Il lettore di pensieri

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Le meraviglie della scienza:

il sistema nervoso

Il lettore di pensieri Francesca Capelli

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Collana di narrativa per ragazzi


Editor: Paola Valente Coordinamento di redazione: Emanuele Ramini Approfondimenti: Francesca Capelli Esperimenti: Francesca Capelli Impaginazione: AtosCrea, Raffaella De Luca Progetto grafico copertina: Mauro Aquilanti Ufficio stampa: Francesca Vici I Edizione 2018 Ristampa 6 5 4 3 2 1 0

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Francesca Capelli

il lettore di pensieri Illustrazioni di Marga Biazzi

A Marco, a noi: a quello che siamo stati, a quello che siamo.



La partita di calcio che ha cambiato la mia vita

Dice che sono stato via e poi sono tornato. Poco

tempo, ma abbastanza da far prendere un gran spavento a tutti. Quando ho aperto gli occhi, la prima cosa che ho visto è stata una lampada al neon su un soffitto e, in controluce, una sagoma scura. Che, a guardare meglio, era la faccia di mia madre china su di me. Poi ho sentito la voce di papà: – Si è svegliato! Si è svegliato! Ci ho messo un po’ a capire dov’ero. Anzi, non l’avrei proprio capito se non fosse stato per tutta quella gente in camice bianco e per mio padre che diceva: – Grazie, dottore! Grazie, dottore! 5


Quando è molto agitato, mio padre fa così, ripete ogni frase due volte. Non sapete quanto mi dà sui nervi. Lo so che non lo fa apposta. Ma forse è proprio per questo che mi dà sui nervi. Come quella volta che ho preso quattro in matematica e lui che ci andava giù di brutto: – Molto male! Molto male! Devi recuperare! Devi recuperare! Per una settimana niente Playstation! Niente Playstation! A un certo punto mi è scappato da ridere, perché davanti a certe situazioni o ci ridi su o ti metti a piangere e io preferisco ridere. E lui, naturalmente, si è offeso a morte. Comunque, questo dettaglio di come risponde mio padre mi è venuto in mente più tardi, perché lì per lì ero stordito. Non è che stessi male, sentissi dolore o cosa. Ero solo confuso ed è per questo che ci ho messo un po’ a capire che ero all’ospedale. Letto-soffitto-lampada al neon-gente in camice bianco-odore… Quell’odore, ci siamo capiti. Non so come definirlo. Odore… d’ospedale. Ma siccome ero confuso, non mi era chiaro come ci fossi finito. L’ultima cosa che ricordo è la partita di calcio contro quelli della Dante. La Dante è una scuola media come la mia, cioè la Foscolo. Io con il pallone sono una schiappa, lo ammetto. In squadra non mi ci hanno mai voluto. Roba che quando il prof. di educazione fisica ordina ai due più atletici della classe (quelli che sono nati campioni regionali di qualsiasi sport) di fare le squadre, io vorrei sparire, 6


andare in letargo e svegliarmi d’estate, quando la scuola è finita. Invece mi tocca stare impettito e immobile, con l’aria di uno a cui non gliene frega nulla, mentre i due capitani formano le squadre, chiamando prima i migliori, poi quelli passabili, poi gli imbranati, finché non restano solo le schiappe. Cioè, io e Rocco Caroppo. Che in campo facciamo schifo entrambi, con la differenza che Caroppo è grosso e cazzotta, quindi tutti lo trattano con più rispetto di come trattano me, che sono piccolo, grassoccio (che non è lo stesso di grosso, no-no-no-no) e non mi piace fare a botte. Non solo perché le prenderei, ma perché mi sembra un modo stupido di risolvere i problemi, quando basterebbe parlare e mettersi d’accordo. Così arriva il momento in cui uno dei due capitani dice: –Vabbé, Caroppo me lo prendo io, tu pigliati Bianchi. Bianchi sono io, ovviamente. Mario Bianchi, per la precisione. Un nome che non sembra nemmeno vero da quanto è comune e che si adatta perfettamente alla mia capacità di passare inosservato e non distinguermi mai in niente. E allora, quello “che si è pigliato Bianchi” alza gli occhi al cielo, sconsolato, mi fa cenno di avvicinarmi e mi dice: – Però stai in porta. Naturalmente quando giochiamo contro un’altra scuola col cavolo che mi prendono in squadra. Non mi vogliono nemmeno in panchina. Nemmeno nel bar vicino al campetto. Ma quel giorno - il giorno della partita contro 7


