SCIENZE SOCIALI ALLA PROVA DELLA GRANDE CRISI / ADDIO EULE RIVISTE CULTURALI E LA FORMAZIONE ROPA FELIX IL CORTOCIRCUIDELLA SFERA PUBBLICA TO DELLA RAPPRESENTANZA DEMOCRATICA IN PARLAMENTO ALLA RICERCA DEL "BUON" BILANCIO RICERCA E INNOVAZIONE TECNOLOGICA: DAL MICR0 AL MACRO QUALE COESIONE E QUALI POLITICHE DI SVILUPPO NELL'UNIONE EUROPEA. INTORNO AL "RAPPORTO BARCA" L'ATTIVITÀ DI LOBBYING NELL'UNIONE EUROPEA
tiii'ste istiltiziotii Anno XXXVII n. 156-157
Redazione Direttore. Sl:RGIO RJSTUCCIA Condirettore: ANTONIO DI MAJO Vice Direttore: GIovANNI VETRITTO Redattore Capo: SAVERIA ADDOTTA Comitato di redazione: CARLA BAssu, FABIO BISCOTTI, ROSALBA Coni, ELINA I)E SIMONE, F'IIANcEsco DI MAJO, ALESSANDRO HINNA, CLAUDIA LOPEDOTE, GIORGIO PAGANO, PIFR LUIGI PETRILLO, ELISABETTA PEZZI, MASSIMO RIBAUDO, CLAUDIA SENSI, LUIGI TRETOLA, VALER1A VALISERRA, FRANCESCO VELO, DONATELLA VISCOGLIOSI, STEFANIA ZUCCOLOTTO.
Collaboratori ARNrI,IO BAGNASCO, ADOLFO BATTAGLIA, GIOVANNI BECHELLONI, GIUSEPPE BERTA, GIANFRANCO BUITIN LATTES, ENRICO CANIGLIA, OSVAI,DO CROCI, RONIANO BETTINI, DAVID B0GI, GIROLAMO CAIANIELLO, GABRIELE CALVI, MANIN CARABBA, BERNARDINO CASADEI, MARIO CACIAGLI, CARLO CI-IIMENTI, MJ\RCo CIMINI, GIUSEPPE COGLIANDRO, MASSIMO A. CONTE, ERNESTO D'ALBERGO, MASSIMO DE FELICE, DONATELLA DELLA PORI'A, BRUNO DENTE, ANGELA DI GREGORIO, CARLO D'ORTA, SERGIO FABBRINI, MARIA ROSARIA FERRARESE, PASQUALE FERRO, TOMMASO EDO\IIrO FR0SINI, Ci\RLO FUSARO, FRANCESCA GAGLIARDUCCI, FRANCO GALLO, SILVIO GAMBINO, GRJIIANA GEMELLI, VALERIA GIANNELLA, MARINA GIGANTE, GIUSEPPE GODANO, ALBERTO LA CAVA, SIMONA LA ROCCA, GIAMPAOLO LADu, SERGIO LARICCIA, GIANNI LIRLk, QUIRINO LORELLI, ANNICK MAGNIER, ADELE MAGRO, RosA MAIORINO, GIAMPAOLO MANZELLA, DONATO MASCIANDARO, P\OLO MIELI, WAUFER N0CIT0, ELINOR OSTROM, VINCENT OSTROM, ALESSANDRO PALANZA, OLI VIERO PESCE, ANDREA PIRAINO, BERNARDO PIZZETTI, IGNAZIO PORTELLI, GIOVANNI POSANI, GUI DO MARIO REY, GIANNI RIOrI'A, MARCELLO ROMEI, FRANCESCA RossI, F,RIZIO SACCOMANNI, LUiGI SAI, GIANCARLO SALVEMINI, MARIATERESA SALVEMINI, STEFANO SEPE, FRANCESCO SID0TI, ALESSANDRO SILJ, VINCENZO SPAZIANTE, PIERO STEFANI, DAvID SZANTON, JULIA SZANTON, SALVATORE TERESI, VAu,,iziA TF.RAIINI, GIANLUIGI TOSATO, GUI DO VERt CCI, FEDERICO ZAMPINI, ANDREA Zoli'! N I Hanno collaborato: UMBERTO SERAFINI, FEDERICO SPANTIGATI, TIZIANO TERZANI
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Editore: QJES.I.RE sri Q.i.TESTE ISTITUZIONI RICERCI-IE ISSN 1121-3353 Stampa: Arti Grafiche sri - Pomezia (Roma) Chiuso in tipografia: 30 giugno 2010
Foto di copertina: Cohesion di Carlos H. Sèquin (2002) Associato all'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana
queste Istftuzlonl n. 156-157 gennaio-giugno 2010
indice III
Scienze sociàli alla prova della grande crisi
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Addio Europa felix
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Le riviste culturali e la fòrmazione deffia sfera pubblica Claudia Lopedote
Di cosa parliamo quando parliamo di Pubblica amministrazione Giovanni Vetritto Sviluppi della vigilanza finanziaria europea: il Rapporto de Larosière Giuseppe Godano
Il cortocircuito della rappreseiltailza democratica iv Parlamento 29
Il "letto di giustizia" del Governo in Parlamento Sebastiano Dondi
43
Ruolo delle Camere Carlo Chimenti
Alla ricerca del "huoll bilaucio" 53
Un primo sguardo alla nuova legge di contabilità e finanza pubblica Maria Teresa Salvemini
61
Legge di bilancio e legge finanziaria: verso una nuova forma per la decisione di bilancio? Paolo De loanna
87
La lettura macroeconomica dei bilanci pubblici: cosacambia?_ Enrico Giovannini
Ricerca e iuovazioue tecuologicu dal niicro al niacro 105
Il trasferimento tecnologico per le scienze della vita: la Fondazione Filarete Mario Zanone Poma
110
Uno spin-off "improbabile": il caso itsme dell'università Milano Bicocca Giorgio de Michelis
113
Un laboratorio di idee: l'esperienza della Fondazione Cariplo Carlo Mango
117
Specializzazione produttiva, ricerca e sviluppo, salari Roberto Romano
Uuale coesione o quali politiche di sviluppo nell'Uuiolle Europea 136
Intorno al "Rapporto Barca". Dibattito in redazione Fabrizio Barca, Paola Casavola, Alessandro Cavalli Antonio di Majo, Elena Granaglia, Claudia Lopedote Gian Paolo Manzella, Jeorge Nunez, Paolo Peruii, Giovanni Vetritto
Saggio 169
L'attività delle lobbing nell'Unione Europea Giuseppe Lucio Gaeta
€rouache dal €55 203
Metropoli del XXI secolo. Sconfinamenti e reti (a cura di Arianna Santero)
€ronache dal €ric 209
Riviste di cultura, il punto con Valdo Spini
queste Istftuzlonl n. 156-157 gennaio-giugno 2010
editoriale
Scienze sociali alla prora della grande crisi
La crisi mondiale
L
a crisi mondiale ha posto in questione funzioni e ruolo di molte istituzioni, per esempio quelle internazionali e nazionali di regolazione dei mercati; ma ha anche posto in questione la funzione e il ruolo delle scienze sociali. In termini di effettività e utilità del loro apporto alla conoscenza, previsione, comprensione e governo dei processi e fenomeni sociali più rilevanti. Che cosa è accaduto e perché? Chi avrebbe dovuto prevedere i trend negativi in atto negli ultimi anni? E perché non l'ha fatto? A che punto è la comprensione complessiva dei fenomeni e della loro portata? E . quale è la comprensione degli effetti e della loro portata nel tempo? Queste sono alcune delle domande che sono state poste o si potrebbero porre. Le discipline economiche, come è ovvio, sono finite per prime sotto accusa, con la domanda: "Perché gli economisti non hannd previsto la crisi?". Se ne è parlato molto in tutte le sedi istituzionali e mediatiche. Anche in seno al Css il tema è emerso (v. "queste istituzioni", n. 153/2009, corsivo e dossier Laprivatizzazione de/rischio). E le altre scienze sociali? Cosa hanno fatto? La tendenza di tutte le scienze sociali a iperspecializzarsi secondo le necessità di approfondimento (ma anche per opportunismi accademici) ha spesso avuto un costo: la spirale di crescente au toreferenzialità. Il che significa recinti angusti per discipline spesso minute e isolate. Le visioni della realtà sociale diventano parziali, anche se affinate, e rendono difficile, talvolta impossibile, la funzione di illuminazione dei fenomeni che dovrebbe essere necessaria per un qualche aiuto al governo della società. Insomma,.a parte l'egemonia dell'economia, non sempre bene usata, le altre scienze sociali non hanno tuttavia fatto la differenza. Qùando anche si sono applicate per tempo ai problemi della crisi, non sono state in grado di fare III
massa critica presso le opinioni pubbliche, i decisori, le comunità professionali ed accademiche. La crisi ha reso evidente questa inadeguatezza ed ha acuito l'urgenza di una riflessione sulla funzione e sullo stato delle scienze sociali. e il disorientamento delle scienze sociali In realtà, è da tempo aperto, fra alcuni addetti ai lavori, un dibattito su quella che è stata chiamata la "crisi delle scienze sociali" (con il rischio di consumare ancora di più la parola "crisi"). Il tema, tuttavia, non è mai stato affrontato con la dovuta energia. Di fatto, sono in questiòne caratteri essenziali del "fare scienza sociale", cioè del mestiere stesso dei diversi scienziati sociali (il sociologo, l'economista, lo storico, l'antropologo, il geografo, e così via). E in questione la capacità delle scienze sociali di essere utili ai fini della comprensione e della lettura dei fenomeni, ragion d'essere di tali scienze. Se dunque, in generale, si può dire che la discussione fra gli studiosi è modesta, all'interno del Consiglio italiano per le Scienze Sociali il tema ha ricevuto già da tempo forte attenzione. Innanzitutto nell'Assemblea programmatica tenutasi a Frascati nel 2007. Poi su sollecitazione dei Soci, sulle pagine della rivista che ha ne ha parlato a più riprese (cfr. dossier Social Science Research Council: ottantacinque anni di scienze sociali, "queste istituzioni" n. 146-7, luglio-dicembre 2007, da ultimo cfr. il saggio di Antonio di Majo, Il mutare delle metodologie nelle scienze sociali. I/confronto tra Public Finance, Public Coice e Po/i.ticalEconomy, "queste istituzioni" n. 153, aprile-giugno 2009). Guido Martinotti, Socio fondatore del Css, ha portato la discussione ad una più ampia platea di interlocutori, sulla stampa nazionale, ponendo la questione del ruolo delle scienze sociali oggi, in termini teorici e concreti, di politica, di scelte di gestione negli enti e nelle istituzioni, di cultura e di ideologia. La sua lettera a "La Repubblica" (Quelle teorie antiscientfiche al vertice del CNR, 6 gennaio 2010, cui Corrado Augias ha dato risposta), fa seguito ad un ampia disamina pubblicata da "queste istituzioni" (La crisi delle scienze sociali, n. 148, gennaio-marzo 2008). La drammatica debolezza istituzionale delle scienze sociali italiane le rende, scrive Martinotti, discipline senza voce. Nell'ambito di questo dibattito, alcune iniziative in corso vanno segnalate. E il caso dell'Istituto Treccani con il progetto intertestuale online "La scomparsa della sociologia dalla scienza ufficiale italiana: suicidio od omicidio?", volto a promuovere un vivace confronto sul tema aperto a tutti, attraverso il forum dedicato (http://www.treccani.it/Portale/sito/altre_aree/Scienze_sociali_e_Storialpercorsilsociologia_scomparsa.html). L'Istat, d'altra parte, ha promosso, lo scorso 18 febbraio (cf. newsletter Css, Le scienze sociali per uscire dalla crisi, gennaio 2010, n. 1), un incontro con le associa1V
zioni scientifiche e di ricerca italiane al fine di discutere fdrme ed occasioni di partenariato, collaborazione ed armonizzazione delle reti di ricerca nazionali ed europee, "attraverso le quali sfruttare economie di scala e di scopo" (Enrico Giovannini, Presidente Istat). Sono da sottolineare soprattutto quelle di scopo. Questa iniziativa sta proseguendo anche attraverso un recente appello alle società scientifiche al fine di esprimere pubblicamente, con lettera del 29 marzo 2010, "una fortepreoccupazioneper il mancato completamento de/quadro normativo efinanziario finalizzato alla esecuzione dei Censimenti generali del 2011" e sollecitare risposte, poiché "Tale situazione non è più rinviabile e rischia di produrre gravi conseguenze sulla credibilità del nostro Paese a livello nazionale ed internazionale": Ancora, con lettera del 18 maggio, il Presidente ha rivolto l'invito alle Società scientifiche per un coordinamento di iniziative che abbiano un legame con il 150° anniversario dell'Unità d'Italia o che comunque rappresentino un particolare supporto al nuovo grande "data warehouse" che si chiama I.STAT (Italia Statistiche). Il metodo interdisciplinare Crocevia necessario di una verifica approfondita dello stato delle scienze sociali e del loro disorientamento è la questione della interdisciplinarità della ricerca. Questione assai difficile da affrontare fuori dalle tentazioni retoriche. Si tratta di recuperare visioni e metodi che compensino la (super)specializzazione senza negare i vantaggi di quest'ultima. Una questione che, in qualche modo, aggrava la fatica della ricerca. La consapevolezza di questa fatica fa sì che, per quanto possibile, essa sia evitata. Con la conseguenza che senza grandi obiezioni di merito, il metodo interdisciplinare è oggetto di avvertenze, di memento, ma non di pratiche diffuse. Tuttavia, c'è e va rimarcato un rinnovato interesse per il metodo interdisciplinare. E una novità importante. Ne è un esempio il Premio Nobel per l'Economia 2009 a Elinor Ostrom, studiosa che ha sempre sostenuto la necessità soprattutto nelle ricerche sul campo - di lavorare con metodo interdisciplinare, organizzando squadre di specialisti di varie discipline. Questo Premio Nobel è stato un contributo in positivo al dibattito che ha visto l'economia e gli economisti sotto accusa per non aver ben previsto la grande crisi mondiale. E un contributo in positivo che richiama alla necessità urgente di recuperare in pieno il metodo della cooperazione fra le scienze sociali. Tornando alla crisi, va comunque detto che molti scienziati sociali avevano in realtà previsto o comunque colto dei segni. Ma senza avere voce, proprio perché molteplici specializzazioni rischiano di falsificare la realtà. E invece necessaria, spesso, una .superiore capacità di integrare piani analitici diversi. In modo da fondare piattaforme interpretative e prescrittive appropriate e, per quanto possibile, lungimiranti. E per questo da ascoltare.
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Ilmetodo interisciplinare da sempre ha costituito per il Css una chiave irrinunciabile e determinante del ruolo di operare proprio delle scienze sociali. Quindi, il Consiglio ne afferma il valore cruciale e strategico. In qualche misura, l'integrazione interdisciplinare dei saperi rappresenta la necessaria svolta epistemologica e pratica delle scienze che vogliono essere significanti. E questo un punto chiave della questione, oggi, del ruolo delle scienze sociali e del loro modo di operare. Quali sono i punti di contatto interdisciplinari (concetti, metodi, teorie, griglie, oggetti)? E tra quali discipline? Ci si può e deve accontentare di una parziale riorganizzazione interna alle singole discipline o urge un cambio di paradigmi, un comune passo di marcia. La crisi come banco di prova Gli eventi chiamano le scienze sociali ad una prova severa: lavorare sulla grande crisi in corso. Il quadro dell'evoluzione della grande crisi mondiale presenta una sequenza rigorosa. Ricordiamola: scoppiata in un segmento secondario della finanza americana, quello dei mutui sub-prime, la crisi è andata a colpire ben presto i grandi vettori della finanza internazionale, distruggendo una non piccola parte del capitale finanziario mondiale. Ha quindi provocato, con rapidità, una caduta aspra di produzione ed occupazione in tutti i Paesi. Oggi, la crisi malgrado i segni di ripresa - aggredisce direttamente il cd. "debito sovrano", finora immaginato inattaccabile, cioè i titoli emessi direttamente dagli Stati. Titoli il cui ammontare è cresciuto a dismisura proprio a seguito degli interventi statali di salvataggio che si sono resi necessari fin dall'inizio. Una crisi prodotta e via via allargata attraverso un effetto domino appena temperato ma non interrotto dagli interventi dei governi. E addirittura prodotto o aggravato da questi interventi. Un effetto domino che coinvolge ed attrae un'insieme assai ampio di situazioni di difficoltà settoriali e territoriali che stavano da tempo maturando per cause varie ed autonome (si pensi, ad esempio, alla crisi dell'auto). A questo punto, l'onda della crisi sembra ormai essere lunga ed estesa. Dagli effetti non facilmente prevedibili ma certo duraturi e profondi. Comprendere bene i fenomeni in atto nella diversità delle situazioni sociali diviene un compito di rilievo cruciale. La situazione interpella con urgenza - vale ribadire le scienze sociali. In qualche modo, metaforicamente, le scienze sociali sono chiamate "alle armi". Per individuare e poi impegnarsi su una serie di problemi per i quali appare di massima urgenza un contributo di analisi e di idee. Intanto, converrà fare un primo passo: trovare modo affinché l'evidente e per molti aspetti scontato interesse che molti, moltissimi studiosi delle varie discipline hanno e non possono non avere per la vicenda della crisi diventi un lavoro integrato e collettivo. E perciò produttivo e ascoltato. VI
ittidio Europa Felix
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n questo numero pubblichiamo l'ampio dibattito sul rapporto presentato dal gruppo di lavoro diretto da Fabrizio Barca sulle prospettive della politica di coesione dell'Unione Europea. Un passaggio ulteriore di quello che può essere considerato il percorso europeista di questa rivista. Un percorso, come molti altri, finora fondato, in qualche modo radicato, sulla convinzione che l'Europa integrata comunque va avanti, con grande alternanza di ambizioni e di freni e soste, di ottimismi e scetticismi, e tuttavia ben ancorata a quel metodo fttnzionalista e intergovernativo che - tutto sommato - poteva ben deludere le attese federaliste, il desiderio di forti accelerazioni, ma che sembrava assicurare in ogni caso un cammino in avanti significativo ed utile. Tanto da portarsi dietro tutti. Sulle nostre pagine hanno trovato eco questi convincimenti e le suggestioni di un costituzionalismo europeo sui generis che alla fine non avrebbe tradito. Su questa linea di pensiero è stato facile trovare giustificazioni per i referendum popolari contrari all'Europa (risultati negativi quasi inevitabilmente, per la loro sporadicità); per spiegare in termini quasi adesivi la sentenza della Corte Costituzionale tedesca che oggi sta dando sostegno ad una politica nazionale che supera l'atteggiamento da sempre fortemente europeista della Germania; per intendere le istanze deregolatorie a più riprese fatte valere dai governi inglesi, e non solo da loro, come reazioni alla logica autoreferenziale dell'eurocrazia, e via dicendo. Ccisì come, dall'altra parte, si è data enfasi alle opportunità dei passi in avanti possibili. L'Eurogruppo come l'area di collaborazione rafforzata che, sulla scia del decennale successo dell'euro, doveva costituire quasi l'antidoto di un allargamento forse "doveroso", ma anche forse troppo "frettoloso". Il Trattato di Lisbona come base sufficiente per una "costituzione europea", malgrado l'alto grado di logica barocca che lo permea. E così via. Tutto ciò sulla base del presupposto che la costruzione europea è di lunga durata e deve progressivamente superare il processo di permanenza nel tempo, anch'esso di lunga durata, dei tanti motivi che per secoli hanno fatto dell'Europa terra di conflitti. Questa Europa, difficile e contraddittoria, ma resistente su una linea di integrazione che va avanti, è quella che ci piace chiamare "Europa felix". L'Europa, vale aggiungere, quale è stata resa possibile dalla crescita economica. Anche se disuguale, anche se in corso di. rallentamento già da parecchio tempo. VII
E, fino ad un certo punto capace di fare i conti con i processi della globalizzazione di cui, anzi, è stata promotrice. Un'Europa tavolo negoziale permanente e obbligatorio che ha avuto già molti meriti. Tra cui, dare la percezione a gran parte della popolazione di appartenere a questa realtà continentale in maniera sempre più significativa e stringente. Per esempio, con regole che si vanno armonizzando, e comunque sempre compresenti, come sanno tutti gli operatori del diritto. E con nuovi diritti e tutele di cui godono tutti i cinquecento milioni di cittadini europei, direttamente, anche senza passare per i governi e gli Stati membri. Ovvero quella grande realtà geografica e sociale alla portata non solo degli studenti migliori che utilizzano le borse di studio Erasmus, ma anche dei tanti turisti che sono andati a costituire la massa di utenza delle compagnie aeree low cost. Senza parlare della soddisfazione di quell'esteso mondo di fimzionari di vario tipo che vive fra Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo ed è un vero mondo a sé, sostanzialmente convinto dell'indefettibilità di se medesimo. Un'Europa che è riuscita a portare assieme Paesi con tradizioni differenti in nome di interessi comuni. Paesi che - serve ricordano? - soltanto cinquant'anni fa non avevano pace. I grandi flussi dell'immigrazione e il loro accumularsi nel tempo con profondi cambiamenti nella composizione delle popolazioni europee, insieme all'impulso che ne è derivato al riproporsi dei comportamenti sociali fondati sul "noi e loro", su sentimenti identitari inevitabilmente naif, hanno finito per riproporre anche diffidenze fra i popoli europei, mai del resto scomparse. Il grande dumping commerciale dei Paesi emergenti, la Cina innanzitutto, quale è consentito dalla globalizzazione, ha avuto effetti di soddisfazione per i consumatori europei, soprattutto meno abbienti, ma poi ha incentivato crisi industriali, delocalizzazioni, disoccupazione. Insomma, da anni alcuni fenomeni di sostegno dell'Europa felix hanno cominciato a venire meno. La grande crisi - una volta arrivata, negli ultimissimi tempi, alla fase della messa in questione dei "debiti sovrani", cioè del cuore dei poteri statali di intervento economico sta cancellando qualsiasi possibilità di enfasi sulle opportunità di cogliere lccasione per un grande balzo in avanti. E difficile dimenticare la conferenza stampa di Sarkozy, Barroso e Juncker nell'autunno 2008, durante il semestre francese, quando sembrava possibile far fronte al primo esplodere della crisi con una energica iniziativa dell'Eurogruppo. Molta retorica, certo. Ma al di là di questa, anche molta determinazione. Così, almeno, sembrava. Bisognerebbe capire come è andata dopo. Visto che a quasi due anni da allora l'Eurogruppo sembra essere divenuto il punto debole dell'Europa. Insomma, Europa felix addio. Per chi ha coltivato questa linea politico-istituzionale o, se volete, questa immaginazione, è il tempo di prenderne atto. Magari drasticanente. Qual è allora la politica europeista del disincanto che occorre elaborare e sostenere? VIII
Punto primo: applicare il Trattato di Lisbona in tutte le sue potenzialità. È certamente conclusa la fase della costruzione più o meno "federalista" e "costituente" che è stata portata avanti faticosamente negli ultimi dieci anni. Se il risultato è deludente dal punto di vista di quanti volevano superare la semplice logica intergovernativa (noi siamo fra questi) come elemento di base di quel tanto di sistema di governo europeo che c'è, non è possibile far conto su qualsiasi possibile applicazione migliorativa di tipo inerziale. E, per esempio, necessario che entro il sistema Unione la Commissione come organo della proposta e, soprattutto, il Parlamento Europeo come organo di co-decisione facciano valere il punto di vista europeo come distinto da quello del concerto degli Stati membri nazionali. In questaprospettiva, il Parlamento Europeo dovrebbe reclamare sistemi elettorali omogenei e forme di rappresentanza idonee - secondo il principio di sussidiarietà - ad affrontare quelli che sono propriamente problemi europei. E perché i problemi europei giungano come tali nell'agenda del dibattito pubblico - e non come ombre lunghe delle effigi nazionali - questa volta non dovrebbe mancare uno sforzo vigoroso di comunicazione da parte delle istituzioni delle politiche e della politica europea che si dimostrino "vogliose" di svolgere il proprio compito. Punto secondo: creare e mobilitare soggetti politici europei. Nessuna possibilità di farsi valere è immaginabile senza il lavoro di sòggetti politici che, su questioni di carattere generale o su singole issues, si assumano la fatica di una dura lotta politica. Ci siamo spesso interrogati sul significato dei partiti o delle famiglie politiche europee che, all'atto pratico, si riducono a costituire "gruppi parlamentari" più o meno omogenei in seno al Parlamento europeo. Senza realizzare iniziative congiunte nei diversi Paesi, senza scambiarsi esperienze di mobilitazione e di direzione dell'azione politica, senza creare una voce europea che sia percepita dentro e fuori come espressione autentica, univoca e coerente dei cittadini europei prima ancora che degli Stati, in grado di connettere i popoli alle istituzioni, e così via. Al più, sembra oggi valere l'emulazione populista con scambio di parole d'ordine e di "format" mediatici. Quando si parla di partiti che devono conquistare l'insediamento sul territorio, per lo più si pensa all'insediamento locale (oggi inevitabilmente retroverso) che non a forme di insediamento che tengano presente l'Europa e gli altri d'Europa. Le ormai vecchie e desuete pratiche di gemellaggio fra Comuni di vari Paesi, pur puntando ad aspetti prevalentemente simbolici, dimostravano molta più consapevolezza del problema di quanta oggi si abbia.
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Punto terzo: la "cooperazione rafforzata" non può essereformula tecnocratica ma ha bisogno di anima politica. Molte riflessioni critiche e auto-critiche fatte sull"allargamento" dell'Unione ormai appartengono soltanto alla ricostruzione storica degli eventi. Non è ben chiaro se l'allargamento sia stato veramente fra i fattori endogeni del rafforzamento della crisi in Europa. Comunque, da tempo si pensa che un modo per compensare i "danni" presunti di un allargamento senza vincoli di coesione forte passi attraverso la cooperazione rafforzata. Non è tuttavia questo il modo giusto per realizzare utili cooperazioni rafforzate. Il rischio sarebbe quello di creare steccati interni al Continente quali si volevano superare. Il modo giusto è dare una forte finalità politica alle cooperazioni allargate. Il che significa mirare ad una visione di governo efficace, anche in senso democratico, del livello alto dei fenomeni e dei problemi da affrontare secondo la scala della sussidiarietà. Un livello alto fin troppo ricco di problemi che se non affrontati adeguatamente potrà essere l'origine di derive assai pericolose ed autodistruttive. Ma, di nuovo, serve una forte iniziativa. Che non significa una forte iniziativa dei governi. Se non altro perché impensabile e forse impossibile. In ogni caso, Europa significa rinnovata fatica politica.
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queste Istituzioni n. 156-157 gennaio-giugno 2010
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Le riviste culturali e la formazioue della sfera politica di Claudia Lopedote
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e riviste, intanto, sono mezzi di comunicazione che, tra i possibili gradi e livelli di influenza sulla sfera pubblica,agiscono più in profondità e con maggiore incisività di molti altri, compresi queffi di gran lunga più presenti nei consumi della stragrande maggioranza della popolazione italiana. Non si fermano alla sola informazione (effetto cosiddetto diframing, incorniciamento della realtà, con selezione e costruzione della notizia), né all'agenda setting (effetto di priming e tematizzazione delle notizie secondo una specifica scala delle priorità che segue le logiche mediali interne e le routine produttive connesse) - un risultato di per sé non certo trascurabile - ma puntano oltre, alla creazione ed alla promozione del dibattito pubblico, con funzioni di costruzione dei contenuti e delle opinioni che animano il dibattito stesso, con le mille sfumature possibili: dallrientamento alla vera e propria campagna di sensibilizzazione, passando per alcuni complessi processi di
rafforzamento delle maggioranze, studiati e descritti con cura e suggestione dalle teorie della spirale del silenzio (Noelle-Neumann 1970), della• coltivazione (Gerbner 1976), dell'egemonia dei media (Adorno e Horheimer 1947), della dipendenza dai media (De Fleur 1976), e molte altre ancora. Le caratteristiche delle riviste di cultura. "Il mezzo è il messaggio", in questo caso, sta ad indicare proprio le caratteristiche del mezzo (tecnologie e tecniche, supporto, fruizione, contenuti, stili di consumo) che ne determinano in parte gli usi, i pubblici di riferimento e i possibili effetti, a partire dal raggio di azione nel breve e nel lungo periodo. In tal senso, quello delle riviste è un ruolo che si gioca nel lungo periodo e che sviluppa un "pensiero lungo" rivolto ad un pubblico per forza di cose non di massa (in primo luogo per il tipo e il livello di alfabetizzazione implicati, poi per gli interessi che acco-
stano il lettore a ciascuna rivista). Non ampio e generalizzato come quello della televisione, ad esempio, che cioè cerca un minimo comune denominatore attorno al quale riunire quante più teste/contatti possibili e che non richiede una continuità dell'attenzione, neanche nel brevissimo periodo, quello di uno stesso programma trasmesso. Lo zapping, l'uso impressionistico e frammentato, discontinuo del mezzo sono per forza di cose tipici della televisione, molto meno della radio e di Internet, non già dell'editoria libraria. Ilruolo nella formazione dell'opinione pubblica Il modo in cui una società produce il proprio ambiente informazionale si pone al centro dell'idea di libertà e democrazia. Esso determina le possibili forme d'azione e di trasformazione del mondo e la percezione individuale e collettiva dello spettro di azioni a disposizione che possono rivelarsi efficaci e delle loro conseguenze, sottoponendo alcuni temi alla discussione pubblica ed all'ascolto. L'informazione costituisce la base sulla quale poggia la possibilità stessa di autonomia individuale, poiché è su di essa che si fondano le pratiche che permettono ad una comunità di formarsi una serie di idee comuni riguardo a se stessi, allo stato del mondo e alle strade percorribili. Qui, per informazione, non vanno intesi soltanto i moduli classici dell'attività giornalistica, ma il più ampio panorama di
produzione di conoscenza, intrattenimento, comunicazione. La cultura così come codificata dalla tradizione dei Cultural Studies in poi, superando ogni snobismo verso le forme culturali basse, popolari, di massa: "un sistema di significati, atteggiamenti e valori condivisi, unitamente alle forme simboliche (azioni, manufatti) in cui essi si esprimono e si traducono" (Burke 1978). All'interno del rapporto cultura-società, il ruolo delle riviste culturali è, potremmo dire, quello del sistema nervoso della società: in qualità di agenti di socializzazione e formazione (occupano lo spazio dei leader dbpinione, i mediatori delle opinioni, all'interno del "flusso di comunicazione a due stadi"), esse giocano un ruolo centrale nella formazione della sfera pubblica. Creano le opinioni informate, trasmettono i saperi, contribuiscono alla complessificazione ed alla semplificazione delle conoscenze, esprimono un'attribuzione di significato ed interpretazione degli eventi, promuovono un controllo diffuso sulle decisioni pubbliche. Per dirla con Lévy e De Kerckhove, le riviste sono al centro delle pratiche di creazione/attivazione di un'intelligenza collettivalconnettiva, un circuito culturale che abbia riscontro nella realtà, con i tempi e gli strumenti analitici e metodologici della scienza, dell'approfondimento, dello studio, dell'apprendimento reciproco. Non a rimorchio della cronaca, degli spot e dei sound bites, delle suggestioni semplicistiche della televisione, delle urgenze dell'hic et nunc.
Una funzione complessa ed una responsabilità enorme. Che non manca di essere rilevata, soio e sempre criticamente, dagli apocalittici, tra cui sono molti i politici e gli educatori a vario titolo. Non dimentichiamo, infatti, che in materia di informazione, il settore principalmente oggetto della legislazione nazionale è tradizionalmente stato e continua ad essere quello della stampa, con vincoli stringenti per i contenuti, la proprietà, la pubblicità ,ed anche la censura (insiéme al cinema). Da sempre, cioè, l'attenzione del legislatore si è concentrata sui mezzi a stampa. Seppure non manchino anche le ragioni storiche e tecniche di tale cura. Quali strumenti possono migliorare il contesto
Il principale problema di una qualsiasi opinione è trovare ascolto. Tanto più se veicolata da un mezzo non facile, non alla portata di tutti (per ragione di costi, di competenze, di reperibilità, di conoscibilità). Per le riviste e la stampa in genere, il problema diventa quello della distribuzione. I canali di vendita delle riviste non sono un elemento neutro, né irrilevante, poiché tra edicole e librerie è sempre difficile raggiungeré una dimensione ottimale di presenza e visibilità al pubblico. Internet costituisce certamente un possibile vantaggio per lrganizzazione efficace delle minoranze di opinione e l'intercettazione di nuovi pubblici, ma anche un problema. Diventa infatti decisivo esserci, ma ben più im-
portante come distinguersi nel mare magnum del "mercato delle idee" di stampo libertario. Soprattutto, se questo significa essere continuamente aggiornati, sempre in linea, sempre attivi. Confrontandosi con mezzi e fonti diversissime per finalità, organizzazione e qualità, che pure competono sullo stesso segmento nella mescolanza delle voci e delle professionalità, confondendo non poco le acque. Senza dimenticare che essere online in maniera significativa richiede ulteriori risorse, non del tutto trascurabili, e spesso completamente nuove rispetto a quelle impiegate nei processi produttivi tradizionali della rivista (gli stessi contenuti e i linguaggi devono essere diversi per evitare effetti di cannibalizzazione tra piattaforme). Il nodo dell'accesso alla distribuzione nelle librerie e nelle edicole, come anche il ricorso a canali di vendita onlime, con sistemi di turnazione ed obsolescenza che bruciano tutto nel giro di un mattino, dove ieri è già passato remoto, chiama in causa la necessità e lbpportunità di fare rete con le altre riviste - è questo ciò che fa in Italia il Coordinamento delle Riviste italiane di Cultura (CRIc) - per sfruttare le possibili sinergie derivanti da un approccio sistemico alle sfide ed ai problemi posti dalla progressiva riduzione delle risorse economiche destinate ai beni culturali nell'ambito della spesa pubblica. Cui si aggiunge l'anomalia dell'industria editoriale e della distribuzione nel contesto italiano, nonché quella presente sul versante dei lettori - laddove il ba3
cino della domanda non può essere ampliato ulteriormente, ma soltanto approfondito, neanche in presenza di nuovi prodotti o di una loro ennesima differenziazione - che pongono le basi durature per una condizione di marginalità economica delle riviste di cultura. Bisogna fare attenzione a che questa marginalità economica e le relative difficoltà non si trasformino in marginalità culturale e anche politica intesa come capacità di farsi ascoltare per contare indirettamente nell'orientamento delle decisioni di rilievo pubblico. Oello che conta, allora, è la qualità del prodotto editoriale. Fare un buon lavoro e con i crismi della professionalità. Ovvero con responsabilità, soprattutto verso la politica largamente intesa, contenendo i rischi di collateralismo da un lato, e di cieca adesione al modello avversariale che alimenta l'antipolitica, il populismo, i fenomeni di reflusso nel privato, dall'altro. E con la consapevolezza che la stagione del Qarto potere forse non è mai esistita in Italia. Esiste invece il rischio di autoreferenzialità di un dibattito poco attento ad un ampio coinvolgimento degli operatori, al coinvolgimento della società civile, alla ricerca di risposte concrete ai problemi e al loro riscontro con la realtà. Al presidio dell'attualità. Certi che un buon libro troverà sempre il proprio lettore. Anche nel Paese in cui è molto chiaro che cosa intendesse Borges dicendo che "il buon lettore è ormai un cigno più tenebroso e raro del buon scrittore".
4
Le ripercussioni dell'attuale fase di crisi (o di trasformazione) della politica italiana Il mio è un argomento provocatorio, ma non vuole essere cinico, non rincorre il motto "bad news is good news", tutt'altro. E vero però che la crisi fa bene alle riviste, alla stampa, all'informazione e all'approfondimento in senso lato. Fa bene alla cultura ed ai saperi (informazione, comunicazione, studio) in quanto strumento di comprensione del mondo in grado di elaborare modelli di interpretazione e previsione del comportamento e dei fenomeni sociali. Tanto più oggi, con l'avvento della società dell'informazione che determina una sempre maggiore dipendenza dai flussi dell'informazione e della comunicazione quale risorse strategiche del potere. Non mancano le evidenze storiche di questa interdipendenza positiva: il boom delle scienze sociali americane e della metodologia statistica che ne ha favorito la ciclica istituzionalizzazione, non a caso, avviene negli anni trenta, nell'epoca dell'industrialismo e del modernismo, e poi ancora durante la Guerra fredda. In tutt'altro ambito - forse più di svago ed intrattenimento e quindi in termine di bene-rifugio, ma non solo - si pensi al potere delle conglomerate americane del cinema alla fine degli anni Venti, nonché durante e all'indomani dei conflitti mondiali. Più di recente, i dati sulla crescita economica del settore editoriale it.ljanodopo il 2001 registrano un aumento del valore
dell'editoria dal 2001 al 2008 pari a 7,1 mld euro, con una forte impennata della spesa diretta in consumi editoriali, per 5,6 mld euro (IEM Fondazione Rosselli, Rapporto 2008). Non si tratta soltanto di una fuga consolatoria. Le riviste culturali sono osservatori competenti del dibattito sulla società contemporanea, strumento di documentazione, analisi, approfondimento e critica, nonché promozione della discussione pubblica, in modo scientificamente rigoroso e umanamente significativo. Simone Weil diceva che le riviste sono "nel cuore del dibattito". E Franco Ferrarotti, nello spiegare l'urgenza e il bisogno autobiografici di fare una rivista (la sua Critica sociologica), non a caso usa un'espressione densa come "partecipazione critica dell'umano all'umano". E questa la rilevanza, il ruolo di una rivista culturale. Queste istituzioni, ad esempio, nasce in un momento particolare, nel 1973, con il numero 0, nel quale è contenuto il manifesto di intenti che poi è tutto nel nome della rivista: "ripartire dalle istituzioni del post-Sessantotto". Precisando che "un lavoro culturale è valido se s'inserisce o è in grado di costruire un circuito culturale, cioè un flusso di scambi tra quanti operano o possono essere chiamati ad operare su uno stesso terreno teorico-pratico". La crisi, cioè, è una sfida culturale prima che intellettuale, con cui le riviste ed i saperi possono e devono confrontarsi. Le riviste sono ulterior-
mente sollecitate a studiare e formulare possibili soluzioni dall'urgenza e spesso dalla drammaticità con cui questioni e problemi si impongono all'attenzione pubblica. In tal senso, accade anche che aumenti l'attenzione attorno al lavoro delle riviste da parte dei pubblici attivi che richiedono maggiori informazioni e desiderano comprendere ed approfondire i temi oggetto di dibattito. Ma anche da parte dei decisori pubblici e degli altri operatori coinvolti nelle scelte e nelle politiche di intervento, chiamati a dare risposte. Aumenta in un certo senso l'attrattività delle riviste agli occhi dell'opinione pubblica. Perché la crisi fa pensare, o almeno dovrebbe. L'etimologia della parola crisi è "giudizio" e rimanda a ,, ,, separare , " passare al setaccio , " giuaicare , aiscernere Le riviste di cultura sono cioè la risposta alla crisi. Di questi tempi, capita che si debba venire incontro a temi e spunti sempre nuovi, spesso urgenti o comunque pressanti, che starebbero stretti nelle routine e nei tempi della rivista stessa. E allora, ad esempio, assieme alle consuete riunioni redazionali, ci sono ulteriori occasioni di incontro per il dibattito e l'approfondimento tematico (i dibattiti in redazione) che riuniscono, in modo fluido e informale, competenze e discipline molto diverse tra loro e per questo complementari nello sviscerare e analizzare una questione data. In tal senso, una rivista è in grado di offrire gli strumenti per fare lavorare assieme que"
1•
" 1
ste competenze, con i tempi necessari all'approfondimento e con metodologia scientifica. A vantaggio della
collettivitĂ che vuole porsi in ascolto o partecipare all'analisi.
Intervento tenuto nell'ambito del Convegno "Le riviste di cultura e la formazione dellbpinione pubblica", a cura del Coordinamento Riviste di Cultura in collaborazione con Associazione Sant'Anselmo - Progetto culturale CEI (Torino, Lingotto Fiere, 14 maggio 2009). Con: Ilario Bertoletti (Humanitas), Gian Mario Gillio (Confronti), Bruno Simili (i/Mulino); Claudia Lopedote (queste istituzioni—Css). Coordinamento: Rosario Garra (CRIc).
queste istituzioni n. 156-157 gennaio-giugno 2010
Di cosa parliamo qilaildo parliamo di Pubblica amlnillistraziolle di Giovanni Vetrittò
D
i cosa parliamo quando parliamo di Pubblica amministrazione? La domanda, che echeggia il titolo di una celeberrima raccolta di racconti di Raymond Carver 1 , si pone, in questo particolare momento storico, con una pregnanza che raramente ha avuto nel passato. Il tema della "riforma amministrativa" rappresenta pressoché una costante del dibattito pubblico in tutte le democrazie evolute; come insegnava Benedetto Croce2 lttimo amministrativo è infatti una chimera irraggiungibile, e sempre vi saranno l'insoddisfazione per la 'qualità dei servizi pubblici e la richiesta, da parte dei contribuenti, del massimo utile possibile (in termini di quantità e qualità dei servizi) a fronte
del prelievo fiscale che il potere pubblico effettua dalla loro ricchezza. Per questa ragione, la polemica sulla capacità della politica di garantire ai cittadini che questi risultati vengano raggiunti è praticamente ininterrotta e nei programmi di governo l'assunzione di impegni in termini di modernizzazione delle istituzioni amministrative non manca mai3 .
La necessità di un'analisi periodica del "cosa" si riforma
,
Ciò detto, occorre prendere atto del fatto che il fenomeno amministrativo non è un qualcosa di fisso ed immutabile; ma che evolve in misura significativa, e in modo sistemico, al mutare dei grandi fattori politici, eco7
nomico-produttivi, organizzativi, fttnzionali che con esso interagiscono. Per questa ragione, discorrere di riforma amministrativa nell'età dello Stato monoclasse ottocentesco era qualcosa di profondamente diverso da ciò che ha, in seguito, significato nell'età welfarista-keynesiana; ed ancora, un senso di nuovo diverso il dibattito ha assunto a partire dalla grande crisi di quest'uhimo modello, ovvero dalla fine degli anni settanta del '900. In ognuno dei tornanti che hanno segnato questa evoluzione dei grandi paradigmi amministrativi dello Stato contemporaneo la polemica sul "che fare" ha richiesto una attenta previa ridefinizione dei confini del sistema amministrativo; per dirla in altre parole, ci sono stati nella storia momenti nei quali qualsiasi corretta impostazione del problema di "quale riforma amministrativa" ha richiesto una preventiva penetrante analisi della trasformazione dell'oggetto stesso della riforma, una capacità di non darne per scontato il perimetro, in termini sia di senso politico dell'intervento pubblico, sia di numero e tipologia delle funzioni assolte, sia di caratteri e morfologia dei corpi organizzativi, sia di caratteristiche e saperi delle burocrazie professionali incaricate di animarli. A voler essere estremamente analitici, addirittura, si potrebbe ipotizzare che questa propedeutica operazione ricostruttiva di senso, che nelle cesure politicamente più evidenti è stata pur fatta, avrebbe avuto bisogno di essere compiuta più spesso; e che l'incapacità di comprendere la necessità di
compierla abbia largamente pregiudicato in alcune fasi l'esito di sforzi riformistici anche generosi, in momenti nei quali alcuni dei termini sistemici del funzionamento delle amministrazioni pubbliche andavano mutando, ma in maniera non sufficiente a far emergere una consapevolezza generale della inevitabile ricaduta su funzioni, organismi, burocrazie del settore pubblico. Una radicale modificazione del quadro La lettura di due ancora recenti volumi sul tema dell'evoluzione e delle logiche di trasformazione del sistema amministrativo italiano (F. Butera e B. Dente, Change management nelle pubbliche amministrazioni: una proposta, Franco Angeli 2009; M.L. D'Autiia, R. Ruffini, N. Zamaro, Il lavoro pubblico tra cambiamento e inerzie organizzative, Bruno Mondadori 2009) ripropone con forza la domanda se quello che stiamo vivendo sia o meno uno di quei periodi nei quali il dibattito sulla riforma amministrativa viene fuorviato dalla inadeguata consapevolezza delle generali trasformazioni di senso del fenomeno amministrativo come tale; e ciò nonostante il dibattito sia, oltretutto, più acceso del solito, per l'irrompere scomposto di un cronachismo scandalistico d'accatto su inefficienze e parassitismi dei pubblici dipendenti, alimentato da qualche sconsolante semplicistica teorizzazione di intellettuali anche di qualche nome. L'impressione-di-chi-scrive è che la
fase che stiamo vivendo comporti, per le amministrazioni pubbliche (per le loro strutture, per le loro burocrazie, per la tipologia dei loro interventi) una radicale modificazione di quadro, che costringerebbe a ragionare di modernizzazione delle istituzioni amministrative in termini radicalmente diversi dal passato; addirittura, in termini di discontinuità che hanno l'unico precedente possibile nell'età della prima rivoluzione industriale. L'affermazione è ardita e richiede di essere argomentata. A partire dalla seconda metà degli anni settanta del '900, la "crisi fiscale" indotta dall'affermazione dei grandi modelli welfaristi e keynesiani (ma anche da alcune loro evidenti storture, che la migliore letteratura da subito iniziò a denunziare) ha dato fiato ad una corrente riformista che prese rapidamente piede in tutto il mondo, secondo tre principali direttrici, tra loro parzialmente non coincidenti e non necessariamente altrettanto fondate; ma che, sotto la pressione di ceti sempre più insofferenti dello squilibrio tra carico fiscale e qualità dei servizi pubblici, divennero rapidamente una sorta di parola d'ordine unanimistica cui nessuno pareva capace di contrapporre ragionamenti più articolati. Le tre direttrici erano, in primo luogo, la revanche di un liberismo dottrinario, che richiedeva un radicale arretramento dello Stato, l'abbandono dell'illusione di servire, attraverso apparati pubblici, i cittadini "dalla culla alla bara", la rivalutazione del mercato come solo strumento di raggiungi-
mento di un ottimo paretiano, ispirato all'individualismo metodologico. In secondo luogo, la convinzione che il poco che del settore pubblico si doveva (meglio non si poteva non) conservare, potesse e dovesse funzionare con le medesime logiche di efficienza ed economicità dell'impresa privata, che fosse indispensabile un "nuovo management pubblico" di fatto coincidente con il miglior management privato. In terzo luogo, che occorresse abbandonare tutte quelle configurazioni dell'intervento amministrativo che miravano a dare al potere pubblico un ruolo di attore capace di produrre effetti "macro" sul sistema socio-economico: le programmazioni (demonizzate alla stregua della nuova fortuna di autori quali Von Hayek e Von Mises), le politiche industriali, le iniziative di accompagnamento e sostegno allo sviluppo locale, le regolazioni riequilibratrici degli scompensi cicici del libero mercato (il diritto del lavoro interventista, il sostegno keynesiano alla domanda aggregata, le politiche fiscali redistributive). Ciò nell'assunto che il settore pubblico (meglio, l'unico settore pubblico legittimato a sopravvivere alla nouvelle vague) potesse essere soltanto la somma di servizi "micro" che il mercato non poteva o non voleva garantire ai cittadini (meglio, ai consumatori, posto che nel mercato "si soddisfano domande e non bisogni"4), ma non più un luogo di creazione di grande sintesi propositive, come tali ritenute segnate dallo stigma perenne del costruttivismo ingenuo. Queste tre direttrici di intervento avreb-
bero dovuto plasmare una "amministrazione pubblica riformata?' nel senso non di una rifondazione ma di uno sfrondamento; una amministrazione razionalizzata e quasi riportata ad una presunta età dell'oro vittoriana, che avrebbe interagito con effetti meno costosi e più efficacia con una impresa che nel frattempo andava mutando completamente le sue forme e le sue logiche, in quello che icasticamente è stato descritto come passaggio dal fordismo al post-fordismo, o dal fordismo al toyotismo. L'impatto delh "rivoluzione tecnologica?', awenuto oltretutto nel contesto della nuova economia globalizzata, di cui è stato uno dei driver fondamentali, avrebbe dovuto segnare il suggello di queste parallele trasformazioni, nel segno di una nuova età dell'oro mercatista. L'eredità delle tre direttrici delle "grandi riforme" La storia, però, ha dipanato nei decenni un copione parzialmente diverso. Le tre direttrici delle "grandi riforme" di fine secolo hanno lasciato una eredità duratura e non più discussa in termini di utili elementi di evoluzione dei sistemi amministrativi, ma hanno largamente fallito nella loro aspirazione a riplasmarli in maniera univoca ed esclusiva. L'arretramento dello Stato ha trovato un suo fisiologico limite nella ormai acclarata natura pubblica di un numero ben altrimenti alto e rilevante di servizi, che i cittadini dei grandi sistemi democratici continuano a pretendere di influenzare con il loro voto, a prelo
scindere dalla natura pubblica o privata delle agenzie di erogazione dei servizi stessi. Dalla stagione della "deregulation" si è passati a quella della "better regulation". Dalla transitoria rivincita di Von Hayek si è approdati alla recente ulteriore riscossa di Keynes. Dopo la disillusione nei confronti dello Stato onnipresente e del costruttivismo si è approdati ad una simmetrica disillusione nei confronti del mercato e della sua capacità di assicurare sempre la soluzione dei grandi problemi di interesse collettivo. L'aspirazione a ridisegnare i singoli servizi secondo una logica di ottimo microeconomico si è rivelata presto inadeguata, perché tendeva e svuotare la potenzialità della politica di rispondere alla delega elettorale, mancava di garantire le necessarie sinergie "di sistema" tra le politiche pubbliche, sclerotizzava su standard quantitativi poco duttili la valutazione di servizi che invece, per loro natura, i cittadini volevano sempre più flessibili, adattabili, qualitativamente gestiti in modo "sartoriale"5 Soprattutto, dopo un dibattito dimostratosi di corto respiro sul passaggio dallo "Stato gestore" allo "Stato regolatore", è emerso prepotentemente il nuovo ulteriore paradigma dello "Stato catalitico"6, dello Stato, cioè, che rinunzia all'antica vocazione al dirigismo politico ed al costruttivismo sociale, per farsi elemento catalizzatore di vaste coalizioni di attori pubblici e privati attorno a grandi progetti di riposizionamento strategico dei territori e delle comunità. La - 'nuova- programma.
zione" che il settore pubblico è chiamato a pone in essere in questa nuova configurazione non vuoi dire dunque più calare progetti dall'alto, ma offrire un'area inclusiva e "laica"a progetti deliberativi condivisi che sorgono dal basso. L'impatto delle tecnologie ha dato un nuovo (e ben altrimenti pervasivo) spazio all'intervento di amministrazioni pubbliche cui si chiede un ruolo inedito di servizio, regolazione e sintesi di interessi sociali. La nuova fortuna dell'antico (e per secoli marginale) concetto giuridico della sussidiarietà nasce dalla concreta possibilità di connettere in una logica di rete operativa attori pubblici e privati tanto nel momento decisionale che nella materiale erogazione dei servizi, secondo forme nemmeno immaginabili prima della recente età dell'Information and Gommunication Technology 7 .
Una trasformazione epocale Insomma, partiti per tornare al passato, i sistemi amministrativi dei Paesi socio-economici più evoluti stanno (molto prevedibilmente) approdando al futuro. Partiti per il mercato stanno approdando ad una nuova sintesi sussidiaria di attori pubblici e privati; partiti per il federalismo stanno approdando alla multilevel governance, che è cosa qualitativamente del tutto diversa; partiti dal new public managemeni' stanno approdando alle nuove professioni pubbliche; partiti per far studiare ai propri burocrati l'economia aziendale (da affiancare allbrmai frusto bagaglio professionale soltanto
giuridico) stanno approdando a chieder loro lo studio dell'analisi delle politiche pubbliche. Tutto è, dunque, cambiato: la ripartizione e la ftinzionalizzazione territoriale del potere pubblico, gli equilibri e le meccaniche costituzionali, lo spazio delle decisioni democratiche parlamentari rispetto alle deliberazioni partecipative a livello amministrativo, il rapporto tra istituzioni pubbliche e istituzioni di mercato, il ruolo e le interdipendenze degli attori, pubblici e privati, le modalità di erogazione dei servizi, pubblici e privati 8 . Una trasformazione epocale, a fronte della quale non si può pensare di far evolvere il paradigma ereditato dalle età precedenti, allo scopo di adattano ad una parziale modifica qualitativa (ma soprattutto quantitativa) delle funzioni, in un quadro generale di principi e meccanismi che possano restare largamente non pregiudicati (come accaduto negli anni trenta e negli anni sessanta del '900). Si tratta di abbandonare del tutto il paradigma preesistente, per costruirne uno del tutto nuovo, in un contesto mutato nei suoi pilastri portanti. Certo, come detto, molte acquisizioni concettuali del ventennio appena trascorso sono ormai patrimonio di base del nuovo da costruire. L'antiideologismo, l'anticostruttivismo, la tensione all'efficienza ed all'economicità (ma anche, ed anzi sempre più, all'efficacia), la rinunzia alle grandi architetture astratte ed alle armonie tutte concettuali di una certa cultura giuridica, l'abitudine a "far di conto" sulle 11
politiche e a confrontare sempre costi e risultati, l'attitudine a mutuare anche nel settore pubblico pratiche manageriali del mondo privato (ma ancor più ambiziose opzioni strategiche organizzative, come quella dell'esternalizzazione correttamente intesa): tutto ciò è ormai patrimonio concettuale della koiné dei riformatori e, più banalmente, della pratica operativa quotidiana delle dirigenze pubbliche (almeno di quelle più avvertite). Ma sta diventando sempre più chiaro che il cuore della scommessa di modernizzazione sta in altre e ben più pregnanti frontiere: l'abitudine a disegnare politiche pubbliche multiattore coerenti ed efficaci, l'attitudine a ftingere da arena dei grandi processi deliberativi, la capacità di generare sviluppo economico e coesione sociale attraverso interventi ad ampia base sussidiaria, lo sviluppo di nuove professionalità pubbliche, da quelle di agente di sviluppo locale a quelle di "broker" istituzionale 9 nei grandi processi di governance. Proprio in quest'ultimo termine lessicale si può tentare di riassumere tutta questa "grande trasformazione" che stiamo già vivendo ma che non tutti paiono aver ancora compreso 10 Una parola che sta conoscendo una equivoca e troppo spesso vuota fortuna, nel senso di una sorta di abracadabra da conversazione di salotto, ma che invece può a buon diritto fungere da lemma di sintesi del nuovo modo di fare amministrazione" nella modernità, ancora in gran parte da costruire. .
ivi
Di tutto ciò, nei due volumi cui si accennava dianzi, vi è più di una suggestione e più di una eco. Ma questa prospettiva non sembra pervaderne le pagine con la pregnanza che sarebbe ormai lecito attendersi. Una proposta di cambiamento di tipo aziendale Il volume di Butera e Dente, che è una fatica collettanea, ma ruota attorno all'importante saggio iniziale di sintesi dei due curatori, focalizza l'attenzione più su un metodo che su un obiettivo. Partendo dal presupposto che le riforme degli anni novanta del '900 abbiano prodotto risultati largamente inferiori alle attese, - ma che mediamente le amministrazioni pubbliche, dopo quelle riforme, funzionino, di tanto o di poco, comunque meglio di prima -, il saggio sviluppa la proposta, certamente condivisibile, di inaugurare una nuova stagione di cambiamento, costruita attorno ad un classico programma di change management aziendale, piuttosto che attorno all'ennesima velleità di ridisegno one shot del sistema amministrativo attraverso lrmai logoro strumento legislativo. Si tratta di una saggia proposta, che però pare davvero indigesta per gli attori politici del sistema, ormai autisticamente orientati a inseguire solo e soltanto l'effetto annuncio dell'ennesima norma, quasi certamente ripetitiva di regimi già vigenti, o inutile e velleitaria, quando non perversamente, seppure spesso inconsapevolmente, controriformista.-- -
A contorno di questa tesi del saggio iniziale, che assorbe largamente l'interesse del lettore, il volume offre alcuni materiali specifici di un qualche interesse. Un saggio ricostruttivo dedicato alle linee principali del progetto britannico next steps. Un paio di casi italiani di virtuoso sviluppo organizzativo: quello dell'Agenzia delle Entrate (che però ha il difetto di non fare i conti con il rendimento ancora fallimentare di quegli uffici nel recupero dell'evasione) e quello del Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e Coesione (fortemente legato però alla personalità di un grandcommis del calibro di Fabrizio Barca piuttosto che a stabili fattori abilitanti). Un quadro dei recenti programmi generali del Dipartimento della Funzione Pubblica (che però non riconosce il giusto merito e le rilevantissime differenze qualitative e di risultato al programma "Cantieri" ed alla sua creatrice, altra grande protagonista degli ultimi due decenni, Pia Marconi). Insomma, un volume interessante nella prospettazione (per quanto solo qualitativa) di casi e materiali, e certamente corretto nell'impostazione propositiva di metodo; ma che elude, di fatto, quella urgente curiosità di cui si diceva, il tema del dove si sta andando, della direzione e dei necessari approdi intermedi della modernizzazione da fare: come se questi elementi non condizionassero largamente anche il discorso di metodo ed il giudizio sulle singole esperienze. Come se fosse scontato il "perché" e il "verso cosa" di questa modernizzazione, in
un momento storico nel quale, viceversa, come si è cercato seppur brevemente di argomentare, occorrerebbe diffondere più mature consapevolezze sulla profondità e sulla pervasività delle trasformazioni da compiere. Quel che c'è e quel che ancora non c'è Discorso in gran parte analogo può farsi anche per il volume curato da D'Autilia, Zamaro e Ruffini, anche se i presupposti del lavoro sono molto diversi. Il testo sfrutta i risultati di un'attività di indagine sull'organizzazione e il funzionamento delle amministrazioni italiane svolto presso il Dipartimento della Funzione Pubblica (il cui Capo, Antonio Naddeo, significativamente firma la prefazione) e ne diffonde con cura e rigore i risultati statistici e quantitativi. Per questo, il valore principale del lavoro sta nel ricco aggiornamento che offre sullo stato attuale dell'amministrazione italiana, attraverso diversi saggi curati da vari autori su aspetti quali la pianificazione del personale, gli organici, la mobilità, i concorsi, la formazione. Sono però il saggio introduttivo, redatto da D'Autilia e Zamaro, e quello conclusivo, che si deve a Ruffini, ad avere una funzione di inquadramento concettuale e ricapitolazione dei dati stessi. Il primo contestualizza un'interessante sintesi dei principali dati statistici su consistenza e spese delle pubbliche amministrazioni in una rapida cavalcata storica sulle principali fasi di riforma 13
amministrativa in età repubblicana. Se ne ricava una impressione di zenoniana rincorsa di Achille alla tartaruga, di tendenziale continua arretratezza e inadeguatezza delle soluzioni nel tempo; ma anche un quadro di tendenziale stabilità dei corpi amministrativi, che smentisce una certa retorica della deriva burocratica del Paese; ed un serio confronto con i dati UE, che ci conferma il fatto di un'amministrazione tutto sommato in linea con la media, tanto in termini di spesa rispetto al PiL (al netto degli interessi sul debito), tanto in termini di numero di addetti (in assoluto e per cittadini serviti). Semmai, rivestono interesse alcuni dati sul finanziamento delle diverse funzioni, che evidenziano un grande assorbimento da parte di voci generiche come i "servizi generali", che pesano più di molte rilevanti politiche. In questo saggio si inizia a ritrovare, seppure non sempre però esplicitata, una lettura sulle grandi trasformazioni che l'amministrazione ha di fronte; trasformazioni nell'ottica delle quali anche il giudizio sui dati illustrati andrebbe rimeditato. Per la sua natura, il testo tende però a lasciare il tema sullo sfondo; ma nel far ciò, fornisce comunque, come detto, dati di aggiornamento che potrebbero tornare molto utili a disegnare una prospettiva di riorganizzazione coerente con le grandi sfide dianzi evocate. E però il saggio finale di Renato Ruffini a porre, significativamente in chiusura, in termini netti la questione cardinale. Lo fa nel tentare un rapidissimo bilancio delle riforme già 14
compiute, cui imputa il non aver saputo indurre un'adeguata discontinuità rispetto alle tare storiche delle organizzazioni e soprattutto delle burocrazie pubbliche: organici male distribuiti, scarsa mobilità, scarso controllo della spesa, scarsa efficacia dei processi di sviluppo del personale. Le inerzie, dunque, nella lettura di Ruffini hanno largamente superato le dinamiche di cambiamento: di qui un giudizio di tendenziale insufficienza delle riforme realizzate, una sensazione di work inprogress anche troppo accentuato ma mai realmente compiuto. Con l'ulteriore avvertenza conclusiva che la sfida della governance, correttamente interpretata come una mutazione "profonda" (per dirla con Shumpeter), di pregnanza senza precedenti, comporterà l'adozione di modelli e pratiche del tutto inediti, cui uniformare le politiche di modernizzazione delle organizzazioni e delle modalità di gestione delle risorse umane, già fin qui largamente inadeguate. Ed è questo il punto, ma che arriva a 9 righe dalla conclusione di un volume di oltre 300 pagine. Le giuste domande per raccogliere la sfida della governance Certamente, che la questione sia posta, e nel contesto di una disanima dei caratteri del fenomeno amministrativo italiano documentata, ragionata e metodologicamente fortissima, seppure solo in chiusura, è già importantissimo; importantissimo in un dibattito, come detto, monopolizzato da
vuote e semplicistiche polemiche sui "fannulloni", e con gli indirizzi governativi sterilmente concentrati sulla retroguardia di antiche strumentazioni da ferriera ottocentesca (i poteri repressivi della dirigenza nell'età dell'empowerment delle risorse umane, la questione del controllo della presenza fisica nell'età della misurazione raffinata del contributo individuale allo sviluppo organizzativo del gruppo, la pervicacia persecutoria su malattie e disabilità nell'età della fuzionalizzazione inclusiva delle diversità nel mondo del lavoro). Da questo punto di vista, il lavoro di D'Autilia, Zamaro e Ruffini sembra accettare e non voler sfidare l'arretratezza culturale del luogo presso il quale il lavoro di indagine presupposto è stato svolto; e quello stesso di Butera e Dente, che pure sfoggia la prefazione del Ministro Brunetta, ha una indefinibile aria di sospeso, di un non detto in termini di distanza cui-
R. CARVER, Di cosa parliamo quando parliamo d'amore,
turale (prima ancora che progettuale) tra chi ha scritto il volume e coloro che potrebbero (dovrebbero?) farsene forti per operare nella quotidianità per lo sviluppo del sistema amministrativo italiano. Ebbene, se esiste, forse è il caso di marcare più nettamente questa distanza; forse è il caso di abbandonare il corto circuito del piccolo cabotaggio legislativo di retroguardia e mettere i piedi nel piatto della vera, grande trasformazione cui lavorare. A cominciare dalle domande giuste da porre, per impostare il lavòro di modernizzazione in termini corretti, senza fare più sconti: e allora, di grazia, di cosa parliamo quando parliamo di Pubblica amministrazione?
R. B0ccIAREw e P. CIOCCA, Laterza, Roma-Bari 1994.
Garzanti, Milano 1987. 2
B. CROCE, Il disinteressamento per la cosa pubblica, in Id.,
Etica epolitica, Larerza, Bari 1965, p. 161. Sul punto con acume S. SEPE e E. CROBE, Società e bu-
Sul rapido abbandono dell'ideologia del new public management perfino in Nuova Zelanda, che ne aveva sperimentato con più coerenza i dettami, cfr. R. RENNIE, Sostenere l'innovazione nelle pubbliche amministrazioni, in
rocrazie in Italia, Marsilio, Venezia 2008, in specie pp.
«queste istituzioni», 2005, nn. 136-137, pp. 101
151
6
Ss.
Ss.
Così in un libro fondamentale nel dibattito sulla mo-
L. EINAuDI, Sull'economia di mercato, introduzione alla
dernizzazione amministrativa degli anni novanta D.
politica sociale, in Scrittori italiani di economia, a cura di
OSBORNE e T. GAEBLER, Dirigere e governare. Una pro-
15
Una prima ipotesi in tal senso nel mio G. VETRIrF0,
posta per la Pubblica Amministrazione, Garzanti, Milano
1995, p. 59. Di ua nuova "età delle reti" parla uno degli autori più
Per una nuova professione pubblica: il broker istituzionale, in «Ru - Risorse umane nella pubblica amministra-
importanti per la comprensione di questa fase, M. CA-
zione»,2009,n.2,pp. lSss.
STELLS, La nascita della società in rete, Università Bocconi
IO
Editore, Milano 2002.
sintesi internazionale in OcsE, Modernising Government.
8
Un'affascinante e convincente carrellata di queste tra-
The wayforward, OECD, Parigi 2005; nonché C. POLL1T
sformazioni si può trovare in quello che è divenuto una
e G. BOUCKAERT, La riforma del managernent pubblico,
sorta di testamento intellettuale di R. DAHRENDORF, Li-
Università Bocconi Editore, Milano 2002.
bertà attiva. Sei lezioni su un mondo instabile, Laterza, Roma-Bari 2005.
16
Per tutti, in una ormai consolidata letteratura, l'efficace
queste IstituzIoni n. 156-157 gennaio-giugno 2010
Sviluppi dellavigilailza fillailziaria europea: il rapporto de Larosire di Giuseppe Godano
J
n un precedente articolo (La vigilanza bancaria europea: problemi eprospettive; n. 152 di "queste istituzioni") sottolineavo come l'aggravarsi della crisi finanziaria in reazione al dissesto Lehman aveva messo in evidenza fattori di debolezza e lacune nei meccanismi comunitari della regolamentazione bancaria e finanziaria. Due punti apparivano degni di menzione: il primo la tenuta di alcuni principi base del mercato unico bancario, il secondo la debolezza insita nei Comitati di terzo livello previsti dalla riforma Lamfalussy dell'architettura finanziaria europea. Quanto al primo punto, alcuni episodi, (principalmente il dissesto delle banche islandesi - cfr. infra par. 4.) hanno posto in discussione il riconoscimento reciproco delle regole e quindi implicitamente la qualità della supervisione. In generale, lo scambio di informazioni e la collaborazione fra
i supervisori, anche nell'ambito dei collegi delle autorità di vigilanza, si sono rivelati tutt'altro che ottimali: la confidenza reciproca fra autorità nei rapporti bilaterali (cfr. caso Fortis, in Basilea 2009) è stata sostanzialmente erosa. Il secondo punto riflette un difetto di origine della procedura Lamfalussy: le regole dei Comitati di terzo livello previste dalla procedura, anche se ora possono essere assunte a maggioranza superando la regola dell'unanimità, sono semplici linee guida, prive di effetti giuridici vincolanti; esse non impegnano formalmente gli Stati membri, né le autorità nazionali di vigilanza, salvo la loro applicazione su base volontaria. Le proposte del Rapporto Nell'autunno del 2008 la Commissione europea ha affidato a un gruppo di esperti, presieduto da Jacques de
L'autore è avvocato internazionalista e membro del Comitato di Basilea
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Larosière il mandato di esplorare possibili soluzioni, anche eventualmente di natura sopranazionale, atte a superare le conseguenze della crisi e a migliorare i meccanismi della supervisione. Il Comitato de Larosière ha rassegnato i suoi lavori alla fine di febbraio 2009. Il rapporto de Larosière ha innanzitutto effettuato una diagnosi della crisi finanziaria, individuando aspetti problematici sia per quanto riguarda le regole destinate ad assicurare la stabilità finanziaria e la protezione dei destinatari dei servizi finanziari, sia la supervisione, cioè il processo che deve assicurare che le regole siano effettivamente applicate e gli standard rispettati. Regole e supervisione sono interdipendenti: in ambedue sono richiesti standard elevati. Il rapporto ha inoltre preso atto della cooperazione insufficiente mostrata dalle singole autorità nazionali specialmente nella trattazione di casi di emergenza. In estrema sintesi, il Rapporto de Larosière ha proposto due modifiche fondamentali. Da un lato si è preoccupato degli aspetti macroeconomici e macroprudenziali della crisi, sostenendo, sulla scorta di orientamenti ormai acquisiti (cfr. Geneva Report del gennaio 2009), il principio che non è sufficiente la vigilanza microprudenziale di una banca, poiché esistono dei fattori di rischio di carattere generale che sfuggono ai controlli della singola autorità e possono essere gestiti solo a livello aggregato. Il rischio sistemico, spesso globale, nasce da un'esposizione comune di molte istituzioni finanziarie agli stessi fattori di rischio che, sopportabili a livello di singolo intermeW.
diario, sono amplificati e divengono ingestibili a livello globale. Per affrontare queste problematiche, il Rapporto ha proposto la creazione di un comitato per la stabilità finanziaria, sotto l'egida del sistema europeo delle Banche centrali, col mandato di riuscire ad anticipare i possibili elementi di crisi nel funzionamento dei mercati e degli intermediari e di suggerire attraverso apposite raccomandazioni i rimedi più appropriati. Dall'altro il Rapporto si è reso conto delle limitazioni insite nella struttura dei comitati di terzo livello voluta da Lamfalussy, in particolare la natura volontaria e non obbligatoria della cooperazione e delle relative decisioni assunte dai Comitati. Per superare tale inconveniente, ha proposto che i tre comitati attualmente esistenti, rispettivamente per le banche, le assicurazioni e i valori mobiliari (CEBS, CEI0Ps e CEsR) assurgano al rango di vere e proprie Authorities, secondo il modello delle Agenzie europee. Il Rapporto de Larosière interpreta peraltro queste proposte come un punto di partenza, in qualche modo preconizzando anche, in un futuro più remoto, la possibilità di addivenire a due sole autorità a livello europeo, l'una incaricata della stabilità, l'altra della trasparenza (secondo il modello già vigente in alcuni Paesi europei). Propone, infine, uno stretto coordinamento fra questi nuovi enti a livello europeo e i loro contraltari a livello globale (G20, Financial Stability Board, Comitato di Basilea).
