate questioni di politica estera, senza per questo intaccare o limitare le prerogative decisionali del governo e della maggioranza su cui poggia. Il problema della forza/debolezza del sottosistema governo-maggioranza nel definire e decidere le politiche pubbliche è stato analizzato da molteplici angolazioni, con risposte non del tutto univoche. Fa tuttavia parte delle ipotesi condivise che, a parità di condizioni, maggioranze coese, scarsamente conflittuali e tendenzialmente durature abbiano maggiore capacità di formulare programmi e di tradurli in scelte di policy congruenti, rispetto a maggioranze che non posseggono i medesimi requisiti. Fermo restando che indicatori più raffinati possono forse offrire interpretazioni migliori del problema in oggetto, stipuleremo quiche quanto maggiore la durata dei governi, quanto minore la necessità di ricontrattare la formula politica della maggioranza e di sostituire con altri il primo ministro in carica, tanto maggiore sarà la forza del governo e della sua maggioranza nel determinare linee d'azione e nel generare politiche pubbliche in maniera tendenzialmente autonoma, e tanto minore la propensione del capo dello Stato a interferire sul policy making con le proprie esternazioni, quantomeno su questioni inerenti linee di indirizzo politico. Il terzo ed ultimo percorso argomentativo si articola sull'ipotesi che ciascun presidente sembra ritagliarsi spazi "personalizzati" di esternazione che fanno capo sia ai vincoli a cui è sottoposto, sia alle risorse individuali di cui può godere. In base a questa congettura, i diversi contesti offrirebbero ai presidenti la possibilità di amplificare o contrarre la loro capacità di esternazione, compatibilmente all'azione di vincoli esterni (trasformazioni strutturali del regime politico; mutamento di equilibri internazionali, ecc.) ed interni (coesione della diade maggioranza/governo), in forza delle risorse di cui possono disporre, risorse riconducibili essenzialmente alle qualità (morali, politiche, intellettuali) su cui si struttura la leadership del presidente. I presidenti forti di risorse personali particolarmente cospicue (Pertini, ad esempio) possono così esternare in spazi e arene permeabili, manifestando apertamente la propria volontà di indurre o di osteggiare decisioni e facendo emergere la propria figura rappresentativa in contesti neutri, anche diversi dalle arene politico-istituzionali, piuttosto che in contesti di elevata partisanship. Le diverse figure di presidentiesternatori nascerebbero così dalla combinazione di variabili esplicative esogene ed endogene, il cui mix determinerebbe la propensione più o me178


no elevata di far valere, in situazioni e arene differenziate, il potere di messaggio e dichiarazione. I POTERI DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA FRA LOGICHE GARANTISTE E LOGICHE PARTIGIANE

L'interpretazione del ruolo e delle dinamiche presidenziali nel nostro sistema parlamentare può essere riassunta all'interno di due chiavi di lettura che paiono inconciliabili, fino a determinare una spaccatura piuttosto netta fra le scuole di pensiero che sostengono l'una o l'altra tesi, soprattutto nell'ambito del diritto costituzionale. L'opinione ancor oggi prevalente è quella che configura il Presidente della Repubblica come un'istituzione di garanzia, che si caratterizza per una posizione costituzionalmente statuita di indipendenza superpartes, e da un insieme di funzioni che è tenuta a svolgere imparzialmente. Secondo questa teoria il capo dello Stato è essenzialmente connotato dalla sua neutralità, che è un fatto desumibile non tanto per via empirico-descrittiva, quanto per via prescrittivo-normativa: esso si lega cioè ad un dover essere che il diritto positivo assegna alla figura presidenziale. Al margine di questa famiglia di spiegazioni (il genus garantista) si collocano alcune varianti che non mettono tuttavia in dubbio l'a-politicità della funzione presidenziale, sia quando si configuri il capo dello Stato nella veste di fautore dell'indirizzo costituzionale (contro all'indirizzo politico-maggioritario), sia quando lo si interpretati come guardiano della Costituzione, supremo reggitore dello Stato nei tempi di crisi del sistema politico. In entrambi i casi, con i riferimenti alla Costituzione e allo Stato, si fa riferimento a categorie totalizzanti che trascendono dunque la parzialità del gioco politico. I critici sostengono che queste teorie, oltre che di problematica aderenza rispetto al complesso delle norme costituzionali, sono dotate di scarso potere esplicativo quando si esamina la prassi che ha caratterizzato l'esercizio dei poteri presidenziali nel nostro Paese. L'interpretazione garantista, secondo tali critici, si scontrerebbe contro il diffuso fenomeno dei continui interventi tipicamente politici, e perciò tutt'altro che imparziali, che ogni presidente avrebbe attuato nel corso del proprio mandato. In opposizione al "figurino" garantista, dunque, alcuni autori identificano la funzione del Presidente della Repubblica con il ruolo di tutore degli equilibri politici (Baldassarre e Mezzanotte 1985). Se questi equilibri sono presenti e ben evidenziati dalla nitida bipartizione degli schieramenti fra maggio179


ranza e minoranza (e da un altrettanto nitido confronto fra governo e opposizione), allora l'azione del capo dello Stato si riduce ad una mera esecuzione di decisioni assunte altrove, ovvero, in seno alla maggioranza di governo. Quando tuttavia questi schieramenti non fossero così nitidi, o quando la maggioranza apparisse sfilacciata e non in chiara sintonia con il governo, ecco che il compito del Presidente della Repubblica assumerebbe una valenza politica, poiché la sua azione volgerebbe alla formazione di equilibri politici, alla intermediazione e alla sperimentazione di ipotesi di accordo su piattaforme da lui stesso formulate, talvolta in termini ultimativi. Entrambe le chiavi di lettura contengono, dal mio punto di vista, alcuni elementi di debolezza. Non sono d'accordo con la prima per questioni di metodo. Essa prevede l'astratta opposizione concettuale fra politica (parzialità) e non-politica (imparzialità) con possibilità di assegnare ciascuna figura istituzionalmente rilevante a l'una o l'altra categoria, in virtù della caratterizzazione che le fonti normative-costituzionali ne disporrebbero. Se dal punto di vista delle scienze giuridiche questa impostazione è accettabile, non Io è per la scienza politica empirica. Per quest'ultima la politicità delle istituzioni è un fatto. immanente. Ciò di cui semmai si può discutere è il grado e il tipo di politicità, ma non la sua presenza (o assenza) in termini assoluti. Non sono inoltre d'accordo con la seconda interpretazione per questioni di sostanza. La tesi del presidente tutore è realistica ed affronta il tema della politicità del capo dello Stato senza infingimenti. Essa tuttavia compie un errore speculare alla posizione che contesta, sostenendo l'incompatibilità fra la politicità che caratterizza la carica presidenziale e la possibilità di un suo funzionamento in senso garantista. Il fatto di svolgere un'azione politicamente rilevante e il fatto di attuare tale azione secòndo una razionalità tipicamente partigiana non sono, a mio avviso, due fattori logicamente conseguenti. O meglio, non lo sono in termini meccanici. Si può dire che la politicità del capo dello Stato è condizione necessaria ma non sufficiente del comportamento partigiano del Presidente della Repubblica. In ragione di ciò, si può quindi affermare che determinate condizioni, sia di carattere strutturale che di carattere processuale, agiscono sul comportamento presidenziale indirizzando i suoi atti e la sua prassi in senso garantista, oppure, quando siano assenti, in senso partigiano. Quali sono, in linea generale, le condizioni che tendono a generare un comportamento garantista o super partes (utilizziamo le due definizioni come si180


nonimi) del capo dello Stato italiano e, soprattutto, quando si attivano? Per rispondere alla prima domanda (per identificare cioè le condizioni) occorre isolare sia l'influenza di fattori strutturali (caratteristiche dell'impalcatura normativa e organizzativa dell'istituzione), sia quella di fattori processuali (la competizione fra i partiti). Per rispondere alla seconda do-. manda (per osservare quando tali condizioni si attivano) occorre analizzare le diverse modalità d'azione di questi due fattori sul comportamento presidenziale. DISEGNO E STRUTTURA NORMATIVA DELLA PRESIDENZA DELLA RE-. PUBBLICA