la Dante - si era ammalato il centravanti e si sono dovuti accontentare di me. Non che si fossero illusi che potessi non dico fare goal, ma almeno dare un calcio come si deve al pallone. Tanto che il mister (il prof. di educazione fisica vuole essere chiamato così quando giochiamo fuori casa) ha cambiato un po’ di ruoli, ha rafforzato la difesa e mi ha messo in porta; dopo ha ordinato ai due terzini di non far passare nemmeno un pallone, ricorrendo persino alle minacce. Praticamente sono stato immobile davanti alla porta per quasi tutto il primo tempo. Non vedevo nemmeno cosa succedeva in campo, perché erano tutti davanti a me, per evitare che la palla si avvicinasse all’area. Stavamo vincendo uno a zero. Poi però è successa una cosa imprevista. Uno dei nostri si è azzuffato con un ragazzo dell’altra squadra. Gli ha dato una testata nella pancia, tipo Zidane a Materazzi ai mondiali del 2006 in Germania, che io ero nato da poco e non posso ricordarmelo, ma me lo racconta sempre mio padre. E insomma, non è che sia proprio una cosa bella da fare. L’arbitro ha fischiato il rigore a favore dei nostri avversari. Per un attimo il mondo si è fermato. Sospeso. Immobile. Poi il mister si è gettato a terra, piangendo e picchiando i pugni sul prato. Un “nooooo” delle dimensioni di un boato si è levato dagli spalti, dove erano seduti i genitori. I miei compagni si sono abbracciati, tra le lacrime, in 8


preda alla disperazione. Che poi, dico, avrei anche potuto offendermi, no? Va bene che ho un buon carattere, “sereno, solare, consapevole dei suoi limiti, ma dotato della volontà di superarli” (testuali parole della prof. di lettere, a cui sono simpatico, per consolare mio padre del famoso quattro in matematica; immagino che mio padre le abbia risposto: “Questo è vero, questo è vero”). Comunque, al di là del mio carattere, forse avrebbero dovuto prendersela con quello che ha dato la testata al giocatore avversario e non con me che non avevo fatto nulla - ma proprio nulla, nel vero senso della parola - in quella partita. Il giocatore dell’altra squadra si è avvicinato al dischetto, ha preso la rincorsa, ha colpito la palla a effetto. E allora è successa una cosa stranissima. In quel momento - no, un decimo di secondo prima che muovesse il piede - ho saputo in che direzione avrebbe calciato il pallone. Ho visto, letteralmente, la traiettoria. E mi sono buttato. Un attimo dopo è diventato tutto nero e mi sono risvegliato in ospedale.

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Una notte in ospedale

Malgrado le mie insistenze, mia madre non vuole dirmi

come è finita la partita. Continua a ripetere che ho dato una gran testata contro il palo della porta e che per questo sono finito qui. Non è la risposta alla mia domanda, ma a mia madre sembra non interessare. Dice che non devo eccitarmi, ma se voi volete sapere una cosa e non ve la dicono, ovvio che vi eccitate, no? Ho perso i sensi (dice), è arrivato il medico di gara che ha provato a svegliarmi e poi, dopo qualche inutile tentativo, ha chiamato l’ambulanza. Al pronto soccorso mi hanno visitato e mi hanno fatto una Tac, che è un esame per scoprire cosa era successo al mio cervello. Da quello che ho capito ti mettono dentro un tubo e ti fanno dei raggi. Non c’era niente di preoccupante, solo una leggera commozione cerebrale (che cosa ci troverà mai il cervello da commuoversi per una botta, non si sa). Solo che non mi svegliavo. Passava il tempo e non mi svegliavo. 10