Ilrecepimento della Commissione europea La Commissione europea ha sottoposto il rapporto de Larosière, secondo una prassi ormai consueta, alla consultazione di tutti gli operatori interessati e successivamente, anche sulla base delle osservazioni ricevute, ha emesso una Comunicazione (27 maggio 2009) nella quale ha fatto proprie la maggior parte delle proposte contenute nel rapporto. Nel mese di giugno 2009 prima il Consiglio Ecofin e successivamente il Consiglio europeo hanno dato mandato alla Commissione di tradurre i principi espressi nel rapporto de Larosière e nella Comunicazione in precisi dettati legislativi. La Commissione ha pubblicato una serie di documenti (settembre 2009) che compendiano i relativi testi legislativi, avviando quindi i negoziati presso il Consiglio il quale, nel corso di due riunioni (rispettivamente il 20 ottobre e il 2 dicembre 2009) ha trovato una posizione comune. I testi legislativi saranno adottati a conclusione della procedura di co-decisione col Parlamento europeo: è previsto che le nuove strutture siano costituite nel corso del 2010 per essere operative dal 1° gennaio 2011. Da osservare a questo riguardo che i redattori del rapporto de Larosière avevano indicato una data più lontana nel tempo (2012) per il recepimento completo delle loro proposte: sotto la spinta della crisi finanziaria la Commissione ha inteso invece anticipare i tempi. I testi della Commissione approvati
dal Consiglio confermano le proposte del rapporto de Larosière sulla natura e le funzioni sia del Comitato per il rischio sistemico sia del sistema europeo della supervisione finanziaria. Il Comitato per il rischio sistemico La composizione e le funzioni del Comitato per il rischio sistemico sono oggetto di una bozza di regolamento del Consiglio (documento C0M/2009/499 della Commissione pubblicato il 23 settembre 2009). Il Consiglio generale (Generai Board) è l'organo decisionale del Comitato. I membri del Consiglio, ai sensi dell'art. 6, sono il Presidente e il Vice presidente della BcE, i Governatori delle Banche centrali nazionali, un rappresentante della Commissione europea e i Presidenti delle tre Authorities incaricate della vigilanza microprudenziale (v. infra). In più, ma senza diritto di voto, un rappresentante ad alto livello delle singole autorità di vigilanza nazionali e il Presidente del Comitato economico e finanziario (CEF) di cui all'art. 134 del Trattato UE. Dato il numero considerevole dei componenti del Consiglio generale (61 persone) è stato previsto un organismo più agile, una sorta di Comitato esecutivo (Steering Committee) che coadiuva il Consiglio generale nell'espletamento delle sue funzioni. I componenti dello steering committee sono il Presidente e il Vice presidente del Consiglio generale, i Presidenti delle tre authorities, il Presidente del CEF, il rappresentante della Commis19
sione e, a rotazione, cinque membri del Consiglio generale che siano anche membri del Consiglio generale della BcE. Il Presidente del Comitato verrà eletto fra i membri del Consiglio generale che siano anche membri del Consiglio generale della BcE (anche se non sarà necessariamente il Presidente stesso della BcE come invece era stato .suggerito dal rapporto de Larosière) per un periodo di cinque anni rinnovabile; il Presidente ha come di consueto la rappresentanza esterna del Comitato. I forti legami dell'istituendo Comitato con la BcE sono testimoniati comunque dalla circostanza che sarà la BcE stessa a fornire il segretariato, come stabilito da una specffica proposta di decisione del Consiglio UE (C0M/2009/500) che verrà assunta invocando per la prima volta l'art. 127/6 del Trattato, che affida alla BcE specifici compiti nell'area della vigilanza prudenziale. La missione del Comitato è illustrata in termini molto generali nell'art. i della bozza di regolamento: il Comitato è responsabile della sorveglianza macroprudenziale sul sistema finanziario, al fine di prevenire o mitigare rischi sistemici. Nel secondo paragrafo sono illustrati più specificamente i compiti attribuiti al Comitato: individuare, raccogliere e analizzare le informazioni necessarie; identificare e dare una scala di priorità ai rischi sistemici; emettere segnalazioni precoci (early warning) e raccomandazioni al fine di trovare i rimedi 20
più appropriati; monitorare le fasi successive della procedura. Vengono menzionati poi, ma la citazione appare pleonastica, la cooperazione col sistema eùropeo di vigilanza finanziaria e il coordinamento con il Fondo monetario e col Financial Stability Roard per la materia macroprudenziale. Funzioni e poteri del Comitato L'art. 15 del documento C0M/499 regola la materia dello scambio di informazioni stabilendo, come auspicato dal rapporto de Larosière, il principio dell'obbligatorietà di tale scambio fra il Comitato per il rischio sistemico da un lato e il sistema europeo per la supervisione finanziaria dall'altro, rispettando nella materia un materiality test, in omaggio al principio di proporzionalità. Se in generale è previsto che la richiesta di informazioni si riferisca a dati in forma aggregata, è possibile anche che la richiesta concerna dati individuali di singoli intermediari, innovando così rispetto alla situazione attuale, in cui lo scambio di informazioni singole, pur se possibile in base alla legislazione comunitaria, può essere legittimamente rifiutato da parte di un'autorità di vigilanza nazionale. La funzione più importante del Comitato è probabilmente quella di emettere avvertimenti (early warning) che identificano i potenziali squilibri nel sistema finanziario suscettibili di aggravare il rischio sistemico e successive raccomandazioni con l'indica-
zione dei rimedi più appropriati alle circostanze. In tale ottica, ai sensi dell'art. 16 della proposta di regolamento, gli avvertimenti e le raccomandazioni possono essere di natura generale o più specifica e possono avere come destinatari sia la Comunità nel suo complesso, sia uno o più Stati membri sia una o più delle authorities europee o delle singole autorità nazionali. Le raccomandazioni devono contenere una data di scadenza per le risposte di policy. Il Comitato non ha poteri decisionali autonomi e non può imporre alcuna misura a carico dei singoli Stati o delle autorità nazionali: è stato concepito infatti come un organo che si basa sulla reputazione dei suoi componenti e che influenza le azioni dei policy maker e dei supervisori con la sua autorità morale. In realtà il rapporto de Larosière, in una sua raccomandazione, aveva previsto anche delle sanzioni in caso di giudizio di inadeguatezza delle risposte alle raccomandazioni del Comitato, ma la proposta di regolamento della Commissione non lo ha seguito su questo punto. Tuttavia, se pure le raccomandazioni del Comitato non sono vincolanti, i destinatari di esse non possono rimanere indifferenti nei confronti di un rischio che è stato identificato e devono reagire, in base al principio ormai consolidato "act or explain": se un destinatario non è d'accordo, deve comunque spiegare le ragioni del suo operato (art. 17). Un'interessante fattispecie è contemplata dall'art. 18, che concerne la pub-
blicità delle delibere del Comitato in tema di avvertimenti e raccomandazioni. Qui si fronteggiavano due esigenze contrastanti: da un lato la necessità di adottare rimedi quanto più possibile tempestivi, dall'altro il rischio di creare con la pubblicità reazioni sfavorevoli del mercato. Si è concluso che le deliberazioni in materia sono rese pubbliche solo se a favore della pubblicità si formi una maggioranza dei due terzi del Comitato. I supervisori finanziari Il secondo pilastro della nuova cosmizione comunitaria è costituito dal sistema europeo dei supervisori finanziari. Si esaminano in dettaglio le proposte della Commissione, prendendo come base il documento C0M/2009/501 che si occupa dell'EBA (European BankingAuthority), che subentra all'attuale CEBs; due ulteriori documenti (Coivi/20091502 e C0MJ2009/503) si occupano rispettivamente dell'EIOPA (European Insurance and Occupation Pensions Authority) e dell'ESMA (European Security and Markets Authority), che subentrano rispettivamente al CEI0P e al CEsR. La struttura di governance e il potere delle tre authorities sono sostanzialmente i medesimi: le authorities si differenziano esclusivamente per le peculiarità dei settori che rappresentano: in più l'EsMA, oltre che di intermediari, si occupa di mercati, come del resto il CE5R a cui subentra, e ha 21
inoltre poteri regolamentari diretti sulle società di rating. Le funzioni attuali dei Comitati restano e vengono potenziate: si tratta del coordinamento delle autorità nazionali responsabili per la trasposizione della disciplina comunitaria negli ordinamenti nazionali e per l'esercizio pratico della vigilanza, in modo da promuovere parità di condizioni concorrenziali all'interno dell'Unione. Ma vengono attribuite anche nuove e importanti funzioni. Innanzitutto il rango di agenzie attribuito alle authorities consente loro di superare gli attuali limiti legati all'inquadramento economico e normativo del personale e al trattamento fiscale che divengono quelli applicati alle istituzioni europee. E' possibile che per il funzionamento delle authorities vengano previsti finanziamenti a carico del bilancio comunitario oppure a carico degli enti vigilati. In secondo luogo, le authorities devono mirare alla creazione di un manuale di regole (cosiddetto rule book) comunitario, per eliminare l'attuale diversità nell'attuazione e nell'interpretazione delle regole: regole comuni sulla carta, ma che ogni autorità nazionale adatta alla propria realtàistituzionale e alla diversità nelle prassi. A regime dovranno essere eliminate tutte le differenze nella trasposizione negli ordinamenti nazionali della legislazione comunitaria derivanti da eccezioni, deroghe, aggiunte (cosiddetto gold plating), ambiguità ecc. A tal fine le authorities (alt. 7 della bozza 22
di regolamento) sono incaricate di elaborare regole standard in materie tecniche o specialistiche: l'esempio più tipico è dato dalle segnalazioni statistiche (reporting), ma si può pensare a tutte le aree in cui si sostanzia l'attività di vigilanza compendiata nel secondo pilastro dell'accordo di Basilea. La Commissione deve avallare questi standard e può, con parere motivato, respingerli in tutto o in parte ma, allorché si pronuncia favorevolmente, li trasfonde in regolamenti del Consiglio che saranno direttamente applicati e contribuiranno a creare il level playingfield per gli intermediari finanziari, in qualsiasi Paese della Comunità si trovino a operare. In terzo luogo, nell'ipotesi che permangano contrasti fra le singole autorità coinvolte nella gestione di un gruppo bancario multinazionale, è ipotizzato un meccanismo obbligatorio di soluzione delle vertenze (art. 11), al termine del quale tutte le parti interessate devono sottostare alle decisioni dell'authority di settore. E previsto anche che, in presenza di mancata ottemperanza da parte di un'autorità nazionale alle decisioni dell'authority, quest'ultima possa direttamente rivolgersi all'intermediario finanziario per imporne lsservanza (art.11.4). In sostanza, il meccanismo dovrebbe garantire il raggiungimento di una decisione nei casi in cui, essendo richieste cooperazione o decisioni congiunte, il dissenso delle autorità porta a una situazione di stallo.
Poteri e organi delle aut/iorities Poteri più penetranti in capo alle authorities, con decisioni direttamente applicabili agli intermediari finanziari nel caso di inazione delle autorità nazionali, sono previsti anche dall'art. 10, che regola i casi di situazioni di emergenza, che potenzialmente mettano a repentaglio l'ordinato funzionamento e l'integrità del sistema finanziario nel mercato unico. Le decisioni assunte dalle authorities per far fronte a situazioni di emergenza (art. 10) o a seguito di una procedura di risoluzione delle controversie (art.11) sono sottoposte a una clausola di salvaguardia, in base alla quale uno Stato membro può decidere di non ottemperare a una decisione dell'authority, qualora questa si rifletta sulla responsabilità fiscale (abbia in pratica conseguenze sul bilancio dello Stato membro). Alla fine sarà il Consiglio UE ad avere l'ultima parola. Gli organi di ciascuna authorities sono il Consiglio dei supervisori (Board of Supervisors), il Comitato di gestione (Management Board) , il Presidente e il Direttore esecutivo. Il Consiglio dei supervisori è l'organo decisionale dell'authority: di esso fanno parte il Presidente, i responsabili delle singole autorità nazionali, un rappresentante della Commissione, un rappresentante del CERs, un rappresentante per ciascuna delle altre due authorities; ma solo i responsabili delle autorità nazionali hanno diritto di voto. Il Comitato di gestione, che coadiuva
il Consiglio dei supervisori e, in particolare, è destinato a occuparsi del programma dei lavori, delle regole di procedura e dell'adozione del bilancio, è un organismo più snello, composto di solo sei membri: il Presidente del Board, il rappresentante della Commissione e quattro membri del Consiglio dei supervisori scelti a rotazione. A differenza dei presidenti dei Comitati di livello 3, il presidente dell'authority ha un incarico a tempo pieno, incompatibile quindi col mantenimento di cariche nelle autorità nazionali; altrettanto è previsto per il direttore esecutivo che è incaricato della gestione quotidiana dell'authority. Entrambi saranno scelti sulla base di una selezione aperta al pubblico che terrà conto della loro esperienza e capacità professionale. E' previsto altresì un comitato congiunto di rappresentanti delle tre authorities per la trattazione di tematiche comuni ai tre settori dell'intermediazione finanziaria, che raccoglie così anche l'eredità dell'attuale Comitato per i conglomerati finanziari. Una Commissione per il riesame (board ofappeal), anch'essa composta da rappresentanti designati dalle tre authorities a valere su una lista di personalità predisposta dalla Commissione, dovrà occuparsi dei ricorsi contro le decisioni prese dall'authority in materia di applicazione coerente delle regole comunitarie, situazioni di emergenza e composizione di controversie. 23
Non bisogna dimenticare infine che, mentre le tre authorities costituiscono la parte più innovativa del progetto comunitario, il sistema europeo dei supervisori finanziari è concepito come una costruzione complessa, nella quale hanno un'importante voce sia le singole autorità nazionali (indipendentemente quindi dalla loro partecipazione all'authority di settore), sia la Commissione, che è presente nei vari Consigli e provvista di penetranti poteri. Alcune criticità dello schema
Lo schema de Larosière, fin qui illustrato degli aspetti più significativi, è stato criticato da alcuni commentatori come un esperimento troppo timido che non muove i passi necessari verso un'autorità realmente sopranazionale. In realtà esso costituisce, probabilmente, il traguardo massimo che si potesse raggiungere al momento, senza dover ricorrere al lungo e faticoso iter della revisione dei Trattati. In effetti, nel trasfondere in dettami legislativi il rapporto de Larosière, la Commissione si è trovata di fronte a un dilemma: da un lato, assicurare una riforma efficace in grado di superare gli inconvenienti messi in luce dalla crisi finanziaria; dall'altro, rispettare la coerenza col diritto comunitario attuale, senza essere costretta a proporre una revisione del Trattato. La via di una riforma del Trattato sarebbe stata obbligata nell'ipotesi della costituzione di un'autorità di vigilanza unica, sia incardinata nella banca centrale europea, sia invece co24
stituita ex novo senza riferimento a strutture esistenti. Le difficoltà politiche derivanti dalla necessità di superare lo scoglio dell'unanimità e i tempi comunque lunghi hanno comportato la scelta di una via di compromesso: un sistema europeo di vigilanza finanziaria in cui l'aspetto sopranazionale viene valorizzato, lasciando peraltro impregiudicato il mantenimento delle competenze a livello nazionale in omaggio ai principi di sussidiarietà e proporzionalità richiamati nell'art. 5 del Trattato. Il compromesso è palese anche nella scelta della base giuridica per i nuovi comitati: l'art. 114 del Trattato, tradizionalmente invocato nel campo del ravvicinamento delle legislazioni sulla base delle nuove funzioni miranti alla creazione di un rule-book di valenza esclusivamente comunitaria. Ma si tratta di un escamotage per evitare appunto un processo di revisione del Trattato che sarebbe scattato in presenza di un'authority veramente dotata di poteri sopranazionali. Un processo di revisione che, per ora, sembra politicamente improponibile. Un ulteriore aspetto di criticità si rinviene nei rapporti delle istituende authorities con la Commissione da un lato e con le autorità governative dall'altro. Il rischio di un ruolo subalterno nei confronti sia dell'una che delle altre è concreto. La presenza della Commissione in tutti gli organi decisionali delle authorities e in molti importanti snodi delle procedure (ad es. la fissazione
dello stato di emergenza cx art. 10 della proposta di regolamento o la mancata approvazione degli standard tecnici) è la naturale conseguenza dell'inquadramento delle authorities nella figura delle agenzie di diritto comunitario. L'influenza che probabilmente verrà esercitata dalla Commissione rischia di ridurre il grado di indipendenza delle autorità, contro i dettami riconosciuti in sede internazionale. La bozza di regolamento nulla dice sul problema dei rapporti con i comitati di secondo livello istituiti in attuazione della riforma Lamfalussy. Quest'ultima prevede infatti che il potere decisionale nell'ambito dei comitati di secondo livello sia assegnato in via esclusiva ai rappresentanti dei ministeri; gli esperti tecnici che li coadiuvano non hanno diritto di voto. L'approccio che è stato scelto tiene distinte le responsabilità tecniche da quelle politiche, trascurando la maggiore esperienza delle autorità di controllo per quanto riguarda il funzionamento degli intermediari finanziari. La soluzione che viene perpetuata mantiene la frattura tra chi decide la regolamentazione e chi è chiamato ad applicarla sul campo. Un ulteriore motivo di attrito con le autorità politiche potrà derivare dal ricorso degli Stati alla clausola di salvaguardia secondo la quale (cfr. supra, par. 3b) il singolo Stato nazionale può opporsi alla decisione delle authorities qualora questa impatti sul proprio regime fiscale.
Una riforma ancora da applicare Un giudizio compiuto sulla riforma de Larosiére potrà essere formulato• solo dopo la sua effettiva entrata in vigore. Il Parlamento europeo ha già annunciato, in sede di commissione finanze, di voler introdurre modifiche allo schema, nel senso di rendere più efficace e più "europea" l'azione delle authorities. Decisiva si rivelerà per il successo della riforma l'evoluzione dei rapporti delle authorities con le singole autorità nazionali. Mi limito a citare due aree dove i rispettivi interessi sono potenzialmente in contrasto: il rapporto de Larosière ha soltanto sollevato i problemi, ma non indica soluzioni concrete. La prima area riguarda il principio della vigilanza dell'autorità del Paese di origine. Qiesto principio è stato messo a dura prova durante la crisi finanziaria, in occasione del dissesto di banche islandesi che avevano succursali nel territorio del Regno Unito, ma anche in altri Paesi della Comunità (caso Kaupting, in Basilea 2009) e che, secondo i principi, erano sottoposte alla vigilanza del Paese dbrigine (cioè l'Islanda), responsabile della solvibilità delle succursali. Le autorità britanniche, infatti (Turner 2009), hanno proposto di non consentire, allorché la vigilanza del Paese di origine non è giudicata sufficientemente valida, l'insediamento delle banche estere con succursali, ma solo con filiazioni, cioè come banche del Paese ospitante, sottoposte a requisiti pru25
denziali dell'autorità locale. E chiaro che il rifiuto del passaporto europeo, che si avrebbe in questi casi, minerebbe alla radice uno dei presupposti del mercato unico. La seconda area concerne la gestione delle crisi, dove le autorità nazionali giustamente pretendono di mantenere un ruolo predominante, visto che gli interventi di risanamento e salvataggio sono a carico delle pubbliche finanze dei singoli Stati. Questo almeno fino a che non si arriverà a principi condivisi per la ripartizione
dei costi nel caso di dissesto (burden sharing). In conclusione, il successo della riforma si giocherà sulle realizzazioni concrete, in particolare sulla capacità delle authorities di svolgere un ruolo veramente sopranazionale, assumendo e rendendo operative decisioni che riguardino i singoli intermediari, anche all'occorrenza superando i veti delle singole autorità nazionali: un compito che si presenta non semplice.
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queste Istituzioni
n. 156-157 gennaio-giugno 2010
(lOSSIOr
Il cortocircuito della rapproseiltailzil democratica iu Parlameilto La questione de/declino del Parlamento è, a monte, il tema della selezione della classe dirigente. E, a valle, i/problema della debolezza della democrazia rappresentativa moderna. Che pure, tuttavia, continua a godere di un discreto 'favorpopuli" Tutto sommato giusto, se il dibattito su/la democrazia serve soltanto a proporre il leader come meta alternativa al Parlamento. Ma esiste un qualsiasi dibattito sulla democrazia? I/declino de/Parlamento è un groviglio difattori accuratamente districato e reso intellegi bile nei suoi nessi e annessi da un'ampia letteratura in tema diforma di governo, sistemi elettorali e sistemi partitici. Il Parlamento come cartina tornasole della salute pubblica democratica. Nel dossier che presentiamo, Carlo Chimenti ricostruisce l'evoluzione del ruolo delle assemblee elettive italiane, dedicando molta attenzione al combinato disposto tra regolamenti interni, Costituzione e consuetudini, e agli spazi di azione e ai limiti che essi hanno disegnato nel tempo, con equilibri talvolta assai diversi. Quello attuale è un Parlamento i cui membri, per effetto della legge elettorale e delle cosiddette liste bloccate, sono nominati prima ancora che e/etti. Il voto popolare, quindi, ratfica una scelta effettuata a monte e senza possibilità di interferenza esterna, assegnando la propria preferenza ad un partito, e senza potere esprimere akun gradimento o akuna sanzione afine mandato, con un nuovo voto. Un tempo erano i candidati a portare voti a/partito, con l'ffetto di creare pericolose cliente/e locali allocate a pacchetti presso l'una o l'altra forza politica presente nell'arco parlamentare. Oggi, sono i partiti a portare voti al candidato, assicurandogli un seggio in Parlamento semplicemente collocando/o in cima alle liste. E un fenomeno trasversale di cooptazione diretta da parte dei vertici, sempre più spesso motivati da logiche personali edaffaristiche, se non addiritturafamigliari. L'elettore vota eprende l'intero pacchetto. Tutto compreso. Entrambe le dinamiche non sono esenti da rischi. Tuttavia, dovendo scegliere, pare ovvio che il sistema attua/e pone qualche preoccupazione in più, dal momento che slega la qualità e la sostanza dell'attività parlamentare da ogni controllo, ex ante 27
ed expost. Impuniti sempre. L'autorefirenzialità del Parlamento è oggetto di disamina da parte di Sebastiano Dondi che, riferendosi al «letto di giustizia" del Governo in Parlamento - strumento a disposizione de/Re di Francia durante l'ancien régime per imporre la propria volontà al Parlamento - offre un'originale prospettiva dalla quale possiamo osservare e giudicare - con riferimento agli emendamenti, all'ordine del giorno delle Assemblee, all'ostruzionismo, etc. - l'impen nata statistica dell'uso della decretazione d'urgenza e della questione difiducia da parte del Governo per annichilire il ruolo del Parlamento e portare a casa i risultati senza che alcun vero dibattito all'interno delle Camere sia possibile. Ecco allora che la deriva de/Parlamento torna ad essere ilproblema della democrazia interna dei partiti, dell'identità e del/a consistenza stessi dei partiti, e la questione della costruzione del/a rappresentanza democratica. Temi dei quali discutiamo continuamente sulle pagine di questa rivista. La prima è una questione che è stata affrontata dal Pd soltanto per quello che riguarda la leadership, tentando la via delle primarie e ottenendo un buon successo i cui esiti sono poi stati depotenziati e spesso del tutto smarriti lungo la via - tutta in salita - che si snoda una volta varcati i territori della cittadinanza attiva. Sono poifioccate, quasi soltanto come contributo epressioni della società civile informe più o meno organizzate, proposte e decaloghi di norme di (in)eleggibilità - che dovrebbero colmare le lacune del sistema, che si firma alle cause di incompatibilità, assai bene discusse (criticate e difese) da più di un illustre giurista, tra cui Alessandro Pace - anche perché molto spesso si sarebbero accontentate di tenere lontano dal Parlamento almeno gli impresentabili agli occhi della giustizia. Quasi un codice deontologico che, reclamato dall'esterno, dovrebbe svolgere un'improbabile opera eterodiretta di moralizzazione. Non è un caso che sia giàfinita. Lasciando montare dietro di sél'antzpolitica più insana e sfrenata.
WS
queste Istituzioni n. 156-157 gennaio-giugno 2010
11 "letto di giustizia" del Governo in Parlamento Insolita condusione perla fvola delle Camere onnipotenti e delfEsecutivo debole di Sebastiano Dondi
on l'espressione "Governo in Parlamento" si indica tradizionalmente in dottrina l'incarnazione più naturale del governo parlamentare, un delicatissimo ecosistema istituzionale nel quale i due massimi poteri dello Stato vengono sostanzialmente a perdere la reciproca indipendenza a favore di una forma di collaborazione che assume le sembianze di questa figura dai contorni non definibili in astratto. Tale ineffabilità deriva proprio dal fatto che il sistema parlamentare è evidentemente soggetto alla legge naturale della biodiversità dei regimi politici, per cui la stessa forma di Governo assume in realtà più forme a seconda del sistema politico e istituzionale sul quale s'innesta. Tale variabilità non deve comunque giungere a dilatarsi fino a snaturare il principio fondante il regime, ossia la collaborazione equilibrata (e quindi da provare) tra i due poteri'. Se quindi non è possibile identificare un modello universale di Governo in Parlamento (al di là dell'archetipico e anacronistico riferimento a quello inglese )2 ed indicarne le indefettibili caratteristiche, può comunque essere utile ricercare degli indici che possano portarci a giudicare se nella realtà una forma di Governo caratterizzata da alcuni elementi formali funziona bene o meno, se rispetta o tradisce quella che Mosca avrebbe definito la sua formo/a politica. In Italia l'equilibrio tra Parlamento e Governo nelle procedure legislative ha sempre stentato a trovare un assestamento: lamentare la lentezza delle procedure parlamentari (soprattutto con riferimento al procedimento legislativo) e la limitatezza dei poteri del Governo nella conduzione delle stesse è diventato
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L'autore è dottorando di ricerca in diritto Costituzionale presso le Università di Ferrara e di Paris X-Nanterre-La Défense, allievo ENA.
infatti il leit-motiv che prelude ad ogni mancata riforma del nostro sistema istituzionale. Tale corrispondenza deve essere messa alla prova dei fatti per valutare se davvero la proverbiale prolissità parlamentare e la corrispondente impotenza del Governo corrispondano a realtà o se non costituiscano piuttosto il destro per giustificare un'ulteriore accrescimento dei poteri di cui l'Esecutivo può godere nei confronti delle assemblee parlamentari. Ciò che si cercherà di fare nel prosieguo è appunto individuare l'origine delle macro-anomalie del sistema Governo Parlamento in Italia all'interno del procedimento legislativo, valendosi alla bisogna della comparazione con quello francese, tradizionalmente considerato come un sistema parlamentare Spurio, sbilanciato in favore della posizione dell'Esecutivo. Si tenterà di mettere in luce come in realtà nel sistema italiano la posizione del Parlamento nelle procedure sia ben più sofferente di quello di Parigi e come, quindi, dotare il Governo di maggiori poteri possa rivelarsi esiziale per la nostra democrazia parlamentare
QUEL CHE RESTA DELLA LEGGE PARLAMENTARE
L'intento delle innovazioni regolamentari introdotte alla Camera nel 1997 al procedimento istruttorio, nonostante la constatazione che la prassi in numerose occasioni abbia sortito il risultato opposto, era stato duplice: affinare da un lato i momenti fondamentali dell'esame in Commissione, determinandone una maggiore complessità, e dall'altro alleggerire e semplificare notevolmente le disposizioni previgenti che regolavano la fase assembleare del procedimento legislativo. La necessità avvertita era probabilmente qùella di reagire all'ostruzionismo, che con il passaggio ad un sistema maggioritario può dirsi abbia ricevuto un notevole impulso. Dimostrazione ne sarebbe che, dalla XII alla Xliii legislatura, si è registrato nel Parlamento italiano un aumento 1ogaritmicJ1 ed incontrollato degli emendamenti presentati ai testi legislativi oggetto d'esame delle Aule parlamentari che può ben essere raffrontato all'analogo fenomeno verificatosi all'Assemblée Nationale nei primi anni della Quinta Repubblica6 . Proprio l'emendamento è venuto ad assumere, secondo una dinamica molto prossima a ciò che avviene anche nel Parlamento francese, una precisa connotazione ostruzionistica a fronte della sua classica funzione apportatrice di modifiche ad un test0 7 . Allo stesso tempo esso viene a caratterizzarsi, in un Parlamento maggioritario, come la vera fonte dell'iniziativa legislativa parlamentare. Confortati dall'esempio francese, e come la dottrina d'oltralpe ha mostrato a più riprese, l'aumento del fenomeno emendativo è il sintomo di un'evoluzione in senso maggioritario delsistemapolitico. Lacrescita 30
del numero di emendamenti, che si presenta dunque in Italia come contropartita necessaria e fisiologica dei mutamenti silenziosi della forma di Governo, è stata tuttavia spesso considerata come freno inutile e nocivo al dispiegarsi dell'indirizzo politico governativo. Che l'emendamento sia o non sia esplicazione di diritto dstruzionismo in sede parlamentare, esso denota comunque uno strumento essenziale del dibattito nell'arena democratica del Parlamento e la maggiore o minore lentezza delle procedure dipende (ovviamente) dall'evoluzione del fenomeno. Per questo la durata delle procedure; determinata dall'esercizio del diritto di ernendamento, è spesso accusata di rallentare dannosamente il.circuito decisionale parlamentare. Normalmente è proprio l'ingente quantità di emendamenti presentati che spinge il Governo a porre la questione di fiducia. Vediamo se davvero questa necessità di velocizzare il procedimento in Italia esiste confrontando il volume di emendamenti presentati negli ultimi cinque anni alla Camera dei Deputati e all'Assemblée Nationale. Tab. i Numero di emendamenti2004
2005
2006
2007
2008
2009
MEDIA
CDD (emendamenti presentati)
10245
12970
10427
9528
6030
14708
10651
CDD (emendamenti appiwati e rapporto con quelli presentati)
639(6,2%)
734(5,6%)
282(2,7%)
611 (6,4%)
316(2,1%)
486(4,5%) annuo
ANO (emendamenti presentatI)
27073
26469
10196
80186*
19010
29452
AN (emendamenti approvati e rapporto con quelli presentata 4186(15,5%) 3057 (11,5%) 3317
,5%) 3117 ,4%)
334(5,5%)
13778
2598(18,8%) 2742(14,5%) 3170 110%l annuo
*11 dato è stato "depurato" dagli effetti prodotti dal massiccio ostruzionaismo dall'opposizione in occasione dell'approvazione della legge sulla privatizzazione di Gaz de France —137665 emendamenti— (1. 2006-1 53 7).
I dati sopra riportati riservano più di una sorpresa. Interessante notare ictu oculi la sproporzione numerica dellrdine di grandezza degli emendamenti presentati alla Camera rispetto a quelli dell'Assemblée: mediamente il volume di emendamenti presentati annualmente all'Assemblée è di quasi tre volte superiore a quello corrispondente della Camera dei Deputati. Non solo: anche il numero di emendamenti approvati, in valore percentuale è superiore di ben più di due volte (quasi sette in valore assoluto). Ragionando con logica maggioritaria italiana questa sembra una contraddizione in termini: il Parlamento fa ostruzionismo e il Governo, invece di reagire, lascia che molti emendamenti vengano votatied approvati. 31
Ciò significa due cose: innanzitutto che nel Parlamento francese l'ostruzionismo dell'opposizione è molto più insidioso di quanto non avvenga in Italia (lo dimostra la quantità di proposte erriendative presentate) ed inoltre che da parte del Governo non si riscontra una volontà repressiva nei confronti del fenomeno emendativo (da qualunque parte esso provenga). Nemmeno si dica che ciò è dovuto al fatto che il Governo francese possiede molti più mezzi procedurali di quello italiano per "forzare" la volontà dell'Assemblée. Appartiene infatti al patrimonio delle idées reues l'osservazione che l'Esecutivo in Francia possieda ogni mezzo per piegare la volontà del Parlamento. In realtà, rispetto a quello italiano, il Governo francese possiede armi supplementari e di non scarsa importanza ma che nella prassi non vengono utilizzate: questo è il caso del voto bloccato e dell'irricevibilità ex art. 41 per i testi solo formalmente legislativi che si sottraggono al dominio del regolamento 9. Anche lo strumento dell'ordre du jourprioritarie, tra l'altro notevolmente ridimensionato nella recente riforma costituzionale, ha avuto in realtà nella prassi uno sviluppo ed un'evoluzione molto diversa da quella che si temeva all'inizio della Quinta Repubblica 10 L'arma più potente poi che il Governo può usare "contro" l'opposizione (ma soprattutto contro la maggioranza) è, come in Italia, la questione di fiducia. Quest'ultima non solo è uno strumento procedurale pressoché caduto in desuetudine nel Parlamento francese ma è stato poi notevolmente limitato dall'ultima riforma costituzionale, che ha circoscritto la possibilità di ricorrere al 49.3 alle sole bis de finance e alle bis definancement de la sécurité sociale ed ad un altro solo projet de loi per ogni sessione11. Come si vede dunque in Francia la capacità del Governo di farsi comitato direttivo della maggioranza non deriva tanto dall'arsenale procedurale che questo potrebbe mettere in gioco sulla scorta del disposto costituzionale quanto soprattutto dalla sua forza politica: paradossalmente un Governo giuridicamente più forte è di fatto più debole perché nella pratica parlamentare deve dimostrare di non abusare dei poteri che gli sono attribuiti. Dal punto di vista del diritto parlamentare bisogna anzi sottolineare che la procedura italiana è decisamente più avanzata rispetto al modello francese per quanto riguarda le modalità di votazione degli emendamenti. Ciò soprattutto grazie alla razionalizzazione attuata con il pacchetto Violante del 1997 cui si accennava sopra, volta soprattutto al contenimento del fenomeno ostruzionistico. Basti ricordare a questo proposito l'utilità di strumenti procedurali come le votazioni di principio e quelle riassuntive ex art. 85 c.8 RC12 la cui idoneità a fronteggiare l'ostruzionismo non ha tuttavia riscosso nella prassi una particolare entusiasmo 13. Limitata, a dieci anni dall'introduzione della riforma, risulta l'influenza delle votazioni riassuntive, così come si deve constatare che la Camera non si è mai valsa, nelle ultime due legislature, delle votazioni di principio 14 .
,
.
LA MAGGIORANZA SILENZIOSA E J]INERZIA PARLAMENTARE
Fatte tutte queste osservazioni, apprezzata quindi l'accuratissima disciplina della discussione e delle votazioni, desta quindi stupore riscontrare la necessità 32
del Governo di dotarsi di strumenti procedurali ulteriori rispetto a quelli che già possiede per regolamentare l'iter legis15. Anche la possibilità dell'introduzione di un istituto come quello dell'ordre dujourprioritairesembra oggi poco utile, se si pensa alla pratica ormai ultradecennale della programmazione dei lavori parlamentari così come modificata dallo stesso pacchetto Violante (art. 23-24 RC), che ha consentito una gestione sostanzialmente governativa dellrdine del giorno delle assemblee attraverso la mediazione presidenziale 16 . Per confermare l'esito della riflessione cui si è ora provvisoriamente giunti è forse utile fare qualche altra osservazione in merito al fenomeno emendativo e, quindi, alla capacità del Parlamento di partecipare, come dovrebbe accadere in un sistema parlamentare, all'elaborazione di quella che ormai è una "legge governativa". Rispetto a quanto riscontrato nel sistema francese, si è visto come la quantità degli emendamenti presentati sia molto bassa, e altrettanto lo è il rapporto tra emendamenti presentati ed emendamenti approvati. Si vuole ora osservare come in realtà il fenomeno emendativo in Italia nascondalati forse ancora più preoccupanti, che rivelano la reale impotenza del Parlamento a collaborare all'elaborazione della legislazione. Basti considerare la differenza che esiste alla Camera dei Deputati tra emendamenti presentati ed emendamenti posti in votazione: Tab. 2 Italia
-
Camera dei Deputati
2006
2007
2008
2009
Emendamenti presentati
10427
9528
6030
1 4706
Emendamenti iriammissibili e formali
515
678
364
296
658
528
334
8890
1885
2236
1493
1705
6086
3839
3815
Emendamenti
-
preclusi da altre votazioni riassuntive, di principio e per serie a scalare
Emendamenti votati Emendamenti presentati e non posti in votazione
7369 (71% dei presentati)
(64% dei presentati) (63% dei presentati) (26% dei presentati)
*11 dato va tuttavia ridimensionato e "depurato" dall'eccezionale numero di oltre 6000 emendamenti presentati per la ratfica del trattato con la Libia (i. 712009).
Com'è evidente dalla tabella qui sopra riportata, emerge un dato interessante: solo su una minima parte degli emendamenti che dovrebbero essere posti in vo33
tazione esiste una deliberazione dell'assemblea: il 60% circa degli emendamenti presentati non vengono votati. Il dato è effettivamente sorprendente e getta più di un'ombra sulla reale capacità del Parlamento di co-legiferare insieme al Governo. Il dato si fa ancora più significativo se si pensa che, mediamente, il 30% circa di queste proposte modificative dei ddl governativi è caducato dalla posizione della questione di fiducia. Da quanto è risultato dal censimento che è stato compiuto sui provvedimenti sui quali il Governo ha posto la fiducia, è poi necessario sottolineare come in più di un caso la decisione dell'Esecutivo non potesse essere spiegata in nessun modo: né a fini ostruzionistici né per ricompattare la maggioranza17. Un altro numero considerevole di emendamenti non sono posti in votazione per effetto del regime delle segnalazioni (discutibilmente generalizzato in via di prassi, contro la lettera del regolamento): questione di fiducia e applicazione dell'art. 85-bis limitano dunque il fenomeno ostruzionistico, come è evidente, fino a ridurlo a ben poca cosa. Situazione ben diversa da quella che si riscontra nel sistema francese dove, pur non disponendo di dati relativi al numero degli emendamenti votati, non solo è rarissima, come si è constatato, la posizione della fiducia sui provvedimenti, ma non esiste una procedura simile a quella delle segnalazioni (almeno formalmente) e anche il numero di emendamenti ritirati durante la discussione raggiunge una percentuale minima (circa il 5% degli emendamenti depositati) 18. Se volessimo guardare al diritto parlamentare francese ci accorgeremmo che la complessità delle procedure di votazione conosciute alla Camera dei Deputati sono pressoché sconosciute all'Assemblée Nationale: non solo il Palais Bourbon non conosce forme di analisi e votazione degli emendamenti diverse da quella tradizionale (eccetto l'applicazione, in rarissime occasioni, della discussione e votazione informale degli emendamenti parpaquets), ma si ricordi inoltre che l'Assemblée applica con molta parsimonia il contingentamento dei tempi di discussione appena introdotto dalla recente riforma regolamentare 19. Teoricamente, quindi, l'ostruzionismo dellbpposizione è un fenomeno invincibile da parte di quello che è reputato uno dei Governi più potenti d'Europa nelle procedure parlamentari. Non solo: il Governo francese non fa ricorso alla questione di fiducia da ormai quattro anni laddove, dal gennaio 2006 il Governo italiano ha posto la questione di fiducia più di venti volte 20. Il dato merita attenzione: da ciò che si è detto finora è chiaro che in Francia il Governo non ha in realtà mezzi procedurali più incisivi per "forzare" i tempi dell'esame assembleare 21 e anzi, la durata media dell'esame parlamentare (in Aula) di un provvedimento legislativo all'Assemblée è decisamente più lungo rispetto a quanto non avvenga alla Camera. Questo perché Matignon comprende come l'uso estensivo della fiducia, nonché l'accelerazione dei tempi di discussione parlamentare, mostrano un Governo debole, incapace di compattare la propria maggioranza e/o di concertare con lbpposizione il contenuto del provvedimento oggetto di discussione. Chiaro è che, normalmente, se l'opposizione fa ostruzione ad oltranza spesso mette a rischio la sua stessa immagine: se essa ricorre quindi a questa extrema ratio, è quasi sicuramente a causa di una condotta troppo diri34
gista del Governo in Parlamento. La strategia del Governo italiano è invece, di legislatura in legislatura, esattamente opposta: basandosi sul luogo comune dell'onnipotenza parlamentare e della pletoricità delle procedure, crea un pretesto per denunciare la propria (leggendaria) debolezza. Può certo presentarsi il caso che un Governo sia debole, perché ad esempio (come nella precedente X\T legislatura) sostenuto da una instabile maggioranza parlamentare: in questa evenienza è chiaro che l'Esecutivo sarà "legittimato" a valersi con più frequenza della questione di fiducia22 . Un Governo a solida maggioranza parlamentare ha egualmente la facoltà di usare la fiducia ma certo con meno frequenza: ne avrà quindi il diritto (si pòtrebbe dire con qualche "licenza giuridica") ma non lo stesso diritto (almeno in punto di opportunità politica) 23 . Un Governo è quindi debole solo se è politicamente tale, a nulla valendo le eventuali insidie delle procedure davanti ad un Esecutivo che si basi su una solida maggioranza. Un altro elemento d'indagine che può riservare esiti interessanti è la considerazione del fenomeno emendativo sotto l'aspetto della sua valutazione quantitativa suddivisa per attori istituzionali alla Camera e all'Assemblée.
Tab. 3
Camera dei Deputati Emendamenti
Maggioranza
Commissioni
Governo
Opposizione
P
A
P
A
P
A
P
A
2006
1999
51 (2,5% P)
8007
103 (1,2% P)
194
36 (18% P)
197
67 (34% P)
2007
1862
24 (0,2% P)
7222
177 (2,4% P)
65
26 (40% P)
335
67 (7,1% P)
2008
644
52 (8%P)
5076
75 (1,4%P)
88
65 (73%P)
201
162 (80%P)
2009
3846
52 (1% P)
10577
75 (0,7% P)
41
30 (73% P)
210
146 (70% P)
35
Tab. 4 Assemblèe Nationale Emendamenti
Maggioranza
Opposizione
P
A
P
A
P
A
P
A
2006
4264
1162 (27% P)
2958
141 (5% P)
388
345 (89% P)
2040
1654 (81% P)
2007
2825*
775*
2285*
156 (6% P)
463
405 (92% P)
2018
1766 (88% P)
(27% P)
Governo
Commissioni
2008
2348
588 (25% P)
9419
357 (3,8% P)
276
247 (89% P)
1705
14 (82% P)
2009
3478
898 (25% P)
10547
351 (3% P)
614
536 (87% P)
1138
772 (67% P)
*1 dati di questa tabella sono stati "depurati" dagli effetti dell'ostruzionismo applicato sulla legge di privatizzazione di Gaz de France.
Dai dati sopra presentati emerge un altro fenomeno interessante relativo all'esercizio del diritto di emendamento. Si vede come l'iniziativa emendativa nel Parlamento francese sia molto più omogeneamente distribuita fra gli attori del procedimento legislativo rispetto a quanto non avvenga alla Camera: desta meraviglia, se si conosce solo il fenomeno italiano, il fatto che la maggioranza dimostri a volte una volontà di modificare i testi del Governo superiore a quella dell'opposizione. Un'altra considerazione emerge dai dati sopra riportati: la probabilità che gli emendamenti presentati all'Assemblée dalla maggioranza, dalle commissioni e dalle opposizioni stesse siano adottati è nettamente superiore rispetto a quanto non avvenga alla Camera dei Deputati: ciò dimostra una volta in più non solo come la debolezza del Governo italiano si basi su una vulgata ormai mitologica ma anche che il Parlamento francese, conosciuto come quello dei deutés godillots, si rivela molto più produttivo del nostro nell'azione di modificazione e influenza dei testi governativi 24 Si tratta in realtà, e per concludere sul punto, di constatare una doppia diversità fra i due Parlamenti: da un lato la funzione oppositoria è in Francia decisamente più pronunciata (comparando i dati relativi agli emendamenti della minoranza si potrebbe addirittura discutere se quello esercitato alla Camera in sede legislativapossa mai venire definito un vero ostruzionismo!) ma anche la funzione più propriamente migliorativa (almeno potenzialmente) dei.testinormativi all'Assemblée è decisamente più sensibile, come si.desume .
36
dal dato relativo agli emendamenti delle commissioni, tradizionalmente luogo naturale del perfezionamento dei progetti di legge 25 .
UN PARLAMENTO VIZIOSAMENTE MAGGIORITARIO Quindici anni dopo l'introduzione del maggioritario, consolidatosi in modo più o meno coerente nel sistema politico italiano, si può dire che il nostro Parlamento ne sia stato profondamente modificato e abbia sofferto delle conseguenze di ogni conversione troppo repentina e, forse, poco sincera. Il (più o meno) nuovo sistema partitico agli inizi degli anni novanta, superata l'ennesima ondata di epurazioni che la classe politica italiana attraversa ciclicamente nel nostro Paese e sempre senza reali pentimenti, ha cercato di "sdoganare" la consolidata tradizione consensuale, logorata dalle tendenze assembleariste e clientelari, creando una sua solida mitologia, basata sul porro unum della governabiità. Rispetto al passato tuttavia, quando il tema era stato posto in sede istituzionale in modo problematic0 26 per l'esigenza di cercare un difficile bilanciamento tra rappresentatività ed efficacia dell'azione politica, nel contesto del nuovo sistema maggioritario il mantra della governabilità ha determinato un indirizzo politico tutto orientato all'esigenza della speditezza. Questo soprattutto a causa della disgrazia in cui si trovava oggi il principio compromissorio, quintessenza della legislazione concertata e "riflettuta", architrave della macchina parlamentare ma anche, non si dimentichi, chiave di volta del patto costituzionale, tradito e frainteso a più riprese durante il cmquantennio della storia repubblicana. La lentezza del processo decisionale è diventata, illogicamente, sinonimo di inazione. La prassi parlamentare si è adeguata a questo nuovo corso, come si è visto dai dati commentati precedentemente, riducendo al minimo l'intervento delle assemblee sui testi governativi. Sorprendentemente anche l'opposizione pare essersi adeguata, non senza interesse, a tale forma di acritica bulimia legislativa. La nuova separazione dei poteri che distingue da un lato maggioranza e Governo e, dall'altra, l'opposizione parlamentare, impedisce alle Assemblee di ritrovare una fisiologica coesione istituzionale: certo non è possibile addossare al solo Governo ogni responsabilità se gli stessi parlamentari di maggioranza decidono di non approvare gli emendamenti da loro stessi proposti. Proprio sui partiti di Governo incombe quindi l'onere di affermare un nuovo concordato legislativo tra Esecutivo e Parlamento. L'indagine empirica fin qui sviluppata mette in luce quanto il Governo abbia tratto vantaggio dalla vulgata anti-parlamentarista che ha investito il nostro Paese all'inizio degli anni novanta. Appare inquietante ,
37
notare che, quantitativamente, l'intervento delle Assemblee italiane, tradizionalmente ritenute onnipotenti, sui testi dell'Esecutivo è notevolmente inferiore a quella di uno dei Parlamenti considerati fra i più deboli del mondo. Se quindi, in Francia, il legislatore (e il Presidente in prima battuta) ha sentito la necessità di approvare una legge costituzionale che, riscrivendo buona parte della Costituzione, ha ridotto i poteri del Governo e aumentato quelli del Parlamento, ci si chiede come possa lbrdinamento italiano andare verso un modello opposto che consolidi ancora di più il monopolio legislativo in capo al Governo. Questo fenomeno certo non passa solo attraverso la nota fuga dalla legislazione ordinaria (caso che non ha eguali in tutte le democrazie parlamentari europee) 27 ma anche attraverso la sostanziale interversio possessionis della funzione legislativa tra Parlamento e Governo. Piuttosto che ad un procedimento legislativo la pratica delle assemblee sembra sempre più portata ad assecondare questa mutazione di regime decisionista e proto-parlamentare di ritorno 28, che si riconosce, più che in una procedura legislativa, in una forma cerimoniale d'antico regime che costituisce l'antitesi del moderno Governo in Parlamento. Contro il quotidiano lii' dejustice cui il Governo sottopone un Parlamento prono e timoroso29, si ricordi l'incoraggiamento sempre attuale di Pierre Mendès-France, al confine mobile tra impegno politico e lotta jheringiana per il diritto: "Un plebiscite, Fase combat".
i Si veda A. MANZELLA, Il Governo in Parlamento, in S. RisTucclA (a cura di), L'istituzione Governo. Analisi e prospettive, Milano, 1977, pp. 87-88. L'A. pone in luce la storica difficoltà dell'affermarsi di un tale rapporto di collaborazione tra Governo e Parlamento in Italia, evidenziando soprattutto lo snaturamento della concezione pluralistica delle istituzioni come emergente dalla Carta del 1948, la quale è venuta a creare non un circolo virtuoso di emulazione tra i due organi dello Stato ma piuttosto di reciproca diffidenza e contrapposizione. 2 11 modello rimane pur sempre nell'analisi scientifica un elemento essenziale che non deve però avere la pretesa di risolvere la complessità irriducibile del reale: "Se si vuole - ed è questione di parole - si può anche dire che il modello è più, o meno, adeguato a rappresentare la realtà a seconda che dia di questa una "descrizione" più, o meno, fedele, purché, tuttavia, si abbia consapevolezza che la "descrizione" è una costruzione,frutto di invenzione teoretica". E. DI ROBILANT, Modelli nella filosofia del diritto, Bologna, 1968, p. 166. Si è consapevoli che lo strumento legislativo per eccellenza non è più costituito dalla legge ordinaria ma dalla decretazione delegata e d'urgenza. Escludere queste ultime dall'indagine e proporre invece un'analisi della sola legge ordinaria, lungi dall'essere un anacronismo, vuole dire accentrare l'attenzione sulla fonte classica del diritto statuale, nonché cartina di tornasole del rapporto tra Governo e Parlamento, per valutarne lo stato di salute. I dati che si prenderanno in considerazione nel prosieguo si limiteranno a comparare solo le due Camere basse dei due Paesi per rendere il confronto più agevole e di più facile lettura. Per questa analisi si cercherà di utilizzare quanto più possibile dati empirici che possano, attraverso l'uso del calcolo permettere di confortare l'analisi dei problemi considerati, sulla scorta delle sempre attuali suggestioni illuministiche: J.A DE C0NDORCET, Tavola generale della scienza che ha per oggetto l'applicazione del calcolo alle scienza politiche e morali, in J.A DE C0NDORCET, Gli sguardi dell'illuminista, Bari, 2009, pp.234 e ss.
L'espressione è di Antonio Mené, al quale si rinvia anche per i dati relativi agli emendamenti presentati nella XII e XIII legislatura: A. MENÈ, cit., p.2O7 e 6 Con riferimento al periodo 2000-2009 bisogna osservare tuttavia che in Italia il fenomeno emendativo ha il suo picco proprio nel 2000, ultimo anno della XIII legislatura (18609 emendamenti presentati) della quale conferma il trend crescente. Fino al 2008 il fenomeno dell'emendamento si normalizza e sembra confermare il suo carattere ciclico (secondo quanto osservato anche in Francia da lunghi anni da Bruno Baufumé nel suo raftìnato studio sul fenomeno nel Parlamento francese: B. BAUFUIvIE, Le droit d'amendement sous la V Reublique, Paris, 1993). Prendendo in considerazione gli ultimi tre anni si ha conferma di tale andamento: nel 2006 8198 emendamenti presentati, 9528 nel 2007,6030 nel 2008 (considerando XV e inizio della XVI legislatura) e 14708 nel 2009. Quest'ultimo dato conferma la cidicità del fenomeno emendativo e prospetta il 2009 come anno di picco degli emendamenti. Nel Parlamento francese l'espansione del numero di emendamenti è ancora più sensibile: ancora sotto controllo fino al 2003 esso subisce, a partire da tale anno, una crescita quasi incontrollata. Dopo aver toccato il numero di 14014 emendamenti presentati tra l'ottobre 2007 ed il settembre 2008, nell'anno successivo il numero si attesta a 19010 emendamenti. I dati sono fruibili sul sito delle statistiche dell'Assemblée Nationale, http://www.assembleenationale.fr/13/seance/statistiques-l3leg.asp, e della Camera dei Deputati, http://www.camera.it/docestal307/21149/documentotesto.a sp. Sul fenomeno dell'emendamento si veda il recentissimo G. PIccIRILLI, L'emendamento nel processo di decisione parlamentare, Padova, 2009. Vengono indicati, come indici del cd. emendamento ostruzionistico, l'assenza di vero e proprio contenuto normativo dello stesso, la sua presentazione contestuale ad una grossa quantità di altri emendamenti e le caratteristiche simili che accomunano questi emendamenti presentati nello stesso momento. Così A. MENÉ, Fenomeni ostruzionistici nella XIII 39
legislatura tra garanzia dei diritti delle opposizioni e salvaguardia dellaJiinzione decisionale del Parlamento, in www.bpr.it ., p. 380. 8 1 dati relativi all'Assemblée sono calcolati sempre su un periodo di un anno, tengono conto del leggero scarto temporale fra le sue sessioni e quelle del Parlamento italiano (dall'ottobre dell'anno precedente all'estate di quello in corso). I dati sono fruibili sul sito delle statistiche dell'Assemblée Nationale mentre quelli relativi alla Camera dei Deputati sono stati da questa forniti a chi scrive. L'art 44-3, nella passata legislatura (2002-2007), è stato utilizzato otto volte. Durante l'attuale legislatura l'andamento è stato meno costante ma il caso del 2008 (venti voti bloccati) rimane comunque eccezionale. La ragione di questa autolimitazione del Governo è chiara: "L'abus dii vote bloqué nuit gravement à la santé ministérielle. Il devient la marque de la brutalité du Gouvernement comme de l'alienation du Parlement. Il n'est pas frequent". G. CARCASSONNE, cit., p. 212. Sulla sostanziale desuetudine dell'art. 41 si veda E. OuvA, L'article 41 de la Constitution dii 4 octobre 1958, Paris, 1997. 10 Si veda X. ROQUES, Le mythe de l'ordre du jour prioritaire, Les Petites cffiches, 4/05/1992, p. 33. 11 Nelle ultime due legislature (20022009) si contano in totale quattro utilizzazioni del cosiddetto "49.3", una sola dall'inizio dell'attuale sessione. Un dato ben diverso da quello relativo alla prassi italiana: dall'inizio della XV legislatura (aprile 2006) le questioni di fiducia poste sono state 38 (18 durante la XV e 20, fino ad ora, nel corso della XVI). 12 Nei primi due casi l'enucleazione dell'oggetto della deliberazione è evidente: nel primo caso potrebbero rientrare anche i cd. emendamenti formali , ovvero queffi che non denotano alcuna portata normativa ma che propongono semplicemente modifiche lessicali al testo emendando. Nel secondo caso, che è comunque una specificazione del primo, l'identità degli enunciati contenuti negli emendamenti è riferibile non a singole parole quanto ad espressioni che, pur avendo una dimensione inferiore ad un enunciato verbale e non avendo dunque in sé un significato au40
tonomo rispetto al testo, denotano un significato equivalente. Più problematica invece è l'individuazione dei principi quando manca una parte testuale comune. Esse potrebbero essere definite speculari alle cd. votazioni riassuntive e sarebbero da definire, con precisione, votazioni riassunti ve perprincipi. Ciò in quanto il Presidente, se sceglie di procedere a tale modalità di deliberazione, dopo aver accomunato ed individuato un principio comune che si può enucleare da più emendamenti (ad esempio, quando gli emendamenti dispongano di attribuire una determinata competenza a diversi organi, in questo caso il principio messo ai voti sarà quello dell'attribuzione di una competenza ad un organo), lo metterà ai voti. Se è rigettato il principio comune decadono tutti gli emendamenti ad esso legati, diversamente se il principio viene approvato, ciò comporterà la necessità di procedere alla votazione degli emendamenti perché, similmente a quanto avviene per le votazioni riassuntive, l'esito positivo di tale deliberazione testimonia la volontà dell'Aula di modificare il testo in esame. La disciplina si arricchisce di un ulteriore elemento, specificato all'art. 85 bis, nel quale viene esplicitata la regola della segnalazione: una sorta di "polizia" di emendamento che completa il regime della razionalizzazione delle votazioni e che si pone allo stesso tempo come garanzià dei diritti delle minoranze e come autolimite dell'opposizione nel corso delle manovre ostruzionistiche. Si veda C. RIZZUTO, Strumenti procedurali per la razionalizzazione delle deliberazioni della Camera dei Deputati sugli emendamenti, in Il Parlamento della Repubblica. organi, procedure, apparati. - Camera dei Deputati. Ufficio pubblicazioni e relazioni con ilpubblico, Roma, 2001, p. 672. 13 Nell'attuale legislatura si è fatto ricorso a 57 votazioni riassuntive e a nessuna votazione di principio. 14 Queste ultime rappresentano il tentativo in teoria più moderno di razionalizzare le procedure di voto. Come si sa esse possono decinarsi in tre modi: per parti sinonimiche, per parte comune priva di significato autonomo e senza parte comune testuale. Si segue
qui la tripartizione proposta da A. MENÈ, cit., pp.22l ess. 15 Consonante è l'analisi sviluppata in G. Picciiuw, Iparadossi della questione difiducia ai tempi del maggioritario, in «Oad. cost.», 2008, p. 789. 16 « La programmazione dei lavori e del procedimento legislativo travalica il già rilevante risultato del miglioramento delle procedure parlamentari sotto il profilo della certezza dei tempi e della qualità della legge per proporsi nell'inerzia del legislatore costituzionale - come più generale strumento di razionalizzazione della forma di Governo costituzionale". G. RiVOSECCHI, Regolamenti parlamentari eforma di Governo nella XfJf legislatura, Milano, 2002, p. 173. Si veda anche, criticamente su una gestione fin troppo filo-governativa dell'ordine del giorno delle assemblee, C. BERGONZIM, I lavori in commissione referente tra regolamenti e prassi parlamentari , in «Quad. Cost.», 2005, pp.787 e ss e M. 1\'IAGRINI, La programmazione dei lavori d'Assemblea: una lettura critica, in «Quad. cost. > >,2005, pp. 767 e ss. 17 Esempio ne sia la seduta del 5 agosto 2008, nella quale il Governo ha posto la fiducia sul testo 1386-B, di conversione del decreto competitività, sul quale l'opposizione aveva proposto solo 8 emendamenti. 18 Pur non disponendo del dato relativo agli emendamenti votati appare chiaro considerando il rapporto in tabella i tra emendamenti depositati e approvati che la quantità degli emendamenti posti in votazione è intuitivamente molto superiore in percentuale a quello riscontrabile alla Camera. 19 La possibilità di introdurre nel regolamento dell'Assemblée Nationale il contingentamento, rigettata inizialmente nel 2006, fa ora oggetto della recentissima loi organique 2009-403 relativa all'organizzazione del lavoro parlamentare. Nel maggio 2009 la riforma del regolamento dell'Assemblée prevede il contingentamento (art. 49) ma con un'importante previsione: secondo l'art. 55 RAN gli emendamenti presentati e non discussi devono comunque essere messi in votazione. 20 Il Governo francese pose l'ultima questione di fiducia sulla loi sur lgalitédes chances, il 31 gennaio 2006.
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L'unico strumento aggiuntivo di cui il Governo di Parigi può valersi è il voto bloccato che però, come dimostrano le statistiche, è usato con assoluta parsimonia (si veda nota 9). 22 Desta forti perplessità la constatazione che nei suoi primi due anni di legislatura il Governo Berlusconi IV (sostenuto da una fortissima maggioranza parlamentare) abbia fatto ricorso alla questione di fiducia 20 volte contro le 6 del primo anno del governo Prodi I. 23 Questa osservazione è stata ultimamente confermata dallo stesso presidente della Camera: Fin i: stop maxi-emendamenti il Governo rispetti le Camere, in «il Mattino», 4/8/2009, p. 3.11 presidente Fini prende proprio come termini del confronto l'ultimo governo Prodi e l'attuale Berlusconi IV. 24 Il dato conferma quindi con evidenza empirica l'impietosa analisi del "Parlamento di figuranti" tracciata da Lorenza Carlassare in L. CARLAssARE, Iviaggioritario, in www. costituzionalismo.it. L'inerzia della maggioranza parlamentare emerge anche in altre analisi scientifiche che pur trattano il problema sotto un diverso punto di vista: si veda G. PicciRILU, cit., p. 812. 25 Non essendo possibile, in un'analisi di lungo periodo, effettuare uno studio "qualitativo" degli emendamenti, sembra importante riproporre questa classica distinzione "Ontologica" (che per quanto presuntiva è raramente smentita dalla prassi) fra emendamenti d'opposizione ed emendamenti migliorativi del testo. Una più consistente attività parlamentare volta alla modificazione dei testi governativi non implica necessariamente una migliore qualità degli stessi ma certo significa una più decisa volontà da parte del Parlamento di influenzare e determinare il loro contenuto. Potrebbe sembrare poco, tuttavia le implicazioni di questa conclusione, in una valutazione di democraticità del regime politico, pare non siano assolutamente da sottovalutare. 26 Si trattava in realtà di temi tutt'altro che nuovi, che si fondavano in realtà su una nobile tradizione repubblicana di costante ricerca di un equilibrio tra democraticità ed efficacia dell'azione politica. Si ricordi, esemplarmente, il celebre decalogo Spadolini: 41
G. SPADOLINI, Discorsi parlamentari, Roma, 2002, pp. 191 e ss. 27 G. CAPANO-M. GIuIIANI, Tra ilprima e il dopo, in Parlamento e processo legislativo in Italia, Bologna, 2000, pp. 410 e ss. Si veda anche L. GIANNITI-N. Lupo, 11 Governo in Parlamento: laJiega verso la decretazione delegata non basta, in S. CEccANTI-S. VASSALLO (a cura di), Come chiudere la transizione, Bologna, 2004, pp. 240 e ss. 28 Questo per effetto delle insidiose modificazioni tacite prodotte dal diritto parla-
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mentare. Tradizionalmente si veda S. Tosi, Le modificazioni tacite della Costituzione attraverso il diritto parlamentare, Milano, 1959. 29 Sotto l'impero del diritto assoluto del sovrano il lii' dejustice designava la seduta del Parlamento di Parigi nella quale il re si recava per superare l'opposizione dell'assemblea ad un proprio provvedimento normativo. Si veda S. HANLEY, Les Lits de justice des Rois de France. L'idĂŠologie constitutionnelle dans la lĂŠgende, le rituelet le discours, Paris, 1991.
queste lstituzjoni o. 156-157 gennaio-giugno 2010
Ruolo delle €amere* di Carlo Chimenti
L
e caratteristiche principali della nostre Camere possono essere riassunte come segue. In primo luogo, si tratta di Assemblee politiche inquadrate in un contesto istituzionale di "democrazia immediata" e non di "democrazia rappresentativa": intendendo quest'ultima come l'ordinamento giuspolitico in cui le Assemblee sono l'unica istituzione di vertice espressa direttamente dagli elettori, mentre la "democrazia immediata" è quella in cui anche il Governo è scelto direttamente dagli elettori e quindi fruisce - come suol dirsi - di legittimazione democratica pari a quella delle Assemblee. In secondo luogo, si tratta di Assemblee facenti parte di un regime parlamentare (che è la forma di governo qualificata dal rapporto di fiducia fra Esecutivo e Legislativo), ed in particolare fanno parte di un parlamentarismo "competitivo" e non "consensuale" (o "consociativo"), come era stato quello avviato nel 1946, agli albori della Repubblica, e durato quasi cinquant'anni. Per capirci, appartengono ad un sistema in cui i rapporti fra i partiti non sono più ispirati al criterio della "convergenza fin dove possibile e della contrapposizione solo dove inevitabile" (vale a dire: della massimizzazione del consenso e della minimizzazione dei contrasti), ma all'opposto - in nome della separazione delle responsabilità politiche fra chi governa e chi no, e della imputabilità di esse in vista del giudizio degli elettori - al criterio della "contrapposizione fin dove possibile e della convergenza là dove inevitabile". Un capovolgimento la cui estrema rilevanza, agli effetti del funzionamento concreto delle Assemblee, appare intuitiva. -
'Conversazione tenuta al Seminario di diritto parlamentare Università di Roma 3 (Roma, 31 maggio 2010).
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In terzo luogo, si tratta di Assemblee nelle quali viene esercitata una pluralità di funzioni, anche se l'attenzione suole concentrarsi su quella destinata a stabilire le regole da osservare all'interno dell'ordinamento; vale a dire sulla funzione normativa, che nelle Assemblee nazionali si manifesta con l'approvazione delle leggi -ordinarie o costituzionali- ad opera delle maggioranze all'uopo previste. Funzioni il cui esercizio, nelle condizioni create dalle suddette caratteristiche, determina il ruolo delle Camere. E' peraltro divenuto un luogo comune denunciare il decadimento, o il declino, o l'eclissi (come dicono gli inglesi a proposito del loro Parlamento, al quale il nostro si sforza da anni di somigliare) delle nostre Camere, dinanzi alle condizioni in cui attualmente versano. Declino che ha come termini di paragone la situazione che esse avevano conosciuto per quasi cinquant'anni, sulla base della Carta costituzionale che, come si sa, pone al primo posto fra i vertici della Repubblica il Parlamento (in quanto unico organo di diretta derivazione dal popolo sovrano), nonché di una legge elettorale di tipo proporzionale che lo rendeva specchio effettivo del Paese. Situazione in ragione della quale si parlava correntemente di "centralità" del Parlamento, per evidenziare il primato delle Camere nel contesto delle istituzioni, a cominciare dal Governo, ed in virtù del quale non solo i peones di maggioranza, ma anche flpposizione riusciva in qualche modo a "cogovernare".
FINE DELLA CENTRALITÀ DEL PARLAMENTO (ALLA CHETICHELLA) Ciò premesso, è il caso di rilevare, a proposito della cosiddetta democrazia immediata, che in conseguenza del fatto che le Camere non sono più l'unico organo eletto direttamente dal popoio sovrano, la dottrina della "centralità" del Parlamento nel nostro sistema è divenuta anacronistica. E tuttavia, contrariamente a quanto si potrebbe pensare - e, forse, a quanto avrebbe dovuto accadere -, quel fatto, ossia la fine della centralità del Parlamento, non è avvenuto con la solennità e la risonanza che avrebbe meritato, ma è avvenuto - diciamo così alla chetichella, quasi di nascosto. La centralità parlamentare infatti è finita nel momento in cui anche la scelta del Governo è stata affidata agli elettori, ad imitazione di quanto accadeva (e accade) nell'ammirato modello britannico. Imitazione che non potendo da noi essere puntuale, in mancanza delle due convenzioni che caratterizzano quel modello: Governo composto dal partito vincitore delle elezioni, guida del Governo' (e scelta dei ministri) spettante al leader di esso - si è tradotta nell'escamotage di una modifica, concordata fra i partiti ed attuata in via amministrativa, delle schede elettorali. E così è finita la centralità parlamentare, giacché le schede del 2001 sono state congegnate in modo tale che ciascun elettore potesse votare contemporaneamente'per un 44
candidato al Parlamento e per un candidato alla guida del Governo: dunque, il massimo di imitazione del modello britannico che si poteva ottenere nelle condizioni date. Vicenda su cui c'è da recriminare soprattutto che si sia svolta, appunto, alla chetichella: ossia la scarsa trasparenza della decisione, della quale infatti l'opinione pubblica è venuta a sapere solo in quanto ne ha potuto leggere in un commento apparso sul Corriere della sera a firma di G.Sartori. E quindi dal 2001 che la centralità del Parlamento non esiste più: dapprima affiancata e poi man mano sostituita da una crescente centralità del Governo, nella misura in cui a vantaggio di quest'ultimo giocava la sua maggiore omogeneità politica rispetto alle Camere, il suo progressivo atteggiarsi a "comitato direttivo" della maggioranza, e per conseguenza la sua superiore efficienza, rapidità d'azione ecc.
