13 minute read

di Miro Sampino

Next Article
di Eleni Pisano

di Eleni Pisano

KVEIK, SEMPLICEMENTE LIEVITO?

DALLE FARMHOUSE NORVEGESI UN’ANTICA E IMPORTANTE RISORSA PER I BIRRAI

Il termine Kveik, in uno dei vari dialetti rurali norvegesi, indica il lievito per la produzione di birra. A essere precisi, Kveik non si riferisce al lievito selezionato in laboratorio a fini commerciali, che in norvegese prende il nome di gjær, ma richiama le colture di lievito a uso prettamente domestico adoperate per produrre birra tra le mura di casa. No, non stiamo parlando di homebrewing o, meglio, non solo di quello. I Kveik sono tradizionalmente utilizzati nelle farmhouse norvegesi, ovvero nelle aziende rurali, prevalentemente agricole, che producono birre tipiche con il nome di maltøl e che si inseriscono nell’ampia famiglia delle farmhouse ale. La produzione di queste birre è spesso per il consumo familiare o per il commercio a filiera corta che si svolge prevalentemente nei tipici ristoranti annessi all’azienda. Le birre vengono utilizzate sia per cucinare sia per essere servite ai clienti, accompagnando piatti tipici della tradizione culinaria locale come lo smalahove natalizio, una testa di capra affumicata e bollita, servita con patate e salsa di latte acido e birra, oppure piatti meno impegnativi come il prosciutto crudo tagliato a fette molto spesse e affumicato con vari tipi di legno e aromi. Come si può vedere dalla mappa, questi birrifici a conduzione familiare sono

Da Oslo, in treno, si può tranquillamente arrivare a Voss per poi proseguire verso Bergen e godere di alcuni paesaggi mozzafiato durante il tragitto.

prevalentemente concentrati nella zona ovest della Norvegia, in una piccola area che comprende una manciata di comuni nella contea di Vestland. Siamo in una delle zone più affascinanti del paese, dove le montagne circondano piccoli comuni sperduti tra i fiordi e dove, per la latitudine (siamo a nord di Bergen), la notte e il giorno a volte si scambiano. La diffusione dei lieviti Kveik fuori dai confini norvegesi è stata spinta, negli ultimi anni, dal movimento homebrewer, che ha contribuito fortemente alla condivisione di colture originali Kveik, sia in Europa sia negli Stati Uniti. Infatti, tramite una rete di scambio che si è sviluppata attraverso Facebook, colture essiccate sono arrivate anche in Italia. Ma è stata la generosità dei birrai norvegesi, custodi di una tradizione antica, ad avere aperto la strada alla conoscenza di questi lieviti.

Tutta colpa di Lars Marius Garshol

Siamo nel 2014, quando Lars Marius Garshol, ingegnere informatico appassionato di birra, inizia a documentare quel modo anacronistico di produrre birra a opera di alcuni birrai norvegesi, tra i quali Sigmund Gjernes e Ivar Løne. Inizia così a far luce su stili birrari definibili come ancestrali, quali Stjørdalsøl, Kornøl e Vossaøl. Garshol descrive le tecniche tradizionali utilizzate nella produzione di queste farmhouse ale, che spesso vedono l’impiego di vecchie attrezzature che hanno attraversato generazioni, così come quei lieviti di casa che a ogni fermentazione si rigenerano e attraversano i secoli, in una sorta di memoria storica genetica. Garshol documenta tutto nel suo Larsblog (garshol.priv.no/blog) e, durante i suoi viaggi, recupera lieviti da vari birrifici, per poi inviarli ad alcuni laboratori di analisi. Nello stesso periodo un altro blogger, Martin Thibault, inizia a parlare di farmhouse ale norvegesi. Thibault, nella sua ricerca, è meno sistematico di Lars, ma la qualità delle sue indagini birrarie è sempre molto elevata.

Lars Marius Garshol.