Poi, finalmente, ho aperto gli occhi. E ho ripreso il filo. – Quand’è che possiamo andare via? – chiedo a mia madre, che gira intorno al mio letto spostando i miei vestiti, come se fosse occupatissima. – Devi stare in osservazione almeno ventiquattr’ore – risponde lei, con l’aria di chi sa tutto. – Ma io sto benissimo. – Per come si erano messe le cose dopo che hai battuto la testa, proprio bene non sembrava – insiste. Mia madre ha una grande capacità, anzi un’incapacità: quella di dire bugie a fin di bene, valutando l’opportunità e la situazione. Mia madre, quando parla, DEVE dire la verità. Soprattutto quando è in ansia. Intendiamoci: preferisco lei a mio padre, che invece ripete tutto due volte. Ma forse in questo caso avrei gradito una bugia a fin di bene. Invece no. Mia madre mi racconta per filo e per segno di come, malgrado la Tac fosse negativa, non mi svegliavo. Un chiarimento qui va fatto. Ho scoperto che quando i medici dicono che una cosa è negativa, in realtà vogliono dire che va tutto bene, mentre se dicono che è positiva, vuol dire che qualcosa non funziona come dovrebbe. Tornando a me: avrei dovuto tornare cosciente ma non lo facevo. Passavano le ore e non succedeva niente. I medici ogni tanto mi prendevano il polso, controllavano il battito del mio cuore e la pressione. Guardavano i monitor. Mi sollevavano le palpebre e mi puntavano nell’occhio una 11


lucetta. Poi mi pungevano le dita dei piedi con degli aghi, per vedere se reagivo. A un certo punto ho detto a mia madre di smetterla di entrare tanto nel dettaglio, perché l’idea che mi avessero fatto tutte queste cose, che le avessero fatte al mio corpo mentre io ero da un’altra parte, mi dava molto fastidio. Non so se rendo l’idea. Mia madre dice che di colpo ho aperto gli occhi e mi sono svegliato. Avete presente quando state per addormentarvi e all’improvviso avete la sensazione di cadere e poi siete di nuovo perfettamente svegli? Ecco, ho provato una cosa simile. Adesso, però, mi sento bene e preferirei tornare subito a casa. Un’infermiera entra nella camera. – Questo signorino adesso deve riposare – dice. Mi ha chiamato “signorino”. Giuro. SIGNORINO. Mi rendo conto che non so nemmeno che ora sia. Guardo fuori dalla finestra. Buio. Considerando che è primavera, devono essere almeno le 9. Lo chiedo a mia madre. – Mezzanotte – risponde lei. Sono “stato via” più a lungo di quanto credessi. L’infermiera intanto si è messa a discutere con mia madre. – Guardi, signora, se vuole restare è un diritto suo e del bambino, però deve farlo riposare e non tenerlo sveglio con le chiacchiere – le dice. Adesso bambino? BAMBINO a 11 anni? In prima media BAMBINO? 12


– C’è questa poltrona, può dormire qui. Ma le è chiaro, vero, il significato della parola “dormire”? – insiste l’infermiera. Mia madre borbotta qualcosa, poi si stende in poltrona e si toglie le scarpe. L’infermiera aspetta sulla soglia, come per assicurarsi che non si rimetta a parlare. Spegne la luce ed esce. Sono al buio, nel silenzio. Dalla finestra vedo il cielo e la luna. Improvvisamente mi sento stanchissimo. Le mie palpebre sono sempre più pesanti. Potrei anche chiudere gli occhi e addormentarmi.