IL REGIME PARLAMENTARE: DA "CONSENSUALE" A "COMPETITIVO"
Già dal 1993, d'altronde, il nostro regime parlamentare non è più quello "consensuale" sorto spontaneamente alla caduta del fascismo e poi consacrato in Costituzione, ed è diventato invece "competitivo". E facile comprendere come mai gli italiani, per cancellare i postumi della ventennale dittatura e della tragica vicenda bellica, abbiano voluto non solo puntare sul regime parlamentare - in quanto organizzazione della democrazia che meglio delle altre appariva idonea a tenere lontani eventuali eccessi del Governo, ossia dell'organo propulsore della defunta dittatura - ma per di più preferire la variante "consensuale" di esso, destinata per un verso a raccogliere la maggiore convergenza fra le forze politiche e per un altro verso a stemperare preventivamente le eventuali tensioni fra esse. In effetti, dovendo ricominciare da zero il cammino democratico, è naturale che si sia preferito un sistema nel quale la filosofia di fondo del rapporto fra i partiti consisteva nella ricerca del massimo consenso sulle decisioni da prendere, e non nella lotta, vuoi per la conquista del Governo, vuoi per evidenziare chi ha fatto o voluto che cosa (in vista delle conseguenti responsabilità da sottoporre agli elettori). E' intuitivo, peraltro, come questa filosofia di fondo implicasse il rischio - anzi la certezza - di un'azione governativa ritardata dalla ricerca di compromessi politici, e magari indebolita dalla polivalenza e/o dalla diseconomicità di questi, oltre che dalla confusione delle responsabilità fra Governo e opposizione. Sicché non sorprende che, dopo quasi un cinquantennio di parlamentarismo "consensuale", favorito dal sistema elettorale proporzionale instaurato nel 1946 per l'elezione dell'Assemblea costituente, gli inconvenienti di esso - enfatizzati da fenomeni corruttivi nella gestione della cosa pubblica, emersi via via e passati infine alla storia sotto il nome di Tangentopoli - abbiano suggerito il cambiamento del sistema elettorale. Che, nel 1993, divenuto maggioritario ad un turno per i 3/4 dei seggi in 45
entrambe le Camere, ci ha fatto rapidamente approdare sulle sponde di un parlamentarismo "competitivo", la cui somiglianza col modello britannico si è progressivamente accentuata. E precisamente si è accentuata da quando, nel 2001, gli elettori sono stati chiamati (come già ricordato) a scegliere direttamente anche il Governo; e da quando, nel 2005, la previsione di un premio di maggioranza a favore della coalizione vincitrice delle elezioni ha vieppiù inasprito la competizione. E' ovvio come tutto questo si sia ripercosso sulle funzioni delle Camere, sul loro funzionamento e, in definitiva, sul ruolo costituzionale di esse. Ma, giunti a questo punto, è sull'opposizione parlamentare che conviene concentrare la nostra attenzione. E chiaro infatti che in qualunque sistema democratico le decisioni collegiali vanno prese a maggioranza; e tuttavia le cose cambiano secondo che il contesto sia competitivo o consensuale. Cambiano nel senso che, in un contesto competitivo, all'assenza di compartecipazione dell'opposizione in ordine all'attività governativa corrisponde una drastica emarginazione di essa dalle relative decisioni adottate in Parlamento. In un contesto del genere, quindi, il Governo - in quanto "comitato direttivo" della maggioranza - diventa il "luogo" della maggioranza stessa, mentre il Parlamento diventa il "luogo" dellbpposizione: dove questa è destinata naturaliter, essendo minoranza, a restare sconfitta ogni qual volta si giunga ai voti. Solo nell'esercizio della funzione conoscitiva, e nella misura in cui in essa non si rinvengano risvolti politici, questa norma può essere derogata e l'opposizione, ai voti, può anche vincere. Per cui è illusorio pensare che, nel parlamentarismo competitivo, l'emarginazione dell'opposizione dalle decisioni legislative possa essere compensata dal suo potenziamento in quelle di controllo: anche riducendo il controllo alla verifica dei fatti compiuti dal Governo, e perciò escludendone l'indirizzo politico, è molto difficile credere che la maggioranza possa accettare di vedere il suo "comitato direttivo" subissato dalle critiche del Parlamento, suggerite dallbpposizione. Il prodotto di questa situazione è dunque il declino della Camere, ricordato all'inizio; declino che viene talora negato attraverso la reiterata professione di fede nella "centralità" parlamentare, suffragata dal fatto che tuttora il Parlamento riesce in qualche misura a "cogovernare" (che è la più significativa forma di "centralità"), nel senso che le proposte governative non vengono semplicemente "ratificate" dalle Camere, ma discusse ed emendate. Sennonché, a mio avviso, il declino si conferma tale, perché gli innegabili aggiustamenti che tuttora le proposte governative subiscono nel passare attraverso le Camere non avvantaggiano, come un tempo, l'opposizione allargando il consenso, ma restano un gioco tutto interno alla maggioranza. Tant'è vero che l'opposizione spesso si ribella, fa ostruzionismo, ricorre a pratiche "aventiniane", mostrando un Parlamento che ha perso autorità rispetto ai tempi in cui tutto questo accadeva con molto -minore -frequenza. 46
E allora, fatta salva l'eventualità di un mutamento della forma di governo, ossia di un ritorno al parlamentarismo consensuale, ovvero di un passaggio al regime presidenziale - beninteso: a quello statunitense, dove la rigida separazione dei poteri tende ad assicurare al Congresso il monopolio della funzione legislativa, e grazie ad essa gli garantisce un equilibrio sostanzialmente paritario con l'Esecutivo il cui Capo è eletto a suffragio popolare -, per le nostre Camere non mi pare che ci sia salvezza dal declino. Cioè, non potranno più essere "centrali", ed al massimo potranno galleggiare fra le istituzioni assicurando all'opposizione il diritto di essere sconfitta con quel tanto di visibilità e di eco nell'opinione pubblica che le lasci qualche speranza di rivincita alle prossime elezioni; e magari aggiungendo - ai fini di un migliore galleggiamento - la nomina di talune cariche istituzionali con maggioranze che implichino il concorso di qualche frangia di oppositori, oppure il ricorso diretto in Corte costituzionale contro determinate leggi, prima della promulgazione, ad opera di minoranze qualificate.
SULL'ATTUALE CONFLITTO TRA PRESIDENTE DELLA CAMERA E PRESIDENTE DEL CONSIGLIO Concludo con uno sguardo all'attualità, quale si coglie scorrendo le pagine dei giornali, che registrano almeno un paio di questioni meritevoli di attenzione con riferimento al ruolo delle Camere. La prima è la richiesta di dimissioni rivolta dalla maggioranza del PDL al Presidente della Camera Fini, se non si decide a smettere di fare il "controcanto" alle scelte politiche della maggioranza stessa e del Presidente del Consiglio che ne è il leader; richiesta fondata sull'assunto che in nessun Paese del mondo il PDA può permettersi di criticare sistematicamente lo schieramento a cui appartiene, e che lo ha elevato al vertice dell'Assemblea. Ebbene, al riguardo è il caso di ricordare che, per quanto fastidiose possano risultare al Governo, le critiche mosse dal Presidente della Camera alle scelte politiche dell'Esecutivo hanno perlomeno un precedente illustre, da noi, nella fronda esercitata negli anni cinquanta da G. Gronchi prima come Presidente della Camera e poi come Presidente della Repubblica nei confronti della politica dei Governi De Gasperi, guidati cioè dal leader riconosciuto della Dc, partito di maggioranza relativa ed egemone del Governo: Gronchi essendo l'altrettanto riconosciuto leader della minoranza del partito. Una richiesta dunque, quella rivolta al Presidente Fini, che i precedenti non giustificano. Ma altrettanto ingiustificata, d'altronde, appare la sicurezza con cui il Presidente della Camera ha sfidato il Presidente del Consiglio a rimuoverlo dalla carica, nella convinzione che non possa riuscirci. Sennonché, sebbene da taluno sostenuta, la tesi secondo cui il PDA, una volta eletto, diventa pressoché inamovibile fino alla scadenza del mandato, ossia sino alla fine della 47
legislatura, è piuttosto avventata. Perché è vero che la Costituzione e i Regolamenti parlamentari non prevedono la sfiducia al PDA; ma, se è per questo, la Costituzione non prevede neanche la questione di fiducia posta dal Governo sulle deliberazioni che il Parlamento si accinge a prendere, eppure il Governo se ne serve da sempre a piene mani. Il fatto è che la questione di fiducia inerisce naturaliter al regime parlamentare, per cui vi risulta applicabile anche se non è prevista espressamente. Analogamente, la sfiducia al PDA ad opera della Camera mediante ritiro di quella accordatagli nel momento in cui gli ha conferito la carica, votandolo, deve ritenersi corollario naturale del potere di nomina (salvo esplicita disposizione contraria, che da noi non c'è). Ed è indiscutibile che il PDL ha i "numeri" sufficienti ad approvare un'eventuale mozione di sfiducia (o di censura, se si preferisce) nei riguardi del PDA. A chi ricorda, per arrivare a conclusioni opposte, la vicenda relativa alla rimozione del Presidente della Commissione di vigilanza RAI, sen. Villari - che si prolungò (tra fine 2008 e inizi 2009) fino ai limiti del grottesco, perché si voleva evitare che terminasse linearmente con un voto di censura - si può obiettare, se non altro, che c'è troppa differenza fra la figura di un Presidente di commissione bicamerale e quella di un PDA per potere ragionevolmente comparare le vicende dell'uno a quelle dell'altro. Il Presidente Fini può dunque ripetere quanto vuole che lui intende rimanere al vertice di Montecitorio anche a dispetto dei berluscones, ma sa bene che costoro, volendo, hanno tutti i mezzi per farlo sloggiare.
LA PJFORMA CONFEDERALE COME POSSIBILE SOLUZIONE La seconda questione consiste nei progetti, di cui si discute, di grande riforma delle istituzioni, compresa naturalmente quella del Parlamento; e qui voglio dire che sono molto scettico sulla possibilità che simili progetti vadano in porto. Ma, se chiudo gli occhi e provo a sognare, quel che mi viene in mente, al fine di dare una scossa allo stagnante sistema nel quale sta, fra l'altro, declinando il nostro Parlamento, è la riforma federale: però nella versione originaria di G. F. Miglio, ossia di tre grandi macroregioni - una al nord, una al centro ed una al sud - dotate di un'autonomia così estesa da poter dare luogo, secondo la manualisticà, ad una sorta di Confederazione. Io sono, per motivi anagrafici, il prodotto di una cultura che dell'Unità d'Italia faceva la pietra angolare della formazione civile dei cittadini, e quindi sono cresciuto nel mito del Risorgimento, della Resistenza, dell'art. 5 della Cost., cioè della Repubblica una e indivisibile. E' per questo che, pur senza cedere alla retorica nazionalistica - che ho imparato a detestare da bambino, sotto il fascismo - faccio fatica a collocarmi in un'ottica confederale. E tuttavia, le profonde divisioni che vedo caratterizzare la nostra società nazionale, specialmente (ma nòn solo) in termini
di diseguaglianze di ordine economico/sociale, mi inducono a pensare che, forse, la Confederazione di tre macroregioni sia la soluzione che meglio potrebbe riuscire a tenere lontano lo spettro di una guerra civile - fredda magari, ma guerra - fra concittadini i quali, dinanzi ad episodi emblematici (come da ultimo quello dei bambini lasciati senza refezione dalla scuola, o senza il bus per raggiungerla, causa impossibilità dei genitori di pagare le relative spese), mostrano atteggiamenti così contrastanti da lasciare sospettare inopinate differenze di tipo addirittura antropologico. E mi portano a credere, inoltre, che essa possa costituire un rimedio appropriaio anche a proposito del Parlamento, nella misura in cui i suoi malanni - come sosteneva Taileyrand per quelli dell'esercito - vanno curati anzitutto nella società, se accade (come da noi) che i parlamentari tradiscano quptidianamente la loro funzione, mostrandosi più propensi alla rissa istituzionale che al colloquio. In ordine all'ipotesi confederale, comunque, mi piace ricordare che a metà del 1500 l'élite politica europea seppe escogitare una formula finalizzata a consentire la pacifica convivenza di nazioni rese insanabilmente nemiche dal diffondersi della protesta luterana in seno all'universo cristiano: formula che, inserita nella pace di Augusta, recitava "cujus regio, ejus religio". Ed il suo utilizzo, pur comportando la rottura di una precedente situazione unitaria, fu tutt'altro che privo di risultati positivi: nel senso che là dove venne adottata - come in Germania - fu assicurato un cinquantennio di pace, mentre dove non lo fu - come in Francia - si susseguirono ben Otto sanguinose guerre di religione. La ratio della formula era di riconoscere la prevalenza legale di una fede religiosa nei territori dominati da un principe che tale fede professava, lasciando tuttavia ai sudditi piena libertà di emigrazione. Ebbene, io credo che adattando un'analoga ratio a proposito delle divisioni che oggi attraversano la nostra società - e permettendo in particolare ai cittadini di raccogliersi nei territori governati in sintonia con le loro preferenze politiche - potremmo forse evitare in radice il rischio di andare incontro, magari senza accorgercene, alla guerra civile fredda di cui dicevo; risultato in vista del quale non sarebbe disdicevole entrare - tanto per rimanere nell'ambito delle citazioni d'epoca - nell'ordine di idee dell'ugonotto convertito Enrico IV di Navarra, il quale, a chi gli chiedeva conto della sua abiura, rispondeva che "Parigi vai bene una Messa". Non sto a dire quanti e quali aggiustamenti la formula di Augusta dovrebbe subire per essere adattata al fenomeno della odierna litigiosità italiana; e per essere utilizzata anche in funzione delle nostre istituzioni, Parlamento in testa. Ma mi pare evidente che una buona premessa a quell'adattamento ed a quella eventuale utilizzazione potrebbe consistere, giust'appunto, nella riforma confederale sopra accennata, in vista del superamento di alcuni problemi derivanti dall'Unità d'Italia; e che l'idea ultimamente affacciata da R. Prodi (Corsera 12/4) di una "regionalizzazione" del PD potrebbe rappresentare un primo passo nella medesima direzione. 49
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dosior
Alla ricerca del "buoll bilailcio"
S
ulle pagine di questa rivista il tema del bilancia è ricorrente. Da tanti anni. A cominciare dal 1987 (n. 72-73). Si trovano, per esempio, numerose pagine che in qua/che modo contribuiscono a ricostruire la storia di una legge, quei/a n. 468 del 1978, che cercò di riso/vere le difficoltà di applicazione dell'articolo 81 della Costituzione attraverso istituti legislativi (la "legge finanziaria", la sessione parlamentare di bilancia e così via) che hanno attraversato le cronache politiche degli ultimi decenni, ma che fin troppo logorati a partire dagli esordi da pratiche attuative sciatte efurbe ha portato necessariamente alla recente abrogazione. Sostituita, la 468, da una nuova legge di contabilità, la n. 196 de12009 che, attraverso un gran rigonfiamento delle norme di dettaglio - è una vera legge/regolamento - cerca la strada verso un buon bilancio, la grande chimera. A questa nuova legge dedichiamo i primi commenti di alcuni collaboratori molto esperti già in altre occasiòni intervenuti in materia di bilancio. Una domanda che è necessario fare a proposito della nuova legislazione deriva dai problemi creati dalla grande crisi mondiale in corso. In quale misura la nuova legge è lo strumento di base utile per le politiche di contrasto della crisi? La domanda vale in generale quale che sia la linea seguita: di rigoroso rientro dai deficit pubblici ovvero di mantenimento diforti stimoli all'economia ovvero, ancora, di djfficile equilibrio o combinazione dei due indirizzi. Le politiche che affivntano la crisi dalle attuali dimensioni inedite vogliono, ed a parole c'è su/punto un ampio consenso, coordinamentoforte degli indirizzi dei principali Paesi. Il coordinamento vorrebbe anche, per quanto possibile, una maggiore armonizzazione degli strumenti di governo dei bilanci pubblici.' A parte quel che può fare la politica economica sulla base degli attrezzi, sempre più evoluti ma in aspetti fondamentali sempre controversi (come, ad esempio, i/calcolo de/Prodotto interno lordo) propri della Contabilità na51
zionale. Quel chepuòfare, appunto, aprescindere daforme contabili ed articolazioni sostanziali dei bilanci pubblici. Cpoi una seconda domanda. In un verso o nell'altro, malgrado laperplessa stasi di ogni riflessione prospettica sull'Europa (ne abbiamo parlato in uno dei due editoriali), il tema delfinanziamento dell'Unione e del bilancio europeo considerato nel suo complesso, anche se sulla base di una logica di base radicalmente diversa da quella che fonda i bilanci nazionali; è da qualche tempo entrato nell'agenda del dibattito. Si veda il libro Astrid Il finanziamento dell'Europa. Il bilancio dell'Unione e i beni pubblici europei (a cura di Maria Teresa Salvemini e Franco Bassanini, Passigli Editori). Bisognerebbe capire o immaginare come verranno a stabilirsi i rapporti fra i sistemi contabili e di bilancio dei Paesi membri e quello europeo nel suo assetto attuale che rifiuta il nome stesso di bilancio e quello in fieri.
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Un primo sguardo alla nuova legge di contabilità e finanza pubblica di Maria Teresa Salvemini
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el dare uno sguardo alla L.196/2009 mi sono chiesta se essa rappresenti un completamento oppure una modifica dell'impostazione della L.468/78, e a quali necessità di governo della finanza pubblica essa oggi voglia dare una risposta. La legge di trenta anni fa fti motivata da alcuni importanti mutamenti che erano awenuti, nel decennio precedente, nella finanza pubblica italiana, e che rendevano impossibile l'uso del bilancio dello Stato come strumento di politica economica, in particolare come strumento di stabilizzazione anticiclica. Il primo cambiamento aveva riguardato la crescita, in misura assai rilevante, di spese regolate da meccanismi che creavano dei diritti alla prestazione, ed erano perciò tali da rendere obbligatoria la misura delle risorse da stanziare in bilancio (ed obbligatorio anche l'adeguamento ex post, se necessario). Questo limitava fortemente gli interventi discrezionali, ampliando invece quelli obbligatori; ma le tecniche di previsione e di decisione sul Bilancio dello Stato non si erano adeguate alla nuova situazione, e le conoscenze statistiche e contabili sottostanti erano del tutto inadeguate. Il secondo cambiamento era nato dal venir meno della separazione tra politica di bilancio e politica monetaria. Una volta assunta, nella prima, il paradigma ddla regolazione dei flussi finanziari (in alternativa alla regolazione delle quantità di moneta e dei tassi di interesse) la decisione sul disavanzo pubblico aveva assunto natura strategica, era perciò necessaria sia una previsione esatta e affidabile del fabbisogno finanziario dellbperatore pubblico, sia una forte decisione politica sul limite da porre a questo fabbisogno. Il terzo cambiamento aveva riguardato il peso crescente dei trasferimenti dal bilancio dello Stato al bilancio di enti e amministrazioni esterne; questo rendeva del tutto incontrollabili i tempi di esecuzione delle decisioni di spesa prese col Bilancio stesso, e del tutto impossibile una gestione quantitativa dei flussi finanziari dellbperatore pubblico. 53
Ai problemi posti dal primo di questi cambiamenti si pensò di dare come soluzione il Bilancio pluriennale e la Legge finanziaria. Il Bilancio pluriennale avrebbe dovuto far emergere la natura permanente di gran parte della spesa pubblica, e la Legge finanziaria avrebbe consentito l'introduzione di norme correttive di questa spesa. Una forte ripresa del controllo sul fabbisogno pubblico richiedeva invece lo spostamento di attenzione dal solo Bilancio dello Stato al Conto della Pubblica amministrazione (ma allora si parlava di Settore pubblico). Solo sulla base di adeguate conoscenze su questo Conto (e sui comportamenti che ne determinavano la dinamica) si sarebbe potuto usare in modo adeguato lo stesso Bilancio dello Stato, sia nel suo aspetto "competenza" (soprattutto in materia di trasferimenti) sia nella sua "previsione" (di nuova introduzione) di cassa. Nessuno di questi obiettivi, bisogna dirlo, fu pienamente raggiunto. In parte, per carenze nella normativa, che difatti fu a più riprese modificata In parte maggiore, per una difficoltà delle Amministrazioni stesse a farli propri, e ad adeguare ad essi la propria operatività, con uno sforzo di innovazione e modernizzazione. Nessuno di questi obiettivi, bisogna dirlo, fu pienamente raggiunto. In parte, per carenze nella normativa, che difatti fu a più riprese modificata. In parte maggiore, per una difficoltà delle Amministrazioni stesse a farli propri, e ad adeguare ad essi la propria operatività, con uno sforzo di innovazione e modernizzazione.
LE QUESTIONI TRENTA ANNI DOPO Oggi, il quadro dei problemi di politica di bilancio risulta cambiato in alcuni significativi aspetti, e molte norme si sono via via sovrapposte alla riforma iniziale. Questo spiega la decisione di procedere ad un nuovo intervento legislativo, in parte innovativo, in parte meramente riordinativo. Il primo cambiamento significativo riguarda il Conto delle amministrazioni pubbliche. Da strumento conoscitivo finalizzato al supporto della politica del Bilancio dello Stato esso è divenuto, in risposta ai cambiamenti intervenuti nella struttura stessa dello Stato, nella ripartizione dei poteri e delle responsabilità, la sede propria di una decisione fondamentale, quella sugli obiettivi di finanza pubblica. Qesti obiettivi devono essere specificati con riferimento ai tre sottosettori pubblici, oltre che al totale della PA (artiO, Decisione di finanza pubblica). Il passaggio da un sistema accentrato, com'era quello degli anni settanta, ad un sistema non solo fortemente caratterizzato dall'autonomia finanziaria delle amministrazioni locali, ma anche avviato su un percorso federalista, deve disporre oggi .di .conti.pubblici di.previsione, oltreche.consuntivi, armo54
nizzati, completi e affidabili. Le regole riguardanti la raccolta delle informazioni statistiche e contabili, nonché i passaggi procedurali necessari, affermano dei principi di sistema (costituzionali, si potrebbe dire) di straordinaria importanza. Certo, hanno anche lo scopo di assicurare il controllo del Governo e del Parlamento sull'attuazione sia del Patto di stabilità interno (del quale viene esclusa ogni ipotesi di regionalizzazione) sia del Patto di convergenza. Un federalismo ben temperato o un neocentralismo camuffato? Le interpretazioni divergono, e solo il tempo potrà dare la risposta. Un secondo importante cambiamento riguarda la sostanziale rinuncia a correggere con la Legge finanziaria, (ora Legge di stabilità), e nella Sessione di bilancio, la dimensione eccessiva della spesa pubblica e la sua dinamica radicata nella legislazione di carattere permanente. Non è solo questione di nomi, o di date spostate nel tempo. Nomi e date indicano un rapporto del tutto diverso tra andamenti tendenziali e manovra, e anche un depotenziamento del ruolo del Parlamento (art.11, Manovra di finanza pubblica). Del resto, l'idea di usare la LF per intervenire su leggi di spesa troppo costose si era rivelata ben presto una pia illusione. Troppo complesse erano, queste leggi, per consentire interventi nei tempi ristretti del processo di bilancio; troppo consolidati gli interessi da queste leggi protetti per consentire facili riduzioni; troppo fragili le coalizioni governative per fare superare gli ostacoli senza una generale ricontrattazione politica; troppo scarse le conoscenze sui meccanismi che determinano la crescita della spesa, delle spese in genere. La LF era divenuta lo strumento finalizzato alla decisione di nuove o maggiori spese, (spesso distrattamente quantificate nei loro costi), e perciò la sede di una battaglia politica sia sul volume complessivo delle risorse da destinare a questa finalità, sia sulla loro ripartizione. E in funzione di questa battaglia, e non a difesa del rigore di bilancio, che sono state poste questioni come quella delle quantificazioni del bilancio tendenziale, della misura vera dei saldi, e dei costi delle leggi di spesa. Il Parlamento è apparso spesso come espressione e tutela di interessi microsettoriali, e il Governo è sembrato spesso più interessato a partecipare a questa battaglia che a porre argini insuperabili, di contenuto e di procedura, al suo dispiegarsi. Piuttosto interessante è la norma che prevede che le previsioni tendenziali a legislazione vigente vengano fatte, per la parte discrezionale della spesa, sulla base dell'invarianza dei servizi e delle prestazioni offerte (art. 12,2,b). Chi negli ultimi trenta anni ha seguito questo tema, sa quanto esso sia stato dibattuto. La nuova regola, se pienamente applicata, potrebbe implicare un rilevante cambiamento nelle tecniche di previsione di spese che non hanno a loro fondamento quantificazioni precise e non modificabili, ovvero che hanno natura di oneri inderogabili. Dovrebbe essere abbandonato il sistema di mantenere intatti gli stanziamenti, e addirittura di considerarne inevitabile l'adeguamento (ad esempio,
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all'inflazione) e si apre la strada ad una valutazione sia dei risultati sia dell'efficienza della produzione del servizio, e della possibilità di comprimerne i costi. Tutto ciò sarà possibile a patto di porre su nuove diverse basi la dialettica tra Ministero dell'EconomialRagioneria Generale e ministeri di spesa. Una condizione che solo il futuro consentirà di verificare.
UNA POLITICA FONDATA SUI SALDI (coMPiSO QUELLO PRIMARIO) Obiettivo primario della legge 468/78 era quello di porre entro il quadro di una decisione politica trasparente e razionale la misura desiderata del disavanzo. Possiamo vedere dietro questo metodo di programmazione quei modelli macroeconomici .nei quali il disavanzo pubblico influisce sui tassi d'interesse e interagisce con la politica monetaria, ed è perciò una variabile strategica fondamentale nella politica economica di breve periodo. Questo approccio era del tutto diverso da quello dell'art. 81 della Costituzione, che affidava invece la difesa del rig9re finanziario allbbbligo di coprire con entrate aggiuntive le nuove decisioni di spesa. I due sistemi furono mescolati nell'interpretazione e nell'applicazione della 468, ma con ibbiettivo di dare spazio alle nuove maggiori spese: le leggi accolte nella LF erano coperte nei limiti posti dall'art. 1.Tranne rari momenti (la politica di rigore di Ciampi nel 96-97) il contenimento della crescita del disavanzo restò pertanto affidato alla crescita delle entrate. Il quadro macroeconomico era usato esclusivamente per determinare le variabili esogene del bilancio pubblico, e non per quantificare gli effetti di questo bilancio sull'economia. La nuova Legge conferma un impianto di politica di bilancio basato sulla decisione dei saldi indebitamento netto e saldo di cassa riferiti, come si è già detto al Conto della amministrazioni pubbliche. Non è imposto in alcun modo di dare dimostrazione degli effetti sull'economia derivanti dalla manovra, cioè da cambiamenti nella struttura delle entrate e delle spese, e nemmeno dal loro livello, in assoluto, o in rapporto al Prodotto. Potrebbe trattarsi di una insufficienza culturale, nella nostra classe politica e amministrativa. Probabilmente lo è. Ma il sospetto è che si continui a privilegiare il processo di bilancio come sede per la creazione di spazi per nuove o maggiori spese. La Legge di stabilità, infatti, (art.11, 6 ) può destinare a nuove spese gli incrementi di entrate, oltre che decidere in che misura destinarli al raggiungimento degli obiettivi di disavanzo. Inoltre, il fatto che sono stati rav vicinati e compressi i tempi di presentazione e di approvazione degli obiettivi e della manovra rende concreto il rischio che i primi non vengano fissati in maniera indipendente dalla seconda (art.7). Una terza, assai importante, caratteristica della situazione economica odierna, cui è dbbligo fare riferimento nello strutturare la Decisione e la Manovra di 56
finanza pubblica riguarda il debito pubblico (art.1O,2,e ). Il contenirnento della sua crescita, o addirittura la riduzione del suo rapporto al Prodotto, è tra gli obiettivi dichiarati delle politiche economiche di tutti i nostri Governi. Su questo si basa la novità dell'inserimento, tra gli obiettivi da fissare nella Decisione, del saldo primario, cioè dell'indebitamento netto al netto degli interessi. E questo sia per il totale dei conti pubblici che per i sottosettori. Questo rappresenta il riconoscimento non tanto di una separazione classificatoria tra le cause di crescita del debito, ma della natura fondamentale di questa distinzione ai fini del ragionamento sulla sostenibilità della crescita del debito pubblico. Sostenibilità che si misura, nei modelli che gli economisti usano a questo scopo, sulla base della variabile di policy che è il rapporto al PIL del saldo primario. Quanto più alto il costo medio del debito e la sua dimensione, e quanto più basso il tasso di crescita del prodotto, tanto maggiore deve essere l'avanzo primario. Si riconosce, nell'assunzione di questo obiettivo, che la decisione politica sui saldi oggi, assai più di trenta anni fa, è una decisione che trova un vincolo esterno assai forte nella dimensione raggiunta dal debito pubblico e dalla spesa per interessi. Si deve perciò evitare il rischio che una crescita del rapporto tra debito e PIL possa tradursi in una perdita di fiducia dei mercati finanziari nelle passività emesse dallo Stato italiano.
L'INSUFFICIENZA DEI RIFERIMENTI AI DISPOSITIVI DELL'UNIONE EUROPEA Nella nuova legge brilla per la sua assenza, nella fissazione degli obiettivi, ogni riferimento agli obblighi assunti dall'Italia con l'adesione al Trattato di Maastricht. Questo Trattato impone che i conti pubblici dei Paesi che vi aderiscono siano in pareggio, con una possibilità di scostarsi dal pareggio che è limitata nel tempo e nella dimensione, e che deve essere giustificata sulla base di criteri ben codificati, con procedure di esame e di valutazione ex ante e ex post. Il metodo della programmazione trova, allora, un vincolo esterno che non era presente trenta anni fa. Ma l'art.lO della Legge, quello che indica i contenuti della Decisione di finanza pubblica e i passaggi necessari a spiegarne la natura, nulla dice sull'obbligo di esplicitare formalmente il legame tra gli obiettivi stabiliti e le regole del Patto europeo, né impone di dare una dimostrazione, in caso di scostamento dal pareggio, dei motivi, e poi del percorso temporale del rientro previsto. Né si può ritenere sufficiente, a tal fine, l'art.9 (Rapporti con l'Unione europea in tema di finanza pubblica). Schema di aggiornamento del Programma di stabilità e Decisione di finanza pubblica sono due cose del tutto diverse: con valore conoscitivo il primo, vincolante la seconda. 57
Altrettanto inadeguata è la previsione al punto (i) dello stesso art. 10, di una evidenziazione, a fini cono scitivi, del prodotto potenziale e degli indicatori strutturali programmatici del conto economico delle pubbliche amministrazioni. Inadeguata, per non dire del tutto fuorviante, e sostanzialmente inutile. Lo scarto tra saldo strutturale e saldo corretto per il ciclo è un elemento fondamentale quando si prende la decisione sugli obiettivi, in una corretta interpretazione del significato degli impegni presi nell'Eurogruppo. Non è un'aggiunta decorativa. Questa mancanza di riferimenti agli obblighi derivanti dall'appartenenza all'Eurozona è davvero sorprendente. Non credo che questo venga fatto nella speranza che ciò possa rendere meno severa la manovra di avvicinamento dei saldi tendenziali agli obiettivi, e di salvaguardare così gli spazi per nuove decisioni di spesa. Anche se questo spiegherebbe l'attenzione eccessiva (dato lo stato della finanza pubblica italiana) portata ancora al tema delle coperture, alle sottigliezze contabili che ancora salvaguardano gli spazi disponibili (primo tra questi il miglioramento del risparmio pubblico e la cosiddetta clausola di salvaguardia, di costruzione peraltro incerta, a supporto delle leggi pluriennali di spesa, art. 17). Né mi sembra che l'assenza di riferimenti espliciti ai vincoli sottoscritti col Patto di stabilità europeo dipenda dalla difficoltà a raccordare, in termini di previsione per l'anno, e non solo in sede di confronti sui consuntivi, il sistema di contabilità pubblica, cui fa riferimento tutto l'impianto della Legge, allo schema SEC usato invece in sede europea. Insomma, l'assenza di ogni riferimento non si giustifica. Si sarebbe almeno potuto imporre che nella Decisione si desse, come esplicita motivazione dei valori-obiettivo prescelti almeno quella di rispettare il vincolo del Patto di stabilità europeo, oppure del perché di un eventuale discostarsi.
PIENA VIYFORJA DELLA RAGIONEPJA GENERALE DELLO STATO? La grande importanza, nella situazione attuale della finanza pubblica, del tema della riduzione della spesa pubblica costringe ad una riflessione su un punto che è stato visto come la vittoria della Ragioneria nella questione della Commissione di controllo sui conti pubblici. Sul tema della necessità di un organismo di verifica quantitativa dei conti pubblici, diverso sia dalla Corte dei conti che dalla RGs si erano confrontate, nel tempo, varie posizioni: fare degli Uffici parlamentari del bilancio un unico interlocutore della Ragioneria, replicando il modello americano che
vede un CBO controparte dell'OMB. Oppure creare, dentro lo stesso ministero dell'Economia, un organismo dedicato al controllo dei conti pubblici non tanto per rompere il monopolio della Ragioneria quanto per sopperire alle carenze dimostrate da questa. La L.196 si limita ad auspicare una collaborazione tra uffici dei Parlamento, e affida alla Ragioneria generale il compito di fare quelle analisi di settore che sono la base necessaria per ogni proposta di intervento riduttivo della spesa, e insieme il monopolio nella raccolta dei dati. Le analisi su singoli settori, o singole voci importanti di spesa, negli scorsi anni erano state fatte prima dalla Commissione tecnica per la spesa pubblica e poi dalla Commissione per la finanza pubblica, che aveva impostato una pregevole Spending Review. Attività che la RGs aveva in genere mostrato di non considerare utilizzabili, o che comunque rivendicava a sé, pur senza dare dimostrazione di volerle fare. La nuova legge impone una raccolta di informazioni assai dettagliato, da presentare assieme agli stati di previsione della spesa di ciascun ministero e da collegare alla misurazione dei servizi invariati della previsione a legislazione vigente. (artt.13 e 14). Si ammette, insomma, che la crescita incontrollata della spesa pubblica nel passato era dovuta anche a una insufficiente conoscenza, da parte sia delle amministrazioni di spesa che del nostro Ufficio del bilancio, dei meccanismi di crescita della spesa e di una incapacità di rivedere le priorità e le vere necessità. Si tratta di vedere ora se vi saranno nei Ministeri e nella Ragioneria le competenze economiche e tecniche necessarie per questo non facile compito, e se verranno adeguatamente impostate le necessarie banche dati. Anche la riforma della struttura del bilancio dovrebbe essere utilizzata per mettere su basi adeguate il processo di analisi, riesame, valutazione di tutta la spesa. Su questo terreno un obiettivo importante dovrebbe essere quello di dare adeguato supporto ad un Parlamento investito più che di compiti legislativi di compiti di supervisione e controllo strategico sugli andamenti di finanza pubblica. Di particolare interesse a questo scopo è la valutazione dei costi di produzione dei servizi offerti, e un minimo, almeno, di collegamento ad obiettivi di natura reale. Queste valutazioni richiedono - richiederebbero un processo dialettico di raccolta di informazioni e di valutazione delle vere necessità: un effetto non secondario si ha sui processo di bilancio stesso. La Manovra di avvicinamento agli obiettivi si riduce, e insieme si aprono spazi per soddisfare nuove esigenze delle Amministrazioni, senza passare per nuove leggi di spesa. Il Bilancio si presenta però sempre più come dei Governo.
PrtssIoNE FISCALE COERENTE CON IL LIVELLO DI SPESA CORRENTE?
Di grande interesse, infine, è l'inserimento, nel paragrafo che definisce gli obiettivi programmatici, seppure solo "a fini conoscitivi", di un obiettivo massimo di pressione fiscale complessiva, coerente con un livello massimo di spesa corrente (art. 1O.e). Lo stesso saldo, sia in valore assoluto che in rapporto al PIL, può infatti essere il risultato di volumi diversi di entrate e di spese. Ma nei modelli che considerano rilevante solo il disavanzo, per i suoi effetti sul tasso di interesse, nonché nelle regole del Patto europeo, non si perviene a regole di ottimalità. Livelli di pressione fiscale molto diversi da Paese a Paese, da periodo a periodo, possono cosi far parte di una decisione di bilancio ugualmente rigorosa. Oggi però, la pressione fiscale, e la sua distribuzione, sono un obiettivo dichiarato di politica economica, dopo che se ne è registrato un aumento di 2,2 punti di PIL tra il 2004 e il 2008. Vincolare, insieme, volume di entrate e volume di spese diviene indispensabile, anche se per ora non si fa questo passo. Forse perché non si dispone di un modello di interrelazione tra finanza pubblica e dinamica economica che offra al dibattito politico la base per procedere in questa direzione. Forse perché anche nella nuova legge c'è una componente inerziale che impedisce di avventurarsi in terreni nuovi. O infine perché si ha consapevolezza delle difficoltà politiche di fare questo passo, e si preferisce restare sul terreno della sola conoscenza.
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queste Istituzioffi n. 156-157 gennaio-giugno 2010
Legge di bilailcio e legge fillallziaria verso una nuova forma per la decisione di bilancio? di Paolo De loanna
L
a legge n. 196 del 31 dicembre 2009, organizza una nuova cornice in materia di "contabilità e finanza pubblica". La materia evocata nel titolo della legge è amplissima; si tratta di untesto composto di 52 articoli che ha integralmente sostituito la legge n. 468 del 1978, e successive modifiche, una delle discipline di cornice più durature, complesse e controverse, nella sua implementazione politico-legislativa e tecnico amministrativa, degli ultimi trenta anni, frutto della breve stagione della solidarietà nazionale. La legge n. 196, in via di premessa, dichiara di voler disporre in materia di principi di coordinamento, obiettivi di finanza pubblica e criteri di armonizzazione dei sistemi contabili (Titolo I); poi affronta il tema (Titolo Il) della trasparenza e della controllabilità della spesa e poi riprende, in parte, lo schema della legge n. 468 del 1978, occupandosi degli strumenti e degli obiettivi della finanza pubblica (Titolo III), del monitoraggio della spesa (Titolo IV), della copertura delle leggi di spesa (Titolo V), del bilancio dello Stato (Titolo VT), della tesoreria degli enti pubblici e della' programmazione dei flussi di cassa (Titolo VIII), dei controlli della ragioneria e della valutazione della spesa (Titolo Villi); prevede da ultimo, molto opportunamente, una delega al Governo per un testo unico in materia di contabilità dello Stato e di tesoreria. (Titolo IX), delega altra volte concessa e mai esercitata.
A CHE SERVE UNA LEGGE CORNICE CHE DISCIPLINA LE PROCEDURE DI BlLANCIO E LA FINANZA PUBBLICA?
Con etichette diverse ritroviamo una sostanziale continuità negli strumenti utilizzati e più volte riconfigurati in questi trenta anni circa di applicazione 61
della legge n. 468. del 1978 e, soprattutto, nei metodi. Continuità che non sarebbe un fatto negativo se nella legge trovassimo anche risposte e linee di lavoro e sviluppo, almeno per le questioni più critiche emerse in questi anni. I processi storici di razionalizzazione dei sistemi parlamentari si svolgono soprattutto all'interno del nucleo di questioni che attengono: a) all'esercizio dei poteri fiscali (entrata e spesa) del Governo e delle Camere rappresentative; b) alla disciplina, formale e reale, dei loro rapporti; c) alla evoluzione che su questo terreno registra l'applicazione dei principi costituzionali. E proprio su questo terreno che ha molto senso parlare di evoluzione della costituzione materiale. Le modifiche che toccano questi rapporti, posti con legge ordinaria, connotano processi che riguardano (a monte) l'interpretazione delle norme costituzionali e (a valle) l'assetto dei regolamenti e delle prassi parlamentari; hanno quindi a che fare con la sostanza stessa della democrazia rappresentativa. Tuttavia, trattandosi di questioni tecnicamente complesse, (e spesso complicate dagli stessi addetti ai lavori), sfugge o non si percepisce immediatamente il senso delle loro implicazioni profonde che avvengono attraverso un accumulo lento di prassi, innovazioni, ritorni al passato, nuovi avanzamenti. La nuova legge aprirà certamente molti cantieri di studi e commenti. Ci sarà tempo e modo di ritornare su tutti i nodi rivisitati da un testo molto complesso. Nella riflessione che segue cerco di spiegare se nella nuova cornice contabile, che è presentata come strettamente connessa alla fase di attuazione dell'art. 119 Cost., in materia di cd. federalismo fiscale, ed in particolare alla delega recata dalla legge n. 42 del 2009, prevalgano elementi di continuità o di discontinuità con l'assetto precedente. Soprattutto mi domando quanto la riforma sia spiegabile con esigenze che si radicano nell'assetto strutturale della finanza pubblica italiana, dopo il titolo V Cost., e/o con profili relativi al nuovo quadro politico, dominato da una fortissima maggioranza di centro destra che dispone, anche in ragione di un abnorme utilizzo della decretazione d'urgenza e dei voti di fiducia, del pieno controllo dell'agenda dei lavori parlamentari. Queste domande sono testate con riferimento a tre ambiti specifici: l'armonizzazione dei conti pubblici e gli strumenti per il controllo parlamentare; la classificazione contabile delle spese; la delega per il passaggio ad un bilancio di sola cassa. All'inizio degli anni ottanta a due importanti intellettuali italiani, un giurista della organizzazione dei poteri pubblici ed un filosofo del diritto (5. Cassese e N. Matteucci) era stato chiesto dalla Confindustria, nell'ambito di un ormai storico convegno, di analizzare le cause profonde della perdita di controllo nel governo della spesa pubblica in Italia. In estrema sintesi, il giurista indicava nella carenza storica di una cultura organizzativo-industriale e-nella prevalenza- epervasività-di-strumenti di-con62
trollo di marca soio contabile e finanziaria una delle cause di questo processo; era un modo per riproporre la visione di una frattura tra amministrazione e finanza come tratto negativo strutturale della nostra organizzazione amministrativa; il filosofo poneva l'accento sul modello cogestionario (Governo Parlamento) visto come fattore di fondo della spesa senza responsabilità ed invocava il recupero del modello cd. " Westminster", dove la produzione normativa resta saldamente nelle mani del Governo ed il Parlamento ratifica e controlla ma non esercita veri poteri di spesa (S. Cassese, Espansione e controllo della spesa pubblica: aspetti istituzionali; N. Matteucci, Consenso sociale e spesa pubblica, in "Lo Stato e i soldi degli italiani", Atti del Convegno, in Rivista di politica economica, gennaio 1983, pagg. 153-191). A distanza di trenta anni, ad avviso di chi scrive, i segni di una cultura industriale e della misurazione tecnica dei risultati delle politiche pubbliche sono sparsi, retoricamente, in molti segmenti della nostra legislazione, a cominciare da quella sui controlli di gestione, ma i risultati pratici sono molto modesti; la divaricazione tra amministrazione e finanza resta per intero nonostante che dal 2000 sono stati introdotti nel bilancio dello Stato i centri di costo e i budget per obiettivi mentre il rapporto con la dirigenza è stato contrattualizzato. Il Governo invece domina e controlla la produzione normativa, attraverso un uso intenso e continuo degli strumenti d'eccezione (decreti legge ed ordinanze d'urgenza per le calamità) e della posizione in Parlamento della questione di fiducia. Il Parlamento controlla poco, mentre continua a consumare grandi energie nell'esercizio (alquanto dimostrativo) dei suoi poteri di emendamento, soprattutto in sede di conversione dei decreti legge. Il lungo (troppo lungo) processo di razionalizzazione della democrazia rappresentativa italiana non ha ancora trovato, neppure dopo l'ingresso nella UE, un punto di equilibrio condiviso e praticato in modo trasparente dalle due coalizioni che ormai da quindici anni si dividono, a turno, le responsabilità di governo. Forse considerare la struttura dei bilanci pubblici come un bene da implementare in una visione condivisa, ispirata ad esigenze di trasparenza ed integrità, sarebbe un buon punto di partenza per rimettere su basi più stabili la nostra democrazia rappresentativa. Una legge cornice in materia di contabilità e finanza pubblica, discussa e votata con la collaborazione di tutte le forze politiche, secondo una prassi sempre seguita in questi ultimi trenta anni, ma piuttosto rara in questa fase politica, dominata dal conffitto, appare dunque un eccellente punto di osservazione per capire come stanno e dove vanno questi processi. Nei Paesi dell'area OCSE si è sviluppata negli ultimi dieci anni una ampia e approfondita rifléssione, politica e tecnica, sulla morfologia che i bilanci pubblici (dello Stato e degli enti territoriali dotati di autonomia fiscale) devono 63
assumere per assolvere al meglio le funzioni che massimizzano la qualità democratica di un sistema politico-economico. Vi è consenso tra gli studiosi nell'indicare nella qualità dell'accountability un elemento cruciale per comprendere in che modo il Governo risponde del proprio operato nei confronti del Parlamento e, più in generale, in che modo lo stesso Parlamento, come istituzione, risponde di fronte agli elettori delle modalità con cui controlla l'operato del Governo (in chiave politologica, per tutti , Sartori G., Elementi di teoria politica, Il Mulino, Bologna 1987, p. 234 e segg). Per accountability intendiamo in particolare la possibilità attraverso l'esame dei bilanci pubblici di individuare il livello di responsabilità, rispettivamente politica e amministrava, cui ricondurre: scelta delle priorità finanziarie, gestione delle risorse e verifica dei risultati. La struttura dei bilanci pubblici dovrebbe consentire di svolgere le funzioni ora descritte riferite ad involucri di risorse destinate a finalità ben determinate, cioè a politiche pubbliche ricostruibili nelle rispettive dimensioni finanziarie e negli obiettivi attesi (si veda: L'accountability delle amministrazioni pubbliche, a cura di F. Pezzani, IPAS, Milano 2003). In termini generali si può affermare che lo stesso criterio della specializzazione dei bilanci pubblici nasce e si svolge storicamente proprio su questo terreno e, opportunamente attualizzato, mantiene una sua efficacia tecnica ed istituzionale. (P. De loanna, Autorizzazione parlamentare eprincpio di specificazione, in "Linee di riforma dei bilanci pubblici", a cura di L. Cavallini Cadeddu, Giappichelli 2003). Gli apparati che in Italia gestiscono al centro il ciclo delle spese e delle entrate statali (ora ricondotti entro l'unico contenitore del ministero dell'Economia e delle Finanze) sono i dipartimenti della Ragioneria generale dello Stato, del Tesoro e delle Entrate, che opera attraverso le sue agenzie; il controllo esterno è effettuato dalla Corte dei conti. Questi apparati sono espressione, sul piano cukurale ed operativo, di categorie, schemi interpretativi e tecniche, digestione e di controllo, di matrice sostanzialmente giuridico contabile; matrice che si radica nello statuto costituzionale del bilancio pubblico, riconducibile nelle linee costitutive all'art. 81 Cost. ma che chiama in gioco altri principi e criteri, rinvenibili negli articoli 23,53,72 e 75 ed ora anche nel titolo V Cost. (cfr G. Abbamonte, Principi di dirirtofinanziario,Liguori, Napoli 1975; P. De loanna, Parlamento e spesa pubblica, Il Mulino, Bologna 1993; A. e F. Gaboardi, Manuale di contabilità dello Stato, Maggioli, Rimini 1998; A. Brancasi, Contabilità pubblica, Giappichelli, Torino 2005; R. Perez, Lafinanza pubblica, in "Trattato di diritto amministrativo", Milano, Giuffrè 2003; G. D'Auria, I controlli, in Trattato ibidem; N. Lupo, Costituzione e bilancio, Luiss, Roma 2007; G. Rivosecchi,L'indirizzopoliticofinanziario tra Costituzione italiana e vincoli europei, Il Mulino, Bologna 2007; P. De loanna e C. Goretti, La decisione di bilancio in Italia, -Il.Mulino, -Bologna-2008)--- 64
L'esperienza e l'osservazione dei nodi analitici e pratici del dibattito politico degli ultimi trenta anni fa emergere alcuni nessi particolarmente significativi, che sono derivati da questa matrice e che hanno influenzato, fin qui, in modo decisivo, anche i tentativi di immettere nell'ordinamento categorie interpretative e prassi, orientate sulla valutazione dei risultati delle gestioni pubbliche, oltre che sul rispetto di canoni di stretta legalità. Questa lettura giuridico contabile dei problemi del Governo e del controllo dei flussi di spesa, al di là della fraseologia innovativa delle leggi e dei documenti ufficiali, rimane largamente egemone e costituisce una causa non secondaria della complessiva inefficienza degli apparati pubblici italiani e del connesso sistema di controllo contabile. Come in un gioco di specchi le stesse categorie si auto sostengono in tutte le fasi del controllo, imponendo alla gestione delle spese un modulo che intercetta le singole fasi, le organizza in nomenclature contabili generali di assai dubbia chiarezza esplicativa, da cui dovrebbero discendere effetti conformativi sui poteri di spesa del Governo e del Parlamento,e soprattutto sulla autonomia gestionale dei dirigenti pubblici; si tratta di un modulo che, salvo poche eccezioni, non esprime alcuna valutazione significativa sullo stato effettivo delle singole gestioni e dei singoli servizi e soprattutto sulla capacità di gestire dei dirigenti e sugli obiettivi reali che la politica vuole conseguire. La cd. spending review è stata il tentativo (avviato nel biennio 2006-2007) di passare gradualmente ad un nuovo metodo di controllo della spesa, non diretto ad introdurre tagli finanziari operati solo in termini di norme e di gestione contabile del bilancio pubblico, ma volto, in via prioritaria, ad analizzare le attività svolte dalle amministrazioni pubbliche, per misurare e valutare il loro operato, utilizzando strumenti e metodi idonei a mettere a confronto risorse, risultati attesi e risultati conseguiti. Metodologia largamente utilizzata negli altri Paesi dell'area OcsE, legata al crescente bisogno di efficienza, migliore qualità nei servizi pubblici, soprattutto se connessi a funzioni cruciali per la cittadinanza e lo sviluppo economico, come l'istruzione, la sanità e la ricerca, in un contesto di risorse limitate. Tuttavia si tratta di un tentativo finora sterile in quanto impostato e gestito dalle stesse strutture che sanno operare solo in termini di controllo-compressione della spesa attraverso le categorie contabili vigenti; il controllo non si applica a dinamiche reali e fattori endogeni ed esogeni che segnano il funzionamento di una determinata politica pubblica, ma direttamente e solo alla cornice normativa che autorizza la spesa; così si mantiene un certo controllo al margine degli andamenti dei flussi di spesa ma non vi è alcun approfondimento e comprensione degli effetti delle correzioni introdotte, utilizzando set omogenei di dati di riferimento ex ante ed ex post di natura reale. E del resto, la stessa valutazione cx ante che si esercita sugli effetti attesi da innovazioni normative primarie (leggi) o secondarie (regolamenti introdotti in base a nuove norme primarie) spesso non utilizza lo stesso set di 65
ipotesi e dati con cui si è costruita la previsione a legislazione vigente e /o non chiarisce quale sia questo set di ipotesi e dati. Il centro dunque regola e governa i flussi di cassa che dal bilancio dello Stato alimentano la amministrazioni centrali e periferiche e gli enti esterni continuando ad utilizzare categorie squisitamente giuridico contabili, a dispetto della nuova retorica del federalismo fiscale e della sussidiarietà; dichiara di eseguire ordini politici (posti dalla legge o da atti normativi sub legislativi) dietro lo schermo di automatismi costruiti in modo opaco e di fatto realizzando una profonda deresponsabilizzazione della dirigenza che gestisce direttamente le risorse. E ciò proprio nel momento in cui a questa dirigenza si riconosce uno status economico di tutto rispetto, giustificato con il nesso di responsabilità dirigenziale, declinato in corposi, quanto inutili, rinvii a formule contrattuali che definiscono gli obiettivi attesi, posti dall'indirizzo politico. En passant, osserviamo che sarebbe interessante saggiare la fondatezza della distinzione concettuale e pratica tra indirizzo politico e gestione analizzando i contenuti dei contratti individuali che pongono fini e obiettivi alla dirigenza. Non si tratta evidentemente di negare la forza e la valenza sostanziale dei principi costituzionali, né di disconoscere la funzione genetica che le norme hanno nel costruire le posizioni soggettive a contenuto patrimoniale intestate ai soggetti privati; si tratta invece di rileggere questi fenomeni alla luce del contesto dei problemi posti dal presente; in particolare, e su questo profilo ci soffermeremo nel seguito di questa riflessione, di aprire la scatola della nomenclatura delle spese, come conformata in via di prassi, e come apparentemente innovata nella nuova legge di riforma della cornice contabile. La questione cruciale sul terreno del controllo della finanza pubblica sta nella fase di quantificazione degli effetti finanziari associabili alle innovazioni normative e, soprattutto, nella valutazione degli andamenti delle tendenze in atto che operano sulla base degli istituti di spesa vigenti. Se questa fase è assunta nel dominio del Governo e se viene esercitata in condizioni di sostanziale scarsa o nulla monitorabilità di metodi, dati e fonti utilizzati, di fatto appare molto difficile invocare il passaggio ad un ciclo di parlamentarismo razionalizzato in cui le Camere dovrebbero porre decisamente l'accento sul controllo degli effetti delle politiche adottate dal Governo e dalla sua maggioranza, abbandonando ogni possibilità di modificare, via emendamenti, queste politiche. In realtà, tutte le varianti continentali di democrazia parlamentare razionalizzata intestano alle Camere robusti poteri di controllo, associati a reali poteri di emendamento, sia pure entro limiti e vincoli ben precisi, tali da consentire al Governodi.svolgere.il suo.programma, se assistito dalla-tenuta-della
sua maggioranza. Ed è questa la forma materiale verso cui si è mosso il nostro sistema di decisione di bilancio nell'ultimo trentennio, il limite di questa evoluzione, che è poi la ragione per cui, secondo chi scrive, non si è raggiunto ancora un ragionevole punto di equilibrio, sta nella circostanza che l'area tecnica che serve a supportare le politiche fiscali resta saldamente nelle mani del Governo, ed esercita un super controllo sulla produzione normativa o comunque ha strumenti sufficientemente forti per paralizzarla o interdirla. Tutto ciò potrebbe essere perfettamente funzionale con la auspicata razionalizzazione se le Camere(o altro soggetto in posizione di neutralità) fossero in condizione di organizzare ed utilizzare strumenti per verificare questi percorsi valutativi (dati, fonti, metodi e criteri); ora le Camere (melius, le proprie strutture tecniche interne) ripetono ,a volte con effetti quasi comici, lo spartito che viene passato dal Governo, cioè dalla Ragioneria generale dello Stato; e quest'ultima opera in una posizione "ambigua"; offre dati non neutri e non testabili, ma sui quali si "chiude" la cd. procedura di verifica delle quantificazioni, in ultima analisi sulla base di una assunzione di responsabilità politica da parte del Governo: cosa del tutto fisiologica in un parlamentarismo razionalizzato se verifica e analisi dei dati avvenissero in forme, tempi e modi idonei a dare un senso di effettività a questa fase di controllo politico. Se anche il controllo si esaurisce in un voto a maggioranza, senza aver potuto esplorare e discutere la base conoscitiva su cui si è costruita la soluzione normativa, senza volere (o forse volendo) si distrugge l'essenza della rappresentanza. Ora, la concentrazione opaca della decisione normativa nel solo Governo garantisce la immediatezza della decisione ma non assume alcuna valenza positiva in termini di appropriatezza delle scelte; all'interno del Governo operano esattamente le stesse lobbies e gli stessi interessi che in Parlamento si esprimono e si confrontano in modo aperto; senza scomodare i teorici della democrazia rappresentativa, è auto evidente che se le Camere sono deprivate sia dei poteri di incidere sulla produzione normativa, sia del potere di controllare in modo effettivo e penetrante gli effetti, ex ante ed ex post, delle scelte del Governo si realizza un corto circuito che mette il funzionamento reale del sistema su un binario non previsto e non voluto dalla Costituzione. Ma la forma della decisione di bilancio e la struttura dei documenti sono funzione dei limiti e della estensione dei poteri di decisione e controllo che le Camere in concreto possono e devono esprimere. Riprendere il tema della classificazione contabile della spesa, costituisce, a nostro avviso, un indice eccellente per capire lo stato della questione che ha un certo rilievo per il buon funzionamento di un sistema di democrazia rappresentativa. 67
L'ARMONIZZAZIONE DEI BILANCI PUBBLICI E GLI STRUMENTI PER IL CONTROLLO PARLAMENTARE I primi due titoli della legge di riforma recano importanti novità; il primo declina, con lo strumento della delega la dichiarata volontà di definire metodi e luoghi per attuare l'armonizzazione dei bilanci pubblici e il coordinamento della finanza pubblica, due ambiti di materie che in base all'art. 117 Cost. sono ora intestati alla competenza concorrente dello Stato e delle Regioni. Il secondo titolo, sotto la formula "misure per la trasparenza e la controllabilità della spesa", entra nel cruciale e delicato tema del controllo parlamentare. Ora lo svolgimento dei criteri direttivi della delega per l'armonizzazione dei conti ed il coordinamento della finanza pubblica avviene secondo un percorso binario: l'art. 2 reca infatti una prima delega per l'adeguamento dei sistemi contabili di tutte le amministrazioni pubbliche, ad esclusione delle Regioni e degli Enti locali; e viene formulato un catalogo di sei principi e criteri direttivi: a) regole contabili uniformi ed un comune piano dei conti integrato, al fine di consolidare e monitorare gli stessi in fase di previsione, gestione e rendicontazione; b) definizione di una tassonomia per la riclassificazione dei dati contabili per le amministrazioni tenute al regime di contabilità civilistica; adozione di comuni schemi di bilancio articolati in missini e programmi; affiancarnento, a fini conoscitivi, al sistema di contabilità finanziaria, di un sistema di contabilità economico patrimoniale; e) adozione di un bilancio che consolidi i conti delle aziende e delle partecipate; f) predisposizione di un sistema di indicatori di risultato. Gli stessi criteri, con alcune aggiunte, sono versati poi con una novella entro lo schema della delega prevista dall'art. 2 della legge n. 42 del 2009 sull'attuazione del federalismo fiscale; l'aggiunta più importante riguarda il criterio della raccordabilità dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni e degli Enti locali con quelli adottati in ambito europeo ai fini della procedura per i disavanzi eccessivi; i criteri della prima delega, relativa al sistema delle pubbliche amministrazioni, saranno articolati e resi tecnicamente agibili dal lavoro di un apposito comitato che agirà in raccordo con la Commissione tecnica paritetica per il federalismo fiscale, di cui all'art. 4 della legge n. 42 del 2009, cui è rimessa la declinazione degli stessi criteri in quanto applicati all'area delle Regioni e degli Enti locali. Induce a riflettere la circostanza che praticamente gli stessi principi e criteri direttivi possano operare, in modo equivalente, sia per l'area delle amministrazioni pubbliche, che non rientrano nell'ambito di applicazione del Titolo V Cost., sia per le Regioni e per gli Enti locali, enti dotati di poteri fiscali, poteri che per le Regioni vengono da alcuni studiosi ricostruiti come attribuiti a titolo originario, senza la mediazione di alcuna funzione legislativa statale.
La differenza nella loro operatività è rimessa alla diversa composizione e valenza istituzionale dei due organismi collegiali che dovranno poi declinare in concreto i principi e criteri direttivi della delega. Appare piuttosto evidente che chi ha scritto la norma ritiene che il coordinamento e l'armonizzazione dei conti pubblici sia operazione da condurre con finalità e tecniche sostanzialmente analoghe nei due insiemi considerati. E' molto dubbio che sia così se il cd. federalismo non è la riedizione del precedente assetto regionale. Il percorso è comunque molto complesso; i criteri tradiscono l'idea di un controllo stretto dei conti, ex ante ed ex post, dal centro, cosa in sé non irragionevole, vista la situazione della finanza pubblica italiana; tuttavia si tratterà di capire come questi criteri verranno in concreto declinati entro una cornice costituzionale che comunque disciplina poteri di prelievo fiscale e di spesa come due poli che danno corpo ad un unico assetto ordinamentale che intende riconoscere contestualmente competenze legislative materiali e autonomie fiscali. E il bilancio è uno strumento essenziale di programmazione finanziaria e di governo del potere regionale e locale; non è ovvio, ad esempio, che cosa sia un piano integrato dei conti dello Stato, delle Regioni, e del sistema degli Enti locali; se l'integrazione deve avere un valore solo conoscitivo, come si suppone, perché non ci si è limitati a parlare di piena confrontabilità e possibilità di consolidare i conti, ai fini dei criteri di convergenza europea? L'uso del termine "integrazione" riferito alla possibilità di costruire un piano (appunto integrato) dei conti sembra voglia riferirsi ad un esercizio previsionale dove la struttura dei conti deve essere spinta ad un tale livello di omogeneità da permettere la loro piena integrazione; ad un primo esame, una tale prospettiva sembra andare ben al di là di quel coordinamento ed armonizzazione dei conti che deve consentire di creare strumenti condivisi di controllo degli andamenti a fini di convergenza europea. Ora il punto sostanziale del coordinamento sta nella possibilità di mettere in campo misure che "governano-contengono" possibili sconfinamenti dai vincoli di convergenza europea; questa possibilità viene resa concreta attraverso le misure che declinano il Patto di stabilità interna, da collocare nella legge finanziaria che ora prende il nome di legge di stabilità, riprendendo la fortunata nomenclatura della legge finanziaria del 1998 che ci portò nella UE. Ma il limite del rispetto dell'indebitamento netto assume ora anche la valenza formale di un criterio di compensazione da associare a tutte le innovazioni legislative, entro lo stesso set di dati e analisi che concretizzano la quantificazione degli effetti delle norme e la loro copertura. Chi scrive ha subito espresso forti dubbi sulla trasformazione di un criterio di controllo-monitoraggio economico (il limite ex post dell'indebitamento netto della PA) in un precetto normativo di copertura ex ante; replicando la
tecnica e la strumentazione dell'art. 81 , IV comma, Cost. Si veda al riguardo l'art. 17 (Copertura finanziaria delle leggi), comma 3, che ha inteso formalizzare una prassi degli ultimi anni. Tuttavia, ammesso che questa operazione (fortemente voluta dalla RGs e lodata dalla Corte dei conti) abbia un senso ed una efficacia, è del tutto evidente che se l'applicazione di questo limite opera immediatamente nelle procedure di formazione delle leggi e se il suo presidio tecnico è rimesso (come è avvenuto fin qui) alle valutazioni del Governo centrale (leggi RGs), non è chiaro quale debba essere poi la funzione tecnico istituzionale dei due comitati evocati dall'art. 2 chiamati a definire regole contabili uniformi tali da rendere raccordabili i sistemi contabili delle Regioni e degli Enti locali con quelli dello Stato e della PA, ai fini proprio del rispetto dei criteri europei di convergenza. Se nella formulazione delle clausole di copertura e di compensazione (agli effetti dell'indebitamento netto della PA) i dati, i metodi e, si suppone, le regole contabili, sono già nel dominio diretto della RGs, che è il sacerdote della costruzione dei conti tendenziali della PA, che senso ha poi riproporre la stessa materia come oggetto di criteri di delegazione legislativa da concertare nel contenitore di comitati interistituzionali? In particolare, se è vero che i criteri di consolidamento statistico a fini europei sono una questione di analisi economica delle transazioni di bilancio, forse era più opportuno affidare la predisposizione della base tecnica di questo lavoro direttamente all'IsTAT e poi su questa base prevedere una fase di convergenza-concertazione istituzionale. La strutturazione del controllo parlamentare resta invece (dopo una formulazione più incisiva proposta dal Senato, in prima lettura), interamente affidata all'autonomia organizzativa delle Camere. Le esperienze fatte nei venti anni di operatività dei Servizi bilancio "separati" delle due Camere fanno intendere che è prevalsa una visione che tende a replicare i percorsi valutativi , ex ante , della RGs senza alcuna potenziale prospettiva di mettere in discussione queste e prassi. L'esame dei primi due titoli della legge apre più questioni e cantieri di lavoro di quante ne voglia risolvere e soprattutto descrive un metodo di lavoro dove in effetti sembra prevalere l'idea che tutto il processo di armonizzazione dei conti sarà diretto e guidato dallo Stato centrale: leggi RGs. Ci sembra una prospettiva in perfetta continuità con i primi trenta anni di applicazione della precedente legge cornice. 70
TIPIcITÀ E SPECIALITÀ DEI DOCUMENTI DI BILANCIO E DELLE RELATIVE PROCEDURE DI ATFIVAZIONE
Nelle democrazie a base parlamentare, quale che sia l'assetto nella distribuzione dei poteri tra Governo ed assemblee elettive, le procedure di preparazione, esame e approvazione dei documenti che sintetizzano l'attività di prelievo coattivo e di spesa del Governo presentano una ricorrente specialità e tipicità; elementi questi che riflettono la tipicità e la specialità della funzione che sono chiamati ad assolvere questi documenti. Ci sono robuste ragioni storiche che spiegano la nascita e l'evoluzione dei parlamenti nel mondo occidentale con le dinamiche legate in buona sòstanza al controllo del prelievo e della spesa; è molto vicino alla realtà affermare che la qualità di una democrazia si connota attraverso i poteri di cui le Camere rappresentative dispongono nel decidere e controllare l'allocazione di questi flussi; da chi si preleva e per che cosa si spende. Metodi e tecniche del controllo parlamentare coincidono con la struttura e le informazioni che questi documenti contengono: la tipicità di questi strumenti è funzione della effettività del controllo parlamentare. E' questa, ad avviso di chi scrive, la chiave attuale di lettura dello statuto dell'art. 81 Cost.; né ha molto senso svolgere critiche retrospettive in ordine ad una soluzione costituzionale che, seppure datata, ha mostrato grande capacità di adattamento agli sviluppi del sistema reale dei rapporti politici ed economici. Coglie nel segno quella linea di riflessione che individua nella tipicità del contenuto della strumentazione dei documenti di bilancio e nelle relative procedure un profilo coessenziale a tutte le esperienze storiche di democrazia rappresentativa. L'art. 81 Cost. nei suoi quattro commi, ha definito una cornice per fissare i limiti di questa tipicità degli strumenti che compongono la decisione di bilancio; ma si tratta di un profilo che al di là della storicità e della contingenza della soluzione del costituente italiano, frutto di un evidente compromesso, coglie comunque un tratto permanente di tutte le democrazie rappresentative; infatti, anche quelle che non conoscono limiti formali alla decisione di bilancio, operano entro assetti istituzionali che imprimono comunque un certo grado di stabilità, tipicità e specialità alla forma e al contenuto dei documenti e alla relativa procedura di esame. Non è certo casuale se la stessa vicenda si ripropone anche per il bilancio della Unione Europea e mostra una salutare tensione dialettica tra Parlamento europeo e Commissione. Vi sono quindi robuste ragioni strutturali che spiegano perché i documenti di bilancio devono recare in sé questi tratti di tipicità e stabilità che sono poi, come diremo, un profilo di quella che oggi si chiama accountabiity e trasparenza nell'azione dei pubblici poteri. 71
La Cost., con la formula del primo comma dell'art. 81 Cost., non cristallizza, né impone una determinata forma tecnico giuridica di bilancio: è l'evoluzione dei tratti e dei modi con cui vengono finanziate ed erogate le funzioni e i servizi che connotano la cittadinanza repubblicana che in concreto determina l'articolazione e la morfologia dei bilanci pubblici in generale e di quello dello Stato in particolare. Tuttavia, l'art. 81 Cost., sulla base della tradizione delle democrazie liberali, determina alcuni limiti entro cui comunque va svolta questa articolazione e questa struttura: criteri che devono essere ricostruiti sulla base del sistema complessivo delle disposizioni che regolano la materia. E questi limiti mantengono una loro attualità politico istituzionale anche e soprattutto in una fase in cui è necessario ripensare forme e metodi del coordinamento dei bilanci pubblici in un sistema a intensa autonomia fiscale. La questione cruciale dell'art. 81 Cost. riletto nelle vicende del presente, non è quella della formalizzazione esasperata, in forme para giudiziali, del controllo e della parificazione contabile, ma quella della individuazione di forme e tecniche che assicurino un ragionevole grado di controllo-coordinamento nelle dinamiche interne degli istituti di spesa e nella loro espressione finanziaria e contabile. Ad esempio, scoprire dopo dieci anni un buco contabile è come raccontare una storia che non ha più senso; spiegare le dinamiche reali degli istituiti di spesa è invece cosa utile per le Camere e per i cittadini che votano.