Non solo Kveik

Non tutte le farmhouse ale norvegesi sono realizzate con i lieviti Kveik e non tutte utilizzano per forza il ginepro come ingrediente speciale. Nella produzione della Stjørdalsøl si utilizzano lieviti commerciali e non viene impiegato ginepro (o meglio si è smesso di usarlo). In compenso, per questa birra è impiegata una tipologia di orzo coltivato in Norvegia, la varietà Domen, che i birrai maltano e poi essiccano con legno di ontano in strutture chiamate “såinnhus”, che sono vere e proprie case del malto. Nel comune di Stjørdal se ne contano più di una cinquantina. Alcune produzioni possono rientrare nella tipologia delle cosiddette raw ale, ovvero birre in cui il mosto, dopo la fase di filtrazione, non viene bollito ma subito fermentato. Altre birre seguono invece un procedimento di bollitura tradizionale. La scelta di quale metodologia seguire è quasi sempre dipendente dal tipo di attrezzatura di cui il birraio dispone.

La magia del ginepro

L’utilizzo del ginepro come ingrediente è sicuramente una delle cose che più colpiscono l’immaginario di chi si avvicina a questa tipologia di birre, forse anche più dei lieviti Kveik. Prima che il luppolo diventasse l’amaricante de facto della birra, si utilizzavano fiori, piante e spezie (semi, radici o estratti). Il Gruyt è stato il primo mix della storia studiato per aromatizzare la birra, il luppolo arriverà dopo. Il ginepro, come ingrediente nella birra, ha origini lontane e sembrerebbe essere una prerogativa dei paesi nordici. In Nor-

I luoghi di utilizzo dei lieviti Kveik (fonte: Google).

Martin Thibault.

Essiccazione del malto in una “såinnhus” (fonte: Lars Marius Garshol Tecniche tradizionali di birrificazione).

vegia questa abitudine potrebbe essere stata importata dai cugini Finlandesi. In realtà è nei paesi baltici che da sempre si fa un largo uso di questa pianta, che ancora adesso compare come ingrediente in alcune farmhouse ale estoni e lituane. Nella tradizione finlandese, si produce ancora una birra antichissima che risponde al nome di Sahti. Questa farmhouse ale viene realizzata con alte percentuali di segale e fermentata con lievito da panificazione. Il ginepro viene impiegato per ottenere un infuso con cui effettuare il mash dei grani. In fase di filtrazione, si utilizzano rami freschi di ginepro, che vengono adagiati sulla tradizionale kuurna, un tronco di quercia scavato. La birra non viene bollita ma subito fermentata. Il Sahti rappresenta la raw ale (birra cruda) per eccellenza. Kornøl e Vossaøl norvegesi condividono con il Sahti la tecnica dell’utilizzo dell’infuso di ginepro. La Kornøl è una raw ale, mentre la Vossaøl viene bollita per parecchie ore. Non tutte le piante di ginepro sono commestibili e occorre fare attenzione a scegliere la varietà corretta, poiché si rischia l’avvelenamento. Sul sito web Slideshare, che è un contenitore di presentazioni multimediali in forma di slide, si può reperire un documento redatto da Lars Marius Garshol, molto interessante, che descrive le fasi del processo di produzione delle maltøl (per accedere si può usare il QR code a destra).

L’utilizzo del ginepro nel Sahti finlandese è documentato già dal 1300, ma le origini di questa birra sono forse più antiche. A sinistra vediamo la tradizionale infusione del ginepro in pentola, mentre a destra è mostrato l’utilizzo della kuurna, un tronco di legno scavato su cui vengono adagiati rami di ginepro per creare un letto filtrante (fonte: Lars Marius Garshol Tecniche tradizionali di birrificazione)

Le tecniche di produzione delle farmhouse ale norvegesi

In un’interessante mappa realizzata da Garshol vengono raggruppate per area geografica le principali tecniche di produzione delle farmhouse ale norvegesi: lo schema mette in evidenza come l’isolamento geografico di alcune comunità abbia portato a sviluppare metodi diversi per produrre maltøl. Di seguito, la descrizione delle tecniche in sintesi.