In primo luogo si esaminerà dunque la struttura formale normativa dell'istituzione presidenziale: ciò che attiene alla sua cornice giuridico formale e, in particolare, alla formulazione del suo modello originario 16 Nel suo impianto generale, lo schema di governo tracciato dalla Costituente fu soprattutto dettato dall'esigenza di pacificare un'arena politica lacerata da forti divisioni ideologiche, in cui i partiti di massa assursero al ruolo di attori principali e di mediatori fondamentali tra le diverse proposte in gioco. Centralità del parlamento e subalternità del governo sia rispetto all'assemblea legislativa, sia nei confronti delle segreterie partitiche furono i principali effetti del compromesso costituente, a cui coerentemente si associò un sistema elettorale di tipo proporzionale 17 . Da questo accordo scaturì anche la figura del capo dello Stato, i cui contorni furono tuttavia tratteggiati in maniera tenue, salvaguardando una sostanziale linea di continuità con l'istituzione monarchica, senza escludere a priori la possibilità di attribuire al Presidente della Repubblica capacità razionalizzatrici del sistema parlamentare, che venivano invece negate, in linea di fatto, al capo del governo. Visti da questa prospettiva, quegli stessi elementi di indeterminatezza normativa che parvero penalizzare l'istituzionalizzazione della presidenza della Repubblica, si tradussero in potenti fattori di flessibilità, ossia nella possibilità di demandare a prassi variamente estensibili la disciplina di importanti snodi istituzionali (dal processo di formazione dei governi, allo scioglimento anticipato delle camere, ai poteri di nomina, di messaggio, ecc.), declinandoli ora come poteri di prerogativa presidenziale, ora come obblighi procedurali con i quali il presidente si limitò a sanzionare poteri altru1 18 . Il fatto che il capo dello Stato repubblicano potesse sviluppàre simili attitudini istituzionali lo fece .

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peraltro intendere già la presidenza provvisoria affidata a De Nicola, nel corso della quale si intravvidero le potenzialità del Presidente della Repubblica nel definire, o perlomeno introdurre, specifiche prassi e percorsi decisionali 19 Nei confronti del governo, il capo dello Stato ottenne facoltà di intervento sia nel processo di formazione dell'esecutivo, sia nei processi di decisione-attuazione delle politiche pubbliche 20 Nei confronti del parlamento, la gamma delle risorse normative fu altrettanto ampia e offrì al capo dello Stato la capacità di intervento sia nella fase di scioglimento delle camere, sia nella loro formazione, sia nell'agenda dei lavori, sia infine nella fase di conduzione dell'attività legislativa. Analogamente al potere di scioglimento anticipato, unanimemente riconosciuto come una risorsa cruciale e per questo delimitato, nelle sue possibilità di esercizio, dal dettato costituzionale 21 , anche l'influenza esercitabile dal capo dello Stato nel processo legislativo fu circoscritta dalla Costituzione al momento della promulgazione delle leggi e, con effetti che si approssimano al veto, al potere di rinvio alle camere del testo di legge, corredato da una messaggio motivato, per giungere a una nuova deliberazione. Per quanto riguarda il potere di agenda, esso derivò essenzialmente dalla possibilità di convocare le camere in riunione straordinaria. L'influenza presidenziale sulla formazione del parlamento si dispiegò essenzialmente attraverso il controllo formale dei tempi di transizione dal vecchio al nuovo parlamento (potere di indire le nuove elezioni e di fissare la prima riunione delle camere, sebbene con i limiti dei settanta giorni dallo scioglimento per le elezioni e del ventesimo giorno dalle elezioni per la prima riunione) e attraverso la norma costituzionale che attribuì al Presidente della Repubblica la facoltà di nominare senatori a vita cinque cittadini, consentendo una prassi "estensiva", utilizzata da Pertini e Cossiga, di nominarne cinque per ciascun mandato (e non per un totale massimo di cinque in Senato, come invece risulto dalla prassi restrittiva). .

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La struttura burocratico-organizzativa della presidenza della Repubblica Le istituzioni, come è noto, non sono una mera costruzione di regole formali. Accanto alla loro forma è altrettanto rilevante comprenderne la forza, vale a dire l'insieme di componenti (dalla consistenza degli apparati amministrativi alla dislocazione delle risorse decisionali, alla configurazio182


ne delle relazioni di potere) che irrobustiscono l'istituzionalizzazione delle strutture e delle pratiche politiche. Alta o bassa istituzionalizzazione delle regole formali non significa, di per sé, che un'istituzione funzioni bene o male; né, tantomeno, che essa sia forte o debole. Per giungere a simili valutazioni occorre guardare a come il processo di istituzionalizzazione si genera, come si svolge e come combatte gli agenti, interni ed esterni, che inesorabilmente lo contrastano. Occorre cioè osservare se, ed eventualmente come e quanto, il tipo di istituzionalizzazione produca un'istituzione "robusta", in grado di confrontarsi con altre istituzioni antagoniste e resistente ai tentativi di mutamento esogeno 22 Oltre alla struttura formale di tipo normativo, vale dunque analizzare una seconda dimensione del formalismo istituzionale: quella che Easton (1990) definisce struttura formale empirica. Insieme ai fattori normativi vanno a tal fine coniugate le proprietà strutturali degli apparati serventi, che incidono con altrettanta efficacia sulle qualità istituzionali della presidenza della Repubblica. Quei caratteri organizzativi, cioè, che le conferiscono una forza tale da elevarne le capacità di responsiveness quando chiamata a decidere o a far sentire la propria voce autorevole. Il problema può essere scisso, sul piano analitico, in due versanti d'osservazione distinti. Il primo fa capo alle capacità autoregolative dell'istituzione presidenziale e, in particolare, al peso del sistema normativo interno (sia quello formalizzato, sia quello consolidatosi nella prassi) nel definire ruoli, strutture e risorse dell'organizzazione amministrativa. Quanto maggiore questo peso tanto maggiore la possibilità dell'istituzione di disporre pienamente dei poteri ad essa attribuiti dalla Costituzione e di salvaguardare sé stessa dalle ingerenze di attori esterni. Circa la capacità di decidere autonomamente sulla configurazione interna dell'apparato amministrativo, la presidenza della Repubblica mostra alcuni aspetti contraddittori. Ciò lo si desume, in primo luogo, guardando all'edificio normativo che ne definisce l'organizzazione. Pur essendo il frutto, nella disciplina di dettaglio, di un autonomo potere regolamentare, esso deriva la propria legittimità da una legge del parlamento che, nella gerarchia delle fonti, si pone indubbiamente in posizione sovraordinata rispetto ai regolamenti interni. Cosicché una qualsiasi maggioranza parlamentare potrebbe riformare la legge istitutiva del segretariato generale della presidenza della Repubblica (n. 1077/1948), ridefinendone anche drasticamente l'assetto organizzativo. .

