L’ATTENTATO CHE CAMBIÒ LA STORIA
I FUNERALI DEI FARAONI TRIREMI
LE NAVI GRECHE
LE STREGHE E L’INQUISIZIONE LIVIA E AUGUSTO
LA COPPIA IMPERIALE
SETTE SECOLI DI ETERNITÀ
VIAGGIO NELL’INFERNO DEL “SOMMO POETA” periodicità mensile
DANTE - esce il 21/08/2021 - poste italiane s.p.a spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n° 46) aut. mbpa/lo-no/063/a.p./2018 art. 1 comma 1 - lo/mi. germania 12 € - svizzera c. ticino 10,20 chf - svizzera 10,50 chf - belgio 9,50 €
SARAJEVO, 1914 9 772035 878008
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N. 151 • SETTEMBRE 2021 • 4,95 E
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NELL’ILLUSTRAZIONE DI GUSTAVE DORÉ LUCIFERO, INTRAPPOLATO NEL GHIACCIO, DIVORA I TRADITORI GIUDA, BRUTO E CASSIO. 1883 CIRCA.
26 L’ultimo viaggio dei faraoni I funerali dei faraoni consistevano in diversi rituali volti ad assicurare la reincarnazione del sovrano nell’aldilà. DI ELISA CASTEL
40 Triremi, l’invincibile flotta greca Le polis greche si servirono delle triremi, le navi da guerra spinte da 170 vogatori disposti su tre file, per estendere i propri domini nel Mediterraneo orientale. DI ARTURO SÁNCHEZ SANZ
52 Livia e Augusto, la coppia imperiale Per oltre mezzo secolo Livia governò a fianco di Augusto, rivestendo il ruolo di moglie e consigliera. DI ESTEBAN BÉRCHEZ CASTAÑO
64 L’Inferno di Dante L’averno dantesco offre uno spaccato della realtà storica del “sommo poeta”. DI MATTEO DALENA E ALESSANDRA PAGANO
82 L’Inquisizione in Spagna Il tribunale del Sant’Uffizio fu scettico davanti alle accuse di stregoneria ed emise poche ma esemplari condanne a morte. DI MARINA TORRES ARCE
96 L’attentato di Sarajevo Il 28 giugno 1914 il bosniaco Gavrilo Princip assassinò l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono di Austria-Ungheria. DI JOSEP MARIA CASALS
6 ATTUALITÀ 8 PERSONAGGI STRAORDINARI Louisa May Alcott
L’autrice di Piccole donne con i suoi romanzi ha fornito modelli di libertà e di emancipazione femminile.
14 EVENTO STORICO
Il viaggio della Polaris Nel 1871 una spedizione alla volta del Polo Nord mantenne gli Stati Uniti con il fiato sospeso.
20 VITA QUOTIDIANA
L’arte di profumarsi Nell’Europa dell’Età moderna le fragranze di origine animale erano particolarmente apprezzate.
112 GRANDI SCOPERTE
Castillo di Huarmey Nel 2012 gli archeologi hanno rinvenuto in Perù i resti di uno splendido mausoleo preincaico.
118 STORIA VISUALE
Dust Bowl
Enormi nubi di polvere coprirono il sud degli Stati Uniti nel decennio 1930.
126 LIBRI E MOSTRE
PRIMA PAGINA DI LA DOMENICA DEL CORRIERE. PRIMI DI LUGLIO DEL 1914. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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SARAJEVO, 1914 L’ATTENTATO CHE CAMBIÒ LA STORIA
I FUNERALI DEI FARAONI TRIREMI LE NAVI GRECHE
LE STREGHE E L’INQUISIZIONE LIVIA E AUGUSTO LA COPPIA IMPERIALE
DANTE
SETTE SECOLI DI ETERNITÀ VIAGGIO NELL’INFERNO DEL “SOMMO POETA”
RITRATTO DI DANTE ALIGHIERI. OLIO SU TELA DI AGNOLO BRONZINO. 1532-1533 CIRCA. GALLERIA DEGLI UFFIZI, FIRENZE. FOTO: FINE ART / ALBUM
Pubblicazione periodica mensile - Anno XIII - n. 151
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4 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
IN ED ICO LA
Gli speciali di Storica National Geographic in edicola questo mese
Speciale Storica Mitologia
TESEO
Nel quinto numero della collezione, le prime imprese di uno dei più celebrati eroi della mitologia greca. In edicola dal 5 agosto. Prezzo ¤9,95.
Speciale Storica
LE GUERRE MONDIALI Un volume dedicato al periodo storico che va dalla fine della Belle Époque alla crisi economica, dalla nascita dei regimi totalitari alla Seconda guerra mondiale. In edicola dal 24 agosto. Prezzo ¤9,95.
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CITTÀ DELL’ANTICO MESSICO Due dei siti archeologici più importanti del Messico, Monte Albán e Xochicalco, ricostruiti per voi in 3d. In edicola dal 26 agosto. Prezzo ¤9,95.
AT T UA L I T À
PROGETTO ARCHEOLOGIA DELLA PASTORIZIA
STELE CON INCISIONI CONNESSA AI COMPLESSI FUNERARI DELLA CULTURA DSKC, NELL’AREA DI ZÙÙNHANGAJ, IN MONGOLIA NORD-OCCIDENTALE.
PROGETTO ARCHEOLOGIA DELLA PASTORIZIA
ARCHEOLOGIA
Pastori dell’Età del bronzo in Mongolia Un team internazionale di archeologi indaga sulla vita dei pastori nomadi dell’Età del bronzo nelle steppe mongole
FINORA LE RICERCHE
archeologiche svolte nella steppa mongola non hanno preso in considerazione gli spazi domestici. Gli scavi di questi ambienti forniranno nuove informazioni per comprendere meglio il periodo e contestualizzare i cambiamenti nella vita quotidiana delle popolazioni della cultura DSKC.
6 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
A
lla fine dell’Età del bronzo, compresa tra il 1200 e il 700 a.C., sono apparsi in Mongolia dei complessi funerari cerimoniali noti come Deer Stone Khirigsuur Complex (DSKC), di cui facevano parte alcuni tumuli detti Horse Head Mounds (monticelli testa di cavallo), dove gli archeologi hanno trovato i crani e gli zoccoli di alcuni equidi lì sepolti. Dagli studi è emerso che queste culture impiegavano prevalente-
mente esemplari di equini di sesso femminile e di giovane età. Proprio dai complessi DSKC ha preso nome la cultura nomade studiata dal Progetto di archeologia della pastorizia in Mongolia, diretto da Natalia Égüez, dell’Università spagnola di La Laguna, a cui partecipano dei ricercatori dell’Istituto catalano di archeologia classica di Tarragona, dell’IMF (un’istituzione spagnola per la ricerca nel campo delle discipline umanistiche) e delle università del Western Ken-
tucky (Stati Uniti) e di Oulu (Finlandia), e che è finanziato dalla Fondazione Palarq. Il progetto è iniziato nel 2018 e mira a comprendere la demografia, la mobilità e le reti regionali che collegavano le tribù nomadi della Mongolia in quel periodo. Nei prossimi due anni il progetto punta anche a gettare nuova luce sulle origini e lo sviluppo delle prime società pastorali nomadi e sulla complessità monumentale dei paesaggi culturali delle steppe.
DANTE
E LA MINIATURA A BOLOGNA AL TEMPO DI ODERISI DA GUBBIO E FRANCO BOLOGNESE 28 maggio | 3 ottobre 2021 Museo Civico Medievale Info e orari: via Manzoni 4 | Bologna www.museibologna.it/arteantica info: +39 051 2193916 / 2193930 museiarteantica@comune.bologna.it | www.museibologna.it/arteantica Musei Civici d’Arte Antica
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PERSONAGGI STRAORDINARI
Louisa May Alcott, la piccola grande donna Grazie ai suoi romanzi di successo, per oltre centocinquant’anni la scrittrice statunitense ha fornito modelli di libertà e di emancipazione femminile
L
a vigilia di Natale, in una serata resa triste dalla partenza del padre per il fronte, quattro sorelle si confidano le proprie amarezze dovute a povertà, privazioni e guerra. Poi s’incoraggiano a vicenda, si rallegrano e infine si abbandonano all’«atmosfera di pace casalinga che pervadeva ogni cosa». Chi non ha presente il famoso incipit di Little Women (Piccole donne) di Louisa May Alcott, romanzo che ha segnato generazioni di lettrici e lettori? Chi non si è immedesimato nella giudiziosa Meg, nella ribelle Jo, nella dolce Beth o nella frivola Amy? Il destino del libro venne scritto nell’autunno 1867, quando il direttore della casa editrice Roberts Brothers, Thomas Niles, chiese alla trentacinquenne Louisa May Alcott, un’abile ma non ancora affermata autrice, di accantonare le sue fiabe per bambini e d’ideare un romanzo rivolto alle ragazze. Alcott prese tempo, giacché non si sentiva all’altezza. Bambina vivace e intraprendente, ben presto aveva dovuto cercare i più svariati
Scrittrice di successo e militante 1832 Louisa May Alcott nasce a Germantown, dal pastore calvinista Amos Bronson Alcott e dall’attivista Abigail May.
1862 Durante la Guerra di secessione Louisa lavora come infermiera presso l’Union Hospital di Georgetown.
1868 L’editore Thomas Niles convince Louisa a scrivere Piccole donne. In cambio pubblicherà un libro filosofico del padre.
1875 Louisa May Alcott partecipa al Congresso delle donne a Syracuse (New York), dove si batte per il voto femminile.
Muore probabilmente a causa del mercurio somministratole per curare il tifo contratto all’ospedale di Georgetown.
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ALAMY / ACI
1888
impieghi pur di provvedere ai bisogni della famiglia: non aveva conosciuto, anche per sua scelta, la leggerezza dell’adolescenza, i balli in società e le aspirazioni tipiche delle donne dell’epoca: divenire mogli e madri“perfette”. Mesi più tardi, nel maggio 1868, Niles s’impegnò a pubblicare un manoscritto filosofico del padre, l’educatore calvinista Amos Bronson Alcott, a patto che lei consegnasse il romanzo. Devota alla felicità familiare, Louisa cedette e cominciò a guardarsi attorno in cerca d’ispirazione. Trovò spunto per le protagoniste del suo libro proprio all’interno di casa Alcott. Nel romanzo, la sua famiglia sarebbe divenuta la famiglia March, e le quattro sorelle avrebbero in parte assunto i caratteri delle quattro figlie di Bronson Alcott. Non solo: con le dovute differenze, alcuni episodi personali finirono per permeare la storia delle ragazze March: Meg, Jo, Beth e Amy. Ecco quindi pronta l’ossatura di Piccole donne, che nell’arco di un anno segue le avventure delle sorelle tra amori, scoperte e sogni. Il romanzo sarebbe divenuto il primo di una saga nella quale Beth purtroppo muore e le altre tre giovani seguono cammini diversi: Meg si dedica alla famiglia, Jo
Niles promise di pubblicare il libro del padre purché Louisa scrivesse Piccole donne COPERTINA DELL’EDIZIONE DI PICCOLE DONNE DI ROBERTS BROTHERS. BOSTON, 1869.
IL DILEMMA DI CONVOLARE A NOZZE TRANNE UN’AVVENTURA euro-
pea con Ladislas Wisniewski, che forse ispirò la figura di Laurie Laurence, Louisa May Alcott visse sempre dedita alla scrittura e alla famiglia, senza pensare al matrimonio, all’epoca unica alternativa per le donne. In una lettera raccontò a un’amica che avrebbe preferito che Jo, il suo alter ego in Piccole donne, rimanesse nubile, ma gli editori erano contrari, così come le lettrici, che la volevano moglie dell’abbiente Laurie. Per questo introdusse il professor Bhaer, con cui Jo contrae delle nozze poco conformiste, segnate dagli interessi in comune e dall’uguaglianza.
alla scrittura e all’educazione e Amy all’arte. Ma come s’intreccia alla finzione la realtà dell’autrice?
Le sorelle Alcott Nata nel 1832 a Germantown, in Pennsylvania, l’autrice era la seconda delle quattro figlie di Amos Bronson Alcott e di Abigail May, attivista per i diritti delle donne e abolizionista, che costituì per loro un modello. La primogenita, Anna, seguì un cammino più tradizionale e andò in sposa all’attore dilettante John Pratt – alcuni episodi del suo matrimonio ricordano da vici-
no le nozze di Meg. La terza, Elizabeth, morì tredicenne di scarlattina e l’ultima, May, diventò una nota pittrice, seppur eclissata dalla fama della sorella maggiore. In Europa May conobbe un ricco uomo d’affari svizzero, che sposò nel 1878 e dal quale poco dopo ebbe una figlia, soprannominata“Lulu” Nieriker. Quando l’ultima delle sorelle Alcott morì per febbri puerperali, la bambina raggiunse le zie a Concord, nel Massachusetts. E all’amata Lulu una Louisa ormai celebre ma pur sempre schiva avrebbe dedicato i suoi ultimi racconti.
BRIDGEMAN / ACI
LA ROMANZIERA LOUISA MAY ALCOTT IN UNA FOTOGRAFIA SCATTATA NEGLI ANNI OTTANTA DEL XIX SECOLO.
All’appello manca la secondogenita, Louisa, che avrebbe ritratto sé stessa e le proprie aspirazioni in Josephine, Jo, la sorella più ostinata. Al pari di Louisa, Jo coltiva il sogno di affermarsi come scrittrice. Quanto Alcott annotò sul proprio diario nel 1846 potrebbe riferirsi benissimo al suo personaggio: «La gente pensa che sono strana e selvaggia [...] Non ho parlato con nessuno dei miei progetti futuri, ma riusciranno». Jo s’innamora, ricambiata, del ricco Laurie Laurence, eppure preferisce evitare un legame convenzionale pur d’inseguire le proprie ambizioni a STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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PERSONAGGI STRAORDINARI
ORCHARD HOUSE, la casa familiare di Louisa May Alcott, dove la scrittrice compose Piccole donne. Fotografia senza data.
New York. Ancora una volta il diario di Louisa aiuta a ricostruire le scelte di Jo: «Mi piace la sensazione di essere indipendente e, sebbene la mia non sia una vita facile, è libera e mi piace». A New York Jo conosce il professor Friedrich Bhaer, con il quale fonda un istituto scolastico a Plumfield, la tenuta che le ha lasciato in eredità una
zia facoltosa. Anche questa decisione sembra rispondere a una vicenda autobiografica dell’autrice: nel 1834, quando Louisa era ancora una bambina, Bronson Alcott si trasferì con la famiglia a Boston per aprire la Temple School, un centro fondato sulla libera espressione e sulla responsabilizzazione degli studenti. L’educatore vi
mise in pratica i dettami del trascendentalismo, un movimento secondo il quale l’individualismo, inteso come continuo miglioramento di sé stessi, si coniuga con la coscienza di una fratellanza universale e l’unione con la natura. Tali principi, uniti a quell’aspirazione a un bene superiore predicata dal calvinismo, sono tra gli insegnamenti della scuola di Jo e probabilmente modellarono pure il percorso di Louisa.
PICCOLE DONNE AL CINEMA
Verso l’emancipazione La scrittrice si era divisa tra il lavoro di governante e istitutrice, la cura della famiglia, nonché ovviamente la stesura di numerose storie educative per bambini e ragazzi, spesso pubblicate con lo pseudonimo di A.M. Barnard. La sua vita, segnata dall’intenso lavoro e dalle ristrettezze economiche,
LA FAMIGLIA MARCH comparve sul grande schermo
in diversi film di successo. Nel 1933 George Cukor adattò la saga scegliendo Katharine Hepburn per il ruolo di Jo. Il film sottolineava l’ottimismo e le serene rinunce delle ragazze. Nella versione del 1949 l’accento è posto invece sul servizio militare. Il lato femminista emerge nei film del 1994 e del 2019. LOCANDINA DELLA PRIMA VERSIONE DI PICCOLE DONNE, 1933.
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Dante Alighieri Il diritto reca il profilo del poeta, coronato di alloro e coperto secondo l’uso medievale. Al rovescio il sole, che illumina con i raggi dieci piccole stelle, un cielo nuvoloso e un focolaio di fiamme ardenti, rispettivamente allegorie del paradiso, del purgatorio e dell’inferno. Argento 835 | Peso gr. 11 | Diametro mm. 29
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L’argento del Sommo Poeta Correva l’anno 1965, quando l’Istituto Poligrafico e Zecca di Stato volle celebrare con una bella moneta in argento il VII centenario della nascita di Durante di Alighiero degli Alighieri. Cronologicamente fu il secondo conio commemorativo italiano dopo quello del 1961 per il centenario dell’unità d’Italia, un prestigio tutt’altro che trascurabile tanto che la moneta circolò per pochissimo tempo e fu ben presto accaparrata dai collezionisti.
Questa affascinante e simbolica moneta viene offerta, nuova fior di conio e in perfette condizioni qualitative, a soli € 25,00 (più un piccolo contributo per spese di spedizione), in cofanetto con certificato di autenticità.
Come ordinare La prenoti subito telefonando (011.557.6340) inviando una email (info@collectorclub.it) oppure sul sito www.collectorclub.it
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Per noi la storia é un oggetto da collezione
PERSONAGGI STRAORDINARI
UN SACRIFICIO NECESSARIO NEL ROMANZO DI ALCOTT la fa-
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miglia March patisce ristrettezze a causa della Guerra di secessione. Una volta, affinché la madre possa andare a trovare il padre, Jo decide di sacrificare il suo unico tesoro, i capelli, facendoseli tagliare per poi venderli (all’epoca i capelli erano usati per le parrucche). La sorella Meg le chiede: «Non ti è dispiaciuto quando ha iniziato a tagliare?». Jo risponde: «No. Non sono pentita; ma devo confessare che mi ha fatto una strana impressione vedere i cari vecchi capelli lì sul tavolo […] Era quasi come se mi avessero amputato un braccio o una gamba». JO TAGLIA I CAPELLI. INCISIONE DELL’ARTISTA HAROLD COPPING. 1868.
migliorò grazie al grande successo di Piccole donne, che nel suo diario definì «il primo uovo d’oro del brutto anatroccolo». Raggiunta una certa stabilità economica, s’impegnò di più nel sociale: lottò per l’abolizione della schiavitù e iniziò a collaborare con l’importante periodico femminista Woman’s Journal. Partecipò pure al Congresso delle donne di Syracuse (New York) nel 1875, battendosi per il diritto di voto alle donne, che ottenne a Concord per la prima volta durante l’elezione del comitato di una scuola locale.
Regine
LA VERA STORIA AL FEMMINILE
In una lettera del 4 settembre 1873 affermò: «Mi piace aiutare le donne a essere sé stesse, e questo è, a mio parere, il miglior modo di risolvere la questione femminile». Nelle sue opere permise ad altre donne d’inseguire i propri sogni, immaginare alternative e preferire un amore sincero al raggiungimento di un più alto status sociale. Ma le sue eroine non dimenticano il prossimo, soprattutto nei momenti di difficoltà, come nella Guerra di secessione americana. Louisa conosceva bene tale realtà perché per alcuni mesi, dal 1862,
aveva prestato servizio come infermiera a Georgetown, dove contrasse il tifo. Il medicinale a base di mercurio usato per curarla probabilmente ne procurò la morte, avvenuta a cinquantacinque anni. Le sopravvissero Jo, Meg, Beth e Amy, un segno indelebile nella storia della letteratura e delle donne. AMARANTA SBARDELLA SCRITTRICE E TRADUTTRICE
Per saperne di più
TESTI
Piccole donne Louisa May Alcott. Einaudi, Torino, 2019.
RBA, editore di questa rivista, propone la nuova collana REGINE e ribelli: Cleopatra, Caterina Sforza, Lucrezia Borgia, Anna Bolena, Caterina de' Medici, Elisabetta I, la Regina Vittoria, Sissi… racconti intensi e affascinanti che ci fanno immergere nelle loro vite. La vera storia delle donne che hanno fatto la Storia. Prima uscita in edicola dal 27 agosto al prezzo lancio di €2,99
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La più antica Commedia miniata PALATINO 313 Dante Poggiali Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze
Tiratura limitata
E’ decorato da 37 miniature di ispirazione giottesca e da preziose iniziali istoriate, realizzate nella bottega di Pacino di Buonaguida nel XIV secolo. Contiene gran parte del Commento AUTOGRAFO di “Jacopo”, figlio di Dante. Quasi ogni chiosa è segnata dalla sigla: “Ja”, Jacopo Alighieri. Noto come “Dante Poggiali” dal nome dell’editore e bibliofilo Gaetano Poggiali che lo acquistò per utilizzarlo nella sua edizione della Commedia del 1807. Per informazioni può contattarci al numero 0541.384859 oppure via email: info@imagosrl.eu Con il Patrocinio di:
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LA POLARIS intrappolata NÓMADAS. A inicios del siglo XVII, nei ghiacci durante il ritorno el francés Jacques Callot grabó dalla spedizione polare. estampas muy realistas de Olio dicomitivas William Bradford. 1875. gitanos. y campamentos Taubman Museum of Art, Roanoke (Stati Uniti).
Alla deriva nell’Artico: l’odissea della Polaris I sopravvissuti alla spedizione di Charles Francis Hall, che salpò verso il Polo Nord nel 1871, percorsero quasi tremila chilometri su lastre di ghiaccio prima di essere salvati
A
lla fine della Guerra di secessione (1861-1865), gli Stati Uniti avevano bisogno di recuperare l’unità e l’orgoglio nazionali. Per riuscirci non vi era niente di meglio di una grande impresa che riempisse le pagine dei giornali e la cui eco risuonasse in tutto il globo. O almeno questo è quanto dovette pensare il presidente Ulysses S. Grant quando decise di sponsorizzare una spedizione che avrebbe raggiunto il traguardo in cui molti avevano fallito: la conquista del Polo Nord.
14 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Il prescelto per guidarla fu Charles Francis Hall, che negli anni precedenti si era fatto notare grazie a due spedizioni nell’Artico. Il suo entusiasmo era palese, tanto che affermò: «In parecchi credono che io abbia uno spirito avventuriero e un cuore audace, ed è per questo che vado al Polo Nord. Non è così [...] La zona dell’Artico è la mia casa. L’amo profondamente». Tuttavia Hall possedeva scarse conoscenze in ambito marinaro – di professione infatti era giornalista – e in seguito avrebbe
dimostrato di non avere nemmeno particolari doti per il comando. Il governo statunitense gli consegnò un rimorchiatore a vapore usato nella guerra appena conclusasi, che venne rinforzato e battezzato per l’occasione USS Polaris. Hall sarebbe salpato alla guida di un equipaggio di diverse nazionalità. Assieme a lui viaggiava il tedesco Emil Bessels, medico e capo della squadra scientifica incaricata, tra le altre cose, di realizzare studi astronomici e osservare la traiettoria e la velocità dei
EVENTO STORICO
assistente navigatore, scrisse: «Alcuni membri dell’equipaggio sono sempre pronti a disobbedire, e se Hall pretende che si faccia qualcosa, non lo faranno di sicuro. A bordo ci sono due fazioni, se non tre».
Verso l’ignoto L’imbarcazione si stava avvicinando alla latitudine massima sino a cui si erano spinti i viaggiatori precedenti. Ogni nuovo miglio percorso, in quelle acque disseminate di lastre di ghiaccio alla deriva, che spingevano con-
Durante i viaggi nell’Artico Hall comprese l’utilità di poter contare sull’aiuto degli inuit HALL IN COMPAGNIA DI DUE INUIT NEL PRIMO VIAGGIO NELL’ARTICO (1860-1862).
/ ALBUM
ghiacciai. Hall fece salire a bordo anche una coppia d’inuit e la loro figlia adottiva. Il 29 giugno 1871 la Polaris partì dal molo Brooklyn Navy Yard di New York. Un mese più tardi già navigava a sud della costa occidentale groenlandese e, dopo una forte tempesta, superava il Circolo polare artico, a 66º 33’ di latitudine nord. A Prøven Hall ingaggiò Suersaq, un esploratore e cacciatore esperto nativo della Groenlandia, che portò con sé la moglie e i tre figli. Man mano che procedevano verso nord, i marinai divenivano sempre più impazienti e insofferenti nei confronti di Hall. George E. Tyson,
OCEANO ARTICO
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New York Polaris (1871) Rotta di andata Latitudine massima raggiunta
ALAMY / CORDON PRESS
PRIMA DELLA POLARIS la rotta verso il Polo Nord era stata esplorata da altre imbarcazioni che erano passate per la zona nord-ovest della Groenlandia e avevano risalito la baia di Baffin 1 . Nel 1852 il britannico Edward Inglefield scoprì che il canale di Smith 2 era navigabile. Tra il 1853 e il 1855 lo statunitense Elisha Kent Kane risalì il canale fino a che il ghiaccio bloccò la nave a 78º N; un’incursione a piedi portò lui e i suoi al record di latitudine, 81º N. Al ritorno Kane fu accolto negli Stati Uniti come un eroe. Nel 1861 un altro nordamericano, Isaac Israel Hayes, raggiunse gli 80º N.