Bollitura del mosto dopo la filtrazio-

ne (boiled wort): il mosto filtrato viene bollito con eventuali spezie o luppoli (in pratica, come si fa per una birra tradizionale). Bollitura del mash (boiled mash): finita la fase di mash, i grani non vengono rimossi e si effettua una breve bollitura. Poi seguono una filtrazione e un’ulteriore bollitura per sterilizzare il mosto. Non è chiaro perché si effettui una bollitura dei grani; personalmente credo ci siano vari motivi, tra i quali l’esigenza di estrarre tannini al fine di compensare l’assenza di prodotti amaricanti e la necessità di mantenere l’impasto ad alte temperature per facilitare la filtrazione. I tannini, poi, hanno un ruolo conservante e stabilizzante per la birra. No-boil o birra cruda (raw ale): dopo avere separato il mosto dai grani, non viene effettuata la bollitura ma si inocula il lievito. Mixed: tra le varie tecniche sopra indicate, si sceglie quella più adatta alla tipologia di birra da produrre.

IL MIO INCONTRO CON LE FARMHOUSE ALE DEL NORD EUROPA

La mia personale esperienza con le farmhouse ale del nord Europa inizia nel 2015, in tempi non sospetti, quando sul gruppo Facebook “Accademia delle birre” l’amico Andrea Brazzoli, stimato homebrewer conosciuto per le sue birre acide, condivide un documento dedicato alle farmhouse ale Lituane dal titolo Lithuanian Beer: A Rough Guide (per accedervi si può usare il QR code a sinistra). Il documento, a cura di Lars Marius Garshol, racconta le tradizionali birre della Lituania e in particolare le raw ale. Da lì a poco, fulminato da quanto letto, partivo per un viaggio birrario di quattro mesi, in giro per il mondo alla ricerca di stili birrari antichi e tradizioni ancestrali.

“TI VIENE DATA SOLO UNA PICCOLA SCINTILLA DI FOLLIA. NON DEVI PERDERLA.”

Robin Williams

Lieviti di Jovaru Alus, recuperati in birrificio nel 2015. Non avendo provette vuote con me, l’unico contenitore più o meno sicuro per conservarli era una boccettina di 999 Zalios Devynerios da 35% alc. Fuori dal birrificio c’era la neve e la temperatura era -6 °C. Oggi i lieviti di Jovaru Alus sono protetti da un accordo di esclusiva con il marchio di Omega Yeast.

A prescindere dalla tecnica di produzione utilizzata, è fondamentale che la fermentazione inizi subito dopo l’inoculo e che sia vigorosa, in modo da contrastare la competizione microbiologica contro batteri e lieviti selvaggi antagonisti. Inol-

Distribuzione geografica delle tecniche di produzione (fonte: garshol.priv.no/blog). tre, non è semplice abbattere la temperatura del mosto se si utilizzano vecchie attrezzature, soprattutto di legno. Questo è uno dei motivi per cui questi lieviti si sono adattati alle alte temperature. I lieviti Kveik, per le loro caratteristiche, diventano quindi i più grandi alleati di questi birrai d’altri tempi. Per capire quanto importante sia questa forza dei lieviti Kveik, basti pensare che alcune farmhouse ale lituane, rientranti tra le raw ale (la Lituania vanta una tradizione di farmhouse ale chiamate Kaimiškas, che include alcune no-boil), spesso non riescono a durare oltre la settimana, per via delle contaminazioni da batteri lattici.

Caratteristiche delle colture Kveik

Oggi sappiamo con certezza che i Kveik non sono colture a singolo ceppo, ma multi-ceppo. I lieviti Kveik appartengono alla famiglia dei Saccharomyces cerevisiae e rappresentano un interessante caso di studio di come questo microrganismo sappia adattarsi e mutare. L’addomesticamento di questi lieviti è frutto delle pratiche birrarie che si sono susseguite nei secoli. Una lunga attività fatta di gesti antichi e lenti rituali dove è in un pezzo di legno, che va dalla semplice corteccia d’albero a una corona di legnetti intrecciati, che si cerca la magia per innescare la fermentazione. Infatti i lieviti Kveik sono tradizionalmente essiccati per essere conservati su questi media. I ceppi di Kveik sono altamente resistenti agli stress osmotici e altamente termotolleranti. Presentano caratteristiche genetiche POF- (Phenolic-OffFlavor-Negative) e perciò non producono fenoli, ovvero i metaboliti secondari che apportano alla birra sentori speziati, come nelle birre Saison, ma che in percentuali elevate o in legame con altre sostanze presenti nella birra possono determinare pesanti difetti organolettici. Sono inoltre caratterizzati da una capacità di flocculazione medioalta e una medio-alta attenuazione. Hanno un’ottima resistenza all’alcool. Gli esteri prodotti in fermentazione sono da moderati a bassi, con note agrumate e fruttate che variano in base alla temperatura, al tasso di inoculo e al fatto che si stiano utilizzando colture originali, quindi miste, oppure quelle di laboratorio, quindi singoli ceppi.