LA QUESTIONE DELLA CONTROLLABILITÀ DELLA SPESA PUBBLICA
L'apparato giuridico (formazione, decisione e controllo) che regola i conti pubblici deve essere funzionale alla soluzione di tre questioni di fondo; l'allocazione delle risorse; il livello generale della spesa e del prelievo; la possibilità di controllare la dinamica marginale di entrate e spese. Ciò che impensierisce di più gli operatori finanziari ed è cruciale nella valutazione del merito del debito pubblico di un Paese non è tanto il livello della spesa (le performance dei sistemi del nord Europa, della Francia e della Germania lo dimostrano ampiamente) quanto la mancanza di controllo sulle sue dinamiche interne: un sistema che non controlla la spesa è un debitore rischioso e fargli credito costa sempre più caro, soprattutto in un mercato globale. In breve, questa è la ragione per cui l'ingresso nell'Unione monetaria europea dell'Italia, con l'accettazione nellrdinamento e poi nei risultati dei vincoli sull'inflazione, sul livello dell'indebitamento netto della PA e sul divieto di finanziamento del fabbisogno del settore statale con creazione di base monetaria, è probabilmente la più rilevante azione di politica economica condotta dall'Italia nel secondo dopoguerra, dopo la stabilizzazione dei cambi e della moneta. L. Einaudi e C.A. Ciampi; le idee di cui sono stati portatori e le forze politiche che li hanno sostenuti, sono gli artefici di questi processi. Si tratta di due 72
eminenti espressioni della teoria e della prassi liberai democratica, molto attente alle condizioni storico reali del proprio Paese, aliene da ogni dogmatismo. Le ragioni della non controllabilità della spesa sono riconducibili a fattori tecnici e politici. Le ragioni politiche erano state già messe a fuoco con chiarezza dalla scuola italiana di finanza pubblica alla fine dell'800. Antonio de Viti de Marco, con riferimento all'Italia del 1890 (regime di suffragio per censo e solo maschile e collegi uninominali) osservava che: "i parlamenti sono in grandissimo numero di questioni rappresentanze di interessi particolari - di classi o di regioni e in questi casi la maggioranza si forma attraverso accordi o reciproche concessioni, in modo che il risultato finale non coincide con l'interesse generale del Paese... Ciascuno tanto più energicamente lotta per ottenere un porto, una strada, una stazione ... quanto più è convinto che il costo sarà sopportato da tutto intero il Paese" (L'industria dei telefoni e l'esercizio di Stato, in "Giornale degli economisti", settembre 1890, pag. 305-306).Tutta la teoria anglosassone sulle scelte pubbliche non ha fatto che attualizzare le analisi della scuola italiana di finanza pubblica; tuttavia, le assunzioni più interessanti degli studiosi di bilancio pubblico del secondo dopoguerra in realtà, ad avviso di chi scrive, convergono nell'indicare che i processi di scambio opaco, con i costi posti a carico della collettività, attraverso l'inflazione o il debito, possono essere assai più perversi in regimi politici che accentrano il potere nel solo Governo, senza contrappesi o controlli; la lotta che si svolge in Parlamento, alla luce del sole tra gruppi di interesse, si svolge esattamente dentro il Governo, in modo opaco e al riparo da ogni controllo. La tesi del dominio del Governo nel processo di bilancio è semplicemente banale. Il nodo'cruciale di ogni democrazia parlamentare sta nell'individuare un punto di equilibrio trasparente tra le prerogative del Governo che deve essere messo nella condizione di attuare le sue politiche e quelle del Parlamento, che deve avere sufficienti poteri di decisione e di controllo, reali non puramente nominali. Ma tutto ciò è possibile solo se i bilanci pubblici offrono una ricostruzione chiara e attendibile dei flussi finanziari che intermediano, della loro allocazione e delle tendenze.
LA SITUAZIONE ITALIANA In Italia, al di là dei nodi politici di una democrazia a lungo bloccata, hanno influito negativamente anche i miti e i vizi di una cultura contabile e del controllo giuridico formale, innestati su una lettura di comodo e fortemente auto referente dei limiti posti dall'art. 81 Cost. Ancora oggi si imputano a questo articolo responsabilità che non ha dal momento che in questi sessanta anni di vita repubblicana è stato possibile fare tutto e il contrario di tutto, ora a dispetto ora in coerenza con le sue disposizioni. 73
Comunque tutti gli analisti obiettivi riconoscono che la svolta del 1978 e soprattutto la novella del 1988 (con le innovazioni recate alla legge n. 468 del 1978 dalla n. 362 del 1988, e le connesse modifiche ai regolamenti parlamentari), i vincoli posti al nostro Paese dall'adesione al Patto di Maastricht e il consolidarsi di un sistema politico maggioritario, hanno già da tempo creato le sinergie e le condizioni di contesto che hanno consentito di riportare la finanza pubblica italiana su un sentiero di maggior controllo. Tuttavia, come ci ammoniscono tutti gli organismi economici internazionali, i nostri conti pubblici e il nostro processo di bilancio rimangono tra i più opachi. E ciò, come diremo, è da addebitare a ragioni prevalentemente tecniche, spesso tuttavia utilizzate o non contrastate dalla politica. Il punto sta nel capire perché, nonostante gli indubbi progressi, non abbiamo raggiunto, dopo un periodo così lungo, un equilibrio nell'assetto delle istituzioni di bilancio di cui possiamo dirci ragionevolmente soddisfatti, anche in quanto intimamente condiviso dagli attori politici in campo (Governo, Parlamento, maggioranza e opposizione). La ragione di fondo, ma non è questa la sede per analizzarla compiutamente, risiede probabilmente nella lunga e ancora non conclusa transizione del sistema politico italiano verso un assetto bipolare stabile, trasparente e condiviso. La democrazia del bilancio (cfr. Manin Carabba, Programmazione, ad vocem, in Digesto, IV ed., Pubblico, vol. XII, Torino, Utet) è uno dei luoghi cruciali per condividere e far vivere in concreto un'idea ed una prassi di democrazia che decide. Tuttavia, e questo è il nodo su cui svolgeremo qualche riflessione aggiuntiva, se non si chiariscono alcuni nessi tecnici la politica italiana rimarrà ancora a lungo impigliata nelle spire di una cattiva prassi burocratica e di un pessima cultura del controllo contabile, anche a livello contenzioso. Cultura che si è sempre trincerata dietro lo schermo della distinzione tra tecnica e politica, ma che poi ha usato una cattiva tecnica per mummificare la spesa e deresponsabilizzare la dirigenza. Non è casuale se le innovazioni più corpose di questo trentennio non sono mai venute da spinte delle burocrazie tecniche e degli organi di controllo, interno o esterno, ma dalla politica, in quanto pressata dai nodi del presente e dalle analisi degli studiosi. E di un certo rilievo sottolineare la scarsa capacità di proporre innovazioni adeguate da parte della macchina burocratica italiana; è come se questa macchina fosse incapace di riflettere su se stessa e di produrre auto riforme adeguate alle sfide dei tempi. Nel campo del controllo finanziario si tratta di un fenomeno da approfondire e che forse spiega una parte dei ritardi della situazione italiana. La legge finanziaria è figlia della stagione della programmazione economica "mancata" e poi della-brevestagionedella-"solidarietà-nazionale;.i-vincoli più 74
stretti e meglio definiti sulla copertura della legge finanziaria e delle leggi di spesa, sono il frutto della prima revisione della legge n. 468, dovuta alla spinta innovativa dell'allora presidente della Commissione bilancio del Senato, B. Andreatta, ed alla convergenza politica larga che intendeva favorire una uscita dal tunnel della democrazia bloccata; la nuova struttura del bilancio nasce con C.A. Ciampi (legge n. 94 del 1997) in un clima di grande fiducia verso la possibilità di stabilizzare le nostre istituzioni del bilancio nel momento in cui si era entrati nell'Unione monetaria europea col gruppo dei Paesi fondatori; l'introduzione delle missioni e dei programmi si deve aT Padoa Schioppa, (2007) insieme all'idea di una r'evisione dinamica dell'efficacia e dei meriti relativi delle diverse linee di spesa pubblica. Vi è un chiaro filo culturale che unisce queste vicende. In questo contesto tecnico, sempre osteggiato dalla burocrazia finanziaria, (e poi solo retoricamente celebrato, a cose fatte), il prevalere del sistema maggioritario ha messo nelle mani del Governo di turno potenti elementi di torsione e forzatura dei rapporti di potere col Parlamento, attraverso l'uso crescente e massiccio della decretazione di urgenza, il ricorso alla fiducia, spesso accompagnata dal deposito da parte del Governo di un maxi emendamento che chiude la discussione. Sarebbe molto facile dimostrare che i'uso di queste prassi distorsive cresce coi governi di centro destra, a dispetto delle robuste maggioranze di cui essi hanno beneficiato. Tuttavia, è indubbio che il sistema, pur nella sostanza sotto il controllo della maggioranza di turno, deve trovare un equilibrio più efficace e trasparente. La tesi di cui siamo convinti da tempo è la seguente: quanto più gli strumenti di bilancio in senso tecnico (bilancio e finanziaria) assumono una configurazione stabile, trasparente e tipizzata, tanto più è possibile razionalizzare e governare il percorso emendativo in Parlamento, eliminando aspetti che sono in realtà più di colore che di sostanza; già almeno dal 1996, i governi del maggioritario hanno realizzato in Parlamento esattamente le politiche di finanza pubblica che intendevano attuare, in coerenza col possibile punto di sintesi delle maggioranze di cui erano espressione. La questione cruciale non è quella della critica di un assetto di codecisione tra Governo e Parlamento o della emendabilità dei testi, questioni di fatto già superate. Attardarsi su questi temi è una posizione scientificamente fuori tema e fuori tempo e politicamente fuori campo. Il maggioritario, seppure sbilenco e senza contrappesi come quello installatosi in Italia, di fatto ha nettamente spostato il baricentro del potere verso il governo di turno; il punto cruciale di una rilettura dell'art. 81 Cost. aderente ai nodi del presente dovrebbe concentrarsi sulla struttura dei documenti e sulla strumentazione tecnica che consenta alle Camere di comprendere e quindi cercare di controllare l'allocazione e la gestione delle risorse. La retorica delle 75
Camere che controllano è un puro schermo per giustificare lbpacità e la discrezionalità delle scelte finanziarie del Governo, in carenza di una riflessione adeguata e di una strumentazione conseguente; ed il primo strumento per controllare è la struttura dei documenti di bilancio e la piena padronanza delle loro tecnicalità e della loro articolazione. Né il bilancio, né la tesoreria possono creare risorse che non ci sono: ma un buon bilancio può mostrare quali sono le politiche e le vere priorità incorporate nei conti pubblici in una ottica di medio termine. Il senso della tipicità dei contenuti della LB, come reinterpretata sulla base di una lettura aggiornata dell'art. 81 Cost. , sta nell'adozione di criteri di struttura e di classificazione delle entrate e delle spese che mostrino i cambi di priorità al margine possibili sulla base dell'esercizio dei poteri di cui il Governo e il sistema della PA già dispone. Ma disporre di un potere legalmente intestato alla PA non significa non poterlo esercitare, anche attraverso un processo di integrazione normativa che consenta la sua manutenzione e gestione appropriata. La tipicità della LB può essere letta con i seguenti criteri: - la struttura del bilancio deve rendere possibile la comprensione piena dei cambi nelle priorità e quindi nelle politiche, incorporati nelle grandezze finanziarie; - le riallocazioni al margine delle risorse devono poter essere realizzate dal Governo utilizzando i poteri che la legge già in atto gli intesta quando forma la LB; secondo questo schema la legge sostanziale può ben delegare alla LB margini di variazione (nelle aliquote delle entrate e nelle modulazioni di spesa), nel contesto di un equilibrio ben controllato e controllabile nelle sue componenti interne. La novità dell'entrata e della spesa può essere letta come un limite che impedisce di attribuire direttamente nella LB poteri inediti di prelievo obbligatorio (tasse, imposte e contributi) e nuovi istituti di spesa; dove il novum sta nella stessa esistenza del potere (e dei suoi presupposti oggettivi e soggettivi). Quella del terzo comma dell'art. 81 Cost. può essere letta come una riserva di legge relativa specializzata e rinforzata: dove l'elemento di specializzazione sta nella funzione sostanziale della LB. Nella funzione cioè che assegna a questo strumento la ricostruibiità delle modalità con cui l'esercizio del potere è stato dimensionato finanziariamente sulla base dellrdinamento giuridico in vigore. La tecnica con cui il bilancio presenta le sue partizioni interne e i suoi meccanismi di elasticità, attraverso i fondi di riserva e la riallocazione dentro gli involucri che delimitano le scelte politiche, è cruciale. Ma è ancora più essenziale che questa struttura consenta al Governo e al Parlamento sia la lettura che il controllo della evoluzione dei conti. Passare da in bilancio per capitoli 76
ad un bilancio per missioni e programmi esprime un nuovo limite della specializzazione del bilancio di previsione, ma questa specializzazione deve in ogni caso permettere alle Camere di conoscere e influire sulle politiche rappresentate nelle missioni e soprattutto nei programmi. In questo contesto costituzionale, la scelta di collocare fuori della LB, ma dentro un contenitore ellitticamente denominato "sessione di bilancio", l'innovazione normativa necessaria per attuare percorsi di correzione-riforma di determinati istituti della finanza pubblica, va spiegata con la necessità di sbloccare un assetto dei procedimenti legislativi che a lungo ha solo rimesso alla decretazione d'urgenza l'operatività di un canale decisionale predeterminato nei tempi di votazione. La vicenda storico evolutiva della legge finanziaria si spiega dunque a nostro avviso con ragioni prevalentemente politico istituzionali, piuttosto che con ragioni dogmatiche legate ai limiti dell'art. 81 Cost. Per correggere andamenti indesiderati di finanza pubblica occorre comunque intervenire sugli apparati normativi che disciplinano gli istituti sostanziali di entrata e di spesa; spostare questi interventi su uno strumento al servizio del bilancio ed attrarlo dentro la sessione (tempi e metodi) è stato un modo per sbloccare e fluidificare un percorso legislativo orientato e schiacciato sulla sola decretazione d'urgenza. Tuttavia questo percorso, peraltro con l'avallo della Corte costituzionale, di fatto ha schiacciato il principio di specializzazione delle fonti che regola la materia, rendendo opaca la funzione di tale specializzazione. La tesi del ritorno all'unificazione in un unico strumento legislativo sia del quantum di innovazione e integrazione normativa compatibile con una lettura evolutiva dell'art. 81 Cost., sia degli stati di previsione di un bilancio riorganizzato per missioni e programmi, è stata avanzata da chi scrive fin dal 1993 (cfr. P. De loanna, Parlamento e spesa pubblica, op. cit.); e poi riproposta in un seminario interno, svoltosi presso un Gruppo parlamentare (paper, 2002, "Verso una nuova forma per la decisione di bilancio"), con la elaborazione anche di un articolato che interveniva novellistivamente sulla legge di contabilità introducendo una nuova legge di finanza, distinta in due sezioni, idonee a riflettere le due funzioni prima indicate. Ma la proposta fu ritenuta troppo tecnica, mentre i temi da affrontare con urgenza sembravano altri. Una delle debolezze più vistose del pensiero cd. riformista si situa proprio in una certa poca dimestichezza con i nodi e problemi della macchina burocratica e delle strutture di gestione e controllo finanziario. Quando si è messo mano a questa macchina lo si è fatto utilizzando saperi e specialismi tutti interni a questa logica strettamente giuridica (cfr. P. De loanna, 2001, Riforma del bilancio e riforma della PA, in "Le nuove regole del bilancio statale", a cura di M. Luisa Bassi, F. Angeli, Milano). La lotta all'evasione assume un rilievo politico in tanto e in quanto si lega ad una chiara riallocazione al margine delle risorse su poche e precise priorità; e per condurre tale operazione occorre avere 77
una padronanza della strumentazione di bilancio e promuovere percorsi di riforma consapevoli dei nodi organizzativi, culturali e gestionali. I percorsi fin qui svolti sono stati tutti molto condizionati da quella stessa cultura del controllo contabile che occorrerebbe invece superare, mostrando ai cittadini e agli stessi operatori pubblici i vantaggi di una linea di profondo ammodernamento del settore pubblico, condotta non per ridurne ideologicamente il perimetro, ma per incrementarne l'apporto netto alla formazione della ricchezza del Paese. Sappiamo che le istituzioni pensano: la loro capacità di esprimere innovazione è un fattore cruciale per concorrere con possibilità di successo in un mondo globalizzato. Se esse tendono solo ad auto riprodursi e non sanno adeguare la complessità dei compiti di cui sono investite corrono vari rischi: o aprono il campo a processi di privatizzazione talvolta inutili o dannosi per la funzionalità del sistema o si arroccano dietro una fraseologia innovativa, ma in realtà continuano a lavorare dentro i metodi e gli schemi di cui pensano di essere gli unici portatori. L'involuzione della contabilità pubblica italiana è simile a tutti i processi di formalizzazione scolastica di saperi in crisi. Ed è interessante osservare che proprio nella fase storica nella quale in apparenza si sostiene l'utilità (o secondo i più recenti "esteti" di questa prospettiva) la necessità di una evoluzione in senso federalista, fondata sull'autonomia spinta delle differenze fiscali delle Regioni, la burocrazia tecnica dello Stato rilancia gli stessi metodi e le stesse tecniche di controllo, incapace di cogliere questo momento per una riflessione seria sulle innovazioni che sarebbe invece necessario introdurre nella gestione della dirigenza e nel controllo; e non per esigenze solo di autonomia fiscale, ma per l'intrinseca obsolescenza di istituti di controllo che alla prova storica hanno fallito nella loro funzione istituzionale.
NOMENCLATURA DELLE SPESE E POTERI DI BILANCIO
Per attualizzare la nostra riflessione esamineremo la legge di riforma con specifica attenzione alle disposizioni che intendono riorganizzare e meglio precisare la struttura classificatoria del bilancio, offrendo, per la prima volta, una spiegazione della nomenclatura contabile che la RGS utilizza nella formazione e gestione (anche informatica) dei conti. La nuova classificazione è tutta centrata sui programmi di spesa, già introdotti nel bilancio 2008, operando sul quadro normativo in vigore. Negli interventi di correzione dei conti effettuate dal Governo in questa Legislatura attraverso decreti legge, questo livello di rappresentazione della spesa per programmi è stato largamente utilizzato, prima per introdurre robuste correzioni di cassa e competenza, su base annuale e triennale, e poi per operare integrazioni e aggiustamenti. W.
Nel testo in esame si chiarisce che il programma è ora il nuovo livello dove si situa il voto delle Camere (unità di voto), in sostituzione delle unità di base, introdotte nel 1997 con la legge n. 94.11 programma è presentato come un aggregato diretto al perseguimento degli obiettivi definiti nell'ambito delle missioni; e le missioni rappresentano le funzioni principali e gli obiettivi strategici perseguiti con la spesa. I capitoli restano come unità per la gestione ed il controllo. Si tratta di definizioni che non spiegano niente se non sono raffrontate con il concreto uso che di esse intende fare il Governo. E l'unico luogo dove questa operazione può e deve assumere il significato che è proprio della funzione autorizzatoria del bilancio di previsione sono le Camere. Ma questa operazione viene subito delimitata con i vincoli del "manufatto" programma così come elaborato fin qui dalla RGs; la realizzazione del pro-. gramma è infatti affidata ad un unico centro di responsabilità e tale centro deve corrispondere all'unità organizzativa di primo livello dei ministeri, ai sensi dell'art. 3 del decreto legislativo n. 300 del 1999; non solo: si aggiunge che i programmi sono univocamente raccordati con la nomenclatura COFOG di secondo livello e che nei casi in cui ciò non accada "perché il programma corrisponde in parte a due o più funzioni COFOG di secondo livello, deve essere indicata la relativa percentuale di attribuzione da calcolare sulla base dell'ammontare presunto dei capitoli di diversa finalizzazione ricompresi nel programma" (art. 21, comma 2). Perché in una legge cornice che deve impostare le linee di un lavoro che dovrebbe coniugare riforma del bilancio e responsabilità della dirigenza, centrale e periferica, dello Stato si definisce un livello così minuto di vincoli e limiti che meglio potrebbero essere rinviati ad una fase normativa successiva: norme delegate e norme regolamentari? La risposta si rinviene forse nell'esame delle disposizioni successive. All'interno del programma viene introdotta per la prima volta la categoria delle spese rimodulabili e non rimodulabili. I parametri per definire il tratto della non rimodulabilità vengono indicati nella circostanza (evidentemente di natura giuridico interpretativa) che la PA non avrebbe la possibilità di esercitare un controllo effettivo ai fini della formazione, allocazione e quantificazione di queste spese. Dunque per dare un significato a questa nuova nomenclatura occorrerebbe: a) capire quando e perché il controllo è effettivo e chi deve certificare questa situazione di non controllo; b) dove si situa il meccanismo giuridico che determina la formazione, l'allocazione e la quantificazione di una spesa per la quale la PA avrebbe, se si comprende il senso della disposizione, una mera funzione notarile. Tuttavia, proseguendo nell'esame del testo si scopre che le spese non rimodulabili corrispondono alle spese già definite nei documenti contabili come oneri inderogabili. Poi, come in un gioco di scatole cinesi, si spiega (per la 79
prima volta in un testo di legge) che per oneri inderogabili si intendono le spese vincolate a particolari meccanismi o parametri che regolano la loro evoluzione; si aggiunge, con grande "finezza tecnica" che tali parametri possono essere determinati da leggi o da altri atti normativi. Ma non finisce qui: si aggiunge che rientrano tra gli oneri inderogabili le cd. spese obbligatorie, corrispondenti ad oneri indeclinabili ed indilazionabili e relativi ad una serie espressa di finalità: stipendi, assegni, pensioni ed altre spese fisse, interessi passivi, obblighi comunitari ed internazionali, ammortamenti di mutui. Infine si precisa che sono comunque spese obbligatorie anche quelle residuali, così identificate per espressa disposizione normativa. Poi si passa alle spese rimodulabili; si chiarisce che esse si ridividono in fattori legislativi e adeguamento del fabbisogno; i fattori legislativi possono essere rimodulati direttamente col ddl di bilancio, all'interno di ogni programma di spesa. Ci troviamo di fronte ad una disposizione che è l'autobiografia del pasticcio contabile che ha fin qui permeato le nostre procedure di spesa. Negli estensori del testo vi è la convinzione che l'area delle spese non rimodulabii debba coincidere con quella della non emendabilità dei testi normativi nel corso della discussione del bilancio. Infatti, l'art. 23 (Formazione del bilancio), comma 3, stabilisce che il progetto di bilancio possa prevedere variazioni compensative tra le dotazioni finanziarie di programmi di una stessa missione, ad eccezione delle spese non rimodulabili e con il doppio vincolo della compensatività a livello di missione e del non utilizzo di fondi per interventi in conto capitale verso la spesa corrente. Si tratta di una previsione molto innovativa che, come diremo, potrebbe aprire la via ad un bilancio di sola cassa secondo un criterio di delega che viene solo timidamente avanzato Dunque, le Camere in sede di bilancio possono esercitare i propri poteri di emendamento esattamente sulla stessa area finanziaria descritta nel comma 3 citato, nella quale.il Governo rimodula le spese in via compensativa. Basta battezzare una norma, o in via interpretativa (ed una funzione che si auto intesta la RGs) o in via di espressa decisione legislativa, come obbligatoria, per sottrarre tale volano di spesa ad ogni emendamento in Parlamento. Dunque si intravede una situazione nella quale la maggioranza di turno può decidere direttamente (quando vara una nuova legge) o attraverso gli uffici (quando presenta il bilancio) quale debba essere l'estensione del potere di emendamento delle Camere in sede di esame del bilancio di previsione dello Stato. Si tratta di una soluzione che implica una penetrante valenza ordinamentale che potrebbe certamente essere foriera di sviluppi importanti se svolta in un rapporto di collaborazione trasparente e di comprensione della struttura interna dei programmi. In ogni caso sarebbe necessario mettere a fuoco all'interno di ciascun programma la struttura normativa che regola la dinamica della spesa: si tratta del
tratto di maggior delicatezza nel rapporto tra chi controlla e decide (le Camere) e chi forma e gestisce i bilanci. E se anche le Camere, auspicabilmente non a stretta maggioranza, si convincessero che è opportuno astenersi da ogni attività emendativa in sessione di bilancio (situazione peraltro del tutta medita nel panorama delle democrazie rappresentative, contrariamente alla vulgata che viene spiegata ad ogni piè sospinto dalla stampa di informazione), in ogni caso, la trasparenza e la chiarezza concettuale e giuridica della struttura dei programmi rimane una pre condizione tecnica per esercitare quella funzione di controllo e indirizzo a cui fanno continuamente riferimento i sostenitori di un Parlamento senza poteri di spesa. Dal testo sembra emergere che esistono volani di spesa automatici ed incontrollabili (si suppone voluti dalla cattiva politica), che devono essere applicati dalla PA in modo notarile e avalutativo. E' un testo che esprime assai bene l'idea del controllo della spesa che hanno la Corte dei conti e la RGs; l'area del controllo coincide con una ricostruzione delle posizioni giuridiche dei soggetti interessati alle erogazioni; una volta definita la spesa come automatica, in virtù della sua connotazione e classificazione contabile (non modulabile) cessa la funzione del controllore (che dovrebbe esprimere e agire nell'area della tecnica) e tutto quello che spinge la dinamica tendenziale dei conti è in ultima analisi imputabile alla politica; o meglio alla forza di tendenze incorporate nei conti e costruite sulla base delle scelte politiche, come tradotte in formule giuridiche. La possibilità di governare i conti sulla base di un più ampio ricorso alle responsabilità e alle scelte del dirigente responsabile della spesa, attingendo ad una più approfondita conoscenza delle dinamiche interne e dei meccanismi reali di funzionamento dei programmi, ferma restando la legislazione in vigore, non si dà, anzi è vista con grande imbarazzo; o meglio deve essere consacrata in formule giuridico contabili che consentano di operare tagli di bilancio che devono sempre avere una loro quantificazione diretta nella norma, in quanto frutto ancora della politica e tali da produrre effetti contabilmente rilevabili. In altri termini ancora, la tecnica normativa dei tagli proposti dalla burocrazia contabile, per definizione non utilizza mai formule che in cambio di responsabilità e flessibilità gestionale e di innovazioni organizzative chiedono al dirigente di meglio controllare e/o ridurre la spesa. Tali riduzioni, soprattutto nell'area dei consumi intermedi, non possono essere contabilizzate se non sono accompagnate da formule normative che modifichino qualche istituto. E di un certo interesse segnalare che fino alla elaborazione del testo che stiamo esaminando, in nessuna fonte normativa (primaria o secondaria) si rinviene una spiegazione diretta della nomenclatura della spesa iscritta in bilancio, di cui viene fatto continuo uso nei documenti di preparazione, formazione e
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approvazione del ciclo di bilancio. E che viene acriticamente recepita nei documenti parlamentari che commentano le proposte del Governo. Eppure è su questa nomenclatura che è costruito tutto il sistema di controllo (anche informatico) della RGs, sistema condiviso dalla Corte dei conti. Si tratta di una nomenclatura tutta apparentemente fondata su una analisi fine, di natura giuridica, degli effetti che le norme generano sulle posizioni soggettive, pubbliche e private; ma in questo contesto, ogni norma di ogni programma di spesa dovrebbe essere oggetto di una analisi molto rigorosa e approfondita: si tratta di circoscrivere l'area dei poteri di bilancio del Governo e della sua macchina amministrativa e specularmente quella del controllo e della decisione parlamentare. Il vecchio nomenclatore del bilancio (per capitoli e per atti normativi organizzati cronologicamente) è oggi uno strumento del tutto obsoleto nella tecnica del confronto parlamentare; eppure è il master plan, la mappa della struttura normativa dei poteri di bilancio e quindi la fonte della nomenclatura che viene poi proposta come un vestito che delimita i poteri dei soggetti che partecipano al ciclo della spesa. Quindi, invertendo quello che sarebbe l'ordine logico e istituzionale dei rapporti tra Camere ed Esecutivo, prima si definisce la griglia della tipologia della spesa e poi si cala il vestito sui capitoli in atto, presentando alle Camere il risultato di questo esercizio in forma di programmi; il che potrebbe ancora avere un qualche senso se la definizione della griglia esprimesse una qualche capacità esplicativa e non fosse quel puzzie di cui prima abbiamo indicato i tratti essenziali. Tutto questo affidarsi un po'fideisticamente al Governo potrebbe ancora avere un senso pratico se ci trovassimo di fronte ad un bilancio misto, competenzacassa, tradizionalmente chiaro e affidabile e soprattutto senza debiti pregressi, regolati spesso a distanza di anni, sulla base di ricostruzioni spesso assai oscure per gli stessi addetti ai lavori. Non risulta ancora chiaro come sia possibile che nell'area della spesa diretta degli organi periferici della PA statale (si pensi alla scuola), cospicui oneri per consumi intermedi (consumi energetici, spese di manutenzione, ecc, e talora anche per supplenze) emergano a distanza di anni per importi dell'ordine di centinaia di milioni di euro. E tuttavia questa è la situazione in cui ci troviamo. Per cui allo stato si tratta di una operazione che ancora una volta usa una strumentazione molto innovativa, in via potenziale, introdotta peraltro da una maggioranza e da un Governo di segno politico diverso, per farne un uso di potenziale ulteriore restringimento dei poteri di bilancio delle Camere, dietro una fraseologia accattivante; non è chiaro se i parlamentari più aweduti della maggioranza e della opposizione comprendano il senso della operazione e soprattutto che rapporto essa abbia con l'idea di realizzare un assetto di ampie autonomie fiscali e di reale responsabilità dei dirigenti chiamati a gestire i programmi di spesa.
CHE SIGNIFICA PASSARE AD UN BILANCIO DI SOLA CASSA
Una controprova di questa situazione si rinviene nel testo della delega in materia di passaggio al bilancio di cassa, (art. 42), questione molto discussa durante l'iter della legge di riforma e ricca di potenziali implicazioni innovative. E' evidente che se si apre una prospettiva di passaggio ad un bilancio di sola cassa, come unico limite della autorizzazione di spesa, tutto il meccanismo giuridico della classificazioni contabili (impegni, spese obbligatorie, inderogabili, ecc.) e dei poteri esercitabili dal dirigente va completamente riorganizzato. Nei sistemi di cassa l'accento è posto sulla gestione dell'involucro finanziario e sulla responsabilità di chi lo gestisce; il potere di controllo del centro deve spostarsi sull'involucro finanziario e sul suo rigoroso rispetto, lasciando il responsabile del programma molto più libero di utilizzare al meglio le risorse a lui assegnate. Nell'attuale sistema binario, la cassa è in realtà una competenza mascherata, che assolve alla funzione di intestare alla RGS un secondo e più stringente potere di controllo. Nella fase dell'esame del testo si era avuto modo di sottolineare che occorreva chiarire bene, nei criteri di delega, quali fossero le innovazioni sul piano della gestione e del controllo che andavano associate al nuovo criterio della cassa; altrimenti si sarebbe rischiato di creare ancora un inutile doppio della competenza. Chi scrive aveva avuto modo di osservare che la prospettiva del passaggio alla casa avrebbe dovuto svolgersi sulla base di una elaborazione di criteri direttivi idonei ad imprimere un reale significato di innovazione di sistema. Si riportano questi criteri per offrire il senso della prospettiva che si voleva contribuire ad aprire: a) il responsabile del programma di spesa è il titolare delle risorse assegnate con il decreto annuale di ripartizione in capitoli; l'assegnazione deve avere un profilo pari alla durata del bilancio pluriennale e comunque non inferiore al triennio; b) il responsabile, o il dirigente da lui delegato, non possono assumere impegni contabili per i quali non esista la corrispondente autorizzazione di cassa; gli ordini di pagamento non esitati alla fine dell'esercizio di emissione vengono riportati automaticamente all'esercizio successivo; c) la gestione delle risorse autorizzate viene condotta dal responsabile del programma attraverso un continuo monitoraggio che garantisca, sotto la sua responsabilità, contabile ed amministrativa, l'equilibrio per cassa delle disponibilità e delle spese; il responsabile del programma ordina e paga le spese sulla base di un crono-programma, da lui predisposto, che tiene conto della fase temporale di assunzione degli impegni; d) nessuna forma di controllo impeditivo dell'efficacia può essere introdotta con riferimento alla fase di formazione degli atti che precedono l'emissione dell'ordine di pagamento; e) l'efficacia dell'ordine di pagamento deve essere impedita, con adeguate forme di controllo, ove non vi siano
più risorse per cassa nell'ambito del programma; in questo caso, con decreto di natura accertativa, il responsabile dell'ufficio di controllo della RGs, comunica al responsabile del programma e al ministro competente, che nèssuna erogazione può più essere disposta a valere sul programma per l'esercizio finanziario in corso, fino all'adozione, da parte del ministro dell'Economia e delle finanze, di eventuali integrazioni delle risorse per cassa; f) il responsabile del programma nel corso dell'esercizio può proporre al ministro responsabile della spesa di disporre, con decreto, di concerto con il ministro dell'Economia e delle finanze, trasferimenti da un intervento all'altro dello stesso programma; nessuno spostamento può essere proposto verso interventi relativi a spese fisse relative al personale; in ogni caso, il valore cumulato dei trasferimenti non può eccedere nel corso dell'anno il 10% della autorizzazione complessiva di cassa iscritta sul programma; g) se per due esercizi successivi vengano rendicontati riporti che eccedono 115% della spesa autorizzata viene automaticamente disposta una verifica ispettiva sulla gestione del programma i cui esiti vengono valutati sia ai fini della concessione dei trattamenti economici connessi ai risultati assegnati al dirigente, sia, ove del caso, ai fini della attivazione della responsabilità contabile e amministrativa; h) nella determinazione, con il disegno di legge di bilancio, delle risorse di cassa che vengono assegnate a ciascun programma di spesa vengono analiticamente documentate tutte le fonti normative che supportano il programma, le rispettive caratteristiche tecnico giuridiche, gli obiettivi assegnati al dirigente e i criteri di valutazione e quantificazione dei risultati attesi e di quelli conseguiti, con riferimento almeno al biennio precedente. Nell'art. 42 non è dato ritrovare alcun criterio di delega che innovi nei profili di gestione e controllo; si suppone quindi che per limite di cassa si intenda l'operatività dello stesso criterio che oggi affianca la competenza; il comma 1, prevede tuttavia l'adozione di sistemi contabili che rilevino le posizioni debitorie e creditorie al fine della compilazione di un elenco degli impegni; la previsione di un sistema di controlli preventivi sulla legittimità contabile e amministrativa dell'obbligazione assunta dal dirigente. Non vi è traccia alcuna di un ampliamento della sfera dei poteri del dirigente. La sensazione è di una delega che, se svolta secondo questi criteri, realizzerebbe una situazione sostanzialmente simile a quella attuale. In questo contesto appare una prospettiva di lavoro del tutto inutile.
QUALCHE SPUNTO PER CONTINUARE AD INDAGARE E LAVORARE SU QUESTI TEMI
Ad avviso di chi scrive l'indagine teorico pratica sul ciclo della spesa pubblica dovrebbe svilupparsi secondo due direttrici di fondo:
riprendere alla base le radici economico aziendali della contabilità di Stato e rileggerle dentro schemi analitici ed organizzativi che abbiano come obiettivo quello di fornire ai cittadini e alle Camere legislative strumenti di analisi quantitativa e di valutazione dei risultati; ma ciò presuppone una reale ricomposizione delle culture e delle tecniche che operano sul ciclo della formazione, gestione e controllo della spesa; e in questa ottica ci sembra cruciale passare ad un radicale abbandono dell'attuale previsione mista (competenza cassa), per adottare una previsione autorizzativa di cassa economica (per capire l'attuale assetto della contabilità statale ci sembra utile rileggere. S. Buscema, La contabilitàpubblica. natura e limiti, in Archivio finanziario-Annali dell'Università di Ferrara, Vol. xiv, CEDAIVI, Padova 1967, pag 383 e sgg.); ma si tratta di un cambio di prospettiva che non può essere meccanicamente affidato a chi sa gestire e controllare solo in termini di analisi giuridica delle spese; riorganizzare a fondo i materiali normativi che confluiscono nella decisione di bilancio, superando il dualismo LF-LB. In una altra recente riflessione, abbiamo utilizzato la metafora del campo di gioco come immagine per spiegare la necessità di tipizzare gli strumenti di bilancio in una democrazia rappresentativa. La forma di governo è già cambiata in questi anni proprio su questo terreno, imprimendo alla LF una veste procedurale che la regola in parte come se si trattasse del bilancio, in parte come se si trattasse di una legge di spesa. In questi anni si è operato per stabilizzare una disciplina che doveva garantire la dubbia natura costituzionale di uno strumento "anfibio", che unificava le specializzazioni e le funzioni del 3° e del 4° comma dell'art. 81 Cost.. I nodi della trasparenza e del controllo tra vincoli europei e ordinamento interno vanno sciolti ora in modo limpido, superando le incognite del cd. federalismo fiscale: il sistema reale, del Paese è maturo per andare verso una nuova stagione di innovazioni nelle procedure di decisione di bilancio: abbandonare le previsioni miste (competenza-cassa) per adottare una previsione autorizzativa di sola cassa economica; strutturare il vincolo pluriennale della programmazione finanziaria; attuare la riorganizzazione per missioni e programmi della articolazione del bilancio dello Stato; rafforzare gli strumenti di lavoro e di controllo del Parlamento; creare raccordi nitidi e ben coordinati tra tutti i livelli territoriali della programmazione finanziaria (Stato, Regioni, Comuni, ecc). Questi obiettivi sono elencati nella legge di riforma (e questo è già un segno positivo della consapevolezza della natura e della complessità dei problemi); ma sono poi declinati sul piano della loro implementazione tecnica affidandoli allo stesso armamentario contabile e agli stessi strumenti che abbiamo prima sommariamente descritto. Se non si riallineano obiettivi e strumenti, fini e tecniche, il risultato, in termini di trasparenza della gestione delle spese sarà quello dei decreti delegati sui
controlli di gestione (D.Lgs n. 279 del 1997 e n. 76 del 2000) e delle innovazioni che hanno introdotto nel 2000 i centri di costo e i budget per obiettivi: praticamente il nulla; mentre continuerà la litania sul Parlamento che non controlla e sulle spese inefficienti e meccanicamente fuori controllo. Come da tempo abbiamo avuto modo di sostenere ci sono le condizioni per rileggere l'art. 81 Cost. e realizzare una nuova forma per la decisione di bilancio. Il tema è complesso; ma riesaminare a fondo i rapporti tra tecnica e politica partendo proprio dall'esperienza del c.d. ciclo della quantificazione degli oneri recati dalle leggi di spesa e dai ruoli e le responsabilità degli organismi che operano lungo questo ciclo, è a nostro avviso un utile esercizio bipartisan per far progredire la nostra democrazia rappresentativa, ormai radicata in una logica maggioritaria, lungo binari coerenti con la nostra storia ed esperienza costituzionale.
queste Istituzioni n. 156-157 gennaio-giugno 2010
La lettura inacroecououiica dei bilauci pubblici: cosa calllbia?* di Enrico Giovannini
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ome tutti sapete, l'Istat è fortemente impegnata nello sforzo di rappresentare l'evoluzione delle pubbliche amministrazioni. Inparticolare, i principali schemi contabili sui quali è basata la rappresentazione statistica della finanza pubblica fornita nell'ambito della Contabilità nazionale sono i seguenti: costruzione del Conto consolidato delle amministrazioni pubbliche, sia a cadenza annuale che trimestrale, in conformità alle regole fissate dal Regolamento UE n. 2223/96 (sEc95); - stime delle poste di raccordo tra i principali saldi di finanza pubblica (indebitamento netto, fabbisogno di cassa e variazioni del debito pubblico), che vengono trasmesse alla UE con le tavole della Notifica due volte l'anno, il 1° aprile e il 10 ottobre, in collaborazione con il Ministero dell'Economia e con la Banca d'Italia; - la spesa pubblica per funzione secondo la classificazione europea C0F0G' (obbligatoria al primo livello e su base volontaria per il secondo livell0 2 - la costruzione di conti satellite rilevanti, come ad esempio: nel campo della protezione sociale (previdenza, sanità, assistenza), nel campo dell'ambiente ecc. Le fonti principali utilizzate sono costituite dai documenti contabili delle oltre 10.500 unità istituzionali che costituiscono il Settore delle Amministrazioni pubbliche, così come definite dal Regolamento UE 2223/96 (SEc 95). Di conseguenza, la riforma del sistema di contabilità delle istituzioni pubbliche avrà, nei prossimi anni, un impatto rilevante sull'intero sistema di rappresentazione statistica dei Conti pubblici, sviluppat9 secondo i regolamenti comunitari, ed è destinata ad incidere sulla capacità di analisi in termini -
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L'autore è Presidente dell'Istituto nazionale di statistica.
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macroeconomici dell'evoluzione dei bilanci delle amministrazioni pubbliche. Da questo punto di vista, va notato che l'aver posto al centro della riforma i principi di armonizzazione e coordinamento dei bilanci pubblici potrà agevolare il processo di costruzione dei conti economici delle A.P e assicurare una sempre maggiore coerenza tra le grandezze fondamentali di finanza pubblica. Quindi l'IsTAT ha salutato con grande favore lo sviluppo della nuova legge.
LA RIFORMA DELLA LEGGE DI CONTABILITÀ L'esigenza di configurare un nuovo quadro normativo per la Contabilità pubblica, rispetto alla Legge 468/78 e alle altre disposizioni legislative che successivamente sono state emanate, ha condotto a varare una riforma che si fonda sui seguenti principi: - realizzazione di un forte coordinamento fra i differenti livelli di governo per una corretta disciplina della finanza pubblica nella duplice prospettiva del decentramento costituzionale e dell'integrazione nella governance europea; - riforma della legge finanziaria e dell'intero ciclo della programmazione; - completamento della riforma del bilancio dello Stato per missioni e programmi. Per garantire il conseguimento del primo dei tre obiettivi sopra citati, la legge fissa nel Titolo I alcuni principi di particolare rilevanza (principi di coordinamento, obiettivi di finanza pubblica e armonizzazione dei sistemi contabili), che dovranno essere rispettati nei decreti legislativi che il Governo dovrà emanare. Tali principi si applicano a tutte le amministrazioni pubbliche identificate come tali dall'ISTAT sulla base delle definizioni contenute nel Regolamento UE SEc95. Tale richiamo è importante in quanto delinea in modo chiarò i soggetti destinatari delle norme ed appare del tutto appropriato per l'ambito in cui dovranno agire i decreti legislativi (armonizzazione e omogeneità di redazione dei bilanci). Armonizzazione degli schemi contabili Purtroppo, l'attuale sistema di contabilità pubblica si presenta, al momento dell'introduzione della riforma, fortemente disarmonizzato, costringendo ad un lavoro complesso di analisi e di riclassificazione per riportare i dati nell'ambito degli schemi e delle definizioni previste a livello europeo. Nella legge 468/78 in tema di armonizzazione dei sistemi contabili prevedeva che i Comuni e le Province, tutti gli enti pubblici non economici, le aziende autonome dello Stato, l'ENEL, ecc. adeguassero i proprio bilancio a quello finanziario dello Stato (competenza e cassa). Nella pratica, questo obiet-
tivo non è mai stato portato a termine completamente. Qualche passo avanti è stato compiuto con l'introduzione della legge n. 94 del 3 aprile 1997 e del successivo d.lgs. n. 279 del 7 agosto 1997 che ha modificato la struttura dei documenti contabili dello Stato, introducendo la classificazione economica e funzionale tipiche del SEc95. Per gli Enti locali con il D.PR 194/96 (e successivo decreto di attuazione del 24/11/98) fu adattato un nuovo Certificato di consuntivo, con una classificazione standard economica-funzionale, sebbene ancora distante dalle regole di classificazione e definizione degli aggregati introdotti dal SEc95. Anche per le Aziende sanitarie locali e le Aziende ospedaliere (AsL e Ao) è stata introdotta la standardizzazione in base alla contabilità economico-patrimoniale, la cui rendicontazione viene rilevata iiimestralmente dal Ministero della Salute in base al Decreto del 28 maggio 2001. Per le Regioni invece non è mai stato possibile l'adozione di schemi e classificazione tipiche del Bilancio dello Stato e più in generale schemi di classificazione standard. Un tentativo per ottenere una tale standardizzazione fu compiuto nel 2000 con la Legge 76 che imponeva alle Regioni l'adeguamento degli schemi di classificazione economica e funzionale dello Stato, ma tale norma è stata superata della riforma del Titolo V della Costituzione che ha dato piena autonomia a tali enti. Un ultimo passo, in ordine di tempo, nella direzione del rafforzamento dell'armonizzazione contabile è stato quello della graduale costruzione del sistema informativo SI0PE, nato dalla collaborazione tra il Ministero dell'Economia e delle Finanze e la Banca d'Italia, prevista dalla Legge finanziaria 2003, nella quale affluiscono i dati, codificati in modo uniforme per tutti gli enti pubblici. Sebbene nella norma della Finanziaria fosse previsto che nel nuovo sistema sarebbero dovute confluire informazioni relative al sistema completo dei conti (cassa, competenza e variazioni patrimoniali), nell'attuale fase operativa la banca dati riguarda solo le operazioni di cassa. Inoltre, ancora non è stata completata l'estensione dell'obbligo di alimentare il SI0PE a tutte le tipologie di amministrazione pubblica, individuate dall'ISTAT in base alla Legge finanziaria 2005. Armonizzazione dei comportamenti contabili Accanto alla mancanza di una standardizzazione generalizzata degli schemi contabili si osserva oggi una situazione di comportamenti contabili spesso difformi, dove i singoli enti non sono chiamati a produrre documenti contabili integrati e coerenti all'interno dello stesso ente. Se si confrontano, ad esempio, i dati dei flussi di cassa trasmessi dalle Regioni al SIOPE con queffi riportati nei rendiconti finanziari, spesso si riscontrano delle differenze, non solo per singola voce di flusso, che potrebbe dipendere dalla diversa classificazione adottata, ma anche a livello di saldi. Analoghe discrepanze si riscontrano ancora, sempre
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per le Regioni, se si confronta il fabbisogno ottenuto dai movimenti di tesoreria e i conti di cassa desunti dai rendiconti finanziari. Così per gli Enti sanitari locali non si è ancora in grado di conciliare l'ammontare dei flussi del Conto economico con i pagamenti registrati nel sistema informativo SIOPE e con le variazioni dello Stato patrimoniale. Di contro si deve sottolineare che l'attenzione degli organismi della UE (Commissione, Eurostat) sulla qualità dei conti pubblici è rivolta, oltre che alle determinanti dei principali saldi, anche al raccordo tra di essi e alle eventuali discrepanze statistiche che ne derivano (differenze non spiegate), rappresentate nelle tavole della Notifica e del questionario allegato. Negli ultimi anni, grazie all'impegno e alla collaborazione tra ISTA1 MEF e Banca d'Italia, le discrepanze statistiche a livello aggregato sono risultate nel nostro Paese di entità accettabile. Ma ciò non basta, perché la sottostante disarmonizzazione degli schemi e la non uniformità delle pratiche contabili non solo rende difficile il lavoro di aggregazione dei conti, ma in alcuni casi non permette la tracciabilità dei singoli fenomeni dal livello micro al livello macro, con il rischio che sorgano dubbi sulla affidabilità dei conti a livello aggregato. La riforma: le prospettive e i problemi aperti La riforma prevista dalla Legge 196 attraverso l'emanazione di Decreti delega affidati al MEF costituisce un'importante opportunità per realizzare in Italia un sistema di contabilità pubblica armonizzato, trasparente e capace di integrarsi alla contabilità europea. E' evidente che la messa a regime della riforma richiederà un periodo di rodaggio e un notevole impegno di tutti gli operatori pubblici, affinché siano raggiunti tutti gli obiettivi che la riforma intende perseguire. E' necessario cioè che i principi di standardizzazione, di uniformità e di integrazione delle regole e degli schemi contabili su cui dovranno basarsi i decreti delegati, siano realmente condivisi da tutti i soggetti e operatori pubblici coinvolti. Per ottenere quella trasparenza che tutti auspicano, deve crescere e imporsi una nuova cultura contabile molto più attenta verso i principi di armonizzazione, integrazione, uniformità di comportamento e raccordabilità. E' inoltre necessario che la normativa sia resa flessibile affinché si possa tener conto nel tempo di eventuali correttivi che l'esperienza pratica suggerisce. Il Comitato per i principi contabili, previsto dal comma 5 dell'art. 2 della L. 196, che dovrà supportare il Governo per l'emanazione dei decreti delegati dovrà proporre un piano di conti integrato e standardizzato per tutte le Amministrazioni pubbliche, con estensione anche alle Regioni, le Province autonome e gli Enti locali, come previsto dagli emendamenti alla Legge 42/2008 sul federalismo.
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Poiché l'adozione di un nuovo piano di conti comporterà sicuramente un onere per tutte le amministrazioni pubbliche è necessario e auspicabile che tale piano risponda ai seguenti obiettivi: - non perdere informazioni che attualmente sono disponibili nelle singole contabilità; - migliorare le informazioni nelle contabilità finanziarie in modo da permettere un miglior approccio al principio accrual (competenza economica) delle singole operazioni, con un raccordo tra competenza, cassa e variazioni dello stato patrimoniale, soprattutto riguardo ai crediti e debiti diversi dal debito pubblico (other accounts secondo il SEC); - rispondere quanto più possibile alle diverse esigenze informative sia a fini statistici che amministrativi, in modo che le singole amministrazioni possano realizzare economie di scala evitando di dover adottare schemi diversi di "confezione" delle informazioni per rispondere alle diverse richieste; - tener conto anche degli attuali sistemi informativi (es. SI0PE), prevedendo un loro adattamento più che una modifica radicale. Tale unico piano di conti integrato dovrebbe assicurare, a livello di singola amministrazione, un sistema di rappresentazione integrato di tutte le fasi contabili (dalla previsione alla rendicontazione) e permettere il raccordo per le singole operazioni, dei flussi di competenza, dei flussi di cassa e delle variazioni degli stock del conto patrimoniale. E quest'ultimo, indubbiamente, l'aspetto più complesso da introdurre nei futuri adempimenti contabili degli enti interessati, perché è quello attualmente meno curato o addirittura assente; in genere, le registrazioni provengono da azioni amministrative diverse, la cui riconciliazione non è sempre agevole, non solo per lo Stato, ma anche per le altre amministrazioni pubbliche, in primis le Regioni. Ne sono un esempio, come si è detto prima, i casi non infrequenti in cui i dati dei pagamenti e degli incassi registrati nel sistema SIOPE non coincidono con i flussi di cassa dei bilanci consuntivi: peraltro, i primi sono trasmessi per la maggior parte degli enti dai tesorieri, mentre i bilanci sono prodotti dagli uffici amministrativi degli enti. Considerato che la nuova legge di contabilità prevede (art. 2 comma 2 lettera e) che accantò alla contabilità finanziaria vi sia l'affiancamento, sia pure a fini conoscitivi, di un sistema di contabilità economico-patrimoniale, si può suggerire, anche se non previsto esplicitamente dalla legge, di aggiungere al piano di conti uno o più prospetti di riconciliazione sia a livello di voce economica che a livello di saldi tra le due tipologie di sistema di registrazione. Questo eviterebbe che le amministrazioni, non essendo tenute da un punto di vista gestionale all'utilizzo della contabilità economico-patrimoniale, possano applicare la norma in modo approssimativo, senza un reale beneficio informativo. 91
Il modello schematico di organizzazione contabile che si suggerisce parte da un unico piano di conti (es. quello già adottato per il SI0PE), in cui per ogni voce si registrano gli impegni (accertamenti), i pagamenti (riscossioni), i costi (ricavi) di competenza economica dell'anno e le variazioni dei debiti (crediti). Alla fine dovrà risultare un raccordo sui totali e sui saldi. Per le amministrazioni pubbliche che sono tenute ad una contabilità civilistica a causa della loro natura giuridica di tipo privatistico è previsto che venga definita una tassonomia per la riclassificazione del bilancio in base alle regole contabili uniformi. Particolare attenzione dovrà essere posta alle regole di registrazione di alcune operazioni per la loro rilevanza in termini di impatto sui saldi, o perché oggetto di specifiche Decisioni da parte di Eurostat. Tra queste figurano ad esempio: la classificazione uniforme dei trasferimenti per settore di contropartita (beneficiari); la corretta registrazione da parte dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali dei mutui contratti da soggetti beneficiari pubblici e privati esterni, ma con quote di ammortamento a carico delle amministrazioni pubbliche; la corretta registrazione degli auménti salariali previsti dai contratti collettivi; la corretta classificazione degli apporti di capitale ad imprese pubbliche e private; la corretta classificazione dei contributi della EE; la corretta classificazione delle operazioni sui derivati finanziari ecc.
LA CLASSIFICAZIONE FUNZIONALE DELLA SPESA PUBBLICA
Un'importante innovazione contenuta nella Legge 196 è costituita dalla direttiva secondo cui i comuni schemi di bilancio che dovranno essere adottati da tutte le amministrazioni pubbliche dovranno essere articolati per missioni e programmi (art. 2, comma 2, lettera c) coerenti con le classificazioni economiche e funzionali previsti dai regolamenti comunitari per la Contabilità Nazionale. A regime, quindi, ciascuna amministrazione pubblica avrà un bilancio nel quale le operazioni saranno registrate secondo una doppia classificazione economico-funzionale riconducibile al SEC95 e alla COFOG. A tale riguardo è in via di conclusione un lavoro congiunto ISTAT-Ragioneria Generale dello Stato finalizzato a raccordare gli attuali Programmi del bilancio dello Stato, introdotti nel 2007, alla classificazione COFOG di secondo livello. Tale raccordo garantirà la centralità della classificazione C0FOG a cui andranno ricondotte le missioni e i programmi e il cui carattere strategico verrà assunto fin dall'inizio del processo di formazione del bilancio, minimizzando il rischio di considerare tale calcolo come un semplice adempimento di tipo statistico. Sarà poi possibile l'estensione del raccordo a tutte le altre amministrazioni pubbliche. 92
La classificazione COFOG costituisce pertanto lo schema verso cui dovranno convergere tutte le classificazioni di tipo funzionale attualmente adottate dalle singole amministrazioni, ivi compreso lo Stato. In tal modo, si riconosce il ruolo cruciale che deve avere la rappresentazione delle politiche pubbliche secondo i settori di intervento, sia con riferimento al piano macroeconomico, sia a quello dell'analisi delle attribuzioni assegnate a ciascuno degli attori (centrali o locali) che concorrono alla realizzazione di una particolare politica, nel contesto della governance multilivello prevista dalla Legge 42/2009 sul federalismo. Infatti, solo tramite elevati standard di uniformità nelle classificazioni adottate dalle amministrazioni per l'allocazione delle risorse impegnate, dalla fase di programmazione a quella di realizzazione, sarà possibile pervenire ad una costruzione di quadri informativi affidabili sulle politiche pubbliche. Attraverso tale strumento le Amministrazioni potranno effettivamente evolvere verso una cultura di programmazione e rendicontazione delle politiche a livello di sistema, con l'evidenziazione delle responsabilità e la dimostrazione dei risultati conseguiti a fronte delle risorse allocate. Una rappresentazione di tale natura consentirà di esplicitare i macro-obiettivi della PA e l'impatto atteso della sua azione sul sistema economico, in termini di effetti sulla crescita effettiva di lungo periodo e di quella potenziale. Tale impostazione è in linea con le indicazioni della Commissione europea 3 .
LA BANCA DATI DELLE CONTABILITÀ PUBBLICHE L'art. 13 della legge dispone l'istituzione di una banca dati unitaria presso il Ministero dell'Economia e delle Finanze, alimentata dalle amministrazioni pubbliche con i dati concernenti i bilanci di previsione, i conti consuntivi e le operazioni gestionali. Si tratta di una disposizione importante che deve mirare a semplificare le procedure e ridurre drasticamente gli oneri per le amministrazioni che sono spesso tenute a inviare le stesse (o simili) informazioni a più enti (MEF-RGs, ISTAT, Corte dei conti, Ministero Interno, ecc.). Si tratta, chiaramente, di un intervento di sistema (non a caso è richiamato l'art. 117, secondo comma, lettera r, della Costituzione) che attiene al coordinamento dei flussi informativi in relazione al quale è fondamentale il ruolo dell'ISTAT, in quanto ente esponenziale del SISTAN, nella indicazione dei criteri, schemi e modalità di interscambio dei flussi informativi (anche in relazione a quanto previsto dal comma 73, art. 3, della legge 244/2007 di riforma del dlgs. 322/89). • A tale proposito è necessario operare un salto di qualità oggi reso possibile dalle nuove tecnologie, ancora in fase di sviluppo fino a pochi anni fa. La realizzazione di un sistema di web services e l'adozione di standard comuni per 93
l'interscambio dei dati e metadati, a livello nazionale e internazionale, rendono possibile concepire una banca dati unitaria composta da moduli interconnessi accessibili in modalità remoto. Le informazioni possono risiedere in luoghi fisici differenti, ma essere agevolmente accessibili senza porre in capo all'utente finale l'onere del loro reperimento e del loro trattamento finalizzato a farle colloquiare. In tal senso sarà necessario procedere con una azione convergente e concertata da parte di tutte le amministrazioni, superando vecchie logiche "proprietarie" per esaltare il valore delle informazioni attraverso la loro condivisione e integrazione. Si dovrà attivare, in sostanza, un processo che, nell'unificare gli sforzi dei diversi soggetti interessati, minimizzi la ricorrenza di duplicazioni/ridondanze nelle attività di ciascuno di essi e nei prodotti informativi ricadenti nella propria sfera di responsabilità. E' necessario, quindi, non solo evitare la proliferazione ulteriore di banche dati settoriali o generaliste ma, soprattutto, razionalizzare quelle esistenti e integrale nel sistema dei nuovi flussi informativi che dovranno essere attivati come richiesto sia dalla legge 196, sia da altre norme, come il d.lgs. 322/89 integrato dall'art. 3 della citata legge 244/2007.
RIFORMA DEGLI STRUMENTI DELLA PROGRAMMAZIONE E DELLA VALUTAZIONE DEI RISULTATI Il secondo degli obiettivi principali della legge di riforma sopra citati (riforma della legge finanziaria e dell'intero ciclo della programmazione) è affrontato nel Titolo III, che sostanzialmente conferma gli strumenti della programmazione vigenti, con alcune modifiche terminologiche e di contenuto. L'aspetto più rilevante riguarda il bilancio di previsione dello Stato nel quale, come già detto, diventano preminenti gli aspetti funzionali: le unità di voto parlamentare diventano le missioni e i programmi, mentre precedentemente le unità di voto erano le unità previsionali di base individuate con una logica di tipo organizzativo-gestionale. Una programmazione orientata sugli aspetti funzionali per l'impiego delle risorse, confrontabile con la rendicontazione, rende efficace lo stesso processo di programmazione, più efficiente l'allocazione delle risorse ed effettivo il controllo obiettivi-risultati. In tale processo, è essenziale il monitoraggio costante sulla corretta allocazione delle risorse a fronte degli obiettivi stabiliti o rimodulati nel tempo. L'articolazione economico-funzionale sia nel bilancio di previsione che nel rendiconto rende più efficace l'analisi e valutazione sistematica dei risultati conseguiti. L'analisi e valutazione della corretta allocazione delle risorse, prevista dall'art. 39, istituzionalizza la prassi di spending review già avviata con la 94
Legge finanziaria del 2007 sia pure in forma sperimentale, che dovrà essere fondata sulla collaborazione fra singoli ministeri e appositi nuclei di analisi e valutazione della spesa istituiti nell'ambito del Ministero dell'Economia e delle Finanze. Tali analisi e valutazioni sono finalizzate alla formulazione di proposte di rimodulazione delle risorse finanziarie tra i diversi programmi di spesa. Allo scopo, il comma 4 del medesimo art. 39 stabilisce l'istituzione di una apposita sezione all'interno della citata banca dati dedicata ad accogliere le informazioni necessarie alla valutazione e all'analisi di efficienza, anche ai fini del Rapporto sulla spesa delle amministrazioni dello Stato da presentare al Parlamento, ogni tre anni, ai sensi del successivo art. 41.
IL BILANCIO DI CASSA DELLO STATO Una delle innovazioni più rilevanti contenute nel Titolo V della Legge 196 riguarda il completamento della riforma del bilancio dello Stato, con la delega al Governo, per il passaggio graduale ad un bilancio di sola cassa. L'art. 42 prevede infatti la predisposizione del bilancio annuale di previsione e degli altri documenti contabili, in termini di sola cassa, con separata ed analitica evidenziazione conoscitiva delle corrispondenti previsioni di competenza finanziaria ed economica con riferimento al sistema di contabilità nazionale per i conti del settore della pubblica amministrazione, affidando completamente la gestione delle risorse al responsabile del programma di spesa. L'orientamento del legislatore verso l'adozione del solo Bilancio di cassa da sottoporre all'approvazione del Parlamento, pone vari interrogativi e suscita qualche preoccupazione, tenuto conto che, a livello macroeconomico, il Conto delle amministrazioni pubbliche costruito nell'ambito della Contabilità nazionale è basato sul principio accrual, cioè sulla competenza economica. Fino ad ora nei conti nazionali, l'approccio accrual è stato ottenuto partendo dagli impegni (e dagli accertamenti) di parte corrente della contabilità finanziaria, come proxy di stima delle obbligazioni assunte dallo Stato. I dubbi non riguardano tanto la perdita di informazioni, in quanto lo stesso art. 42 lettera a) prevede che il bilancio di cassa venga affiancato, a fini conoscitivi, dal corrispondente prospetto redatto in termini di competenza, integrato dalle rilevazioni delle informazioni necessarie per la redazione del Conto consolidato delle AP secondo il SEC95 e dalla disponibilità dei dati relativi alle posizioni debitorie e creditorie dello Stato. La preoccupazione riguarda la possibilità che si generino comportamenti opportunistici nel momento in cui la gestione della competenza può essere subordinata alle esi95
genze della cassa. Una delle argomentazioni che viene posta a favore del solo bilancio di cassa fa riferimento alla constatazione che la prassi seguita fino a oggi vede la competenza giuridica sminuita nella sua capacità informativa (e di vincolo) dalla presenza di impegni impropri (che generano o residui di stanziamento o sono riferiti a debiti pregressi) a fronte dei quali, cioè, non vi sono effettive obbligazioni assunte dall'amministrazione verso terzi nell'anno di riferimento. Il problema, a nostro giudizio, da affrontare nell'emanazione dei decreti legislativi, è quello di evitare che il contenuto proprio della competenza venga svuotato, trasformandolo in un puro esercizio informativo-statistico: al contrario, il documento che dovrà affiancare il bilancio di cassa dovrà essere reso maggiormente affidabile e privo di pratiche distorsive. Inoltre, se da una parte è vero che il Bilancio di cassa, sottoposto all'approvazione parlamentare, permette di tenere sotto controllo il debito pubblico e permette di rendere maggiormente autonomo e responsabile il dirigente titolare di un programma di spesa, consentendo così maggiore flessibilità e libertà di azione in vista dei risultati da conseguire, dall'altra vi è il rischio che il controllo dei flussi di cassa possa diventare l'unico, o il principale, imperativo del dirigente, sottovalutando la competenza rispetto alle effettive obbligazioni assunte. Con la conseguenza che potrebbe verificarsi negli esercizi futuri l'emergere di effetti indesiderati, come l'accumulazione di debiti impliciti non esposti chiaramente e sin dall'inizio in bilancio. Oltre all'obbligo a carico del dirigente di predisporre un piano finanziario dei pagamenti secondo la durata dell'obbligazione, dovrebbe essere predisposto un sistema di controllo per evitare che obbligazioni assunte siano registrate in futuri esercizi. Inoltre, potrebbe essere prevista la predisposizione di un prospetto di riconciliazione con la contabilità finanziaria, suddiviso per programmi, nel quale figura il raccordo tra i pagamenti, le obbligazioni assunte e le variazioni dei debiti e dei crediti, e, nell'aggregazione finale, il controllo del raccordo dei saldi. Un altro aspetto di incertezza riguarda la considerazione che, nello spostare il controllo e il voto di approvazione parlamentare sul bilancio di cassa, si deve tener conto che i pagamenti e le riscossioni del bilancio dello Stato transitano poi per la Tesoreria centrale, dove attualmente vengono gestite fuori bilancio le Contabilità speciali (es. Protezione civile). Questo comporta che i limiti posti sui pagamenti al bilancio di cassa potrebbero non corrispondere agli effettivi pagamenti, il cui saldo con le riscossioni determina il saldo netto da finanziare (fabbisogno).
LA MISURAZIONE DELL'ATTIVITÀ PUBBLICA NEL QUADRO DELLA NUOVA LEGGE DI CONTABILITÀ Nel complesso la legge 196 risponde in modo più incisivo che in passato alle esigenze di valutazione dell'operato delle amministrazioni pubbliche, attraverso nuovi strumenti di controllo quantitativo e qualitativo degli interventi e attraverso una maggiore trasparenza contabile. Come evidenziato in ambito internazionale, in particolare dall'OCSE (cfr. Governement at a Glance, Paris, 2009), assume una crescente importanza la misurazione dell'attività delle amministrazioni pubbliche in termini di efficiente allocazione delle risorse, quantità dei servizi resi, capacità di rispondere ad una domanda crescente di qualità dei servizi pubblici, in connessione con l'evoluzione del ruolo della pubblica amministrazione quale attore fondamentale della crescita e della competitività dei sistemi economici. In questo contesto assume rilievo l'art.41 della nuova legge di contabilità, che, nel definire i contenuti del Rapporto triennale sulla spesa delle amministrazioni dello Stato da inviare al Parlamento, indica la necessità di dotarsi di indicatori di risultato da adottare da parte delle Amministrazioni, di fornire una base analitica per la definizione e il monitoraggio di tali indicatori verificabili ex-post, e utilizzabili al fine di valutare il conseguimento degli obiettivi e accrescere la qualità dei servizi pubblici. Il contenuto del Rapporto sembra andare dunque nella stessa direzione indicata dall'OCSE di un potenziamento della capacità di misurazione dell'attività pubblica in stretto collegamento con i processi di decisione di allocazione delle risorse e in modo coerente con la rappresentazione aggregata delle politiche pubbliche. Anche in questo caso, l'attuazione concreta di un sistema in cui gli indicatori di risultato dell'attività pubblica diventano un vero elemento di analisi e valutazione, appare strettamente legata all'affermarsi di una cultura contabile che assume al suo interno il principio e il metodo della misurazione dei risultati.
CONCLUSIONI [kccasione offerta dalla legge di riforma della contabilità va colta fino in fondo allo scopo di migliorare la rendicontazione delle amministrazioni e delle politiche. Le premesse per un salto di qualità dei documenti sulla cui base vengono prese le decisioni a livello locale e centrale ci sono tutte, ma ora si tratta di declinare in concreto le linee guida da seguire: in questa fase bisogna evitare errori e incoerenze. 97
Inoltre, è fondamentale disegnare e sostenere concretamente percorsi di innovazione tecnologica che, grazie all'uso degli strumenti già disponibili, consentano efficienti meccanismi di trasmissione e lettura integrata dei dati. La trasparenza dell'azione delle pubbliche amministrazioni è fondamento della qualità delle politiche e del controllo democratico sull'azione di un settore che pesa così tanto sul funzionamento dell'economia e della società. Fornire una rappresentazione credibile e comprensibile del nostro lavoro è condizione necessaria perché i cittadini accettino di finanziare, attraverso l'imposizione, i servizi pubblici e, così facendo, contribuire ad accrescere il livello di benessere del Paese. A questo impegno l'IsTAT, ora come nel passato, è pronto a dare il suo contributo.