BRITISH LIBRARY
TAUBMAN MUSEUM OF ART, ROANOKE, VIRGINIA
IN VIAGGIO VERSO IL POLO NORD
tro lo scafo, era un passo in più verso l’ignoto. Il giorno prima di superare il canale di Smith e affacciarsi sull’oceano Artico, Hall scrisse sul diario: «La Polaris si congeda dalla civiltà. Che Dio ci aiuti». Quando il 2 settembre (secondo altre versioni, il 30 agosto) raggiunse gli 82º 16’, la nave divenne l’imbarcazione che aveva navigato più a nord nella storia. Grazie al clima miracolosamente mite di quell’anno, Hall e i suoi erano ormai a soli ottocento chilometri dalla meta. Eppure l’equipaggio era diviso: alcuni volevano andare avanti, mentre altri pensavano fosse una follia. Dal canto suo, Hall era incerto. Alla fine la corrente fece indietreggiare l’imbarcazione senza che se STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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BERTRAND RIEGER / GTRES
EVENTO STORICO
CANALE DI SMITH. In questa zona a nord della baia di Baffin la Polaris andò a sbattere contro un iceberg
e una parte dell’equipaggio finì alla deriva su una lastra di ghiaccio.
ne accorgessero. Decisero quindi di fermarsi in una piccola baia nella parte nord-occidentale della Groenlandia, a 81º 38’ N, in una fonda che Hall chiamò Thank God Harbor, per passare lì l’inverno e riprendere il viaggio verso il Polo in primavera. Le settimane seguenti Hall e l’equipaggio si dedicarono a esplorare i dintorni sulla slitta. Durante una di
queste spedizioni Hall iniziò a sentirsi male: era debole, aveva nausea e febbre. Dopo alcuni giorni cominciò a delirare. Sebbene il dottor Bessels gli avesse diagnosticato «paralisi e apoplessia», si trattava forse di un’embolia cerebrale. Hall morì la notte dell’8 novembre 1871. Il giorno dopo l’intero equipaggio partecipò al corteo funebre. Tyson annotò sul
AVVELENATO? HALL MORÌ con la convinzione che qualcuno l’avesse avvelenato. Nel 1968 il suo corpo venne riesumato e le analisi dimostrarono che nelle sue ultime settimane aveva ingerito una grande quantità di arsenico, che all’epoca era però usato anche come medicina. IL CORTEO FUNEBRE DI HALL. INCISIONE DEL 1880. DEA / SCALA, FIRENZE
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diario: «Hanno così fine gli ambiziosi progetti del povero Hall». Dal canto suo, Bessels confessava freddamente: «La sua morte è quanto di meglio potesse accadere alla spedizione».
Alla deriva In realtà, invece di placare gli animi, il decesso del comandante peggiorò la situazione. Il nuovo capo, Sidney O. Budington, permise che i marinai bevessero, rubassero cibo, giocassero a carte e litigassero di continuo nella fredda e oscura notte groenlandese. I ghiacci mantennero intrappolata la Polaris fino all’estate avanzata. Il 12 agosto 1872 la moglie di Suersaq diede alla luce un bambino, che chiamarono Charles Polaris. Quasi fosse di buon auspicio, quello stesso giorno il ghiaccio si ruppe e la nave poté riprendere la navigazione, ma non verso il Polo Nord, bensì verso sud, di ritorno a casa. Una volta
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SOPRAVVIVERE su lastre
BIBLIOTECA AMBROSIANA / DEA / GETTY IMAGES
di ghiaccio. Una volta il ghiaccio si ruppe mentre i naufraghi riposavano in una tenda improvvisata. Illustrazione del 1876.
morto Hall, infatti, nessuno voleva proseguire l’avventura, e meno di tutti Budington. Un altro membro dell’equipaggio dichiarò: «[Budington] pensava che l’intera impresa fosse una maledetta stupidaggine». Tuttavia il viaggio di ritorno non fu affatto facile. La Polaris dovette farsi strada attraverso la banchisa, tra venti fortissimi e tempeste di neve. Il 15 ottobre la nave andò a sbattere contro un immenso iceberg. Nel timore che l’imbarcazione potesse affondare, l’equipaggio iniziò a scaricare le provviste su una lastra di ghiaccio. Quando capirono che si era trattato di un falso allarme e che la Polaris aveva subito pochi danni, era ormai troppo tardi. L’iceberg si spaccò e la nave, con parte dell’equipaggio, cominciò ad allontanarsi irrimediabilmente dagli altri diciannove uomini, tra i quali le due famiglie inuit, che rimasero 18 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
intrappolati su una lastra di circa sei chilometri di circonferenza. Almeno però avevano delle provviste – secondo le parole di Tyson, «il minimo di cui ha bisogno il corpo umano per non soccombere» – nonché scialuppe, fucili e lampade a olio. Se riuscirono a sopravvivere d’inverno, a quaranta gradi sotto lo zero, fu grazie agli inuit, che cacciarono e costruirono igloo per il gruppo.
Salvataggio in extremis Il 22 aprile 1873 Tyson annotò sul diario: «Non abbiamo niente da mangiare; è tutto finito». Per fortuna il 30 aprile, dopo sei mesi e mezzo di spostamenti senza meta nello stretto di Davis, vennero salvati dalla nave Tigress sulle coste del Labrador. Avevano percorso circa 2.900 chilometri passando da una lastra di ghiaccio all’altra. I quattordici membri rimasti sulla Polaris vissero pure
loro un’odissea. Quando la nave s’incagliò, la smantellarono e con i resti costruirono due piccoli natanti con cui si misero in viaggio verso sud. Vennero recuperati il 23 giugno 1873 da una baleniera vicino a capo York, nel nord-ovest della Groenlandia. Nonostante il fallimento della missione, i sopravvissuti della Polaris si erano resi protagonisti di uno dei viaggi artici più straordinari della storia. Rimaneva la tristezza per una sola vita persa: quella dell’esploratore innamorato dell’Artico che non aveva la stoffa da leader. FRANCESC BAILÓN ANTROPOLOGO. SPECIALISTA DI CULTURA INUIT
Per saperne di più
SAGGI
Deserto di ghiaccio Fergus Fleming. Carocci, Roma, 2006. Al canto delle balene Massimo Maggiari. Giunti, Firenze-Milano, 2018.
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Profumi, dall’igiene alla seduzione In Età moderna i profumi erano usati per prevenire i contagi e i cattivi odori e per migliorare l’attrattiva personale dole perianali dell’animale omonimo, conosciuto anche come civetta africana. Erano particolarmente richiesti anche l’ambra grigia – una secrezione dell’intestino del capodoglio – e il muschio animale, che proviene da una ghiandola del cervo muschiato maschio. Queste sostanze potevano essere usate sui capelli e sui vestiti, ed erano anche molto apprezzate per profumare i guanti e altri indumenti di pelle come i farsetti – delle specie di camicie imbottite maschili – e i bustini. Venivano anche utilizzate per elementi del corredo domestico come scatole, vassoi, scrigni e fiaschette.
JEANNE D’ALBRET acquista
Profumi d’Italia L’ambra grigia era molto ricercata perché permetteva di fissare l’aroma e di metterlo in risalto. Negli inventari delle persone benestanti è comune trovare farsetti e guanti di ambra. Dal XV al XVIII secolo la Spagna si annoverava tra i principali Paesi produt-
LUSSO PROFUMATO I GUANTI di ambra erano considerati di per sé
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una sorta di profumo, come emerge dall’affermazione di Ero, la figlia del governatore di Messina nell’opera di William Shakespeare Molto rumore per nulla: «Senti che buon profumo questi guanti, me li ha mandati il conte».
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GUANTI IN PELLE CON MERLETTO AL TOMBOLO IN ORO. 1600 CIRCA.
ALAMY / ACI
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ggi il profumo è considerato per lo più una sostanza liquida utilizzata per conferire un odore gradevole ad ambienti o persone. Tuttavia questo significato differisce da quello che aveva secoli fa. In alcuni testi del XVII secolo, come per esempio il Tesoro de la lengua castellana di Sebastián de Covarrubias, era definito così: «Pastiglia odorosa, o simile, che quando viene messa sul fuoco emana un fumo odorifero, da cui prende il nome. E da cui derivano anche profumare, profumato, e profumiere». In epoca moderna la parola profumo rimandava quindi a sostanze non esclusivamente liquide e aveva una relazione più diretta con il concetto di “fumo”. Per tutta l’Età moderna ebbero enorme popolarità i profumi di origine animale. Tra questi va ricordato lo zibetto, una sostanza grassa dall’odore acuto che si estrae dalle ghian-
nel negozio del profumiere René i guanti avvelenati che, secondo la leggenda, provocheranno la sua morte. Olio di P.C. Comte. 1858.
tori di accessori di questo genere: lì infatti la moda dei guanti profumati era particolarmente radicata. Lo scrittore Lope de Vega, per esempio, li cita in diverse sue opere affermando che emanavano un odore inconfondibile: «Perché indossi guanti d’ambra, che lasciano sospetti al tuo passaggio?», scrive in La Dorotea (1632). Naturalmente c’erano anche diversi profumi di origine vegetale. Il mastice di Chios, una resina arborea ricavata dal lentisco – un arbusto sempreverde tipico della macchia mediterranea –, era usato per profumare i tessuti e l’acqua potabile.
In Italia la profumeria raggiunse un notevole sviluppo nel corso del Rinascimento. Il libro De’ secreti del reverendo donno Alessio Piemontese, pubblicato nel 1555 dal poligrafo Girolamo Ruscelli, è considerato il primo trattato europeo di profumeria. La fiorentina Caterina de’Medici, moglie di Enrico II, introdusse in Francia i guanti profumati e l’abitudine di tenere in tasca delle boccette di profumo. Portò inoltre a Parigi l’acqua della regina, la fragranza creata espressamente per lei dai frati domenicani di Firenze a partire dal bergamotto, un agrume giallo dalla forma simile a un’arancia.
Il segreto dei guanti profumati guantai, profumieri e fabbricanti di pelli per guanti facevano parte di una stessa corporazione le cui ordinanze furono approvate a Madrid nel 1674. Ognuno di loro aveva una funzione ben definita. I guantai confezionavano IN SPAGNA
i guanti e i profumieri fornivano le ESSENZE necessarie ad aromatizzarne le pelli. Il processo era laborioso e richiedeva l’uso di sostanze come il muschio, l’acqua di fiori d’arancio, l’aceto, l’ambra grigia e l’olio di mandorle. Nell’inventario di Fernando de Valenzuela (1677),
ministro durante il regno di Carlo II, c’è una voce dedicata esclusivamente ai «guanti di AMBRA e di Roma», che furono valutati dal guantaio di camera di sua maestà. Secondo il servitore reale, questo capo d’abbigliamento valeva l’astronomica cifra di circa settemila reales.
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UN PROFUMIERE estrae gli aromi di diverse piante nel suo laboratorio. Incisione del 1790.
Nella capitale francese andò con lei il suo profumiere e astrologo, Renato Bianco, chiamato René Le Florentin, che ottenne un grande successo commerciale con la sua bottega sul Pont Saint-Michel. La leggenda narra che, per ordine della stessa Caterina, Bianco s’incaricò dell’assassinio di Jeanne d’Albret, la regina di Navarra, con un paio di guanti avvelenati. Ai profumi si attribuivano anche virtù medicinali, in particolare la capacità di prevenire le malattie contagiose. A partire dall’epoca della peste s’impose la credenza
che le epidemie fossero favorite dai cattivi odori; perciò si fumigavano gli interni delle abitazioni bruciando piante aromatiche. Si diffuse anche l’uso del cosiddetto pomo d’ambra, un ciondolo sferico traforato, generalmente in oro o in argento, che conteneva sostanze aromatiche dai presunti effetti benefici contro la peste. I proprietari di questi raffinati gioielli, rappresentativi di un alto status sociale, li indossavano intorno al collo o alla vita e se li avvicinavano spesso al naso in pubblico. Inoltre, in un periodo storico in cui farsi il bagno non era una pratica co-
BRIDGEMAN / ACI
Luigi XIV era «delicatamente profumato»; dai suoi abiti emanava l’«acqua degli angeli» POMO D’AMBRA IN ORO CON PIETRE PREZIOSE. 1600 CIRCA. 22 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
mune, il profumo era diventato un metodo per proteggersi dal fetore che pervadeva gli ambienti chiusi.
Luigi XIV, il re profumato Nel 1693 Simon Barbe, il profumiere di Luigi XIV, pubblicò il trattato Il profumiere francese, in cui spiegava i vari modi per estrarre le fragranze dei fiori e creare composizioni olfattive d’ogni tipo. Barbe riferisce che gli aromi più richiesti erano fiori d’arancio, rosa, noce moscata, nardo e gelsomino. Le sue raccomandazioni pratiche iniziavano con l’uso del sapone profumato, un prodotto così apprezzato che Jean-Baptiste Colbert, ministro delle finanze del re sole, fece venire appositamente degli artigiani da Venezia per produrlo in Francia. Nel suo trattato, Barbe descrive Luigi XIV come «il sovrano più delicatamente profumato». Alla sua favorita, madame de Montespan, piacevano le fragranze
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UNA DONNA profuma
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la stanza nell’Allegoria dell’olfatto, di Jean Raoux. 1730 circa. Museo Puškin, Mosca.
di particolare intensità, tanto che il sovrano finì per sviluppare un’avversione ai profumi, che incolpava delle sue emicranie. In Lettera di un siciliano, del 1693, il genovese Gian Paolo affermava: «Da quando al sovrano non piacciono i profumi, devono essere odiati da tutti. Le dame fingono di svenire alla sola vista di un fiore». Ormai anziano, Luigi XIV amava solo l’acqua di fiori d’arancio, con la quale profumava persino le fontane della sua reggia. La sostanza veniva estratta dalle arance amare dell’Orangerie, il giardino d’inverno di Versailles. Questi esempi dimostrano come le forti fragranze di origine animale furono a poco a poco abbandonate a favore di più delicati aromi floreali. Il profumo era ormai usato per sedurre. È in questa fase che entrò in gioco un italiano, Giovanni Maria Farina (1685-1766). Fu proprio lui il creatore dell’acqua di Colonia, che ottenne 24 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
un successo clamoroso grazie alle sue virtù tonificanti e rinvigorenti. Farina battezzò il suo profumo con il nome della città tedesca in cui lavorava. Come lui stesso affermò, aveva creato «una fragranza che mi ricorda le mattine di primavera in Italia, i narcisi con fiori radiosi e le zagare dopo la pioggia. Mi rinfresca e mi stimola al contempo i sensi e l’immaginazione».
Gli odori di Versailles Nel XVIII secolo i profumi impregnavano ormai le corti di tutto il vecchio continente. In Francia, Luigi XV e madame de Pompadour dimostrarono una grande passione per gli aromi. Il sovrano componeva fragranze, mentre la sua favorita appoggiava la fabbrica di Sèvres, dove si producevano boccette di profumo. Qualche anno più tardi anche la regina Maria Antonietta dimostrò un grande entusiasmo per cosmetici, unguenti e fragranze. Il suo
profumiere, Jean-Louis Fargeon – che migliorò i processi di distillazione e fabbricazione per selezionare gli aromi più appropriati per ogni occasione – collaborò con il parrucchiere personale della regina, Léonard, alla creazione di unguenti profumati al gelsomino, così come con la sua sarta, la famosa Rose Bertin, che profumava i fiori di stoffa che cuciva sugli abiti. Non sorprende che tra i cortigiani si dicesse che, al suo passaggio, Maria Antonietta lasciasse sempre un delicato aroma di primavera. BÁRBARA ROSILLO STORICA DELL’ARTE
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FUNERALI ALLA CORTE EGIZIA
LA MORTE DEL FARAONE
IL SOVRANO D’EGITTO AL COSPETTO DELLE DIVINITÀ
Quando un sovrano spirava era sottoposto a un lungo processo che iniziava con la mummificazione e terminava con la sepoltura. Davanti alla tomba si celebravano gli ultimi rituali affinché il faraone potesse raggiungere serenamente l’aldilà
FOTO: DEA / SCALA, FIRENZE
In questo affresco presente nella tomba di Thutmose IV, nella Valle dei Re, le divinità accolgono il faraone nell’aldilà. La dea Hathor e gli dei Anubi e Osiride gli porgono l’ankh, simbolo della vita, affinché possa rinascere. Sotto, amuleti funerari. Museo egizio, Torino.
L
si rinnovava ogni volta che un sovrano moriva. Da allora, infatti, si spalancavano un vuoto provvisorio di governo e un intermezzo angosciante per l’intero Paese, visto che alla dipartita del re si bloccava l’ordine del cosmo, che si sarebbe ricostituito solo all’incoronazione del successore. Era inoltre un periodo di lutto, in cui la corte si dedicava ai preparativi per la tumulazione del faraone. L’addio al sovrano sarebbe culminato in una grande processione funebre, durante la quale la sua mummia sarebbe stata trasportata fino alla tomba, dove avrebbe riposato in eterno. Nel Nuovo regno – il lasso di tempo cui si riferiranno i paragrafi seguenti –, il tragitto iniziava nel palazzo reale di Tebe e terminava presso la sepoltura che ogni faraone si era già fatto costruire nella Valle dei Re.
Nel laboratorio di mummificazione
BRIDGEMAN / ACI
Dopo il decesso, il cadavere del monarca veniva trasportato durante una prima processione dal palazzo reale a un edificio vicino
ROTOLO DI LINO PROVENIENTE DAL DEPOSITO D’IMBALSAMAZIONE DI TUTANKHAMON NELLA VALLE DEI RE. MET, NEW YORK.
al fiume. Qui il corpo veniva purificato con l’acqua del Nilo, dopodiché veniva spostato nel laboratorio di mummificazione, in cui per settanta giorni era sottoposto a diversi trattamenti. La mummificazione aveva lo scopo di far acquisire al cadavere l’aspetto di un essere ancora vivo, in modo che il ka, la forza vivente, potesse riconoscere il “supporto”fisico cui era appartenuto, nutrendosi quindi delle offerte che gli avrebbero consentito di superare la morte. Una volta disidratata, la mummia veniva avvolta in bende di lino e in un sudario e poi introdotta nella bara, con sopra la maschera funeraria. Durante l’ultima notte di permanenza nel laboratorio il sacerdote-lettore –“colui che porta il rituale”– recitava a voce alta alcune liturgie magiche. Era una sorta di veglia, ripetuta ogni ora, in cui si rivolgevano diversi scongiuri a più divinità affinché quella notte proteggessero la mummia. Nelle lunghe ore di veglia i sacerdoti esorcizzavano il male scongiurando: «Non entrare in questa stanza sacra dove si trova
L’ARTE DI MORIRE IN EGITTO
SCIENCE SOURCE / AGE FOTOSTOCK
a residenza era in silenzio, i cuori erano in lutto, le due grandi porte erano suggellate, i cortigiani stavano con la testa sulle ginocchia, il popolo era in lamento». In tal modo il testo Le avventure di Sinuhe descrive la reazione alla morte del faraone Amenemhat I, avvenuta nel «terzo mese della stagione invernale, il giorno sette» del trentesimo anno del suo regno (1910 a.C. circa). Il dolore del popolo egizio
2532-2503 a.C. Durante il regno di Micerino e nella tomba di Debeheni è rappresentato per la prima volta un funerale; compaiono danzatori e officianti.
PROCESSO DI MUMMIFICAZIONE
Il disegno ricrea le fasi finali del processo d’imbalsamazione di Tutankhamon. Un sacerdote con la maschera del dio Anubi legge il rituale mentre gli imbalsamatori bendano il corpo, frapponendo amuleti tra le garze.
1955-1920 a.C.
1550-1069 a.C.
1479-1425 a.C.
1336-1327 a.C.
In Le avventure di Sinuhe il successore del defunto Amenemhat I concede a Sinuhé una bella tomba con un corredo.
A questo periodo risale il Libro dei morti. Nel primo capitolo sono descritti i riti e i partecipanti ai funerali.
Con Hatshepsut e Thutmose III i sacerdoti funerari rivestono tale carica perché membri di famiglie influenti.
Il trasporto della mummia reale e la cerimonia di apertura della bocca sono rappresentati nella tomba di Tutankhamon.
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DOBLE 7 I DEVOTI SERVITORI DEL DIO
Osiride! Non permettere che il disastro [una seconda morte, stavolta definitiva] accada di nuovo». All’alba la mummia del faraone faceva ritorno al palazzo dove, in segno di affetto, le donne l’adornavano con ghirlande di fiori, simbolo di rinascita. In quel momento aveva inizio il funerale vero e proprio, una lunga e complessa processione durante la quale si succedevano diverse cerimonie che si concludevano con la deposizione della mummia nella tomba e il banchetto funebre. Gli imbalsamatori avevano già adagiato le spoglie del sovrano in una bara antropomorfa, ossia dalla forma umana, che veniva riposta in un catafalco o baldacchino e collocata su un appoggio che ne facilitava il trasporto.
MASCHERA FUNEBRE IN ORO DI TUIA, RITROVATA NELLA SUA TOMBA NELLA VALLE DEI RE. MUSEO EGIZIO, IL CAIRO.
PROCESSIONE FUNEBRE
A destra, scena dalla tomba del visir Ramose con portantini che reggono un letto funerario, arche, una sedia e vasellame. SACERDOTE FUNERARIO
ORONOZ / ALBUM
che intervenivano nel culto funerario o nei riti per gli dei, sarebbe più corretto denominarli servitori. In Egitto non esisteva un’istituzione religiosa che funzionava come settore indipendente dal resto dello stato. Difatti i sacerdoti – o, appunto, servitori – erano una sorta di funzionari privilegiati. Tale carica era riservata alle famiglie influenti e chi la ricopriva lavorava nell’amministrazione pubblica. Una parte di loro veniva assegnata ai templi funerari fondati dai faraoni. I numerosi edifici dipendevano dal grande santuario di Amon a Karnak, ma avevano ciascuno un proprio organico, che si preoccupava di mantenere il culto e le offerte riservati al monarca. A tale scopo, i templi ricevevano esenzioni fiscali e potevano contare su generose donazioni in perpetuo, ovvero per l’eternità.
A sinistra, frammento di pittura murale rinvenuto a Deir el-Medina. Mostra un sacerdote sem. Musée du Louvre, Parigi.
Nel corteo figuravano pure altri sarcofagi dalle dimensioni maggiori in cui sarebbe stata introdotta la bara con la mummia una volta trasportata all’interno della tomba. Su una lettiga più piccola viaggiavano poi i vasi canopi, in cui riposavano le viscere del defunto mummificate a parte. Questi contenitori erano protetti dal dio canide Anubi, divinità legata alla necropoli e alla mummificazione del defunto.
Corredi incredibili Un gruppo di portantini reggeva il corredo che, nel sepolcro, avrebbe tenuto compagnia al faraone. Nessun abitante dell’Egitto poteva competere con il faraone in numero e qualità di rituali funebri e di oggetti presenti nel corredo, realizzati dai migliori artigiani. In questo modo il sovrano poteva tenere con sé per l’eternità tutti gli elementi a lui necessari. Sarebbe impossibile descrivere qui nel dettaglio l’infinità di manufatti presenti nel corredo di un regnante. La tomba di Tutankhamon può essere presa come esempio di tale sfarzo e, sebbene probabilmente il giovane faraone possedesse un corredo davvero ricco – l’unico, tra l’altro, giunto integro ai nostri giorni –, anche la dotazione di altri
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ANCHE SE PER CONVENZIONE chiamiamo sacerdoti quegli officianti
IL CORTEO FUNEBRE Il disegno evoca la processione che accompagnò il faraone Tutankhamon fino alla sua tomba, costruita in precedenza nella Valle dei Re. Qui il sovrano fu inumato con un ricco corredo funerario. L’illustrazione s’ispira a una pittura presente nella camera funeraria del faraone stesso, che mostra il trasporto del sarcofago su un baldacchino.
Familiari. Parenti e congiunti accompagnano la comitiva funebre fino al luogo di sepoltura.
Scrigno canopico. Nel cofanetto sono riposti i vasi canopi, con le viscere mummificate del faraone.
Sacerdote sem. Questi sacerdoti funerari sono vestiti con una pelle di leopardo e compiono i riti davanti alla tomba. Prefiche. Le donne sono state pagate per piangere e lamentarsi a voce alta per la morte del faraone.
Baldacchino. La bara con la mummia del defunto è collocata su un baldacchino, e l’insieme è disposto su un supporto che viene trainato fino alla tomba.
ILLUSTRAZIONE: SOL 90 / ALBUM
Portantini. Una lunga processione di servitori accompagna il corteo funebre portando cassepanche, vasellame e altri oggetti lussuosi che costituiscono il corredo funerario.
MUSICA PER FAR RINASCERE IL DEFUNTO NELL’ANTICO EGITTO l’arte musicale non era considerata un semplice
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La processione In testa alla comitiva funebre si trovava il successore del re, che svolgeva il ruolo di sacerdote sem ed era l’officiante principale. Si credeva che incarnasse Horus, figlio del dio dell’inframondo Osiride, a cui veniva associato il re defunto. Accanto a lui procedeva USHABTI O STATUETTA FUNERARIA DEL FARAONE RAMSES IV, SCOPERTO NELLA SUA TOMBA DELLA VALLE DEI RE. MUSÉE DU LOUVRE, PARIGI.
La pittura a destra raffigura la regina Nefertari davanti al pasto allestito nella sua tomba perché possa nutrirsi nell’aldilà. MUSICA NELLA SEPOLTURA
Il bassorilievo della mastaba di Leteya a Saqqara (XIX dinastia) mostra un musicista chino mentre suona un flauto.
il sacerdote-lettore, che agiva invece in rappresentanza del dio Thot, conoscitore di liturgie e d’incantesimi. Anche altri sacerdoti prendevano parte al corteo: i più importanti si coprivano con pelli di leopardo, vere o finte, che gli conferivano simbolicamente il potere e ne palesavano il ruolo magico. Accanto a loro sfilava il visir – la “mano destra” del regnante, che assolveva i compiti di governo del Paese –, altri nobili della corte e membri della famiglia reale, come le seconde mogli e i figli. Nel gruppo sfilavano pure alcuni degli imbalsamatori intervenuti per dare una nuova vita al faraone. Alcuni uomini appartenenti alla sfera più intima del defunto – nei testi giunti a noi sono nove, emblemi della pluralità – tiravano il supporto con sopra la bara. Se però questa era troppo pesante, si ricorreva a corde e a buoi. Mentre il corteo avanzava, si purificava la strada con del latte. Seguivano i portantini con il corredo, mentre altre persone tenevano in mano foglie di papiro e di loto. Li accompagnavano servitori, musicisti, cantanti e ballerine che eseguivano danze sacre, e perfino alcuni degli artigiani che avevano scolpito le statue del faraone perché questi potesse essere riconosciuto nelle sue rappresentazioni nel
SPL / AGE FOTOSTOCK
sovrani del Nuovo regno doveva contemplare ogni sorta di beni di lusso. Tra gli oggetti di uso quotidiano comparivano tessuti, letti, scatole, sedie, fiori, bestiame, unguenti, vino, maschere, vestiti, pelli esotiche, statue e perfino uccelli e pesci destinati al sacrificio, proprio come durante le cerimonie celebrate in vita. Non mancavano ovviamente gli amuleti e gli ushabti, statuette che avrebbero magicamente preso vita al posto del defunto non appena Osiride gli avesse chiesto di assolvere i compiti del mondo ultraterreno.
TAVOLA DI OFFERTE
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intrattenimento, e si credeva piuttosto che consentisse di congiungersi alle divinità. Nei riti mortuari agiva come elemento magico che, assieme alla danza, stimolava la rinascita del defunto e la sua comunicazione con gli dei. Grazie alle decorazioni di tombe private rinvenute a Tebe ovest si conosce oggi il tipo di musicisti che prendeva parte ai funerali e accompagnava il banchetto che ne segnava la conclusione. Nelle rappresentazioni gli artisti suonano diversi strumenti a corda, tra cui due tipi di arpa, e anche liuti e lire. Compaiono pure strumenti a fiato, come oboi o flauti, e altri a percussione, come sistri, tamburi, tamburelli, cembali e una sorta di nacchere.
ALL’INGRESSO DELLA TOMBA
A destra, un sacerdote svolge il rito di apertura della bocca davanti al defunto mentre i servitori trasportano il corredo. BALLERINE MUU
caso in cui la mummia si fosse deteriorata. A fianco della bara si collocavano due dei personaggi femminili più importanti: la vedova e un’altra donna, che incarnavano le dee Iside e Nefti. Entrambe accentuavano smorfie di dolore e intonavano canzoni funebri e magiche. Erano loro a guidare il gruppo costituito dalle prefiche, donne di diversa età che si tramandavano il ruolo da madre a figlia. In più tombe aristocratiche sono raffigurate mentre alzano le braccia in segno di dolore, si gettano la polvere sulla testa e piangono; a volte sono in compagnia di uomini, anch’essi dall’aria afflitta. Assieme a loro camminavano dei cantanti, che esortavano il faraone a rinascere e chiedevano agli dei di accoglierlo come un loro pari. Il corteo saliva su una ridotta flotta di grandi barche e attraversava il Nilo in direzione della sponda occidentale, dove si trovava PREFICA. STATUETTA DI TERRACOTTA DIPINTA CHE RAPPRESENTA UNA DI QUESTE DONNE. LOUVRE, PARIGI.
la Valle dei Re. Tutte le imbarcazioni seguivano quella principale, con a bordo la bara e la mummia reale, che era rimorchiata da un altro natante o trainata dalla riva. Altre chiatte trasportavano il corredo e le offerte. Una volta giunti sull’altra sponda, si procedeva a deporre il carico. I sarcofagi del faraone e i canopi erano trasportati fino alla tomba nella Valle dei Re grazie a delle lettighe, che si snodavano in mezzo al deserto mentre i servitori reggevano a spalla il corredo e le offerte.
Soste obbligate La processione non giungeva direttamente alla tomba, ma faceva almeno ventuno soste per portare a termine i riti che avrebbero garantito la sopravvivenza del faraone nell’aldilà. Li presiedeva il sacerdote-lettore, che leggeva un papiro. Durante le funzioni si bruciava l’incenso in recipienti speciali, perché si credeva che le divinità avrebbero gradito il fumo, mentre le forze maligne se ne sarebbero tenute lontane. Tra i rituali vi erano libagioni purificanti con l’acqua sacra del Nilo e il latte, conservato in vasi preposti a tale scopo. I sacerdoti assegnati ai funerali invocavano l’aiuto degli dei perché questa fase era la più importante e delicata per l’immortalità del defunto.
ACQUERELLO DI JEAN-CLAUDE GOLVIN, MUSÉE DÉPARTEMENTAL ARLES ANTIQUE © JEAN-CLAUDE GOLVIN / ÉDITIONS ERRANCE.
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ELISA CASTEL
A sinistra, bassorilievo della tomba di Renni a el Kab in cui si vedono due ballerine muu, con il tipico copricapo, davanti a un giardino funebre.
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KENNETH GARRETT
PANORAMICA DEL WADI PRINCIPALE DELLA VALLE DEI RE CON L’ACCESSO AD ALCUNE TOMBE.
Davanti alla tomba All’ingresso della sepoltura, che sarebbe stata la casa terrena del re e il luogo del suo eterno riposo, si compivano gli ultimi rituali e si pronunciavano le “glorificazioni”, ossia lodi del faraone scomparso. Il rito più rilevante era la cerimonia di apertura degli occhi e della bocca, che serviva a ravvivare i sensi e le pulsioni che il defunto aveva avuto in vita – in particolare la vista, il gusto e il sesso – perché potesse utilizzarli nell’oltretomba. A questo punto s’introduceva la bara con la mummia negli altri sarcofagi trasportati dal corteo. Assieme al sacerdote-lettore e al sacerdote sem, alcuni uomini adagiavano poi la bara più grande all’interno di un ultimo sarcofago di pietra, già presente nella camera funeraria. Nel sepolcro erano già state deposte pure grandi quantità di cibo e di bevande, preparate nelle cucine dei templi sparsi sulla riva 38 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
occidentale di Tebe. Parte di queste leccornie era consumata in un sontuoso banchetto nel corso del quale i membri del corteo e i familiari, agghindati con le vesti migliori, celebravano il felice “approdo” del defunto nell’aldilà. Non era un pasto comune e faceva parte delle tappe finali del funerale. Data la sua importanza, richiedeva sacrifici propiziatori di animali, libagioni e fumigazioni con incenso, come avveniva in quasi tutti i rituali dell’antico Egitto. Una parte delle offerte era collocata nella tomba perché gli egizi credevano che i defunti avessero bisogno d’idratarsi e nutrirsi al pari dei vivi. Una volta che i sacerdoti della necropoli avevano sigillato la sepoltura, i componenti del corteo abbandonavano la Valle dei Re, certi che il faraone avrebbe superato con successo il giudizio finale e che si sarebbe goduto la nuova vita nell’aldilà. ELISA CASTEL EGITTOLOGA
Per saperne di più
SAGGI
La vita oltre la morte Maria Cristina Guidotti (a cura di). Pacini, Pisa, 2013. La morte come tema culturale Jan Assmann. Einaudi, Torino, 2002. Il libro dei morti egiziano Pietro Testa. Harmakis, Montevarchi, 2018.
DEA / AGE FOTOSTOCK
Quando la comitiva era ormai vicina alla tomba entravano in scena due ballerine muu, che rappresentavano incarnazioni degli antenati, davano il benvenuto al corteo e concedevano l’autorizzazione ad avanzare. Nei funerali la musica e la danza erano fondamentali per la rinascita del defunto.
CAMERA FUNERARIA DI AMENHOTEP II
Vi risalta il grande sarcofago in granito del faraone, posto sotto il livello del pavimento. Le pareti sono ricoperte da testi funebri che aiutano il re a raggiungere serenamente la sua meta nell’aldilà.
I L P OT E R E N AVA L E D E L L A G R EC I A
TRIREMI Le principali città dell’antica Grecia avevano a disposizione flotte belliche composte da decine di triremi. Ogni imbarcazione era spinta dalla forza bruta di 170 rematori
L’OLIMPIA
Ricostruzione di una trireme dell’antichità, l’Olimpia. Realizzata nel 1987 dall’ingegnere navale John Francis Coates, solcò il Mediterraneo per sperimentare il sistema di navigazione di queste navi da guerra. MIKE ANDREWS / BRIDGEMAN / ACI
C R O N O LO G I A
Navi per il controllo dei mari 700 a.C. I rilievi del palazzo di Sennacherib a Ninive mostrano le prime immagini di triremi, una corinzia e l’altra fenicia.
535 a.C. circa Nelle acque della Corsica ha luogo la battaglia di Alalia, il primo scontro navale tra triremi di cui si hanno testimonianze.
493-492 a.C. Temistocle diviene arconte eponimo di Atene e ne promuove lo sviluppo navale e commerciale. Ha inizio la trasformazione del Pireo.
480 a.C. Vittoria della flotta greca contro l’armata persiana nella battaglia navale di Salamina (golfo Saronico), durante la Seconda guerra persiana.
UN’ANTICA BIREME
Un cratere risalente al 735-720 a.C. venne decorato con questa scena in cui campeggia una nave a due file di remi. Rappresenta forse il rapimento di Elena da parte del troiano Paride.
429 a.C. Negli scontri di Patrasso e di Naupatto l’armata ateniese sconfigge quella spartana malgrado l’inferiorità numerica.
DAVID PARKER / SPL / AGE FOTOSTOCK
405 a.C. La flotta spartana guidata da Lisandro sbaraglia quella ateniese nella battaglia di Egospotami, nello stretto dei Dardanelli.
La nuova armata ateniese, diretta da Cabria, batte gli spartani al termine dello scontro di Nasso.
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376 a.C.
OCCHIO DI UNA TRIREME. MUSEO ARCHEOLOGICO DEL PIREO.
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hi è padrone del mare diviene padrone di tutto». Molto prima che Cicerone pronunciasse queste parole i greci l’avevano già capito fin troppo bene. Nel V secolo a.C. Atene mobilitò ogni mezzo per trasformare il Pireo nel porto militare più importante della Grecia. I suoi edifici non avevano nulla da invidiare allo splendore dei templi centenari, perché vennero progettati per ospitare la maggiore armata del mondo ellenico. Nelle darsene riposavano non meno di trecento triremi, le navi da guerra più famose dell’antichità. La trireme fu il frutto del continuo progresso della tecnologia navale greca. Nell’Iliade Omero menziona delle imbarcazioni dette triacóntere o pentecontere a seconda del numero di rematori utilizzati (trenta o cinquanta), come pure biremi con due file di vogatori. Ma fu a partire dagli inizi del VII secolo a.C. che l’esperienza, applicata
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Più rapide e stabili delle imbarcazioni precedenti, le triremi avevano diverse funzioni a seconda dello stato di conservazione in cui si trovavano. Quelle più recenti venivano tenute per le battaglie, mentre le più danneggiate si utilizzavano per mansioni come la ricognizione e il trasporto. Ad Atene c’erano due trire-
Seduto a poppa della trireme, il trierarca osserva come il pilota maneggia i due grandi remi articolati che governano la nave.
mi principali, la Salaminia e la Paralo, navi di bandiera della flotta particolarmente curate, a cui si ricorreva per missioni diplomatiche o rituali, come per esempio quella di trasportare gli atleti ateniesi che ogni quattro anni partecipavano alle Olimpiadi. Se custodite adeguatamente, potevano rimanere in servizio tra i venti e i venticinque anni prima di essere smantellate o vendute come“eccedenze di guerra”, anche se ci furono casi d’imbarcazioni che resistettero fino a ottant’anni. Il loro costo di fabbricazione era molto elevato, corrispondente a più di un talento – ovvero seimila dracme, circa ventisei chili d’argento. Per questo motivo le navi nemiche erano un ambito bottino di guerra. Anche mantenere l’equipaggio – che poteva arrivare a contare finanche duecento uomini – era molto dispendioso, giacché i salari mensili prevedevano l’esborso di un altro talento. E /G YI
Navi resistenti
CONTROLLO DI UNA NAVE
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allo sviluppo tecnico, favorì la comparsa di un modello di nave decisamente più avanzato: la trireme, termine derivato dal greco trieres, che ne indicava le tre file di remi. Tali navi erano concepite dai greci come esseri viventi dalla natura in parte sacra. Per questo ricevevano un nome, quasi sempre femminile. I caratteristici occhi, collocati su entrambi i lati della prua, o prora, servivano per trovare “la strada nel mare”, le gru che spuntavano dallo scafo erano le “orecchie” e le vele le “ali”.
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LA TRIREME, PADRONA DEI MARI
Gabbia L’albero di maestra reggeva un’enorme vela quadra, la gabbia, bianca e di canapa o lino. Per alleggerire il peso della nave, prima di ogni battaglia l’albero era lasciato nel porto.
Era la nave per eccellenza dell’antichità: oltre ai greci, la usarono altri popoli del Mediterraneo come i fenici, i cartaginesi o i romani. Le caratteristiche erano molto simili, tranne che per alcuni elementi.
DATI TECNICI
Lunghezza: 36-40 metri Larghezza massima: 3,5-6 metri Peso: 46 tonnellate Equipaggio: 200 membri di cui 170 rematori (per ogni lato della nave, 31 rematori al livello superiore, 27 al medio e 27 all’inferiore) Velocità massima: 16,7 km/h
Artimone Questa vela minore era collocata vicino alla prua e facilitava il controllo della direzione. Durante la battaglia rimaneva smontata nella stiva per poter essere usata in caso di fuga.
ILLUSTRAZIONE: SOL 90 / ALBUM
Coperta La trireme di tipo catafratto poteva contare su una coperta per proteggere i rematori da precipitazioni e proiettili. In quella afratta invece la fila superiore remava a cielo aperto.
Sperone L’embolos era una struttura di quasi 500 chili ricoperta di bronzo. Non serviva solo per caricare, ma anche per ridurre l’impatto delle onde sulla prora.
Chiglia Era in legno di quercia, perché dalla sua resistenza dipendeva l’integrità della nave, e si prolungava fino alla prua per sorreggere lo sperone.
Poppa La parte superiore era costruita a forma incurvata verso l’interno della trireme, quasi fosse la coda di uno scorpione.
Corridoio Si estendeva lungo la coperta centrale, sopra i rematori. Accoglieva il primo ufficiale, i nostromi e il capo dell’equipaggio.
Timone Due remi di dimensioni maggiori e situati a poppa fungevano da timoni. Li governava il pilota o kybernetes.
I REMATORI
Remi La lunghezza dei remi di solito era di 4,5 metri.
I tre livelli erano sfalsati su entrambi i lati così da migliorare la stabilità della nave. I talamiti si collocavano alla base dello scafo e pativano le condizioni peggiori; al livello intermedio si trovavano gli zygiti e al superiore i traniti, obbligati a svolgere uno sforzo maggiore per via della posizione soprelevata.
GOLFO SARONICO
Nelle sue acque ebbe luogo la battaglia di Salamina nel 480 a.C., tra greci e persiani. Le triremi svolsero un ruolo fondamentale per la vittoria greca.
LA DURA VITA DEL REMATORE
LA FORZA MOTRICE
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el 1987 l’architetto navale John Francis Coates e alcuni accademici dell’Università di Cambridge hanno deciso d’imbarcarsi sulla riproduzione di una trireme classica, l’Olimpia. La nave ha solcato le acque del Mediterraneo onorando la sua fama, ma i 170 rematori hanno raggiunto la velocità massima di nove
nodi solo per cinque minuti. Pur trattandosi di professionisti, hanno riscontrato innumerevoli difficoltà nel coordinarsi. Non solo: quando l’Olimpia ha dovuto affrontare raffiche contrarie che arrivavano perfino a 25 nodi (46 km/h), con il mare in burrasca e onde altissime, i talamiti – i rematori della fila più bassa – non riuscivano a vogare. Gli altri, posti ai livelli intermedio e superiore, hanno mantenuto il ritmo con immensa fatica, e dopo
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un’ora non avevano più forze. Senza dubbio la preparazione, l’allenamento e l’esperienza dei greci erano di gran lunga superiori. Si può solo lontanamente immaginare l’incredibile sforzo che gli antichi rematori delle triremi impiegavano per ore in piena battaglia. Non a caso erano molto apprezzati per le loro straordinarie qualità e perché nell’armata ne erano necessari a migliaia, e ricevevano un salario che ben si accordava alle loro fatiche.
La massima autorità a bordo era il trierarca, il capitano, scelto tra i cittadini più abbienti per svolgere l’incarico per un anno. Il trierarca doveva pagare di tasca propria parte del costo della campagna. Era al comando di altri cinque ufficiali: l’ipotrierarca o secondo ufficiale, il pilota o cibernete (kybernetes), il prorèta o ufficiale di prora e sorveglianza (prorates), il comandante dei rematori (keleustes) e il tesoriere (pentecontarchos). C’erano anche una decina di marinai e qualche militare (dieci opliti e quattro arcieri). Il resto dell’equipaggio, cioè 170 uomini, era costituito dai rematori. Si calcola che nella flotta ateniese ci fossero più di 50mila vogatori. In pochi erano schiavi o stranieri, visto che la maggior parte di loro apparteneva alla classe dei teti, cioè dei cittadini dalle poche risorse e incapaci di affrontare i costi richiesti per combattere da soldati. Lo sviluppo dell’armata come grande baluardo della democrazia ateniese durante il V secolo a.C. consentì a questa classe sociale di esercitare una maggiore in-
BRIDGEMAN / ACI
PIETRO CANALI / FOTOTECA 9X12
UN UOMO DISTRIBUISCE IL RANCIO TRA I REMATORI DI UNA NAVE. GLI UOMINI NON SI SPOSTAVANO NÉ PER MANGIARE NÉ PER DORMIRE.
fluenza sull’aristocrazia. Non è un caso che a quell’epoca i cittadini ateniesi iniziassero a considerare i loro capitani come “timonieri” che guidavano “la nave dello stato”.
Un equipaggio disciplinato
DOPPIA FUNZIONE Tutte le triremi avevano sulla prua speroni come questo, conservato nel Museo archeologico del Pireo. Servivano per assaltare il nemico e anche per ridurre l’impatto delle onde.
La partenza della flotta, al comando di uno o più ammiragli (strategoi), era un evento importante per la città. Grazie all’allenamento e alla disciplina, i membri dell’equipaggio si disponevano ai loro posti con una velocità straordinaria – in soli trenta secondi, in base a una simulazione moderna – e verificavano poi il corretto funzionamento delle attrezzature, degli strumenti e delle armi. Aveva quindi inizio una cerimonia religiosa che avrebbe assicurato il favore degli dei durante la nuova traversata. Un sacerdote era incaricato di celebrare il sacrificio degli animali prima che il trierarca intonasse una preghiera e un K. LIVADAS / GETTY IMAGES inno in onore delle divinità.
Alla fine, come offerta, si spargeva una coppa di vino sulla prua e sulla poppa. Durante il viaggio i rematori seguivano gli ordini del keleustes, che venivano impartiti a voce alta o colpendo un ceppo con una mazza. Quando lo strepito del mare o della battaglia ne impediva l’ascolto si ricorreva all’aulos, uno strumento a fiato ad ancia doppia con cui si segnava il ritmo della vogata. I rematori stessi si coordinavano tra di loro grazie a canti tradizionali e i casi di ammutinamento erano rarissimi: per questo motivo l’equipaggio della trireme avrebbe reagito gettando in mare qualsiasi keleustes che avesse provato a usare la frusta. Visto il faticosissimo lavoro al quale erano sottoposti, era necessario che i rematori fossero nutriti e idratati a sufficienza. La loro dieta includeva pesce in salamoia, torte salate d’avena, vino, formaggio, verdure e circa sette litri d’acqua al giorno. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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Kybernetes o pilota
PETER CONNOLLY / AKG / ALBUM
Rematori
Keleustes, il comandante dei rematori che con il flauto ad ancia doppia dà il ritmo di vogata
CARICA E ABBORDAGGIO SULLO SFONDO DELL’ISOLA DI SALAMINA e del promontorio di Cinosura, centinaia d’imbarcazioni combatterono in uno spazio ridotto durante la celebre battaglia navale della Seconda guerra persiana (480 a.C.). Una trireme greca completa la manovra per assaltare una nave persiana conficcando lo sperone nel fianco destro, o di tribordo, e distruggendo buona parte dei remi. I nemici ricorrono a frecce e giavellotti per difendersi dagli aggressori prima che la nave precipiti in fondo allo stretto.
Opliti
MASSACRO NAVALE
Quando una nave veniva affondata, i soldati che cadevano in acqua morivano annegati o trafitti dalle frecce delle imbarcazioni nemiche, come accadde a Salamina nel 480 a.C.
SOMMOZZATORI E SABOTATORI
ABILI E CORAGGIOSI
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e battaglie navali non si svolgevano solo sulla superficie, ma anche sotto. Dal IX secolo a.C. gli eserciti dell’antica Grecia potevano affidarsi a sub professionisti. Molto famoso era Scilla di Scione, vissuto intorno al 500 a.C., che secondo Erodoto sott’acqua riusciva a coprire la distanza di un chilometro e mezzo. Con
l’aiuto della figlia Hydna, Scione si aprì il cammino tra gli scafi e tagliò le ancore delle navi persiane che avevano attaccato la Grecia. Aiutò inoltre a coprire la baia di pali per impedire che le imbarcazioni nemiche si avvicinassero. Va ricordato che questi palombari non agivano solo in combattimento: erano assunti anche per recuperare il bottino delle navi naufragate vicino alla costa o le eventuali parti del carico di una nave che
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cadevano in acqua durante le operazioni di stivaggio. Oltre a ciò, raccoglievano frutti di mare, alghe o spugne, collaboravano alla costruzione di ponti e porti o intervenivano nella riparazione e nella pulizia degli scafi. La pressione a elevate profondità provocava lo scoppio del timpano, e in molti risalivano sanguinando dalle orecchie e dalla bocca (emottisi). Per questo motivo di solito preferivano forarsi il timpano da soli.
Con i loro corpi possenti occupavano quasi tutta la nave, e quindi non rimaneva spazio per immagazzinare cibo o per dormire. Per questo motivo la navigazione delle triremi si limitava alle ore diurne, e di notte si attraccava in cerca d’approvvigionamento e riposo.
Nel fragore della battaglia Il momento cruciale degli assalti nel corso delle battaglie navali era quello in cui venivano usati come arieti i famosi speroni presenti sulla prua. In tal modo si squarciava il fianco, o murata, della nave nemica. La carica avveniva alla massima velocità, intorno a nove nodi (16,7 km/h), e richiedeva l’uso di tutte le abilità e l’esperienza del pilota. Se la nave nemica riceveva un impatto diretto, per lei non c’erano più speranze, ed erano pochissimi i membri dell’equipaggio che riuscivano a salvarsi, anche perché la maggior parte di loro non sapeva nuotare. Negli scontri tra navi la cifra delle vittime era davvero elevata, ma tra le cause dei disastri potevano esservi anche le intemperie.
DEA / SCALA, FIRENZE PRISMA / ALBUM
Per i greci, annegare era la morte peggiore, perché i defunti non avrebbero mai ricevuto una degna sepoltura e non avrebbero potuto raggiungere l’aldilà. Per tale ragione gli strategoi al comando della flotta erano obbligati a recuperare i cadaveri e a salvare i sopravvissuti della propria fazione, pena la morte. Quando l’imbarcazione si arrendeva, ai rematori catturati si proponeva a volte di cambiare armata. In altre occasioni, invece, venivano buttati giù dal parapetto o gli veniva mozzato il pollice perché non potessero più remare o brandire un’arma, o potevano diventare schiavi o essere abbandonati sulle coste.
delle missioni, mentre i marinai e i rematori si sbrigavano a chiedere lo stipendio, che in molti dilapidavano in osterie e bordelli. Quando i romani conquistarono la Macedonia nel 168 a.C., si sorpresero nello scoprire un’antica trireme, dimenticata in un arsenale da circa settant’anni. Quel relitto, che ricordava la fine di un’epoca in cui le armate greche erano state padrone del Mediterraneo, riuscì a solcare di nuovo le acque. Non stupisce quindi l’adozione da parte di Roma di tale modello di nave rapida e resistente per fondare su di essa il proprio dominio marittimo.
Questa stele funeraria di un giovane chiamato Demokleides, che morì in una battaglia navale, lo ritrae con un’espressione malinconica davanti alla prua della nave. Museo archeologico nazionale, Atene.
ARTURO SÁNCHEZ SANZ UNIVERSITÀ COMPLUTENSE (MADRID)
Di ritorno a casa All’inizio dell’inverno decine di triremi facevano ritorno ad Atene navigando assieme a tartarughe marine, banchi di tonni o branchi di delfini che saltavano davanti alle prue. La loro compagnia era di buon auspicio perché di solito aiutavano i naufraghi a raggiugere la costa. All’arrivo, ogni nave era riparata e pulita. I trierarchi presentavano il rapporto
MORTO IN COMBATTIMENTO
Per saperne di più
SAGGI
Atlante delle navi greche e romane Filippo Avilia. IRECO, Formello, 2003. Uomini navi e idee nel Mediterraneo Filippo Avilia. Quasar, Roma, 2020. La guerra nella Grecia antica Jean-Pierre Vernant (a cura di). Raffaello Cortina, Milano, 2008. Le grandi battaglie dell’antica Grecia Andrea Frediani. Newton & Compton, Roma, 2017.
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LIVIA E AUGUSTO COPPIA IMPERIALE Nel 38 a.C. Ottaviano, il futuro Augusto, sposò una ragazza di nome Livia Drusilla. Per i cinquant’anni successivi i due sarebbero rimasti ai vertici del nascente impero romano
LIVIA E LA VENDEMMIA
Nel 1858 Cesare Dell’Acqua dipinse quest’olio in cui immaginava una festa della vendemmia nella villa che Livia (al centro della scena) possedeva a Prima Porta. Il quadro è conservato nel castello di Miramare, a Trieste. DAGLI ORTI / AURIMAGES
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opo aver sconfitto i responsabili dell’assassinio di Giulio Cesare, il suo pronipote ed erede Ottaviano divenne a poco più di vent’anni l’uomo forte di Roma. Solo Marco Antonio ne sfidò il dominio dall’Oriente, dove si era stabilito con la sua amante e alleata Cleopatra. Ma nel 31 a.C., con la loro morte, Ottaviano divenne il primo imperatore di Roma con il nome di Augusto. Tiberio Claudio Nerone non era un ostacolo. Secondo Tacito, «la strappò al marito, non si sa se contro la volontà di lei».
Dagli scandali alla virtù A peggiorare le cose, quando Ottaviano si fidanzò con Livia lei era incinta di sei mesi del suo secondo figlio, Druso (il suo primogenito, Tiberio, aveva all’epoca tre anni). A Roma si diceva che il figlio fosse stato in realtà concepito in adulterio dal futuro imperatore. «I più fortunati hanno figli in tre mesi», era il commento sarcastico che girava tra le malelingue. Nonostante la gravidanza, i pontefici non si opposero alla celebrazione del matrimonio. Il bambino nato pochi mesi dopo sarebbe cresciuto nella casa del padre. Nell’antica Roma le nobildonne si sposavano giovani, mettevano al mondo dei figli, organizzavano la servitù nello svolgimento delle faccende domestiche, mantenevano intatta la loro castità e vegliavano sull’onore della famiglia. All’epoca la politica era una questione prettamente maschile. Livia ne era consapevole: sapeva che per far sì che la sua discendenza governasse Roma doveva
SCALA, FIRENZE
Poco prima, nel 39 a.C., nella vita privata di quel giovane patrizio si era verificata una svolta decisiva. All’età di ventiquattro anni Ottaviano si era già sposato due volte. Prima con Clodia, una ragazza prossima alla pubertà che ripudiò subito, «ancora illibata e vergine», secondo quanto tramandato dal suo biografo Svetonio, e poi con Scribonia, che sposò per ragioni puramente politiche. Dieci anni più anziana di lui e due volte vedova, la seconda moglie non suscitò mai un affetto profondo nel futuro imperatore, che non esitò a divorziare da lei il giorno stesso in cui la donna partorì la loro figlia Giulia. Secondo Svetonio la separazione fu dovuta al fatto che Ottaviano fosse «stufo dei suoi costumi corrotti», ma la vera ragione di tale decisione fu probabilmente un’altra donna che entrò nella sua vita in quello stesso momento: Livia Drusilla, una ragazza di diciannove anni bella, intelligente e dalla forte personalità. Tacito racconta che appena Ottaviano la vide «ne fu colpito» e decise di sposarla. Il fatto che Livia fosse coniugata con un aristocratico di nome
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VIVERE AL SERVIZIO DI ROMA
R N-G / RM
27 a.C.
Dopo aver divorziato da Tiberio Claudio Nerone, sposato nel 43 a.C., Livia contrae matrimonio con Ottaviano.
Ottaviano è proclamato imperatore e prende il nome di Augusto. Livia viene esaltata dalla propaganda ufficiale.
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DP AL A IS
38 a.C.
ROVESCIO DI UNA MONETA D’ORO CONIATA IN EPOCA AUGUSTEA. BIBLIOTHÈQUE NATIONALE DE FRANCE, PARIGI.
4 d.C.
14 d.C.
29 d.C.
Dopo la morte dei suoi eredi e non avendo discendenza con Livia, Augusto nomina suo successore Tiberio, il figlio della moglie.
Augusto muore all’età di 76 anni. Nel suo testamento adotta Livia, che entra così a far parte della gens Iulia.
Livia muore a Roma a 86 anni, in contrasto con il figlio Tiberio. Nel 41 d.C. viene divinizzata dal nipote, l’imperatore Claudio.
COPPIA IMPERIALE. IN QUESTO RILIEVO DELL’ARA PACIS DI ROMA, LIVIA È AL CENTRO, TRA AGRIPPA (A SINISTRA) E IL FIGLIO TIBERIO. AUGUSTO È RAFFIGURATO NEL PANNELLO OPPOSTO.
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I RACCONTA CHE DURANTE IL BANCHETTO seguito alle
loro nozze Livia fosse sdraiata accanto a Ottaviano, suo novello sposo, quando un giovane si avvicinò alla coppia e, con modi più impertinenti che spiritosi, chiese alla donna: «Cosa ci fai qui, se tuo marito è là?», indicando Tiberio Claudio Nerone, l’ex consorte dal quale la donna aveva divorziato per sposare Ottaviano. Il commento non ebbe conseguenze, ma non sarebbe accaduto lo stesso se quell’osservazione fosse stata fatta qualche anno più tardi, quando Livia era diventata per i romani un esempio di virtù.
CLODIA SCRIBONIA
AUGUSTO (63 a. C .-14 d. C .)
GIULIA (39 a. C .-14 d. C .)
LIVIA (58 a. C .-29 d. C .)
TIBERIO (42 a. C .-37 d. C .)
TIBERIO CLAUDIO NERONE
DRUSO (38-9 a. C .)
A. EASTLAND / AGE FOTO STOCK
MATRIMONI E DISCENDENTI DI AUGUSTO E LIVIA.
STATUA DI LIVIA PROVENIENTE DA PAESTUM. MUSEO ARQUEOLÓGICO NACIONAL, MADRID.
mostrarsi davanti al popolo e a suo marito come madre e moglie esemplare. E così fece: s’impose come perfetta matrona e modello di comportamento. Mentre altri membri della famiglia imperiale alimentavano i pettegolezzi e la cronaca scandalistica di Roma, Livia si mostrò sempre, come afferma Tacito, «una donna di irreprensibile moralità, una madre severa, una moglie sollecita e gentile ben oltre quanto ci si potesse attendere da una nobildonna romana». L’imperatore, per l’amore che provava per lei o per l’immagine solida del loro matrimonio che voleva trasmettere allo scopo di rafforzare la sua politica, fece tutto il possibile per metterla in buona luce agli occhi dei romani e contribuì a farne una donna di stato. Ordinò per esempio che fossero collocate in tutta la città delle
statue di Livia – a volte con gli attributi della dea Cerere, simbolo di prosperità e fertilità – e fece coniare delle monete su cui la moglie appariva con i tratti caratteristici di Giunone. Questa era la dea del matrimonio nonché consorte di Giove, del quale Augusto era rappresentante in terra in virtù del suo ruolo di supremo legislatore. L’imperatore concesse alla moglie persino privilegi e onori fino ad allora riservati agli uomini. In questo modo Augusto e Livia stabilirono il modello di famiglia imperiale che avrebbero seguito i loro successori e le classi alte dell’impero.
Costumi esemplari La rilevanza di Livia come moglie dell’imperatore è testimoniata dal suo ruolo di protagonista in un episodio prodigioso tipico della cultura romana. Si diceva che pochi giorni dopo essersi sposata, Livia avesse visitato la residenza che possedeva a Prima Porta, vicino a Veio, e improvvisamente un’aquila (l’uccello di Giove, signore degli dei) volò sopra di lei e le lasciò cadere in grembo una gallina bianca che teneva nel becco un rametto di alloro, pianta simbolo d’immortalità. Livia allevò la prole della gallina e piantò il rametto che secondo Cassio Dione avrebbe messo radici e generato un bosco, da cui furono a lungo prelevati i ramoscelli per celebrare i trionfi imperiali: «Livia era stata così destinata ad accogliere in seno il potere di Ottaviano e a guidarlo in tutti i suoi atti». Anche se lo storico suggerisce che Livia arrivò a dominare il marito, in realtà la donna si limitò a stargli accanto in un privilegiato secondo piano. Gli cuciva le vesti, lo accompagnava nei suoi viaggi e si faceva vedere al suo fianco sul palco del circo. Augusto s’intratteneva con lei in lunghe conversazioni in cui, confidando nella sua discrezione, le raccontava importanti segreti; e si diceva che prendesse persino appunti per non dimenticare le osservazioni della moglie. Eppure l’imperatore non si sforzò mai di rimanerle fedele. A Roma la sua passione per le donne sposate era notoria, nonostante il fatto che nel 18 a.C. lui stesso avesse presentato in senato la lex Iulia, che prevedeva l’istituzione di un processo contro le donne che si macchiavano di adulterio. Ma una cosa era promulgare leggi e un’altra governare con
HERCULES MILAS / ALAMY / ACI
Un’impertinenza rimasta impunita
LA LUSSUOSA VILLA DI LIVIA
Questo affresco raffigurante un giardino lussureggiante con uccelli decorava una delle pareti della villa di Livia a Prima Porta, chiamata Ad gallinas albas in riferimento al prodigio che si raccontava sull’imperatrice. Museo nazionale romano, Roma.
L’IMPERATORE TIBERIO. STATUA PROVENIENTE DA PAESTUM. MUSEO ARQUEOLÓGICO NACIONAL, MADRID.
l’esempio. In una lettera riportata da Svetonio, Marco Antonio raccontava storie scabrose sul suo rivale, come per esempio che nel mezzo di un banchetto si fosse portato in camera da letto una donna che era accanto al marito, un ex console, a cui la “restituì” poco dopo «con le orecchie rosse e i capelli spettinati»; o che i suoi amici avevano l’abitudine di spogliare madri di famiglia in sua presenza, per esibirle come se fossero una mercanzia. I difensori di Augusto, invece, lo scusavano dicendo che commetteva questi adulteri per una ragione politica, ovvero per scoprire più facilmente i piani dei suoi avversari attraverso le rispettive mogli. Preoccupata per l’immagine della famiglia ma soprattutto per la propria, Livia preferiva
lasciare che il marito facesse ciò che voleva senza intromettersi, per non dare adito a maggiori scandali. Se si dà retta a Svetonio, gli procurò persino delle fanciulle da deflorare. Una volta, quando Augusto era ormai morto, qualcuno le chiese come fosse riuscita a influenzare così tanto l’imperatore, e lei rispose: «Facendo senza problemi tutto quello che mi chiedeva, senza interferire nei suoi affari né pretendere di partecipare ai suoi passatempi passionali». Oltre a essere un esempio di moralità, una buona matrona romana aveva il compito di assicurare la discendenza della famiglia del marito. Nel caso dell’imperatore questo era ancora più importante. Augusto voleva evitare l’incertezza che era seguita alla morte di Giulio Cesare – scomparso senza lasciare un legittimo erede diretto – e puntava a designare un successore della sua famiglia, la gens Iulia, possibilmente suo figlio.
Senza la sospirata discendenza Livia, che quando si era sposata con Augusto aveva già due figli, sembrava destinata ad assolvere a questo dovere senza problemi. Ma il bambino generato dalla coppia imperiale morì a pochi giorni dalla nascita e Livia non rimase più incinta. Poiché era dovere di ogni nobile matrona mettere al mondo degli eredi, Augusto avrebbe potuto ripudiarla, ma per qualche motivo – forse per amore – la tenne al suo fianco e preferì cercare altri modi per procurarsi una discendenza, principalmente attraverso i nipoti che gli aveva dato Giulia (la figlia avuta con la seconda moglie Scribonia). Due dei tre nipoti maschi morirono però in giovane età e il terzo fu mandato in esilio a causa del suo carattere violento e insensato. Ad Augusto rimase allora la sola opzione di nominare suo successore il figlio maggiore di Livia, Tiberio. Invece Druso, il suo figlio minore, era morto nel 9 a.C. La sua scomparsa fu un dramma personale che Livia aveva superato cercando conforto nella filosofia, a dimostrazione della forza del suo carattere; nelle parole di Seneca, «appena lo depose nella tomba, vi depose insieme anche il proprio dolore». Livia ottenne che Augusto desse in sposa a Tiberio sua figlia Giulia. Il matrimonio si sarebbe rivelato un disastro.
RICCARDO AUCI
PRISMA / AL
BUM
ACQUERELLO JEAN-CLAUDE GOLVIN. MUSÉE DÉPARTEMENTAL ARLES ANTIQUE © JEAN-CLAUDE GOLVIN / ÉDITIONS ERRANCE
TEMPIO DEDICATO AD AUGUSTO E LIVIA NELLA CITTÀ DI VIENNE, IN GALLIA, ERETTO ALL’INIZIO DEL I SECOLO D.C.
LA CASA DI ROMA
Sul Palatino sono stati scoperti i resti di una domus, o casa, che è stata attribuita a Livia perché il suo nome appare inscritto su un tubo di piombo nel tablino, o studio. Nella foto, la stanza a sinistra del tablino, sobriamente decorata.
La morte sospetta di Augusto
Tiberio. Secondo alcune ipotesi, avrebbe provato ad avvelenare lo stesso Augusto al crepuscolo della sua vita, temendo che volesse cambiare il proprio testamento e nominare suo successore Agrippa Postumo, il figlio più giovane di Giulia, invece di Tiberio. Ma tutte queste voci non sono sostenute da prove e sembrano generate dalle opinioni tendenziose delle fonti classiche quando trattano le figure delle donne potenti, come avviene per Messalina o Agrippina. È altamente improbabile che Livia avesse pianificato o portato a termine qualsiasi atto criminale contro Augusto o i suoi familiari.
A
UGUSTO MORÌ il 19 agosto del 14 d.C., quando si trovava nella sua villa di Nola, vicino a Napoli. Cassio Dione riporta la voce secondo la quale Livia lo uccise facendogli mangiare dei fichi avvelenati presi da un albero da cui Augusto amava raccogliere personalmente i frutti. Questa storia è ritenuta per lo più una falsità diffusa più tardi da alcuni storici. Lo scrittore Anthony Everitt, invece, nella sua biografia dell’imperatore pubblicata nel 2006, propone un’interpretazione alternativa. Dopo un periodo in cui la sua salute peggiorava e sentiva la morte avvicinarsi, Augusto ebbe un leggero miglioramento e probabilmente pensò di rimettere in discussione la scelta di nominare suo successore Tiberio. Per evitare contrattempi Livia avrebbe deciso che sarebbe stato meglio affrettare la morte del marito. Secondo Everitt, la scelta di Livia andrebbe inquadrata nel contesto del «cupo senso del dovere che caratterizzava la cultura politica romana».
SCALA, FIRENZE
Su questo altare Augusto è raffigurato al centro con il bastone di augure, affiancato da Livia e dal nipote Gaio. Galleria degli Uffizi, Firenze.
L’unico figlio della coppia morì in giovane età; poi Tiberio lasciò Roma, forse per allontanarsi dagli adulteri della moglie. Qualche anno dopo Livia riuscì a fare in modo che Augusto lo richiamasse in città e lo nominasse suo successore. La continuità della dinastia, ora chiamata Giulio-Claudia, era ormai garantita. Dopo Tiberio avrebbero regnato il pronipote di Augusto, Caligola, il nipote Claudio e il trisnipote Nerone. Tutti questi intrighi di palazzo spinsero molti a considerare Livia una donna senza scrupoli, capace di qualsiasi cosa pur di assicurare la successione di suo figlio Tiberio al governo di Roma. Si diceva addirittura che avesse usato il veleno per sbarazzarsi dei pretendenti al trono imperiale che avrebbero potuto rivaleggiare con
Augusto morì all’età di settantasei anni. Avrebbe speso le sue ultime parole per la moglie, alla quale avrebbe detto: «Addio, Livia, non dimenticare mai il nostro matrimonio». Questa frase è stata interpretata come una prova del fatto che tra Augusto e Livia ci fossero amore genuino e devozione reciproca, a differenza di ciò che avveniva di solito nelle relazioni tra le persone di alto lignaggio, che tendevano a sposarsi principalmente per interessi politici e sociali. Nel suo testamento l’imperatore lasciò a Livia un terzo del patrimonio familiare e la adottò come figlia. Lei cambiò il suo nome in Giulia Augusta e divenne una sacerdotessa ufficiale del culto di Augusto deificato. Era infatti riuscita a far divinizzare il marito pagando profumatamente un senatore affinché giurasse di aver visto Augusto ascendere al cielo subito dopo la cremazione. Morì quindici anni dopo il consorte, a ottantasei anni, e fu sepolta nel mausoleo di Augusto. Alcuni anni dopo fu divinizzata per ordine del nipote Claudio, che disprezzava intensamente. Poche coppie nella storia sono state capaci di lasciare un’impronta così profonda – sebbene colma di torbidi aspetti umani – sul futuro di un popolo come quella di Livia e Augusto nella storia di Roma. ESTEBAN BÉRCHEZ CASTAÑO FILOLOGO
Per saperne di più
SAGGI
Livia Lorenzo Braccesi. Salerno, Roma, 2016. Augusto, braccio violento della storia Luca Canali. Bompiani, Milano, 2011.
BRIDGEMAN / ACI
ALTARE DEDICATORIO
GETTY IMAGES
LIVIA OSSERVA IL MARITO AUGUSTO SUL LETTO DI MORTE. INCISIONE.
Un matrimonio divinizzato
TRE DEE IN UNA
Questo cammeo romano in sardonica raffigura Livia con una corona turrita sul capo come la dea Cibele; con un covone di grano in mano come Cerere; e con una spalla scoperta come Venere. L’imperatrice osserva un busto di Augusto deificato. Kunsthistorisches Museum, Vienna.
CERERE BORGHESE. STATUA DI MARMO DI 2,5 METRI DI ALTEZZA. PRIMA METÀ DEL I SECOLO D.C. MUSÉE DU LOUVRE, PARIGI.
Livia appare vestita come una matrona. Spesso inoltre viene ritratta con gli attributi della dea Cerere-Fortuna. Nell’opera presentata in questa pagina e conservata presso il museo del Louvre, l’imperatrice è rappresentata con un mazzo di spighe e papaveri nella mano destra, e una cornucopia (corno dell’abbondanza) nella sinistra; è vestita con un chitone (abito greco stretto sotto il seno) e un himation, o mantello, con cui si copre la testa. Assimilata alla dea dell’agricoltura e al contempo alla Fortuna, la moglie di Augusto esprimeva così il suo ruolo femminile nella sfera domestica e simboleggiava il benessere dello stato, garantito dal governo del marito. La dea Cerere insegnava agli uomini a coltivare la terra ed era quindi considerata la madre del genere umano; allo stesso modo, Livia era menzionata in alcune iscrizioni di monete come la genetrix orbis, “madre del mondo”.
IN NUMEROSE STATUE che la raffigurano,
LIVIA, LA MADRE DI ROMA
HERVÉ LEWANDOWSKI / RMN-GRAND PALAIS
DANTE SETTECENTO ANNI D’INFERNO Nell’oltretomba descritto nella sua opera più famosa, la Commedia, il “sommo poeta”, di cui ricorre il settecentenario della morte, relegò personaggi della Firenze del suo tempo, costruendo uno spietato ritratto della realtà storica in cui visse
I MONDI DI DANTE
Nella tavola Dante col libro della Commedia, tre regni e la città di Firenze, il poeta indica con la mano destra i tre regni ultraterreni: in basso l’inferno, al centro il purgatorio e in alto il paradiso. Domenico di Michelino, 1465. Cattedrale di Santa Maria del Fiore, Firenze. SCALA, FIRENZE
ALAMY / ACI
EDIZIONE DELLA COMMEDIA CURATA DA LUDOVICO DOLCE. SI TRATTA DELLA PRIMA OPERA A STAMPA IN CUI COMPARE L’ATTRIBUTO DIVINA, AGGIUNTO AL TITOLO ORIGINALE DA GIOVANNI BOCCACCIO. 1555.
B
ella, la madre di Dante Alighieri, sognò «di essere sotto un altissimo alloro […] e quivi si sentia partorire uno figliolo, il quale nutricandosi solo delle orbache, le quali dallo alloro cadevano […] le parea divenisse un pastore […] le parea vederlo cadere. E nel rilevarsi non uomo più, ma uno paone li vedea divenuto». Il racconto di Giovanni Boccaccio era allegorico: le bacche indicavano la cultura di cui si era“nutrito”Dante, l’alloro rimandava alla gloria poetica, la caduta alla sua morte e la trasformazione in pavone alla fama che le sue opere gli procurarono. Tra queste, la più nota è di certo la Commedia, la cui stesura è intimamente connessa alla vita politica del poeta. Dante Alighieri nacque a Firenze nel maggio del 1265 sotto il segno zodiacale dei gemelli, come ricorda lui stesso nel Paradiso. Il suo vero nome era Durante, ma non lo usò mai, secondo Filippo Villani – un cronista del XIV secolo – perché a Firenze a quel tempo si era soliti usare i diminutivi. Era figlio di Alighiero – un uomo d’affari e molto probabilmente anche usuraio – e di Bella, che si ritiene appartenesse alla potente famiglia 66 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
C R O N O LO G I A
1265
UN UOMO FIGLIO DEL SUO TEMPO
Durante Alighieri, passato alla storia come Dante, nasce nel mese di maggio a Firenze. Figlio di Alighiero e Bella, rimane presto orfano di madre.
PALAZZO VECCHIO, LA SEDE DEL GOVERNO
La costruzione del palazzo dei Priori, com’era noto all’epoca l’edificio, ebbe inizio nel 1299 e terminò nel 1314. Dante fu eletto priore di Firenze per il bimestre 15 giugno-15 agosto 1300. MICHELE FALZONE / AWL IMAGES
1290
1300
1302
1318
1321
Un lutto improvviso segna la vita del poeta: Beatrice Portinari, sua fonte d’ispirazione e donna amata, muore. Dante inizia a lavorare alla Vita Nuova.
Bonifacio VIII indice il primo giubileo. In questo stesso anno Dante ricopre la carica di priore ascritto all’arte dei medici e speziali della città di Firenze.
Alla fine del 1301 i guelfi neri s’impossessano di Firenze. Il 27 gennaio 1302 Dante viene condannato all’esilio e in seguito a morte in contumacia.
Dante decide di stabilirsi a Ravenna, il cui signore era Guido Novello da Polenta. Qui tiene forse una cattedra di poesia e di retorica e termina la stesura della Commedia.
Il 13 o il 14 settembre il “sommo poeta” si spegne in Romagna, «quella dolce terra» di cui racconta nel XXVII canto dell’Inferno. È sepolto a Ravenna.
L’ESILIO: LA CHIAVE DELL’OPERA NEL GENNAIO 1302 il podestà Cante de’ Gabrielli di Gub-
bio apre un’inchiesta contro i guelfi. Dante è accusato di baratteria, concussione e opposizione al pontefice, per cui è condannato in contumacia a due anni di esilio e in seguito a morte. È in questo momento cruciale della sua vita che, secondo alcuni, Dante accetta la sua condizione di peccatore e inizia a comporre la Commedia. Incarna quindi il cosiddetto everyman del teatro popolare medievale britannico: un uomo qualunque che lotta contro i vizi. Per respingere il male Dante deve anzitutto conoscerlo: così l’Inferno diventa una sorta di catalogo delle malvagità; il Purgatorio rappresenta l’accettazione del peccato e la preparazione all’espiazione; il Paradiso mostra i benefici che si otterrebbero nel seguire la retta via.
BRITISH LIBRARY / BRIDGEMAN / ACI
MINIATURA CHE RAFFIGURA LA CACCIATA DI DANTE DA FIRENZE. XIV SECOLO. BRITISH LIBRARY, LONDRA.
fiorentina degli Abati. La donna morì quando Dante era piccolo e il padre, già avanti con l’età, si risposò con una donna di nome Lapa da cui ebbe almeno un figlio, che chiamarono Francesco. Dante aveva certamente anche una sorella di nome Gaetana, detta Tana. I genitori del poeta non vengono mai menzionati nelle sue opere, mentre nel Paradiso il fiorentino parla di Cacciaguida, un suo trisavolo che sarebbe stato nominato cavaliere dall’imperatore Corrado III durante le crociate.
Famoso anche in vita A differenza di tanti altri uomini del suo tempo, su Dante sappiamo molte cose, sia perché le raccontò lui stesso nelle sue opere, sia perché, essendo un personaggio noto quando era
FRANCESCO IACOBELLI / AWL IMAGES
ancora in vita, le informazioni sulla sua figura abbondano. Secondo alcuni studi ottocenteschi soffriva di attacchi di epilessia, che spiegherebbero i frequenti mancamenti descritti nell’Inferno. Questa tesi però non ha mai trovato particolari riscontri tra gli esperti. Sono invece noti i suoi problemi alla vista, che cercava di curare stando al buio e con sciacqui di acqua fresca.
Secondo diverse fonti, Dante aveva un brutto carattere e si scaldava facilmente soprattutto nelle discussioni di politica. Si racconta, per esempio, che quando era esule in Romagna montava su tutte le furie contro chiunque parlasse male della fazione che lui sosteneva, quella dei guelfi. Il fiorentino aveva molto a cuore questo schieramento, per il quale prese parte alla battaglia di Campaldino,
che vedeva appunto i guelfi filopapali contrapposti ai ghibellini filoimperiali. Nel 1277, quando Dante aveva circa dodici anni, la famiglia combinò il suo matrimonio con Gemma, una ragazza appartenente alla potente famiglia fiorentina dei Donati. Le nozze si celebrarono tra il 1283 e 1285. Eppure il poeta era innamorato di un’altra. Ogni primo maggio a Firenze si celebrava l’arrivo della bella stagione con banchetti e musica in tutta la città. Le donne e gli uomini festeggia-
MARTE A FIRENZE
Nell’Inferno Dante cita la statua perduta di un guerriero anticamente posta su ponte Vecchio, che ricordava come il dio greco fosse stato il patrono della Firenze pagana.
Pare che Dante avesse un brutto carattere, che si scaldasse nei diverbi, soprattutto se si parlava male dei guelfi bianchi STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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Dio
circondato dai nove cerchi angelici
Primo immobile
I nove cieli
Purgatorio Terra Inferno
PIANO SCHEMATICO DEL PARADISO VISITATO DA DANTE E BEATRICE. MARY EVANS PICTURE LIBRARY, LONDRA.
IL NUMERO PERFETTO NELLA COMMEDIA il numero tre rimanda alla trinità cri-
stiana formata da padre, figlio e spirito santo. Dante attraversa tre regni assieme a tre personaggi: Virgilio, Beatrice e san Bernardo. L’opera è scritta in terzine incatenate di endecasillabi e divisa in tre cantiche, ognuna composta da 33 canti (l’Inferno ne ha 34, forse per raggiungere il numero 100). Prima di addentrarsi nei nove cerchi dell’inferno (tre al quadrato), Dante s’imbatte in tre fiere; al suo interno attraversa tre fiumi e incontra Cerbero – il cane a tre teste – e Lucifero, dotato di tre volti. Al purgatorio si accede salendo tre gradini, ci sono sette cornici, ma insieme all’antipurgatorio e al paradiso terrestre si arriva a nove. Il paradiso ha nove cieli più l’empireo: qui Dante ha la visione della trinità, composta da tre cerchi di uguale grandezza e diverso colore.
MARY EVANS / SCALA, FIRENZE
Gerusalemme
vano separatamente, ma ciò non valeva per i bambini. Fu così che nel 1274 Dante vide per la prima volta Beatrice (Bice) Portinari, con indosso uno sgargiante abito rosso. Lei aveva circa otto anni, lui nove. «D’allora innanzi dico che Amore segnoreggiò la mia anima», avrebbe affermato in seguito nella Vita Nuova, sebbene dopo quel primo incontro infantile i due non si videro più, se non diversi anni più tardi. Nel ritrovarla il fiorentino capì che il suo amore era immutato. Quando poi la donna morì prematuramente nel 1290, forse dando alla luce il suo pimo figlio, per elaborare il lutto Dante si promise di scrivere un’opera per «dicere di lei quello che mai non fue detto d’alcuna». È il poeta stesso ad annunciare questo proposito nelle ultime righe della Vita Nuova, e diversi studiosi hanno visto, in questa dichiarazione d’intenti, un chiaro riferimento alla Commedia. Secondo altri, invece, l’opera in questione sarebbe piuttosto un testo andato perduto. Dante Alighieri fu molto attivo politicamente e nel giugno 1300 fu eletto priore, la più importante magistratura cittadina. Firenze però era sull’orlo di una guerra civile. Il partito dominante, quello dei guelfi, si era scisso in due fazioni, i bianchi e i neri. I primi – cui il poeta era affine – difendevano la libertà della città, mentre i secondi appoggiavano le mire di Bonifacio VIII, desideroso d’ imporre il proprio dominio sulla Toscana. Pur cercando di rimanere neutrale, il fiorentino tentò di contrastare i maneggi del pontefice e, quando i guelfi neri presero il potere nell’autunno del 1301, fu accusato di «baratteria, frode, falsità, dolo, malizia, inique pratiche estorsive, proventi illeciti, pederastia». La condanna a cinquemila fiorini di multa, all’interdizione dai pubblici uffici e all’esilio perpetuo e poi a morte lo costrinsero ad abbandonare Firenze e a rifugiarsi a Ravenna. Sarebbe morto tra il 13 e il 14 settembre del 1321 senza mai riuscire a fare ritorno nella sua amata città. L’esilio, la sua esperienza in politica e la vita da esule avevano mostrato a Dante una società caotica, violenta e corrotta, in cui l’imperatore si disinteressava dell’Italia e la Chiesa perseguiva il potere temporale anziché la cura
SUGGERIMENTI PER QUALCHE CITAZIONE O ANEDDOTO IN EVIDENZA?
MARY EVANS / SCALA, FIRENZE
delle anime. Fu allora che il poeta immaginò un viaggio nei tre regni dell’oltretomba, nel quale si proponeva di esplorare la sofferenza dell’inferno, il pentimento del purgatorio e l’ascensione verso Dio del paradiso così da ritrovare la «dritta via» e mostrarla agli uomini nel suo poema. Secondo Boccaccio, dopo l’esilio di Dante Gemma Donati aveva trovato in un baule i primi sette canti dell’Inferno, la prima delle tre cantiche della Commedia. Tuttavia è più probabile che il poeta vi abbia messo mano solo dopo aver lasciato Firenze.
Un principio ordinatore Il viaggio che il “sommo poeta” racconta nella Commedia inizia con la discesa agli inferi tra fiamme, demoni e castighi eterni, un topos che
non ha mai smesso di affascinare. Il fiorentino fece proprie le esperienze infernali di personaggi come Orfeo, Teseo ed Ercole tramandate dalla tradizione classica e nella sua opera river-
sò le conoscenze di tutta la vita. Alcuni testi – come l’Eneide di Virgilio, il De Repubblica di Cicerone, il De Babilonia civitate infernali di Giacomino da Verona, ma pure l’Apocalisse di Giovanni, la Seconda lettera ai Corinzi di Paolo e il pensiero dei padri della Chiesa – ne influenzarono il carattere profetico, l’impianto teologico e lo stile poetico, contribuendo a definire la struttura e il senso dell’opera. Se per i suoi predecessori l’inferno era un indistinto carnaio nel quale le anime erano collocate in maniera piuttosto casuale, Dante adottò dal pensiero di san Tommaso
SU PONTE VECCHIO
Il preraffaellita Henry Holiday immagina così il secondo incontro tra Dante e Beatrice. Olio su tela. 1883. Walker Art Gallery, Liverpool.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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I Limbo
Cerbero, il mitologico cane a tre teste, sorveglia il terzo cerchio, quello dei golosi. I dannati sono immersi in una fanghiglia nauseabonda e frustati da una pioggia incessante.
III Golosi
I dannati attendono che Caronte li trasporti sull’altra sponda del fiume Acheronte. Coloro che non hanno conosciuto Dio, e che quindi non meritano l’inferno vero e proprio, trascorreranno l’eternità nel primo cerchio.
Qui Dante colloca i colpevoli di due peccati, condannati a spingere enormi massi. Quando si scontrano tra loro si urlano contro e poi riprendono il loro peregrinare incessante.
IV Avari e prodighi
Chi si è fatto dominare dalle passioni nella morte è trascinato senza sosta da una bufera eterna.
II Lussuriosi
Nell’antinferno gli ignavi sono condannati a correre nella nebbia, dietro a un vessillo irraggiungibile, punti da vespe e mosconi.
«Dinanzi a me non fuor cose create / se non etterne, e io etterno duro. /Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate». Queste parole ammoniscono chiunque si appresti a varcare la soglia dell’inferno dantesco. In compagnia di Virgilio il “sommo poeta” si addentra in una spirale di castighi eterni in cui i dannati soffrono le conseguenze delle loro azioni terrene. Il viaggio di Dante è una presa di coscienza della sua condizione di peccatore, il primo passo verso la redenzione.
CERCHI DI FUOCO E GHIACCIO
I primi si colpiscono eternamente a vicenda mentre, sotto la superficie della palude Stige, gli accidiosi – iracondi che non hanno dato sfogo alla rabbia – fanno gorgogliare l’acqua con i loro mormorii.
V Iracondi e accidiosi
All’inferno si gela. E nel ghiaccio creato dal battito terrificante delle ali di Lucifero sono intrappolati i traditori di chi si fida: dei parenti, della patria, degli ospiti e dei benefattori.
IX Traditori
È il cerchio più strutturato, l’unico con un nome proprio, composto da dieci bolge una più terrificante dell’altra. Qui Dante relega i fraudolenti, coloro che ingannano chi non si fida.
VIII Malebolge
Centauri e arpie dominano il settimo cerchio, suddiviso in tre gironi: violenti contro il prossimo, contro sé stessi e contro Dio. A ciascuno corrisponde una punizione diversa.
VII Violenti
In questo cerchio si trovano i capi delle sette eretiche e i loro seguaci. Giacciono in tombe di pietra infuocate, soffrendo in proporzione alla dottrina in cui credevano in vita.
VI Eretici
ILLUSTRAZIONE: SANTI PÉREZ
d’Aquino un principio ordinatore: non tutti i peccati erano uguali. La natura e la gravità del peccato designavano la collocazione di ciascuna anima nell’inferno e la relativa pena da scontare per l’eternità. Per effetto della “legge del contrappasso” (dal latino contrappassum,“soffrire contro”) al comportamento tenuto dal peccatore in vita corrispondeva una pena, antitetica oppure analoga, nell’oltretomba. Ad esempio gli indovini (XX canto, VIII cerchio) vengono puniti per antitesi: se da vivi avevano spinto la propria testa troppo in avanti per prevedere il futuro, nell’inferno hanno il viso rivolto all’indietro e sono costretti a camminare in quella direzione. Per analogia, invece, venivano puniti i lussuriosi (V canto, II cerchio): da vivi erano guidati dal turbinio dei sensi, mentre ora sono trascinati dalla bufera infernale.
Il “sommo poeta” è mosso dall’intento morale di condurre gli uomini alla rettitudine e alla salvezza. Per far ciò ha bisogno di mostrare tutto il male, mettendolo in scena in un unico luogo fisico e reale dove ogni elemento, orrendo e ostile, è parte di una complessa macchina del terrore. Per la definizione di tale contesto, in suo soccorso viene la tradizione della ribellione a Dio da parte dell’invidioso e superbo angelo Lucifero. Questi, dopo essere stato sconfitto dall’arcangelo Michele, precipitò fino al centro della Terra dotato di sembianze mostruose. Impattando sulla crosta terrestre, il principe del male diede vita a una voragine dalla forma di un grande cono rovesciato diviso in cerchi concentrici, sul cui fondo, nel punto più lontano dalla grazia di Dio e agli antipodi rispetto alla città di Gerusalemme, regna enorme e incontrastato.
Per configurare il proprio oltretomba Dante fa riferimento al sistema cosmologico tolemaico. In tale prospettiva la voragine infernale è situata nell’emisfero boreale (o settentrio-
DAGLI ORTI / SCALA, FIRENZE
Scenari danteschi
I CENTAURI SUL FLEGETONTE
Illustrazione del XII canto rinvenuta in un manoscritto del 1450-75. Arnesto Pidi. Biblioteca Trivulziana, Milano.
Terre brulle e franose, antri, paludi, strapiombi, lingue di fuoco e acque morte danno vita a scenari spaventosi e simbolici 74 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
nale o delle terre emerse) e ha il proprio centro nella città di Gerusalemme. Nell’emisfero opposto (meridionale o delle acque) sorge invece la montagna del purgatorio, il secondo dei regni ultraterreni, a sua volta sormontato dai nove cieli del paradiso. «Nel mezzo del cammin» della sua vita, Dante si ritrova dunque smarrito in una selva oscura, al di sotto della quale si cela l’accesso agli inferi, divisi in nove cerchi concentrici e tre diverse zone: antinferno, alto e basso inferno. Terre brulle e franose, antri, paludi, strapiombi, lingue di fuoco e acque morte danno vita a scenari spaventosi e fortemente simbolici. Lo stesso sistema fluviale dell’averno è metafora di un’umanità addolorata e piangente. Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito deriverebbero infatti
da un unico fiume originatosi dalle lacrime sgorganti dall’enorme statua del gran Veglio a Creta, che simboleggia la civiltà umana corrotta dal peccato. Attraverso i fiumi, le lacrime versate giungono in forma di spirale nel punto più basso dell’inferno a formare il lago Cocito, le cui acque ghiacciate intrappolano Lucifero, origine e destinazione del male. Nell’inferno il tempo non esiste, eccetto per Dante che è un vivente. Dal tramonto di venerdì 8 aprile 1300 (o 25 marzo secondo un’altra teoria) quando il poeta si perde nella selva fino al momento in cui Dante e Virgilio si trovano davanti a Lucifero, la sera di sabato 9 aprile 1300 (o 26 marzo), trascorrono circa ventiquattro ore. In Due lezioni all’Accademia fiorentina circa la figura, sito e grandez-
za dell’inferno di Dante (1588) Galileo Galilei ipotizzò che la profondità dell’inferno superasse le 3.245 miglia. Dante e Virgilio non le percorsero seguendo una linea retta, pertanto la distanza coperta fu in teoria maggiore. Considerando il numero di ore trascorse nel regno infernale, è possibile calcolare che i due procedevano a una velocità superiore ai 200 km/h. Ma in un viaggio voluto da Dio, funzionale alla rieducazione di un’anima prossima alla perdizione, tali parametri non valgono nulla.
Dannati e carcerieri Per popolare quel regno malefico fatto di «aere senza stelle», privato cioè della luce della grazia di Dio, Dante ricorre a personaggi della mitologia classica e della demonologia medievale. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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Le creature mostruose rappresentano la bestialità del peccato, ma in generale il loro ruolo è quello di sorvegliare e redarguire i dannati o favorire il transito dei due illustri viandanti. Sulla «trista riviera» del fiume Acheronte (canto III, antinferno) sta Caronte, il nocchiero infernale «con gli occhi di bragia», che batte col remo le anime che si attardano nell’oltrepassare la «riva malvagia». Per Dante, Caronte non è altro che una delle antiche divinità pagane, false e bugiarde, cui spetta il compito di carcerieri dell’immenso oltretomba. Poco prima d’incontrare il demone-traghettatore dalla folta barba bianca, Dante e Virgilio s’imbattono in una schiera di «anime triste di coloro che visser sanza‘nfamia e sanza lodo». Sono gli ignavi, che nelle tante vicissitudini della vita non seppero scegliere. Per effetto del contrappasso ora sono costretti a correre nudi, perseguitati da vespe e mosconi nel tentativo di afferrare una bandiera volante, emblema di una causa per la quale avrebbero dovuto battersi in vita.
Peccatori illustri
SCALA, FIRENZE
BONIFACIO VIII INAUGURA IL PRIMO GIUBILEO. COPIA DI UN AFFRESCO DI SAN GIOVANNI LATERANO OPERA DI JACOPO GRIMALDI. BIBLIOTECA AMBROSIANA, MILANO.
ANCHE I PAPI TROVANO POSTO ALL’INFERNO NEL SUO AVERNO Dante non risparmia nemmeno i pon-
tefici. Nel III canto, tra i pusillanimi, si trova «colui che fece per viltade il grande rifiuto», identificato probabilmente in Celestino V, che nel XIII secolo rinunciò al pontificato. Tra gli eretici c’è Anastasio II, papa dal 496, colpevole di essere troppo conciliante con Fotino, un vescovo suo contemporaneo che aveva posizioni considerate eretiche. Tra i simoniaci (coloro che mercificano i beni spirituali come le indulgenze) Dante profetizza l’arrivo del suo grande nemico Bonifacio VIII – ancora in vita al momento del viaggio immaginario del poeta –, che trascorrerà l’eternità nello stesso girone di Clemente V, definito da Dante «un pastor sanza legge», troppo impegnato a sostenere il re di Francia, Filippo II.
Tra gli ignavi Dante afferma di riconoscere «l’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto». In tale figura si è portati a riconoscere Pietro da Morrone, il monaco eremita che nel 1294 venne eletto papa col nome di Celestino V. Dopo una vita di solitudine e silenzio, il pontefice si trovò invischiato in insostenibili intrighi di potere che lo portarono a rinunciare al soglio pontificio. Dietro questa scelta ci fu probabilmente la regia del cardinal Caetani, poi eletto papa col nome di Bonifacio VIII, sostenitore occulto della fazione dei guelfi neri che prese il potere a Firenze nel 1301 e che successivamente costrinse Dante all’esilio.
A guardia del secondo cerchio (canto V) si trova Minosse, orribile e ringhioso. L’antico re di Creta noto per il suo forte senso di giustizia è ora un demone incaricato di valutare i peccati che gravano sulle anime e decretarne l’esatta collocazione nell’inferno. La creatura avvolge la propria coda intorno a sé un numero di volte corrispondente a quello del cerchio cui è destinato il dannato. Congedatisi da Minosse, Dante e Virgilio giungono in un luogo oscuro dove risuonano lamenti di
WHITE IMAGES / SCALA, FIRENZE
dolore. Proprio in quel momento una «bufera infernal» trascina, solleva e percuote alcune anime. Sono i «peccator carnali», o lussuriosi, coloro che da vivi non seppero controllare il turbinio delle passioni e ora sono sballottati da una tempesta perenne. Fra loro Dante nota due anime che «’nsieme vanno, e paion sì al vento esser leggieri»: sono Paolo Malatesta e Francesca da Rimini, gli amanti uccisi da Gianciotto, il marito di lei. Il racconto delle sofferenze di Francesca turba Dante al punto di farlo piangere di compassione e poi perdere i sensi. Nel terzo cerchio (canto VI), sotto una pioggia eterna, fredda e opprimente si materializza Cerbero, altra belva mostruosa e vorace che con le sue «tre gole» latra come
un cane verso le anime dei golosi immerse nel fango prima di dilaniarle e divorarle. Dalla melma si solleva uno dei tanti peccatori di gola che si presenta: «Voi cittadini mi chiamaste Ciacco: per la dannosa colpa de la gola, come tu vedi, a la pioggia mi fiacco». Incalzato dal poeta con domande sulla situazione politica di Firenze, Ciacco profetizza che dopo un breve predominio dei guelfi bianchi trionferanno i neri grazie all’appoggio di papa Bonifacio VIII; che in città i giusti si contano
GLI AMANTI DANNATI
In questa incisione Gustave Dorè ritrae Paolo e Francesca, due tra i dannati più famosi dell’opera, abbracciati e trasportati dal vento infernale.
«‘Nsieme vanno, e paion sì al vento esser leggieri»: così il “sommo poeta” descrisse il castigo degli amanti Paolo e Francesca STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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sulla punta delle dita ma nessuno li ascolta, mentre le tre «faville» che hanno infiammato i cuori generando discordia sono superbia, invidia e avarizia. A guardia del IV e V cerchio (VII e VIII canto) stanno altre due creature subumane. Pluto e Flegias sono i demoni-guardiani posti rispettivamente a guardia degli avari e dei prodighi e degli iracondi o accidiosi. Nel primo caso si tratta di anime costrette a spingere macigni in direzioni opposte e a insultarsi quando si scontrano con gli altri dannati. La loro colpa fu quella di non aver avuto misura nell’accumulare (avari) o sperperare il denaro (prodighi) e fra di loro si scorgono molti ecclesiastici la cui figura è però rovinata dal peccato. Nella palude Stigia sono immersi invece gli iracondi, che si sbranano l’un l’altro, o gli accidiosi, coloro i quali vissero passivamente. Nel bel mezzo della traversata della palude sulla veloce imbarcazione del nocchiero Flegias, un dannato sporco di fango chiede in malo modo a Dante perché egli che è vivo si trova nel regno dei morti. Il poeta vi riconosce Filippo Argenti, fiorentino appartenente alla famiglia degli Adimari e alla fazione dei guelfi neri, noto al tempo per la sua prepotenza e arroganza. Dante si rivolge a lui apostrofandolo «spirito maledetto» e alla reazione del dannato che tenta di rovesciare la barca, Virgilio lo ricaccia nel fango. Allora altri dannati si accaniscono su Argenti, che si strappa le carni a morsi. Nella città infernale di Dite (VI cerchio, canto X) all’interno di tombe scoperchiate patiscono gli eretici. Da uno dei sepolcri infuocati emerge Farinata degli Uberti, fiorentino della fazione dei ghibellini, che si trova in questo remoto angolo dell’inferno perché subì un processo postumo per eresia. Dopo una lunga discussione sugli antichi dissapori tra le rispettive famiglie e fazioni, Dante riceverà per bocca dell’esule Farinata un’inattesa profezia. Prima che vi siano cinquanta lune
L’ETERNITÀ DEI TRADITORI
Nell’illustrazione di Gustave Doré Lucifero, intrappolato nel ghiaccio, divora i traditori Giuda, Bruto e Cassio. 1883 circa.
«Conviensi dipartir da tanto male» disse Virgilio a Dante. E insieme iniziarono il lungo cammino verso il pentimento e la salvezza 78 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
piene, e trascorrano altrettanti mesi, il poeta avrà contezza di «quanto quell’arte pesa», cioè di quanto sarebbe stato difficile far ritorno a Firenze dall’esilio del 1302.
Dinanzi a Lucifero La mostruosità sta per raggiungere il proprio apice sul fondo dell’inferno. Nel Cocito, un lago ghiacciato per effetto del vento freddo prodotto dalle ali di Lucifero, vengono puniti coloro i quali in vita tradirono persone che si fidarono del prossimo. Quattro zone concentriche prendono infatti il nome da Caino, Antenore, Tolomeo e Giuda Iscariota, considerati rispettivamente traditori dei parenti, della patria, degli ospiti e di Dio. Nella quarta zona, la Giudecca, dal nome di colui che voltò le
spalle a Cristo, si raggiunge il punto più basso dell’inferno dove Lucifero si staglia davanti a
Dante e Virgilio in tutta la sua mole. «Lo‘mperador del doloroso regno» fuoriesce dal ghiaccio da metà del petto, è enorme e orribile. «Oh quanto parve a me gran maraviglia / quand’io vidi tre facce a la sua testa!», esclama Dante inorridito, mentre osserva le smisurate ali di pipistrello gelare il Cocito con i loro battiti, intrappolando i dannati destinati all’ultimo cerchio. Le tre bocche masticano Giuda insieme a Bruto e Cassio, i traditori di Cesare, mentre i sei occhi piangono copiose lacrime che vanno a mescolarsi alla «sanguinosa bava». Il principe delle tenebre è la rappresentazione della massa bruta del male nella sua massima espressione.
Davanti a questa creatura terrificante si conclude il viaggio di Dante nell’inferno. Virgilio lo sprona a proseguire: «Conviensi dipartir da tanto male», afferma la sua guida. E così, aggrappandosi al pelo di Lucifero e ridiscendendone il corpo fino alle anche, i due iniziano il lungo cammino di risalita verso il pentimento e la salvezza. MATTEO DALENA, STORICO E GIORNALISTA ALESSANDRA PAGANO, STORICA DELL’ARTE
Per saperne di più
SAGGI
Dante Alessandro Barbero. Laterza, Roma-Bari, 2020. Dante. Il romanzo della sua vita Marco Santagata. Mondadori, 2017. Guida alla Divina Commedia. Inferno Gianfranco Bondioni. Ghisetti e Corvi Editori, Milano, 1990.
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XV CA NTO
«[...] Quell’ingrato popolo maligno / che discese di Fiesole ab antico, / e tiene ancor del monte e del macigno, / ti si farà, per tuo ben far, nimico». Tra i sodomiti Dante colloca il suo antico maestro, Brunetto Latini, che gli predice l’esilio. Con il “ben far” Latini si riferisce alla condotta irreprensibile tenuta da Dante mentre ricopriva cariche pubbliche, in contrasto con le accuse mossegli dai suoi concittadini.
1 XXXI I CA NTO
FOTO: 1. PRISMA / ALBUM; 2. GRANGER / AURIMAGES; 3. WHITE IMAGES / SCALA, FIRENZE
Tra i traditori della patria è relegato il conte Ugolino della Gherardesca, nobile pisano dapprima affine ai ghibellini e poi passato dalla parte dei guelfi. Il dannato, mentre addenta il cranio dell’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, racconta a Dante di come, rinchiuso nella torre della Muda di Pisa assieme ai suoi figli considerati colpevoli di tradimento, secondo la leggenda si cibò dei loro corpi per sopravvivere.
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DANNATI ILLUSTRI ALL’INFERNO Dante usa i dannati per esprimere opinioni in merito alla politica o alla società del suo tempo, oppure per auspicare eventi futuri. È il caso di tre personaggi i cui castighi sono illustrati nelle opere dell’artista Gustave Doré: Brunetto Latini, papa Niccolò III e il conte Ugolino della Gherardesca.
2
XI X CA NTO
«Se’ tu già costì ritto, Bonifazio?», chiede a Dante uno dei dannati. A parlare è il pontefice Niccolò III, che il “sommo poeta” condanna a trascorrere l’eternità tra i simoniaci, immerso in una fossa a testa in giù. Costui, scambiando la voce del fiorentino per quella di Bonifacio VIII, gli chiede se fosse già arrivato per prendere il suo posto nella buca. Al momento del viaggio di Dante, nel 1300, Bonifacio VIII è acora vivo.
LUISA RICCIARINI / BRIDGEMAN / ACI
LA STREGONERIA E
L’INQUISIZIONE Anche se la stregoneria era considerata opera del diavolo, l’Inquisizione spagnola guardava con sospetto le accuse di questo genere ed emetteva poche sentenze capitali contro le presunte seguaci del demonio
SEO MU
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STREGHE DA INCUBO
A sinistra, un dipinto di Francisco Goya raffigurante un gruppo di streghe che pratica diversi malefici. Museo Lázaro Galdiano, Madrid. Sopra, emblema del Sant’Uffizio.
M. A. OTSOA DE ALDA / AGE FOTOSTOCK
VISTA DELLA VALLE DI BAZTAN
In questa regione del nord della Navarra si trovano i paesi di Zugarramurdi e Urdax, al centro dell’episodio di stregoneria represso dall’Inquisizione nel 1610.
C R O N O LO G I A
T
ra il XV e il XVIII secolo in tutto il continente europeo si verificarono periodiche ondate di caccia alle streghe. Tutto iniziava con la diffusione di voci su presunte adunanze notturne di uomini e donne – soprattutto donne – che si riunivano in qualche luogo appartato per stringere patti con il diavolo. Si diceva che le fattucchiere potessero volare di notte e che possedessero doti magiche per mezzo delle quali eseguivano malefici. Quando i sospetti aumentavano o veniva formulata un’accusa concreta le autorità, spesso su richiesta della gente del luogo, avviavano una
STREGHE A PROCESSO 84 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
serie d’interrogatori e indagini che culminava in un processo e poteva portare a dure condanne, inclusa la morte sul rogo. Nelle comunità rurali c’erano sempre state persone ritenute depositarie di conoscenze magiche. Potevano essere guaritrici che offrivano pozioni dai presunti effetti miracolosi, o indovini che proponevano consigli su questioni amorose o procuravano amuleti protettivi. Pratiche di questo tipo coesistevano senza grandi problemi con i riti della religione ufficiale, anche se in alcuni casi erano classificate come superstizioni. Fu a partire dal XII-XIII secolo che i teologi comincia-
1370
1526
Adeguandosi alla dottrina del papato, i tribunali di Castiglia iniziano a perseguire la stregoneria come crimine di eresia.
Un consiglio di teologi riunitosi a Granada approva una serie di requisiti rigorosi relativi all’indagine dei casi di stregoneria.
1550 Un inviato del Sant’Uffizio generale censura le azioni dell’Inquisizione di Barcellona, che aveva bruciato sul rogo cinque presunte streghe.
rono a porre in relazione la stregoneria con il demonio, nella convinzione che quest’ultimo intervenisse direttamente nel mondo materiale, e a ritenere che fosse in atto una cospirazione di seguaci del diavolo mirante a rovesciare le fondamenta dell’ordine cristiano. Nel 1326 papa Giovanni XXII, nella bolla Super illius specula, definì la stregoneria come una forma di eresia, il che significava che doveva essere perseguita con tutto il rigore che meritavano i nemici di Dio. Nel 1484 il pontefice Innocenzo VIII ribadì questa posizione. Il crimine di stregoneria venne così inscritto nel diritto civile ed ecclesiastico.
1614 Dopo gli eventi di Zugarramurdi, il Consiglio della suprema Inquisizione emette un regolamento che pone fine alla caccia alle streghe.
Si andava consolidando l’idea che la strega e lo stregone fossero delle persone che facevano patti con il diavolo, eseguivano malefici, erano realmente capaci di volare, frequentavano riunioni, o sabba, e potevano persino trasformarsi a piacimento in altre creature. Alla diffusione di queste idee contribuivano i sermoni dei preti e dei frati, e la stessa attività dei tribunali secolari ed ecclesiastici. Allo stesso tempo vennero scritti numerosi trattati teologici sulla demonologia, la
1750 Nella prima metà del XVIII secolo l’Inquisizione di Logroño istruisce circa 50 processi per stregoneria.
STREGA VOLANTE. DISEGNO DELL’ARTISTA OLANDESE CORNELIS SAFTLEVEN. RIJKSMUSEUM, AMSTERDAM. ALBUM
FALSE ACCUSE
STREGHE INFANTICIDE?
U
n esempio dell’atteggiamento moderato del Sant’Uffizio verso le accuse di eresia è offerto da un caso che arrivò all’Inquisizione di Toledo nel 1591. Il vicario o giudice episcopale di Alcalá de Henares aveva arrestato diverse donne accusate di aver ucciso dei bambini. Una di loro era Juana Izquierda, una vedova di 60 anni. Sotto tortura aveva confessato di essere stata «una notte in un’alcova», dove si erano unite «14 o 15 streghe e alcuni uomini» che l’avevano cosparsa di unguento e poi portata con loro in mezzo ai campi, dove avevano «ballato e cantato borbottando tra i fumi di zolfo». Un’altra notte l’avevano trascinata «con la forza a casa di un maniscalco che era il padre di un bambino poi
morto in loro compagnia». All’andata si era «librata in aria a una mano di distanza dal suolo» mentre al ritorno era «rimasta sui suoi stessi piedi». Portata davanti al Sant’Uffizio, Juana «negò di essere stata una strega e disse che tutto ciò che aveva confessato al vicario di Alcalá era stato per paura dei tormenti». Gli inquisitori la condannarono ad alcune penitenze.
CAGP / PHOTOAISA
ARTI STREGONESCHE
Sopra, un’illustrazione dal trattato Sulle streghe e le donne indovine, del giurista tedesco Ulrich Müller (o Molitor), pubblicato all’inizio del XVI secolo.
“scienza” che permetteva di riconoscere i segni del diavolo e che veniva applicata soprattutto alle streghe. Uno dei più influenti fu il Malleus maleficarum (Il martello delle streghe), che fu ristampato una trentina di volte tra il 1486, anno della prima edizione, e la metà del XVII secolo. I suoi autori, l’inquisitore tedesco Kramer e lo svizzero Sprenger, offrivano una guida per identificare le streghe e istruire i relativi processi. Nella seconda metà del XVI secolo le opere di autori come Lambert Deneau, Jean Bodin, Nicolas Remy o del gesuita belga Martin Antoine del Rio contribuirono in modo decisivo a porre le basi della credenza dell’esistenza
Nel 1526 i teologi invitarono alla prudenza nel giudicare i casi di stregoneria J. BEDMAR / PHOTOAISA
OPUSCOLO IN CATALANO SU UN CASO DI STREGONERIA IN FRANCIA.
della stregoneria. Altri autori invece, come Heinrich Cornelius Agrippa, Ulrich Müller, Samuele Cassini e Johann Wier, erano scettici sull’efficacia dei malefici e rituali attribuiti alle streghe e criticavano le persecuzioni e i processi messi in atto contro di loro.
Dibattito teologico Anche in Spagna, nel corso di tutto il XVI secolo, teologi come Alonso Fernández de Madrigal, Martín de Castañega, Pedro Ciruelo, Francisco de Vitoria o Francisco Suárez svilupparono una dottrina demonologica che può essere considerata mista. In altre parole, accettavano l’esistenza effettiva delle streghe e sostenevano che alcune volte i voli e gli eventi portentosi loro attribuiti potevano essere reali, ma allo stesso tempo ritenevano che nella maggior parte dei casi si trattasse solo d’inganni o fantasticherie. Per questo consigliavano ai giudici di procedere con la massima cautela quando si trattava di determinare ciò che era accaduto in ogni singolo caso.
PAOLO GIOCOSO / FOTOTECA 9X12
L’atteggiamento dell’Inquisizione spagnola nei confronti della stregoneria seguì questa linea. Nel 1526, dopo il proliferare di presunti episodi di tale crimine sui monti della Navarra che aveva portato all’esecuzione di più di trenta persone, l’inquisitore generale Alonso Manrique convocò un consiglio di teologi a Granada per discutere la questione. Con una stretta maggioranza di sei a quattro l’assemblea concluse che, in certe occasioni, i voli notturni con cui le streghe partecipavano alle riunioni sacrileghe erano reali. Tuttavia, considerato che tali fatti erano complessi da trattare, i teologi emisero dieci istruzioni su come gli inquisitori dovessero muoversi in casi del genere. Secondo quanto decisero, venne richiesto ai giudici di procedere a un’analisi approfondita dei fatti per determinare se erano reali o potevano essere attribuiti a fantasie e inganni diabolici. Si stabiliva anche che nessuno potesse essere arrestato o condannato sulla sola base della confessione di altri presunti rei, che le sentenze dovessero essere concordate da tutti gli inquisitori di
ogni tribunale e che, prima di condannare chi si rifiutava di confessare o era relapso (recidivo), fosse necessario consultare il Consiglio della suprema Inquisizione.
Streghe possedute dal diavolo Dopo le disposizioni del 1526 i giudici inquisitoriali tendevano a respingere le accuse di stregoneria o a concludere i processi con assoluzioni e pene minori. Ciononostante, nel 1548 l’Inquisizione di Barcellona perseguì trentatré donne per crimini di stregoneria e cinque di loro furono condannate al rogo in un autodafé – proclamazione della sentenza da parte dell’inquisitore – tenutosi l’anno seguente. In precedenza il magistrato aveva consultato i giudici del tribunale di Barcellona e nove prelati per sapere se le fattucchiere avessero realmente le facoltà demoniache loro attribuite, ed essi avevano risposto all’unanimità che potevano essere possedute corporalmente dal diavolo e «commettere i malefici e causare le morti confessate», e dovevano quindi essere
TOLEDO, CITTÀ INQUISITORIA
Gli episodi di stregoneria che l’Inquisizione di Toledo giudicò nel XVI e nel XVII secolo si conclusero, nei casi più gravi, con fustigazioni e qualche anno di esilio.
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PEDRO DE VALENCIA
COSE IMPOSSIBILI DA CREDERE
P
edro de Valencia era un prestigioso umanista dell’Estremadura che all’inizio del XVII secolo godeva della fiducia del re Filippo III. Quando scoppiò lo scandalo delle streghe di Zugarramurdi, scrisse un lungo discorso per l’inquisitore generale Bernardo de Sandoval in cui confutava la credenza che le streghe fossero agenti del diavolo. Ecco come Pedro de Valencia definiva le confessioni delle imputate nell’autodafé di Logroño del 1610: «Casi sognati e che non sono mai accaduti nel mondo reale né sono mai stati scritti se non in poemi o libri di favole per divertire e spaventare i bambini e la gente volgare». Le testimonianze sulla celebrazione di assemblee notturne con il diavolo alle quali le streghe e gli stregoni si sarebbero
recati in sogno potevano essere spiegate, secondo lui, solo con l’effetto allucinogeno degli unguenti che prendevano o come una sorta di alienazione mentale: «Bisogna esaminare se i detenuti conservano la loro capacità di giudizio o l’hanno persa perché sono demoniaci o malinconici o disperati». L’unica punizione che contemplava era la fustigazione.
ORONOZ / ALBUM
PEDRO DE VALENCIA
Nato a Zafra nel 1555 e morto a Madrid nel 1620, Pedro de Valencia fu un rinomato studioso di letteratura classica e della Bibbia. Qui sopra è visibile il suo ritratto.
«adeguatamente castigate». Ma quando il Sant’Uffizio venne a conoscenza dell’accaduto, ordinò un’indagine che portò alla destituzione dell’inquisitore di Barcellona. L’episodio più grave di caccia alle streghe in cui fu coinvolta l’Inquisizione fu quello accaduto nella valle di Baztan all’inizio del XVII secolo. La lotta alla stregoneria portata avanti dal giudice Pierre de Lancre nella vicina regione francese di Lapurdi ebbe delle ripercussioni anche sugli abitanti del nord della Navarra. Le prime accuse arrivarono al tribunale di Logroño nel 1609 e portarono all’incriminazione di decine di persone, così come alla celebrazione di vari autodafé. Il più
Dopo il 1549 l’Inquisizione della Catalogna non giustiziò più nessuna fattucchiera STREGA BRUCIATA A DERNEBURG (GERMANIA) NEL 1555. GRANGER / AURIMAGES
importante ebbe luogo il 7 e l’8 novembre del 1610 a Logroño. Furono accusate di stregoneria ventinove persone, la maggior parte delle quali abitava a Zugarramurdi e a Urdax; sei di queste furono consegnate al braccio secolare per essere bruciate sul rogo, mentre altre cinque vennero“bruciate in effigie”in quanto erano già morte. Per il tribunale inquisitoriale le accuse erano provate e i responsabili avevano commesso i crimini su incitazione del diavolo. Le confessioni indotte dalle stesse autorità ecclesiastiche portarono a migliaia di denunce. Nell’area basco-aragonese si era scatenata un vera e propria psicosi collettiva.
Setta demoniaca L’azione del tribunale di Logroño rompeva con la linea moderata dell’ultimo mezzo secolo. Due degli inquisitori che avevano promosso i processi del 1609 erano convinti che gli accusati facessero parte di una setta molto più ampia di streghe e stregoni, «incentrata sull’apostasia della nostra santa fede e sull’adorazione del demonio».
JUAN CARLOS MUÑOZ / FOTOTECA 9X12
D’altro canto il terzo inquisitore che firmò le sentenze del 1610 non era d’accordo con le condanne dei suoi colleghi. Era Alonso Salazar Frías, il più famoso avvocato delle streghe della Spagna moderna, anche se non l’unico. Nel 1611, dopo una lunga visita nelle zone di Zugarramurdi e Urdax, Salazar scrisse dei rapporti profondamente critici e scettici sulla procedura inquisitoria. L’umanista Pedro de Valencia si espresse in termini simili nel Discorso sulle storie di streghe e sui fatti riguardanti la magia che presentò all’inquisitore generale. Questi rapporti critici ispirarono nuove istruzioni che la direzione inquisitoriale pubblicò nell’agosto del 1614. In esse, senza negare la reale possibilità di voli e riunioni notturne di streghe, si stabiliva la necessità di un’analisi critica delle prove e delle testimonianze, e la non validità delle confessioni ottenute con l’uso della tortura e della coercizione. L’Inquisizione aggiungeva anche un’altra raccomandazione: mantenere il silenzio sui fatti attribuiti alle streghe, evitan-
done con ogni mezzo la diffusione. In questo modo si sarebbe evitata la propagazione di voci e la creazione di un clima di panico collettivo. Come scrisse l’inquisitore Salazar, «la dissimulazione genera tranquillità». In seguito a questi rapporti, l’istanza suprema ordinò la sospensione dei processi ancora in corso presso il tribunale di Logroño e volle concedere una sorta di riparazione alle vittime, ordinando la rimozione dei sambenitos (abiti penitenziali) esposti nella chiesa, in quanto ritenuti disonorevoli per i familiari.
STREGHE CHE NON APPAIONO
Durante l’ispezione della valle di Baztan due assistenti dell’inquisitore Salazar passarono una notte nel luogo dove si sarebbe dovuto celebrare un sabba e non videro nessuno.
La fine delle persecuzioni I requisiti probatori stabiliti nel 1614 resero la stregoneria un’eresia molto difficile da provare per l’Inquisizione. Si evitarono così altre condanne a morte come quelle del 1610, ma ciò non impedì che in Spagna si continuassero a verificare episodi di caccia alle streghe simili a quelli registrati in altri Paesi europei. La stregoneria era un crimine di giurisdizione mista, cioè se ne potevano occupare sia i tribunali ecclesiastici sia STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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PITTURA E STREGONERIA
UN SABBA INFERNALE
ella prima metà del XVII secolo gli episodi di caccia alle streghe ispirarono molti pittori che rappresentarono i sabba. L’olio qui sopra è dell’artista olandese Frans Francken il Giovane e appartiene a una serie sullo stesso soggetto realizzata nella prima decade del secolo. Si ritiene che si riferisca a un caso reale, quello di una donna di Strasburgo che fu
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LA CUCINA DELLE STREGHE. OLIO DI FRANS FRANCKEN IL GIOVANE. BAYERISCHEN STAATSGEMÄLDESAMMLUNGEN, NEUBURG.
bruciata ad Anversa nel 1603. Nel dipinto appaiono diversi elementi caratteristici delle storie fantastiche che circolavano sui rapporti intrattenuti dalle fattucchiere con i demoni. Due giovani donne sembrano prepararsi a giacere con il diavolo 1. Una vecchia strega sta applicando un unguento sulla schiena di una giovane 2, per consentirle di volare. Attraverso la finestra se ne vedono
alcune in volo su delle scope 3, mentre altre due passano per il camino 4. Diverse donne rivolgono preghiere a un demone appollaiato su un tripode 5, mentre accanto a loro altre preparano una pozione in un calderone 6, per la quale potrebbero aver usato gli strani ingredienti che l’artista mostra in primo piano, tra cui un rospo e un mostro con un occhio solo 7.
RMN-GRAND PALAIS
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L’INQUISIZIONE ROMANA
ROMA SEGUE L’ESEMPIO SPAGNOLO
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n Italia l’Inquisizione romana dimostrò la stessa moderazione di quella spagnola nel trattare la stregoneria come un’eresia. Nella sua Storia dell’Inquisizione (1974) Henry Charles Lea evidenzia a tal proposito le raccomandazioni date ai giudici dall’organo supremo dell’Inquisizione romana, nelle quali viene prescritta una procedura «ampiamente basata sulle istruzioni dell’Inquisizione spagnola del 1614». Così, l’uso della tortura era limitato e non poteva essere accolta la testimonianza di coloro che affermavano di essere stati a un sabba, perché la si considerava frutto di un’illusione. Curiosamente erano i papi i più convinti dell’esistenza della stregoneria e della necessità di punirla con la massima severità. Nel 1623, per esem-
pio, Gregorio XV emanò una bolla, la Omnipotentis dei, che aggravava le pene contro le streghe e gli stregoni: se i loro atti avevano causato una morte (per esempio, di un bambino), sarebbero stati consegnati al braccio secolare per essere giustiziati, mentre chi aveva provocato lesioni personali o danni ai raccolti e al bestiame avrebbe ricevuto l’ergastolo.
DEA / ALBUM
ESECUZIONE DI UNA STREGA
L’olio di Francisco Goya riprodotto sopra illustra l’animosità che la figura della strega poteva suscitare tra la popolazione. Alte Pinakothek, Monaco di Baviera.
quelli civili. Nella penisola iberica, come nel resto d’Europa, furono le corti secolari a dimostrarsi più attive e feroci nella repressione di tale crimine. Anche se l’Inquisizione ne rivendicava la giurisdizione esclusiva, molti episodi sfuggivano al suo controllo. Tra il 1614 e il 1622, nel principato di Catalogna si scatenò una dura persecuzione, portata avanti da cacciatori di streghe “professionisti”, sacerdoti creduloni e autorità civili, e che si tradusse in esecuzioni collettive ordinate dai tribunali locali. Anche in altre regioni spagnole le autorità civili condannarono diverse donne al rogo con l’accusa di stregoneria. L’intervento dell’Inquisizione e
delle alte corti reali permise di frenare, e in molti casi di bloccare completamente, queste persecuzioni collettive. In ogni caso, a partire dal 1630, i processi di massa diminuirono in tutto il territorio spagnolo.
La gente accusa
Nonostante questo declino, l’Inquisizione continuò a intervenire nei casi di stregoneria in quanto li considerava crimini di superstizione. Ancora nel luglio del 1700 l’inquisitore generale esortava i colleghi di Logroño a dedicarsi con particolare attenzione alla persecuzione e al castigo delle streghe e delle fattucchiere presenti in quella zona, dopo che erano arrivate denunce da parte di Nel 1700 l’inquisitore famiglie «colpite da malefici a causa di generale sollecitò un alcuni incantesimi intervento contro le streghe attribuiti a queste CACCIA ALLE STREGHE A SALEM (MASSACHUSETTS) NEL 1693. persone». Tra il 1700 e il 1750 il tribunale PEABODY ESSEX MUSEUM / BRIDGEMAN / ACI
NATALINO RUSSO / FOTOTECA 9X12
di Logroño istruì una cinquantina di processi per sospetti di stregoneria. Eppure la riluttanza dell’Inquisizione a intervenire in casi del genere non era sempre ben accolta dalle comunità locali. Nel 1735 gli abitanti della cittadina di Limpias, in Cantabria, denunciarono alcune compaesane per stregoneria, ma l’Inquisizione di Logroño si rifiutò di perseguirle. Il parroco, il giudice e le autorità municipali espressero il loro disappunto, considerando che la punizione di quelle donne sarebbe servita da esempio alle altre e sottolineando quanto fosse «importante per il bene pubblico emendare lo scandalo» che avevano provocato. In alcune occasioni erano gli stessi abitanti del luogo a fare pressione sulle presunte streghe per costringerle a incriminarsi. A Bilbao, nel 1704, le monache del convento di Santa Clara denunciarono all’Inquisizione di Logroño María de Arteaga e sua figlia María de Telleche, con l’accusa di praticare la stregoneria e di provocare malattie e altri mali, ma il tribunale non trovò motivi per
procedere. Poco dopo tre uomini, spacciandosi per giudici, rapirono le due donne e, per costringerle a confessare di essere streghe e a rivelare i nomi delle loro complici, le sottoposero a vari tipi di maltrattamento e tortura, tra cui gettarle in una fossa con le mani e i piedi legati e fingere di seppellirle vive. Episodi come questo rivelano che nel XVIII secolo la credenza nella stregoneria era ancora profondamente radicata nella vita quotidiana della gente comune, per quanto non sia facile individuare i casi quando questi non venivano registrati da tribunali come quelli dell’Inquisizione.
VISTA DI LOGROÑO
Il tribunale dell’Inquisizione stabilito a Logroño tra il 1570 e il 1820 aveva giurisdizione su Navarra, Paesi Baschi, La Rioja e le province di Burgos e Cantabria.
MARINA TORRES ARCE STORICA
Per saperne di più
SAGGI
Caccia alle streghe Marina Montesano. Salerno, Roma, 2012. La caccia alle streghe in Europa Brian P. Levack. Laterza, Roma-Bari, 2012. Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria Silvia Federici. Mimesis, Sesto San Giovanni (MI), 2015.
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EMBLEMA DELL’INQUISIZIONE SPAGNOLA. DOCUMENTA / ALBUM
L’INQUISIZIONE INDAGA SU UN SABBA Nel 1609 l’Inquisizione ordinò l’interrogatorio dei testimoni in merito all’episodio delle streghe di Zugarramurdi per verificare la credibilità delle loro versioni uando nel 1609 si seppe delle prime retate di presunte streghe nella valle di Baztan, i capi dell’Inquisizione di Madrid ordinarono l’esame delle testimonianze re-
lative alle riunioni notturne e ai malefici che vi si realizzavano. A questo scopo inviarono un meticoloso questionario all’Inquisizione di Logroño, di cui qui sotto si presenta un estratto.
ERICH LESSING / ALBUM
Domande da porre alle imputate e ai testimoni nelle questioni di stregoneria
INQUISITORE. DETTAGLIO DI UN DIPINTO DI JEAN-PAUL LAURENS. XIX SECOLO.
- In che giorni si tenevano i loro incontri? - Quanto tempo vi rimanevano? - A che ora andavano e tornavano? - Mentre erano lì, o andavano, o tornavano, sentivano orologi, campane o cani o galli dal luogo più vicino? - Erano vestite o nude? Dove lasciavano vestiti? Li ritrovavano nello stesso posto o altrove? - Quanto tempo impiegavano per andare dalle loro case al luogo delle riunioni?
- Si ungono per andare alle suddette riunioni? In che parti? - Sono sicure di andare fisicamente a tali riunioni, o si addormentano con l’unguento, e tali cose s’imprimono nella loro immaginazione o fantasia? L’inquisitore Alonso de Salazar Frías percorse per otto mesi un ampio territorio tra Navarra, Guipúzcoa e Álava, interrogando più di 1.800 persone alle quali pose le domande prescritte dal tribunale supremo. I risultati confermarono i suoi sospetti sulla totale mancanza di fondamento delle storie sui sabba e sugli incontri con il diavolo. La sua conclusione fu: «Non ho trovato certezze e nemmeno indizi da cui dedurre alcun atto di stregoneria realmente e fisicamente avvenuto in termini di partecipazione a sabba, assistenza a essi, danni o altri effetti a cui si fa riferimento».
HERBERT BOSWANK / RMN-GRAND PALAIS
SABBA DELLE STREGHE RAPPRESENTATO DAL TEDESCO HANS BALDUNG GRIEN. INCISIONE SU LEGNO. 1510.
PRIMA DELLA TRAGEDIA
L’arciduca e sua moglie lasciano il municipio di Sarajevo; sarebbero stati assassinati poco dopo a bordo dell’auto su cui stanno per salire, come ricostruito sulla prima pagina di La Domenica del Corriere d’inizio luglio. LOOK AND LEARN / BRIDGEMAN / ACI
1914
ATTENTATO A SARAJEVO
L’OMICIDIO CHE CAMBIÒ LA STORIA
STEFANO BIANCHETTI / GETTY IMAGES
La mattina del 28 giugno 1914 un gruppo di giovani bosniaci assassinò a Sarajevo l’arciduca Francesco Ferdinando, erede della Corona d’Austria-Ungheria, e sua moglie Sophie Chotek. L’evento segnò l’inizio della Prima guerra mondiale
SARAJEVO IN UNA FOTO SCATTATA INTORNO AL 1914.
Lungofiume Appel Municipio
ALAMY / ACI
SARAJEVO, LA CAPITALE DELLA BOSNIA
IL PONTE LATINO DI SARAJEVO E, SULLA DESTRA, L’ANGOLO DOVE PRINCIP SPARÒ ALL’ARCIDUCA.
a quando nel 1878 la Bosnia era passata sotto il controllo austro-ungarico, gli Asburgo avevano trasformato Sarajevo in una vetrina dell’efficienza della loro amministrazione: non scomparvero né i bazar né le moschee, ma fu costruita una nuova città con tribunali, scuole, un altro municipio e un tram elettrico prima della stessa Vienna. La Miljacka fu incanalata e dotata di un ampio viale sulla sua riva nord, il lungofiume Appel, costeggiato da nuovi edifici. Qui sarebbe avvenuto l’attentato.
ELVIS BARUKCIC / GETTY IMAGES
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era l’erede cinquantenne dell’impero austro-ungarico e possedeva un’immensa fortuna; l’altro, il diciannovenne Gavrilo Princip, era figlio di un postino e proveniva da un’umile famiglia di contadini della regione. Non aveva risorse economiche ed era determinato a sferrare un colpo alla monarchia austro-ungarica, che sei anni prima aveva annesso la Bosnia-Erzegovina, per scuoterne le fondamenta e risvegliare la coscienza degli slavi, fossero essi serbi, croati o bosgnacchi (bosniaci musulmani), incitandoli alla rivolta contro gli occupanti. Quel colpo fu l’omicidio dell’arciduca.
Le ragioni di un attentato Francesco Ferdinando non era inizialmente destinato al trono, e nemmeno a vivere a lungo: per un certo periodo si temette che potesse morire di tubercolosi. Invece sopravvisse alla malattia, al figlio dell’anziano imperatore Francesco Giuseppe – suo cugino Rodolfo, erede al trono, si suicidò per amore – e al suo stesso padre, fratello dell’imperatore, che era l’erede diretto in linea di successione e morì di febbre tifoide nel 1896. L’arciduca divenne così inaspettatamente il successore
C R O N O LO G I A
IL COLPO CHE SCOSSE L’EUROPA
di Francesco Giuseppe in un momento in cui l’impero cominciava ad affrontare una crisi esistenziale. Il sovrano governava uno stato diviso tra Austria e Ungheria, territori che, a parte il monarca, avevano in comune solo i ministeri della guerra, degli affari esteri e delle finanze. Questa fragile unità, basata sul dominio politico di austriaci e magiari sugli altri popoli che abitavano l’impero, era minacciata dall’ascesa del nazionalismo slavo, in particolare della Boemia a nord e della Serbia a sud. Quest’ultima aveva trasformato la Bosnia-Erzegovina in una polveriera. Per capire le radici di questa situazione bisogna tornare indietro di quasi quarant’anni, quando la vittoria dell’impero russo su quello ottomano, unita a una grande rivolta dei popoli balcanici sottomessi ai turchi – a cui parteciparono anche il nonno e il padre di Princip – permise a Bulgaria, Romania, Montenegro e Serbia di ottenere l’indipendenza. I leader serbi coltivavano il sogno di una grande Serbia che includesse nei suoi confini tutti gli slavi dei Balcani sotto la sua egemonia. Questo ideale aveva però subito un duro colpo nel 1908, quando l’AustriaUngheria aveva annesso la Bosnia-Erzegovina,
Marzo
Maggio-giugno 28 giugno
Ottobre
Gavrilo Princip concepisce l’idea di assassinare l’erede alla Corona austroungarica.
La Mano Nera, un’organizzazione ultranazionalista serba, offre il suo appoggio a Princip.
Si celebra il processo per l’attentato. Princip è condannato all’ergastolo.
A Sarajevo Princip uccide l’arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie.
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ella soleggiata mattina di domenica 28 giugno 1914 i destini di due uomini s’incrociarono tragicamente a Sarajevo, la capitale della montagnosa provincia balcanica della Bosnia-Erzegovina. Niente avrebbe potuto far presagire che le loro strade un giorno si sarebbero incontrate. Uno, l’arciduca Francesco Ferdinando,
FRANCESCO GIUSEPPE I
In 25 anni l’imperatore assistette al suicidio del figlio Rodolfo, all’omicidio della moglie Sissi e a quello del nuovo erede, Francesco Ferdinando.
UN’EDIZIONE STRAORDINARIA DEL BOSNISCHE POST DI SARAJEVO RACCONTA DELL’ATTENTATO IL GIORNO STESSO. ELVIS BARUKCIC / GETTY IMAGES
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ROMANIA Bosnia-Erzegovina
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IL PROGETTO POLITICO DELL’ARCIDUCA
LA MONARCHIA DEL DANUBIO
La mappa qui sopra, stampata nel 1902, mostra l’impero austriaco e il regno d’Ungheria; la Bosnia non è ancora stata annessa.
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rancesco Ferdinando progettava di modificare il dualismo della monarchia austro-ungarica inglobando gli slavi su un piano di parità con gli austriaci e i magiari per evitare che l’esplosione del nazionalismo slavo distruggesse l’impero. Questo schema, noto come trialismo, era osteggiato da gran parte delle élite austriache; dagli ungheresi, che avrebbero visto diminuire il loro peso nei processi decisionali dell’impero; e dalla Serbia, che aspirava a unificare tutti gli slavi dei Balcani sotto la sua egida.
L’AQUILA IMPERIALE
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Emblema della monarchia dualista, l’aquila bicipite stringe negli artigli lo scettro, la spada e il globo, simboli del potere.
BOGDAN ŽERAJIĆ, IL MARTIRE DOPO AVER FALLITO l’attentato contro il governatore Varesanin ed essersi suicidato nel 1910, Žerajić, membro della Giovane Bosnia, fu sepolto in una tomba senza nome a Sarajevo. Ma il luogo della sepoltura divenne ben presto una meta di pellegrinaggio per i giovani ribelli bosniaci: sia Gavrilo Princip sia Nedeljko Čabrinović lo visitarono la notte prima dell’attentato.
UN TRIONFO SERBO
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Questa medaglia d’oro commemora la vittoria della Serbia sugli ottomani nella Prima guerra balcanica (1912).
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A Sarajevo Princip divorava letteratura rivoluzionaria (socialista, anarchica, nazionalista) e partecipava alle manifestazioni studentesche contro il dominio straniero, pur mantenendo sempre un carattere chiuso e solitario. Man mano che il suo interesse per la politica cresceva i suoi voti calavano, mentre i professori, consapevoli delle sue inclinazioni politiche, lo maltrattavano. Nel 1912 fu espulso e decise di andare a completare la sua formazione a Belgrado: fu proprio lì che il giovane ribelle divenne un assassino. La Serbia era ormai il centro del panslavismo balcanico e il rifugio di tutti i perseguitati in Bosnia; Belgrado era una calamita capace di attirare a sé decine di giovani che vi si trasferivano per studiare e per poter esprimere liberamente le proprie aspirazioni politiche. Molti di loro
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Per molti membri della Giovane Bosnia la violenza costituiva uno strumento legittimo con cui rispondere all’oppressione, e fu proprio l’atto violento di uno di loro che avrebbe segnato la strada poi seguita da Princip. Il 15 giugno 1910 il ventiquattrenne Bogdan Žerajić sparò cinque colpi al governatore della Bosnia-Erzegovina sul Kaiser-Brücke (ponte dell’Imperatore), sul fiume Miljacka, nel centro di Sarajevo. Non riuscì però a ucciderlo e con l’ultimo proiettile si suicidò. Žerajić divenne per Princip un esempio della devozione alla causa della liberazione della Bosnia.
MEMBRI DELLA RESISTENZA SERBOBOSNIACA TRA CUI ŽERAJIĆ.
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L’azione diretta
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formalmente ancora ottomana, ma che degli accordi internazionali avevano posto sotto la tutela dell’impero dal 1878. Su quel territorio, la cui popolazione era composta da bosgnacchi, croati e circa il 43 per cento di serbi – come la famiglia di Princip – si proiettavano le ambizioni della Serbia, che aveva considerato l’annessione un affronto. La furiosa reazione nazionalista suscitata dall’evento portò, nel 1911, alla fondazione dell’organizzazione Unificazione o Morte, meglio conosciuta come Crna Ruka – Mano Nera – e guidata dall’ufficiale Dragutin Dimitrijević, nome in codice Apis, un uomo che aveva una profonda influenza sull’esercito. Lo scopo della Mano Nera era l’unificazione di tutti i serbi con ogni mezzo necessario. D’altra parte l’annessione aveva suscitato grande riprovazione anche nella stessa Bosnia-Erzegovina. Princip, che nel 1907, a tredici anni di età, aveva lasciato il suo villaggio natale per andare a studiare a Sarajevo, capitale della provincia, provò un’indignazione che si sarebbe trasformata in rabbia a causa delle precarie condizioni di vita della popolazione contadina, alla quale lui stesso apparteneva (sei dei suoi fratelli erano morti da bambini), e della mancanza di diritti politici. Come lui, centinaia di giovani si opponevano al dominio coloniale austro-ungarico e aspiravano a passare all’azione. Molti facevano parte della Giovane Bosnia, una costellazione di gruppi che promuoveva la resistenza contro le autorità asburgiche.
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MAPPA DELLA CITTÀ DI SARAJEVO PUBBLICATA IN GERMANIA NEL 1906.
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IL VIALE DEGLI ASSASSINI
IL VEICOLO DEGLI ARCIDUCHI GIRA VERSO IL LUOGO DOVE PRINCIP LI STA ASPETTANDO.
a comitiva dell’arciduca doveva transitare necessariamente per il lungofiume Appel, il viale dove si erano appostati Princip e i suoi compagni. La visita iniziò con una breve sosta alla caserma militare della città 1, per poi proseguire lungo la Miljacka fino al municipio 2. Gli arciduchi subirono il primo attentato 3 accanto al ponte della Cumurija; poi, dopo aver lasciato il municipio, sarebbero caduti davanti al ponte Latino 4, vittime dei proiettili di Princip.
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si arruolarono come combattenti irregolari nelle Guerre balcaniche del 1912 (contro gli ottomani) e del 1913 (contro la Bulgaria), dalle quali la Serbia uscì con il doppio di popolazione e di territorio. Princip, che aveva provato ad arruolarsi nel 1912 ma era stato respinto a causa della sua debole costituzione, andò a vivere a Belgrado con molti altri studenti ed ex combattenti bosniaci delle due guerre precedenti. Fu allora che gli si presentò l’occasione di dimostrare chi era veramente, al di là dell’immagine di «un tipo completamente rovinato dallo studio smodato della letteratura» che gli altri avevano di lui. Come avrebbe detto agli investigatori dopo l’attentato: «Fingevo di essere una persona debole, anche se non lo ero».
DRAGUTIN DIMITRIJEVIĆ IN UNA FOTO SCATTATA INTORNO AL 1900.
NEL 1914 Dragutin Dimitrijević aveva ancora in corpo i tre proiettili che lo avevano colpito nel 1903, quando lui e altri militari avevano assassinato e mutilato l’impopolare re Alessandro I e sua moglie per mettere sul trono Pietro I Karad¯ord̄ević. Da allora i cospiratori erano diventati un potere de facto all’interno dello stato serbo, ancor più dopo aver fondato nel 1911 la Mano Nera, il cui primo obiettivo dopo le Guerre balcaniche era la liberazione (o, in altre parole, l’annessione alla Serbia) della Bosnia-Erzegovina. Qui l’organizzazione incoraggiava l’attività di guerriglia contro gli austro-ungarici.
L’ARMA DI PRINCIP
La Browning FN Modèle 1910 semiautomatica, prodotta in Belgio, era in dotazione agli ufficiali serbi; oggi quest’arma è conservata presso il museo di storia militare di Vienna.
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dei capi dell’organizzazione. Apis avrebbe in seguito affermato che tutta la congiura era opera della Mano Nera, di cui anche Princip avrebbe fatto parte. Ma gli obiettivi politici della società (l’unificazione degli slavi del sud sotto l’egemonia serba) erano molto diversi da quelli di Princip, che credeva in uno stato in grado di accogliere serbi, bosgnacchi e croati su un piano di parità. Ciganović procurò ai rivoltosi sei bombe e quattro pistole, insegnò loro a sparare in un bosco e mise a disposizione i soldi per coprire le spese del viaggio fino a Sarajevo. Princip, Grabež e Čabrinović lasciarono Belgrado il 28 maggio. Grazie all’appoggio della Mano Nera poterono contare sulla complicità dei doganieri serbi per attraversare la Drina, il fiume che costituiva il confine
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A metà marzo del 1914 Princip era seduto in uno dei caffè dove si riunivano studenti ed ex combattenti di origine bosniaca, in compagnia del suo amico Nedeljko Čabrinović, che gli mostrò un ritaglio di giornale appena ricevuto. L’articolo annunciava che l’erede alla Corona asburgica avrebbe visitato Sarajevo il 28 giugno, dopo aver supervisionato le manovre militari che lì avrebbero avuto luogo quello stesso mese. Princip concepì immediatamente il piano di attentare alla vita del futuro imperatore. Per riuscirci aveva bisogno di complici, armi, denaro e della copertura necessaria per entrare clandestinamente in Bosnia dalla Serbia. Scelse quindi due compagni serbo-bosniaci residenti a Belgrado: lo studente Trifko Grabež e lo stesso Čabrinović, che lavorava come tipografo. A tutto il resto avrebbe provveduto la Mano Nera. Non fu però l’organizzazione a pianificare l’attentato, come spesso si afferma: essa si limitò a dare appoggio a un complotto caratterizzato dal dilettantismo, di cui la cosa più sorprendente è che sia andato a buon fine. A fornire le armi a Princip fu Milan Ciganović, un ex combattente serbo-bosniaco legato alla Mano Nera che, per effettuare la consegna, poté contare sull’acquiescenza del comandante serbo Vojislav Tankosić, uno
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Il complotto
L’OMBRA OSCURA DI APIS
LA CITTÀ DOVE TUTTO È COMINCIATO
Sarajevo è stata vittima di un terribile assedio tra il 1992 e il 1996, durante la Guerra di Bosnia. Il vecchio municipio visitato dagli arciduchi è stato distrutto dalle bombe e ricostruito al termine del conflitto. KEMAL BECIREVIC / GETTY IMAGES
L’ATTENTATO RAFFIGURATO DAL PITTORE FELIX SCHWORMSTÄDT.
LEEMAGE / GETTY IMAGES
OMICIDIO A BRUCIAPELO uando l’auto degli arciduchi si fermò davanti a Princip, questi era circondato dalla folla e decise quindi di non gettare la bomba che aveva alla cintura. Estrasse invece la pistola e sparò due volte quasi a bruciapelo. Il primo proiettile colpì l’arciduca alla giugulare. Il secondo attraversò la portiera dell’auto e penetrò nell’addome dell’arciduchessa, recidendole l’arteria gastrica. L’arciduca riuscì ancora a sussurrare alla moglie: «Sophie, Sophie! Non morire! Vivi per i nostri figli!». L’ARRESTO DI PRINCIP IN UNA FOTO PESANTEMENTE RITOCCATA.
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con la Bosnia; sull’altra sponda dei contadini serbo-bosniaci li aiutarono a raggiungere Tuzla attraverso i campi. Lì presero un treno con cui arrivarono in città il 4 giugno. In precedenza Princip aveva scritto al suo vecchio amico Danilo Ilić, che viveva nella capitale bosniaca ed era un membro della Giovane Bosnia, chiedendogli di trovare altri complici per garantire il buon esito dell’attentato. A maggio Ilić reclutò altre tre persone: un falegname bosniaco musulmano di circa ventisei anni, Muhamed Mehmedbašić, che era già stato coinvolto in un complotto della Mano Nera per uccidere il generale Potiorek, allora governatore della Bosnia-Erzegovina, e due studenti: Cvjetko Popović, di diciotto anni circa, e Vaso Čubrilović, di diciassette. Il 14 giugno Ilić andò a ritirare le armi che Princip aveva affidato a un uomo d’affari di Tuzla. Con il passare del tempo però stava iniziando ad avere dei dubbi in merito all’attentato: temeva che avrebbe causato grandi sofferenze ai serbi sottoposti al dominio austro-ungarico, e che l’azione politica fosse più efficace del terrorismo. Ne discusse con Princip, ma alla fine decise di andare avanti con il piano per non lasciare da solo l’amico. Domenica 28 giugno il sole splendeva a Sarajevo. Francesco Ferdinando e sua moglie, la contessa Sophie Chotek, incinta del quarto figlio, avrebbero partecipato a un ricevimento in municipio e poi visitato il museo locale. Sarebbero arrivati a Sarajevo da Ilidza, una vicina località termale. Il programma prevedeva che il corteo che li accompagnava percorresse due volte il lungofiume Appel, un ampio viale parallelo alla Miljacka, il corso d’acqua che divide in due Sarajevo: prima per andare dalla stazione al municipio e poi da lì al museo. I sei uomini armati – Mehmedbašic´, Čubrilović, Čabrinović, Popoviić, Princip e Grabež – si misero in agguato lungo il viale, mescolandosi alla folla che acclamava gli arciduchi. Per mostrare la vicinanza della Corona al popolo bosniaco, il percorso non era stato transennato dall’esercito e le autorità locali avevano mobilitato solo 150 poliziotti. La possibilità di un attentato era nell’aria e aveva spinto la contessa ad accompagnare il mari-
I CURIOSI SI ACCALCANO DAVANTI AL BUCO DELLA BOMBA DI ČABRINOVIĆ.
CON L’AIUTO DELLA FORTUNA IL SUCCESSO DEI CONGIURATI non fu dovuto alla loro esperienza
nell’utilizzo delle armi. Princip, Čabrinović, Mehmedbašić e Grabež avevano ricevuto solamente un addestramento di base nell’uso delle pistole. Danilo Ilić aveva insegnato a Popović e Čubrilović a sparare all’interno di un tunnel e gli aveva fornito altre due pistole la notte prima del crimine. Nessuno dei sei aveva dimestichezza con le bombe.
to in Bosnia. Quando il corteo di sei veicoli passò davanti a Mehmedbašić, il primo dei congiurati, questi pensò di avere un poliziotto dietro di sé e non estrasse la sua bomba. Lo fece invece Čabrinović, che la lanciò contro lo stulphut, il copricapo con le piume verdi dell’arciduca che era nella terza macchina. L’ordigno colpì la capote arrotolata della
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Il veicolo su cui viaggiavano gli arciduchi apparteneva al conte Harrach, che era con loro. Oggi è conservato presso l’Heeresgeschichtliches Museum di Vienna.
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Princip e Čabrinović, insieme ad altre persone coinvolte, vengono portati nell’aula del tribunale dove quattro mesi dopo si sarebbe svolto il processo per l’attentato. MAIDUN COLLECTION / ALAMY / ACI
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vettura e cadde a terra, esplodendo al passaggio dell’auto successiva e ferendo diverse persone. Erano le 10:10 del mattino. Le macchine accelerarono e gli altri congiurati non fecero in tempo a estrarre le armi. Čabrinović cercò di fuggire attraverso la Miljacka (in estate, il fiume era quasi a secco), dove però fu arrestato. Tentò d’ingoiare la capsula di cianuro che tutti loro avevano con sé per suicidarsi in caso di arresto, ma riuscì solo a provocarsi delle bruciature alla bocca e alla gola. Nonostante il fallito attentato, l’arciduca non volle mostrarsi spaventato e partecipò al ricevimento in municipio con la moglie. Si decise però di modificare l’appuntamento successivo: alle 10:45 , invece di entrare in città per andare al museo, la coppia imperiale percorse il lungofiume Appel fino all’ospedale per visitare i feriti dell’attentato. Ma nessuno informò del cambio di programma il conducente dell’auto in testa al corteo, che quindi lasciò il lungofiume come inizialmente previsto. E lì, all’angolo con Appel, accanto al muro del Café Moritz Schiller, c’era Princip che aspettava pazientemente il passaggio delle macchine, secondo quanto pubblicamente annunciato. Potiorek gridò all’autista di fare retromarcia, una manovra di una certa complessità che richiedeva d’invertire le cinghie di trasmissione dell’auto. Princip non esitò e sparò due proiettili: uno all’arciduca e uno diretto a Potiorek, che però colpì all’addome l’arciduchessa. Gli arciduchi risultarono feriti mortalmente: Francesco Ferdinando era stato colpito alla giugulare, anche se chi gli stava intorno non se ne rese conto perché il sangue gli scorreva sotto l’uniforme; e Sophie aveva una lesione all’addome. Morirono nel giro di pochi minuti. Princip ingoiò il cianuro, ma anche nel suo caso gli provocò solo bruciature. Si puntò allora la pistola alla testa, ma gli venne strappata di mano dalla folla. Tutti i partecipanti all’attentato e coloro che li avevano aiutati in Bosnia – tranne Mehmedbašić, che riuscì a fuggire e si rifugiò in Montenegro – sarebbero stati arrestati. Ma la legge impediva di applicare la pena capitale ai minori di vent’anni. Gli unici a superare quell’età erano il fuggiasco Mehmed-
UNA CAPPELLA ALLA MEMORIA I RESTI DI PRINCIP, morto in una prigione austro-ungarica, furono por-
tati a Sarajevo nel 1920 per essere sepolti ufficialmente in una tomba. Nel 1939 vennero trasferiti nella cappella dove riposano ancora oggi insieme a quelli di Trifko Grabež, Nedeljko Čabrinović, Danilo Ilić e altre sei persone che li aiutarono a raggiungere Sarajevo. Si trovano qui anche i resti dell’uomo che li aveva ispirati, Bogdan Žerajić.
bašić e Ilic´, che fu impiccato. Čabrinovic´ e Princip morirono in prigione di tubercolosi. Non si può affermare che l’attentato fu la causa della Prima guerra mondiale. A precipitare il conflitto fu la decisione dell’Austria-Ungheria di usare l’omicidio come pretesto per attaccare la Serbia, nel tentativo di porre fine al suo ruolo di agitatrice tra gli slavi del sud. Ciò mise in moto il sistema di alleanze delle potenze europee, il cui automatismo trascinò l’Europa nel più terribile conflitto conosciuto fino a quel momento. JOSEP MARIA CASALS STORICO
Per saperne di più
SAGGI
I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande guerra Christopher Clark. Laterza, Roma-Bari, 2013. Una mattina a Sarajevo. 28 giugno 1914 David J. Smith. LEG Edizioni, Gorizia, 2014.
IL RIPOSO DEFINITIVO
La cappella che ospita i resti di Princip e di altri congiurati si trova nel cimitero di San Marco, a Sarajevo.
UNA RETE D’INTRIGHI E COMPLOTTI
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ll’indomani dell’attentato sorse la questione di quanto sapesse il governo serbo del complotto. Sembra certo che il primo ministro Nikola Pašić fosse a conoscenza del piano e, tra l’altro, cercò di avvertire l’Austria-Ungheria tramite Jovan Jovanovic, l’ambasciatore serbo a Vienna, che il 21 giugno incontrò Leon Bilinski, il ministro delle finanze austro-ungarico. Ma il suo avvertimento fu molto ambiguo: disse che forse qualche coscritto bosniaco delle truppe imperiali avrebbe potuto «caricare una pallottola nel fucile o nella pistola invece di una cartuccia a salve». Bilinski non diede alcuna importanza all’osservazione e si limitò a dire: «Speriamo che non succeda niente».
NIKOLA PAŠIĆ, PRIMO MINISTRO SERBO, NEL 1904 CIRCA. ALA
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A giugno, l’esecutivo guidato da Nikola Pašić (sopra), già allertato del complotto, ordinò alle guardie di frontiera in Bosnia di fermare qualsiasi traffico di armi ed esplosivi, ma era troppo tardi: Princip, Grabež e Čabrinović erano già in Bosnia.
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Le indagini austro-ungariche non dimostrarono che il governo serbo fosse coinvolto nell’omicidio o in che misura fosse a conoscenza del piano, né chiarirono il ruolo della Mano Nera nella vicenda. Misero però in luce l’intervento rilevante di Ciganović e Tankosić.
Gavrilo Princip
L’EMBLEMA DELLA MANO NERA ERA IL TESCHIO CON LE TIBIE INCROCIATE.
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ROGER VIOLLET / AURIMAGES
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Nella foto si possono vedere Princip (a destra) e Trifko Grabež (a sinistra) con l’ex combattente delle guerre balcaniche Djuro Sarac a Belgrado. Sarac, un ex studente serbo-bosniaco, era una guardia del corpo del comandante Voja Tankosić, leader della Mano Nera.
3 L A M A NO NERA
L’organizzazione probabilmente non pianificò il complotto, ma si limitò a fornire appoggio per realizzarlo. Si era infiltrata così profondamente nell’esercito e nella polizia serba da vanificare i tentativi del governo Pašić d’impedire il transito di armi e terroristi in Bosnia.
FOTO DEL PROCESSO PER L’OMICIDIO DEGLI ARCIDUCHI. INIZIÒ IL 12 OTTOBRE, DURÒ 11 GIORNI E VIDE 25 IMPUTATI, TRA ESECUTORI E COMPLICI.
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GRANDI SCOPERTE
La tomba intatta delle 58 donne wari Nel 2012 gli archeologi hanno rinvenuto a Castillo de Huarmey, in Perù, i resti di uno splendido mausoleo del periodo preincaico
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dell’area e agli effetti devastanti delle piogge torrenziali provocate dal fenomeno climatico di El Niño (responsabile di perturbazioni nelle aree del Pacifico centro-meridionale e orientale) hanno contribuito a ridurre il sito in uno stato deplorevole.
P E RÙ
Castillo de Huarmey LIMA
Wari
visitò il posto, ma dovette ben presto abbandonarlo a causa di un focolaio di peste bubbonica. Da allora gli archeologi parvero dimenticare la zona; sfortunatamente i saccheggiatori– o huaqueros – non fecero altrettanto. Con i loro scavi illegali (huaqueos) provocarono parecchi danni, soprattutto a partire dal 1970, quando un terremoto portò alla luce diversi preziosi resti attirando ancor di più l’attenzione dei ladri. La loro intensa attività, unita allo sfruttamento agricolo
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wari erano un popolo preincaico la cui capitale, anch’essa nota come Wari, si trovava nella regione di Ayacucho, in Perù. Proprio da lì pian piano si espansero nell’intero territorio andino, in quello che alcuni studiosi considerano il primo impero delle Ande. Uno dei rinvenimenti più importanti che riguardano questa cultura ebbe luogo, però, a circa 850 chilometri a nord di Wari, nella regione di Áncash. In questa zona arida situata sulla costa desertica del Perù un’équipe polacco-peruviana scoprì il primo mausoleo wari intatto, in un sito archeologico oggi noto come Castillo de Huarmey. Nel 1919 l’archeologo peruviano Julio C. Tello
Compare il mausoleo La situazione non ha certo i n t i m o r i to i l p o l a c c o Miłosz Giersz né il peruviano Roberto Pimentel, che nel 2010 hanno iniziato a scavare nella zona. Entrambi sapevano che, anche dopo la rimozione dei detriti, le possibilità di trovare qualche luogo intatto erano minime, eppure non si sono fatti prendere dallo sconforto, confidando nel potenziale del sito. Il tempo avrebbe premiato la loro tenacia.
IL MAUSOLEO.
L’archeologo Roberto Pimentel controlla un rinvenimento nell’intricato sistema di costruzioni a Castillo de Huarmey.
Il sito di Castillo de Huarmey comprende un grande edificio dedicato al culto degli antenati, detto mausoleo, un’ampia necropoli e una zona residenziale. Il mausoleo si trova sulla ci-
VII-XI secolo
1970
2010
2012
Periodo di occupazione del mausoleo e dell’area residenziale Castillo de Huarmey da parte dei wari.
Un terremoto colpisce il sito archeologico e lascia allo scoperto alcuni dei suoi involucri funerari.
Nasce il Proyecto de Investigación Arqueológica Castillo de Huarmey (PIACH).
Gli archeologi del PIACH scoprono una camera funeraria intatta con un ricco corredo all’interno.
UN CAPO WARI SEDUTO SU UNA ZATTERA. CERAMICA RINVENUTA AL CASTILLO DE HUARMEY.
MUMMIE NATURALI IL CLIMA SECCO della costa desertica peru-
apre una serie di nicchie dove si collocavano gli oggetti cerimoniali. La sala divenne la protagonista delle campagne di scavi del 2012, quando sopra il pavimento fu scoperto un insieme di mattoni crudi essiccati al sole dalla forma trapezoidale. Questi coprivano una camera sotterranea al di sotto della quale si nascondeva un reperto straordinario: la prima tomba collettiva mai rinvenuta di personaggi appartenuti
BRACCIO MUMMIFICATO NATURALMENTE AL CASTILLO DE HUARMEY.
ROBERT CLARK / NG IMAGE COLLECTION
ma di una collina. Scavato parzialmente nella roccia, era una struttura rettangolare dalla particolare magnificenza, con una facciata esterna dipinta di rosso. Oggi si conserva soltanto la parte inferiore delle mura, che tracciano uno spazio labirintico con più di venti locali al suo interno. Al centro di tale trama architettonica è presente una sala presieduta da una sorta di bancale simile a un trono, sulle cui pareti si
viana è un valido alleato per gli archeologi, perché i materiali organici come legno o tessuti, che altrove si deteriorano, qui si conservano bene. Inoltre i corpi si mummificano in modo naturale, e in tal modo è possibile recuperare perfino la pelle.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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GRANDI SCOPERTE
Una signora potente
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i resti del personaggio principale del sito Castillo de Huarmey appartengono a una donna, il cui ceto elevato risulta evidente dalla qualità degli oggetti che l’accompagnarono nel viaggio verso l’aldilà. Anche vestiti e accessori rivelano uno status superiore. Indossava abiti di ottima fattura e il lliclla, o scialle, legato con un tupu (spilla) di metallo 1. Fu sepolta con indosso tre paia di orecchini 2, inequivocabili simboli di potere nelle Ande, di solito di appannaggio maschile. Dietro la schiena nascondeva una scatola di vimini 3 che conteneva utensili da tessitura in oro e altri oggetti di lusso. Le braccia presentano tatuaggi geometrici 4 e, prima che fosse inumata, il suo volto venne adornato con il cinabro – o solfuro di mercurio –, un pigmento rosso vermiglio di origine idrotermale.
ILLUSTRAZIONE: FERNANDO G. BAPTISTA / NATIONAL GEOGRAPHIC IMAGE COLLECTION
I corpi erano stati inumati in posizione china, seduti, ed erano avvolti in uno scialle di tessuto bicolore (bianco e verde) tenuto assieme da una maglia spessa. Il buono stato di conservazione delle spoglie ha rivelato un’ulteriore sorpresa: nello studiare i cadaveri ci si è accorti che sono tutti femminili: appartengono a donne di età diver-
se, e la quinta parte è composta da adolescenti. I resti delle wari furono così sepolti: le tre camere piccole e laterali accoglievano donne di classe sociale più elevata; in quella centrale è stata rinvenuta la cosiddetta dama principale, una donna di circa sessant’anni, sepolta accanto agli oggetti più ricchi di tutto il sito. Era di sicuro una signora
RT ROBE
/ NG CLARK
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LECTIO
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all’élite wari. La sepoltura fu ritrovata intatta. La camera funeraria era formata da un vasto spazio e da tre modeste stanze laterali. Nella parte centrale vennero scovati sessantaquattro “involti” funerari e numerose offerte di notevole qualità, che rivelavano l’alto status degli individui lì sepolti.
Tutti i corpi erano femminili; per la maggior parte corrispondevano a donne adulte, e per un quinto ad adolescenti SANDALO IN PELLE CON RESTI DI DECORAZIONE POLICROMA.
potente, con un ruolo politico importante, e lo dimostra il fatto che fu inumata assieme a tre paia di orecchini ad anello, simboli del potere nel mondo andino e generalmente associati all’élite maschile.
Sepolture d’élite Nella stanza a nord-est sono state scoperte una donna di più di cinquant’anni e un’adolescente tra i tredici e i quindici anni, mentre in quella a sud-est riposava un’altra donna di età compresa tra i trentacinque e i quarant’anni. Tutte loro hanno riposato per secoli nel sepolcro sigillato.
1 Frammento di tessuto con rappresentazioni antropomorfe. 6 Bottiglie gemelle che vennero sepolte avvolte in un tessuto.
2 Orecchino tubolare in oro con la
raffigurazione di una creatura alata.
5 Quero (coppa cilindrica) scolpito in pietra.
FOTO: ROBERT CLARK / NATIONAL GEOGRAPHIC IMAGE COLLECTION
Assieme ai loro resti, negli scavi sono stati rinvenuti più di 1.300 oggetti tra i quali figurano elementi di ogni sorta: gioielli, armi, utensili per tessere e recipienti in ceramica, metallo e pietra intagliata. I materiali sono di notevole qualità e, all’epoca, alcuni erano considerati di lusso: conchiglie rosse di Spondylus (importate dall’Ecuador), ossidiana, turchese e metalli preziosi (oro e argento con leghe di rame). L’analisi dei cadaveri ha confermato che le persone lì sepolte non dovettero patire malattie gravi nel corso della propria vita, e ciò di-
mostra che le donne facevano parte della cerchia abbiente dello stato wari. Dagli esami è emerso pure che non tutti i corpi vennero inumati nello stesso momento: la tomba rimase aperta per un certo periodo, e lo tradisce la presenza di uova di serpenti e pupe di mosche e scarafaggi tra i fagotti con le salme e perfino nei crani delle defunte. Una volta completata la sepoltura, la zona venne sigillata. I wari riempirono lo spazio con uno strato di pietre, terra e fango, su cui lasciarono le spoglie di sei adolescenti, sacrificate per l’occasione.
Il tutto venne poi ricoperto con uno strato spesso un metro e costituito da trenta tonnellate di pietrisco. Qui venne posta una trave lunga 1,17 metri.
Guardiani eterni In ultima istanza seppellirono altre due persone, anch’esse sacrificate. In questo caso si trattava di un uomo e di una donna di classe inferiore, che dovevano essere i guardiani della tomba, funzione alla quale furono destinati in vita quando gli venne amputato il piede sinistro affinché non potessero venir meno al loro compito. En-
trambi portarono fedelmente a termine la missione, visto che lì sono stati rinvenuti da Giersz e Pimentel più di mille anni dopo: custodivano la tomba delle donne più ricche della zona. Ci saranno altri guardiani dell’eternità che aspettano gli archeologi a Huarmey? Solo il tempo potrà svelarlo. ARIADNA BAULENAS I PUBILL ISTITUTO DI CULTURE AMERICANE ANTICHE (BARCELLONA)
Per saperne di più SAGGI
I regni preincaici e il mondo inca Laura Laurencich Minelli (a cura di). Jaca Book, Milano, 2007.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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GRANDI SCOPERTE
Il mausoleo di una principessa wari il mausoleo a Castillo de Huarmey fu venne eretto il resto dell’edificio, che incostruito tenendo sempre come punto clude altre sepolture di persone di rango di riferimento la tomba sotterranea delle inferiore 3. I wari inumavano i loro morti donne dell’élite 1, una camera parzial- in spazi vincolati ai luoghi di residenza, stamente scavata nella roccia della collina. bilendo una stretta relazione tra la vita e la Al di sopra si edificò una sala del trono 2 morte. Nel caso del Castillo de Harmey, il dotata di un bancale su cui si realizzavano palazzo si trovava ai piedi della collina, e i riti e con nicchie nelle pareti in cui proba- defunti venivano trasportati in processione bilmente si collocavano i fagotti funerari fino all’ultima dimora, come illustrato nella durante la cerimonia. Attorno alla sala ricostruzione a destra 4.
4
2
1
c
3 b a
ILLUSTRAZIONE: FERNANDO G. BAPTISTA / NATIONAL GEOGRAPHIC IMAGE COLLECTION
Tomba collettiva. Aveva 58 fagotti funerari; di questi, 54 si trovavano nella camera principale e altri quattro nelle tre laterali (a , b , c ). In una di queste (b ) venne rinvenuta la dama principale. Sopra lo strato di terra, pietre e fango con cui si sigillò l’insieme vennero deposti i corpi di sei adolescenti sacrificate.
STORIA VISUALE
Dust Bowl, la natura si ribella negli Stati Uniti La maggiore e più lunga catastrofe naturale registrata negli Stati Uniti fu il cosiddetto Dust Bowl (conca di polvere), che colpì con particolare veemenza gli stati dove si estendono le Grandi pianure – Colorado, Kansas, New Mexico, Texas e Oklahoma
All’inizio del XX secolo le Grandi pianure videro una diminuzione della vegetazione che un tempo aveva alimentato le ormai scomparse mandrie di bisonti e più tardi gli allevamenti di bovini, la cui carne stava calando di prezzo. I contadini decisero di sfruttare le loro terre con la coltivazione intensiva del grano, attratti dal suo crescente valore di mercato (soprattutto a causa della richiesta da parte dei contendenti della Grande guerra) e dall’inedita abbondanza di piogge che negli anni venti si registrarono in quelle terre semi-aride. Ma tra il 1930 e il 1940 ci fu una lunga serie di periodi di siccità. Il terriccio inaridito, ormai privo delle radici dell’erba che trattengono il suolo e l’umidità, si trasformò in polvere e questa fu trasportata dai forti venti primaverili della regione, dando luogo a tempeste di sabbia simili a quella visibile in questa istantanea, scattata nel maggio del 1936 vicino a Lamar, in Colorado. Eventi di questo genere si susseguirono con frequenza sempre maggiore: se nel 1932 furono 14, nel 1933 se ne contarono 38.
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QUANDO LE PRATERIE RIMASERO SENZA ERBA
STORIA VISUALE
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LA TERRA DELLA DESOLAZIONE
Sugli abitanti delle pianure si abbatté un’apocalisse. La polvere distruggeva i raccolti, danneggiava gli artefatti umani – arrivando a scrostare anche la vernice delle auto – e provocava lesioni agli animali penetrando negli occhi, nello stomaco e nelle vie respiratorie. Anche gli esseri umani potevano ammalarsi, per esempio di polmonite o di “febbre della valle”, una patologia causata da un fungo presente nel terreno e disperso con le particelle in sospensione. Sciami di cavallette divoravano le piante. Il cibo scarseggiava e si diffondevano la malnutrizione e il rachitismo. Tutto era ricoperto da montagne di polvere: nel dicembre del 1935 fu stimato che nell’anno in corso si erano riversati sulle pianure del sud ben 850 milioni di tonnellate di terra. Questa immagine del 13 maggio 1936 mostra un’automobile, dei macchinari agricoli e una fattoria semisepolti a Dallas, nello stato del South Dakota, in quelle vaste praterie senz’alberi che erano le Grandi pianure.
STORIA VISUALE
La siccità e le tempeste di polvere, che si susseguirono con frequenza fino al 1936, significarono la morte per migliaia di famiglie già colpite dalla Grande depressione, la devastante crisi economica che era scoppiata nel 1929. Gli agricoltori non potevano pagare i mutui e i prestiti con cui avevano comprato i macchinari agricoli nel decennio precedente; i braccianti persero il lavoro. Circa 2,5 milioni di persone furono costrette a trasferirsi, e in più di 250mila abbandonarono le Grandi pianure. Molte di loro partirono alla volta di in una California senza polvere, nella cui prospera agricoltura speravano di trovare lavoro come stagionali. È il caso di questi due uomini che trasportano i loro miseri averi lungo la strada per Los Angeles, in un’istantanea scattata il primo marzo 1937. La fotografa Dorothea Lange ha incluso nell’inquadratura una pubblicità della compagnia ferroviaria Southern Pacific: «La prossima volta scegli il treno. Rilassati». Quanti di quei migranti potevano permettersi di acquistare il biglietto?
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IN FUGA DALLA CATASTROFE
STORIA VISUALE
I RIFUGIATI DEL DUST BOWL
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«Sono un rifugiato del Dust Bowl, / solo un rifugiato del Dust Bowl». Così inizia Dust Bowl Refugee, una delle canzoni più conosciute di Woody Guthrie, che fu costretto a lasciare il suo stato natale, l’Oklahoma, in cerca di lavoro all’età di 19 anni, prima di diventare un famoso cantante folk. Nel suo album Dust Bowl Ballads, registrato nel 1940, Guthrie avrebbe inserito questa canzone e l’altrettanto famosa Do Re Mi, un avvertimento ai migranti delle Grandi pianure sulle difficoltà che li attendevano in California. Il cantante era uno delle migliaia di okies, come venivano definiti questi migranti, venissero o meno dall’Oklahoma. Molti caricarono tutti i loro averi su automobili sgangherate e partirono alla volta di un futuro incerto nei campi della California di cui cantava Guthrie; qui era diretta anche questa famiglia di contadini colpiti dalla siccità fotografati da Dorothea Lange ad Abilene, Texas, nell’agosto del 1936. Nel suo romanzo Furore, pubblicato nel 1939, lo scrittore statunitense John Steinbeck rappresentò magistralmente tramite l’esperienza dei Joad la straziante odissea di queste famiglie che si ritrovarono sulla strada.
scopri di più sul dust bowl su www.storicang.it
L I B R I E M O S T R E A CURA DI MATTEO DALENA
STORIA SOCIALE
Quando l’eterosessualità era l’unica scelta possibile
D
eve essere chiamata la levatrice ad attestare il tuo sesso, che non può essere desunto dal tuo aspetto e dal tuo atteggiamento» recita una satira del 1733. In un’altra dello stesso periodo s’ironizza: «Oggi una figlia e domani un figlio! Dimmi, al nostro prossimo incontro, questo ragazzo femminile, questa ragazza mascolina, darà o riceverà un bacio?». Alla comunità queer, composta cioè da tutte quelle soggettività che rappresen-
Maya De Leo
QUEER. STORIA CULTURALE DELLA COMUNITÀ LGBT+ Einaudi 2021; 272 pp., 14 ¤
tano la più alta affermazione della differenza, la storica Maya De Leo dedica un saggio in cui indaga l’eredità storica delle componenti oggi racchiuse nell’acronimo LGBTQ+ (lesbian, gay, bisexual, transgender, queer) che vanno oltre il «rigido binarismo di genere». Per l’autrice tali categorie sono il frutto di un’esigenza sociale «che riorganizza le conoscenze scientifiche acquisite nel XVII secolo in materia di sessualità e riproduzione in un nuovo sistema di
genere all’insegna dell’aut/ aut: maschile e femminile, anzi maschile o femminile». Nel XIX secolo tutto ciò che non è conforme alla visione della coppia coniugale eterosessuale viene confinato nell’illecito e nel patologico. Le sessualità non riproduttive come la pederastia vengono studiate dai medici legali nei processi per sodomia e oltraggio al pudore: «Si tratta di materiale che concorre a fare del sesso penetrativo eterosessuale l’unica attività sessuale ammissibile, indicatore di “sanità” mentale, oltreché di “salute” fisica, demandando alla medicina e alla nascente psichiatria il compito di rintracciare le cause dei comportamenti “devianti”».
ILLUSTRATI
L’ULTIMO IMPERO ROMANO NELLE MANI DI “RAGAZZINI” André Piganiol l’impero romano fu «assassinato» dai barbari. In revisione del “mantra” storiografico che ne attribuiva la responsabilità alle invasioni di popolazioni che gravavano sulle frontiere si pone lo storico Arnaldo Marcone. Nel 476 d.C. il potere imperiale era assai debole perché «retto spesso da ragazzini sotto la tutela delle madri che si appoggiavano a uomini forti come Stilicone, Bonifacio, Ezio» spiega l’autore. L’impero era «ridotto ormai a una piccola parte della precedente estensione, affidata a truppe germaniche mercenarie, potenzialmente agguerrite, ma fedeli in prima istanza ai loro comandanti». Odoacre, che depose Romolo Augustolo, era uno di questi.
SECONDO LO STORICO
Arnaldo Marcone
L’ULTIMO ANNO DELL’IMPERO. ROMA: 476 D.C. Salerno, 2021; 176 pp., 11.99 ¤
126 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Accademia italiana della cucina (disegni Federico Pietrobon, testi Marco Madoglio)
STORIA DELLA CUCINA ITALIANA A FUMETTI Bolis 2021; 208 pp., 14 ¤
manca solo il segnale […] Che il banchetto abbia inizio. Clap Clap». Il battito delle mani di un capofamiglia etrusco dà inizio al sontuoso pasto orga«TUTTO È PRONTO,
nizzato per celebrare l’arrivo in famiglia di un nuovo nato. Dopo una serie d’insalate a base di verdure cotte e crude, si passa a una sublime «anatra arrosto che viene accolta con un grido di gioia da parte del giovane che l’ha cacciata» adoperando una fionda. Seguono diverse altre portate: orate, tonni e frutti di mare accompagnati da salse e focacce calde. Infine arriva il turno dei dolci: torte a base di uva, prugne, melagrane; frittelle di farina, frutta secca e mele; schiacciate con uva, formaggi con miele, frutta secca e fresca. Un testo a fumetti curato dall’Accademia italiana della cucina ripercorre la storia delle tavole della penisola dal V secolo a.C. fino al XX.
PHOTO BY ANDREA MARTIRADONNA. © ALL RIGHTS RESERVED DOTDOTDOT
ATLANTE FARNESE. II SECOLO D.C., COPIA ROMANA DA ORIGINALE GRECO. MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE, NAPOLI. SALA OTTAGONA DELLA DOMUS AUREA, ROMA.
ARTE ROMANA
I tesori di Nerone studiati da Raffaello In alcune sue opere l’artista rinascimentale s’ispirò agli stucchi e ai marmi della Domus Aurea dell’imperatore
A
partire dal 1480 un gruppo di pittori si calò a più riprese nelle “viscere” di colle Oppio a Roma per ammirare quelle che a prima vista sembravano grotte. Pinturicchio, Filippino Lippi, Luca Signorelli e poi Pietro Perugino, Sandro Botticelli e Domenico Ghirlandaio, armati di torce e di curiosità, gettarono uno sguardo su quelle che credevano essere le decora-
zioni di antiche abitazioni romane. Gli artisti pensavano infatti di ammirare le rovine e gli affreschi delle terme di Tito, che invece si rivelarono essere quelli della Domus Aurea, la fastosa reggia fatta costruire da Nerone dopo l’incendio del 64 d.C. La residenza neroniana, un trionfo di stucchi, pitture, marmi colorati, rivestimenti in oro e pietre preziose, fu volutamente dimenticata
dopo la morte dell’imperatore e al suo posto sorsero altri edifici come il Colosseo e le terme di Traiano. Nel 1496 i sistemi decorativi presenti negli ambienti sotterranei dell’originaria Domus Aurea presero il nome di “grottesche”. Ma la logica di tali raffigurazioni sarebbe stata studiata e compresa solo due decenni più tardi da Raffaello Sanzio. Grazie alle sue competenze antiquarie
l’artista riuscì a riproporne i motivi fondamentali nella Stufetta del cardinal Bibbiena (1516): un piccolo ambiente al terzo piano del palazzo apostolico in Vaticano o la Loggetta dello stesso cardinale (1516-1517). Animali immaginari, motivi fitoformi, arpie, strumenti musicali, vasi con perline, palmette sono solo alcune delle raffigurazioni della Domus Aurea che rivivono in una mostra dagli apparati interattivi che ripercorre le fasi della scoperta di un corpus pittorico assurto a nuova vita. RAFFAELLO E LA DOMUS AUREA. L’INVENZIONE DELLE GROTTESCHE Domus Aurea, Roma fino al 7 gennaio 2022 raffaellodomusaurea.it
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Prossimo numero ULISSE, UN RE DELL’ETÀ DEL BRONZO
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SEBBENE Ulisse sia un personaggio mitologico protagonista dell’Iliade e dell’Odissea di Omero, le sue avventure rimandano a una civiltà esistita sicuramente: quella micenea, sviluppatasi nella Grecia dell’Età del bronzo. Nelle sue opere dunque il poeta greco tramanda antichi echi di questa civiltà, che prende il nome dal metallo di cui erano fatti le armi e gli oggetti più preziosi dell’epoca.
L’IMPERATORE CLAUDIO CONQUISTA LA BRITANNIA NEL 43 D.C. l’imperatore Claudio si
lanciò senza indugi in una folle quanto ambiziosa impresa militare: la conquista della Britannia. Qualche decennio prima Giulio Cesare aveva provato a occupare quel territorio, ma alla fine era stato costretto a rinunciare. Claudio, incoraggiato dal successo delle prime spedizioni, partì alla volta dell’isola e diresse una campagna che culminò con la vittoria schiacciante dei romani, anche se la reale sottomissione del territorio si sarebbe verificata decenni più tardi. ALAMY / ACI
Di cosa morivano i faraoni? Ramses V contrasse il vaiolo e Tutankhamon prese la malaria: l’analisi delle mummie dei sovrani rivela che soffrivano delle stesse malattie dei loro sudditi.
Il mausoleo di Alicarnasso Mausolo, il satrapo persiano di Alicarnasso, ordinò di costruire una sontuosa tomba che divenne una delle sette meraviglie del mondo antico.
Bosch, il pittore dei sogni L’universo fantastico di Hieronymus Bosch offre un riflesso fedele della morale religiosa centroeuropea dell’inizio dell’Età moderna.
Santa Sofia, il gioiello dell’impero La basilica che Giustiniano ordinò di costruire nel 532 divenne il simbolo di Bisanzio per oltre un millennio, fino a quando, nel 1453, fu convertita in una moschea.
Le tante facce di Cristoforo Colombo La sua figura, a lungo dimenticata dopo la morte, nel XIX ebbe diverse interpretazioni: abile marinaio, vittima di re egoisti, evangelizzatore convinto.
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