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In secondo luogo, la stessa prerogativa dell'autodichia, pur prevista dal nuovo ordinamento regolamentare della presidenza sui ricorsi d'impiego del personale, risulta essere a tutt'oggi una questione aperta, o quantomeno non del tutto risolta a esclusivo favore dei collegi giudicanti istituiti in seno al segretariato generale. All'opposto, e in terzo luogo, sembrano indirizzati verso una pronunciata autonomia di scelta i criteri di reclutamento del personale amministrativo. Da una parte, infatti, il metodo concorsuale offre ampie garanzie circa la non interferenza di eventuali pressioni esterne - provenienti cioè da altre istituzioni o da altri settori politico-amministrativi - sulla selezione del personale burocratico in servizio permanente. Dall'altra parte, l'esteso ricorso al criterio dell' intuitus personae offre analoghe garanzie per l'assoluta discrezionalità delle scelte inerenti il personale fiduciario da introdurre nei ruoli e nelle carriere consiliari. Anche per quel che riguarda, in quarto e ultimo luogo, i processi che definiscono l'attribuzione delle risorse finanziarie e il loro utilizzo da parte dell'istituzione presidenziale, occorre evidenziare qualche elemento di discrasia. Per un verso, come abbiamo visto, la decisione sulla dotazione annualmente corrisposta alla presidenza della Repubblica spetta al parlamento. Le assemblee legislative, dunque, perlomeno sotto il profilo formale, fanno valere i procedimenti di controllo ex ante sul budget a disposizione del Quirinale per ciascun esercizio annuale. Se ciò testimonia un certo grado di dipendenza nella "quantificazione" dei fondi erogabili, si assiste a una decisa inversione di tendenza quando dalla capacità di influenzare l'ammontare complessivo delle risorse si passa alla possibilità di disporne autonomamente. Quel che si può osservare, a questo proposito, è che il segretariato della presidenza della Repubblica gode di un'ampissima libertà di spesa, che lo sottrae ai controlli di attori istituzionali "esterni" sia nella fase di stanziamento delle somme spendibili, sia nella fase di monitoraggio dell'esercizio finanziario, ivi compresi i singoli processi di spesa legati alla gestione degli affari contingenti del capo dello Stato. Il secondo versante d'osservazione fa invece riferimento alla coerenza organizzativa del corpo burocratico che amministra la presidenza della Repubblica. Sotto l'aspetto empirico, il concetto di "coerenza organizzativa" mira a verificare il grado di congruenza fra il fondamentale problema organizzativo che sta alla base dell'attività amministrativa dell'istituzione e il tipo di soluzione adottata per risolverlo. Per quanto attiene al problema, esso sembra ben identificabile: data la 184


centralità del Presidente della Repubblica in molti processi politico-istituzionali e data l'ampiezza delle funzioni che egli può svolgere, si tratta di creare una struttura organizzativa capace da un lato di svolgere con affidabilità i compiti amministrativi interni e, dall'altro lato, di rispondere velocemente e flessibilmente a questioni tanto impreviste quanto improvvise che il capo dello Stato deve affrontare in forza della sua peculiare collocazione istituzionale. La risposta a questo problema si articola su tre snodi organizzativi: innanzitutto su un'elevata specializzazione funzionale delle unità amministrative poste a presidiare le diverse aree di attività della presidenza della Repubblica, sia a livello di autoregolamentazione interna, sia a livello di interazioni con l'ambiente esterno. Il secondo snodo organizzativo si connette, in parte, al primo, e concerne lo schema di differenziazione strutturale adottato per riuscire a svolgere sincronicamente compiti molto diversificati tra loro, senza incorrere in ridondanze, sovrapposizioni o, al contrario, in deficit funzionali. Esso si basa su un peculiare modello duale, che tende a separare nettamente le carriere amministrative "permanenti" da quelle consiliari "temporanee". Alle prime sono affidati i compiti della routine burocratica, alle seconde le attività meno riconducibili a prestazioni prevedibili e standardizzate. L'ultimo snodo organizzativo, non meno rilevante, riguarda il meccanismo scelto per integrare le due sfere amministrative e per renderne efficienti i canali interattivi in senso orizzontale (quando sia necessario lavorare "per progetti") e verticale (quando è necessario stabilire la catena del comando e delle responsabilità fra unità diverse). Il ruolo del segretario generale funge, in questo senso, da autentica cerniera organizzativa, e si pone quale insostituibile pietra angolare di un apparato servente doubleface, ricco di risorse tecnico-conoscitive ma altrettanto bisognoso, per funzionare al meglio, di un fulcro organizzativo capace di svolgere simultaneamente operazioni di raccordo con il Presidente della Repubblica, e di comando e coordinamento fra le diverse articolazioni amministrative. Nel complesso, quindi, il disegno organizzativo della presidenza della Repubblica mostra un alto grado di coerenza. E se l'alta specializzazione delle aree tecniche è un requisito che il segretariato condivide con gli apparati serventi degli altri organi costituzionali, la sua configurazione duale e la struttura di integrazione a elevata complessità funzionale sono caratteri peculiari, che lo differenziano nitidamente dalle organizzazioni appartenenti allo stesso genus. Le diverse forme di coordinamento di cui può disporre il segretario generale mettono in risalto, in particolare, la 185


duttilità di quella che è la vera e propria cabina di regìa dell'amministrazione presidenziale. Ed è questa stessa duttilità la chiave di volta su cui poggia la coerenza dell'architettura organizzativa, poiché esalta la capacità di passare senza traumi struttural-funzionali da un modello gerarchico "lungo" a un modello gerarchico "corto" 23 .

Quando e perché i fattori strutturali condizionano in senso garantista I fattori strutturali, per definizione, operano un condizionamento stabile e di lungo periodo. Perché tendono a modellare il comportamento presidenziale in senso garantista? Sintetizzo la risposta in tre punti. I primi due fanno capo alle eredità della storia. Il modello originario su cui si impernia la particolare struttura normativa della presidenza della Repubblica trova fondamento nel compromesso costituzionale fra i maggiori partiti rappresentati nell'Assemblea costituente. Tale compromesso generò una figura presidenziale istituzionalmente robusta grazie al suo funzionamento "a fisarmonica". I costituenti vollero tuttavia preservarla dalla tirannia della maggioranza con opportuni accorgimenti. Solo così si sarebbe mantenuta intatta la capacità dell'istituzione di produrre benefici per tutti gli attori in gioco, senza alterare gli equilibri maggioranza/opposizione a favore dei primi, già titolari del potere di governo. Oltre a definire una geometria variabile dei poteri presidenziali, si volle dunque incanalare l'azione del capo dello Stato, all'uopo politicamente intensa, come negli stati di crisi, dentro l'alveo garantista. Un primo aspetto riguarda le regole progettate per incentivarne il profilo garantista in uscita, ovvero nelle decisioni che i presidenti avrebbero dovuto assumere, quando tenuti a farlo. A questo proposito furono introdotti una serie di principi costituzionali, ai quali si unirono alcune regole di carattere consuetudinario, con il comune obiettivo di svincolare la figura presidenziale dagli insidiosi richiami della lotta per il potere. Insieme al principio della irresponsabilità politica (artt. 89-90) fu previsto il collocamento a vita degli ex presidenti fra i banchi senatoriali (art. 59), e la durata settennale della carica (art. 85), ai quali si aggiunse la prassi di non rieleggere, per un secondo mandato, il presidente uscente. Si tratta di norme che tendono a neutralizzare i comportamenti presidenziali elevandoli al di sopra delle preoccupazioni connesse all'eventuale futuro politico del detentore della carica. 186