Relazione presentata al seminario di studio sulla nuova legge di contabilità e finanza pubblica 'La lettura macroeconomica dei bilanci pubblici: cosa cambia?", presso la Corte dei conti, Roma 28 maggio 2010.
'Classification of Functions ofGovernment. livello europeo è in discussione l'estensione dell'obbligatorietà anche al secondo livello Coioc. 3 Cfr. European Commission (2007), "Public flnance in EMu 2007". 2A
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queste Istituzioni n. 156-157 gennaio-giugno 2010
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Ricerca e iuovazioe todlloIogicE dal mioro al macro
o scorso 26 novembre2009 si è tenuto - nella sede della Camera di commercio di Milano (Palazzo dei Giureconsulti) - il quarto workshop "Innovazione e trasferimento tecnologico. un sistema aperto per imprese, centri di ricerca e finanza" promosso dal Consiglio italiano per le Scienze Sociali nel contesto delpiù ampio 'programma speciale" denominato "Industria, Società dei servizi ed Economia della conoscenza" Il programma, sostenuto finanziariamente dalla Compagnia di San Paolo, si è avviato nel 2007 e si chiude dopo un ciclo di quattro seminari, il primo e quest'ultimo ospitati dalla Camera di commercio di Milano e due a Moncali eri, presso la Fondazione Collegio Carlo Alberto, di cui si è dato conto nei numeri 149 e 154 di queste istituzioni Con questo programma sperimentale, il Css, aggiunge alla sua tradizionale attività di analisi e proposte in chiave dipolicy un approccio di tipo documentale su casi, esperienze, notizie, dati, che rlporta sia sottoforma di seminari, riunioni di lavoro, workshop che di dossier ed approfondimenti ad hoc. I workshop, a cui hanno partecipato oltre 100 persone, sono stati organizzati informa residenziale ed hanno portato in rassegna una trentina di esperienze nazionali ed internazionali di enti di ricerca, università, centri di trasferimento tecnologico, parchi tecnologici, broker,fondi di venture capital,finanziarie regionali, banche, agenzie di sviluppo, camere di commercio,fondazioni ed altri soggetti stakeholder dell'innovazione e del trasferimento tecnologico. Le sessioni di lavoro sono state concluse da tavole rotonde, coordinate da scienziati sociali che hanno contestualizzato le esperienze, chiarito i problemi, tentato di mettere infila lepriorità e le possibili vie d'uscita delle problematiche evidenziate. Ovviamente seguendo l'approccio multidisciplinare caratteristico del Css. In questo numero sono riportati alcuni degli interventi dei relatori all'ultimo workshop. In particolare, quelli di Mario Zanone Poma, Giorgio De Michelis e Carlo Mango. A questi interventi è seguito un ampio dibattito, che si è deciso di non
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riportare, ma che è stato molto stimolante per via degli spunti suscitati: il ruolo del publicprocurement, della necessità di un recupero/miglioramento della programmazione epolitica industriale, dell'organizzazione di un mercato di professionisti molto frammentato ma vivace. Temi su cui anche i relatori degli altri workshop hanno avuto modo di confrontarsi. L'intervento di Ristuccia, oltre ad ffrire alcuni i,unti di vista" del Css, riporta alcune prime anticiazioni su/libro bianco in corso di realizzazione da parte di una commissione di studiosi del Css. Si tratta di un lavoro particolarmente originale poiché affianca, al tradizionale contributo a "capitoli", un dizionario di voci riferite a politiche, strumenti, soggetti, concetti del trasferimento tecnologico. voci ampie e ragionate, di approfondimento dell'articolata materia che si affronta nel libro, riordinata o, meglio, riletta, con approccio multidisciplinare. Tra i vari spunti offerti dal libro ve ne sono alcuni che le scienze sociali aiutano ad individuare, meglio comprendere e contestualizzare. Ad esempio, la critica al costante e generico riferimento al modello americano che è poco replicabile per ragioni di dimensioni di mercato e di contesto culturale/linguistico che dannofondamento alla naturale intenzionalità imprenditoriale e alla stessa propensione maggiore al rischio. La ricognizione si sofferma su vari punti critici. Se è vero che molto spesso la conoscenza tecnologica è stata utilizzata in sede locale e di distretti, è anche vero che la capacità d'assorbimento dell'innovazione è stata altrettanto spesso assai modesta ed inceppata da micro mentalità appropriative. D'altra parte, è andato perduto in gran parte il ruolo di volano della grande impresa. La politica della concorrenza ha spezzato molti ruoli oligopolistici ma non ha creato nuovi mercati. In termini generali e teorici il libro bianco suggerisce di non parlare più di trasferimento tecnologico ma, più propriamente, diprocesso di trasformazione della conoscenza tecnologica. In terminipratici, varie le indicazioni: necessità di sperimentare modelli di trasformazione/trasferimento che operino fin dalle fasi originarie della ricerca, valorizzazione delle figure di ricercatori/valorizzatori della ricerca, maggior presenza di brokers tecnologici,forme di sollecitazione reale della domanda pubblica d'innovazione e così via. Afronte della varietà e molteplicità di soggetti epassaggiilproblema è: quale organizzazione? Quella che si può dare ciascun organismo di ricerca per riprodurre presso di sé una propriafiliera del trasferimento attraverso un apposito ufficio? Quello di una piattaforma con apporti esterni ben individuabili ? Ciò può valere anche per le imprese che purfacendo ricerca non abbiano sufficiente massa critica per internalizzare/delegare le funzioni del trasferimento. In ogni caso, ovviamente, c'è una questione di dimensioni. Se invece si considerano le cose partendo dalla prospettiva della domanda di innovazione, opiù realisticamente, dei bisogni di innovazione una risposta al quesito 100
"quale organizzazione" deriva anche da/fatto che un mercato non c'è e bisogna crearlo. E lo si può promuovere stimolando la domanda potenziale attraverso servizi professionali dedicati. Ovviamente sempre nell'ottica di favori re operazioni di carattere imprenditoriale. Qui, però, va colto un paradosso. Proprio per conseguire il buon avvio verso traguardi di imprenditorialità il supporto può non venire da organismi profit, ma a/contrario accuratamente no-profit, seppure di alta professionalità. Per esempio, lefasi precoci del trasferimento tecnologico, assolutamente da curare, non possono essere affrontate conforti aspettative di rientro a breve termine, ma soltanto - accettando il rischio - a lungo termine. E qui parliamo in riferimento alla remunerazione del capitale ma anche della semplice copertura dei costi derivanti dalle prestazioni professionali specializzate che sono necessarie. D'altra parte, nessuna forma di interventi a fondo perduto a carico di bilanci pubblicipuò essere più presa in seria considerazione se si guarda all'esperienza passata e allo stato presente delle risorse pubbliche. Dunque, c'è da pensare a meccanismi di intervento ben studiati, non semplici, che chiamino in causa la responsabilità di tutti gli attori (perfare un esempio c'è da intendere quali sono i risultati de/programma che nel Regno Unitofu lanciato nel 1998 con il nome di «University Challenge Seed Fund" con un'operazione congiunta fra il Governo e akunefondazioni). Il tema è ovviamente molto vasto ma necessita di quakhe proposta in chiave di politiche pubbliche per l'innovazione. In particolare, due profili vanno citati: se e come possa essere fatta emergere la domanda pubblica di innovazione attraverso una progettualità che faccia dafondamento anche allegare difornitura di beni e servizi (un terreno minato); se rispetto alla trasformazione della conoscenza tecnologica opiù tradizionalmente del trasferimento tecnologico sia adeguata o addirittura ci sia una politica mirata delle Agenzie pubbliche committenti. Così pare si stiano muovendo, almeno in. via tendenziale, le agenzie di origine pubblica di promozione del/a ricerca come, perfare un esempio, l'Istituto Italiano di Tecnologia. Ne ha dato testimonianza Lorenzo De Michieli, responsabile del Technology Transfer Office. L'IIT è nato con la chiara vocazione applicativa della ricerca, che intende interpretare nell'ottica di un vivace eprecoce coinvolgimento delle imprese fin dalla fase iniziale delle ricerche svolte nei propri laboratori. In questo caso certi spunti da modelli americani sono in parte replicabili. sipensi all'esempio del IVlassachusetts Institute of Technology, che viene pagato dal/e imprese che intendono far parte dei programmi di ricerca dell'Istituto alfine di avere un accesso privi/egiato alle tecnologie prodotte. Questo può essere un metodo favorevole all'innovazione poiché abilita un maggiore accesso alle informazioni rilevanti per 101
le imprese. Ciò porta a spostare l'asse di ragionamento verso nuovi modelli di innovazione "aperta", basati su collaborazioni informali e spinte tra attori della ricerca, dell'impresa e di altri settori, sempre più indagati a livello accademico e sperimentati dagli "innovatori" di impresa. Paolo Zanenga ne parla riferendo dell'attività della PDIvM - Product Development and Management Association -, che ha proprio lo scopo di d'ondere culture e prassi di innovazione di prodotto, anche mediante modelli open. A tal proposito ricorda l'esperienza del laboratorio di Palo Alto della Xerox che ha prodotto invenzioni notevolissime senza che poi l'azienda ne abbia implementato le scoperte. Epson ed altre aziende hanno invece costruito dei business molto redditizi ripartendo da invenzioni di altri che nel tempo si sono diffuse. Ciò dimostra che la fase della nascita e lafase dello sviluppo dell'idea sono due cose qualitativamente diverse e permette di distinguere tra i concetti fondamentali di innovazione e di invenzione. E di come occorra, nelle primefasi di nascita dell'idea, agire con strumenti e competenze rivoluzionariamente diverse da quelli che si usano nellafase di sviluppo delprodotto. Ne consegue che l'approccio "a matrice" delle aziende classiche è e deve essere ribaltato da un approccio all'innovazione "sincrono" che vede gli stakeholder dell'impresa coinvolti dentro il processo di innovazione più rischioso. I consumatori diventano, ad esempio, co-user. Le alte tecnologie possono costituire un buon campo di prova per la sperimentazione di queste nuove metodologie ma per gestire questo approccio sicuramente più complesso e caotico è necessario introdurre competenze ad hoc, costruire degli ambienti abilitanti, svilupparefilosofie di coaching, capabilities orizzontali da unire a quelle verticali presenti nelle aziende e nelle università. Occorre anche creare dei luoghi ad hoc, ilpiù possibile informali ed esterni alle strutture di provenienza della ricerca e delle tecnologie, ove sperimentare tali metodi. Vale la pena sottolineare che questo workshop è stato preceduto da un'attività di supporto alla cultura d'impresa innovativa organizzata dalCss e dalla Camera di commercio di Milano. Attività che si è deciso di intraprendere prendendo spunto dalle bestpractice internazionalipresentate nel corso dei workshop precedenti: quella degli Investment Readiness Programmes sperimentati in UK da alcuni operatori professionali (tra cui E-Synergy Ltd) per conto del governo ed università inglesi. Di qui la collaborazione del Css con Innovhub, Azienda speciale per l'innovazione della Camera di commercio milanese per organizzare un "venture contest" ne/settore aerospaziale, con la sponsorship dell'European Space Agency, rientrante tra le iniziative diformazione e networking promosse da quest'ultima ne/più ampio contesto camera/e di offerta di servizi per la promozione della cultura imprenditoriale. Attività che è andata a soddisfare un'esigenza cruciale nel difficile rapporto tra innovazione, imprese efinanza, quella della preparazione all'incontro ed alle conseguenze di un rapporto di partnership e di un accrescimento della consapevolezza, da parte 102
degli imprenditori, di cosa sia realmente il "venture capital", al difuori dalla retorica spesso confusa. All'attività formativa hanno parteczato 13 imprenditori. Di questa particolare iniziativa ha riferito Fabio Biscotti e John Tidmarsh, ricordando le peculiarità del settore spaziale rispetto a questo tipo di iniziative, leprecedenti esperienze monitorate nell'ambito dei Workshop, la presenza di fondi di finanziamento specializzati, la complessità delfenomeno in termini di traduzione dal linguaggio della ricerca e delle tecnologie a quella della valorizzazione in chiave imprenditoriale e commerciale. Cosa che rende necessaria l'erogazione di adeguati servizi di "traduzione", consistenti - in questo caso - in giornate di training intensivo per le imprese, organizzate dal Css e da esperti difinanza di impresa, industria, marketing e consulenza aziendale. Training che ha avuto un ottimo riscontro da parte dei partecipanti che hanno capito l'importanza di uscire - in certi momenti dalla routine per investire in attività che non hanno un ritorno immediato ma che sonofondamentali per gestire rapporti che potranno maturare in tempi anche lunghi. L'attività è stata poi ulteriormente perfezionata da una fase di scouting e selezione delle idee imprenditoriali e seguita da una fase di incontri tra imprese e business angel e società di venture capital, con l'obiettivo di abbattere ogni barriera a livello di comunicazione tra mondo dell'impresa e della finanza ed aumentare l'impatto positivo di questa iniziativa. Da tutto ciò sono scaturiti alcuni positivi risultati: non solo l'instaurarsi di primi contatti tra le migliori imprese e potenziali finanziatori, ma anche valutazioni serene e consapevoli per invitare alcuni imprenditori a fare dei passi indietro ed evitare delle pericolose e costose 'fughe in avanti' L'articolo di Roberto Romano che ospitiamo in questo dossier, invece, ha ad oggetto argomenti che in un certo senso completano il discorso, prettamente microeconomico, dei servizi formativi e delle esperienze raccontate durante il Workshop di Milano. Rzprendendo alcuni spunti del dibattito dello stesso workshop, specialmente quelli sopra citati sulla 'programmazione industriale", Romano affionta e approfondisce il ruolo della ricerca e dell'innovazione tecnologica a livello macroeconomico, dando evidenza di dati relativi all'impatto reale e potenziale della ricerca sulla ricchezza di un Paese, sull'occupazione, sui salari, sulla produttività. In generale si conferma il ruolo positivo della conoscenza tecnologica su questi elementi e si conclude con un richiamo ad una maggioreforza della 'politica industriale" ad essere, in un certo senso, anticipatrice della domanda ed essa stessa 'pre-competitiva" nei confronti delle nuove sfide tecnologiche e produttive. Senza dubbio il richiamo appare ragionevole, soprattutto in certi settori industriali su cui parte dell'industria si sta riconvertendo, come quello delle energie alternative, che esigono un driverforte di natura pubblica. Del resto, ilprogramma "Industria 2015" (di cui anche si è parlato in numeri precedenti di queste istituzioni), attuato però senza troppa convinzione, anche a causa della crisi internazionale - a nostro avviso - è un esempio concreto di ciò che si può porre nell'ottica suggerita dall'autore. 103
•Questo approccio di recupero di un ruolo utile epragmatico, ma comunque programmatorio e dall'alto, evidentemente amplia la testimonianza su quella che può essere definita l'emersione delle «nuoveforme di imprenditorialità"frutto di un rapporto non certo programmato (per certi versi sarebbe impossibile e comunque controproducente), ma provocato dal network, relazioni, reti - anche improvvisate e caotiche - tra imprese, pubbliche autorità, enti finanziari, giovani ricercatori, da cui spesso hanno origine i risultati più innovativi e brillanti. Rapporto che certo non deve essere lasciato al caso, ma deve anch'esso essere ben organizzato, condiviso eprofessionalizzato. (FR.)
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queste istituzioni
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Il trasferimento tecnologico per le scienze della ita la Eoudaziolle Filarete di Mario Zanone Poma
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l trasferimento tecnologico - continuerei a chiamarlo così nonostante sia più corretto usare l'espressione "trasformazione della conoscenza tecnologica", corrispondente ad una logica più appropriata - è un motore dell'innovazione, una sua realizzazione concreta. Parlo, dunque, della Fondazione F'ilarete, un'organizzazione nata per promuovere il trasferimento tecnologico. Una breve premessa sul perché è nata la Fondazione Filarete: sono stato commissario della Fondazione Cariplo dal 1998 al 2007, dal 1998 al 2000, sempre per la Fondazione, mi sono occupato di Ricerca scientifica. Ho fatto anche altre esperienze dirette ma fu in Cariplo, con Carlo Mango ed altri colleghi, che ci siamo resi conto che, per dare un concreto impulso a certi fenomeni, occorresse fare un passo in avanti. Abbiamo intuito che il trasferimento tecnologico andasse misurato e valutato attraverso un sistema in grado di produrre spin-off, ma non solo. L'idea iniziale ha poi preso forma perché l'Università Statale di Milano si è resa conto che il trasferimento tecnologico fatto solamente dentro l'università non è in grado di produrre (o produce con difficoltà) ricadute esterne. Si è dunque creata una combinazione di più interessi intorno al trasferimento tecnologico: quelli di un ente privato no profit (la Fondazione Cariplo), un ente pubblico no profit (l'Università di Milano, luogo di produzione della conoscenza), un privato di natura profit (ossia la prima banca del Paese, Intesa SanPaolo). L'idea che nacque fu quella che dall'Università la conoscenza dovesse essere trasferita ad un sistema di imprese. E qui viene il punctum dolens perché la comunicazione tra università ed imprese ha sì fatto passi avanti, ma manca tuttora una liason, qualche elemento che rende possibile il vero trasferimento tecnologico. 105
La gestazione della Fondazione è durata un bel po ' di tempo: se ne è cominciato a parlare concretamente in Cariplo nel 2004/2005 e poi, con l'Università, a partire dal 2006; il 7 aprile 2008 è stata costituita ed il 18 novembre 2008 è stata presentata al pubblico. Il nome è quello dell'architetto del Quattrocento, Antonio di Pietro Averlino, detto "il Filarete", scelto perché "colui che ama le virtù" e .perché voleva unire il bello all'utile.
LA MISSIONE, L'AMBITO E IL MODELLO FILARETE Filarete ha deciso di occuparsi di un campo di attività ben definito: le scienze della vita. Ciò perché in questo settore di ricerca il nostro Paese può vantare una posizione importante a livello internazionale, avendo scienziati bravi in grado di competere con i colleghi di tutto il mondo. E dunque un settore in cui l'Italia non è indietro agli altri, soprattutto per quel che riguarda il settore delle nano-bioscienze. Inoltre, sia in Cina che in USA, questo è un settore in cui sia il tasso di sviluppo sia il livello degli sviluppi possibili sono tra i più alti. Filarete - il cui modello è tra l'altro allo studio da parte di colleghi di Israele e di Filadeffia (USA) - nasce da un luogo fisico, non solo da intenti virtuali: un edificio di 6.500 mq in cui trovano spazio delle "piattaforme di ricerca scientifica applicata" in cui hanno luogo progetti di trasferimento tecnologico ed operano le aziende interessate. Questi spazi sono anche l'ambito in cui vengono realizzati servizi per favorire gli spin-off. Ad oggi sono state attivate dieci piattaforme. Alcuni concetti sono alla base del modello Filerete. Il primo. Innanzitutto quello che si fa a Filarete è spingere il ricercatore ed il professore universitario a brevettare la propria ricerca e a portarla verso l'applicazione. C'è sempre il rischio di innamoramento, da parte del personale accademico, delle proprie ricerche e del desiderio di continuare a "gestire" in proprio il sapere acquisito con la ricerca. Ciò limita un corretto approccio alla proprietà intellettuale e la possibilità di un utilizzo industriale dei risultati della ricerca. Ci deve essere una forzatura, se si può chiamare così, del ricercatore verso l'applicazione. Il secondo concetto fa riferimento all'analisi competitiva. Tutti gli amministratori di impresa hanno ben presente cosa sia ed a cosa serva. L'hanno tutti imparata all'Università, studiando Michael Porter ed altri autori. E un'analisi che si basa tipicamente sul prodotto dell'impresa. Credo invece che i tempi siano maturi per un'evoluzione del modello classico di analisi competitiva. Occorre contestualizzarla e renderla sostenibile nell'ambito di iniziative di trasferimento tecnologico e di imprenditorialità irriovativatipicadellanuova 106
economia della conoscenza. E un'analisi che deve tener conto di punti di riferimento diversi da quelli che fino ad oggi hanno caratterizzato il modo di fare impresa. Va, in particolare, superata la logica dei grants e si deve puntare ad un modo imprenditoriale di fare trasferimento tecnologico e ad una profittabilità veloce. In Italia, abbiamo circa 600 spin-off ma, se prendiamo in considerazione solo queffi che riescono a reggersi sulle proprie gambe, non se ne contano più di 50, al massimo 60. Credo, dunque, che l'analisi competitiva di cui stiamo parlando vada applicata a livello della nascita delle imprese (e loro possibilità di sopravvivenza), non solo a livello del prodotto. Come si faccia non lo so. In Filarete lo stiamo studiando, ma sicuramente dobbiamo poter mettere in grado di garantire la "possibilità di insuccesso". Faccio un esempio: Filarete ha intercettato un'idea molto valida che ha anche attratto degli investimenti (già questo un fatto raro, in un periodo di scarsità di risorse). Ebbene, questa idea si è dovuta confrontare ben presto con un'azienda estera analoga ma più matura. Dobbiamo lavorare il più possibile affinché queste cose non accadano perché ciò porterebbe ad una dispersione di risorse scarse, sia pubbliche che private. E non solo in Italia, ma anche in USA. Se esaminiamo il tema da un punto di vista globale dobbiamo dunque convenire sul fatto che l'analisi competitiva delle idee è un punto fondamentale. Ilterzo concetto. Dobbiamo stabilire un tempo limite per concretizzare la capacità di una impresa o spin-off di diventare realmente impresa. Non possiamo assumere che il tempo sia eterno: ciò sarebbe ovviamente anti-economico. Sappiamo che per sviluppare una molecola servono circa 10-12 anni. Il sistema di finanziamento - il passaggio dal pre-seed, seed e venture capital difficilmente può coprire tale lasso di tempo. Ma, in tutte queste fasi, c'è la valutazione della "possibilità di impresa", sulla base del fatto che un'iniziativa imprenditoriale deve puntare a produrre ritorni in un tempo compreso tra i 3 ed i 5 anni. Come un progetto di ricerca possa diventare profit si vede caso per caso, o,viamente. Certo, un'idea in campo diagnostico può essere implementata sicuramente in meno tempo rispetto ad una in campo terapeutico. Ma anche rimanendo nel campo terapeutico, e scegliendo dunque progetti più "pazienti" (si parla in ogni caso di periodi di 5-7 anni) occorre rispettare dei pre-requisiti di tipo valutativo.
LA STRUTTURA DI FILARETE Come detto, F'ilarete opera attraverso "piattaforme tecnologiche", vero e proprio core business della Fondazione. Le piattaforme sono dieci e sono focalizzate sulla ricerca applicata agli sviluppi pre-dinici di nuove molecole: genomics and bioinformatics, proteomics, celi model systems, stem cells, 107
molecular and cellular imaging, animai model systems, animai pathology, genetic engineering of model plant systems and crops, polymer therapeutics, micro and nano-fabrication. Le piattaforme sono la risposta alla necessità della ricerca che prevede un trasferimento tecnologico. Tramite la piattaforma tecnologica si offre una soluzione di tipo pratico: gli specialisti (non solo di determinate aree scientifiche)' difficilmente sono in grado di lavorare assieme se non ne sono messi in condizione. Le piattaforme occupano solo un terzo dei 6500 mq di edificio della Fondazione perché l'area rimanente verrà occupata dalle imprese che si insedieranno per collaborare con i ricercatori. Imprese che sono ancora un po' assenti; per questo Filarete sta svolgendo nei loro confronti un'azione di stimolo. L'obiettivo è quello di far sì che le imprese riconoscano la necessità di dovere occupare gli spazi di Filarete per lavorare a stretto contatto con i ricercatori. Solo con un'interazione fattiva tra ricerca ed impresa si può parlare di creazione di valore, e di trasferimento tecnologico. Altrimenti si tratterebbe di continuazione di attività di ricerca e di altra attività, non di trasferimento tecnologico. La creazione del valore avviene attraverso un modello di business che prevede una fase di pre-incubazione ed analisi delle idee imprenditoriali e che si estende fino alla commercializzazione del progetto. A tal proposito si fa riferimento alla figura seguente.
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IL MODELLO DI BUSINESS DI FONDAZIONE FILARETE Da questo modello di business è chiaro che Filarete non crede di dover dare supporto agli spin-off partendo necessariamente con cifre elevate, ad esempio, con un milione di euro, ma che si può partire anche con 10,20 mila euro, che possono essere messi a disposizione per far fonte alle necessità iniziali dell'impresa. Solo successivamente, se cisono riscontri e risultati, si può passare ad una seconda e ad una terza fase, che termina nel momento in cui l'azienda riesce ad attrarre investimenti esterni. A questo punto lo spin-off è diventato impresa. Prima di questo momento non si può parlare di attività imprenditoriale. Per raggiungere questi livelli di imprenditorialità non bastano i ricercatori e gli uomini di scienza, ma bisogna far sì che tali risorse incontrino, nello stesso posto, anche dei business developer, uomini del marketing, della finanza, advisor finanziari, e così via. Se gli ambienti rimangono staccati, i rispettivi linguaggi non vengono capiti ed i risultati non si raggiungeranno mai. Per questo ritengo che il luogo più importante di Filarete sia il bar. La connessione tra colui che pensa tutti i giorni di scienza e colui che ne controlla i presupposti di sostenibilità economica è necessario che avvenga nel modo più informale possibile. Per agevolare questo lavoro Filarete si è dotata di un Consiglio d'amministrazione molto competente, un direttore scientifico, il prof. Paolo Milani, che è referente di un Comitato scientifico internazionale, uno Statuto studiato ad hoc per permettere anche un'evoluzione organizzativa della Fondazione. Attualmente Filarete è dotata di due società di scopo: la prima è una società di servizi per gli spin-off, la seconda è una società di investimenti - "Filarete investimenti"— dotata di proprie risorse finanziarie che destina al sostegno delle idee e degli spin-off. Filarete Investimenti ha un Comitato di investimento composto da membri che non siedono nel consiglio della Fondazione. Ciò per garantire una piena indipendenza della società dalla Fondazione. Responsabile di "Filarete Investimenti" è un manager con curriculum di business developer. Si tratta di un'organizzazione in via di definizione ma che conta già sessanta risorse umane impiegate, e presto diventeranno un centinaio. Con riferimento ai fondatori ed alla governance, Filarete ha tre Soci fondatori che esprimono il Presidente, il Consiglio d'amministrazione (formato da membri nominati dalla Banca Intesa SanPaolo, l'Università di Milano e la Fondazione Cariplo), un co-fondatore (la Camera di Commercio di Milano) più altri aderenti, soggetti previsti statutariamente, che si possono associare alla fondazione. I co-fondatori contribuiscono, al pari dei fondatori, a finanziare la Fondazione e partecipano al Consiglio d'amministrazione. Gli associati dispongono di comitati di studio aperti a tutti gli interessati ma, ovviamente, si punta a coinvolgere le imprese associate a lavorare direttamente con i laboratori di ricerca. ITOVI
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0110 spiuoff "iffiprobabile":
11 caso ilsiiie dell'Università Milano Bicocca di Giorgio De IVlichelis
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n anno e sette mesi fa ho creato una spin-off company dell'Università Milano Bicocca, si chiama itsme ed è stata selezionata tra le oltre 200 innovazioni che l'Italia presenta all'Expo Shangai 2010. Lo definisco uno "spin-off improbabile" in quanto, prima di tutto, non è stato nemmeno creato da giovani ricercatori ma da un professore quasi in pensione. E poi perché è basato su di un progetto applicativo innovativo che ha come obiettivo quello di progettare i nuovi sistemi operativi per il personal computer della prossima generazione. Il nostro orizzonte sarà quello di competere coni sistemi operativi della Microsoft, della Apple e della famiglia dei sistemi basati su Linux. Abbiamo elaborato un concept molto innovativo e lo stiamo sviluppando. Durante l'elaborazione di questa idea una delle persone che ha dato fiducia e stimolo ad andare avanti è Alfonso Fuggetta, docente del Politecnico di Milano ed Amministratore delegato del CEFRIEL, un centro di trasferimento tecnologico. Vorrei soffermarmi proprio su questo tipo di soggetto. In Italia ne esistono moltissimi, forse non sono nemmeno totalmente censiti. Una recente indagine dell'Università Bocconi ne ha identificati almeno mille verificando, però, che il loro impatto è tutto sommato modesto in relazione all'offerta. Ce ne sono di comunali, provinciali, nazionali, settoriali. Si può ben dire che sarebbe oramai un problema sociale chiudere i centri di trasferimento inutili perché impiegano una non trascurabile forza lavoro. Ilnostro spin-off non è uno di quelli che è riuscito ad avviarsi con poche migliaia di euro. Si è infatti costituito grazie ad alcuni business angels che hanno creduto nel progetto ed hanno concesso un finanziamento di un milione ejnezzo_di euro. Non sono poi stati richiesti ulteriorifinanziamenti pubblici per non dover affrontare un altro ordine di problemi, che è quello del tempo. 110
Penso che sia opinione generalizzata quella dell'inefficienza dei bandi di gara quali strumenti di sostegno dell'innovazione. Il ricercatore, l'imprenditore, ha i propri tempi per l'innovazione; non si può fermare per mesi in attesa della pubblicazione del bando e nemmeno, come è accaduto al nostro team, attendere mesi prima dell'erogazione delle risorse accordate da parte dell'ente pubblico. Altro è il caso in cui alcuni enti, non accettando nessun livello di rischio, chiedono garanzie sul finanziamento concesso a giovani realtà imprenditoriali. Sarebbe meglio che questi enti non si occupassero di innovazione. Chi vuole fare impresa deve poter contare su risorse finanziarie nel momento esatto in cui ne ha bisogno. Se si vuole realmente incentivare l'impresa forse sono efficienti solo i cd. "meccanismi automatici", come la defiscalizzazione. Anche sul fronte del mercato dei capitali privati si evidenziano spazi enormi di crescita e necessità di una maggiore maturazione. Le società di venture Capital stabiliscono, di fatto, dei margini di rendimento che non facciano perdere più del 30%. Nel settore dell'innovazione si tratta di limiti che appaiono eccessivamente stringenti. In Italia gli operatori di venture capital normalmente riescono a completare gli investimenti sempre dopo i tempi prefissati poiché non riescono ad individuare con facilità aziende in cui investire. Questo naturalmente è un problema. Bisognerebbe avanzare una proposta partendo da ragionamenti suesperienze concrete. Prossimamente sarà pubblicato un articolo redatto da me e Fuggetta in cui sono contenute alcune proposte. Qui ne sottolineo una che è quella precedentemente ricordata di attivare tutti i meccanismi automatici (credito automatico di imposta), cercando di limitare i controlli al fatto che non ci siano abusi nell'utilizzo dei fondi, per sostenerè gli investimenti. Si cerchi di evitare sia finanziamenti a pioggia che meccanismi complessi. Si diano finanziamenti in maniera semplice, perché è più trasparente per le imprese che vogliono mettersi in questo processo. Si dia più certezza rispetto ai tempi di erogazione delle risorse. Per quanto riguarda il caso del nostro spin-off devo dire che mi sorprende il fatto che il milione e trecentomila euro raccolti dai business angels non siano considerati come garanzia per ottenere il'successivo milione di euro necessario per sviluppare la società.
L'IMPORTANZA DELL'INCONTRO TRA RICERCATORI ED IMPRENDITORI
In generale, va detto che il modello di "trasferimento tecnologico" che si attua esclusivamente mediante l'uso di risorse e professionalità interne all'ente di ricerca che "produce" la conoscenza tecnologica, può dare risultati non sempre ottimali. Può senz'altro avere miglior successo un'esperienza di incontro tra ricercatori ed imprenditori, assistita da un"intelligenza", non tanto di meri 111
intermediatori delle attività di promozione e/o comunicazione del trasferimento tecnologico. Non a caso il CEF1UEL, che, è un modello di successo riprodotto in Veneto ed Emilia, è diretto da chi sta investendo professionalmente in attività che, tutto sommato, operano alla ricerca del pareggio economico. Non c'è una scorciatoia su questo terreno. Il rimando al CEFRIEL non è casuale. Il nostro spin-off collabora con questo centro domandando servizi, così come fa con l'Università di Siena e con la Domus Academy (un centro di design). Stiamo inoltre allargando il nostro network ad università straniere. Tutto ciò per fare sì che l'impatto del nostro progetto non sia casuale. Il nostro progetto di software innovativo può evolversi ed essere "trasferito" ad altri prodotti, ad altri sistemi, ad altri settori: stiamo lavorando, ad esempio, su applicazioni nel settore automotive e, sempre nel settore IcT, sul 'Web 2.0. Una nota sull'ICT. Questo settore è oggetto di uno spreco di denaro elevatissimo. L'informatica assorbe moltissimo denaro dell'Unione Europea ma, a parte il sistema informatico di SAP che non è mai stata finanziata dall'Unione Europea, non esistono imprese in grado di essere leader del settore. I finanziamenti sono stati spesso concessi a progetti di ricerca non sempre meritevoli. Ma qui si apre un altro problema, quello della valutazione. Per concludere, noto un paradosso. In Italia l'Università è considerata veramente poco. L'Unione Europea ha creato un fondo per ricercatori di eccellenza tecnologica ed ha selezionato nove ricercatori. Tra i ricercatori selezionati, tre sono italiani. Non c'è stata nessuna informazione sui media italiani al riguardo, neanche sui siti delle università dei ricercatori selezionati.
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Uil laboratorìo di idee: l'esperienza della FoildaiOile Cariplo di Carlo Mango
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'innovazioneitaliana è sostenuta, in parte, dal settore no profit. Alcune cifre riferite all'attività delle sole fondazioni di origine bancaria associate all'Acm, l'Associazione delle Casse di Risparmio Italiane, a cui aderiscono 88 soggetti, mettono in evidenza che il totale dei finanziamenti erogati a favore dell'attività di ricerca dalle fondazioni è stimato tra i 250 ed i 270 milioni di euro (dati 2008). Si tratta di numeri grosso modo equivalenti a quelli stanziati dal governo centrale per i bandi dei programmi PRIN (Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale) e PNR (Piano Nazionale della Ricerca) nel 2007. Ciò dovrebbe suscitare, da una parte, un certo ottimismo nei confronti del "settore privato no profit", dall'altra, una preoccupazione. Ma al di là della quantità di risorse finanziarie che si riescono a mettere a disposizione ciò che è più importante è la selezione, vera e propria "parola chiave" delle nostre riflessioni. A prescindere da chi sia il percettore dei finanziamenti (un'università, un ente di ricerca, ecc.), occorre analizzare i benefici della produzione scientifica, selezionare i progetti meritevoli valutando attentamente anche gli aspetti relativi alla proprietà brevettuale. Come responsabile dell'area ricerca di Cariplo posso riferire un aneddoto divertente: mi è capitato di frequentare i centri di trasferimento tecnologico di alcune università lombarde. Penso che abbiamo censito, in totale, circa 120 brevetti. La battuta che io ed il mio staif facciamo al referente dell'ufficio di trasferimento tecnologico di turno è la seguente: "ma non è preoccupato di avere tutti questi brevetti? dove sono i piani di marketing associati a questi brevetti?". La vera questione, infatti, non è avere a disposizione dei brevetti, ma come selezionarli. I centri di ricerca e di trasferimento tecnologico hanno oggi il problema di non essere tuttologi ed enciclopedisti. Devono avere ben presente che si possono trovare a condurre delle trattative con soggetti esterni che concentrano tutta la loro attività su quel settore tecnologico e produttivo. La trattativa 113
può essere caratterizzata da una forte asimmetria informativa e degli uffici non bene attrezzati possono entrare in grande difficoltà. Più che di trasferimento tecnologico - è stato detto - occorre parlare di trasformazione. Questa proposta del css è da recepire. A prescindere da come lo chiamiamo dobbiamo porci comunque delle domande di base: questa trasformazione è un processo lineare? Da dove parte, chi è l'imprenditore (un ricercatore, personale non docente, il professore, un imprenditore)? In che luogo può essere valorizzata la tecnologia? Quali collegamenti tra bacino di produzione scientifica e canali di commercializzazione? Quando si contatta l'impresa, chi ne è l'interlocutore (il responsabile dell'impresa o del settore R&D)? Queste domande aprono molti spunti di riflessione.
L'IMPORTANZA DELLA SELEZIONE La Fondazione Cariplo ha lavorato per costruire un vero e proprio "laboratorio" di idee e di strumenti. Concordo sulla parzialità di utilità dei bandi con data, come diceva De IVlichelis. In Cariplo lo strumento "bando", quale modalità principale di erogare finanziamenti, è stato scartato fin dall'inizio. Si è cominciato con un milione di euro nel 2001, oggi sono stanziati circa 50 milioni di euro di finanziamenti erogati tramite differenti iniziative. Sul punto, aggiungerei che le Agenzie pubbliche, in generale, tendono a pensare agli strumenti erogativi prima di porsi gli obiettivi che intendono perseguire. Quante pubbliche amministrazioni, ad esempio, fanno analisi di foresight, quante si pongono obiettivi strategici? Sempre sul piano della selezione, ci siamo presto resi conto che i finanziamenti dedicati alla realizzazione di studi e modelli del trasferimento tecnologico, certamènte utili, sono stati abbondanti nel passato e che era necessario un "richiamo alla concretezza" che ha visto parte di questi finanziamenti essere allocati a beneficio di altre iniziative più specifiche. Si è dunque pensato alla messa a punto di una "cassetta degli attrezzi" per soggetti intenzionati ad utilizzarli. In ogni caso per favorire lbsmosi più diretta tra impresa e ricerca. Non entro nel merito del tema del partenariato pubblico privato (dove il privato è da considerarsi sia profit che no profit), come formula ampiamente diffusa in tutto il mondo, ma certamente molto importante è l'interazione tra impresa e ricerca. Dunque, ai fini del trasferimento tecnologico, ogni buona ricerca deve essere selezionata bene. Ciò significa effettuare un review massivo, avere terzietà di giudizio, riconoscere ed attuare meccanismi di valutazione, evitando che ci siano (purtroppo ancora frequenti) commistioni di interessi tra le diverse parti. In altri Paesi la terzietà di giudizio è una cosa normale, in Italia noii si puòdire altrettanto. 114
Questi metodi di valutazione rigorosi non devono solamente essere applicati dalle grandi fondazioni. Cariplo, ad esempio, si confronta molto con fondazioni più piccole ed è parte di uno scambio continuo di esperienze con fondazioni più grandi come la Wellcome Trust, Bosch e Wolkswagen. Queste ultime fanno parte del programma "Tiepolo" finalizzato allo scambio di addetti delle fondazioni europee. Ci sono poi altri elementi relativi alle attività delle fondazioni che occorrerebbe considerare, in un certo senso indipendenti dalle volontà più strettamente operative della loro gestione. Mi riferisco all'impossibilità, stabilita per legge, per le fondazioni di origine bancaria di sostenere, direttamente le imprese. Questo è un punto critico su cui varrebbe la pena effettuare un serio confronto.
LA QUESTIONE DELLA PROPRIETÀ INTELLETtUALE Tornando su terreni in qualche maniera "governabili" dalle fondazioni, un elemento rilevante che può incidere significativamente sull'efficacia dei processi di trasferimento tecnologico è quello della proprietà intellettuale. In questo ambito deve essere posta la questione del ruolo della fondazione in termini di supporto per la tutela della proprietà intellettuale. In tal senso, la politica sugli Intellectual Property Rights (IPRs) di Cariplo prevede la co-intestazione di tutti i brevetti prodotti dai ricercatori senza porre il vincolo di incamerare le royalties derivanti dalla cessione degli stessi brevetti. Viene però posto il vincolo di essere informati circa il risultato della ricerca, su quali settori è stata applicata e se ha effettivamente soddisfatto un fabbisogno particolare, magari di interesse di altri programmi ed attività promosse da Cariplo. Ciò ha un'indiscutibile funzione di stimolo, anche se non è interesse della Fondazione partecipare ai benefici economici. Questa politica trova anche già il necessario complemento operativo. Ogni applicant dei bandi (ogni anno sono circa 500 i soggetti che fanno domanda) conosce in anticipo la policy inerente gli IPRs di Fondazione Cariplo. Si può infatti scaricare dal sito web lo schema di agreement che poi il richiedente dovrà rispettare. Ciò amplia il periodo di relazione della fondazione con le imprese, mentre con i grant erogati da una agenzia di finanziamento, di norma, non si crea continuità: esaurito il grant si esaurisce anche il rapporto. Questa policy è in atto dal 2005, abbiamo negoziato i primi brevetti 2 anni dopo la conclusione dei lavori. Di nuovo, ritorna il problema della difficoltà di selezione e, parallelamente, della propensione al rischio. Cariplo sta per avviare un programma sull'HiRisk Research, un programma "Curiosity Driven Research" al fine di valutare il contributo imprenditoriale di nuove idee: le start-up, le spin-off poiché gli 115
investitori tipici di questo genere di iniziative hanno un livello medio di risk taking abbastanza basso. Questo perché in generale queste imprese non riescono a creare dei volumi di fatturato molto elevati e, sul piano tecnologico, di fatto viene privilegiata dagli investitori la ricerca 'mainstream. Per questo abbiamo promosso un toolbox, strumenti di finanziamento ad hoc, per agevolare l'emersione di nuove idee e la propensione all'iinprenditorialità. Tra gli altri programmi della Fondazione ve n'è uno degno di nota perché finalizzato a realizzare un vero e proprio "sistema delle fondazioni". Cariplo ha promosso e realizzato il più grande progetto di collaborazione in Europa sull'Agrofood nazionale - AGER - che coinvolge 13 fondazioni che hanno raccolto circa 17 milioni di euro, e si pone nellttica di filiera su settori chiave come l'agroalimentare, l'ortofrutticolo, il vinicolo, il cerealicolo. Una fondazione di origine bancaria può agire anche attraverso investimenti in enti strumentali, purché no profit ed operanti in settori di interesse della Fondazione. Cariplo sta attuando questa possibilità avendo partecipato alla costituzione della Fondazione Filarete, un vero e proprio strumento pensato per creare le migliori condizioni possibili per il trasferimento tecnologico nel settore delle bioscienze. Inoltre, le fondazioni di origine bancaria sono un soggetto in grado di mettere a contatto il settore della ricerca con il loro patrimonio in maniera originale. Alcune fondazioni, infatti, nell'ambito della loro facoltà di investire il loro patrimonio per ottenere dei ritorni, stanno sperimentando delle operazioni di investimento in fondi che, a loro volta, investono nella valorizzazione della conoscenza scientifico-tecnologica: è stato il caso di Technology Transfer Ventures (TTventures): un fondo che ha per scopo quello di investire in deal anche molto rischiosi ma con un potenziale di rendimento molto alto. Anche in questo caso la parola ricorrente è selezione: gli ingredienti infatti sono buona scienza, responsabilità, un buon board indipendente, protetto da pressioni esterne, al riparo da commistioni di altro genere e da input che non siano queUi del perseguimento del buon rendimento. Un'ultima riflessione. C'è un dibattito, attualmente, tra fondazioni europee in seno all'"European Forum for Research Funding". Il prossimo 2 e 3 dicembre a Londra le grandi fondazioni si confronteranno sull'utilizzo in senso etico della proprietà intellettuale e della tecnologia da parte dei soggetti filantropici. Questo per noi è importante. Vi è un'dibattito, in particolare, sull'Open Source che arriva a toccare il tema degli IPRs. Ci sono due scuole di pensiero, in tal senso, che sembrano ugualmente efficaci: il Wellcome Trust incamera circa il 30% sui brevetti da esso finanziati mentre in Cariplo non si pretendono royalties ma la contestazione del brevetto ai fini esclusivamente del monitoraggio ex post.
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queste istituzioni n. 156-157 gennaio-giugno 2010
Specializzaziolle produttiva, ricerca e sviluppo, salari. Il ruolo della tecnologia e dell'innovazione tecnologica di Roberto Romano
j Robinson: "L'economia non offre, a dfferenza delle scienze naturali mature, un corpo di conoscenze che la gente comune può accettare come stabilite una volta per tutte... Una generalizzazione delle "leggi dell'economia" di solito risulta così cauta da essere circolare, perché la sua validità dipende dalle definizioni, o così fragile per le eccezioni, da essere di poca utilità nella guida delle cose pratiche. Questa insoddisfacente condizione della disciplina è dovuta alfatto che da una discussione non possono emergere conclusioni deflnitive,flno a quando non si è d'accordo sul metodo da seguire per decidere chi ha ragione". (Introduction of the exercises in economic analysis)
J
n questo lavoro si intende discutere l'impatto della crescita dell'intensità tecnologica sul commercio internazionale e sulla produzione manifatturiera dei principali competitors internazionali. L'ampliamento della conoscenza nei processi produttivi ha come principale conseguenza quella di modificare alcune caratteristiche del mercato di riferimento, la distribuzione e la crescita del reddito. Combinando le diverse informazioni relative alle caratteristiche principali della produzione industriale, alla spesa in ricerca e sviluppo, alla dinamica salariale, assieme alle ore lavorate per addetto, si intende verificare se un "allargamento" del concetto di oligopolio (nel senso del target e dell'intensità tecnologica) concorrono a modificare il mercato di riferimento e, per questa via, le caratteristiche intrinseche del lavoro. Inoltre è possibile verificare anche le diverse tendenze salariali e di crescita di reddito di molti Paesi. Indiscutibilmente le politiche defiattive del lavoro di questi anni hanno condizionato la corretta distribuzione del reddito, ma i redditi sono coerenti con la specializzazione produttiva, l'economie di scala intrinseche e l'intensità tecnologica. L'autore è Ricercatore della Cgil Lombardia.
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L'Italia è il Paese che più di altri ha tentato di competere nei mercati fiex price (concorrenziali) con una accentuata politica defiattiva del lavoro, ma non ha potuto in nessun modo compensare la crescita del costo del lavoro legata alla propria specializzazione produttiva, fortemente concentrata su attività e servizi "concorrenziali" che non necessitano di cospicui impegni sul terreno della conoscenza. Viceversa, in quei Paesi nei quali il target della produzione e l'intensità tecnologica era elevata è stato possibile attuare delle politiche economiche che consentivano un reddito da lavoro dipendente significativamente più alto.
COME OPERA "REALMENTE" L'ECONOMIA
Se il processo di crescente divisione del lavoro tra settori e all'interno di ciascuna unità produttiva è l'aspetto principale dello sviluppo economico (modificando la struttura produttiva della società, l'evoluzione dei rapporti sociali, la distribuzione del reddito, assieme ai cambiamenti nei costumi) 1 l'evoluzione e la pervasività della tecnologia di questi ultimi anni ha concorso alla nuova divisione internazionale del lavoro. Gli economisti classici avevano ben compreso l'economia politica come scienza sociale e, in particolare, come con il passare degli anni e dei secoli questa evolva. L'idea è quella di studiare le vicende economiche della società per come esse si presentano, non come immaginiamo o vorremmo che funzionasse: "Personalmente ho pensato da tempo che il modo più convincente per presentare la necessità di un paradigma economico alternativo, essenzialmente fondato sul fenomeno della produzione (e del cambiamento tecnologico), in contrapposizione al paradigma prevalente, essenzialmente fondato sul fenomeno dello scambio (e sulla scarsità delle risorse naturali), consista nel richiamare l'attenzione sui processi grazie ai quali, nel corso degli ultimi secoli, si è formato il mondo moderno". In particolare si tratta di rappresentare il "processo di accrescimento della ricchezza mediante un aumento materiale della quantità e del numero dei prodotti, da conseguire mediante l'applicazione pratica dei progressi della scienza, la divisione e la specializzazione del lavoro, i miglioramenti organizzativi, l'invenzione e l'utilizzazione di nuove fonti di energia e di nuovi materiali 112 . Sicuramente il "commercio" ha stimolato l'evoluzione economica, ma è solo attraverso l'industria che è stato possibile configurare i rendimenti crescenti e delineare il "modello di pura produzione" che ha "formato" le tesi di Keynes e Shumpeter, fino a intercettare economisti di scuole diverse come P. S. Labini, N. Kaldor,J. Robinson3 .
118
,
CAMBIAMENTO DEI MERCATI DI RIFERIMENTO: OLIGOPOLIO TECNOLOGICO
Per approfondire il tema dei mercati di riferimento (concorrenza e costo pieno), la critica post-keynesiana alla teoria neoclassica (marginalista-utilitarista) può essere molto utile per intercettare le principali variazioni di "struttura" (tecnologica) intervenute nel recente passato e, per questa via, interpretare correttamente l'andamento dei salari e l'accentuata flessibilità del mercato del lavoro. Sostanzialmente la teoria della determinazione dei prezzi fondata sui costi pieni sembra essere una base più che solida per indagare il mutato paradigma tecnologic0 4 Le principali critiche postkeynesiane al modello neoclassico sono legate all'impossibilità di conoscere la curva della domanda da parte delle imprese, alla determinazione del prezzo che è fissata con il metodo del costo pieno, cioè al prezzo cui l'impresa è disposta a vendere qualsiasi quantità il mercato è disposto ad assorbire, alla necessità delle imprese di agganciare ai costi un mark up. La recente crescita del mercato finanziario ha concorso all'ampliamento dei soggetti interessati al sistema delle imprese. La teoria manageriale dell'impresa, principalmente imputabile a W. Baumol, R. Marris e O. E. Williamson 5, assegna al mercato "borsistico" un certo influsso sulla condotta dell'impresa compiendo una continua valutazione attraverso i corsi delle azioni. Per queste ragioni i manager sono attenti alla distribuzione annuale dei dividendi in misura sufficiente a soddisfare le attese degli azionisti. In tal modo la determinazione dei prezzi postkeynesiana dovrebbe comprende i costi legati alla "remunerazione" degli azionisti. Se i postkeynesiani non rifiutano il modello neoclassico di determinazione dei prezzi (J. Robinson), è altrettanto vero che considerano questo modello incoerente con la realtà economica. Secondo i postkeynesiani, i prezzi dei beni si formano su due mercati profondamente diversi: il primo metodo è fondato sull'interazione tra la curva dellfferta e la curva della domanda, il secondo è fondato sul metodo del costo pieno, cioè il prezzo della merce è fissato dall'offerente a un livello che sia in grado di coprire il costo della produzione e assicurare un margine di profitto. Il metodo fondato sull'incrocio della curva della domanda e dell'offerta (flex price economy) presuppone l'esistenza di un mercato perfettamente concorrenziale, mentre il metodo del costo pieno (fyx price economy) presuppone un quantity adjusting, in altre parole la presenza di mercati imperfetti (oligopoli e monopoli) 6. Quest'ultimo modello appare sicuramente più coerente alla realtà economica, anche se non dovrebbe essere interpretato troppo rigidamente. Lo sviluppo economico, industriale, tecnologico e il ruolo preponderante e non più esogeno della ricerca e sviluppo, suggeriscono una maggiore flessibilità nell'interpretazione del modello. Il confine dei mercati di riferimento fiex price e ftx price è mobile e non attiene alla sola .
119
"trasformazione" delle materie prime. Lo slittamento di questo confine è principalmente dovuto al progresso tecnico e all'intensità dello stesso. Infatti, il carattere quasi continuo dell'innovazione nelle singole imprese non ha solo "bloccato" il meccanismo della concorrenza perfetta, ma ha cambiato il mercato di riferimento introducendo delle barriere all'entrata di nuove imprese, cioè si è passati da un modello di determinazione dei prezzi legato alla concorrenza perfetta (fiex price), al modello di determinazione dei prezzi a costo pieno (fix price). Le implicazioni nella distribuzione del reddito e nella crescita economica sono rilevanti. Riprendendo le tesi di P. S. Labini, in oligopolio il progresso tecnico tende a tradursi in aumenti salariali e stipendi più che in riduzioni dei prezzi, e gli effetti (tecnologici e nella distribuzione del reddito) sono per lo più confinati nel settore d'origine. Inoltre, le tensioni concorrenziali per i settori oligopolistici possono essere frenate per lunghi periodi di tempo. Se questo è il target del sistema economico, se l'oligopolio diventa sempre più "oligopolio tecnologico", l'analisi delle caratteristiche intrinseche del mercato di riferimento (fiex price e fix price) diventa stringente: all'oligopolio tecnico di Paret0 7 dovrebbe afliancarsi anche un monopolio tecnologico. La tecnologia è parte integrante del capitalismo, ma la crescita dell'innovazione tecnologica e la pervasività della stessa nel sistema produttivo hanno mutato il mercato di riferimento di determinazione dei prezzi. Forzando la definizione di D. Ricardo di "merci scarse" e "merci prodotte" 8 si potrebbero indicare con merci scarse i beni e servizi a basso valore aggiunto, mentre per le merci prodotte le attività a medio e alto contenuto tecnologico. Anche il modello schumpeteriano d'analisi economica dei cicli è particolarmente interessante. Secondo questo modello si esce da una depressione solo quando un "grappolo" d'innovazioni riesce a formarsi e si traduce in nuove opportunità di crescita, investimento e profitto. L'aspetto "sottovalutato" del modello shumpeteriano è, però, l'accumulo di tecnologia. Infatti, l'esaurimento della dinamica positiva della precedente tecnologia non significa un arretramento tecnologico. Giustappunto si tratta di un esaurimento della spinta propulsiva della tecnologia, ma l'insieme del sistema economico ha guadagnato in termini di conoscenza. Il nuovo grappolo di conoscenze necessario per uscire dalla crisi si aggiunge a quello precedente, formando un background indispensabile per rilanciare il sistema economico. Non a caso, nel corso di questi ultimi 30 anni l'intensità tecnologica del commercio internazionale è lentamente cresciuta, sfiorando il 40% del settore manifatturiero. E in ragione di questo accumulo che il confine tra i mercati fiex price e ftx price continua a muoversi. A sostegno di questa ipotesi possiamo utilizzare N. Kaldor, in particolare quando sostiene che il flusso delle innovazioni che compare in un determinato periodo non riguarda tutti i settori, ma si concentra in determinati prodotti e/o indu120
strie9. Sostanzialmente il metodo di determinazione dei prezzi fiex price si "allarga" anche alle attività produttive a basso contenuto tecnologico, mentre nel settore ad alta tecnologia agisce il meccanismo del costo pieno fondato sulla quantità10 Alcune indagini microeconomiche sul lavoro e l'impatto dell'innovazione tecnologica confermano l'ipotesi. Da queste indagini si osserva come le attività che ricadono nei prodotti innovativi creano più lavoro e, soprattutto, lavoro di maggiore qualità. Ma questo non è l'aspetto principale. Le imprese innovative, mediamente, realizzano profitti più alti delle imprese meno innovative e, grazie agli sforzi nel campo della ricerca e sviluppo, i profitti sono "garantiti" nel tempo ed hanno comportamenti migliori anche nei periodi di crisi. In qualche misura si può configurare una "nuova dimensione dellligopolio" legata all'innovazione e agli investimenti (taciti, cioè quelli realizzati all'interno delle imprese), che diventano una barriera all'entrata per gli imprenditori, delineando per le stesse imprese innovatrici un certo livello di potere monopolistico 1 '. Non è quindi sbagliato sostenere che le imprese tecnologiche introducono delle barriere all'entrata di natura tecnologica. Queste riflessioni erano già presenti nei lavori di Sylos Labini quando sosteneva che uno degli obiettivi primari dell'impresa è proprio quello di impedire l'entrata nel settore di nuovi potenziali rivali anche per massimizzare il profitto di lungo periodo e per mantenere inalterata la propria quota di mercato attraverso il 1imitprincing12 Diversamente non si potrebbe comprendere il decentramento dell'attività produttiva a basso contenuto tecnologico da un lato, e il concentramento delle attività ad alto contenuto tecnologico dall'altro. Da un lato ci sono le imprese a minore contenuto tecnologico in cui la concorrenza si realizza attraverso l'ottimizzazione del costo dei fattori e/o allungamento delle ore lavorate a parità di salario, dall'altro le imprese "monopolistiche" e/o "oligopolistiche" (ad alto contenuto tecnologico) in cui il profitto è assicurato non tanto dal costo dei fattori, piuttosto da un più alto livello di prestazionilqualità del prodotto, che a sua volta consente un maggiore valore aggiunto. .
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IMPLICAZIONI ECONOMICHE E ALLOCATIVE DELLA CRESCITA DEI SETTORI HIGH TECH SUL COMPLESSO DELL'ATTIVITÀ PRÒDUTTIVA La crescita dell'intensità tecnologica nel commercio internazionale 13, come nella produzione industriale, rappresenta un fattore di competitività internazionale con delle forti implicazioni nella divisione internazionale del lavoro. Se consideriamo la quota percentuale del commercio internazionale legata ai prodotti high tech, la spesa in ricerca e sviluppo assieme alle ore lavorate, il 121
costo del lavoro e l'andamento dei salari, non solo si può registrare un indiscutibile rafforzamento della componente tecnologica nella produzione, ma la tecnologia spiega anche la diversa capacità competitiva dei Paesi. Inoltre, la percentuale h-t (high tech) sul commercio internazionale per destinazione di produzione ha tassi di crescita omogenei. Se per i beni capitali e strumentali il risultato è in qualche misura atteso, la forte crescita della componente h-t nei beni di consumo ben rappresenta il mutato paradigma di produzione e, implicitamente, dei mercati di riferimento. Per i beni strumentali-capitali la media high tech dei Paesi considerati 14 sul complesso delle esportazioni manifatturiere, è passata dal 26,98% del 196165 al 44,38% del 2006; per i beni intermedi la percentuale high tech passa dall'8,65% al 26,02%; per i beni di consumo la quota percentuale passa dal 12,96% al 29,30%. Forse non è corretto considerare queste quote h-t sul complesso dell'esportazione dei beni manifatturieri come delle soglie "oligopolistiche", ma rappresentano bene il "punto" di partenza per misurarsi sul mercato internazionale. Probabilmente sono soglie "critiche" che presuppongono un forte background dal lato delle competenze tecnologiche accumulate, e necessitano di adeguate economie di scala per operare su un mercato i cui ritorni economici sono differiti nel tempo, con delle implicite barriere all'entrata nel settore di riferimento legate alla conoscenza e ai costi di adeguamento delle competenze tecnologiche.Tutti i beni (strumentali, intermedi, consumo) sono interessati dal consolidamento della parte high tech, ossia la ricerca e sviluppo e la dimensione di scala (adeguata) per sviluppare la stessa (alta tecnologia), non sono più un fatto aneddotico, piuttosto una "condizione di mercato" dirimente. In qualche modo s'intravvede un allargamento del mercato soggetto al metodo di determinazione dei prezzi fiex price dei prodotti a basso valore aggiunto. Se consideriamo i singoli Paesi, inoltre, è possibile comprendere le ragioni di "struttura" del loro andamento economico e la relativa dinamica delle ore lavorate e dei tassi di variazione dei salari. Tra i competitors indicati nella tabella, l'Italia è il Paese che manifesta una evidente debolezza nella componente h-t. Tra l'altro, lo spread nella quota h-t rispetto ai Paesi considerati tende ad accentuarsi. Per i beni strumentali l'Italia riesce persino a comprimere la quota nel commercio internazionale legata all'ht, passando dal 29,33% del periodo 1961-65, al 18,74 del 2006. Più in particolare si osserva una progressiva incapacità a mantenere un ruolo importante nei settori avanzati. Se nel 1961-65 la distanza dalla media dei Paesi considerati nella componente h-t dei beni strumentali aveva valori positivi del 2,35%, cioè l'Italia superava la media dei Paesi analizzati, alla fine del 2006 lo spread diventa negativo per un meno 25,64%; per i beni intermedi si passa dallo 0,38% al meno 10,14%; per i beni di consumo si passa dal meno 7,73% al rnenol4,41%. 122
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Quota percentuale dei prodotti high tech sulle esportazioni di beni manifatturieri per categoria di destinazione economica Beni capitali-strumentali 1961-65 1966-70 1971-75 1976-80 1981-85 1986-90 1991-95 1996-002001-05 2006 Francia
28,09
30,99
26,82
28,87
37,24
43,34
49,02
52,61
51,8
52,32
Germania
19,31
20,74
22,79
24,73
31,81
32,35
33,35
3655
40,17
39,07
Italia
29,33
25,92
25
23,8
26,48
26,56
23,55
20,91
2047
18,74
54,34
55,96
5845
65,63
58,9 43,55
58,57 43,7 43,69
Jj_ 5744 39,98 L 4 1 9_ A2.2_ 44,23 44 ,38
-22,78
-2376
G. B.
20,77
26,86
30,03
33,92
44,68
Stati Uniti Giappone Canada media spread Ita-media
34,04 13,51 43,78 26,98
38,48 18,02 30,14 27,31
41,99 19,8 31,48 28,27
42,26 23,31 26,1 29,00
52,3 31,96 35,84 37,19
2,35
-1,39
-3,27
-5,20
-10,71
52,28
1
J9_ 42 1,13 g 42101 -15,45
-18,58
-2564
Beni intermedi 1961-65 Francia Germania Italia G. B. Stati Uniti Giappone Canada media spread Ita-media
196670L197175
1976-80 1981-85 1986-90 1991-95 1996-00 2001-051 2006
5,95 12,43 9,03 10,06 14,58 4,78 3,75 8,65
8,41 10,03 10,26 10,95 13,69 7,83 2,74 9,13
11,13 14,94 11,49 15,52 16,56 9,28 2,64 11,65
12,99 16,23 11,7 16,3 20,03 12,49 3,6 13,33
15,95 18,1 . 1,44 24,15 27,03 18,06 6,06 17,40
19,09 20,49 15,44 26,95 30,86 27,37 9,07 21,32
21,96 21,48 16,26 28,22 33,44 33,32 13,28 23,99
25,28 23,93 _9 32,44 39,03 37,9 15,56 27,25
0,38
1,13
-0,16
-1,63
-4,96
-5,88
-7,73
-10,66
24,56 24.81 J2_ 34,19 1 38,7 37,23 14,46 27,25 -10,43
24,82 249_
1583_ 32.41 36,31 35,48
JZL 26,02 -10,14
Beni di consumo 1961-65 1966-70 1971-751 1976-80 1981-85 1986-90 1991-95 1996-0( 2001-0 Francia Germania Italia G. B. Stati Uniti Giappone Canada media spread Ita-media
1
10,27 23,7 5,23 14,93 10,17 24,95 1,5 12,96
11,32 22,15 6,06 17,18 12,57 35,2 4,06 15,51
-7,73
-9,45
1
2006
9,51 20,48 7,55 19,56 11,23 41,06 3,49 16,13
11,03 17,81 5,25 17,21 11,31 45,66 4,33 16,09
13,69 16,24 4,78 17,07 12,68 48,41 5,79 16,95
15,1 16,42 5,05 18,79 14,73 48,87 5,39 17,76
19,67 117 6,47 23,64 14,26 43,13 5,23 18,65
24,4 22,41 9,08 27,77 17,25 43,23 6,86 21,57
31,52 27,97 13.47 34,54 24,76 42,84 10,66 26,54
-8,58
-10,84
-12,17
-12,71
-12 18 1
-12,49
-13,07 -14,41
32,11_ 14..89_ 37,52 27,85 45 15.26 29,30
Tratta da D. PALMA, S. PREZIOSO, "Progresso tecnico e dinamica del prodotto in una economia "in ritardo', Economia e Politica Industriale, 2010, Franco Angeli, Milano
123
La divisione tecnologica internazionale del lavoro non poteva che essere condizionata dal peso della quota h-t nella produzione industriale e dalla spesa in ricerca e sviluppo. Infatti, si osserva una "relazione" tra spesa in ricerca e sviluppo, ore lavorate annuali per lavoratore, retribuzioni e costo del lavoro. Sostanzialmente dove c'è una spesa in ricerca e sviluppo "alta" il salario tende ad essere più alto e le ore lavorate (annuali) più corte, mentre nei Paesi in cui la spesa in ricerca e sviluppo è più "bassa" il salario tende ad essere più contenuto e le ore lavorate più lunghe. Stressando il significato economico delle ore lavorate si potrebbe persino sostenere che le ore lavorate sono un indicatore di specializzazione produttiva. Comparando le ore lavorate e la spesa in ricerca e sviluppo sul PIL, i Paesi che hanno una spesa in ricerca e sviluppo prossima al 2% del PIL, le ore lavorate per addetto sono sempre più contenute delle ore lavorate nei Paesi che hanno una spesa in ricerca e sviluppo prossima o di poco superiore all'l% del PIL. Alcuni esempi possono aiutarci: la Germania spende in ricerca e sviluppo il 2,53% del PIL, mentre le ore lavorate sono pari a 1.433 ore; la Danimarca spende in ricerca e sviluppo il 2,48%, con 1.574 ore lavorate. Tra i Paesi performanti troviamo anche la Gran Bretagna che spende in ricerca e sviluppo l'1,82% del PIL, mentre le ore lavorate sono 1.670; la Francia con una spesa in ricerca e sviluppo pari al 2,04% del PIL e delle ore lavorate pari a 1.561. Solo Stati Uniti e Giappone rappresentano una parziale diversità con una spesa in ricerca e sviluppo rispettivamente del 2,62% del PIL e 1.794 ore lavorate e 3,44% del PIL e 1.785 ore lavorate. Rimane incontestabile il fatto che le ore lavorate sono sempre più contenute rispetto agli altri Paesi dove c'è una minore propensione alla ricerca. Diversamente da questi Stati troviamo l'Italia che spende in ricerca e sviluppo 1'1,18% del PIL, ma con un monte ore per addetto tra i più alti d'Europa, cioè 1.824 ore; la Polonia che spende in ricerca e sviluppo lo 0,57%, mentre un lavoratore deve lavorare 1976 ore. L'esito non è sorprendente. Infatti, la spesa in ricerca e sviluppo rappresenta il livello tecnologico di un Paese, cioè la possibilità di estrarre maggiore valore aggiunto rispetto a tutti i Paesi che devono agire prioritariamente sul costo del lavoro. Sostanzialmente le ore lavorate sono un indicatore di specializzazione, ma di segno diverso da quello che spesso si sostiene. Inoltre, la spesa in ricerca e sviluppo, unitamente alle ore lavorate, fanno il paio con la quota h-t del commercio internazionale della produzione industriale. In qualche modo le ore lavorate sono proporzionali alla specializzazione produttiva e più in particolare al peso della componente h-t.
124
Spesa in ricerca e sviluppo sul PIL e ore lavorate per lavoratore annue
Anno 2002
Anno 2003
Anno 2004
Anno 2005
Anno2006
Anno 2007
Ore
Ore
Ore
Ore
Ore
Ore
annuali
annuali
annuali
annuali
annuali
annuali
medie
medie
medie
medie
medie
R&S?tL lavorate
R&SPIL lavorate
R&SPIL lavorate
A&SIDIL lavorate R&SPIL lavorate
medie R&SPIL lavorate per
per
per
per
per
per
persona
persona
persona
persona
persona
persona
occupata
occupata
occupata
occupata
occupata
occupata
Germ.
2,49
1445
2,52
1439
249
1442
2,49
1435
2,53
1433
2,53
1433
France
223
1536
2,17
1531
2,15
1558
2,1
1550
2,1
1568
2,04
1561
1826
1,09
1819
1,13
1814
1,18
1824
Italy
1,13
1831
1,11
1826
1,1
UK
1,79
1696
1,75
1677
1,68
1672
1,73
1676
1,75
1669
1,82
1670
2,6
1807
2,6
1797
2,53
1799
2,56
1795
2,6
1797
2,62
1794
1775
3,4
1784
3,44
1785
United States Japan
3,17
1798
3,2
1799
3,17
1787
3,32
Fonte: OECD EMPLOYMENT OUTLOOK - ISBN 978-92-64-04632-0-@OECD 2008 e www.eurostat.eu
VARIAZIONE DEL COSTO DEL LAVORO E DEI SALARI
Indagando l'andamento dei salari si osserva una forte contrazione dei tassi di crescita a partire dal 1985, ma la caduta tendenziale dei salari, per quanto omogenea a livello globale, è diversa da Paese e Paese e dovrebbe essere valutata rispetto ai livelli iniziali di partenza. Infatti, i Paesi che hanno rafforzato e/o consolidato la parte manifatturiera high tech, i livelli iniziali e finali dei salari sono sempre sopra la media. In qualche modo l'accresciuto ruolo della parte high tech della produzione ha permesso alle retribuzioni di rimanere più alte rispetto ai Paesi che hanno una produzione manifatturiera meno high tech. Rimane "preoccupante" il progressivo indebolimento del lavoro dovuto alle politiche defiattive, come si può osservare dal grafico sottostante, ma l'impatto di queste politiche rimane non omogeneo e condizionato dalle condizioni economiche generali del tessuto produttivo.. Un'altra spiegazione della riduzione dei tassi di crescita dei salari potrebbe essere legata alla minore dinamica del PIL, ma anche quest'ultima non è omogenea e cambia da Paese a Paese 15 . In qualche misura si conferma la rimodulazione del lavoro in funzione delle caratteristiche intrinseche del tessuto produttivo, al netto della generalizzata tendenza verso la defiazione del costo del lavoro. 125
Restando sul caso italiano si osserva la minore progressione dei tassi di crescita dei salari rispetto alla media dei Paesi considerati, soprattutto a partire dal 1995 16 . Annual growth rate of the Labour compensation per employee, total economy, US dollars calculated using PPPs. OttD,.