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Dove scopro che sono un eroe

B

– uongiorno, signorino! – mi dice l’infermiera per svegliarmi, mentre mi infila un termometro in un orecchio. Per un attimo ho creduto che fosse la stessa di ieri sera, invece è un’altra, ma devono essersi passate la voce. Si sveglia anche mia madre e chiede cosa succederà oggi. Come se non fosse già successo abbastanza ieri. Cosa vuole, un colpo di scena al giorno? L’infermiera le spiega che i dottori vogliono ripetere alcuni esami, ma che domani sarò dimesso. Sempre che vada tutto bene. Odio quando parlano di me come se non ci fossi, come se quello che accade non mi riguardasse. Mi fanno di nuovo la Tac, cioè mi infilano in un tubo e mi ordinano di stare immobile, trattenere il respiro e poi respirare di nuovo, aprire e chiudere gli occhi, cosa che mi fa sentire un perfetto imbecille. Poi mi portano in un ambulatorio, dove mi tempestano di domande su come mi sento, se ho vomito, mal di testa, nausea o capogiri. Niente 14


di tutto questo. Mi fanno un po’ di prove, tipo camminare lungo una linea retta immaginaria, stare in equilibrio su una gamba sola, chiudere gli occhi e toccarmi la punta del naso con l’indice di una mano e poi dell’altra. I dottori si guardano soddisfatti. – Allora, signorino – dice il più giovane. – Stanotte ti teniamo ancora qui per sicurezza, ma domani puoi già tornare a casa. Una settimanina (questo ha la mania dei diminutivi) di riposo e poi di nuovo a scuola. Ma niente calcio fino alla visita di controllo, ok? Mi guarda tra il complice e il dispiaciuto, probabilmente pensa di avermi dato una pessima notizia. Non sa, poveretto, che favore mi sta facendo. – Ma cosa mi è successo esattamente? – chiedo. – Niente di particolarmente grave – risponde il dottore. – Hai preso una botta in testa senza conseguenze. – E allora perché mi fate tutti questi esami? – insisto. – Perché il cervello è un organo molto importante, forse il più importante del corpo. È un po’ la centrale operativa di tutto l’organismo. Tutti gli altri organi dipendono da lui per il loro funzionamento. Il nostro corpo, mi spiega, è percorso da vie di comunicazione, qualcosa di simile a una rete di strade, autostrade, ascensori e porte girevoli: è il sistema nervoso. È formato da 100 miliardi circa di neuroni, collegati tra loro, che raccolgono e trasmettono dati al cervello che a sua volta li ritrasmette agli altri organi. 15


Il centralino del cervello che invia messaggi alle altre parti del corpo si chiama talamo, e sta proprio al centro. Ogni parte del cervello è specializzata. Alcune si occupano di farci sentire dolore se tocchiamo una pentola bollente (altrimenti ci faremmo male continuamente), altre ci permettono di conoscere il mondo attraverso i cinque sensi, alcune immagazzinano i ricordi, altre controllano i movimenti. C’è anche una parte del cervello incaricata di mantenerci in equilibrio: si chiama cervelletto. Si trova sotto il cervello vero e proprio e, malgrado il nome, non dobbiamo pensare che sia un organo poco importante. È proprio qui, infatti, che vengono inviate le informazioni per coordinare i movimenti più complessi del corpo, come parare una palla al volo, ma anche ballare o eseguire un esercizio di ginnastica senza cadere. – Quindi il mio cervelletto ha fallito, quando sono caduto? – Direi proprio di no – dice il medico. – Tu in realtà non sei caduto, ti sei buttato volontariamente per prendere la palla. E in questo caso, direi, il tuo cervelletto si è fatto onore. Per compiere un’operazione apparentemente tanto semplice, infatti, ha dovuto elaborare in un millesimo di secondo milioni di informazioni che arrivavano da altre parti del sistema nervoso. Resta zitto per qualche secondo, guarda l’orologio e mi sorride. 16