Il secondo aspetto, non meno rilevante, attiene alle regole che cercano di modellarne il profilo garantista in entrata, ovvero quando si è tenuti a scegliere l'identità del capo dello Stato. Obiettivo dei costituenti fu di privilegiare una modalità di elezione in grado di difendere il candidato vittorioso dall'imperio della maggioranza di governo. Fra gli articoli della Costituzione inerenti il capo dello Stato, quello che stabilisce le modalità della sua elezione (art. 83) si può collocare fra i capisaldi del nostro parlamentarismo. Nel disegnare il particolare collegio elettorale esso attribuisce al parlamento riunito in seduta comune, e integrato dai delegati regionali, la titolarità del potere decisionale. Sotto il profilo formale, furono gli stessi costituenti, come abbiamo accennato, a voler impedire che le logiche partitiche potessero sfociare, quando ciò fosse possibile, nel controllo assoluto della maggioranza di governo sulle fasi e sugli esiti elettorali del capo dello Stato. Uno degli accorgimenti studiati per scongiurare questa evenienza fu proprio l'allargamento del collegio elettorale ai rappresentanti regionali, benché fosse chiaro che anche questi ultimi, quando mai si fosse resa possibile la loro completa partecipazione con l'avvento delle Regioni a statuto ordinario, avrebbero poi votato nel rispetto di quelle stesse logiche partitiche di cui si voleva depotenziare l'influsso. Ben più dirompente per l'effettivo esercizio di un voto disciplinato su base partitica fu invece la garanzia di segretezza del suffragio. Analogamente, la pedissequa riproposizione della maggioranza di governo è resa altamente improbabile per lo meno fino al terzo scrutinio, ove si impone la ricerca di consensi ampi e trasversali pari ad una maggioranza dei due terzi degli aventi diritto al voto, che scende poi alla metà più uno a partire dal quarto scrutinio. Il terzo punto riguarda gli effetti dell'apparato burocratico sull'autonomia istituzionale della presidenza, e quindi sulla capacità di agire proficuamente in maniera del tutto indipendente e non subordinata alle istituzioni di governo. Unità di comando, gestione personalistica dei processi di delega e dei fondamentali processi di reclutamento, controllo diretto sul fabbisogno delle risorse economiche e sulla disciplina di quelle umane, articolazione organizzativa delle strutture serventi sia sul piano verticale (di supporto amministrativo), sia sul piano orizzontale (di supporto tecnico-conoscitivo): questi, in sintesi, i principali attributi che l'apparato burocratico del Quirinale mette in funzione a sostegno dell'azione presidenziale e che accrescono, in termini di autonomia, effettività ed efficienza decisionale, le potenzialità di intervento inscritte nella laconica cornice normativa. 187


In sé, pertanto, si tratta di un fattore inerente la capacità d'azione dell'istituzione, che non sembra influire sulla tendenza ad agire in senso garantista o partigiano. È vero tuttavia che esso costituisce un potente moltiplicatore di effetti. Quando esistono le condizioni strutturali e processuali per la condotta garantista, le risorse burocratiche e organizzative del Quirinale possono rendere quest'ultima estremamente fattiva, esaltando in particolare l'autonomia e l'indipendenza decisionale del capo dello Stato.

meccanismi competitivi del sistema partitico e i vincoli all'azione presidenziale I

È ora opportuno riflettere su quella che Lasswell e Kaplan (1979) definiscono struttura di controllo, ossia sulla distribuzione e sulle pratiche di potere effettivo all'interno del sistema politico globalmente inteso. Questa categoria analitica consente di transitare dall'analisi del potere potenziale (pertinente alle prime due dimensioni dell'istituzionalizzazione) a quella del potere in atto. La forza istituzionale, infatti, anche qualora sostentata da risorse giuridico-normative e organizzativo-burocratiche, non può essere considerata una costante. Essa si esprime con maggiore o minore intensità a seconda delle arene in cui l'istituzione è chiamata ad operare e dei vincoli imposti dagli altri attori con cui interagisce. Per osservare questa dimensione, focalizzata sulla forza decisionale del Presidente della Repubblica e sulle pratiche informali di potere, l'attenzione si sposta sulle condizioni che possono trasformare le sue potenzialità in atti imperativi. Ovvero sulle interazioni con gli altri organi del circuito istituzionale, e quindi sul peso esercitato dal sistema dei partiti nel modellare queste interazioni. È nostra convinzione, pertanto, che la scelta fra l'agire e il non agire nei processi politici di governo e, quando prevalga la prima opzione, l'individuazione delle modalità e dell'intensità dell'azione, dipendano essenzialmente da variabili esogene. Variabili, cioè, che operano dall'esterno rispetto al quadro dei vincoli e delle opportunità riferibili al ruolo (alla struttura formale dei poteri e alle risorse disponibili) e al detentore della carica (ai caratteri intrinseci della personalità). L'asserzione, per non generare fraintendimenti, va specificata. Porre l'accento sulle variabili indipendenti di natura esogena non significa, ovviamente, negare l'efficacia degli obblighi stabiliti dalla Costituzione o da altre regole convenzionali


nell'indurre e, soprattutto, nel dissuadere il capo dello Stato dall'intervenire quando egli lo ritenga opportuno. Ma proprio su questo aspetto agisce la struttura di controllo: fatte salve le prerogative formali che ne imbrigliano e veicolano i comportamenti in termini di potenzialità d'azione, la decisione di passare dalla potenza all'atto e quella di imprimergli una certa forza e una certa direzione fanno capo alla discrezionalità del Presidente della Repubblica che, a sua volta, dipende da fattori politici esterni all'istituzione in sé. Fattori, cioè, che richiamano il funzionamento del sottosistema governo-parlamento e che trovano fondamento, in ultima analisi, sui sistema di relazioni fra i partiti e nei partiti..

Quando e perché i meccanismi competitivi del sistema partitico condizionano in senso gara ntista Nei paragrafi precedenti abbiamo parlato delle condizioni strutturali, quelle che operano sull'istituzione presidenziale nel lungo periodo. A queste si associano le condizioni dettate dal sistema partitico, ovvero dai meccanismi competitivi fra e nei partiti, che determinano i condizionamenti di medio-breve periodo. Anch'esse agiscono sul capo dello Stato sia in uscita (sulle sue decisioni), quanto in entrata (sulla sua elezione). Cerchiamo di osservare quali sono le condizioni che inducono i presidenti ad assumere orientamenti e contenuti superpartes quando intervengono nei processi decisionali. Cominciamo col dire che nei controlli e contrappesi del nostro parlamentarismo trovano'spazio i potenti guardiani dei comportamenti presidenziali: sono, per l'appunto, i partiti e il loro sistema di relazioni. Se essi producono maggioranze stabili e durature, il capo dello Stato poco o nulla può decidere sulla configurazione dei governi e sulle loro linee d'azione, pur vigilando su ciò che intendono deliberare, per esempio con i.suoi incisivi poteri di messaggio. In caso contrario, il suo intervento è possibile. Quando, tuttavia, il sistema subisce un collasso e stenta a riprendere un'identità, tale intervento è doveroso e va ad incidere sulla funzione di utilità di tutti gli attori in gioco. Quando vi è assenza di fiducia reciproca fra gli attori stessi o quando la situazione di crisi provoca insicurezza collettiva, allora è interesse di tutti affidarsi ad un attore tendenzialmente neutrale per ristabilire le condizioni del gioco democratico. . Per spiegare queste affermazioni, in particolare l'ultima, prendiamo ad esempio la configurazione del sistema partitico nella prima repubblica. 189