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2006
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• L'effetto di queste politiche deflattive non è omogeneo e si declina in modo diverso da Paese a Paese. Esaminando il reddito da lavoro sul totale dell'economia le differenze di specializzazione si manifestano in misura più evidente. La media dei Paesi analizzati è pari a 42.200,16 del 2006, contro i 35.833,30 dell'Italia. L'esito finale per l'Italia è quello di un Paese che lavora troppo, pagato generalmente meno della media dei Paesi considerati e coerente con la propria specializzazione produttiva. Per quasi tutti gli altri Paesi si osserva la stessa relazione, ma in misura minore in ragione del target della produzione industriale. Le politiche deflattive del costo del lavoro hanno caratterizzato le politiche economiche dei Paesi a capitalismo maturo, ma l'impatto sociale ed economico non è uguale. L'economie che operano nei settori innovativi sono riuscite a garantire dei livelli salariali migliori e un livello di flessibilità che ricorda molto il modello suggerito da S. Labini, ovvero che la flessibilità dovrebbe essere lo strumento per favorire il cambiamento tecnologico e non certo ridurre il ruolo e il potere contrattuale dei sindacati.
126
Labour compensation per empioyee total economy, US dollars calculated using PPPs. ISIBM92~3~
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20QQ 50000 15000 10000 5000 ,ned1071. imod157& medli561- roda5SM- modil50l. o,t5.,199E- mcda50ú1. 05 00 95 SO 35 50 75
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2006
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—Unitedngdom —United Stotes —
Se i salari italiani sono divergenti dalla media dei Paesi considerati, l'aspetto importante della caduta del saggio di crescita è la coincidenza con l'inizio del break di struttura tecnologico. Diversamente sarebbe difficile spiegare la crescita del costo del lavoro complessivo, nonostante le politiche deflattive e l'introduzione di norme legislative che aumentavano la flessibilità nel mercato del lavoro. Sostanzialmente l'Italia, in ragione della propria specializzazione produttiva, non poteva e non può che produrre beni e servizi che incorporavano tecnologia realizzata in altri Paesi, cioè l'Italia non era e non è strutturalmente attrezzata per operare nei settori a maggiore valore aggiunto. Indiscutibilmente la crescita del costo del lavoro a partire dal 2006 potrebbe essere imputata al ristagno economico di questi anni, ma senza un rafforzamento o allargamento della componente high tech della produzione è difficile controbilanciare la crescita del costo del lavoro, almeno che non si voglia perseguire la politica deflattiva del lavoro, con un impatto più che dubbio sulla crescita del PIL. Ridurre il costo del lavoro come simulacro della politica industriale significa attrezzarsi per competere sui mercati fiex price, rinunciando alla possibilità di diventare price taker. A ben guardare le curve della variazione del costo del lavoro annuale sono lo specchio fedele delle politiche industriali implicite dei Paesi. L'Italia è il Paese che più di altri ha tentato di competere sui mercati fiex price attraverso una forte politica deflattiva del lavoro, ma non ha potuto in nessun modo compensare la crescita del costo del lavoro legata alla propria specializzazione produttiva. 127
Unitlabour cost, manufacturing, annua I,growth rate. Deu eKV«t«j*n 10 cb 20101L55 I
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LA "CONOSCENZA" COME FONDAMENTO DELLA POLITICA INDUSTRIALE
L'accresciuta intensità tecnologica nella produzione di beni e servizi ha mutato la struttura dei mercati. I Paesi che hanno saputo adeguare il target della propria struttura produttiva sono riusciti a conservare un certò "margine" di "contrattazione", sia per i profitti e sia per i salari, anche se le politiche deflattive del lavoro hanno attraversato orizzontalmente tutti i Paesi. L'allargamento del mercato riferibile alla concorrenza ai beni e servizi a minore valore aggiunto ha delle forti implicazioni nella divisione internazionale del lavoro e nella possibilità di garantire dei salari adeguati per sostenere la domanda. Infatti, le strutture produttive a minore tasso di innovazione sono anche intrinsecamente meno dinamiche. Inoltre, occorre domandarsi quali siano le politiche economiche adeguate per conseguire degli aumenti di reddito sufficienti nelle economie a minore contenuto tecnologico, senza incappare nel vincolo estero. Oesto interrogativo diventa ancor più stringente se consideriamo che nei mercati concorrenziali gli aumenti di produttività mediamente si traducono in riduzione dei prezzi o delle tariffe, diversamente da quanto accade nei settori oligopolistici che si trasformano in aumenti dei profitti o dei salari. 128
La politica economica e più in particolare la politica industriale diventano stringenti, non soio per conseguire una crescita del reddito soddisfacente, ma anche per migliorare le condizioni del lavoro e dei salari. La politica industriale diventa sempre più politica pre-competitiva e politica di anticipo della domanda; lo sforzo nella ricerca e sviluppo endogena, più che il trasferimento di tecnologia, è il nuovo confine della politica economica. Si tratta di recuperare la programmazione del sapere e creare quelle riforme di struttura capaci di anticipare la domanda. Una sfida medita, resa ancor più stringente dall'ascesa dei brevetti e dalla produzione verde.
A. RONCAGLIA,1997, Lineamenti di economia politica, ed. Laterza, Roma-Bari. 2 LuIGI L. PASINEYFI, 2010, Keynes e i keynesiani di Cambridge, ed. Laterza, Roma-Bari. Si può anche dire che il modello neoclassico definisca un concetto statico. Infatti, il modello sottende una dotazione data di beni e servizi e il mercato ha per compito di risolvere il problema di come raggiungere la migliore allocazione delle risorse esistenti. OECD, Science Technology and industry scoreboard2009@OECD 2009, pag. 88,The manufacturing trade balance reveals an economy's structural strength and weakness in terms of technology intensity. li indicates whether an industry performs relatively better (or worse) than total manufacturing and can be interpreted as an indicator of reveled comparative advantage that is based on countries' trade specialization. W. BAUMAL, Business Behavior, Value and Growth, New York, Harcourt e Brace, 1959, trad. It. Strategia delle imprese e sviluppo economico, Milano, Etas, 1974; R. Marris, The
economic Theory ofManaegerial Capitalism, London, Macmillan, 1964, trad. It. La teoria economica del capitalismo manageriale, Torino, Einaudi, 1972; 0. E. WILLIAMSON, Managerial Descreation and Business Behaviour, in "American Economic Review", 1963 e The Economics ofDiscretionary Behaviour, Prentice Hall, Englewood Cliffs, 1964. 6 In via generale il meccanismo di aggiustamento attraverso il metodo del fiex price attiene al mercato delle materie prime che non richiedono grandi innovazioni tecnologiche, mentre il metodo del quantity adjusting trova la sua più coerente applicazione nei beni manifatturieri e nei servizi. ST1GL1TZ J.E., 2003, Economia del settore pubblico. Fondamenti teorici, Milano, Hoepli. 8 Come per Ricardo ci sono "merci scarse e merci prodotte", possono anche esserci all'interno del mercato delle merci prodotte con "mercati di riferimento" diversi che mutano con l'estensione e l'intensità della tecnologia che si sviluppa. L. PASIINErrI, 2010, Keynese i keynesiani 129
di Cambridge, ed. Laterza, Roma-Bari, pag.
229; D. RICARDO, 1821, 1951-73, On the principles ofpolitical economy and taxation, 3a edizione, 1821, ora in The works andcorrespondence of David Ricardo, a cura di PIERO SRAFFA, in collaborazione con H. 1VIAURICE, DOBB, Cambridge University Press, Cambridge, voi. I; tr. it. Princzpi di politica economica e dell'imposta, ISEDI, Milano 1986. I classici sono di grande aiuto nel comprendere la dinamica del sistema economico e sono fondamentali quando fanno la distinzione tra merci scarse, cioè le" merci il cui valore è determinato soltanto dalla scarsità", e merci prodotte, cioè "la parte di gran lunga maggiore dei beni desiderati", che sono ottenute per mezzo del lavoro. Inoltre, questi ultimi (beni) possono essere moltiplicati quasi illimitatamente e non soltanto per un Paese solamente, se si è disposti a impiegare il lavoro necessario per produrli. Lo spostamento della funzione del progresso tecnico (FPT) coinvolgerà essenzialmente solo una parte dell'output. Più in generale, se il sistema economico è in grado di portare avanti con successo una redistribuzione settoriale dell'occupazione da settori in declino verso settori in espansione, il profilo del progresso tecnico, del reddito, anche del
130
fattore lavoro, tenderà a essere virtuosa nel lungo periodo. 10 Sostanzialmente l'impresa considera il prezzo della merce che vende come un dato su cui non si può influire, cioè l'imprenditore si limita a determinare la quantità dai prezzi degli input e degli output data una certa funzione di produzione. Il A. KLEINKNECHT, 1998, Is labour market fiexibility harmfull to innovation, ed. «Cambridge Journal of Economics», 1998, 22, 387-396. 12 M. Kalecki, P. S. Labini hanno coerentemente accentuato il concetto che né le variazioni della domanda, né la scarsità giocano un ruolo importante nella spiegazione dei prezzi dei manufatti. 13 Dal 1985 la quota del commercio internazionale dei beni ad alta e media tecnologia è salita fino a raggiungere il 40% del totale. 14 Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Giappone, Canada. 15 P. LEON, R. REALFONSO, 2008, L'economia della precarietà, ed. Il Manifesto, pag. 47-62. 16 Labour compensation per employee in ppps in US dollars.
Note bibliografiche BAuMAL W., 1974, Strategia delle imprese e sviluppo economico, Milano, Etas. CozzI T., ZAMAGNI S., 1991, Economia politica, ed. Il Mulino. KLEINKNECHT A., 1998, Is labour marketJlexibility harmfill to innovation? ed. «Cambridge Journal ofEconomics» 1998, 22, 387-396. LE0N P., REALFONZO R., 2008, L'economia della precari età, ed. Il Manifesto, pag. 47-62. MARRIs R., 1972, Teoria economica del capitalismo manageriale, ed. Einaudi, Torino. OECD, 2009, Science Technology and industry scoreboard 2009@OECD, pag. 88. PALMA D., PREzIOSO S., Progresso tecnico e dinamica del prodotto in una economia "in ritardo' «Economia e Politica Industriale», 2010, Franco Angeli, Milano PAsINErFI L., 2010, Keynes e i keynesiani di Cambridge, ed Laterza, Roma-Bari. PAsINErFI L., 1984, Dinamica strutturale e Sviluppo economico, ed. UTET. ROBINSON J. V., 1971, Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, UTET, Torino RONCAGLIA A., 1997, Lineamenti di economia politica, ed. Laterza, Roma-Bari. RONCAGLIA A., 2001, Le ricchezze delle idee, storia del pensiero economico, Roma-Bari, Laterza. STIGLITZ J.E.,2003, Economia del settore pubblico. Fondamenti teorici, Milano, Hoepli. SYL0s LiBINI P., 2004, Thrniamo ai classici, ed. Laterza, Roma-Bari., WILLIAMSON O. E., 1963-64, ManagerialDescreation andBusiness Behaviour, in «American Economic Review», 1963 e The Economics ofDiscretionary Behaviour, Prentice Hall, Engiewood Cliffs.
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queste istituzioni n. 156-157 gennaio-giugno 2010
dossier
quale coesiolle e qilali politiche di sviluppo nell'Uuiolle Europea
partire dal cosiddetto "Barca Report", rapporto indipendente intitolato An agenda for a reformed cohesion policy. A place-based approach meeting European Union challenges and expectations" (http://ec. europa. eu/regional...policy/policy/future/pdf/report_barca_v0306.Pf) redatto da Fabrizio Barca per la Commissione europea (Regional Policy) nell'aprile 2009, la rivista ha promosso un'occasione di incontro tra economisti, sociologi ed amministratori pubblici per discutere i temi più rilevanti del documento, le questioni interdisciplinari emergenti e le strategie di rilancio e realizzazione delle proposte in esso contenute. Un Rapporto, quindi, che non è l'ennesimo contributo teorico all'analisi dello stato delle cose, tra punti di forza e criticità di contesto, ma un documento valutativo ed una proposta di lavoro, che intende promuovere un intervento riformatore delle politiche dell'Unione europea per la coesione e lo sviluppo dei territori, attorno a cinque linee prioritane di azione:
1—»kto
Definire le priorità fondamentali e concentrarsi su queste in modo più rigoroso. L'Unione Europea dovrebbe concentrare due terzi delle risorse su tre o quattro priorità essenziali (es. inclusione sociale), ripartendole in misura variabile in funzione delle necessità e delle strategie degli Stati membri e delle Regioni. Con una gestione più rigorosa deifondi. Un nuovo contratto tra Stati, Regioni e Commissione. Un nuovo tipo di accordo contrattuale tra la Commissione europea e gli Stati membri, le Regioni, dovrà essere incentrato sui risultati e su impegni verficabili per questi ultimi, e sulla realizzazione del cambiamento istituzionale utile al raggiungimento degli obiettivi, per la Commissione. Promuovere la sperimentazione e il processo di apprendimento. Mobilitare gli attori locali. 133
La Commissione egli Stati membri devonofavorire la sperimentazione, coinvolgere attivamente gli attori locali dando loro accesso a strumenti e competenze, e conciliare l'incentivazione delle iniziative locali con l'esigenza di evitare la loro "confisca" da parte di gruppi di interesse. Come rafforzare il ruolo della Commissione come centro di competenza. La Commissione deve sviluppare competenze più specialistiche e rafforzare il coordinamento tra le direzioni generali per poter assumere più estesefunzioni e responsabilità nella politica di coesione. Questo implica notevoli investimenti in risorse umane e cambiamenti organizzativi. Rafforzare il sistema di equilibrio dei poteri ad alto livello politico. Sarà necessario garantire un migliore equilibrio dei poteri tra Commissione, Parlamento europeo e Consiglio. creare un Consiglio per la politica di coesione. Nell'introduzione all'incontro, Giovanni Vetritto ha dichiarato che la rivista si è impegnata con molta convinzione nella promozione di un'occasione di incontro e di discussione sul Rapporto che Fabrizio Barca ha scritto per la Commissione europea in materia di politica di coesione e di indirizzi e modi di utilizzo deifondi strutturali: una questione de/l'Europa, certamente, ma che retroagisce sui sistemi nazionali che ne fanno parte. E un lavoro che fa sorgere molti punti di interesse, tantissime suggestioni, e che nelpanorama generale è uno dei pochi spunti che in questo momento fornisca una ambiziosa prospettiva decisionale sull'evoluzione, o involuzione, dell'Unione Europea. Un primo motivo di interesse sta ne/fatto che il testo è implicitamente federalista, in quanto postula un'Unione chefaccia marcia indietro rispetto alla deriva intergovernativa, per tornare all'originaria integrazione "sempre più stretta "; una prospettiva della quale, in una prima approssimazione, anche gli europeisti più radicali potrebbero accontentarsi, dal momento che la modem ità pare superare i vecchi modelli rigidi difederalismo, in favore di pragmatici equilibri di multilevel governance (a/punto che non è chiaro neanche quanto ci si possa dire federalisti oggi). E particolarmente importante il riferimento al caso italiano, e alla possibilità di interventi di mie quilibrio da parte de/l'attore centrale del sistema, ne/ contesto del nuovo Titolo V Nel vecchio paradigma, i/punto centrale del/a costruzione concettuale era "chi fa cosa" Invece, l'idea di multilevel governance consiste nelfatto che diversi attori in diverse aree territoriali negoziano sempre e tutto su tutto. L'esempio è il nuovo Titolo Vdella Costituzione, nel quale la sicurezza e l'ordine pubblico sono competenze statali: ma poi si sono dovuti mettere i sindaci nei comitati per l'ordine e la sicurezza pubblica, perché ormai è evidente che non si può più governare il tema della sicurezza urbana se non facendone una questione di politica delle città; diventa quindi indispensabile un attore locale, neanche soltanto regionale. La riscrittura del testo costituzionale su questo punto lascia, in astratto, un'impressione più ruvida di quanto abbia poi inteso affermare (perfortuna) la Corte costituzionale;.la quale, nell'ottica 134
del princlpio di sussidiarietà, ha dato margini in più in questa prospettiva. Quello che manca è però una conseguente cultura istituzionale e amministrativa, che sfrutti queste aperture in modo virtuoso. E questa la differenza tra il paradigma funzionale delle vecchie competenze e gerarchie (dafederalismo compiuto) e l'idea di sussidiarietà (da multilevelgovernance). Quest'ultima non dà una divisione rigida, una rzartizione netta, rende impossibile immaginare un nuovo ari'. 117 in cui si dice chifa che cosa. Tanto è vero che poi la Corte costituzionale arriva a dire che, anche laddove c'è una competenza esclusiva delle Regioni, lo Stato può comunque arrivare a fare alcune cose, in una particolare chiave di sussidiarietà, anche attraverso lo strumento legislativo. E la modernità che richiede il dialogo tra attori. In una logica didemocrazia poliarchica à la Dahl, la vera virtù si paga in termini di ridondanza amministrativa, organizzativa, gestionale; ma è nel dialogo e nella potenziale inimicizia tra attori che negoziano le politiche che può emergere con un po'più di evidenza su quali sono gli obiettivi e quali i rendimenti delle azioni messe in campo. Il ruolo che, da questo punto di vista, il Rapporto disegna per la Commissione, il concetto stesso di coesione sociale che adotta, i meccanismi che propone per costruirla, tuttÌ questi elementi sono "alti" e quindi implicitamente rlportano al primo punto dell'agenda politica europea il tema di "quale Europa?", "quale integrazione?", nella prospettiva di un forte rilancio dellThtegrazione. Il resoconto che pubblichiamo si pone come punto di partenza di un ampio dibattito che ospiteremo su queste pagine, aperto a chi vorrà contribuire alla riflessione sulla riforma della politica di coesione europea per la promozione effettiva dello sviluppo. Una strada positiva per continuare ad occuparci di Europa. Hanno partecipato: Fabrizio Barca (Direttore Generale, IVlinistero dell'Economia e delle Finanze), Paola Casavola (Esperto indipendente Regione Campania, Controllo strategico), Alessandro Cavalli (Sociologia, Università di Pavia), Antonio Di Majo (Economia, Università degli Studi "Roma Tre"), Elena Granaglia (Giurisprudenza, Università degli Studi "Roma Tre"), Claudia Lopedote (Css - queste istituzioni), Gian Paolo Manzella (Affari europei, Provincia di Roma), Jeorge Nunez (CEPs, Centrefor European Policy Studies), Paolo Perulli (Sociologia Economica, Università del Piemonte Orientale), Giovanni Vetritto (Presidenza del Consiglio dei Ministri).
135
queste istituzioni n. 156-157 gennaio-giugno 2010
tutortio al "Rapporto Barca". Dibattito iii redazione
I. UNA NUOVA RELAZIONE CONTRATTUALE. ISTITUZIONI E TERRITORI NELLA MULTILEVEL GOVERNANCE
Paolo Perulli Confini, cooperazione e attori territoriali. l'intelligenza istituzionale e il caso delle global city region Partendo dalle arene dei contratti, ciò che rileva dal punto di vista di chi si occupa di territori, distretti, pianificazione strategica dei territori, è la scoperta che, questi territori non si possono definire. Il Rapporto dice in maniera esplicita che non vi sono confini predefiniti, tanto meno i confini amministrativi, mettendo così in crisi - con implicazioni politiche forti - tutto il discorso delle Regioni amministrative come attori del territorio, i cui confini non sono definiti ex ante sul piano sostanziale. I confini sono definiti volta per volta, nel processo, dal processo, riferendosi a diverse policy e diversi attori di policy. Sono confini totalmente mobili. Il Rapporto cita esempi di straordinario interesse 136
di combinazioni territoriali, di aggregati territoriali che potrebbero derivare da questo nuovo framework di riferimento. Tutto si sposterebbe dal rapporto classico Unione europeaStato nazionale-Regioni amministrative ad un rapporto "molti a molti" il cui esito è la connessione di nuovi attori territoriali che formano nuovi assembiaggi, nuove combinazioni. Bene individuate dalle recenti scienze sociali. Il mondo è fatto oramai di global city region, dentro le quali ci sono esclusione ed inclusione. Questo è il campo degli attori territoriali verso cui orientarsi. Se ciò accadesse, gli esiti sarebbero esplosivi. Non si immagina quanto questa prospettiva aiuterebbe nella ridefinizione della questione del Nord e della questione del Sud. Presentando il Nord esattamente così, come una global city region che si muove a tutto campo, un conglomerato territoriale di medie imprese che dal 1998 ad oggi sono aumentate di 850 unità; ci sono stati oltre tremila passaggi da piccole a
medie imprese e 1.824 regressioni in senso contrario. Sul piano qualitativo, queste imprese in gran parte non sono localizzate in un distretto, soltanto una su quattro è di origine distrettuale, così come la loro scala relazionale è. dell'intero Nord e non distrettuale: squadra manageriale, partner strategici, fornitori di servizi, processi che le sostengono (beni collettivi). Vi sono poi altri importanti processi del tipo territorio-informazione poco studiati. Esistono processi di aggregazione territoriale che si sviluppano sulla base di aggiomerazioni di tipo urbano-metropolitano che non hanno nulla a che fare con le città metropolitane classiche. Le nuove aree urbano-metropolitane del Nord, ovvero città di almeno centocinquantamila abitanti nel raggio di 10 km, guardando a dove cresce di più la popolazione negli ultimi quarant'anni, sono nell'ordine: Rimini, Bergamo, Vicenza, Brescia, Verona, Trento, e gli aggregati Parma- Reggio -Modena, Venezia-Padova-Treviso. E soltanto in coda, Milano e Torino. Questa è la nuova urbanità che si sta saldando (sistema logistico, sistema di ricerca e sviluppo ecc.) senza alcun disegno istituzionale. Nella totale ignoranza da parte della discussione pubblica. Una nota finale sulla questione del "centro". Il ruolo del centro è sì un ruolo di distanza, ma per fare giocare gli uni in competizione con gli altri. Un ruolo diverso dal discorso della possibilità dell'attore centrale di prendere le distanze per vedere meglio, perché si sa ormai che il centro non vede me-
glio. È piuttosto l'intelligenza delle istituzioni di capire che bisogna dare vita politica ad ogni parte dei territori, proprio per creare una situazione in cui siano infinite le occasioni in cui diversi attori, partecipando ad un gioco comunitario, possano avere comprensione di essere cittadini che hanno bisogno gli uni degli altri, attori collettivi, portatori di un pezzo di conoscenza che apportano al gioco. L'intelligenza istituzionale di creare infinite occasioni di cooperazione. Elena Granaglia Il contesto italiano e il Titolo V Cost.: il centro come promotore di policy learning Il Rapporto Barca si focalizza sul contesto europeo. Ciò nondimeno, ha diverse ricadute per l'Italia, per il disegno non solo delle politiche di coesione ma anche delle più complessive politiche di sviluppo (intendendo per quest'ultime, le politiche indiriziate al complesso delle aree del Paese e non solo alle aree caratterizzate da sacche di inefficienza ed esclusione, come nelle politiche di coesione). Certamente, il nuovo testo costituzionale pone diversi ostacoli alla realizzazione di un sistema di governance multi-liveio quale quello proposto dal Rapporto Barca. Il nuovo Titolo V, nell'art. 119 individua nella perequazione delle capacità fiscali, senza vincolo di destinazione, la via prevalente attraverso cui operare a favore dei territori più svantaggiati. Anche qualora si adottasse la versione più esigente di perequazione in termini di annullamento della differenza fra fabbisogno 137
standard e gettito standard, anziché limitarsi, come nel modello canadese, alla perequazione delle capacità fiscali, l'assenza del vincolo di destinazione implica l'indisponibilità di trasferimenti condizionati all'offerta di servizi. L'unica eccezione, a favore dei trasferimenti condizionati, potrebbe derivare dall'ultimo comma dell'art. 119 secondo cui, "per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni A prescindere dai trasferimenti condizionati, il centro potrebbe, però, condizionare i livelli territoriali subcentrali attraverso norme concernenti l'erogazione dei servizi. La possibilità esiste, ma è limitata. Il testo costituzionale, nell'art. 117, affida alle responsabilità statali solo la determinazione dei Livelli essenziali di assistenza (LEA) da assicurare su tutto il territorio. Per alcune materie, norme concernenti l'erogazione dei servizi potrebbero essere individuate nel quadro della legislazione concorrente sancita nello stesso articolo. L'intervento statale dovrebbe, tuttavia, limitarsi alla definizione dei principi fondamentali. Inoltre, esula dagli ambiti sottoposti a legislazione concor138
rente una politica centrale per il contrasto all'esclusione, ossia, l'assistenza. Come nelle vecchie prospettive caritatevoli del welfare, il testo costituzionale lascia, infatti, l'assistenza alla legislazione esclusiva delle Regioni. Il nuovo testo costituzionale sembra, dunque, avere privato lo Stato di molti strumenti di intervento potenzialmente utili. Ciò riconosciuto, appare perfettamente compatibile con il testo costituzionale un centro impegnato nel monitoraggio e nella verifica dei livelli essenziali nonché nella promozione di un contesto del tipo policy learning. A questo riguardo, un contributo importante del Rapporto è quello di dare ragioni per. muoversi in questa direzione, allontanandosi da una situazione, quale quella attuale, dove il ruolo dello Stato appare sempre più delegittimato anche in questo ambito. Inoltre, le indicazioni del Rapporto Barca in materia di trasferimenti condizionati restano applicabili nell'ambito regionale. Certo, perdono un po' di cogenza data la maggiore vicinanza fra livello regionale e comunale e, con essa, le maggiori difficoltà nello scalfire l'opposizione locale al cambiamento, la path dependency e la più complessiva inerzia istituzionale. Ciò nonostante, non vanno sottovalutate. Infine, le considerazioni in merito alla centralità dell'efficienza e dell'inclusione nella prospettiva indicata dal Rapporto appaiono utili anche per pensare alle finalità delle più complessive politiche di sviluppo.
Jorge Nunez Sussidiarietà, preferenze nazionali e livello di decisione ed intervento Passando alla parte sull'esclusione sociale, c'è da rilevare un problema relativo alla sussidiarietà. Ovvero, vi sono differenze consistenti tra le preferenze nazionali. In Germania, ad esempio, per ragioni culturali non si promuovono servizi e politiche di child care e quelli che ci sono funzionano male. Ma si tratta di una scelta politica, non di incapacità o mancanza di risorse. Se volessero, farebbero bene tanto quando nei Paesi vicini, Danimarca e Svezia. Allora, dovrebbe essere l'Europa a pagare per queste politiche che la Germania non ha voluto fare? E un problema sopranazionale o no? Chi decide? Non l'Unione Europea. Lo stesso è per la politica del reddito minimo, sulla quale l'Inghilterra ha un'idea diversa dal resto dell'Europa, e che pone molti problemi anche dal punto di vista di un economista, visto che i redditi in Polonia e in Inghilterra non sono comparabili. Quello che questo Rapporto nel complesso fa è distanziarsi dal dibattito fin qui avuto su questi temi, e adottare un punto di vista del tutto nuovo sulla politica di coesione, che fa riflettere. Soprattutto in un momento come quello attuale, in cui si discute anche della possibilità di chiudere con questa politica e passare alla semplice distribuzione di risorse agli Stati membri in automatico. Sono molti gli economisti che sostengono questo argomento. In un recente paper CEPs (cf. lozzo, Miccossi e Salvemini, 2009, "A
New Budget for the European Union") si trova una disamina delle ragioni contrarie ad un approccio che tratti la politica di coesione come una politica puramente distributiva senza nessun carattere di bene pubblico europeo. Si vedrà come andare avanti su questo punto, nel rafforzamento delle strategie territoriali, con la strategia UE 2020 della Commissione europea, attesa per marzo 2010, dopo la consultazione pubblica, che nella parte operativa dovrebbe contenere anche il budget review che è stato bloccato perché troppo debole o troppo forte.
Claudia Lopedote Politiche sociali: produzione delle funzioni e livello delle decisioni La decisione su quali politiche sociali, di uguaglianza, realizzare è una scelta politica senza dubbio: per ragioni culturali, contestuali, sociali. Le politiche sociali sono legate necessariamente al livello di produzione delle funzioni sociali che si intende promuovere e realizzare, altrimenti non ha senso implementarle, mancherebbero la legittimità e le forze di implementazione e, soprattutto, non si avrebbe efficacia se non condivisa a livello alto, politico. Cosa che non può fare l'Unione Europea. Non oggi, almeno. Ma rispetto alle quali, essa può farsi centro distributore di parametri ed elementi di spiegazione, garante ed istanza di appello, giustiziabilità e procedimentalizzazione. Anche rispetto alle possibili derive del "diritto in competizione" (Cassese 2002). In tal senso, ad esempio, è ben pensata 139
la funzione di verifica dell'idoneità e dell'appropriatezza dell'ambiente istituzionale contenuta nel Rapporto, anche alla luce dell'ipotesi di path dependency tra modelli di governance e struttura istituzionale (Jessop 2002). Occorre pertanto provare a ridisegnare l'intervento pubblico per avere un ambiente istituzionale e politico appropriato sul piano della funzione di distribuzione, ovvero della modalità di individuazione della titolarità di un diritto su una risorsa in capo a uno o più soggetti. E che inauguri una funzione mobile del governare, ibridando attori, livelli, policy, in una negoziazione amministrativa permanente, realizzabile dalle autorità partecipate come possibile modulo atto a fare emergere coalizioni locali indotte a rivelare informazioni strategiche, in attesa di ricavare una rendita dall'esternalità che il progetto privato può concorrere a produtre (il contesto istituzionale è determinante!), coniugando la partecipazione (delega, negoziazione, contrattualizzazione) all'efficienza (monitoraggio diagnostico, supporto tecnico, valutazione). Ne emerge una teoria della governance territoriale che coniuga il problem solving al conflict resolution, il tutto con garanzie di accountability democratica e ricerca di elementi di unitarietà. Difficile? Piuttosto, complesso. Antonio Di Majo Bilancio pubblico o regolazione?L'allargamento egli ostacoli alla politica di coesione Vale introdurre la questione dell'allar140
gamento, ovviamente limitatamente all'influenza che questa decisione può avere avuto nella difficoltà di proporre una efficace politica di coesione: apparentemente essa sembra risultare più difficile con 27 Paesi che non con 15. Più in generale, si è passati a una Unione di 27 Paesi e si ha la sensazione che si sia continuato sul resto della costruzione europea come se questo evento non dovesse avere molta rilevanza. Probabilmente l'allargamento era la cosa più giusta da fare nelle condizioni date, ma ho l'impressione che non siano stati preventivamente discussi a fondo i pro e i contro, con la conseguenza che non si sono forse valutate appropriatamente le conseguenze sul resto della progettualità dell'Unione. Com'è noto, emerge poi con tutta evidenza che l'uso eventuale di risorse maggiori per le politiche di coesione non può contare sullo strumento del bilancio comunitario; sembra che non ci sia l'idea di aumentarne il peso (in termini di PIL europeo) e quindi, il perseguimento di questi obiettivi dovrebbe fare conto, piuttosto che sulla finanza pubblica europea, sulla regolazione. Riuscire, cioè, al di là della semplice influenza della "moral suasion" sulla condotta dei singoli Stati, ad ottenere accordi vincolanti (forse nel senso del governo di "commons") che consentano al "centro" (gli organi comunitari) di attuare le regole accettate. E possibile che il "centro" guidi la conclusione e l'attuazione di accordi tra vari tipi di attori, per fare politiche che inevitabilmente-mostrino-qualche grado di
coazione per i singoli? Le vie possibili per politiche efficaci mi sembrano solo due: il bilancio pubblico o la regolazione. La prima sembra da escludere almeno per un po' di tempo. E possibile la seconda per affrontare effettivamente le politiche di coesione? Jorge Nunez La politica di coesione tra problemi dell'allargamento ed equilibrio tra Paesi L'allargamento è importantissimo per quello che sta succedendo oggi. Nell'Europa a 15, c'era un certo accordo sulle politiche. Con l'ingresso di dodici nuovi Paesi, tutti i problemi e le contraddizioni delle varie politiche (agricola, di coesione, etc.) sono diventati molto visibili, dando una scossa all'Unione, perché i nuovi Paesi hanno bisogno più di tutti degli aiuti europei, ma non contribuiscono, se non in minima parte, a finanziare il "Budget". L'equilibrio fra Paesi "relativamente" più ricchi e poveri è stato rotto. Tòrnando al Rapporto, sarebbe importante avere delle sintesi separate delle proposte che vengono fiori da un lavoro così complesso, anche difficile da leggere, in modo che chi si occupa dell'implementazione delle diverse politiche abbia una proposta di architettura da realizzare. Perché alcuni, sulla base di studi econometrici, dicono che la politica di coesione dovrebbe essere eliminata in favore di trasferimenti diretti? Gli studi econometrici non mostrano una relazione fra l'aiuto e l'impatto. Ma questo non vuole dire che i fondi sono inutili. L'econometria non mostra l'ef-
fetto delle strategie e la qualità amministrativa. Nei Paesi dove queste erano buone, gli effetti sono positivi. La politica di coesione è uno strumento straordinario di promozione degli obiettivi dell'Unione Europea, fa miracoli nel cambiamento di tutte le istituzioni, anche quelle più problematiche, come in Bulgaria, ad esempio. Magari ci metteranno più tempo, ma senza politica di coesione non ci arriverebbero mai. Un volta, un importante politico francese ha detto che la politica di coesione in Francia, negli anni settanta-ottanta, ha contribuito a ridurre la corruzione. In Italia non sono cambiate molte cose perché soltanto adesso l'Unione Europea ha iniziato a dire agli Stati membri che se non fanno bene, se non sono in grado di preparare piani strategici e operativi di qualità, non riceveranno un soldo. Così è probabile che in Italia le cose incomincino a cambiare. Elena Granaglia L'addizionalità e le disparità della sussidiarietà Tornando alla forte valenza di cambiamento culturale di questo Rapporto, in esso si ritrova, ad esempio, una concezione assolutamente innovativa di quella parola tanto usata, la sussidiarietà. Da un lato, infatti, c'è bisogno delftJnione per una serie di ragioni: le disuguaglianze che crescono anche in concomitanza con lo sviluppo dell'euro (v. Bertola), i vincoli di bilancio apposti agli Stati membri e così via. Dall'altro lato, c bisogno dei livelli territoriali decentralizzati per realizzare politiche di 141
inclusione efficaci. Il Rapporto, inoltre, offre una definizione di inclusione/esclusione sociale assai innovativa che vincola la direzione delle politiche, ma, al contempo, in linea con la sussidiarietà, lascia molto da specificare agli Stati-nazione nei singoli contesti. Certamente, per quanto concerne gli strumenti, sorge la domanda se gli interventi delllJnione Europea in materia di esclusione, alla fine, non vadano a sostituirsi a quanto di responsabilità degli Stati nazionali, nonostante il rimando all'addizionalità. Molto dipenderà dal processo di attuazione, ma questo non è in alcun modo l'esito scontato. Si consideri, ad esempio, la distribuzione degli asili nido nel nostro Paese: data l'estrema disuguaglianza inter-regionale nelle dotazioni e dati i vincoli di bilancio, appare sostanzialmente impossibile realizzare livelli essenziali omogenei nel territorio, anche in presenza di un forte impegno in questa direzione. Ebbene, un intervento addizionale da parte delllJnione a favore dei territori più svantaggiati, lungi dall'indebolire le responsabilità del nostro governo, potrebbe sostenerle.
TI. SPERIMENTAZIONE, CONOSCENZA E COMPETENZA NELLE POLITICHE SOCIALI
Paolo Perulli Contratti e conoscenza relazionale Il Rapporto è un testo molto complesso, molto ricco, dal punto di vista teorico e pratico. Il taglio teorico che - - questo rapporto offre sul tema "con142
tratti e conoscenza" è di estremo interesse, e di grande novità. Sarebbe importante conoscere meglio le reazioni della comunità scientifica di fronte ad una proposta così innovativa. Il panorama che il Rapporto Barca presenta innova sensibilmente le teorie dei contratti. Nelle politiche europee si è di fronte a strani contratti, fatti da un numero indefinito di attori, "contratti" tra virgolette, appunto. Rispetto alla tradizione giuridica, politologica ed economica, questi sono contratti "molti a molti", ove questi molti entrano in campo durante il percorso, durante il processo di definizione, entrano ed escono dall'arena contrattuale. Tutti questi attori sono consapevoli di non avere conoscenza della situazione, non solo quella completa. E ciò nonostante, essi interagiscono, si muovono, intraprendono azioni e relazioni, pianificano strategicamente i propri comportamenti. Il secondo aspetto che colpisce è che questa idea della conoscenza è completamente nuova: essa è più una possibilità, un'eventualità che non una dotazione, è largamente frutto del processo, è più esplorazione dipossibilità che messa in pratica di dotazioni di conoscenza acquisita. Quindi, conoscenza come possibilità e non come direzione necessaria dell'azione. In questo contesto, che cosa fanno questi "molti a molti"? Il Rapporto mescola teorie del contratto, teorie della governance - bilaterale, multilaterale e anche gestione gerarchica di un processo. Tre aspetti tendenzialmente separati nell'elaborazione di un processo
e che qui, invece, si ritrovano insieme. Come funziona? I molti attori partecipano ad uno sforzo innovativo, istituzionale, sociale, e viene loro indicato quali sono i costi da sostenere per uscire dal processo, sganciarsene. I costi del fallimento virtuale del processo. A tenere insieme questi attori è quindi una sostanza diversa da quella dei contratti tradizionali. Qui si ritrova la suggestione di un testo diJacques Derrida sulla Torre di Babele, dove l'autore dice che i costruttori della torre, ben presto, si resero conto che la loro impresa era impossibile, non sarebbero arrivati a toccare il cielo; e tuttavia i legami, le relazioni, gli scambi di conoscenza che si erano costruiti nel frattempo avevano finito col tenerli assieme in uno strano contratto comunitario. C'è una coincidenza, una chiara - forse non voluta affinità elettiva tra questa riflessione filosofica e la ricerca di un economista come Barca nel Rapporto. Una prima notazione è che le reti locali poi non partecipano a questi contratti. Il processo prevede che si facciano consultazioni mirate sulle cose da fare, si fanno quindi queste cose, e c'è poi un momento di reporting, di peer reviewing, che dovrebbe permettere la circolazione e la diffusione di conoscenza tra gli attori locali che devono cercare soluziòni. Soltanto dopo ritorna il ruolo dell'attore centrale: ed è il momento più critico, sul quale si è detto poco.
Jorge Nunez Contratti strategici, verifica e controllo sui contratti non c'è nel Rapporto niente di rivoluzionario, niente che non fosse già in essere. Come nel caso dei contratti strategici, in un national strategic framework, articolati già nel passato in una catena di contratti che la Commissione faceva con gli Stati con realtà regionali forti e ampie. Erano stabiliti dei macro-indicatori e indicatori man mano più dettagliati procedendo in direzione dei contratti locali, e individuali. Il problema era semmai con la verifica degli indicatori da parte della Commissione. L'idea era lì, ma niente veniva fatto nella pratica. Ci sono Paesi ed Enti locali che a livello nazionale già lo fanno e bene, come in Inghilterra. Serve la verifica e la sanzione, non fittizia, da parte della Commissione. Alessandro Cavalli Classi dirigenti, formazione e politiche sociali contro l'esclusione Ci sono alcune brevi considerazioni preliminari che non devono essere discusse ma tenute in conto nella discussione. L'Unione Europea ha incominciato ad occuparsi delle politiche sociali perché non poteva occuparsi delle questioni importanti della politica estera. Detto questo, è anche interessane capire come mai nella discussione sulle politiche sociali si è centrato molto il discorso su esclusione/inclusione che è una dimensione centrale, ma ve ne sono anche altre, indirettamente parte delle politiche sociali, e sono i problemi di formazione delle classi diri143
genti. Su questi l'Unione non si è mai centrale, sopranazionale) in un sisoffermata, se non marginalmente. E stema integrato di pluralismo politicoabbastanza strano che non si sia sviistituzionale. Ecco che la governance luppato un dibattito sulla formazione multilivello nel contesto proposto dal delle classi dirigenti europee e, per Rapporto diventa ur?ipotesi regolatoesempio, sul coordinamento delle po- ria che, facendo leva sull'asse saperelitiche delle grandi istituzioni forma- potere, distribuisce assi di identità, tive. Cose come il Bologna Process possibilità di accentramento/decensono di rilevanza assai limitata. Un tramento, funzioni di responsabilità e pool di grandi centri diformazione sa- di legittimazione. Il ruolo del centro rebbe importante. L'Unione si è occu- non ne esce sfocato, ma cambiato, pata soltanto del problema come distribuzione di informazione, dell'esclusione, sempre nell'ambito conoscenza generale e motivazioni, in della limitatezza del budget che è grado di elicitare preferenze e conopoca cosa rispetto ad altre politiche e scenze detenute localmente e a livello il cui impatto quindi ne risente. Il di- di attori privati. Consapevole del fatto scorso sulla sussidiarietà è importante che la governance è "order plus intenper capire che cosa si può fare, con ritionality" (Rosenau-Cziempiel 1992): sorse limitate, quali interventi che lo regole informali che non possono Stato e le comunità locali non sono in darsi se non in un contesto di intengrado di fare. Il Rapporto Barca fa zio nalità. una scelta molto intelligente concen- Sarà importante, a questo proposito, trando l'attenzione su politiche terri- disegnare moduli efficienti di gestione torialmente orientate e definite. della sussidiarietà. Una proposta possiIntroducendo il concetto altrettanto bile è quella di una rete di regolatori, importante di aree periferiche e aree autorità partecipate (cf. Commission centrali, ma anche la periferia e l'esclu- Nationale du Débat Public francese, sione del centro, dalle aree centrali. CNDP), più che indipendenti, sulla scia Qui, allora, la selezione delle aree di del recente dibattito sulla conversione intervento diventa un punto cruciale. delle autorità nazionali in autorità reChi la deve fare? A quale livello isti- pubblicane, quindi non accentrate, con tuzionale? un ruolo ripensato e rafforzato per le Regioni e gli Enti locali. Perché è imClaudia Lopedote portante far partecipare le periferie Governa nce multilivello e parteclpa- alla pianificazione. Altrimenti, come zione democratica potrebbero implementarle? Senza enVi è una chiara necessità di ripensare trare nella questione, e nonostante le responsabilità e funzioni sul territorio, polemiche - giuste - le autorità indial fine di recuperare conoscenza, in- pendenti, anche quelle miste e non formazione ed esperienza disponibili soltanto regolatorie, si sono conquiad ogni livello (individuale, locale, state sul campouna.certa legittima144
zione per la capacità - sviluppata anche in corso d'opera - di intervenire sulle opportunità e sulle condizioni, realizzando una progressiva armonizzazione normativa, amministrativa, procedimentale, dei mercati. Il tutto creando una nuova gerarchia spaziale di relazionalità, nuove orizzontalità e verticalità, nuove formazioni normative ritagliate sulla specificità territoriale, così da realizzare un intervento pubblico differenziato in cui l'indirizzo politico ha a disposizione strumenti modulabili di composizione di interessi e conflitti, con il supporto di un processo di autoregolamentazione negoziale permanente. E qui che gli strumenti consultivi di audit e partecipazione hanno dato miglior prova di efficacia, fuori dalla retorica democratica che poco o nulla ha fatto su questo piano. Elena Granaglia Conoscenza e sistema di governance muiti-livelio: piace and personaiizedbasedpoiicies Un importante contributo del Rapporto Barca concerne il disegno delle politiche di coesione sul doppio piano delle caratteristiche generali di tali politiche e del sistema di governance multi-livello che ne dovrebbe assicurare la realizzazione. Rispetto al sistema di governance muiti-livelio, o, in altri termini, di sussidiarietà (verticale), netto è il riconoscimento da parte del Rapporto Barca dei vantaggi tipicamente attribuiti ai livelli locali, dai vantaggi informativi all'adesione alle differenze nelle condizioni che
influenzano efficienza ed esclusione sociale ("one size does notfit ai?') e al rispetto alle differenze nelle preferenze. Nei termini del Rapporto, le politiche di coesione non possono che essere piace basedpoiicies. Ciò richiede la partecipazione irrinunciabile del livello locale all'individuazione delle priorità delle politiche di coesione, anche nel rispetto/riconoscimento dei diversi modelli di weifare nazionale, nonché alla specificazione dei diversi dispositivi sopra menzionati volti ad assicurare vaiuefor money. Richiede, altresì, l'attribuzione al livello locale delle responsabilità di attuazione. Il Rapporto aggiunge, poi, due indicazioni innovative. Da un lato, i confini dei territori dovrebbero essere individuati in modo endogeno sulla base della presenza di sacche di inefficienza e di esclusione sociale, non coincidendo necessariamente con quelli delle unità amministrative esistenti. Una conseguenza è che beneficiari potenziali delle politiche di coesione potrebbero essere anche aree sotto-sviluppate in contesti complessivamente sviluppati. Inoltre, il carattere piace-based non dovrebbe fare dimenticare, con un generico appello a favore dei territori, il carattere prettamente individuale della componente delle politiche di coesione indirizzata all'esclusione: le politiche locali in questi ambiti dovrebbero ulteriormente qualificarsi in termini di personaiizedpiace basedpoiicies. Gruppi di interesse, difficoltà di monitorare/penalizzare i comportamenti nei confronti di chi si conosce e, con 145
esse, desiderabilità della distanza,path dependancy e vera e propria inerzia istituzionale potrebbero, però, ostacolare il raggiungimento dei risultati da parte dei livelli decentrati. Il che rende necessario il ruolo anche di un intervento esogeno volto a sbloccare le resistenze e ad attivare e monitorare il cambiamento. Centrale, in questa prospettiva diventa la partecipazione dell'Unione nell'orientare le scelte e nell'esercitare le responsabilità di monitoraggio, sostegno, verifica e eventuale penalizzazione. Il contratto diventerebbe lo strumento centrale per coniugare la partecipazione dei due livelli territoriali. Al1'UE sarebbe, altresì, attribuita l'individuazione dei criteri generali sulla base dei quali identificare le aree oggetto dell'intervento di coesione. Giovanni Vetritto Rilanciare la politica di coesione. Inclusione epartecipazione ad ogni livello Ci sono alcuni punti che ritornano nei commenti di tutti. Intanto, vi è consenso sull'idea di ripensare la politica di coesione per rilanciarla, insieme ad una forte insofferenza per le gabbie amministrative di tipo intergovernativo. Anche in chiave nazionale, dopo la riforma costituzionale del Titolo V del 2001, si cercano un nuovo centro e nuove periferie, in un sistema diverso, partecipato, aperto al dialogo con i nuovi attori sociali. Sono fenomeni che esistono, che sono evidenti, per i quali però non ci sono ancora i giusti paradigmi concettuali. Proprio da questo punto di vista, nel Rapporto c'è un primo sforzo di dise146
gnare un nuovo ruolo per questi attori. Il tema inclusione-partecipazione a sua volta si ritrova nei contenuti delle nuove relazioni da costituire in questo senso.
III. TRA COESIONE E SVILUPPO. CITTADINANZA E INCLUSIONE SOCIALE Elena Granaglia Valori epolitiche di inclusione/esclusione Sono tre grossi contributi innovativi che questo lavoro apporta al modo di pensare alle finalità delle politiche di coesione e al relativo disegno. Essi hanno a che fare con politica sociale e teoria della giustizia. Partendo dagli elementi di maggiore interesse, il primo punto è la connessione valori-politiche. La riflessione pubblica appare spesso muoversi fra l'invocazione astratta di valori e la proposizione di una lista di desiderata in materia di politiche, a prescindere da qualsiasi strutturata giustificazione valoriale. Un primo pregio del Rapporto Barca è quello di tenere uniti i due piani della riflessione, quello valoriale e quello del disegno delle politiche, occupando quello spazio intermedio così importante, ma così trascurato, fra un "cosa" sganciato dal "come" e un "come" sganciato dal "cosa" 1 . Un fatto non banale, non diffuso e importante da sottolineare. I due piani, in prospettiva rawlsiana e di equilibrio riflessivo, si parlano. Le politiche, il vincolo pratico, aiutano cioè a mettere meglio a fuoco i contorni dei valorie.viceversa.
Secondo punto: efficienza e inclusione sociale come finalità distinte delle politiche di coesione. La riduzione dei divari di reddito medio fra aree è stata per anni lbiettivo principale delle politiche di coesione dell'UE. Un secondo elemento importante del Rapporto Barca è quello di sottolineare, con solide argomentazioni, i limiti di tale obiettivo, indicando nell'efficienza e nell'inclusione sociale le due finalità distinte delle politiche di coesione. Più in particolare, tre mi paiono i contributi di maggiore rilievo di questa presa di posizione. Il primo concerne la messa a fuoco dei limiti dell'indicatore costituito dalla riduzione dei divari di reddito: divari possono, infatti, associarsi alla permanenza di inefficienze e di esclusione sociale e, comunque, il reddito rappresenta una proxy inadeguata di star bene, come argomentato anche dal recente Rapporto della Commissione cosiddetta Stiglitz/Sarkoz. Il secondo contributo concerne la definizione delle finalità, con particolare riguardo all'esclusione sociale. La proposta del Rapporto Barca è di fare leva su una nozione di uguaglianza di capacità alla Sen, ossia, sullpportunità di accesso ad un insieme multidimensionale di risultati ritenuti fondamentali per tutti, a prescindere dagli specifici piani di vita individuali. Non basta, dunque, dare risorse. Occorre occuparsi dei risultati, nel riconoscimento della pluralità di fattori che potrebbero ostacolare la conversione in risultati di dotazioni anche adeguate. I risultati, però, non vanno
imposti, ma solo resi possibili (quanto meno, per gli adulti capaci di intendere). Utilizzando il noto esempio di Sen concernente il mangiare, nessuno dovrebbe essere condannato alla fame/denutrizione, ma tutti dovremmo essere liberi di digiunare. Le opportunità e le relative modalità di soddisfazione dovrebbero, altresì, basarsi su procedure di scelta eque, nel senso di rispettose della libertà di scelta e del valore della comune uguaglianza morale. Paola Casavola La portata innovativa del Rapporto nell'ambito de/dibattito allargato e il rischio di una lettura riduzionista Il Rapporto Barca in sé fa unbperazione che, indipendentemente dal follow up istituzionale che potrà avere, è comunque da giudicare straordinaria (nel senso di non comune) sul piano culturale. Questo rapporto possono leggerlo anche tutti quelli che non hanno le mani in pasta, trovando spunti e linee di ragionamento, nell'intero mondo della cultura interessata alla policy. Quindi, questo Rapporto è una possibile via di entrata in un dibattito che è solitamente patrimonio dei soli addetti ai lavori. Non è chiaro però fino a che punto si sia fatto il possibile per attrarre nella discussione corrente energie che sono fuori dal core business operativo della Commissione, affinché gli intellettuali riprendano parte attiva nel discorso sulle politiche nell'integrazione europea, apportando aria fresca in un panorama oggettivamente poco tra147
sparente e con molti interessi di parte. Va premesso che la lettura di questo Rapporto è faticosa, l'impegno individuale richiesto è considerevole e bisognerebbe quindi stabilire e costruire modalità e incentivi di partecipazione al dibattito per i non addetti ai lavori, per evitare due derive: conservazione e riduzionismo, entrambe non foriere di cambiamento. Di ciò, in questa particolare fase, ci sarebbe gran bisogno, perché vale la pena di sottolineare che gli addetti ai lavori - attori di varia natura, sia a livello della discussione politica governativa (oggi la discussione sul futuro del budget) e sia, dentro i Paesi, gli amministratori della politica di coesione - tendono ad essere conservatori, proponendo solo quello che già facevano prima, banalizzando il messaggio del Rapporto. Dal punto di vista di chi è dentro queste politiche, infatti, si tende quasi naturalmente a leggere il Rapporto in termini conservativi: dove il Rapporto chiede innanzitutto un'apertura più vera alla partecipazione degli attori rilevanti alla definizione dei contratti che regolano i termini dell'intervento territoriale, gli addetti ai lavori replicano che gli attori territoriali sono quelli amministrativi esistenti (i contratti, ad esempio, li fanno le Regioni), senza sostanziali aperture a fare partecipare altri attori ai contratti. Il fatto che il Rapporto sia difficile, complesso, denso, significa anche che si presta a molte letture, tra cui quella riduzionista. Fino ad arrivare ad un riduzionismo assoluto che sintetizza l'apporto del Rapporto in 148
termini di mera verifica puntuale di che cosa le Regioni fanno con i soldi ricevuti; sfilandosi completamente dal resto del ragionamento. Come si difendono i contenuti di questo rapporto, allora? Vale pensarci. Uno specifico fronte riguarda il senso dello strategic planning di livello europeo, preservando e valorizzando il metodo di costruzione di policy place-based. Il Rapporto fa fare un passo in avanti alla migliore discussione sulla politica di coesione, aprendo la possibilità per il budget europeo della coesione di fornire non solo occasioni di finanziamento a interventi territoriali di tipo vario (tutti forse utili, ma certo disomogenei nelle finalità com'è oggi), ma anche di contribuire a stabilire un'identità dell'Unione nei confronti dei cittadini. E importante, infatti, capire il punto di vista dei difensori delle politiche settoriali comunitarie che ha dietro l'attenzione - molto sentita a Bruxelles - di dimostrare che il budget europeo, per quanto piccolissimo, serve a qualcosa. Dimostrano a tutti i cittadini comunitari. Qui, il vantaggio degli heading settoriali (ambiente; ricerca; grandi comunicazioni; etc.) è di essere capiti da tutti. La politica di coesione ha un metodo molto avanzato di gestire la comunità e la sussidiarietà, metodo che il Rapporto chiarisce meglio, ma su cui non innova molto, perché è già avanzatissimo. Ma il metodo da solo non è comprensibile dai cittadini. La cosa interessante del Rapporto è l'idea di mettere quel metodo a servizio di due-tre questioni importanti (pochi
grandi issue), condivise come rilevanti dai cittadini europei, senza rinunciare alla ricchezza del metodo della politica di coesione che, insieme alla sussidiarietà, ha anche il centro; assieme alla partecipazione, lo strategic planning; assieme alle regole comuni, contratti che tengono conto delle situazioni specifiche. Questa strada per poterfare dialogare queste due parti di soggetti (difensori del metodo place-based della coesione e difensori di una chiara e comprensibile identità del bilancio dell'Unione) andrebbe meglio valorizzata nella lettura del Rapporto.
Elena Granaglia La cittadinanza europea e la sussidiarietà tra costi e benefici delle politiche di sviluppo e di coesione Il Rapporto dà per scontata la desiderabilità dell'attribuzione all'UE delle politiche di coesione. La ragione deriva dalla necessità di fronteggiare alcuni costi inevitabilmente associati ai benefici prodotti dall'Unione, dai rischi di peggioramento per alcune aree a seguito dell'operare del mercato unico all'irrigidimento del vincolo di bilancio per gli Stati membri. Non contrastare tali costi acuirebbe, peraltro, i rischi di deficit di legittimità del più complessivo progetto europeo. Sottolineo come, in questa prospettiva, le politiche di coesione non possano che restare addizionali rispetto a quanto perseguito dagli Stati membri. Parafrasando Walzer 3 (1996), si potrebbe dire che il Rapporto Barca induce ad essere cittadini con il trattino,
nel senso di cittadini che riconoscono l'importanza dell'appartenenza ad una pluralità di livelli territoriali, da quelli più decentralizzati a quelli più centralizzati. Detto in altri termini, contro la predominanza di un attore territoriale unico, vanno riconosciuti i diversi contributi che i singoli livelli territoriali possono apportare alla realizzazione delle politiche. Molte delle ragioni indicate nel Rapporto a favore del ruolo di un attore esogeno centrale sono le stesse utilizzate quasi duecentocinquanta anni orsono dai federalisti nordamericani: delegare esclusivamente al livello locale le sorti delle politiche rischierebbe di rendere queste ultime ostaggio delle fazioni e delle inerzie istituzionali locali. La distanza che solo il centro può assicurare si dimostra essenziale ad attivare e monitorare il cambiamento. Il che non significa, ovviamente, sottovalutare rischi e difficoltà. Si sa benissimo che, in contrasto con le aspettative dei federalisti, 'Washington è terreno assai fertile per i lobbisti e lo stesso vale per Bruxelles. Oppure, come definire in modo endogeno le aree deprivate e come selezionarne i rappresentanti? O, ancora, non si ignorano i rischi di una trasformazione dell'addizionalità in intervento sostitutivo. Ma quale è l'alternativa? Delegare ai livelli territoriali esistenti ogni responsabilità nonostante i limiti sopra indicati? Rinunciare all'intervento addizionale? In ogni caso, alcuni rischi e difficoltà potrebbero essere circoscritti. Ad esempio, il peso delle lobby appare maggiore nelle at149
tività legislative e regolatorie che non in quelle di misurazione e verifica degli obiettivi. Rispetto alle caratteristiche delle politiche, il Rapporto si contraddistingue per il richiamo pressante all'adozione di un orientamento ai risultati, al value for money, alla creazione di valore per i cittadini. Il che richiede la fissazione di obiettivi misurabili, il monitoraggià e la verifica di questi ultimi nonché la penalizzazione in caso di inadempienza e la creazione di un contesto di policy learning teso al miglioramento continuativo delle politiche. Diversamente, il destino di queste ultime appare irrimediabilmente segnato, gli sprechi essendo sempre meno accettabili. .1 Rapporto Barca si contraddistingue, altresì, per la difesa di trasferimenti condizionati all'offerta integrata di servizi (o, nei termini del rapporto, di beni pubblici in senso lato). Mentre il reddito può essere destinato a tutti gli usi, i servizi permettono una più stretta connessione con le finalità di inclusione e di efficienza nonché favoriscono la creazione di "institutional thickness". Le politiche di coesione, inoltre, dovrebbero concernere un insieme ristretto di priorità. Jeorge Nunez L'antieuropeismo e la domanda di cambiamento verso una metodologia social result oriented epartecipativa Quello che, ad esempio, succederà in Inghilterra è che David Cameron, una persona moderna e non antieuropea, se l'Unione Europea non fa qual150
cosa di serio per cambiare rotta, non avrà scelta: deve offrire qualcosa all'antieuropeismo del suo partito, se non può offrirgli un cambiamento. Dovrà usare l'ascia con l'Unione Europea. Hanno messo Catherine Ashton alla politica estera europea pensando che così gli inglesi saranno contenti, ma non basterà se non si fa qualcosa sul budget che è l'elemento molto visibile agli occhi dei cittadini. Serve una metodologia "social result oriented". La Spagna ha sviluppato una strategia interessante tale per cui se una Regione non riesce ad usare i fondi stabiliti, questi soldi passano alle altre Regioni con più progetti, creando una buona competizione territoriale. La Regione di Valencia ftinziona benissimo in questo.senso: ha un ufficio a Bruxelles con oltre quaranta persone, di cui soltanto tre (se ricordo correttamente) sono funzionari della Regione e gli altri sono pagati dalle imprese, e sono lì per monitorare le opportunità ed i fondi europei. Valencia è la Regione che ha speso tutti i fondi stanziati e che ha ricevuto più soldi per l'innovazione, perché il governo regionale ha creato un gruppo di lavoro che mette a punto progetti che mettono assieme la gente, e vedono una cooperazione ottimale tra orgaizzazion i pubbliche locali e imprese locali. Un esempio è un progetto di biofuels basati sui riciclati per il trasporto pubblico.
Elena Granaglia Esclusione sociale: equità procedura/e ed uguaglianza di capacità L'uguaglianza di capacità, per quanto inevitabilmente indeterminata, ha il doppio merito di permettere una specificazione di un concetto, quello di esclusione sociale, spesso usato in modo nebuloso e di offrime una specificazione che appare superiore a quelle oggi più utilizzate in ambito europeo. Si consideri, ad esempio, la definizione offerta dalJoint Report on SocialProtection del 2004, secondo cui l'esclusione avrebbe a che fare con "a process whereby certain individuals are pushed to the edge of society and prevented from participating ftilly by virtue of their poverty, or lack ofbasic competencies and lifelong learning opportunities, or as a result of discrimination 14 In questa prospettiva, l'esclusione interessa solo coloro che stanno al margine della società, così lasciando al di fuori del pool dei beneficiari potenziali delle politiche di coesione un gran numero di soggetti che, pur non essendo al margine, soffrono di dimensioni diverse di svantaggio. Inoltre, l'esclusione è definita in termini esclusivamente relativi, di non partecipazione alle opportunità prevalenti (medie/mediane) nella società in cui si vive. La definizione relativa, come noto, ha il difetto di considerare senza svantaggi un contesto mediamente molto svantaggiato, ma dove lo svantaggio si distribuisce in modo ugualitario (o, viceversa, di dover acriticamente accettare come riferimento gli standard di accesso ai beni e servizi prevalenti in una società opulenta). .
La definizione del Rapporto Barca, recuperando la connessione con la cittadinanza che è presente nella nozione di esclusione utilizzata in ambito europeo nella metà degli anni ottanta 5 , qualifica, invece, l'esclusione nel non godimento di opportunità per tutti importanti, che potrebbe colpire anche soggetti non al margine della società. Certamente, esistono gradi diversi di non godimento e le politiche di coesione si confrontano con i contesti di maggiore esclusione (per il Rapporto Barca, queste coincidono so.prattutto con il numero degli esclusi, io darei più enfasi anche all'intensità dell'esclusione, sulla falsariga delle due misure di povertà, in termini di conta dei poveri e divario di povertà). Ma, essere al margine della società non è condizione essenziale. Si potrebbe essere esclusi dall'accesso ad opportunità essenziali, pur essendo inclusi nella società. Non conta soltanto garantire alcune condizioni, e neanche garantire l'opportunità di accedere ad alcune condizioni. Essere affamati è differente che digiunare. Conta anche la partecipazione al processo di definizione di queste condizioni, quindi equità procedura/e, con un forte collegamento alle dimensioni della partecipazione, della libertà. Inoltre, le opportunità sono definite anche in termini assoluti. Il che non significa che tutti si debba concordare su di esse: il punto è che la loro giustificazione deve fare leva su una nozione di urgenza per tutti gli esseri 151
umani, a prescindere da quanto 1eso-- tolinea i limiti di tali trasferimenti e cietà più ricche si possono media- l'importanza di un insieme differenmente permettere. Neppure significa ziato di servizi, alla luce della pluralità che non si tenga conto del contesto sodi variabili extra-monetarie che posciale. Al contrario, le capacità possono sono ostacolare la conversione del concernere la natura delle relazioni reddito nei risultati desiderati. Ciò con gli altri e, comunque, vanno sod- nonostante, l'attenzione ai trasferidisfatte secondo modalità relative. Ad menti specifici non deve fare dimenesempio, se è vero che tutti necessi- ticare l'importanza del reddito ai fini tano dell'opportunità di fruire di della soddisfazione stessa delle capaun'abitazione, altrettanto è vero che le cità. tipologie abitative non possono che Da un lato, le capacità includono l'opvariare nel tempo e nello spazio: il portunità di fruire di un reddito da tipo di casa da garantire a Oslo è di- spendere secondo le proprie prefeverso da quello da garantire a Rabat. renze. Dall'altro lato, non si dimentiSemplicemente, ci sono opportunità chi l'evidenza esistente sui limiti, nei che contano per tutti, a prescindere contesti di forte disuguaglianza, dalle condizioni medie/mediane della anche dei trasferimenti specifici. società in cui si vive, invece, sovrane, Esempi interessanti sono forniti in nella prospettiva relativa. uno degli ultimi rapporti dell'IPPR In realtà, il Rapporto Barca aggiunge (2009), in cui si rileva la persistenza nella definizione di inclusione il re- di forti disuguaglianze di risultati, pur quisito di accettabilità sociale delle in presenza di una politica, per molti più complessive disparità fra indivi- versi, di successo di miglioramenti dei dui. Ciò rimedia ad un'obiezione ul- servizi pubblici. La responsabilità è teriore mossa alle definizioni più attribuita in gran parte ai comportautilizzate di esclusione, ossia, alla sot- menti dei più svantaggiati e alla mantovalutazione della più complessiva canza di idonee politiche di questione della distribuzione delle ri- prevenzione. Ma, quale via migliore sorse. In tali definizioni, infatti, l'esor- per prevenire se non quella di assicutazione è ad assicurare l'entrata nella rare anche una migliore distribuzione società da parte di chi ne è escluso, del rèddito? I ceti medi non hanno onnella totale sottovalutazione della le- tologicamente stili di vita mediagittimità o meno della struttura di- mente più prudenti: al contrario, è stributiva vigente, che, anzi, è data per anche il contesto economico di miscontata. nore stress in cui vivono (hanno visInfine, due punti controversi. Il primo, suto?) a favorire tali stili 6 più semplice e più periferico, con- Ora, è certamente, vero che l'insericerne il ruolo dei trasferimenti mone- mento dei trasferimenti monetari tari nelle politiche di inclusione. nelle politiche di coesione dell'UE. E Giustamente, il Rapporto Barca sot- potrebbe rivelarsi indesiderabile, in .
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sto Rapporto, considerando l'apporto fondamentale che dà al dibattito ed alla riflessione sui temi fondamentali della democrazia, delle istituzioni. Non soltanto a livello di Unione Europea. Le premesse implicite - rintracciabili anche sfogliando le carte preparatorie - attestano questo Rapporto su posizioni forti, e senza dubbio chiare, all'interno del dibattito teorico sulla coesione sociale, più vicino a quello canadese (che, tutiavia, essendo più avanzato sul piano culturale, rimprovera all'Unione europea di non discutere abbastanza le cause culturali e politiche, non tanto quanto quelle economiche, almeno - cf. Jenson 2002) che, ad esempio, a quello europeo di matrice anglosassone. Una posizione in chi ave problematica e conflittuale, propria della dinamica democratica intesa in chiave processuale, dialogica, creativa rispetto alle istanze di definizione delle scelte, delle decisioni, delle politiche distributive tout court. Il concetto di coesione sociale, qui, assume una forte valenza sul piano del discorso politico. Quali soluzioni tecniche, istituzionali, giuridiche? Nella ricaduta, è tutto lavoro per le istituzioni, pubbliche e private, laddove le istituzioni, in questo Rapporto, sono una variabile interveniente di primo piano, cui la coesione sociale come ipotesi antipolitica dà elementi utili di Claudia Lopedote La coesione sociale: cittadinanza e con- discorsivizzazione democratica: legitflittualità nella sfida alle istituzioni a timazione, efficacia, efficienza, giusticomporre la domanda di libertà, solida- zia, solidarietà, diritti e libertà. La coesione sociale, cioè, serve a problerietà e uguaglianza matizzare il ruolo delle istituzioni E evidente la portata culturale di quequanto fonte di iniquità fra i cittadini. Il che vale sia per i Paesi (la stragrande maggioranza della UE) dove un reddito minimo esiste sia per quelli dove non esiste. In entrambi i casi, infatti, eventuali trasferimenti monetari da parte delle politiche di coesione altererebbero una situazione di uguaglianza fra cittadini 7. Diverso è il caso delle dotazioni di servizi caratterizzate da una distribuzione megualitaria (sulle quali intervengono le politiche di coesione cercando di favorire una maggiore uguaglianza) oppure di un reddito minimo europeo indirizzato a tutti i cittadini poveri. Inoltre, politiche di coesione basate su trasferimenti monetari porrebbero rischi per la sostenibilità stessa dell'intervento, i territori beneficiari dei trasferimenti diventando luoghi di attrazione di poveri. La difesa dei trasferimenti monetari a fini di inclusione resta, però, valida con riferimento alla più complessiva ridefinizione delle politiche di inclusione da parte del Rapporto Barca. Il Rapporto sembra invece sottovalutana, considerando la questione delle disparità di reddito come pertinente alla legittimità della più complessiva struttura distributiva, a prescindere dagli effetti sulle possibilità di inclusione.
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della democrazia liberale, i cui poli in continua tensione sono: libertà, solidarietà e uguaglianza. Laddove, i primi due da soli non bastano. E l'uguaglianza, procedurale e sostanziale, a garantire la tenuta dell'insieme, l'equità e la giustizia sociale, tanto più quando ruoli, funzioni e istituzioni sono sottoposte a forti tensioni. Che significa mettere l'uguaglianza al centro? Essenzialmente, porre il conflitto alla base della riflessione sul disegno istituzionale, passando per la messa in discussione del sistema esistente. La coesione sociale consente di immettere nel processo elementi di innovazione istituzionale, non alla ricerca di un nuovo equilibrio, bensì di nuove condizioni di sviluppo delle relazioni economiche, sociali, istituzionali. Significa dire che i valori non sono la base di un nuovo umanesimo, ma real politik, laddove senza giustizia sociale non si dà cittadinanza democratica in tempi di pluralismo sociale. Altrimenti, le politiche sociali diventano costi extraeconomici e improduttivi. O, nel migliore dei casi, correttivi p0sticci di politiche di efficienza mal congegnate, laddove incapaci di effettuare investimenti strategici di sviluppo tout court. Anche animate dalle migliori intenzioni. Su questo, si vedano le politiche del lavoro delle donne messe a punto nei Paesi scandinavi senza tenere conto della segmentazione di genere, con conseguenti ostacoli, prima mesistenti, per le donne con maggiori skills e capitale sociale (Clement and Myles 1994). 154
Elena Granaglia - - -ed esternalità sociali positive e negative delle politiche di sviluppo Rispetto all'fficienza, l'accezione offerta dal Rapporto è, invece, quella tipicamente adottata in termini di crescita del Pir,: l'enfasi è sullo sfruttamento dei fattori produttivi inutilizzati, ossia, sulla riduzione del cosiddetto output gap (movimenti verso la frontiera produttiva) e, in subordine, sui miglioramenti delle tecniche produttive (spostamenti della frontiera). Benché entrambe le accezioni si limitino alla produzione, a prescindere dalla domanda e, con essa, dalla più complessiva efficienza allocativa, attenzione è prestata ai possibili costi sociali della crescita: in primis, sull'ambiente, abbiano essi a che fare con l'inquinamento e il depauperamento delle risorse naturali in generale oppure con la distruzione di determinate bellezze naturali (remote) e di determinati stili di vita. Infine, l'ultimo contributo di rilievo concerne il monito alla distinzione fra le due finalità. Da un lato, i trade off fra efficienza e inclusione sociale non sono, certamente, inevitabili. E evidente, ad esempio, come molte politiche finalizzate alla promozione del capitale umano e al contrasto al degrado del contesto sociale possano favorire sia l'inclusione sia la crescita. Oppure, come ricorda lo stesso Rapporto, miglioramenti nelle istituzioni formali ed informali diretti alla promozione della crescita potrebbero esercitare effetti positivi anche sull'inclusione. O, ancora, misure di contrasto ai rischi di povertà potrebbero favorire la crescita sia ren-
dendone più accettttbili i costi, come nella prospettiva della flexicurity e della più complessiva market compensating view delle politiche sociali sia migliorando la qualità del capitale umano e del contesto territoriale per gli investimenti, come nella prospettiva produttivistica delle politiche sociali quali input alla crescita. Dall'altro lato, però, trade offpotrebbero verificarsi. Basti pensare all'indebolimento degli incentivi allo sforzo a seguito della redistribuzione o ad una crescita che, lungi dal produrre effetti positivi di trickle down, incrementi la povertà. Ancora, ci potrebbe essere sostanziale indipendenza di effetti: ad esempio, come documenta un rapporto recente del Social Protection Committee (Spc 20098) la crescita potrebbe associarsi a tassi inalterati di povertà. O, di converso, politiche per l'inclusione potrebbero non esercitare alcun effetto sulla crescita 9 Anche tale posizione è del tutto apprezzabile, in particolare nel contesto europeo dove la condivisibile attenzione alle possibili sinergie fra dimensioni economica e sociale ha rischiato di offuscare il ruolo autonomo delle valutazioni di equità. Basti pensare al peso delle sopra citate market compensating view delle politiche sociali e prospettiva produttivistica, la prima da sempre presente nel progetto europeo, dai tempi della CECA, e la seconda, soprattutto a partire dalla strategia di Lisbona. Le politiche sociali hanno, invece, una giustificazione importante ed autonoma in termini equitativi, come strumento di realizzazione .
dell'uguaglianza di opportunità, esattamente come sostenuto dal Rapporto. Il secondo punto controverso concerne la derivazione, dalla distinzione fra efficienza e inclusione, della distinzione anche fra politiche rivolte all'efficienza e politiche rivolte all'inclusione. La seconda distinzione non deve necessariamente conseguire alla prima. Al contrario, per molte politiche si potrebbe porre la desiderabilità di una contaminazione fra le due finalità. Si consideri una politica per la crescita, insensibile agli effetti sulla disuguaglianza. Il risultato potrebbe essere un aggravarsi di quest'ultima con effetti negativi per la sostenibilità delle politiche d'inclusione. Da un lato, infatti, si avrebbe un accentuarsi dei compiti per queste ultime. Dall'altro, una maggiore disuguaglianza potrebbe rendere più difficile il consenso nei confronti delle politiche redistributive. Oppure, si consideri il caso di politiche di sostegno alla cura dei figli. Se si considerassero unicamente le finalità di crescita, la forma ditale cura sarebbe sostanzialmente irrilevante, l'attenzione essendo concentrata sulla promozione dell'occupazione delle donne. La forma acquisirebbe, invece, rilevanza, qualora considerassimo anche le finalità di inclusione. In quest'ultima prospettiva, ad esempio, opzioni quali le tagesmutter o gli asili di condominio potrebbero risultare inferiori alla fornitura di asili nido misti, dove i bambini più svantaggiati possono fruire degli effetti (fra pari) dell'interazione con i bambini più avvantag155
giati. O, ancora, se ci si-muove nella prospettiva dello sviluppo umano, alla base della prospettiva stessa delle capacità, il tipo di crescita conta: si potrebbero volere più servizi di cura per gli effetti sullo star bene, a prescindere dalle ricadute in termini di promozione del lavoro delle donne. Ma, con finalità plurali non si corre il rischio della fuzziness, come paventato nel Rapporto? Il rischio esiste e non va sottovalutato. Il rischio, però, esiste anche rispetto alle singole finalità. Come ben illustrato dal titolo del libro di Easterly, The Elusive Questfor Growth10, cosa favorisce la crescita è lungi dall'essere assodato; Oppure, considerando obiettivi di mera inclusione, in un contesto di risorse scarse meglio promuovere l'istruzione nei primissimi anni di vita o dopo? L'importante, in tutti i casi, è fare ciò che ci invita a fare il Rapporto: mettere al centro del disegno delle politiche le esigenze di verifica.
TV. MIGLIORARE LA GESTIONE E IL CONTROLLO DELLE RISORSE: I SOGGETTI E LE FUNZIONI, DALLA PIANIFICAZIONE ALLA VALUTAZIONE
Gian Paolo Manzella Le coalizioni di interessi e la politica regionale come motore di cambiamento ed innovazione Porto a questa discussione l'esperienza di chi, lavorando nelle istituzioni comunitarie, ha collaborato alla ricostruzione storica in questo Rapporto. Penso che il primo grandissimo me156
rito di questo lavoroèindividuabile sul piano culturale, un'operazione culturale unica nell'intera serie di rapporti sulla politica regionale europea fin qui prodotti, laddove introduce il discorso sui valori nel background delle scelte di policy. E arriva in un momento importante, quando i sostenitori della politica federalista erano allo sbando. Altro merito, di metodo, del rapporto è avere parlato moltissimo alle istituzioni nazionali, ai policy makers e al mondo dell'accademia, creando coalizioni di interessi attorno alle idee perché esse possano affermarsi. E importante perché, rileggendo la storia della politica degli ultimi trent'anni, si assiste ad uno straordinario alternarsi di momenti liberalisti e momenti intergovernativi. Con una costante retorica federalista - si pensi al Werner Report, agli inizi della politica comunitaria con il rapporto Thomson - la cui ricaduta concreta è sempre stata, però, una in cui gli interessi degli Stati rimanevano centrali. In una recente intervista con i protagonisti della politica regionale di questi ultimi trent'anni, Renato Ruggiero, che è stato il primo direttore generale della politica regionale appena istituita negli anni settanta, mi ha raccontato un episodio: lui e il Commissario Thomson vanno a trovare Willy Brandt, chiedendogli qual è la quota tedesca. Brandt dice loro che i soldi per le riparazioni militari li hanno già avuti e loro non intendono ripagarli con la politica regionale. Altro aneddoto riguarda Schmitt che dopo una lunga riunione in Consiglio, intervi-
stato dai giornalisti che gli chiedono se è stata messa a punto una politica regionale europea, risponde che in effetti l'abito confezionato per le politiche in questione riporta la dizione "politiche regionali", ma sotto di esso le politiche restano scambi di denaro tra Stati membri. Qiindi, queste sono state la retorica federalista e l'attuazione concreta fino all'arrivo di Giolitti, che cerca di ampliare i margini di comunitarizzazione della politica regionale ma viene fermato dagli Stati nazionali che chiedono maggiori controlli, con un blocco di tre anni. E soltanto con Delors che si arriva finalmente ad una politica federalista. Dopo, sembra di essere tornati indietro, all'interpretazione intergovernativa, alla distribuzione automatica di soldi, sconquassando la politica regionale fin qui sviluppata, come politica per promuovere il cambiamento. E qui che arriva il Rapporto Barca. Con un assunto di base: la politica regionale è uno straordinario vettore di cambiamento politico ed amministrativo, fondamentalmente mai riconosciuto come tale. Nel rapporto c'è il tentativo di nobilitare queste politiche e dar loro nuova forza. Le proposte contenute sono, alla fine, meno rivoluzionarie di quanto ci si possa aspettare. Penso infatti che la vera rivoluzione di queste proposte sia sul piano organizzativo: da un lato, il centro è una suggestione meravigliosa, intelligente, pianificatrice, capace di portare prassi e conoscenza. Dall'altro, quando ci si avvicina al centro, pensare che quel gruppo possa trasformarsi in un sog-
getto che effettivamente riesce a porre in essere un'architettura simile, è una cosa molto complicata. Rimango dell'idea che ciò sia auspicabile, però mi chiedo se con la struttura esistente sia possibile. C'è poi il punto del cambiamento politico, assieme a quello organizzativo, come modo per cambiare cultura amministrativa, introdurre strumenti, dare attenzione al dato istituzionale che ormai è elemento cruciale di divario in tantissime realtà. La politica regionale, in fondo, è uno strumento di riassetto organizzativo e territoriale europeo, in un clima di pace e di cooperazione, con problemi e con affinità di interessi, di tipo economico, etnico, sociologico. In questo rapporto manca la parte finanziaria. La Banca europea non è neanche citata. Così come manca il riferimento a tutta una serie di nuovi strumenti finanziari quali il venture capital, i fondi per la rigenerazione urbana, e così via, che iniziano a fare capolino nei lavori della Commissione. La finanziarizzazione dell'azione amministrativa è invece un dato su cui la politica di coesione potrebbe insistere. Ultimo punto, nel Rapporto toccato soltanto marginalmente, è quello dell'internazionalizzazione dei lavori della Commissione, se non altro perché rafforzando il lavoro che sta dentro gli accordi che la Commissione sta siglando con Cina, Brasile, Russia - tutti soggetti che evidenziano al loro interno problemi regionali - riverbera e potenzia la forza della politica regionale all'interno. Infine, una notazione su che 157
cosa si vuole fare con questo Rapin particolare la partededicataall'efporto. Può diventare la base per una ficienza, con alcune riserve su alcuni posizione italiana? In che termini, si punti. Intanto, il discorso dell'intersta lavorando in questa direzione? vento in tutte le Regioni su specifiche Penso che alla fine il punto di caduta materie, attraverso una place based debba essere questo: lavorare per co- strategy. Sono d'accordo in astratto, struire una coalizione per far sì che la ma andrebbe risolto il problema delle posizione italiana sia in grado di spin- funzioni, chi fa che cosa. Altrimenti, gere su queste 'linee ed aggregare in- si crea confusione, incoerenza. In torno a sé una serie di interessi. tema di funzioni, mi preoccupa un po' il potere che il Rapporto propone di Jorge Nunez trasferire alla Commissione europea. Funzioni e competenze come antidoto A tal fine, sarebbe preferibile che alle lobby quest'ultima fosse organizzata sul Il Rapporto Barca è molto interes- modello dell'OLAF (Ufficio europeo sante, denso, più lo si legge, più ele- per la lotta antifrode), dove si sepamenti di rilievo vi si trovano. Vi sono rano il controllo finanziario dall'anaconsiderazioni largamente condivisi- lisi. La Commissione europea non è bili, ed altre più critiche. Intanto, è un in grado di fare l'analisi. Ad esempio, lavoro, un dibattito che rivela le pro- l'analisi che l'EcFIN fa dei proprie origini, il proprio backgroundgeo- grammi nazionali e dei relativi prografico (Europa meridionale). In grammi operativi per i fondi Inghilterra, ad esempio, ci sono molte strutturali consiste nella valutazione differenze di approccio, molte tendi elementi di coerenza complessiva sioni. Poi, direi che si deve essere e di conformità tra programmi naziocauti nel parlare del bisogno di un nali, programmi operativi ed interrafforzamento dell'istanza soprana- venti. Un'impostazione molto zionale, poiché quello che accade è discutibile, un lavoro enorme e diffiche Bruxelles, spesso, invece di caratcile, con poche risorse a disposizione. terizzarsi come sopranazionale e se- Meglio sarebbe, allora, separare la parato, è il centro di tutte le lobby che parte amministrativa e la funzione di possono lavorare in assoluta opacità avallo da quelle di analisi e valutarispetto ai parlamenti nazionali, e rizione. Si tratta anche di un'imporcevere finanziamenti diretti dalla tante separazione di responsabilità. Commissione europea. Il pericolo Altro punto importante è lo strategic piuttosto forte, allora, è che dando planning, che è senza dubbio un momaggiori competenze all'Unione Euro- mento fondamentale. Sta alle Regioni pea, si finisca con l'avvicinare le lobby ed ai Paesi farsene carico nel migliore ai centri di potere politico nazionale. dei modi. Altrimenti, non importa Con queste premesse, mi trovo a con- quale politica si implementi, le cose dividere l'analisi di questo Rapporto, non andranno bene comunque. 158
Paola Casavola Come modificare la strumentazione operativa della politica di coesione Non posso dire di poter guardare al Rapporto Barca come un osservatore del tutto esterno. Ho certamente una visione "di parte", avendo scritto uno dei dieci paper allegati al Rapporto, che tratta di come modificare la strumentazione operativa della politica di coesione per renderla effettivamente più orientata a risultati concreti. Penso, infatti, da tempo che il problema più serio di malfunzionamento della politica di coesione sia che essa non sia stata sorretta da una corretta interpretazione della strumentazione operativa, che pure i regolamenti hanno dato. Quella strumentazione, che prevede in teoria accordi sofisticati tra lo Stato membro e la Commissione (i cd. Programmi Operativi) non ha mai funzionato, perché molto raramente ha dato vita ad accordi veri, che funzionassero come effettivi, utili e leggibili contratti espliciti. Su questo punto, sul raggiungimento di buone condizioni operative, si gioca molto della possibile persistenza della politica di coesione, propriamente intesa e perché questa - sia pure non ufficialmente eliminata - non venga riassorbita di fatto da politiche settoriali, una opzione che si vede chiaramente tra le ipotesi sul tavolo, leggendo ad esempio il documento Europa 2020 di avvio della nuova Commissione Barroso su che cosa farà l'Europa del futuro. E un rischio concreto.
Giovanni Vetritto Chefare Fin qui non sono mancate notazioni sulla meccanica amministrativa proposta dal Rapporto, su come abbandonare la logica di output, attraverso lo strumento della valutazione controfattuale, per approdare ad una logica di outcome. La chiave più interessante su cui provare a tornare è però forse la domanda di Manzella sul che fare. Mi viene in mente uno slogan del tipo "cercasi Delors", che renda in modo giornalistico la necessità, avvertita da molti, di aprire una nuova fase un po'più federalista" e un po' meno intèrgovernativa. Questa domanda va però posta in una duplice chiave: che fare per sollevare un dibattito pubblico su tutto quello che convince del Rapporto, ma anche come farlo in quanto cittadini d'Europa, saldando una coalizione che vada oltre i diversi confini nazionali.
V. CONCLUSIONI
Fabrizio Barca Salvo una considerazione che riguarda l'Italia, le altre sono reazioni sui temi relativi all'Europa. Con quattro considerazioni principali e alcuni brevi punti. Le strutture democratiche per l'agenda sociale europea. Primo: perché torna ora al centro del confronto europeo l'agenda dello sviluppo, con una fortissima enfasi sugli 159
obiettivi sociali? Suquesto punto, non è condivisibile quanto detto da Cavalli. L'accento europeo nella questione sociale, dopo molti anni di ricercata disattenzione, non costituisce un ripiegamento ma una svolta meditata, imposta dai fatti. Senza un'agenda sociale presa sul serio, l'Unione Europea "chiude". L'unificazione dei mercati, come era prevedibile e come si sapeva, con la mobilità del lavoro, delle persone e delle merci, ha scatenato in Europa forze sane, fondamentalmente positive, creando conseguenze che di per sé non producono sviluppo. Quelle forze creano sia opportunità sia minacce. Se i cittadini europei non hanno - come spesso non hanno - gli strumenti per cogliere le opportunità e resistere alle minacce, prevalgono gli effetti negativi. Si rafforzano allora le spinte nazionaliste, antieuropee, etniche, le identità localistiche. Questa è l'Europa oggi. Quindi, l'agenda sociale è imposta dagli eventi. Non a caso, un abile politico come il Presidente della Commissione europea ha preso a usare il linguaggio dei "diritti" nel documento dove annunzia il proprio programma. Egli afferma con forza che i cittadini dell'Unione Europea devono poter pretendere dall'Unione i diritti di cittadinanza europea come pretendono dagli Stati nazionali i propri diritti di cittadini nazionali. Barroso mette quindi i piedi nel piatto della questione posta dalla Corte costituzionale tedesca, ovvero che l'Europa, al di là dello scontro disciplinare tra federalisti e intergovernativi, è un 160
animale ibrido, quasi-federale dove si prendono decisioni collettive che non sono sostenute da piena legittimità democratica. Non esistono cioè le strutture democratiche sufficienti a sorreggerle. Questo apre una contraddizione. L'Unione Europea così non tiene. All'ordine del giorno, oltre alla politica estera e alla "politica militare", sta la tenuta interna dell'Unione rispetto ai movimenti di capitali, delle merci, delle persone. Come ha affermato il Presidente Napolitano, questa situazione non si fronteggia riaprendo la disputa fra lettura federalista e lettura inter-governativa, ma costruendo fatti. Rilanciando, dopo i modesti esiti della strategia di Lisbona, una strategia di sviluppo. Ecco perché e perché ora è necessario riformare il bilancio europeo e la politica di coesione per attuare una forte azione di sviluppo. Le trappole nella politica di sviluppo Secondo: quale politica di sviluppo? Esiste un vasto consenso sul fatto che la strada meramente redistributiva (da fondo perequativo) non serve perché equivale a trasferire fondi a soggetti nazionali o regionali o locali che hanno già dimostrato di non saperli utilizzare: se avessero saputo utilizzarli, oggi quei luoghi non avrebbero bisogno di azione esogena! Il trasferimento incondizionato di fondi può quindi addirittura peggiorare le cose. Certo, in alcuni momenti, il trasferimento di fondi dai Paesi ricchi, già membri dell'Unione, a quelli di nuova adesione è servito in sé, al di là dell'uso che di quei fondi veniva fatto.
Ha aiutato l'Europa ad acquistare o consolidare il consenso in Paesi usciti dalla dittatura. Ma non è questo che oggi serve, quando i cittadini europei chiedono strumenti, azione, politica. Non serve ne può funìionare neppure l'altra strada, quella prospettata nel documento della Commissione europea, circolato senza autorizzazione nel novembre 2009 e comunque implicita nel documento ufficiale Eu 2020: affrontare alcune grandi questioni - migrazioni, innovazione, adattamento al cambiamento climatico - attraverso grandi fondi settoriali affidati alla burocrazia di Bruxelles; questa li assegnerebbe in modo competitivo a "progetti validi" senza una pre-assegnazione territoriale e senza il ricorso a un complesso governo multi-livello. Certo, le questioni identificate nel documento Eu 2020 sono quelli rilevanti, coincidono con diversi temi che il mio Rapporto considera prioritari. Il problema di questa tesi riguarda piuttosto il "come" ci si propone di affrontare tali questioni. La soluzione settoriale, Bruxelles-centrica, è, in primo luogo, incoerente con ogni moderna strategia di sviluppo: la teoria più recente spiega bene che i progetti per affrontare con successo le trappole di sottoutilizzazione delle risorse o di esclusione sociale vanno disegnati a misura dei luoghi e che un centro lontano può e deve verificare la loro coerenza con principi generali e la loro attuazione, ma non ha le conoscenze per selezionare i singoli progetti. Ma la soluzione settoriale è
anche non fattibile nell'Unione Europea di oggi, dove gli Stati nazionali non riconoscono comunque all'Unione quel potere di scelta, né l'Unione ha la legittimità democratica per esercitarla. Insomma, la politica di sviluppo topdown che molti a Bruxelles sognano è statalista-burocratica nel disegno, irrealizzabile sul piano politico. Attenzione! Ciò non vuol dire che l'Unione non possa agire con fondi settoriali in nessun campo. Significa che lo può fare solo dove, come nella ricerca, è possibile definire standard di eccellenza internazionali sulla base dei quali selezionare in modo trasparente capace di reggere il pubblico scrutinio. Lì è possibile fare competere un programma della Lombardia con uno della Bavaria. Lì serve la gara perché si può stabilire se il centro di eccellenza è Oxford o la periferia di Ivrea. Ma nelle politiche, dove non esiste uno standard di eccellenza internazionale, come un programma di immigrazione, quella strada non è percorribile. Come ha detto Nunez in modo molto chiaro: in questo caso esistono contratti sociali nazionali molto forti, tali che non si può dire alla Germania che c'è un modo giusto di prendersi cura dei bambini e che Bruxelles darà fondi a chi realizza progetti che attuano bene quel metodo. Oggi non è possibile,' quindi, non si possono comparare i progetti tra Paesi anche se Bruxelles avesse la capacità di farlo. Si aggiunga a questo che ogni azione del centro produce lobbying da parte della periferia... 161
(Jorge Nunez. La parola lobbying nasce negli Stati Uniti e indica l'attività dei gruppi di pressione nell'ambito del Congresso, a Washington".) Se si danno i poteri di allocazione a un centro senza uno standard indiscusso, allora tutti dovranno andare a Bruxelles a brigare per il loro caso. Verrà così meno quella distanza della politica dell'Unione che rende utile il suo intervento. In sintesi, quindi, la strada settoriale prospettata nel documento al quale la Commissione sta lavorando è sbagliata dal punto di vista degli effetti economici e impraticabile sul piano politico. Questo lascia spazio a una terza strada per fare politica di sviluppo, la strada "territoriale personalizzata" della politica di coesione interpretata come "politica di sviluppo rivolta ai luoghi". Una politica dove il "centro Europeo", come ha richiamato Elena Granaglia, svolge un ruolo forte di promozione esogena dello sviluppo stabilendo principi generali di attuazione e una metrica rigorosa per la verifica dei risultati, Paesi membri e Regioni sono responsabili dell'attuazione e i "luoghi" propongono i progetti. Va sottolineata la parola "personalizzata" perché spesso si è pensato che il territorio fosse Gaia, ovvero incorporasse gli spiriti di tutte le persone. Questa mitizzazione ha fatto credere che non ci fossero più gli individui, che invece devono restare al centro della preoccupazione della politica. Contano. A sostegno di questa impostazione territoriale milita la teoria moderna dello 162
sviluppo. Una figura difàiTd commi internazionale, economista mainstream, Mario Draghi, nel commentare i non buoni risultati della politica di sviluppo per il Mezzogiorno nell'ultimo decennio, ha scritto che la ragione principale dell'insuccesso è il fatto che le politiche ordinarie dell'istruzione e degli altri servizi fondamentali non sono state influenzate dal cambiamento e che esse dovrebbero essere diversificate in base alle caratteristiche del territorio. E una consapevolezza che rompe con gli ultimi trent'anni di errori di politica dello sviluppo. Non esistono politiche uniformi nazionali. Il centro europeo come promotore dell'idea politica europea Terzo: qual è il ruolo del centro europeo in questa politica? E una domanda essenziale. Si deve partire da due punti: perché il centro agisce e che cosa deve fare. Se l'interesse del centro è la somma degli interessi lobbistici, meglio non avere un centro. L'alternativa è che il centro difenda un interesse politico globale: promuovere se stesso, promuovere l'Unione Europea e se Stessi, classe dirigente europea, politici e funzionari. Per essere chiari: la classe dirigente europea deve convincersi che se vuole restare, deve fare tutto questo, proprio come i politici e le classi dirigenti nazionali. Ma per fare che cosa? Per Svolgere, come centro, quale ruolo? Primo, il centro europeo deve, fissare condizioni nei "contratti" con cui vengono trasferiti i fondi. Secondo, deve portare cono-
scenza generale, che c'è ed è spesso dimenticata dai soggetti locali quando intraprendono nuove politiche. Ad esempio, i principi dell'OCSE sulle politiche per l'istruzione sono esattamente questo, un set codificato di principi utilizzabili in diversi contesti. Terzo, il centro europeo deve fornire un linguaggio di comunicazione, strumenti metodologici per il dialogo orizzontale di ogni luogo con altri luoghi. Nel fare questo, la Commissione europea può contribuire a creare una classe dirigente europea, non solo a Bruxelles, ma puntando su "la doppia legittimità" delle classi dirigenti nazionali: il dirigente polacco non smette di essere polacco, ma man mano, senza traumi, inizia a ragionare anche come un francese, un inglese. E la parte più affascinante, "involontaria", di questa politica europea. Se queste sono le cose da fare, come rafforzare il centro europeo affinché sappia svolgere questi ruoli? Raffor zandone e modificandone la struttura degli incentivi. Oggi, il principale incentivo della Commissione nel governare la politica di coesione di assorbimento finanziario da parte dei Paesi è evitare la perdita di risorse. E in seconda battuta riguarda la riduzione delle irregolarità nell'uso dei fondi. Il Rapporto propone un passo avanti. Attraverso la centralità, nei contratti fra Commissione e Paesi membri e Regioni, di obiettivi quantitativi verificabili e attraverso la proposta di un dibattito politico forte all'interno del Consiglio e del Parlamento europeo, la Commissione
potrà essere chiamata a dire, non perché i Paesi non hanno speso i soldi stanziati, ma perché quei fondi sono stati erogati dalla Commissione visto che l'uso è inefficace. Al tempo stesso, occorre potenziare la Commissione come centro di competenza, reclutando una nuova leva di flinzionari di ottima qualità nei campi dove si concentra l'azione della Commissione: i témi prioritari, la valutazione, gli indicatori, l'azione istituzionale. Il rinnovamento va realizzato sotto la guida del Segretario generale della Commissione, dice il Rapporto. Non è lavoro di una singola Direzione generale, è compito che va indirizzat9 dal Presidente della Commissione. E il 30% del budget. L'orientamento al risultato è nei contratti, nell'equilibrio tra condizionalità e sussidiarietà. Quarto: come rafforzare l'orientamento della politica al risultato? Occorre partire dalla natura dei "contratti" che la Commissione scrive con Paesi membri e Regioni. Si tratta di contratti incompleti dove le condizionalità non possono essere previste in termini di liste esaustive di "cose da fare e non fare", perché la Commissione non ha la conoscenza per prestabilire ciò in ogni luogo dove la politica agisce. Si tratta allora di trovare un equilibrio appropriato fra condizionalità e sussidiarietà. Lo si può fare in quattro passi. Primo, con lo sperimentalismo, nella definizione maturata negli Stati Uniti, dove si persegue ormai questo modello nella 163
produzione dei servizicollettivi: partecipazione democratica dei cittadini alla produzione dei propri servizi e reciprocal monitoring, cioè esercizio di funzioni di monitoraggio reciproco dei cittadini. Secondo, ancorando i contratti a indicatori di risultato: sono necessari sia "pochi indicatori core", che consentano la comparazione fra Paesi diversi, sia indicatori su base locale, entrambi dovendo rispondere a criteri statistici ben noti e oggi non rispettati. Terzo, costruendo meccanismi arbitrali di chiusura dei contratti,come è stato sperimentato in Italia, dove l'impegno è "aperto" e si affida a un soggetto terzo il compito di stabilire ex-post se esso sia stato rispettato. Si veda, tra i lavori che hanno accompagnato il Rapporto, quello di Andrea Bonaccorsi che ha dimostrato come anche in un campo difficile quale l'innovazione si possono costruire meccanismi di contrattazione incompleta di questo tipo. Quarto, è fondamentale il ricorso alla "valutazione di impatto controfattuale", ossia alla valutazione dell'efficacia degli interventi attraverso il confronto con i risultati di popolazioni simili a quella dei beneficiari dell'intervento: quando è condotta preventivamente, ossia disegnata contestualmente al disegno dell'intervento, questa metodologia può avere un fortissimo effetto disciplinatorio in merito alla chiarezza sia degli obiettivi, sia dei metodi di selezione dei beneficiari. Infine, alcune osservazioni puntuali. Elena Granaglia ha giustamente osservato che una cosa è distinguere con 164
chiarezza gli obittirFdèll'éffiienza ( crescita) e dell'inclusione sociale, una cosa diversa è distinguere gli interventi destinati all'uno e all'altro obiettivo. Granaglia condivide la prima scelta fatta dal Rapporto, ma non la seconda. Eppure esiste un grosso problema di verificabilità dei risultati: la molteplicità degli obiettivi indebolisce la possibilità di orientare la politica ai risultati e rende opaca la verifica di impatto e il dibattito ubblico che lo deve accompagnare. E rilevabile nell'ambito delle politiche urbane dove si finisce sempre per giustificare i risultati modesti su uno dei due fronti con l'esistenza dell'altro obiettivo! Col risultato di non raggiungere né l'ultimo né l'altro. In merito a chi debba selezionare i territori su cui intervenire e i progetti, la selezione deve, in generale, essere fatta dagli Stati e dalle Regioni. Ma il Rapporto propone di affidare alla Commissione un piccolo budget, 300 milioni di euro (0,1%) del totale per azioni pilota da gestire direttamente. Sarebbe un altro strumento di promozione e sollecitazione dell'azione dei governi nazionali e regionali. Quanto all'ingegneria finanziaria, il Rapporto non avanza proposte ma propone di rendere verificabile l'impegno di addizionalità. Si propone in particolare di adottare per la verifica una misura, la 'fixed capitalformation", che è la stessa variabile utilizzata nel Patto di stabilità interno. Sull'allargamento, la Polonia ha dimostrato negli ultimi anni che la politica di coesione può fare molto.
meno di sapere delle cose, chiedendo conoscenza ad altri attori rilevanti. Se i Programmi operativi non diventano una cosa così, anche la suggestiva teoria di knowledgepooling (come necessario percorso per l'azione di trasformazione) si rivela falsa, perché non avviene alcun knowledge pooling territoriale se non è necessario raccontare una storia completa e vera per ottenere i finanziamenti. Affinché si possa affrontare questo snodo, solo apparentemente operativo, ci vuole però molto consenso e molta partecipazione alle "ragioni" del perché si intende agire in questo modo, Paola Casavola nel metodo e nel merito. In qualche Partecipazione e knowledgepooling Il cd. Programma operativo (Po) modo, è necessario lavorare di più sulle ragioni e sulle loro implicazioni. oggi è un contratto tra Regione e Commissione, in cui il regolamento Si tratta di un tema difficile, perché affrontarlo con un obiettivo politico, dice che si deve scrivere bene, espiicitare chiaramente, quello che ci si di tutela e trasformazione della polipropone di fare con i soldi richiesti. tica di coesione, implica allargare Il che non avviene mai. Se si preten- molto la platea degli interlocutori. desse un po' di più dallo scrivere che Quegli interlocutori che mostrano cosa si vuole fare e perché, laparteci- disponibilità a discutere solo del rinpazione effettiva degli «attori rile- novamento del National strategic vanti" sarebbe necessaria. Quindi la framework (il contratto nazionale, i strada dell'effettiva partecipazione cui risvolti operativi non possono che degli attori territoriali passa di qui. essere limitati) non sono necessariaAltrimenti, la partecipazione diventa mente gli interlocutori migliori, perimpensabile. Perché chi può ottenere ché si tratta di attori che spesso soldi e potere, flessibilità di decisione, vogliono mantenersi su temi generali senza dover mostrare niente nelle per ottenere legittimazione ad carte, non ha incentivi ad allargare la un'azione meramente governativa ("il partecipazione al territorio. Se invece governo vuole fare questo"), piuttosto si è costretti a scrivere una cosa vera, che a percorrere la faticosa strada del riempiendo di contenuti univoci il knowledge pooling e della proposta contratto - indipendentemente dal argomentata e condivisa da chi sul fatto che poi ci sia o meno una san- terreno deve effettivamente lavorare zione sui risultati - non si può fare a insieme a molti diversi altri.
Attorno alla coesione sociale si è creato un forte gruppo dirigente innovatore. Non è un caso che la Polonia sia oggi all'avanguardia nel proporre un rinnovamento della politica di coesione. Il Governatore della Banca d'Italia Mario Draghi ha concluso, sulla base della ricerca biennale del suo Servizio Studi, che la politica di coesione in Italia non ha cambiato il Mezzogiorno ma ne ha migliorato le istituzioni regionali. Questo è un tratto comune della politica di coesione.
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Fabrizio Barca per questo nuovo ruolo del centro;in La Commissione come centro di comlinea col dettato Costituzionale. Sarà petenza decisivo il modo in cui questo indiE molto giusta l'osservazione. Per rizzo sarà attuato. scrivere cose "vere", ossia con elevato Con riferimento, poi, all'intera Eucontenuto informativo sugli obiet- ropa c'è la questione di quali conditivi e gli effetti degli interventi di zioni e quali attori possano favorire policy, bisogna avere conoscenze una riforma radicale della politica di vere. E affinché le strutture responcoesione nella direzione indicata. sabili di Paesi membri e delle Re- L'esperienza statunitense nel campo gioni investano in conoscenza devono delle politiche per l'istruzione o per essere convinte che a Bruxelles ope- altri servizi sociali ci ricorda che il rano persone di eccellenza, pronte e rinnovamento nella qualità delcomprendere se ciò che si scrive è l'azione pubblica viene dallo "speri"vero". Almeno per le priorità su cui mentalismo place-based, dove si dovrebbe concentrarsi la politica coniugano azioni autonome e veri(innovazione, immigrazione, etc.), fica locale con una forte metrica dei devono operare a Bruxelles squadre risultati, una mobilitazione degli atdi esperti in grado di porre ai respon- tori e l'azione politica organizzata. E sabili dei Paesi membri e delle Restato il movimento antisegregaziogioni le domande che li mettono in nista - ci ricorda Charles Sabel - a difficoltà e di dare loro indirizzi e as- imporre un primo cambiamento sistenza. Qando questo avviene, ci volto a garantire livelli minimi di dice l'esperienza, l'Unione Europea ha servizio; sono stati poi gli effetti, un forte impatto. Ma oggi non vi è anche non positivi, della prima geazione sistematica affinché questa sia nerazione di interventi che hanno la norma. spinto a un nuovo cambiamento, Con riguardo all'Italia, l'impianto di sempre attraverso una forte partecigoverno multilivello può servire al pazione organizzata dei beneficiari. Governo italiano per trovare una via E in Europa oggi? In Europa oggi di uscita. E un modo per ridisegnare non c'è traccia di "movimenti"! C'è un più forte e autorevole ruolo del la rabbia della "gente" contro l'Eucentro senza negare la strada del deropa per le cose che non vanno, ma centramento. All'interno dell'imnon azioni politiche organizzate, pianto del "federalismo", il non una strategia. C'è un "populismo riferimento robusto a "livelli essen- povero" che protesta, che carica ziali di servizio" - un concetto e una l'Unione di una forte responsabilità, terminologia più precisi del prece- ma non indica le direzioni di marcia. dente riferimento al livello delle pre- E allora chi può muoversi? Quali stazioni, perché sottolinea l'outcome possono essere gli attori del cambiaanziché l'output - ha creato lo spazio mento? 166
Paolo Perulli Le istanze della coesione espresse dagli scontenti Per favorirlo, certamente occorre lavorare sugli attori che al momento esprimono il peggio, per così dire. Perché dentro le loro rivendicazioni (penso agli interessi delle imprese locali, ad esempio) ci sono anche le istanze della coesione; quegli attori auto-interessati sono gli stessi che fanno le reti lunghe nei mercati globali, che chiedono servizi produttivi collettivi, che cercano soluzioni ai problemi dell'immigrazione, ad esempio, pur senza essere titolati a farlo. Già rendere chiaro questo significa non lasciare questi attori ad altri campi. Fabrizio Barca I due blocchi per il cambiamento Gli enti locali sono stati molto usati nella precedente stagione per difendere la politica di coesione contro gli Stati centrali, ma questo ha finito anche per nuocere alla politica, perché in cambio dell'appoggio gli enti hanno chiesto mani libere nell uso dei fondi, frenando la "svolta strategica" che alcuni a Bruxelles avevano
immaginato. I sindacati europei hanno una voce che a stento si sente. L'accademia è in generale di aiuto modesto, troppo coinvolta nei giochi politici, incapace di promuovere grandi idee. Allora il cambiamento potrebbe avvenire per l'effetto congiunto dell'azione di due blocchi, che assieme potrebbero dare l'esito sperato. Da una parte, ci sono i Paesi con tributori netti, a cominciare dalla Gran Bretagna, irritati perché mettono le risorse finanziarie, spinti dai propri cittadini a chiedere "valuefor money", e interessati a una svolta del bilancio europeb che assicuri un forte orientamento al risultato. Dall'altra parte, c'è una Commissione europea, con il suo Presidente, sollecitati dalla situazione a promettere un'Europa più vicina alla propria gente, diritti europei, una forte agenda sociale, ma non sanno bene come mettere in pratica queste promesse, e potrebbero vedere in una politica di coesione riformata la risposta. Se le due cose si incontreranno, potremo avere una politica di coesione seriamente riformata. Si vedrà nei prossimi mesi se queste condizioni si realizzeranno.
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'Sull'importanza di questo spazio;cfr.BoJERH., 2006, Re-
hanno dato vita a schemidiredditominimoUn-even-=-
sourcism as an alternative to capabilities: a critica! discussian,
tuale trasferimento monetario addizionale realizzato
University of Oslo, accessibile a http://mora.rente.nhh , e
dalle politiche di coesione, limitandosi, inevitabilmente,
ROTHSTE1N B. et a!, 1998,Just Institutions Matter, Cam-
ad alcuni territori non farebbe altro che aggiungere ar-
bridge, Cambridge University Press.
bitrarietà.
2
Cfr. Commission on the Measurement of Economie
SPc, 2009, Growth,Jobs and Socia!Progress in the Eu -
Performance and Social Progress, 2009, Report of the
A contribution to the evaluation of the social dimension of
Commission on the Measurement ofEconomie Performance
the Lisbon Strategy, Brussels.
andSocialProgress, accessibile a http://www.stiglitz-senfitoussi.fr/en WALzER M., 1996, What it means te be an American, New York, Barnes and Noble. Cfr. Ec, 2004,Joint Report on Socia!Protection, Bruxelles.
Fra gli innumerevoli lavori sul tema, cfr. ATKINSON A., 1999, The economie consequences of rol!ing back the we/fare state, MIT Press, Cambridge, Mass; Costabile L. (ed.), 2008,InstitutionsforSocia/ Well-Being, Paigrave MacMillan, Basingstoke.; LINDERT P., 2004, GrowingPublic, Volume 1,
Per una ricostruzione dei diversi usi del termine "esclu-
Cambridge University Iress, Cambridge. Per una rasse-
sione" in ambito europeo, cfr. Negri, 2007, comunica-
gna della letteratura in materia: GRANAGLIA E., Ri'.rmrso
zione orale.
M., SuPINO 5., 2006; "Politiche sociali e crescita econo-
6
mica: i rischi delle risposte semplici", in R. PizzuTi (a
Sul rapporto fra uguaglianza di reddito e uguaglianza
negli esiti, cfr. WILKINSON R., PIcKErr K., 2009, The
cura di), Rapporto sullo Stato sociale 2006, UTET, Roma.
Spirit Leve! Why Mare Equa! SocietiesA!mostAlways Do
'° EASTERLY W. 2002, The Elusive Questfor Growth, MIT
Better, London, Allen Lane.
Press, Cambridge.
Iniquità si verificherebbero anche in contesti, quale quello italiano, in cui alcune Regioni e alcuni Enti locali
queste istituzionI n. 156-157 gennaio-giugno 2010
SiIIO
L'attività di Iobbyillg lloII'Uuiolle Europea Giuseppe Lucio Gaeta
A
ccettando l'idea moderna secondo cui il concetto di democrazia coincide con quello di democrazia rappresentativa 1 , un nodo problematico e di permanente attualità nel dibattito sulla democraticità delle istituzioni è costituito dalla ricerca del delicato equilibrio tra rappresentanza e rappresentazione, tra autonomia dei rappresentanti nelle decisioni ed esigenza che costoro riflettano istanze e divisiòni espresse dalla collettività. La straordinaria articolazione della società civile contemporanea, unitamente alla crescente complessità tecnica delle decisioni da adottare, paiono evidenziare, sempre più negli ultimi anni, le difficoltà degli istituti "tradizionali" di rappresentanza politica nello svolgere il compito di rilevazione della molteplicità degli interessi esistenti, acquisizione e rielaborazione delle informazioni necessarie alle decisioni e loro composizione nella formulazione di scelte pubbliche condivise. A tale crisi della rappresentanza politica, manifesta in molte delle democrazie occidentali, si accompagna una crescente attenzione nei confronti degli strumenti che consentono alle parti sociali di interpretare in prima persona un ruolo di primo piano nei processi decisionali collettivi, ridisegnando l'interpositio tra decisiori pubblici e collettività ed innestando sul sistema rappresentativo gli strumenti propri della democrazia partecipativa 2 (Luciani, 2003). Si tratta, evidentemente, di un approccio che segna un significativo mutamento delle logiche di definizione delle politiche pubbliche non risultando esente da potenziali critiche: ai benefici che derivano da un allargamento della partecipazione ai processi decisionali, si affiancano, in effetti, i rischi costituiti dall'incremento dei costi interni delle decisioni 3 e quelli associabili al rjschio di prevalenza degli interessi particolari a scapito di quello generale. L'autore è ricercatore presso l'Università degli Studi di Napoli L'Orientale, Dipartimento di Scienze Sociali. 169
In questa fase di riclassificazione dei rapporti fra Stato e società iiil(Gii ziano, 1996), assume rilievo l'attuale dibattito interdisciplinare sul lobbying, incentrato sul tentativo di riconoscere le condizioni alle quali i gruppi di interesse possono conflgurarsi come validi canali democratici della rappresentanza e della partecipazione. Se nel contesto statunitense il dialogo tra istituzioni (siano esse federali o statali) e gruppi organizzati 4 portatori di interessi della società civile è pratica istituzionalizzata, con profonde radici nella storia del Paese, lo stesso non può dirsi per l'Italia e per molti tra i Paesi europei. Con ciò non si intende affermare che nel vecchio continente non esistano gruppi di interesse organizzati, o che essi rivestano ruoli solo marginali nei processi di decisione pubblica, ma piuttosto sottolineare come l'attività di lobbying non riceva formale riconoscimento, venendo dunque svolta senza alcuna forma di regolamentazione né trasparenza. In sostanza, constatato che in Europa "countries with speciflc rules and regulations governing the activities oflobbyists and interest groups are more the exception than the rule" (Malone, 2004), le lobby restano attori che agiscono sotto il "velo impenetrabile che avvolge la fase di composizione di interessi contrapposti durante i processi decisionali pubblici" (Baldassarre, 2003)6. A scalfire parzialmente tale impenetrabilità, una vasta mole di lavori di Public Choice ha studiato, negli ultimi trent'anni, le dinamiche che presiedono all'organizzazione e mobilitazione delle lobby e le relazioni tra queste e le istituzioni, offrendo interpretazioni interessanti circa gli effetti che possono scaturire dalla loro partecipazione ai processi decisionali. Accogliendo questi spunti e accettando l'idea che la democrazia consti di "un insieme di regole (primarie o fondamentali) che stabiliscono chi [all'interno di un gruppo sociale] è autorizzato a prendere le decisioni collettive e con quali procedure" (Bobbio, 1991), l'esigenza di una puntuale regolamentazione del lobbying appare evidente. Non stupisce, dunque, che grande attenzione venga dedicata alla difficoltosa ricerca di valide soluzioni normative anche da parte di organizzazioni internazionali (cfr. OcsE, 2008). Ad un primo livello di esame è possibile affermare che compito di una regolamentazione del lobbying sia quello di: a) definire il quadro delle opportunità di accesso degli interessi organizzati presso le istituzioni individuando le modalità di interazione con le istituzioni e indicando forme di disincentivo all'adozione di comportamenti non conformi; b) stabilire gli strumenti attraverso i quali il novero delle lobby coinvolte nei processi decisionali, le loro attività e interessi possono risultare note alla collettività; c) prevenire il problema della prevalenza di interessi meglio organizzati e più dotati di risorse a scapito di altri. Nel còntesto istituzionale dell'Unione Europea, la regolamentazione attuata tenta di rispondere, almeno parzialmente, ad alcuni degli obiettivi individuati, 170
definendo in maniera più o meno articolata le procedure di confronto tra gruppi organizzati e istituzioni e stabilendo norme che regolino la trasparenza e la pubblicità, almeno formale, delle attività di pressione. Più complesso, invece, risulta risolvere il nodo dell'equità, giacché, ad esempio, le capacità di organizzazione e le risorse finanziarie delle lobby possono variare considerevòlmente in relazione alla tipologia di interesse rappresentato, favorendo, almeno in linea di principio, esiti migliori per le pressioni esercitate da alcuni gruppi rispetto a quelle messe in atto da altri. Ciò malgrado, l'operatività della normativa còmunitaria consente, con riferimento a quell'arena politico istituzionale, di valutare la consistenza numerica dei gruppi di interesse organizzati e di cogliere, almeno a grandi linee, il loro operato. Del tutto diversa è, invece, la situazione italiana, caratterizzata dalla persistenza di elementi oscuri nei processi decisionali pubblici, alimentata anche dal vuoto normativo in materia di lobbying a livello centrale, piuttosto paradossale vista la presenza di norme in alcune Regioni. Il lavoro che qui si presenta offre dati ed analisi empiriche volte al tentativo di analizzare la mobilitazione dei gruppi di interesse nell'Unione Europea, in cui il loro agire risulta regolamentato e piuttosto "istituzionalizzato" ed in cui l'individuazione delle lobby attive e dei loro interessi risulta, anche se con qualche difficoltà, possibile. Si tenterà di verificare l'esistenza di una correlazione tra mobilitazione delle lobby ed intensità dell'attività pubblica amministrativa, di regolamentazione e di spesa, esaminando le scelte di bilancio, l'organizzazione del personale e delle strutture e la produzione normativa dell'UE e analizzandone la relazione con la presenza di gruppi di interesse organizzati. Sulla scorta di tali dati si tenterà di interpretare, alla luce delle categorie economiche, il meccanismo di dialogo tra gruppi di interesse e istituzioni e gli elementi che possono condizionarne gli esiti.
LA REGOLAMENTAZIONE DEL LOBBYING NELL' UE
L'Unione europea come esempio di multi levelgovernance Il progressivo ampliamento delle competenze e dei poteri normativi che ha caratterizzato l'evoluzione dell'Unione Europea negli ultimi anni, ha contribuito ad alimentare il dibattito sulla questione della rappresentatività delle sue istituzioni, in buona parte incentrato sui timori relativi al presunto problema del "deficit democratico". Allo stesso tempo, il processo di allargamento dei confini geografici dell'UE e il conseguente aumento delle dissomiglianze cuiturali, sociali ed economiche al suo interno, si è tradotto nell'esigenza di rimodulare il sistema di governance dell'Unione, nella consapevolezza che il policy 171
making ai principi di negoziaiione e composizione di interessi divergenti tra le nazioni ma anche tra gli interessi diffiisi e privati contrapposti e che la legittimità democratica delle scelte dell'Unione poggi sul dialogo non solo con le istituzioni nazionali ma anche con parti della società civile7 Ilgraduale incremento del numero degli strumenti che consentono tale confronto tra istituzioni e società civile, e dunque gruppi di interesse, può interpretarsi come parziale tentativo, di cui si trova riscontro anche nel Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa 8 (Ridola, 2006), di avvicinare il modello democratico dell'Unione a quello di demòcrazia partecipativa (Saurugger, 2006). Il quadro che ne risulta, contraddistinto da un diffuso coinvolgimento nei processi decisionali dell'UE di attori pubblici e privati, afferenti a diversi livelli territoriali, ha indotto alcuni (Hooghe e Marks, 2001) a coniare l'espressione multi-levelgovernance per definire il sistema politico dell'Unione. .
Lobbying e Commissione europea Il pressoché totale monopolio del potere di iniziativa legislativa di cui è titolare, rende la Commissione europea l'istituzione maggiormente sensibile all'esigenza di dialogo con la società civile, interpretato come opportunità per acquisire expertise tecnico - sotto forma di pareri, studi, dati, ecc. - utile per inquadrare gli aspetti critici connessi alle tematiche da affrontare, e dunque anche per costruire consenso attorno alle proprie scelte 9. Allo stesso tempo, è evidente che l'esercizio di influenza sin dalla fase di predisposizione della normativa è cruciale per qualsiasi campagna di lobbying 11 e che, quindi, gran parte dei gruppi di interesse concentra le proprie attenzioni proprio sullbperato della Commissione. Le consultazioni tra Direzioni generali e società civile 11 sono attuate attraverso diverse modalità quali: l'istituzione di comitati consultivi di esperti 12, stabili o ad hoc'3 la predisposizione di incontri con attori pubblici o privati interessati14, il mantenimento di rapporti informali a opera dei funzionari, oltre che con l'adozione di libri bianchi, libri verdi e comunicazioni orientate a stimolare il dibattito e il confronto attorno a questioni specifiche 15 . In particolare, la notevole articolazione del sistema dei comitati consultivi della Commissione e la varietà degli attori che vi prendono parte - rappresentanti di interessi privati ed organizzazioni non governative, esperti di settore e delegazioni degli Stati membri - costituisce una significativa testimonianza dell'evoluzione della multi-level governance europea. Il coinvolgimento di tali comitati nella fase di drafting legislativo, la loro elevata consistenza numerica - in apparente crescita negli ultimi anni16 (fig. 1) - le ridotte informazioni circa l'identità dei loro membri, hanno destato dubbi e perpiessità e indotto Commissione e Parlamento europeo a chiarirne competenze e finalità, fornendo alcuni dati in pro,
172
posito 17. Una prima analisi del registro 18 istituito dalla Commissione su impulso della Presidenza Barroso nel 2004 consente di identificare 1163 comitati di esperti 19 che si possono ritenere in gran parte ancora attualmente operativi, perlopiù collegati (cfr. fig 2) alle DG che si occupano attivamente della definizione delle politiche dell'Unione e assai meno a quelle impegnate in attività generali, di relazione esterna o di coordinamento interno (Segretariato generale, DG Legai Service, Communication Service,Translation, ecc.). Gran parte di questi comitati 20, tuttavia, non prevede partecipazione diretta di gruppi di interesse ma accesso ristretto ai soli rappresentanti degli Stati membri (Gornitzka e Sverdrup, 2007). Ciò malgrado, questi dati delineano un quadro in cui si registra un moltiplicarsi del numero di attori coinvolti nella fase di avvio dei processi decisionali21e dunque, presumibilmente, un aumento delle possibilità di accesso alle istituzioni - anche in via informale -- per i gruppi di interesse 22 In generale, comunque, il ricorso a un ampio processo di consultazione non rappresenta un fenomeno di recente evoluzione, ma elemento distintivo della strategia della Commissione sin dalle origini della Comunità europea (Commissione europea, 1992a).
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o 1975 )Gornutzlra anO Sverdrup 2007)
1990 (Wessefs 1998)
2000 )Larrsson 2003)
2008 (EU reuster of expert groups, accesso al febbraio 2008)
Fig.l: Numero di Comitati consultivi (expert groups) della Commissione europea (Fonti varie indicate sull'asse delle ascisse).
Muovendo da tale premessa, nel 1992 la Commissione (Commissione europea, 1992) ha individuato la necessità di uno spostamento su di un piano "leggermente più formale" rispetto al passato, delle sue relazioni con i gruppi di interesse23ed elaborato a tal fine una ricognizione (Commissione europea, 1992b), in seguito approfondita ed aggiornata dal Parlamento (Parlamento europeo, 1996,2003), sulle normative in materia di lobbying in vigore nei Paesi membri ed in alcuni esterni all'Unione24. In realtà, tale esigenza di formalizzazione del rapporto con le lobby si confrontava, in quel momento, con la ferma volontà di mantenere ampio ed articolato confronto con tutti i portatori di interessi, offrendo opportunità di dialogo a tutti senza apposizione di vincoli 25 con una lieve preferenza per i soli Eurogruppi, le Confederazioni europee, ri-
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173
tenute potenziali rapientanti degli interessi espressi a1l'int&ndi tùtti i contesti nazionali. Tale orientamento viene ripreso ed illustrato in maniera dettagliata in una Comunicazione del 2002 (Commissione europea, 2002) in cui, a fronte di un registrato incremento delle attività di lobbying presso le istituzioni comunitarie con conseguente timore di privilegi per i better estabilished groups (Parlamento europeo, 2003), e nel quadro di un complessivo rafforzamento delle procedure di trasparenza amministrativa (Commissione europea, 200126), Si individuano Principi generali e requisiti minimi per le consultazioni avviate dalla Commissione. In linea con le posizioni precedentemente assunte, la strategia delineata dalla Commissione in questo documento sottolinea l'importanza di intensificare la trasparenza dei processi decisionali garantendone una maggiore pubblicità, di ampliare ulteriormente il dialogo con le organizzazioni della società civile in particolare nelle prime fasi di iniziativa legislativa, di raccordare metodi ed ampiezza delle consultazioni in relazione agli impatti delle proposte e, infine,di definire meccanismi in grado di assicurare equa rappresentazione degli interessi in causa. I'
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Fig.2: Comitati consultivi (expert groups) per DG della Commissione (Fonte: Commissione europea, Register of expert groups).
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Pur nella estrema genericità di questi principi, che sembrano attribuire grande discrezionalità alla Commissione nella fase critica di selezione degli interessi con i quali dialogare 27 la comunicazione afferma che il criterio della rappresentatività a livello europeo non deve essere l'unico per valutare pareri e proposte dei gruppi, sottolineando, anzi, la rilevanza di pareri e punti di vista rappresentativi di interessi nazionali e regionali. Allo stesso tempo, tuttavia "Openness and accountability are important principles for the conduct oforganisations the guiding principle for the Commission is [ ... ] to give interested parties a voice, but not a vote" (Commissione europea, 2006, p. 7). Gli orientamenti della Commissione sin qui brevemente.ripercorsi, si sono tradotti nella adozione di una regolamentazione in materia di lobbying particolarmente "leggera", al punto da risultare quasi in toto affidata ad autoregolamentazione dei gruppi di interesse e codici di condotta dei funzionari. Come auspicato dalla Commissione, infatti, tutte le organizzazioni devono dotarsi di codici di condotta imperniati su alcuni generici principi cardine 28che prevedono, ad esempio, l'obbligo di dichiarare ai funzionari pubblici l'identità dei soggetti rappresentati e di rivelare eventuali rapporti intrattenuti con funzionari aventi ad oggetto temi di lavoro, il divieto di assunzione dei funzionari e di elargizione di "incentivi" per modificarne le posizioni, il dovere di attenersi a forme di comportamento professionali ed oneste e, forse paradossalmente, di astenersi da situazioni di conflitto di interesse. Le indicazioni presenti nei codici di condotta delle organizzazioni si integrano con quelle previste dallo Statuto dei funzionari (Commissione europea, 1968, 2004), volte a scongiurare i pericoli di corruzione o imparzialità nello svolgimento delle attività lavorative. Tra queste, spiccano il divieto di ricevere doni o compensi da parte di terzi non autorizzati dalla Commissione (art. 11), il divieto di assumere - direttamente o indirettamente - nelle imprese soggette al controllo dell'istituzione di appartenenza interessi tali da poter compromettere l'indipendenza nell'esercizio delle proprie funzioni (art. 12), lbbligo di richiedere autorizzazione per qualsiasi attività esterna anche se svolta a titolo gratuito (art. 12), l'obbligo di dichiarare le attività professionali e lucrative del coniuge (art. 13), l'obbligo di attenersi a comportamenti ispirati ad onestà e riservatezza anche dopo la scadenza dell'incarico, l'obbligo nei tre anni successivi alla cessazione dell'attività lavorativa presso le istituzioni europee, di richiedere autorizzazione all'istituzione di appartenenza prima di accettare eventuali ulteriori incarichi (art. 16). Un codice di condotta approvato sotto la presidenza Prodi (Commissione europea 2004) fissa invece divieti e regole di trasparenza cui i commissari devono attenersi al fine di mantenere una posizione di indipendenza da pressioni esterne ad opera di Stati membri o soggetti terzi. Accanto a un'ampia serie di ,
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attività definite incompatibili con l'incarico ricoperto (1.1.1), si impone ai commissari lbbligo di trasparenza finanziaria (1.1.2) e di dichiarazione dei doni ricevuti nello svolgimento delle proprie attività, ove questi abbiano valore rilevante (1.2.5.). La scarna regolamentazione è tuttavia completata dal "repertorio" dei gruppi di interesse pubblicato per la prima volta dalla Commissione nel 1997 (Commissione europea 1997). Aspirando ad essere strumento di lavoro e di informazione per funzionari della Commissione ed addetti ai lavori, e non un vero e proprio registro per l'accreditamento dei gruppi di interesse presso le Istituzioni, la Directory of Special Interest Groups raccoglie dati generici 29, limitatamente alle sole organizzazioni formalmente no profit e di natura paneuropea che operano in rapporto con la Commissione, ed è costituita sulla base di dichiarazioni spontaneamente rese dagli interessati. Dal 2001 le informazioni contenute nella Guida sono confluite all'interno del database Consultation, the European Commission and Civil Society (CONNECS) pubblicato sul sito web della Commissione 3° e contenente anche dati relativi a 134 Organi consultivi della Commissione poi ripresi dal registro dei comitati già citato 31 . Lungi dal poter essere considerati esaustivi, i dati presenti nel database, aggiornato fino al marzo 2007 e successivamente sostituito da un nuovo registro online, rivelano che il lobbying sulla Commissione è piuttosto vario e che i 749 gruppi registrati hanno interessi concentrati in quelle aree di policy (e relative DG della Commissione) in cui i poteri di regolamentazione dell'UE sono apparentemente più ampi ed incisivi (Enterprise, Environment, Internal Market) e conseguentemente più elevate sembrerebbero essere le possibilità di ottenimento di "rendite" in senso lato (Fig. 3)32. Il nuovo registro dei rappresentanti di interessi 33 istituito nella primavera del 2008, consente l'iscrizione su base volontaria di lobby rappresentanti interessi privati e diffrisi, oltre che di enti pubblici regionali e locali esercitanti attività di monitoraggio delle attività della Commissione ed interessati a prendere parte ai processi decisionali. L'iscrizione nel registro avviene previa accettazione di un codice di condotta assai scarno che prevede lbbbligo di chiara comunicazione degli interessi rappresentati e l'impegno a fornire nelle sedi istituzionali previste informazioni obiettive, complete, aggiornate e non fuorvianti, astenendosi dal cercare di ottenere informazioni o decisioni in maniera disonesta e dall'indurre funzionari dell'UE a contravvenire alle disposizioni e alle norme di comportamento loro applicabili. Qualora abbiano tra i propri dipendenti ex funzionari dell'Unione, i gruppi sono inoltre tenuti a rispettare lbbligo per costoro di attenersi alle norme e agli obblighi in materia di riservatezza applicabili. Le indicazioni presenti nei codici di condotta delle organizzazioni si integrano con quelle previste dallo Statuto dei funzionari (Commissione europea, ,
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1968, 2004), volte a scongiurare i pericoli di corruzione o imparzialità nello svolgimento delle attività lavorative. Tra queste, spiccano il divieto di ricevere doni o compensi da parte di terzi non autorizzati dalla Commissione (art. 11), il divieto di assumere - direttamente o indirettamente - nelle imprese soggette al controllo dell'istituzione di appartenenza interessi tali da poter compromettere l'indipendenza nell'esercizio delle proprie funzioni (art. 12), l'obbligo di richiedere autorizzazione per qualsiasi attività esterna anche se svolta a titolo gratuito (art. 12), l'obbligo di dichiarare le attività professionali e lucrative del coniuge (art. 13), lbbligo di attenersia comportamenti ispirati ad onestà e riservatezza anche dopo la scadenza dell'incarico ,l'obbligo nei tre anni successivi alla cessazione dell'attività lavorativa presso le istituzioni europee, di richiedere autorizzazione all'istituzione di appartenenza prima di accettare eventuali ulteriori incarichi (art. 16). Un codice di condotta approvato sotto la presidenza Prodi (Commissione europea 2004) fissa invece divieti e regole di trasparenza cui i commissari devono attenersi al fine di mantenere una posizione di indipendenza da pressioni esterne ad opera di Stati membri o soggetti terzi. Accanto a un'ampia serie di attività definite incompatibili con l'incarico ricopertò (1.1.1), si impone ai commissari lbbbligo di trasparenza finanziaria (1.1.2) e di dichiarazione dei doni ricevuti nello svolgimento delle proprie attività, ove questi abbiano valore rilevante (1.2.5.). La scarna regolamentazione è tuttavia completata dal "repertorio" dei gruppi di interesse pubblicato per la prima volta dalla Commissione nel 1997 (Commissione europea 1997). Aspirando ad essere strumento di lavoro e di informazione per funzionari della Commissione ed addetti ai lavori, e non un vero e proprio registro per l'accreditamento dei gruppi di interesse presso le Istituzioni, la Directory of Special Interest Groups raccoglie dati generici, limitatamente alle sole organizzazioni formalmente no profit e di natura paneuropea che operano in rapporto con la Commissione, ed è costituita sulla base di dichiarazioni spontaneamente rese dagli interessati. Dal 2001 le informazioni contenute nella Guida sono cònfluite all'interno del database Consultation, the European Commission and Civil Society (CONNECS) pubblicato sul sito web della Commissione e contenente anche dati relativi a 134 Organi consultivi della Commissione poi ripresi dal registro dei comitati già citato. Lungi dal poter essere considerati esaustivi, i dati presenti nel database, aggiornato fino al marzo 2007 e successivamente sostituito da un nuovo registro online, rivelano che il lobbying sulla Commissione è piuttosto vario e che i 749 gruppi registrati hanno interessi concentrati in quelle aree di policy (e relative DG della Commissione) in cui i poteri di regolamentazione dell'UE sono 177
apparentemente più ampi ed incisivi (Enterprise, Environment, Interna1 Market) e conseguentemente più elevate sembrerebbero essere le possibilità di ottenimento di "rendite" in senso lato (Fìg. 3). Il nuovo registro dei rappresentanti di interessi, istituito nella primavera del 2008, consente l'iscrizione su base volontaria di lobby rappresentanti interessi privati e diffusi, oltre che di enti pubblici regionali e locali esercitanti attività di monitoraggio delle attività della Commissione ed interessati a prendere parte ai processi decisionali. L'iscrizione nel registro avviene previa accettazione di un codice di condotta assai scarno che prevede l'obbligo di chiara comunicazione degli interessi rappresentati e l'impegno a fornire nelle sedi istituzionali previste informazioni obiettive, complete, aggiornate e non fuorvianti, astenendosi dal cercare di ottenere informazioni o decisioni in maniera disonesta e dall'indurre funzionari dell'UE a contravvenire alle disposizioni e alle norme di comportamento loro applicabili. Qualora abbiano tra i propri dipendenti ex funzionari dell'Unione, i gruppi sono inoltre tenuti a rispettare lbbligo per costoro di attenersi alle norme e agli obblighi in materia di riservatezza applicabili. La solo recente istituzione del nuovo registro induce a ritenere i dati al momento in esso contenuti solo parzialmente significativi. Al dicembre 2008 risultano registrati 558 gruppi di interesse, per la grande maggioranza imprese e associazioni di categoria, ciascuno dei quali ha dichiarato interesse per le attività di una o più DG della Commissione. Il quadro che ne risulta (cfr. flg. 4) vede una netta prevalenza dei gruppi rappresentanti interessi privati rispetto a quelli rappresentanti interessi diffusi o di enti pubblici regionali e locali. Lobbying e Parlamento europeo Con le modifiche introdotte dal Trattato di Maastricht in poi, che hanno esteso i poteri di emendamento e attribuito poteri di cooperazione e codecisione al Parlamento in un vasto novero di materie, le sollecitazioni nei confronti degli euro-deputati da parte dei gruppi di interesse hanno registrato un inevitabile aumento. Particolarmente sensibile, sin dagli anni novanta, all'esigenza di regolamentare l'operato dei lobbisti, il Parlamento ha influenzato, con i suoi orientamenti, lo stesso atteggiamento della Commissione, stimolando in più occasioni il dialogo attorno alla necessità di forme di trasparenza anche per l'operato dei gruppi di interesse34 Ciò malgrado la regolamentazione del lobbying in seno al Parlamento appare solo poco più rigida rispetto a quella espressa dalla Commissione. Dal 1996 la disciplina contenuta nel Regolamento del Parlamento 35 ha istituito un registro di accreditamento per i lobbisti e un sistema di lasciapassare .
178
che consente frequenti accessi all'Istituzione pur non autorizzando l'accesso privilegiato ad alcuna riunione non pubblica. Al dicembre 2007 risultano 1519 i gruppi di interesse (enti privati, pubblici e ONG solo difficilmente distinguibili) presenti nel registro e 2719 i lobbisti accreditati 36 Il rilascio e rinnovo di tale lasciapassare è vincolato al rispetto di un breve codice di condotta37 che prevede obblighi generici, quali l'astensione da qualsiasi azione volta a ottenere informazioni in modo disonesto, il dovere di ottenere il consenso preliminare del deputato o dei deputati interessati prima di intraprendere rapporti lavorativi con gli assistenti parlamentari, la dichiarazione del tipo di interessi di cui si è rappresentanti e alcuni divieti tra cui quello di vantare, nelle relazioni con terzi, rapporti ufficiali con il Parlamento. Oesta disciplina si integra, alla stregua di quanto si è visto per la Commissione, con quella che riguarda la trasparenza dell'operato dei membri dell'istituzione38 . In particolare, per i parlamentari è disposto l'obbligo di dichiarazione delle attività professionali svolte dietro retribuzione 39 nonché dei sostegni finanziari e materiali di cui si usufruisce. L'inosservanza di questa norma può comportare, anche se solo dopo numerosi richiami, la sanzione della sospensione40 Come nel caso della Commissione, anche qui la disciplina appare piuttosto "leggera" e soprattutto scarne, se non inesistenti, sono le misure di sanzione di comportamenti dei gruppi di interessi che violino le disposizioni previste. Anche per questa ragione, forse, il rapporto Stubb 41 presentato ed approvato dal Parlamento nella primavera del 2008, enfatizza la necessità di una maggiore trasparenza nello svolgimento delle attività di lobbying, proponendo l'istituzione di un nuovo registro dei gruppi di interesse e dei propri rappresentanti condiviso con Commissione e Consiglio. .