– Hai qualche altra domanda da fare? – mi dice prima di uscire. – Sì, una – rispondo. – Può dire a mia madre che non può restare questa notte? Il medico mi guarda serio. – Ci proverò, ma non prometto niente. Poi mi racconta di quando lo operarono di appendicite. Aveva addirittura 14 anni, ma sua madre insistette per fare la notte, anche se lui stava benissimo e voleva solo dormire. Scuote il capo. – Certe esperienze ti segnano per sempre – aggiunge, dandomi una pacca sulla spalla e stringendomi la mano. Niente signorino, questa volta. Nel pomeriggio ricevo la visita dei miei compagni di squadra. Questo davvero è un colpo di scena. C’è anche il mister. Entrano in camera e si dispongono in semicerchio intorno al mio letto. Parla il capitano a nome di tutti: sono qui per ringraziarmi perché gli ho fatto vincere la partita. Lo guardo come se la botta in testa l’avesse presa lui. – In che senso, scusa? – chiedo. Il mister allora prende la parola per dire che quel rigore l’ho parato davvero. Mi sono tuffato e ho deviato il tiro, anche se nell’azione ho sbattuto la testa contro il palo della porta. Per questo sono svenuto. Con il mio sacrificio – dice, – ho salvato la squadra. 17


Mi hanno portato un regalo. È il pallone con le firme di tutti, sporco di fango dall’ultima partita. L’appoggiano sul letto, ma l’infermiera che è appena entrata lancia un grido d’orrore e strilla che no, quel pallone sporco, ricettacolo di batteri responsabili delle peggiori epidemie della storia dell’umanità, giammai toccherà un letto di cui lei è responsabile.


L’incanto ormai è spezzato, il mio momento di gloria rovinato per sempre. L’infermiera ordina a tutti di uscire, perché “state togliendo ossigeno al signorino”. Tiziano, il mio migliore amico e compagno di banco, mi fa un cenno e sillaba in silenzio: – SI-GNO-RI-NO? E disegna con il dito, nell’aria, un punto interrogativo. Io alzo le spalle e medito sui dieci modi più sicuri per uccidere le infermiere che parlano troppo. Al secondo richiamo dell’infermiera se ne vanno tutti, eccetto Tiziano, che si siede sul letto e mi racconta dell’incredulità di tutti per la mia parata. Poi mi chiede: – Mi spieghi come hai fatto a prendere quella palla? – Perché l’ho vista. – Ovvio – osserva Tiziano. – Se non la vedevi mica la paravi. – No – insisto io. – L’ho proprio vista. O, meglio, prima che quel ragazzo la calciasse ho saputo esattamente dove l’avrebbe mandata. – Stai parlando sul serio o mi stai prendendo in giro? Tiziano è il mio migliore amico. Nessuno mi conosce meglio di lui, ma ogni tanto è un po’ duro: crede che scherzi quando sono serissimo e viceversa, così devo sempre stare a specificare. – Sono serio – rispondo. – Mi stai dicendo che puoi prevedere il futuro? – chiede Tiziano. 19


– Non ho mai detto questo. Tiziano corregge il tiro. – Allora puoi leggere la mente altrui. – Ma ti pare? Qui devo aprire una nuova parentesi su di lui. Ha la tendenza a partire per la tangente e a ingigantire un po’ le cose. E quando lo fa diventa inarrestabile. – Capisci cosa significa tutto questo? – mi dice. Ecco, è andato. Ora non lo ferma più nessuno. – Potrai vincere la lotteria, prevedere chi conquisterà lo scudetto o diventerà presidente degli Stati Uniti. I tuoi poteri saranno usati per le previsioni del tempo. La polizia ti chiederà aiuto per catturare i criminali prima che commettano dei delitti. Venderemo a caro prezzo le tue profezie! Diventeremo ricchi! Ecco, pure le profezie, adesso. Vorrei dirgli che, semmai, diventerò ricco io, ma ho paura che se la prenda, visto che è il mio migliore amico e abbiamo sempre diviso tutto. In fondo Tiziano sta solo giocando con la fantasia. Almeno spero.

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