In generale si può affermare che la progressiva cristallizzazione dell'assetto tripolare ad elevata polarizzazione ideologica (il sartoriano pluralismo polarizzato) abbia generato, nell'ambito della sua sindrome disfunzionale, i seguenti effetti sistemici: un acceso scontro ideologico, con basso grado di fiducia circa l'affidabilità democratica degli attori che si collocano alle estreme del continuum, in particolare a sinistra (conventio ad excludendum nella formazione delle maggio ranze parlamentari). A ciò si aggiunge una elevata frammentazione partitica, che si accentua se si tiene in opportuna considerazione la diyisione interna del maggior partito di maggioranza (Dc), nonché perno stabile delle coalizioni di governo. Il prodotto di questo sistema partitico, tendenzialmente stabile per circa quarant'anni negli equilibri elettorali, fu un'elevata instabilità di governo, che si estrinsecò in maggioranze litigiose e frequenti stati di crisi. Proprio quest'ultimo aspetto - la frequenza delle crisi di governo, spesso complesse e talvolta irrisolvibili - fu uno dei dilemmi sistemici attorno al quale ruotò la necessità di disporre di un Presidente della Repubblica attivo, sovente con ampia discrezionalità, in rapporto alle difficoltà soggiacenti a ciascun tipo di crisi (Tebaldi 2003; 2005). Un presidente politicamente attivo, dunque, ma non per questo partigiano. Si può anzi dire che la persistenza di un sistema bloccato, senza autentiche possibilità di alternanza, ma con una compagine di opposizione molto forte a livello parlamentare e dentro le istituzioni locali, abbia spinto gli attori in gioco (in particolare i tre partiti maggiori, Dc, Pci e Psi) a replicare per la carica presidenziale quel modello dell'equilibrio sperimentato in Assemblea costitùente, quando si decise di disegnare un ruolo equidistante, tanto dal governo, quanto, dall'opposizione. Che tale modello sia stato applicato cercando di neutralizzare in entrata la figura presidenziale lo si evince dai processi elettorali del capo dello Stato, e in particolare dai loro esiti. Va detto che nel processo di formazione delle maggioranze presidenziali, grazie soprattutto al voto segreto, da un lato viene meno la cogenza della conventio ad excludendum - che escudeva il Pci dalle maggioranze di governo - mentre dall'altro si accentua la scarsa disciplina interna della Dc, la quale spesso si comporta come una debole confederazione di correnti, piuttosto che in veste di partito unitario. Tutto ciò accresce, piuttosto che ridurla, la volontà di trovare accordi molto inclusivi, o quantomeno volti a non scontentare parti molto consistenti sia della maggioranza che dell'opposizione. Da un lato, quindi, si spiegano le maggioranze presidenziali, mai piena190


mente ed esclusivamente coincidenti con la maggioranza di governo in carica. Dall'altro lato si spiega l'accordo su nomi di scarsa preminenza partitica (fatta la debita eccezione per Saragat e Segni) ma dai forti trascorsi istituzionali, con un profilo politico tale da collocare il candidato al di sopra delle parti e, soprattutto, tale da vincolare i comportamenti futuri a quelli passati. Per osservare più attentamente le modalità con cui i presidenti della Repubblica vengono eletti, abbiamo sintetizzato i dati relativi a due grappoli di indicatori. Il primo insieme concerne il grado di conflittualità inter o infia partitica rilevabile durante il processo di voto. Possiamo a tal fine stipulare che essa cresca in modo direttamente proporzionale alla "difficoltà" del procedimento elettorale, alla frammentazione delle candidature, alla rilevanza di astensioni e schede bianche nella determinazione (o non determinazione) delle preferenze. Il secondo insieme analizza invece il grado di controllo esercitato dalla maggioranza di governo nella scelta del candidato vincente, sia all'interno di schieramenti a maggioranza risicata, senza la co-partecipazione del maggior partito di opposizione, sia nell'ambito di coalizioni ampie e consensuali. È chiaro che in questo secondo caso il controllo della maggioranza sull'esito finale sarà tanto maggiore quanto minore la capacità del maggior partito di opposizione di designare il candidato vincente, al limite imponendolo alla maggioranza di governo senza alcun tipo di contrattazione per la dislocazione di tale voto. Poiché le due variabili - quella che misura la conflittualità e quella che inerisce al controllo della maggioranza di governo - oltreché indipendenti possono essere intese come due continua, il loro combinarsi a diversi livelli identifica sinteticamente quali tipi di processo di voto abbiano condotto alla elezione dei presidenti della Repubblica fin qui succedutisi (eccetto l'attuale presidente Napolitano). L'elezione di Einaudi si colloca all'estremo opposto di quelle di Leone e Scalfaro. La prima si svolse in un contesto tipicamente maggioritario a bassa conflittualità, dominato dalla forza elettorale della Dc e dalla capacità del suo segretario e Primo ministro De Gasperi di tenere uniti tanto il partito quanto la maggioranza di governo. L'opposizione di sinistra, nel contempo, mostrò i suoi limiti d'azione strategica determinati dalla secca sconfitta alle politiche del '48. Le altre due (Leone e Scalfaro) furono invece elezioni caratterizzate da un contesto politico estremamente incerto, nell'ambito di una fortissima 191


instabilità la prima e di una crisi sistemica la seconda, con scarsissimo controllo della maggioranza di governo e una conflittualità assai elevata. Anche le elezioni di Pertini e Saragat si svolsero nell'ambito di un confronto interpartitico molto conflittuale, malgrado le magioranze all'epoca in carica esercitassero una certa supremazia nella scelta del capo dello Stato. Non a caso si trattò per entrambi di eleggere personalità di indubbio peso politico, talché la riluttanza di alcune parti della maggioranza e dell'opposizione di assecondare simili scelte (più nell'elezione di Saragat che in quella di Pertini) può essere ricondotta al ruolo esercitato dai due esponenti politici nei rispettivi partiti, in particolare Saragat, segretario del Psdi all'epoca della sua elezione. Agli antipodi si collocano le elezioni di Gronchi e Segni, che sfuggirono al controllo delle maggioranze di governo vigenti e, non di meno, si svolsero in un clima politico poco conflittuale. Per Gronchi si trattò delle prove generali del nascente patto di centrosinistra, al quale sembrò così dare il proprio consenso anche il Pci, e la cui gestazione fu peraltro assai più contrastata di quanto allora alcuni prevedevano, come dimostra il lungo intermezzo di governi imperniati su maggioranze di centrodestra. Segni fu invece eletto a seguito di un accordo spartitorio all'interno della Dc, insieme ad alcuni settori dell'opposizione di destra. Le elezioni di Cossiga e Ciampi, infine, sembrano fotografare meglio di altre l'intento unificante che il processo di selezione del capo dello Stato avrebbe dovuto avere nello spirito dei costituenti. Da una parte, la prevalenza di indicatori di scarsa conflittualità testimonia la volontà dei partiti politici di non opporre veti insormontabili alla ricerca di accordi "storici", che avrebbero condotto all'elezione dei due presidenti con maggioranze qualificate al primo scrutinio. Dall'altro lato, queste stesse maggioranze furono il risultato di un autentico sforzo di consensualità fra maggioranza di governo e opposizione, alla ricerca di una prassi elettorale e di un garantismo autenticamente bipartisan. CONCLUSIONE

Come abbiamo visto, le condizioni che tendono a indurre condotte garantiste da par.te del Presidente della Repubblica sono presenti sia a livello strutturale, che a livello processuale. Ad entrambi i livelli tali condizioni operano sia in entrata (sulle regole e sui processi elettorali del capo dello Stato), sia in uscita (sulle sue decisioni). Posto che, in assenza di variazio192


ni all'impianto formale della Costituzione e alle prassi consolidate, le condizioni strutturali continuano a esercitare il loro peso, occorre capire quando e in quale misura esse si associano a quelle processuali. A questo proposito, abbiamo già sottolineato come e perché durante la prima repubblica esse hanno agito, per lunghi periodi, in modo concomitante. Nel periodo della transizione, quello in cui ha esercitato la propria magistratura il presidente Scalfaro, alcuni di questi fattori condizionanti sono repentinamente scomparsi (in particolare l'equilibrio multipolare, la con ventio ad excludendum, e la divisione interna del maggior partito di maggioranza), per essere sostituiti da meccanismi competitivi di tipo bipolare, non sorretti tuttavia da una chiara e omogenea composizione dei due poli. Proprio questa disomogeneità ha influito negativamente, per almeno un quinquennio, sulla coesione interna delle coalizioni in lizza, e quindi sulla tenuta dei governi in carica. Da ciò la necessità di una figura tutoriale, in grado di gestire dall'alto e super partes la fase di transizione del regime parlamentare, pur nella precarietà dettata da governi instabili e da regole del gioco in divenire. Nel corso della transizione fra prima e seconda repubblica (1992 296), in piena crisi del regime proporzionalistico e nell'avvio di quello maggioritario, quella esercitata dal presidente Scalfaro fu dunque una funzione pur sempre garantista, ma che si spinse alla supplenza temporanea di poteri altrui: i poteri che parlamento e governo erano impossibilitati a mettere in pratica per il blocco delle forze partitiche, dalla cui funzionalità sistemica dipende l'articolazione del rapporto fiduciario e dei comportamenti oppositivi. La posizione al di sopra delle parti del capo dello Stato fu fortemente evocata quando ci si apprestò a eleggere il presidente Ciampi, la cui scelta fu il frutto di una ampia convergenza preventiva dei due poli su un nome di reciproca garanzia (quel che è passato alle cronache come metodo Ciampi), e il cui lavoro ha pienamente confermato le aspettative di entrambi i raggruppamenti. Il contesto politico-istituzionale in cui ha operato il presidente Ciampi presenta i caratteri della democrazia maggioritaria a competizione bipolare, con due coalizioni che, per quanto poco coese, concorrono per i ruoli di governo secondo una legittima aspettativa di alternanza, e con un elettorato che al momento del voto tende a schierarsi, nella stragrande maggioranza, per l'una o l'altra coalizione. Insieme a queste caratteristiche ve ne sono tuttavia altre, non meno rilevanti, che rendono simile assetto democratico tutt'ora imperfetto e incompiuto. 193


Della scarsa coesione nei due poli abbiamo accennato, ma non è il solo deficit da colmare. Sostiene un noto commentatore 24, e noi con lui, che il sistema delle garanzie studiato e applicato dai nostri costituenti su un impianto proporzionalistico, si sia dimostrato poco adatto, così com'è, a sostenere senza forzature e strappi traumatici le relazioni maggioranza-opposizione dentro un regime completamente mutato. Quel che sembra da rivedere, soprattutto, è il sistema di limiti e contrappesi capace di garantire l'opposizione dagli "eccessi di potere" della maggioranza parlamentare, in particolare quando essa ha i numeri per rendere inefficaci alcuni dei congegni costituzionali e legislativi posti a salvaguardia della competizione e del pluralismo democratico. Direi che l'azione di Ciampi è stata il frutto dei condizionamenti che entrambe queste caratteristiche sistemiche hanno imposto al supremo organo dello Stato. Da un lato, infatti, il Presidente della Repubblica non ha potuto che prendere atto delle nuove regole su cui è fondato l'attuale assetto maggioritario e delle pesanti limitazioni che esse impongono ai poteri del capo dello Stato nei due processi-chiave del parlamentarismo: quello di formazione del governo e quello di scioglimento anticipato delle camere. Ed anche nei processi di policy making la sua capacità di intervento non ha potuto certo paragonarsi a quella dei presidenti della transizione: al contrario di Cossiga e Scalfaro, Ciampi ha anzi mostrato un progressivo distacco dalle vicende interne dei governi e delle maggioranze che li sostenevano. Quasi a identificare il passaggio a una fase presidenziale che mette in primo piano le funzioni di rappresentanza (si veda, per esempio, l'aumento delle esternazioni inerenti la politica estera) a discapito di quelle di indirizzo. Dall'altro lato, tuttavia, il Presidente Ciampi ha mostrato equilibrio e consapevolezza nell'esercizio costante di un ruolo di garanzia attiva, allorché è parso anche a lui chiaro che il sistema di checks and balances fosse insufficiente a salvaguardare le componenti vitali della democrazia dagli sconfinamenti potestativi della maggioranza. Lalto livello delle esternazioni su aspetti controversi sottolineati dal dibattito politico (economia, giustizia, ordine pubblico) dimostra che, a fronte del minor coinvolgimento sui temi caldi della politics nazionale, si è vieppiù rafforzata una funzione di "vigilanza mediatica" (sia pro-attiva che ostativa) in alcuni settori di policy altrettanto delicati. Al punto che non pochi hanno individuato in Ciampi una sorta di tutore sui generis delle garanzie costituzionali, la cui attività si è estrinsecata essenzialmente nei modi e nei conte194


nuti della moral suasion. Essenzialmente, ma non esclusivamente. Il messaggio inviato alle camere nel luglio 2002 sul ruolo che l'informazione deve assumere negli equilibri del gioco democratico non può essere certo archiviato fra gli atti di persuasione morale, sia per il metodo che per l'oggetto trattato. A quello si è inoltre affiancato un controllo sull'iniziativa legislativa della maggioranza (tramite il potere di rinvio) non dissimile, nei numeri, a quello esercitato dai suoi predecessori, ma assai significativo se si considera la "qualità" e il peso specifico di alcuni dei rinvii effettuati. Due, in particolare, - quelli sul riordino del sistema televisivo e sulla riforma della giustizia - hanno toccato nei vivo l'azione riformatrice della maggioranza di centrodestra su temi che rappresentano altrettanti cardini del programma di governo. E sulla cui disciplina il capo dello Stato ha mostrato di vigilare attentamente, inducendo, con i'suoi autorevoli commenti, sostanziali modifiche alle proposte normative originarie. Veniamo, infine, all'attuale presidente, Giorgio Napolitano. La sua elezione è avvenuta al quarto scrutinio con una maggioranza risicata (543 suffragi su 990 votanti), che ricalca in pieno ed esclusivamente l'attuale maggioranza di governo. È evidente, dunque, che la configurazione bipolare, soprattutto qu3ndo le coalizioni si compattano, può facilmente incrinare una delle fondamentali condizioni di garanzia: quelle che agiscono sui processo elettorale dei capo dello Stato. Il metodo Ciampi, lungi dal consolidarsi in prassi elettorale, è stato prontamente disatteso e, dato il precedente, potrebbe non ripresentarsi, rebus sic sta ntibus, nel futuro. L'utilità attesa dal controllo della candidatura vincente si è dimostrato superiore al timore dei possibile passaggio di mano di tale controllo alla coalizione avversa, nel caso essa, alla scadenza dell'attuale settennato, si tramuti in maggioranza. Questo può voler dire due cose. Che la diffidenza verso i'opposizione va diminuendo, ovvero che si confidi nella autolimitazione ad una eventuale candidatura partigiana tramite il fair play messo in atto all'interno della coalizione stessa (un po' quello che è accaduto nel centrosinistra con l'elezione di Napolitano). Che la transizione si è definitivamente conclusa, ovvero che si dia per scontato il progressivo rafforzamento del ruolo di governo nel regime bipolare-maggioritario, con il conseguente confinamento dell'istituzione presidenziale ad un ruolo notarile e decorativo, quantomeno nei fondamentali processi di formazione dei governi e scioglimento delle camere. Comunque la si intenda, si potrebbe aggiungere, continuerebbero ad agire i condizionamenti strutturali; la cui portata garantista, tuttavia, p0195


trebbe essere limitata se, come abbiamo, ipotizzato, le condizioni processuali non valgono, da sole, a frenare l'attività di esternazione del Presidente della Repubblica. In particolare, mi sembra che si sottovaluti la possibilità di uno scenario nuovo, legato alla fastidiosa ipotesi di un invadente presidente "di parte". Quando fosse l'espressione della maggioranza politica in carica - e, come dimostrato, dal quarto turno di voto in poi potrebbe esserlo - egli conserverebbe la 'capacità di influenzare, soprattutto con le sue esternazioni, questa o quella decisione, di censurare questa o quell'iniziativa, contrastando l'azione di indirizzo di un'eventuale maggioranza alternativa, oppure creando una sovrabbondanza di potere nella maggioranza che lo ha eletto. Fine della figura garantista, dunque? Non necessariamente, e la scelta del presidente Napolitano, se si leggono i suoi trascorsi, le sue dichiarazioni all'atto di insediamento e gli attestati di stima dell'opposizione, mi sembra che sia lì a dimostrarlo (perlomeno in questo inizio di settennato). È vero, tuttavia, che paiono venir meno alcune delle fondamentali condizioni che compongono, se mi si passa il termine, le "garanzie del garante". Può permetterselo il nostro attuale regime parlamentare?

I Sul punto rimando al numero monografico dedicato dalla rivista «Quaderni Costituzionali» (ne! n. 1 del 1988) al ruolo del Presidente della Repubblica nelle crisi di governo, con contributi di Calandra, Carlassare, Galeotti e Martines. 2 Che il capo dello Stato possa svolgere attivamente un'autonoma funzione di office seeking è un fatto potenziale la cui disciplina è lasciata sospesa dall'art. 92 Cost., laddove non si specifica quanto e come la nomina del presidente del consiglio (e, su proposta di questo, dei ministri) debba attenersi alle volontà espresse (o esprimibili) dalla maggioranza. Sarà l'atto fiduciario a sanzionare tale collimanza, ma solo ex post, e senza che vi sia alcuna garanzia formale della previa esistenza di simile requisito. 3 Per una rassegna dei contributi salienti si veda l'articolato saggio di Cheli (1983). 'I Per una comparazione e una ricostruzione storica si veda Ceccanti (1999). Si veda anche Lijphart (2001, 146-147).

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5 Requisito poi modificato con la legge cost. 4 novembre 1991, n. 1, dove si consente lo scioglimento anticipato durante il "semestre bianco" nel solo caso di coincidenza fra fine della legislatura e fine del mandato presidenziale. 6 Non mi soffermo oltre sui numerosissimi contributi di scuola giuridica concernenti il potere di scioglimento del Presidente della repubblica. Per una panoramica generale e per i fondamentali richiami bibliografici rimando a Baldassarre (1991) e a Carlassare (1997). 7 La prima legislatura repubblicana rappresenta una parziale eccezione rispetto alle altre stagioni del parlamentarismo italiano, tanto da poter definire primoministeriale la forma di governo che ne scaturì. Le cause ditale evoluzione sono state ben individuate da Fabbrini e Vassallo (1999, 102), quando affermano che "le elezioni del 1948 furono vissute sostanzialmente come una secca alternativa tra la coalizione di sinistra (comunisti e socialisti) e la coalizione


governativa guidata dalla Democrazia cristiana. Quest'ultima ottenne la maggioranza assoluta dei seggi e il suo leader, De Gasperi, una implicita investitura personale per continuare a guidare il governo". Vero è che l'eccezione durò io spazio di una legislatura e dalle elezioni del 1953 in poi, fino al 1994, la dinamica del sistema dei partiti assunse una configurazione tripolare con la sostanziale chiusura dell'area di governo nei confronti dei poli antisistema e lo sviluppo di una politica di coalizione imperniata sul poio di centro. 8 Mi riferisco a coloro che propugnano la riforma del potere di scioglimento anticipato del parlamento. 9 Per chi sostiene questa tesi, oltre a istituzionalizzare la trasformazione in senso maggioritario del regime parlamentare, il passaggio del potere di scioglimento dal capo dello Stato al primo ministro formalizzerebbe un formidabile disincentivo alle rivalità interne nelle due coalizioni, contribuendo sostanzialmente alla coesione nelle rispettive alleanze ed al controllo del premier sulla sua maggioranza (Fabbrini 2004, 22 1-222). IO Si tratta, questo, di un condizionamento assai pervasivo sui programmi proposti che, seppur tendenzialmente limitato nelle materie (in generale, anche se non si possono stabilire criteri assoluti, e la prassi ha evidenziato sconfinamenti sostantivi, si può delimitare l'oggetto dell'intervento presidenziale a politiche costitutive giudicate dal capo dello Stato non più procrastinabili) sottrae al governo, e di riflesso al parlamento, che tali provvedimenti sarà chiamato ad approvare, una parte di sovranità, quantomeno nella predisposizione dell'agenda politica. Al proposito si consenta di rimandare a Tebaldi (2003). Il Intorno al grado di autonomia con cui il Presidente della Repubblica può utilizzare il potere di controfirma, si vedano le riflessioni di Guastini (1994). 12 Sulle diverse correnti dottrinali che interpretano le esternazioni in termini di legittimità

costituzionale, rimando a Baldassarre (1991); Cheli (1985); Motzo (1957); Martines (1985); Grisolia (1985, 1986); Rescigno (1978); Luciani (1997); Pace (1992), oltre alla nota riassuntiva di Dogliani (1997). 13 Benché anch'esso possa configurare un metodo per interferire sul poliy making, il potere di rinvio motivato degli atti legislativi, corredato da messaggio esplicativo alle camere (art. 74 cost.), può posizionarsi tanto fra quelli di value controlling, quanto fra quelli di policy advising, a seconda degli obiettivi del rinvio stesso. Nella maggior parte dei casi (30) tali motivazioni hanno riguardato la presenza di difetti nella "copertura finanziaria", per 2 volte a testa da parte di Linaudi e Gronchi, 8 da Segni, 7 da Pertini, 4 da Cossiga, 6 da Scalfaro e uno, sinora, da Ciampi. Altrettanto numerosi (27) sono stati i casi di rinvio per "motivi ordinamentali", ovvero per contrasti della nuova normativa con la legislazione pregressa di carattere generale. A questo riguardo si segnalano i 18 rinvii per motivi ordinamentali effettuati da Cossiga, i 5 di Ciampi, 2 di Einaudi e uno ciascuno da Gronchi e Leone. Al febbraio 2005 si sono contati dunque, in totale, 57 rinvii, per una media di circa uno all'anno. Più di un terzo (22) sono da attribuire a Cossiga; l'unico presidente a non aver utilizzato questa prerogativa è stato Saragat. 14 Si vedano le puntuali argomentazioni di Chimenti (1997). 15 Emblematica, a questo riguardo, l'enfasi posta da Scalfaro con le sue esternazioni sulla necessità di creare un sistema di garanzie sull'uso "politico" dei mass media (la cosiddetta par condicio), in particolare quelli radio-televisivi, in prossimità delle consultazioni elettorali. 16 Riprendo qui la distinzione proposta da David Easton (1990) fra struttura formale normativa (formai rule structure) e struttura formale empirica (formai empirical structure) nella analisi dei sistemi politici. 17 Assumiamo pertanto che gli equilibri del parlamentarismo disegnato dalla costituente fu197


rono il frutto di una scelta meditata, intenzionale e contrattata fra due differenti concezioni di democrazia, entrambe ben declinate nei lavori assembleari: quella.orientata a governare e quella attenta soprattutto a 'rappresentare. Con il prevalere della seconda, "i costituenti, dunque, furono consapevoli di non dare al Paese un apparato decisionale, una forma di governo, éioè, in cui fosse la domanda di governo a trovare una risposta prioritaria" (Amato 1981, 19). 18 In questo paragrafo faremo riferimento al modello originario della presidenza della Repubblica, così come emerge dagli articoli della Costituzione approvata dall'Assemblea costituente il 22 dicembre 1947, la quale dedica al Presidente della Repubblica il titolo Il della parteli. 19 Sottolineo che tali potenzialità si intravvidero giacché la presidenza provvisoria di De Nicola fu caratterizzata da uno scrupolo di imparzialità che sconfinò, per alcuni passaggi procedurai, in puro esercizio di formalismo giuridico. Con ciò non si può negare che fu proprio De Nicola a inaugurare alcune prassi istituzionali connesse agli snodi cruciali del regime parlamentare, quali ad esempio il processo di nomina del primo ministro. 20 Quanto alla formazione dei governi, la carta costituzionale affidò all'iniziativa del Presidente della Repubblica la designazione del primo ministro. Che il capo dello Stato potesse, all'occorrenza, assumere un ruolo di office seeker si evince, come abbiamo già detto, dall'art. 92 Cost., ove si afferma che "Il Presidente della Repubblica nomina il presidente del consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri", senza aggiungere nulla circa i modi, i tempi e il grado di autonomia ditale scelta presidenziale. La prassi ha poi consentito che questa iniziativa giungesse, in taluni casi, a definire la composizione della maggioranza, a indirizzarne il programma e a esprimere il previo gradimento di una parte o di tutti i ministri della compagine governativa. Circa i poteri di direzione del governo, essi si limitarono formalmente all'auto198

rizzazione della presentazione alle camere dei disegni di legge, all'emanazione dei decreti-legge e all'obbligo di controfirma degli atti presidenziali da parte dei ministri proponenti; è vero tuttavia che una prassi relativamente recente ha consentito ai presidenti di intervenire sull'indirizzo politico di governo anche attraverso un uso mirato del potere di esternazione: uso che, in punto di fatto, ha dilatato enormemente il potenziale ruolo di policy maker del Presidente della Repubblica. L'an. 87 Cost. estese a qualunque momento della vita istituzionale il potere presidenziale di inviare messaggi motivati alle camere. La prassi politica ha allargato tuttavia il potere di esternazione a tutte le occasioni, formali ed informali, in cui il capo dello Stato volesse esprimere pubblicamente le sue personali opinioni sulle politiche programmate, perseguite o auspicabili, anche se in contrasto con l'indirizzo di governo. 21 L'an. 88 Cost. consentì al Presidente della Repubblica di sciogliere le camere, o anche una sola di esse, dopo aver sentito i loro presidenti. In base a quell'articolo, tuttavia, egli "non può esercitare tale facoltà negli ultimi sei mesi di mandato (il cosiddetto 'semestre bianco' n.d.r.) salvo che essi coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura". 22 La letteratura neoistituzionalista propone, al riguardo, due chiavi di lettura antagoniste. Il modello dell'equilibrio spiega la robust-ness istituzionale in funzione della stabilità degli equilibri di forza degli attori (Shepsle 1986; North 1990). Ad esso si contrappone il modello della riproduzione, secondo il quale la persistenza di un dato ordine istituzionale non è imputabile alla sua efficienza o alla stabilità del suo equilibrio, cioè alla sua capacità di produrre benefici per tutti gli attori: qualora certi attori siano in grado di garantire la riproduzione di determinate istituzioni e la conformità ad esse, queste potranno persistere anche qualora presentino bassi livelli di efficienza (March e Olsen 1984). 23 Ovvero di "passare da mansioni semplici e riproducibili a mansioni complesse in cui i sog-


getti hanno una gamma piena di attività autoregolate e flessibili" (Bonazzi 2002, 42). 24 Mi riferisco all'articolo di Andrea Manzel-

la, Ivlaggioritario e nuove regole la missione del Quirinale, in «La Repubblica», 23 gennaio 2002. Si veda anche Labriola (2004, 14), il quale mette in luce i problemi derivanti "dalla introduzione del principio maggioritario in un orNote bibliografiche AMATO, G., Dal garantismo alla democrazia governante, in «Mondoperaio», X)(XIV, 6, 1981,pp. 17-20. BALDASSARRE, A. Il Capo dello Stato, in G. Amato e A. Barbera (a cura di), Manuale di diritto pubblico, Il Mulino, Bologna, 1991, pp. 459-496. BALDASSARRE, A. MEZZANOTrE, C. Gli uomini del Quirinale, Laterza, Roma-Bari 1985. BONAzzI, G. Come studiare le organizzazioni, Il Mulino, Bologna 2002. CARLASSARE, L. Presidente della Repubblica, crisi di governo e scioglimento delle Camere, in M. Luciani e M. Volpi (a cura di), Il Presidente della Repubblica, Il Mulino, Bologna, 1997, pp. 123153. CEccAJm, S. L'esecutivo tra costituzione e storia, in S. Fabbrini e S. Vassallo, Il governo. Gli esecutivi nelle democrazie contemporanee, Laterza, Roma-Bari, 1999, pp. 263-307, CHELI, E. Poteri autonomi del capo dello Stato e controfirma ministeriale: l'esperienza italiana, in «Quaderni Costituzionali», III, 2, 1983, pp. 361-385. Tendenze evolutive nel ruolo e nei poteri del capo dello Stato, in «Quaderni Costituzionali» V, 1, 1985, pp. 29-45. CHIMENTI, C. Addio prima repubblica, Giappichelli, Torino 1997. D0GLIANI, M. Il "potere di esternazione" del Presidente della Repubblica, in M. Luciani e M. Volpi (a cura di), Il Presidente della Repubblica, Il Mulino, Bologna, 1997, pp. 22 1-246. EASTON, D. A System Analysis ofPolitical Lfe,

dinamento che non costituzionalizza l'opposto principio proporzionalistico, ma lo presuppone"; fra questi problemi, uno dei principali è "l'alterazione della disciplina positiva del principio garantista (che è sicuramente principio di regime), in quanto è fondata in modo essenziale sulla presupposizione della composizione proporzionale delle camere parlamentari". Wiley, New York 1965. The Analysis ofPolitical Structure, Routledge, New York-London 1990. FABBRINI, 5., Des gouvernements de partis aux gouvernements du président. Et inversement?, in

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Il' Consiglio italiano per ie Scienze Sociali Il Css è un'associazione con personalità giuridica. Fondata nel dicembre 1973, con l'appoggio della Fondazione Adriano Olivetti, ha raccolto l'eredità del Comitato per le Scienze Politiche e Sociali (Co.S.Po.S.), che svolse a suo tempo, negli anni Sessanta, grazie a un finanziamento della Fondazione Ford e della stessa Fondazione Olivetti, un ruolo fondamentale nella crescita delle scienze sociali italiane. Le finalità che ne ispirano l'azione sono: • contribuire allo sviluppo delle scienze sociali in Italia, ed in particolare promuovere il lavoro interdisciplinare; • incoraggiare ricerche finalizzate allo studio dei principali problemi della società contemporanea; • sensibilizzare i centri di decisione pubblici e privati, affinché tengano maggiormente conto delle conòscenze prodotte dalle scienzé sociali per rendere le loro scelte consapevoli, razionali e pii efficaci.

Il Css rappresenta un forum indipendente di riflessione che, con le sue iniziative, vuole offrire meditati contributi all'analisi e alla soluzione dei grandi problemi della nostra società. A tal fine il Css associa ai propri progetti anche studiosi ed esperti esterni e può contare su una rete di contatti e di collaborazioni in tutti i principali centri di ricerca e di policy studies europei. Attualmente operano 3 commissioni di studio sui seguenti temi: le fondazioni in Italia; nuove frontiere della comunicazione e cosmopolitismo; valutazione degli effetti di politiche pubbliche. Vi sono anche 2 gruppi di lavoro sui seguenti temi: ceto medio, politica dell'innovazione e trasferimenti tecnologici. Da ricordare l'attività di ricerca di Etnobarometro sulle minoranze etniche in Europa. Presidente: SERGIO RISTUCCIA Vice Presidente: ARNALDO BAGNASCO Comiiato Direttivo: SERGIO RISTUCCIA (Presidente), MAURA ANFOSSI, ARNALDO BAGNASCO, FABRIZIO BARCA, PIERO BASSETTI, GIOVANNI BECHELLONI, ANDREA BoNAccoI.sl, GIUSEPPE DE MATI'EIS, ANTONIO DI MAJO, BIuNo MANGHI, RICCARDO PATERNÒ, LONzO ROMITO, Ciuio RONCA, CARLA ROSSI, FELICE Sciv1NI. Collegio dei Revisori: BRUNO GIMPEL (Presidente), MARCO CoITON1O, ALESSANDRO FREzZA. Segretario generale: ALESSANDRO SILJ Vice Segretario generale: NicolA CREPAx Via Brescia 16- 00198 Roma Tel. 06.8540564 - Fax 06.8417110 cssroma@libero.ir - cssroma@consiglioscienzesociali.org Via Real Collegio 30, do Fondazione Collegio Carlo Alberto 10024 Moncalieri (TO) - Tel. 011.6705290 - Fax 011.6476847 csstorino@consiglioscienzesociali.org www.consiglioscienzesociali.org


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