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Research 27
Reglonal Policy
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Overali EU Pollcy matters 35
Justice and Home Affairs
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Information Society Humanitarlan AId
•
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Hurnan Rlghts
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Health Flsheries
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Extemal Trade Extemal Relations
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Envronment Enterprise 62
Enlargment Energy
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Employment
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Education Economlc and Financlal Affairs Development
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Culture
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Fig.3: Gruppi di interesse per DG della Commissione. (Fonte: Commissione europea, CONNECS Database, Dicembre 2007).
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Fig. 4: Gruppi di interesse per DG della Commissione. In scuro i gruppi privati (Imprese, associazioni di categoria, studi di consulenza, studi legali, consulenti indipendenti), in chiaro ONG, sindacati e rappresentanze di enti pubblici regionali, locali o di altra natura (Fonte: Commissione europea, Registro volontario dei rappresentanti di interessi, dicembre 2008).
181
Lobby e scelte pubbliche a Bruxelles Le riflessioni sin qui riportate dimostrano come, in presenza di una regolamentazione ispirata ai principi di trasparenza e pubblicità del lobbying, il numero e le attività dei gruppi di interesse operativi a Bruxelles siano in qualche maniera osservabili e quantificabili con l'ausilio dei dati presentati, che agevolano la ricostruzione del quadro delle lobby gravitanti, in particolare, attorno alla Commissione. E tuttavia ragionevole ritenere che il quadro dei gruppi sia estremamente più articolato di quanto si deduca da una analisi del già citato database CONNECS. Recenti stime (Greenwood, 2003), infatti, contano oltre 2400 lobby operative 42 per la maggior parte (1450) organizzazioni paneuropee che raccolgono quelle nazionali, affacciatesi sulla scena politica europea sin dagli anni cinquanta. A queste si affiancano circa 350 imprese che scelgono strategie di lobbying individuali e studi di consulenza (143) e legali (125) che lavorano per conto di terzi. A costoro si aggiungono, oltretutto, le rappresentanze permanenti di enti pubblici nazionali (170), regionali o locali (171), la cui presenza e le cui attività nel contesto comunitario complicano ulteriormente il quadro e meriterebbero approfondita analisi non possibile in questa sede 44 Pur prestando adeguata attenzione alle differenze nella ampiezza delle competenze di governo tra UE e Governo federale americano, questi numeri inducono a ritenere che il lobbying europeo sia paragonabile a quello statunitense, che conta circa 4000 gruppi di interesse ufficialmente registrati presso il governo federale (Grossman e Helpman, 2001). Il grado di trasparenza riscontrato, dunque, può essere oggetto di miglioramenti attraverso una revisione della normativa che istituisca registri più rigorosi. E tuttavia ragionevole ritenere che i dati sin qui considerati rappresentino una buona proxy delle attività dei gruppi nel contesto istituzionale comunitario e possano essere impiegati nel verificare - con l'ausilio di tecniche quantitative - se esista un collegamento stabile tra l'attività della UE, di regolamentazione e di spesa, e mobilitazione dei gruppi 45 ,
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MOBILITAZIONE DEI GRUPPI ED ATTIVITÀ ISTITUZIONALI: IL CASO DELL' UE L'impostazione di un'analisi. empirica volta a confermare/smentire l'esistenza di un nesso tra lòbby e attività dell'UE poggia su una imprescindibile individuazione di variabili quantitative in grado di descrivere da un lato la consistenza dei gruppi di interesse e dall'altro l'attività normativa e di spesa delle Istituzioni europee nell'ambito di diversi settori di policy quali: 1) International 182
trade. 2) Common market. 3) Money and fiscal. 4) Education, research culture. 5) Environment. 6) Agriculture and fishery. 7) Industry and energy. 8) Transport. 9) Business non sectoral. 10) International relations and foreign aid. 11) Citizens and social protection (Justice and migration, Health employment and social protection, Regional AID). Il set di variabili individuate a tal fine è descritto in tab. 1. Impiegati per rilevare la consistenza dei gruppi di interesse sono i dati sin qui già descritti, in dettaglio: - L0BB: numero di gruppi di interesse per settore di policy (dato tratto dal vecchio registro C0NNEcs, 2008) - LOBB1 numero di gruppi di interesse privati per settore di policy (dato tratto dal nuovo registro dei rappresentanti di interessi, 2008) - L0BB2 numero di ONG e rappresentanti di interessi di enti pubblici regionali, locali per settore di policy (dato tratto dal nuovo registro dei rappresentanti di interessi, 2008) - LOBB3 numero totale di gruppi di interesse per settore di policy (somma delle due voci precedenti) - C0M: numero di comitati di esperti afferenti a ciascun settore di policy 46
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Per ciò che concerne le attività dell'UE in ciascuno dei settori di policy individuati, si presume possano desumersi da: il quantitativo di risorse messe in campo sul piano amministrativo, rilevato ricorrendo alle variabili: - DIREz: numero di direzioni attive nelle DG afferenti a ciascun settore di policy; - DIP: numero di dipendenti nelle DG della Commissione afferenti a ciascun settore di policy - DIP_es: numero di collaboratori esterni nelle DG della Commissione afferenti a ciascun settore di policy - Dip_tot: somma delle due voci precedenti. L'attività normativa delle istituzioni, rilevata ricorrendo alle variabili: - LEG: numero medio annuo di Regolamenti, Direttive e Decisioni adottati nel periodo 1996-2000 (per ciascun settore di policy). Nell'impossibilità di disporre di dati più recenti si può ritenere, con qualche cautela, che i valori rilevati per quegli anni siano valida proxy di quelli realizzati negli anni 20032007 - AcT1: numero medio annuo di Atti non vincolanti (raccomandazioni e pareri) adottati nel periodo 1996-2000 (per ciascun settore di policy). Sulla attendibilità di questo dato per periodi più recenti valgono le considerazioni di cui al punto precedente 183
- AcT2: numero medio annuo di comunicazioni ed atti preparatori inviati dalla Commissione a Parlamento e Consiglio nel periodo 2000-2006 (per ciascun settore di policy) - REGforce: numero di regolamenti in vigore a fine 2005 inerenti ciascuno dei settori di policy - DlRforce: numero di direttive' in vigore a fine 2005 inerenti ciascuno dei settori di policy - DECforce: numero di decisioni in vigore a fine 2005 inerenti ciascuno dei settori di policy. Il coinvolgimento dell'UE in ciascuno dei settori di policy, rilevato dalle variabili: - TREAT_a: numero di articoli nei trattati (Trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell'acciaio, 1951; Trattato che istituisce la Comunità economica europea, 1957; Trattato dell'Unione europea, 1993) collegabii a ciascuno dei settori - TREAT_w: numero di parole contenute in tre trattati (Trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell'acciaio, 195 1; Trattato che istituisce la Comunità economica europea, 1957; Trattato dell'Unione Europea, 1993) richiamanti ciascuno dei settori. l'impegno finanziario recente, rilevato dalla variabile: - BuDG: percentuale del budget 2007 dedicata a ciascun settore di policy. I dati sono presentati in tab. 2. Al fine di stabilire se esista un nesso tra mobilitazione dei gruppi ed attività dell'Unione, si è fatto ricorso a una analisi delle correlazioni esistenti tra le variabili sin qui descritte. Si riportano in tab. 3 e 4 i valori assunti dal coefficiente di correlazione di Pearson 47 per ciascuna coppia di variabili, evidenziando quelli significativi e utili per 1' analisi. I dati presentati in tabella evidenziano come le variabili "regolamenti e decisioni in vigore" (REGforce e DEcforce), "numero di regolamenti e direttive e decisioni adottate annualmente" (LEG) e "spese di Bilancio" (BUDG) nei vari settori di policy, siano correlate in maniera positiva e significativa, a segnalare come le attività di produzione normativa e di spesa dell'Unione siano distribuite tra i diversi ambiti in maniera piuttosto simile. Il settore "agricoltura e pesca", come noto, è quello che registra il livello più elevato di "dinamismo". Allo stesso tempo, tuttavia, il livello di attività nei diversi settori di policy non appare correlato con le competenze dell'UE negli stessi, così come misurate dalle variabili TREAT_a e TREAT_w. Tale dato, particolarmente evidente in tabella, può trovare due plausibili motivazioni: a) un progressivo allontanamento ,
184
dell'Unione dalle competenze previste dai Trattati; b) l'impossibilità a rilevare informazioni qualitative sulle competenze dell'Unione mediante l'impiego del mero dato quantitativo. In generale, comunque, sulla relazione tra fonti del diritto in ciascun ambito di policy, particolarmente interessante pare l'osservazione di Alesina (2005) che sottolinea come "Eu action in each field tends to take piace through a different mix ofpolicy instruments. For example, international trade and agricuitural policies are enacted mainly through secondary legislation; the direct input from the Treaty is minor. By contrast, in the areas ofMoney and other macro policy and Citizen and social protection the Treaty piays a greater role than secondary legislation" (Alesina, 2005, p. 305) Similarly, Business relations (nonsectoral) and Taxation are more prominent in secondary legislation than in the Treaties (Alesina, 2005, p. 299). Per ciò che concerne l'esistenza di un legame almeno apparente tra le attività di spesa e normative dell'Unione e lbperato dei gruppi, la matrice delle correlazioni offre alcuni spunti di riflessione interessanti. In primo luogo, in linea con quanto più sopra ipotizzato, il numero dei gruppi di interesse attivi in ciascun settore di policy (L0BB) risulta altamente e significativamente correlato, in senso positivo, con il numero di comitati istituiti nello stesso settore. Ipotizzare l'esistenza di una specifica relazione causa-effetto tra le due variabili è piuttosto complesso: da un lato, infatti, la domanda di luoghi di incontro con le istituzioni espressa dalle lobby trova nella Commissione una controparte interessata a ricorrere a strumenti flessibili, quali appunto i comitati, per la realizzazione del dialogo con la società civile; dall'altro, evidentemente, è plausibile che sia l'apertura al dialogo della Commissione ad agevolare il proliferare di gruppi organizzati proprio in quegli ambiti di policy in cui vi siano maggiori opportunità di incontro. Va da sé che entrambe le spiegazioni siano contestualmente possibili o che, assai più improbabile, la correlazione rilevata sia spuria. Lesistenza di una correlazione positiva tra numero dei gruppi e dei comitati trova conferma anche con l'impiego dei dati più recenti sul numero di lobby operative in ciascun settore di policy (registro dei rappresentanti di interessi 2008, variabili LOBB1 e LOBB2); significativamente, tuttavia, il numero dei comitati appare più alto li dove maggiormente elevato è il numero di gruppi rappresentanti interessi diffusi o di enti pubblici (LOBB2). La presenza ed attività dei gruppi in ciascun settore di policy (L0BB) appare, inoltre, positivamente correlata con le risorse amministrative messe in campo dalla Commissione in quegli stessi ambiti (DIREz - Dip), a segnalare un impegno condiviso dal lato dell'offerta e della domanda di politiche pubbliche in alcune macro-aree. Anche in questo caso, tuttavia, il dato più recente (LOBB1 e L0BB2) rivela che tale corrispondenza è valida solo considerando i gruppi rappresentanti interessi diffusi o di enti pubblici (L0BB2), mentre la presenza di gruppi privati non risulta concentrata in quei settori in cui l'attività amministrativa della Commissione appare più sviluppata. 185
Del tutto non significativa, invece, è la correlazione-.tra-numero-di L0BBY(L0BB, LOBB1 e L0BB2) e attività di regolamentazione dell'UE (LEG). Il risultato smentisce, almeno in apparenza, l'ipotesi che vi sia un nesso positivo tra presenza dei gruppi e quantità di normativa prodotta; le correlazioni calcolate, infatti, pur non risultando significative, registrano segno negativo: una maggiore presenza di gruppi parrebbe dunque essere collegata a una minore produzione normativa. E' d'altronde plausibile che: a) le lobby presenti a Bruxelles siano interessate a evitare l'introduzione di regolamentazione di alcuni settori; b) i gruppi di interesse siano maggiormente attenti al contenuto della regolamentazione più che alla sua dimensione quantitativa; e c) la produzione di regolamentazione da parte delle istituzioni comunitarie non sia la ragione che induce l'attivazione dei gruppi. Va tuttavia considerato che un legame positivo tra presenza dei gruppi e numero di atti (raccomandazioni, pareri, proposte e documenti preparatori) adottati dalla Commissione (AcT, AcT2) risulta piuttosto chiaro. Nulla potendosi affermare, anche in questo caso, sulla relazione ftinzionale tra le variabili, ci si limita a considerare come la presenza di gruppi privati (L0BB1) sia particolarmente correlata al numero di raccomandazioni e opinioni adottate, mentre quella di ONG ed enti pubblici regionali o locali lo sia solo con il numero di proposte, documenti preparatori e comunicazioni. Infine, l'esistenza di un nesso tra mobilitazione dei gruppi ed allocazione delle risorse pubbliche non trova conferma nei dati qui presentati. Le variabili L0BB, L0BB1, L0BB2 e L0BB3 non risultano, infatti, significativamente correlate con quella BUDG. A titolo di esempio, si noti come nel settore agricolo, tradizionalmente destinatario di larga parte della spesa pubblica dell'Unione 48 il numero delle lobby operative a Bruxelles appaia piuttosto ridotto, risultando invece assai più elevato nel settore ambientale, interessato da un livello di spesa decisamente più basso. Le analisi sin qui proposte, tuttavia, hanno evidenziato come il numero di gruppi attivi a Bruxelles e interessati a ciascun settore di policy non sia correlato alla dimensione della spesa pubblica in quello stesso settore. Tale dato, ad un primo sguardo sorprendente, non lo è più di tanto se si considera che: a) la scelta del quantitativo di risorse da destinare a ciascun settore di policy risulta, assai probabilmente, dall'esito di complesse negoziazioni che coinvolgono gli Stati membri più che le singole lobby; b) solo parte ridotta del bilancio UE (stimabile, con una certa approssimazione, nel 20%) viene dedicata a programmi direttamente gestiti dalla Commissione. Ne consegue che la strategia ottimale per i gruppi interessati a partecipare alle scelte di bilancio dell'Unione sia quella di rivolgere la propria attenzione all'interno dei confini nazionali perseguendo due finalità: a) condizionare il comportamento dei rappresentanti nazionali onde indurli ad agire nelle sedi comunitarie per modificare/mantenere immutata 1' allocazione del bilancio UE tra i settori
,
p-'1.J
di policy, e b) indirizzare l'erogazione dei fondi UE affidati alla gestione degli enti nazionali regionali o locali. Una disamina dell'impatto delle lobby sulle voci di spesa dell'Unione deve dunque dedicare maggiore attenzione alle dinamiche interne ai contesti nazionali che a quelle relative all'arena europea.
ISTITUZIONI, LOBBY E PROCESSI DECISIONALI: IL MODELLO DELL'UE E IL VUOTO ITALIANO I dati presentati evidenziano come i processi decisionali che si svolgono in seno all'Unione Europea siano caratterizzati dalla compartecipazione di più attori alla formulazione delle scelte. Il progressivo aumento delle competenze decisionali dell'UE negli ultimi cinquant'anni ha, da un lato, indotto le istituzioni comunitarie a ricercare con sempre maggiore insistenza forme ed occasioni di dialogo con la società civile e, dall'altro, stimolato numerosi portatori di interessi ad estendere in maniera sempre più decisa il proprio raggio d'azione a Bruxelles 49 . Il livello di articolazione e "istituzionalizzazione" del dialogo tra istituzioni e gruppi è tale da risultare - secondo alcuni (Pirzio Ammassari, 2004) - efficacemente descritto dall'espressione "Europa degli interessi", che riflette un certo scetticismo relativo alla possibilità di evoluzione politica di istituzioni nate nell'ambito di una comunità economica finalizzata alla sola promozione del libero mercato. A conferma dell'intensità di tale confronto tra istituzioni e lobby, le analisi presentate nell'ultimo paragrafo sottolineano l'esistenza di una forte correlazione tra l'organizzazione delle risorse amministrative della Commissione e il numero di lobby attive: i settori di policy ai quali la Commissione dedica maggiori risorse amministrative (numero più alto di dipendenti e maggiore articolazione degli uffici) sono quelli per i quali si registra l'interesse di un più elevato numero di gruppi. Il meccanismo di produzione di scelte di regolamentazione in seno all'Unione è facilmente assimilabile a un mercato nel quale "l'offerta" di regole da parte della Commissione si confronta con la "domanda" espressa da parte dei gruppi. Tali interazioni poggiano su un "mercato delle informazioni" nel quale la Commissione agisce "domandando" dati, notizie affidabili e, in ultima analisi, consenso e i gruppi "offrendo" il proprio know how di parte, nella speranza di ottenere scelte favorevoli - il cui sviluppo è garantito dall'esistenza di una regolamentazione del lobbying che incentiva una stabile collaborazione tra decisore pubblico e rappresentanti di interessi legittimati ed assicura una certa trasparenza della fase di composizione delle posizioni contrapposte. I dati mostrati nel capitolo precedente non chiariscono in maniera definitiva se tale scambio di informazioni sia alimentato soprattutto da parte 187
dell'Istituzione comunitaria o da parte delle lobby, suggerendo la possibile coesistenza delle due interpretazioni. Gli esiti che si ottengono nel "mercato delle informazioni" risultano condizionati, in primo luogo, dall'attendibilità delle informazioni scambiate. A tal proposito va rilevato come nel favorire contatti stabili e dunque giochi ripetuti, tra Istituzioni e lobby, la normativa disincentiva queste ultime ad adottare usi strategici delle' proprie informazioni, potenzialmente forieri di cali di reputazione. In secondo luogo, l'esito degli scambi dipende, evidentemente, dalla adesione degli attori a modelli di comportamento ispirati alla correttezza, indicati solo in blande discipline dell'operato del lobbista e dei pubblici funzionari, in gran parte - come si è visto - relegate in sintetici codici di condotta e lasciate a forme di autoregolamentazione oltre che scarsamente dotate di strumenti di sanzione dei comportamenti non conformi. In terzo luogo, infine, risultano rilevanti non solo il numero dei gruppi coinvolti nel processo decisionale, ma anche il livello di concorrenza tra essi, l'esistenza di posizioni di monopolio o oligopolio nellfferta di informazioni, o di barriere d'entrata (costi elevati di mobilitazione) in grado di scoraggiare la partecipazione di alcune lobby ai processi decisionali. La disponibilità di dati relativi a questi aspetti risulta, purtroppo, assai ridotta, giacché la stessa regolamentazione in vigore sul lobbying parrebbe tenerli solo parzialmente in considerazione. Rimangono dunque valide le perpiessità che scaturiscono dal sottolineare, sulla scorta di Olson (1965), che gruppi di dimensione più ampia soffrono in genere di grosse difficoltà organizzative che li penalizzano rispetto a quelli più piccoli e dallsservare che, in quasi tutti i settori di policy analizzati, il numero di lobby in difesa di interessi privati è nettamente superiore a quello dei rappresentanti interessi pubblici o diffusi. Enfatizzando soprattutto l'aspetto della trasparenza dei processi decisionali, dunque, la normativa comunitaria garantisce l'osservabiità del fenomeno lobbying risolvendo implicitamente problemi relativi all'equità, che pure ad esso sono strettamente connessi, nella convinzione che le Istituzioni siano in grado di coniugare le pressioni ricevute con una visione più ampia ispirata all'interesse generale. Ai limiti della disciplina europea si contrappone, come già evidenziato, un vuoto normativo che riguarda gran parte dei Paesi europei tra i quali l'Italia, nei quali l'inesistenza di forme di trasparenza si traduce in grande scetticismo nell'analizzare l'apporto degli interessi particolari alle scelte collettive mentre l'assenza di regolamentazione del lobbying induce a qualificare come tali azioni spesso accostabili alla mera corruzione. Tuttavia, malgrado numerosi tentativi di regolamentazione del lobby, venticinque progetti di legge presentati fino al 2008 0, cui si aggiungono recenti proposte risalenti agli inizi dell'anno 2009, il nostro Paese continua a registrare un vuoto legislativo a livello centrale. L'inesistenza di registri e codici di con-
dotta, perlopiù previsti da tutte le proposte presentate - assai mutuate dalla regolamentazione dell'Unione - impedisce il pubblico riconoscimento dell'attività di lobbista, pur esistendo un certo numero di professionisti ed organizzazioni private che svolgono dichiaratamente attività di relazione con le istituzioni e di public affairs, e relega le opportunità di esercizio di attività di pressione ad occasioni costituite dalle audizioni parlamentari - spesso prive di ogni forma di pubblicità e poco strutturate - e alle consultazioni governative, solo a volte costruite come veri e propri "tavoli" pubblici istituiti nei ministeri di settore. Singolarmente, tuttavia, una normativa, poco articolata, esiste in due Regioni, la Toscana ed il Molise51 , che hanno istituito registri di accredito presso il Consiglio regionale per i rappresentanti di gruppi facenti capo a categorie economiche, sociali e del terzo settore o di altro tipo operanti sul territorio, prevedendo, anche se in maniera fumosa, sanzioni per quanti vengano colti ad "esercitare nei confronti dei consiglieri regionali e delle rispettive organizzazioni, forme di pressione tali da incidere sulla libertà di giudizio e di voto". Alla scarsa articolazione di tali normative si aggiunge una loro applicazione ancor più ridotta, consistente nella mera iscrizione a registro di quanti ne abbiano fatta richiesta, delle cui attività di confronto con le istituzioni non si registrano recenti tracce.
ETICHETTA
DESCRIZIONE -
FONTE
Numero di gruppi di interesse per ciascuno dei settori di policy individuati
Rielaborazione su dati CòNNEcs (2007). Gennaio 2008.
LOBB1
Numero di gruppi interesse privati (studi legali, associazioni di categoria, imprese) per ciascuno dei settori di policy individuati
Rielaborazione su dati Register of interest Represerìtatives. Dicembre 2008
L0BB2
Numero di gruppi rappresentati interessi diftusi (ONG) o pubblici (enti regionali o locali) per ciascun dei settori di policy individuati
Rielaborazione su dati Register of interest Representatives. Dicembre 2008
LOBB
LOBB3
DIP
DIP ES -
DIP_TOT
COM
L0BB1+L0BB2
Rielaborazione su dati Register of interest Representatives. Dicembre 2008
Numero di dipendenti strutturati della Commissione europea nelle DG afferenti a ciascurìo dei settori di policy individuati
Sito web della Commissione europea. Gennaio 2008
Numero di collaboratori esterni nelle DG afferenti a ciascun settore di policy individuati
Sito web della Commissione europea. Gennaio 2008
Somma totale di dipendenti (dipendenti struttu rati+col laboratori esterni)
Sito web della Commissione europea. Gennaio 2008
Numero di comitati di esperti attivi presso la Commissione ed afferenti a ciascuno dei settori di policy individuati
Commissione europea Register of expert groups. Gennaio 2008.
DIREZ
Numero di Direzioni nelle DG afferenti a ciascuno dei settori di policy individuati
BUDG
Budget per ciascun settore di policy individuati nel 2007
Rielaborazione su dati tratti da Bllancio generale dell'Unione europea per l'esercizio 2007 (Commissione europea)
TREAT_A
Numero di articoli nei Trattati (Trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell'acciaio, 1951;Trattato che istituisce la Comunità economica europea, 1957;. Trattato dell'Unione Europea, 1993) riferibili a ciascuno dei settori di policy individuati
Alesina et al (2005) What does the Eu do? Public Choice 123:275-319
190
Sito web della Commissione europea. Gennaio 2008.
Numero di parole nei tre trattati (Trattato che istituisce la ComunitĂ europea del carbone e dell'acciaio, 1951;Trattato che istituisce la comunitĂ economica europea, 1957; Trattato dell'Unione europea, 1993) riferibili a ciascuno dei settori di policy individuati
Alesina et al (2005) What does the Eu do? Public Choice 123:275-319
Numero di regolamenti UE in vigore al 2005 (per ciascuno dei settori di policy individuati)
Alesina et al (2005) "What does the Eu do?" Public Choice 123:275-319
Numero di direttive UE in vigore al 2005 (per ciacuno dei settori di policy individuati)
Alesina et al (2005) 'What does the Eu do?" PUblic Choice 123:275-319
Numeo di decisioni UE in vigore al 2005 (per ciacuno dei settori di policy individuati)
Alesina et al (2005) "What does the Eu do?" Public Choice 123:275-319
LEG
Numero medio annuo di direttive/regolamenti/decisioni adottati nel periodo 19962000 per ciascuno dei settori di policy individuati
Alesina et al (2005) "What does the Eu do?" Public Choice 123:275-319
ACT1
Numero medio annuo di raccomandazioni ed opinioni della Commissione adottati nel periodo 1996-2000 per ciascuno dei settori di policy individuati
Alesina et al (2005) "What does the Eu do?" Public Choice 123:275-319
Numero medio annuo di comunicazioni ed atti preparatori inviati dalla Commissione a Parlamento e Consiglio nel periodo 20002006 per ciascuno dei settori di policy individuati
Eulex
w
TREAT -
REGFORCE
DIRFORCE
DECFORCE
ACT2
Tab.1 : Variabili considerate: etichette, descrizione, fonte.
ivi'
sectoral International relations and foreign aid Citizens and social protection
200,9 51,57 71,6
1,71
9
641
6,6 1685
122,9 307,00 53,4 2206
105
746
7
52
761
2446
45
106 25
644
Tab. 2: Dati impiegati (Ct r. tab. i per descrizione e fonti)
9
2850 232 425 29
11
1248
73
38
2309
201
60
261
25
3494
222
1
258
71
78
149
257
178
527
247
149
396
46
6647
LEG ACT2 ACT1 DIP DIP_es DIP_bl COM LOBB BIJDG DIREZ TREAT_a TREAT_w REGborce DiRlorce DEClorce LOBB1 LOBB2 LOBB3 Correlazione di Sig. (2-code) Correlazione di Pearson
ACT2
a
DIP
(2-code) elazione di Pearson Sig. (2-code) Correlazione di Pearson
DIP_es
Sig. (2-code) Correlazione di Pearson
DIP_bl
Sig. (2-code) Correlazione di Pearson
ACT1 -
COM
LOBB
BIJDG
DIREZ
Sig. (2-code) Correlazione di Pearson .Sig. (2-code) Correlazione di Pearson Sig. (2-code) Correlazione di Pearson Sig. (2-code) Correlazione di Pearson Sig. (2-code)
0188 0,581
1
-0,102 0,765
0,523 0,099
1
-0,123 0,719
0,276
-0014
0,411
0,966
-0,244 0,469
0,016 0,964
-0,129 0,706
0955 0,000
I
-0,170 0,618
0,182 0,593
-0,057 0,867
0,994
0,982 0,000
1
0,000
-0,211 0,532
0,645 0,032
0,607 0,048
0,688 0,019
0,539 0,087
0,640 0,034
1
-0,191 0,573
0,772 0,005
0693 0,018
0,605 0,048
0,452 0,163
0,554 0,077
0,916 0,000
0,672 0,023
0,769 0,006
0,336 0,312
0,335 0,314
0,083 0,808
0,244 0,469
0,496 0,121
0,522 0,100
0,051 0,881
0,521 0,100
0,074 0,829
0,854 0,001
0,735 0,010
0,819 0,002
0,595 0,054
0,656 0,025
.
1
-
0,563 0,072
Tab. 3: Correlazione tra le variabili. Evidenziate in rosso le correlazioni significative a livello 0,05 e 0,01. (N=12)
LEC TREAT_a
Correlazione di Pearson Sig. (2 -code)
-0,267
ACT2 ACT1 0,247
0,770
DIP -0,022
DIP_cs
DIP_rot
COM
-0,056
-0,035
0,325
0,492
LOBB BIJDG DIREZ TREAT_a TREAT_w -0,004
0,098 0,775
REGEorce
DlRforce
DECforce
L0851 LOBB2 LOBB3
1
0428
0,464
0,006
0,948
0,871
0,918
0,329
0,125
0,991
-0,271
0,190
0,779
-0,079
-0,108
-0,090
0,315
0,428
-0,037
0,000
0,985
Sig. (2-code)
0,420
0,577
0,005
0,818
0752
0,792
0,346
0,189
0,914
0,999
0,000
Correlazione di Pearson
0,968
0,117
-0,094
-0,082
-0,189
-0,123
-0,152
-0,172
0,655
0,062
-0,278
-0,276
Sig. (2-code)
0,000
0,731
0,783
0,811
0,578
0,719
0,655
0,614
0,029
0,855
0,408
0,411
Correlazione di Pearson
0,277
0,038
0,338
-0,278
-0,290
-0,285
-0,092
-0,018
0,251
-0,169
0,030
0,037
0,257
Sig. (2-code)
0,410
0,911
0,310
0,409
0,387
0,395
0,788
0,958
0,457
0,620
0,931
0,914
0,445
Correlazione di Pearson
0,857
0,159
-0,253
-0,222
-0,312
-0,258
-0,400
-0,322
0,408
-0,081
-0,271
-0,287
0,663
0,043
Sig. (2-code)
0,002
0,641
0,452
0,511
0,351
0,443
0,223
0,334
0,213
0,812
0,421
0,393
0,026
0,900
-0,512
0,313
0,623
-0,114
-0,130
-0,121
0,389
0,423
-0,179
-0,246
0,522
0,562
-0,594
0,072
-0,294
0,107
0,348
0,041
0,739
0,702
0,723
0,237
0,195
0,599
0,465
0,100
0,072
0,054
0,833
0,380
-0,315
0.652
0,486
0,608
0,498
0,574
0,938
0.845
0,361
0,597
0,311
0,295
-0,318
-0,186
-0,349
0,514
0,346
0,030
0,130
0,047
0,119
0,065
0,001
0,001
0,276
0,052
0,351
0,378
0,341
0,585
0,293
0,106
-0,505
0,476
0,652
0,134
0,081
0,116
0,601
0,630
-0,006
0,029
0,512
0,536
-0,569
-0,012
-0,351
0,951)
0.756
0,113
0,139
0,030 0,695 0,812 0,735 0,050 0,038 0,987 0,933 Tab. 4: Correlazione Ira le variabili (conlinua). Evidenzile in rosso le correlazioni significalive a livello 0,050 0,01.(N=12)
0,108
0,089
0,068
0,972
0,290
0,000
0,007
TREAT_w
!OEGforce
DlRforce
DECforce
L0081
Correlazione di Pearson
Correlazione di Pearson Sig. (2-code)
LOBB2
Correlazione di Peannon Sig. (2-code)
LOBB3
Correlazione di Pearson Sig. (2-code)
1
1
1
1
1
9
Considerando che i pensatori "classici" hanno sempre tenuto ben distinti democrazia e regime rappresentativo - l'idea moderna di rappresentanza trova origine nell'opera di un pensatore assolutista quale Thomas Hobbes (1651) - è forse corretto considerare l'espressione "democrazia rappresentativa" un ossimoro (Luciani, 2003). 2 i pensi, ad esempio, all'esperienza dei Bilanci partecipativi, o a quella dell'approccio partecipativo alla pianificazione strategica locale, tentativi di gestione di scelte territoriali e di legittimazione delle decisioni pubbliche attraverso un più o meno ampio e strutturato coinvolgimento di soggetti eterogenei, istituzionali e non, nella formulazione e gestione di politiche ed interventi pubblici della cittadinanza ai processi decisionali (Allegretti e Haurugger, 2004). Basti citare, a titolo di esempio, i problemi relativi alla assunzione di comportamenti del tipo "Not in My Back Yard'(c.d. Sindrome di "Nimby"). 4 Anche se con un certo livello di approssimazione, possiamo affermare che le stesse corporazioni o gilde medievali costiruiscono un interessante esempio di lobby ante litteram. Il più recente rapporto OcsE Lobbyists, Governments And Public Trust: Building A Legislative Framework For Enhancing Transparency AndAccountability In Lobbying (2008) rileva che solo 5 Paesi membri della UE hanno adottato un regolamento. 611 paragrafo è incentrato sull' analisi del contributo dei gruppi di interesse nei processi di decision making che si svolgono in seno all'Unione Europea, in particolare attraverso una ricognizione delle possibilità di accesso delle lobby presso la Commissione e presso il Parlamento europeo. Si è scelto dunque di tralasciare in questa sede il dibattito che evidenza il ruolo dei gruppi di interesse nel processo a lungo termine di integrazione europea. Su questi temi cfr. Moravcsik (1993) Cfr. Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa, Parte I,Titolo VI, art. 1-47. 8 L'elevata complessità sotto il profilo tecnico di molte tra le scelte che la Commissione è chiamata ad affrontare e le dimensioni ridotte dello staff delle DC in relazione alle competenze assegnatele rendono l'acquisizione di informazioni all'esterno una alternativa poco costosa per la acquisizione di informazioni (per considerazioni in tal senso cfr. Greenwood, 2003, e Van Schendelen, 1996; per un approfondimento sulle dimensioni dello staff della commissione cfr. StatisticalBulletin qfCommission staff42007 e).
La distribuzione interistituzionale dei poteri nel-
l'ambitodei processi legislativi che si svolgono in seno all'Unione Europea, è stata approfonditamente analizzata con l'ausilio di "modelli spaziali" (cfr. Tsebeffis 2000) che sottolineano il ruolo significativo svolto dalla Commissione Europea soprattutto nell'ambito della procedura di consultazione, in cui essa risulta titolare di un potere di agenda setting. Malgrado detto ruolo appaia ridimensionato nella procedura di codecisione, la Commissione rimane l'unica istituzione attivamente coinvolta in tutte le fasi del processo legislativo e soprattutto responsabile della prima fase di elaborazione delle proposte, particolarmente cruciale soprattutto in quei casi in cui si pervenga ad adozione della proposta durante la prima lettura (cfr. Warntjen e Wonka 2004). In tal senso cfr. anche Guéguen (2007), un "manuale", estremamente tecnico, considerato strumento irrinunciabile per la formazione del personale lobbista, in cui si afferma espressamente "The more you anticipate (pur action), the stonger your abillty to influence". '°In tal senso cfr. il Protocollo sull'applicazione dei prinripidi sussidiarietà e di proporzionalità annesso al Trattato di Amsterdam (1997): "Fatto salvo il suo diritto di iniziativa, la Commissione dovrebbe (...) eccettuati i casi di particolare urgenza o riservatezza, effettuare ampie consultazioniprima di proporre atti legislativi e se necessario pubblicare i documenti delle consultazioni". "I comitati sono istituiti attraverso due modalità: Decisione della Commissione o iniziativa del Servizio della Commissione sentito il Segretariato Generale. u Rientrano in questa classificazione anche i comitati scientifici, formati da esperti accademici, e le social dialogue committees in cui siedono rappresentanti di impiegati e datori di lavoro ed ed il cui obiettivo è incoraggiare il dialogo tra le parti sociali. 13 Si veda ad esempio i meefin,gsosganizzali dalla DGTra& hJ/dewros/dvil/mceeln7mcet11167. portale web Your VoiceinEurope. (httpi/ec.europa.eu/yourvoice/consultationsiìndex_efl. 14 11
htm) offre una panoramica dettagliata delle consultazioni in corso e di quelle terminate perle quali c l'opportunità di accesso alla documentazione prodotta. "Si fa qui riferimento ad una crescita presunta. I dati forniti prima del 2004, infatti, sono stime, e dunque l'istituzione del Register ofExpert Groups nel 2004 e la conseguente ufficializzazione dei contei possono aver indotto a sovrastimare la crescita del numero dei comitati. 16 Cfr. alt 16 dell'Accordo Quadro Sulle Relazionitra Parlamento europeo e Commissione europea. "The Commission shall
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injìnn Pariiamènt o) the /ist ofitsExpertgroups sei up in ordr to assisi the Commission in the exercise of itt right ofinitiative. Thatkstshallbe updatedon a reguIarbasisandmadepublic' ° Il registro è disponibile online all'indirizzo web http://ec.eumpa.eu/tsparency/regexpedindexfm. Per una analisi descrittiva dettagliata si veda Gomitzka e Sverdrup (2007). '8 Accesso al gennaio 2008. 'Un dato preciso non è al momento disponibile. 20fl quadro si allarga se consideriamo ai 262 comitati che agiscono nella lise di esecuzione della normativa spprovata (Cft. Trattato che istituisce la Comunità europea, art 202). Nell'osservanza di una procedura comunemente nota come comitatologia (Cfr. Le decisioni del Consiglio dell'Unione europea 1987,1999,2006 citate in bibliografia) la Commissione - su indicazione del Consiglio - si avvale di comitati di varia natura per confrontai-si con i rappresentanti degli Stati membri onde approfondire aspetti critici relativi all'irnplementazione delle norme adottate. Due recenti comunicazioni del consiglio (Consiglio dell'Unione europea 1999,2006) hanno introdotto forme di trasparenza per l'attività di questi comitati ed ampliato i poteri controllo su di essi da parte del Parlamento specialmente nelle materie oggetto di codecisione. 21 lmpiegando i dati del databse CONNECS Broscheid e Coen (2007) hanno dimostrato l'esistenza di una relazione diretta tra numero dei gruppi di interesse e numero dei comitati consultivi della Commissione nelle singole aree di policy. L'ipotesi cui i due studiosi pervengono è che la la Commissione tenda a creare comitati consultivi in quei settori nei quali esista un ampio numero di gruppi di interesse. 22 "7hepresent communication arisesfrom the beliefthat by pia cing these relations on a siightiy moreformaiizedfooting the Commission will ma,kethem more tra rrsparent to thebenefitofail concerned Cfr Commissione europea (1992). 53 Cfr. Commissione europea (1992b, 1996,2003). 24
Cfr. "The Commissien hai in particular a reputationfor
being accessi.bie to interestgroups andshould ofcourse retain this ease ofaccesi. Indeed, it is in the Commissioni own interest fo do so since interest groups can provide the services with technicaiinformation and constructive advice' cfr. Comsnissione europea (1992). La commissione,in particolare, non ritiene opportuno realizzare registri che consentano ai gruppi di accreditarsi. 2tNel Libro bianco sulla Governance Europea (2001)/a Commissione individua espressamente lisigenza di limitare "il rischio che ipolitisi si limitino ad ascoltare argomentazioni unilaterali di determinati gruppi in grado di assicurarsi un ascessoprivilegiato [ ... 1".
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Sotto questo profilo assai più rigide erano le indicazioni che aveva offerto il Comitato Economico e Sociale. 27 Vedi Commissione europea (1992) A11.2. ss Nome e status legale e tipologia dell'organizzazione, politiche ed aree specifiche di interesse, sede legale e nominativi dei responsabili, indicazione degli organi consultivi di cui è membro, e, in alcuni casi, informazioni sulle fonti di finanziamento. httpu/eccumpzeucivilsociety/wneccs/indc'cen.hnm 30 Nome ufficiale, obiettivi perseguiti, periodo di mandato, frequenza degli incontri, DG responsabile, membri, tipologia (ad hoc, meeting stabilmente organizzato, ecc). in tal senso vengono dalle verifiche empiriche di A. Broscheid (Broscheid e Coen 2007). Non trova invece supporto empirico nel modello da questi studiosi sviluppato, l'ipotesi che il numero di /obby attive in ciascuna area di policy sia più ampio quando la DC in quella stessa area competente abbia uno staff esiguo. 32 11 registro è accessibile dal sito web della Commissione. 33 Basti qui citare i due workingpaper sul /obbying ad opera del Parlamento (1999,2003), la posizione assunta dal Parlamento in relazione al 11 Libro Bianco sulla Governance europea prodotto dalla Commissione, in cui esprimono forti dubbi e perpiessità circa l'approccio della Commissione al lobbying. Cftat9pet2eagatoD(aiRobmmsodd1adamenea tratto dal sito web del parlamento, registro lobbisti, accesso al dicembre 2007. Cfr.art3 dell'allegato IXal Regolamento del Parlamenttt 37 Cfr. art. 9 par. i del già citato Regolamento. 35 Lo stesso vale anche per gli assistenti parlamentari. Vedi allegato IX art. 2 del Regolamento. 39 Cfr. l'ast. 2 del già citato Regolamento. 45 Report on the development oftheframeworkfor the ssc/ivities ofinterest representaiives (lobbyists) in the European institu/ioni (2007/2115 [IN!]). già citata Comunicazione della Commissione del 1992 lii riferimento a circa 3.000 gruppi di interesse attivi tra Bruxelles e Strasburgo, tra cui almeno 500 organizzazioni di livello europeo o intemazionale, con un personale complessivamente pari a 10.000 lobbisti. E la stessa Commissione tuttavia, ad aver ammesso che questo numero era sovrastimato. Nel working Paper Lobbying in the European Union: cul7ent nt/cs andprac&es (2003), ilPariamento Europeo stima circa 2600 gruppi di interesse aventi ufficio permanente a Bruxelles nell'anno 2000; "(..) tradefederations comp rise about a thira commercia! consulta nts afi/lh, companies, Euro/scan NCOs (e.g., in environment, hea/th care orhuman rights) andnationai 3
business orlabourassociations each about 1O% regionairepresentations and international o,anisations each about 59b, and,Ji-
46
E' evidente che l'impiego di questo dato meramente
quantitativo per descrivere le competenze in ciascun settore
naily, think tanks aboutl%". 12 Non mancano associazioni e network che raccolgono
di policy previste dai Trattati per l'Unione possa risultare pro-
la partecipazione di enti regionali e locali di diversi stati mem-
ampia considerazione. 47 Come noto il valore del coefficiente di correlazione di
bri, quali ad esempio la Assembly of European Regions (AER), il Council ofEuropean Municipalities and Regions (CEMIR) ed il network Four Motors (Lombardia, BadenWiirttemberg, Rhòne-Alpes, e Catalogna). 4
Ci limitiamo qui a sottolineare che tutte le Regioni
blematico. Nel commento ai risultati dell'analisi lo si tetrI in
Pearson tra due variabili è dato dal rapporto tra la covarianza tra le due ed il prodotto delle loro deviazioni standard. La politica agricola comune (PAC) è una delle politiche comunitarie maiormente rilevanti avendo impegnato negli
uffici aventi modelli organizzativi piuttosto vari: dall' ufficio
ultimi anni buona parte del bilancio dell'Unione Europea (circa 1147% nel 2007). 11 suo lento processo di riforma arti-
unico di rappresentanza di una singola autorità regionale o
colato in tre interventi succedutisi dal 1992 al 2003 - la n-
locale - forma più presente a Bruxelles - a uffici «transfron-
forma MacSharry, Agenda 2000, e la più recente riforma
talieri" che uniscono, ad esempio, la Regione Trentino e quella
Fischler— ha mirato ad una riduzione del suo onere per il bi-
austriaca del Sud Tirolo. 14 Sul tema delle rappresentanze regionali cfr. tra gli altri,
lancio comunitario, cosi pesante da compromettere lo svi-
italiane sono presenti stabilmente a Bruxelles anche se con
Hooghe (1996) e Nielsen (1998). dati sui qui presentati hanno presentato il numero di gruppi di interesse e comitati consultivi per ciascuna delle DC
luppo di altre politiche. 19 In particolare l'espressione «guns shooiwhere the duck are" (Richardson, 2006), comunemente impiegata per spiegare la scelta delle lobby di agire a Bruxelles, traduce con una
componenti la Commissione dell'Unione europea. Onde cal-
efficace metafora l'idea che la naturale inclinazione alla ricerca
colare tale numero rispetto agli 11 settori di policy individuati si è provveduto ad una associazione tra DG e settori seguendo
di rendite delle lobby, le spinga a cercare forme di contatto
il seguente schema: Intemational trade: Trade DC; Common
con le istituzioni comunitarie. ll Solo sei tra queste proposte sono state discusse
Market: Interna! Ma rket and service5; Money andJiscal Taxa-
dalle Commissioni competenti, nessuna in Camera o Se-
tion and Custom IJnions DC e Ecnomic andFinanciaMffairs
nato. Sull'argomento cfr. anche Zuddas (2006).
DG;Education Research and Culture:ResearchDG eEducation
' Cfr. l.reg. Toscana 18 gennaio 2002, n. 5 «Norme
and Culture DC; Environment: Environment DC;Agricolture and Fisheiy:Agricolture andRural development DC; Industiy:
per la trasparenza dell'attività politica e amministrativa
Enterprise andlndustsy DC; Transport:Energy and Transport
ottobre 2004, n. 24 «Norme per la trasparenza dell'atti-
DC; Bueiness non sectoraL Competition DC; International re/a-
vità politica ed amministrativa del Consiglio regionale
tions andForeignAidExternalRelationsDC EuropeAidDC, DevelopmentDG; Citizens andsocùzlprotections.Justice, Free-
del Consiglio regionale del Molise").
del Consiglio regionale della Toscana" e l.reg. Molise 22
dom and Security DC, Employment, SocialAffairs and Equa! Opportunities DC, Health and Consumer Protection DC e RegionalPolicyDC. I risultati conseguiti hanno una cella stabilità anche mutando alcune tra le associazioni dubbie tra settori di policy e DC.
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Passigli Editori
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tfOilaihe dal (SS
1'IetropoIi del XXI seuolo. Scollfivallleuti e reti (a cura di) Arianna Santero
C
osa significa la realtà metropolitana oggi? Che problemi istituzionali, politici e sociali pone? C)uali sono le criticità e le eccellenze dell'Italia metropolitana? Oeste alcune delle domande a cui si è cercato di rispondere alla tavola rotonda su "Metropoli del XXII secolo - Sconfinamenti e reti" organizzata dal CRIc (Coordinamento Riviste Italiane di Cultura) con la partecipazione della Commissione per il Governo delle Città del Consiglio italiano per le Scienze Sociali lo scorso 13 maggio 2010, presso il Salone del Libro di Torino. Le riviste hanno scelto di affrontare la questione metropolitana perché di grande attualità, spiega Rosario Garra (Segretario gen. CRIc) nell'introduzione ai lavori. Proprio per la loro attenzione al presente, infatti, le riviste svolgono un ruolo di mediazione tra libri e carta stampata. Il CRIc torna al Salone del Libro per salvaguardare questo ruolo, un ruolo che talvolta oggi può sembrare invisibile, ma è ancora quanto mai necessario. E il CRIc cerca di svolgerlo con fiducia. Ad esempio coinvolgendo i giovani in un laboratorio redazionale, racconta Va/do Spini (Direttore Qjaderni del Circolo Rosselli e Presidente CRIc), oppure costituendo un consorzio per la vendita on-line dei numeri arretrati, combinando così vettori analogici e digitali. Le difficoltà tuttavia rimangono: dalla diminuzione dei contributi per le riviste culturali, all'aumento delle spese postali, passando per le scelte poco valorizzanti delle librerie. Nel confronto internazionale tuttavia gli abbonati in Italia continuano a essere numerosi. Intorno alle riviste, continua Spini, si crea un "volontariato culturale" di persone che si confrontano, un patrimonio prezioso, da non disperdere. Con la crisi culturale che stiamo affrontando, quindi, difendere le riviste ha valore generale per la collettività. L'obiettivo del CRIc è costruire spazi di comunicazione e risonanza più ampi con il supporto tecnologico e sempre maggiore cooperazione. Anche intorno alla questione urbana, conclude Spini, sono nate possibilità di frIII]
sinergie. I Quaderni negli ultimi numeri hanno curato approfondimenti su singole città, confrontandosi e collaborando con autori ed esperti diversi. Alberto Papuzzi (La Stampa) apre la tavola rotonda sulle metropoli ricordando, come giornalista, che il tema emerse negli anni settanta con l'istituzione dei Comprensori, istituzione di livello intermedio tra Comune e Provincia. Trent'anni dopo il problema urbano si presenta in parte con gli stessi interrogativi di allora, in parte con nuove proposte, tra cui quella delle aree metropolitane. Oueste istituzioni aprono questioni relative da un lato alla loro definizione giuridica, dall'altro alla loro definizione politica, più o meno conflittuale con il livello delle amministrazioni provinciali. L'idea di area metropolitana, continua Papuzzi, cerca probabilmente di "catturare" la mobilità dei territori e delle città. Così per esempio nella vecchia Torino "company town", impostata sulla sua grande azienda automobilistica, la città coincideva con il territorio comunale, ma il fenomeno della mobilità ne allargava i confini: gli operai pendolavano da Settimo, Venaria, Chieri, legando il Comune con il suo intorno. L'area metropolitana è una risposta a questo tipo di processi? Per Papuzzi può rappresentare ed esprimere le reti su cui interagiscono fenomeni di mobilità e dimensione territoriale, reti intese sia come organizzazione del territorio sia come rapporti determinati dal traffico, dalle comunicazioni, dal pendolarismo. Papuzzi chiede quindi a Guido Martinotti (Università di Milano-Bicocca e Css) di illustrare le prospettive individuate dalla Sociologia urbana e dalla Commissione per il Governo delle città del Consiglio italiano per le Scienze Sociali. Martinotti aveva coordinato per il Css la redazione del Libro bianco sulla trasformazione urbana uscito nel 1999 1 . In quel momento, come oggi, il concetto di città per il sociologo era maltrattato dal "tritacarne della politica italiana". Malgrado ciò, il ragionamento sulla necessità di definire la realtà metropolitana ha una lunga storia, che risale al Congresso di Limbiate del 1957. Voluto da circa cinquanta sindaci dell'intorno di Milano, il congresso portò alla creazione del PIM - Piano Intercomunale Milanese - progetto poi esteso - pur con esiti modesti - al piano torinese, bolognese e così via. Da allora sono state approvate due leggi e una riforma costituzionale che prevedevano l'istituzione delle aree metropolitane. Il risultato? Far coincidere l'area metropolitana con la città, definita su base provinciale: l'oggetto più nuovo e difficile da trattare è stato trasferito sull'istituzione più desueta e criticata. Questo risultato dipende anche dalla cultura politica italiana, nota amaramente Martinotti. Ma come mai? Per il sociologo la spiegazione risiede nel fatto che l'oggetto "città" si è trasformato radicalmente. Nel 1938 Louis Wirth definì la città sulla base di tre variabili: grandezza, densità, eteroge204
neità2 . Per mezzo secolo questa è stata la descrizione più intelligente di città. Oggi le città sono grandi, ma non sappiamo più tracciarne i confini, ne consegue che la densità - il rapporto tra popolazione e area - non si può misurare, e anche l'eterogeneità assume nuove forme, come le gated communities, non è più quella dei film di Charlie Chaplin o delle pagine di Georg Simmel. La cultura politica non ha capito come è cambiata la città: un core o centro urbano circondato da quello che Martinotti definisce meta-città, molto sparsa e quindi meno densa. Ma questa trasformazione ha importanti conseguenze, ad esempio sulla (in)efficienza dei trasporti. Occorre cambiare la dicotomia tra "modello pasoliniano" di città come comunità localistica definita dal c.d. "territorio" da un lato, e "città cattiva" che tutto fagocita dall'altro lato. Mentre negli anni ottanta si creava lo spraw/, la risposta italiana è stata il ritorno alla campagna e la trasformazione è stata non governata, generando enormi viilettopoli caratterizzate da estrema mobilità individuale con costi ecologici altissimi e isolamento per la diffusione di servizi a distanza. Con la televisione e poi internet, l'agorà entra nelle nostre case e viene svuotata. La situazione è drammatica, e il territorio sembra vendicarsi: si affermano conflitti, movimenti etnoregionalisti e separatezze. Il problema che la Commissione del Css cerca di affrontare, spiega Martinotti, è sgombrare le leve intellettuali dalle false definizioni. Urbanisti, geografi, giuristi e sociologi si stanno confrontando per individuare policies adeguate alle sfide del sistema urbano del Paese. Tra le tante: non cercare di tramutare la città in campagna, se non per fini estetici, ma semmai ridensificare la campagna, per ri-creare agorà. Va/do Spini (Direttore Oaderni del Circolo Rosselli e Presidente CRIc) ricorda che il Titolo V riformato prescriverebbe la costituzione di otto aree metropolitane, ma in realtà le città più importanti "si arrangiano" per conto loro, la nuova disposizione non viene di fatto applicata, mentre invece i principali Paesi europei si stanno preoccupando di predisporre iniziative adeguate alla dimensione metropolitana. La Francia ha costituito le Comunità urbane, in Germania ogni Lander è autonomo e ci sono diverse soluzioni, anche interLànder - come nel caso di Francoforte - in Gran Bretagna sono stati istituiti i Districts. In Italia la mancanza di autorità unitarie che amministrino l'area delle metropoli minaccia la capacità di programmare la vita di ciascuno di noi: in questo modo, avverte Spini, i singoli decisori locali sono autorizzati a non programmare razionalmente, ma piuttosto a creare una serie di attività indipendenti e sconnesse, se non addirittura motivo di contesa. Il caso di Firenze è embiematico: circa 190miia veicoli al giorno entrano in città perché moltissimi city users vivono fuori dal Comune. Questo dato mostra che il livello del singolo Comune fiorentino non è sufficiente per gestire la mobilità: occorre considerare unitamente l'intera piana, fino a Prato e Pistoia. Nella conca di 205
Firenze però ogni città costruisce il suo piano senza coordinarsi. Il numero dei Quaderni presentato alla tavola rotonda si interroga quindi sui modi per rincorrere con un'amministrazione appropriata il fenomeno sul territorio. I Comuni spesso sono refrattari a "perdere potere", conclude Spini, ma se questo significa non decidere occorre attuare strategie alternative di cooperazione più efficace. Anche perché la città può essere un luogo privilegiato per risolvere la contraddizione ambientale. Le riviste, specie se radicate in alcune cittadine, possono dare il loro contributo affinché il tema sia portato all'attenzione pubblica. La redazione di Lettera internazionale, che partecipa all'incontro con la Direttrice, Biancamaria Bruno, recentemente ha concentrato il suo interesse sulla città, avvalendosi di prestigiose collaborazioni per la realizzazione di dossier e interviste. La città è un tema trasversale: studiosi diversi si cimentano da anni alla ricerca di categorie teoriche o pratiche, in Europa e non solo. Le riflessioni della statunitense Saskia Sassen su reti e postmodernità, ad esempio, comparvero in Lettera internazionale all'inizio degli anni ottanta. Sui concetti di metropoli, megalopoli e oltre-città il dibattito è oggi vivace. L'invito di Biancamaria Bruno è volto a cogliere una visione più teoretica e intendere l'ur bano, con Eliot Weinberger, dal punto di vista simbolico: quello che la città significa, ciò che rappresenta, il valore della città, che sia un luogo o un non luogo. La metafora migliore della città antica è il grattacielo: la società urbana era costituita da strati sovrapposti e gerarchici che erano immaginati arrivare fino al cielo. Franco Farinelli in termini geografico-politici, rispetto alla città metaforica, menziona quella di Babele, da dove l'arciere scoccò la sua freccia verso le altitudini celesti per provocare la divinità. Il rapporto tra mondo e oltremondo è sempre verticale e, come insegna Michel Foucault, esplicita le relazioni che l'uomo istituiva per la sua formazione culturale: il valore simbolico della città si fondava sul significato dei legami politici - orizzontali e verticali tra cittadini e non cittadini. In questa Italia che pare sempre più "sull'orlo dell'abisso" si stanno creando nuove città, in cui le relazioni si fanno virtuali, alle quali possiamo dire di appartenere, essere cittadini, anche senza vivere in città, ma collegandoci in rete. Questa città virtuale, si chiede Bruno, può essere considerata una nuova città simbolica? Franco Farineii(Ordinario di Geografia - Università di Bologna) propone di superare il concept topografico di civilizzazione urbana. La definizione occidentale di città è molto recente: dagli illuministi del Settecento la città è stata una collezione di edifici e di strade. Ma non è sempre stato così. Aristotele concepiva la città come una maniera che gli uomini avevano trovato per inseguire la felicità; più tardi Torquato Tasso rinuncia alla felicità ma continua a definire l'urbano "il luogo in cui si vive meglio che in campagna". Sarà Gio206
vanni Botero a riflettere per primo sulla città in termini politici, come radunanza d'uomini. Con il Seicento entra in campo la topografia: la città diventa quella delle mappe, non più nella realtà. Per Farinelli la virtualità impone l'uscita dall'immiserimento della definizione di città. Occorre recuperare la multidimensionalità del fenomeno urbano, oppure sarà difficile superare l'attuale crisi verticale dell'urbanistica così come l'abbiamo concepita. Lo stesso concetto di area metropolitana, continua Farinelli, è ossimorico: la città non è mai stata una superficie. Matrici simboliche come queste quando non sono consapevolmente assunte falsificano qualsiasi possibilità di comprensione. Il problema va posto in termini radicali: il regime topografico-spaziale di definizione del mondo è in crisi, la città si configura come l'ambito al cui interno si può pensare la nuova configurazione del mondo, se non si capisce questo ogni progetto è votato all'ingenuità. Marz'inotti, riprendendo la domanda di Bruno, nota che già i greci distinguevano tra po/is spirituale e costruita. Passare da dentro a fuori le mura per i romani era un atto simbolico. Il problema dunque è antico. Un tempo, però, si potevano identificare chiaramente i confini (simbolici e non) della città. Cosa ha sancito lo sgretolarsi di questa divisione tra "dentro" e "fuori" le mura? L'affermazione di nuove funzioni sociali, di mobilità e informazione, che hanno permesso agli stili di vita urbani di essere ovunque. La revisione generale di tutti i concetti relativi all'urbano è certamente un compito olimpico. La Commissione Css intende evidenziare gli equivoci più gravi, per i quali il concetto di territorio rischia di essere assunto dai policy makers in modo ingenuo e acritico. La città metropolitana come fascio di modelli immateriali, conclude Farinelli, come cultura e capacità di manipolazione simbolica differente dalle altre e specifica, è un livello da cui ripartire per comprendere e progettare le nuove strutturazioni urbane. Nell'area bolognese prima che sui flussi materiali la contraddizione si produce e si colloca a livello di riconoscimento immateriale, capacità di manipolazione simbolica ed eterogeneità: la partita anche politica, istituzionale, ambientale, si gioca su questo piano. Per approfondimenti: www.consiglioscienzesociali.org/reparti/l 9/governo-della-città-e-del-territorio! www.crie-rivisteculturali.it/cms/ www.rosselli.org/Quaderni.asp www.letterainternazionale.it
G. MARTINOTTI, a cura di, La dimensione metropolitana. Sviluppo egoverno della nuova città, il Mulino, Bologna 1999. 2
L. WIRTH,, Urbanism as a Way ofLfe in «The AmcricanJournal ofSociology, Vol. 44, No. 1, pp. 1-24, 19
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queste istituzioni n. 156-157 gennaio-giugno
2010
uronauhe dal ItII
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lin te di cultura, il pulitO COil Valdo Spilli n is
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i panorama delle riviste di cultura in Italia è decisamente vasto: più di 400 pubblicazioni che si occupano di discipline quali la letteratura, la politica, l'arte, la filosofia. Un universo culturale da sempre focalizzato più sulla qualità del prodotto che sulle logiche di mercato e che per questo combatte da anni con tirature limitate, vendite ridotte all'osso e limitati ricavi pubblicitari. Di questo e d'altro abbiamo parlato con l'onorevole Valdo Spini, presidente della commissione affari istituzionali del Comune di Firenze e neo presidente del CR.ic, Coordinamento Riviste Italiane di cultura. C'è un imperativo impellente nel campo dell'editoria italiana: cercare nuovi lettori, aprirsi a nuove fasce di utenza. Come pensa sia possibile realizzare un tale obiettivo? Il primo elemento è la formazione di lettori nuovi e cioè la trasformazione in lettori di cittadini che non sono ancora lettori. Il sistema editoria in questo caso è una variabile che interagisce con i sistemi della formazione e dell'informazione. E' necessario investire e non disinvestire nei settori della scuola, dell'università e della ricerca. Fra queste esigenze, vi è anche quella di informare adeguatamente i lettori di libri e giornali sull'offerta delle riviste di cultura. Poi bisogna promuovere la lettura, e cioè utilizzare l'insieme dei canali, dalle fiere editoriali ai festival culturali, dando impulso a iniziative diffuse su tutto il territorio nazionale, senza trascurare le zone di periferia e la provincia. Vi dovrebbe essere molta più attenzione a coinvolgere attivamente la popolazione e a rispondere a una gamma di esigenze molto ampia e differenziata. In questo senso le riviste possono avere un ruolo strategico se si mettono in dialettica con i libri, sviluppando un ruolo di collegamento tra il divenire delle idee e degli avvenimenti e i libri stessi: dobbiamo dare una vera e propria battaglia non solo politico-culturale o, forse, politica tout court, in questo senso. Fra le 209
prime cose di cui ci occuperemo vi sarà la sollecitazione nei confronti delle rubriche culturali della RAI e delle altre reti televisive ad occuparsi delle riviste. Le riviste culturali sono state al centro dei movimenti culturali più innovativi del Novecento. Cosa rappresentano oggi le riviste nella società italiana e quale ruolo secondo Lei potranno avere in futuro? Il libro è l'opera, in genere, di un singolo autore. Le riviste sono invece l'espressione di un luogo di confronto, di stimolo reciproco tra persone e ambienti. Un elemento insostituibile del processo di rinnovamento culturale. Le riviste culturali e i gruppi intellettuali che le esprimono hanno ancora oggi il ruolo di produrre idee, studi e linguaggi che abbiano la capacità di sviluppare conoscenze e anticipare tendenze, introducendo le innovazioni nell'ambito della sfera pubblica. Ovviamente ci sono altri mezzi d'informazione che gli stessi autori delle riviste possono utilizzare, raggiungendo una platea molto più vasta. Ma le riviste sono tutt'ora officine culturali e atelier di democrazia, come lo sono state in altre stagioni del Novecento e sono anche un antidoto contro la decomposizione delle culture, fenomeno oggi quanto mai attuale. In Francia riviste come le Magazine littèraire vendono in edicola decine di migliaia di copie per non parlare delle decine di migliaia in abbonamento. In Italia anche le riviste culturali di maggior spessore vendono molto meno sia in termini di abbonamenti che di vendite in libreria. Questo dato, secondo lei, è connesso al modo in cui si veicola il messaggio culturale in Italia? Queste riviste francesi costituiscono certamente un esempio a cui guardare. Peraltro, anche in Paesi come la Francia, dove esistono un pubblico molto più attento e una tradizione molto più favorevole alle riviste di cultura, queste pubblicazioni stanno vivendo da alcuni anni problematiche che rendono più difficile la loro gestione e la loro diffusione. Oltre alle nostre insufficienze, alla difficoltà di veicolare il messaggio culturale, la situazione in Italia è complicata anche dal fatto che i periodici culturali sono seguiti da un pubblico molto più ristretto. L'assenza di politiche dello Stato per il settore ha contribuito poi a esacerbare ulteriormente la situazione. Per ultima e fra le più gravi difficoltà, l'abolizione delle tariffe postali agevolate, che colpisce a morte un settore i cui prodotti sono distribuiti per l'80% tramite la spedizione in abbonamento postale. Con l'avvento di internet si era paventata la scomparsa delle riviste, considerate un p0' l'anello debole dell'editoria, mentre invece pubblicazioni come "IVlicromega" sono riuscite a sfruttare la rete per ampliare il dibattito culturale. Come giudica questo risultato? Al contrario di quanto è stato pronosticato anche fra critici e opinionisti assai illustri, l'avvento di internet non ha avuto come effetto la scomparsa delle riviste. Naturalmente quello di internet non è ancora uno spazio ac210
quisito e consolidato. Il CRIc ha dato impulso fin dalla sua fondazione alla sperimentazione di nuove iniziative sulla rete, aggregando e coordinando la comunicazione e l'offerta delle riviste, sia per la sottoscrizione di abbonamenti online, sia per l'accesso ai loro contenuti digitalizzati. In altre parole si possono comprare singoli articoli di numeri arretrati da una piattaforma digitale in modo molto più agevole. Certamente il collegamento tra stampato e digitale è il punto cruciale per assicurare una nuova vita alle riviste di cultura. Uno dei problemi più rilevanti per le riviste di cultura è la distribuzione. Quali soluzioni di intervento sta vagliando o ha già sviluppato il CRIC in merito a questo problematica? E ormai sempre più difficile per i periodici di cultura entrare o restare nel circuito della distribuzione nelle librerie. Condizione preliminare per il trattamento del prodotto rivista nel commercio librario (sia nella rete delle librerie sia da parte delle librerie virtuali) è la creazione di una anagraflca aggiornata delle riviste o, almeno, l'assegnazione alla rivista del codice ISBN, che consentirebbe ai periodici aventi determinate caratteristiche di essere individuati tra i libri in commercio. Il Ciuc sta esaminando la possibilità di estendere l'attribuzione del codice ISBN alle pubblicazioni periodiche e di stipulare convenzioni e accordi per promuovere la presenza di periodici culturali nelle librerie indipendenti, nelle principali catene di distribuzione libraria e nelle principali librerie virtuali. Si pensava inoltre alla creazione di "rivisterie" nelle principali città italiane. Se ci presentiamo a questi appuntamenti più forti, perché uniti nel nostro coordinamento, anche il problema di una efficace distribuzione potrebbe essere affrontato positivamente. in un sua recente dichiarazione parla della sostanziale riduzione delfondo per i contributi alle riviste di cultura. Cosa mi può dire in merito? Il Cmc si è fatto portavoce degli Editori e Direttori delle Riviste italiane di cultura, presso il Governo e il Parlamento, relativamente all'istanza di ripristinare il fondo annuale di circa due milioni di euro originariamente destinato ai contributi alle pubblicazioni periodiche di elevato valore culturale. Questi contributi sono stati istituiti dalla riforma dell'editoria nel 1981 e, non soltanto non sono stati mai rivalutati da allora, ma a partire dal 2005 sono stati progressivamente ridotti e sono stati dimezzati per l'anno in corso. Dopo essere stato eletto Presidente del CRIc, ho scritto subito all'On. Sandro Bondi - Ministro per i Beni e le Attività Culturali - e al dott. Gian Arturo Ferrari, recentemente nominato alla guida del Centro per il Libro e la Lettura, per esaminare con loro le soluzioni del problema. Come ogni anno il CRIc organizzerà uno spazio espositivo collettivo dedicato ai periodici cul211
turali nell'ambito della Fiera internazionale del libro di Torino. Che valore assume la vostra presenza a manifestazioni di tale portata? La presenza del CRIc e della pubblicistica culturale nel principale appuntamento nazionale dedicato all'editoria deve connotare in modo ancora più forte che nel passato il contributo che queste pubblicazioni danno alla cultura italiana e alla stessa editoria libraria, aiutando nell'individuazione di nuovi autori e di nuovi argomenti che potranno contribuire all'arricchimento e al rinnovamento dei cataloghi e delle collane editoriali. Giovedì 13 maggio, alle ore 12 al Salone del libro di Torino, si terrà un incontro promosso dal Cric che analizzerà come le riviste culturali hanno affrontato il tema dell'evoluzione delle dinamiche urbane e del governo delle metropoli.
*I nte ista già pubblicata sul sito http://moked.it/blog/il-punto-sulleditoria-italiana-con-lonorevolevaldo-spini
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IL CONSIGLIO ITALIANO PER LE SCIENZE SOCIALI
Il Css è un'associazione con personalità giuridica. Fondata nel dicembre 1973, con l'appoggio della Fondazione Adriano Olivetti, ha raccolto l'eredità del Comitato per le Scienze Sociali (Co.S.Po.S.) che svolse a suo tempo, negli anni settanta, grazie a un finanziamento della Fondazione Ford e della stessa Fondazione Olivetti, un ruolo fondamentale nella crescita delle scienze sociali italiane. Le finalità che ne ispirano l'azione sono: - contribuire allo sviluppo delle scienze sociali in Italia ed in particolare promuovere il lavoro interdisciplinare; - incoraggiare ricerche finalizzate allo studio dei principali problemi della società contemporanea; - sensibilizzare i centri di decisione pubblici e privati, affinché tengano maggiormente conto delle conoscenze prodotte dalle scienze sociali per rendere le loro scelte consapevoli, razionali e più efficaci. Il Css rappresenta un forum indipendente di riflessione che, con le sue iniziative, vuole offrire meditati contributi all'analisi e alla soluzione dei grandi problemi della nostra società. A tal fine il Css associa ai propri progetti anche studiosi ed esperti esterni e può contare su una rete di contatti e di collaborazioni in tutti i principali centri di ricerca e di policy studies europei. Attualmente operano 3 commissioni di studio sui seguenti temi: le fondazioni in Italia; governo delle città e territorio; valutazione degli effetti delle politiche pubbliche. Vi è attualmente un gruppo di lavoro sul tema della produzione e trasformazione della conoscenza scientifica e tecnologica. Vi sono anche due progetti speciali pluriennali sui temi del ceto medio e della politica dell'innovazione e dei trasferimenti tecnologici. Da ricordare infine, l'attività di ricerca di Etnobarometro sulle minoranze etniche d'Europa.
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