L’utilizzo di legno o stoffa per conservare le colture in forma disidratata sfrutta la caratteristica dei lieviti Kveik di resistere allo stress di questa operazione. L’essiccazione avviene intorno ai 35 gradi (fonte: Lars Marius Garshol Tecniche tradizionali di birrificazione).

Una cosa importante da dire è che, sebbene le colture miste riescano a donare una complessità maggiore alla birra, spesso la loro gestione non è semplice. La resistenza dei Kveik non deve ingannare: sono lieviti tosti ma pur sempre microrganismi vulnerabili ed è comune che le colture possano presentare contaminazioni da lieviti selvaggi o batteri. Questo avveniva anche in passato ed è per questa ragione che i birrai norvegesi tradizionalmente si scambiavano le colture, specie tra vicini di casa. La fermentazione con i Kveik dovrebbe essere condotta tra i 30 e i 35 gradi. Se si sta nel range basso dei 20-25 gradi, le fermentazioni possono essere lente e comportare problemi a livello organolettico. Idem se si lavora oltre il range consigliato, perché allora i lieviti iniziano a stressarsi. Valgono le regole base legate a un buon pitching rate (tasso di inoculo) e all’utilizzo di nutrienti per aiutare il lievito. I Kveik abbassano il pH più di altri lieviti commerciali per Ale e Lager; di questo si deve tenere conto nel caso si lavori su stili luppolati e per regolare il corpo della birra.

Lieviti sempre più apprezzati dai birrai professionisti

Un’ultima riflessione va sicuramente fatta su come questi lieviti stiano oggi diventando sempre più apprezzati dai birrai professionisti, fuori dai confini norvegesi e addirittura oltreoceano. La velocità di fermentazione, il profilo spesso pulito e la resistenza a condizioni di stress, ma soprattutto la stabilità che i laboratori che commercializzano lieviti sono riusciti a impartire alle loro referenze, hanno aperto tutta una serie di possibilità con la diffusione sul mer-

cato di vari singoli ceppi, privi di agenti contaminanti. Se si impara a gestire i Kveik, questi diventano compagni di lavoro importanti. Non tutti i ceppi ovviamente hanno la stessa resa aromatica e quindi un profilo organolettico prevedibile e controllabile. Sebbene infatti i laboratori facciano di tutto per garantire una resa standard, la differenza è sempre fatta dall’equilibrio tra scelta del ceppo, temperatura di fermentazione e scelta/ combinazione delle varietà di luppoli (specie in aroma e dry hopping). Negli Stati Uniti, questi lieviti sono oramai diventati un must e la loro versatilità li porta a essere una valida alternativa addirittura ai lieviti lager, nelle birre che prendono il nome di pseudo-lager. Anche in Italia, diversi birrifici hanno iniziato a lavorare con i lieviti Kveik. Gli abruzzesi di Opperbacco li hanno utilizzati all’interno del loro progetto Abruxensis, realizzando una birra chiamata Kveik Abruxensis in cui, nella fermentazione, sono però coinvolti anche lieviti Brattanomyces. Un birraio che esplora da tempo questi lieviti è sicuramente il campano Vincenzo Serra, del Birrificio dell’Aspide. Infatti, quando ancora i Kveik non erano così diffusi in ambito pro, Aspide già lavorava alle sue colture, con una forte attenzione all’aspetto tecnico legato al mantenimento microbiologico. I Kveik commerciali sicuramente si allontanano, per molti aspetti, dalle colture tradizionali e il dibattito sul fatto che possano mantenere questo nome è molto acceso. Di contro, il lavoro fatto dai laboratori che commercializzano lieviti e dalle università ci sta permettendo di conoscere meglio questa straordinaria famiglia di Saccharomyces e di mapparne al meglio le caratteristiche. Ancora una volta, questi lieviti vengono addomesticati dall’uomo. ★

Kveik Abruxensis di Opperbacco.

This article is from: