magazine inverno 2013

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Reader’s Bench

Tutto il mondo dei libri su una panchina

Magazine Inverno 2013

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Reader’s Bench: Cover artist: Elena Casagrande Direttore: Clara Raimondi Design Grafico: Francesco Miserendino Vicedirettore: Diego Rosato Caporedattore: Ariberto Terragni

Redazione:

Giulia Battaglia Mattia Galliani Cristina Monteleone Claudia Peduzzi Alberto Petrosino Giuseppe Recchia Chiara Silva Nicoletta Tul Claudio Turetta Floriana Villano Claudio Volpe

Si ringraziano: Elena Casagrande Daminano Celestini Massimo Carlotto Simone Di Biasio Massive Distortion Mariapia Veladiano

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sommario intervista a elena casagrande..........................................6 l’altro larsson..................................................................12 tradurre tradire..............................................................16 ebook dove sei?...............................................................18 dieci libri sul giornalismo..............................................20 un lungo, lungo viaggio..................................................24 l’aspetto umano della scienza........................................36 reader’s kitchen..............................................................38 l’affresco del sistema giuridico italiano.........................40 il tempo è un dio breve...................................................42 la vita ha in sé una promessa di eternità.......................46 naturale che sia cinema..................................................50 booksalad.........................................................................52 la fuga...............................................................................58 massive distortion............................................................64 massimo carlotto..............................................................72 senza l’angoscia dell’avvenire..........................................78 il limite delle cose............................................................82 l’inverno sta arrivando....................................................84 l’infiltrato.........................................................................88 tornare tardi.....................................................................94 la sfida di marco caselli..................................................102 little readers....................................................................106 la poesia di cavalli...........................................................108 la summa delle esperienze della mia vita......................110 il futuro del libro............................................................114 ho sempre scritto per me...............................................116 tre personaggi per raccontare nina berberova................122 assenza.............................................................................126 la panchina......................................................................128 reader’s club.....................................................................132 Reader’s Bench 4


editoriale Dopo rinvii e problemi di ogni genere, finalmente é online il numero invernale di Reader’s Bench Magazine. Un’uscita sofferta ma che tuttavia ha visto la luce grazie, soprattutto, a tutto lo Staff di Reader’s Bench che é stato, come al solito, impareggiabile. Una versione del nostro magazine estremamente curata nella veste grafica a partire dalla bellissima cover realizzata da Elena Casagrande. Meglio conosciuta al grande pubblico come Lara West é una disegnatrice Marvel ed una delle protagoniste del collettivo Trucker che più volte si é accomodata sulla nostra panchina; con Colore (é questo il titolo del suo lavoro) ha voluto interpretare lo spirito della panchina del lettore. E direi che ci é riuscita alla grande visto che la giovane protagonista della tavola, aprendo il suo libro, accende un mondo ricchissimo di contenuti, immagini e personaggi indimenticabili. Gli stessi che ritroverete nelle pagine di questo numero che ospita due assi, due veri e propri pezzi da novanta: Massimo Carlotto e Mariapia Veladiano, amici di RB e scrittori che si sono messi in gioco raccontando se stessi e i loro romanzi. Grandi nomi ma anche due giovani ospiti: Damiano Celestini e Simone Di Biasio, un giornalista ed un esperto di comunicazione che ci parleranno, rispettivamente, di libri e giornalismo e di poesia. Ma le collaborazioni non finiscono qui perché Reader’s Bench é orgoglioso di aver collaborato con Massive Distortion, il sito d’informazione musicale di Roberto Gavini e Alessandro Pietrostefani, che hanno voluto abbinare alla musica, alcuni romanzi, scelti tra le uscite più interessanti di questo periodo. Ci saranno come al solito tutte le nostre rubriche: dalla cucina, alla sezione dedicata ai Little Readers e non poteva mancare il nostro Reader’s Club. Il club esclusivo per i veri Readers nel quale si parlerà di moda, musica, politica ed internet. Non mancheranno le nostre recensioni, gli articoli dedicati al mondo dell’editoria con l’intervista ai direttori editoriali di Booksalad, giovane casa editrice italiana che ci parlerà del suo catalogo e delle prossime uscite. Naturalmente proseguiranno le interviste a due giovani protagonisti: Paolo Stella, attore e scrittore, e Marco Caselli, disegnatore di Cassandra, un graphic novel, targato Tunué, di grande successo. Cos’altro? Naturalmente parleremo di cinema, tv e vi porteremo alla scoperta di autori immortali e contemporanei. Ma ci sarà anche e soprattutto da leggere su RB con i racconti dei nostri Ariberto Terragni e Alberto Petrosino e con quelli dei vincitori dei concorsi: 500 storie d’autunno e Buon Compleanno Reader’s Bench. Non resta allora che accomodarsi sulla panchina e godere di tutte le pagine di questo numero. Benvenuti Readers! Clara Raimondi scrivitemi a readersbench@gmail.com

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intervista a elena casagrande

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Elena Casagrande ha realizzato la cover di questo numero invernale di Reader’s Bench magazine. Un lavoro che l’ha portata fuori dal suo mondo ma che tuttavia incarna perfettamente lo spirito della panchina del lettore. Un piccolo gioiello che testimonia le straordinarie capacità di un’artista che abbiamo imparato a conoscere con il tempo sulla panchina del lettore. Attraverso questa intervista scopriremo come é nata la copertina e i prossimi lavori che attendono Lara West.

Elena Casagrande, al secolo Lara West, abbiamo iniziato a conoscerti attraverso un video, realizzato per il nostro canale Youtube e poi con l’intervista contenuta all’interno del nostro speciale interamente dedicato al fumetto. Per questi motivi quella di oggi sarà un’intervista al contrario e ti chiediamo subito a quali progetti stati lavorando e se puoi darci, su due piedi, qualche anticipazione? Al secolo? Vabbene i capelli bianchi, ma non è un po’ esagerato? :P Dunque dunque, facendo finta di fare le persone serie: attualmente sto ultimando l’ultimo numero di Hack/Slash per la Image, nel prossimo futuro, come già è stato annunciato qui comincerò una nuova testata per la Boom! Studio, Suicide Risk, su sceneggiature di Mike Carey. Poi in cantiere ci sono un altro paio di progetti ma che ancora non posso spoilerare, la costante partecipazione mensile con i banner per il sito di Blastoff Comics (http://www.blastoffcomics. com/), qualche progetto personale su cui spero di mettere presto le mani e il nuovo lavoro con le Truckers. Se per quest’estate sarò ancora viva, vi mando una cartolina. L’ultimo lavoro, una sorta di autoproduzione al femminile, realizzata con il collettivo Truckers é What The Fake, ne abbiamo parlato sulla panchina e abbiamo intervistato le tue colleghe in quel di Lucca e adesso vogliamo sapere come sta andando il progetto e se ci sono delle novità a riguardo. Devi sapere che in questo ambito una delle cose che attira di più l’attenzione è l’hype che si crea intorno ad un prodotto, e per crearlo c’è anche il fattore “sorpresa” da rispettare, quindi evitando qualsiasi genere di spoiler vi posso solo dire che sarà un lavorone che ci terrà parecchio impegnate, sarà una cosa più accattivante e più articolata, che spero possa soddisfare le nostre aspettative e quelle del pubblico. L’unica cosa che posso affermare è che le Truckers stanno solo facendo il pieno all’autogrill, revisionando i motori e comprando le nuove casse di birra... presto ci rimetteremo in moto!

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What the fake é una rilettura delle leggende metropolitane che hanno invaso l’immaginario collettivo e cinematografico. Ogni storia infatti é introdotta da veri e propri poster cinematografici. Ti va di parlarci dei tuoi lavori: Aren’t you glad you didn’t turn on the light, Drops e Me and my moster? Si, è stata una scelta grafica e passionale quella di unire le leggende ai poster cinematografici. Nei miei in specifico ho scelto di affrontare 3 periodi diversi del cinema, gli anni ‘70, gli anni ‘80 e i giorni nostri; tale diversificazione è avvenuta anche per quel che ho voluto rappresentare in fattispecie nell’immagine e raccontare nel testo, e cioè il momento prima, il momento centrale e il momento successivo della leggenda: “Aren’t you glad to turn off the light?” è ambientato prima che il fattaccio accada, non tanto l’assassinio, che la scritta sul muro fa dedurre sia già avvenuto, quanto alla protagonista che deve ancora scoprirlo e che quindi dara il via alla

leggenda; il poster è di ispirazione 80’s, tanto nell’impostazione grafica (mi sono ispirata alla cornice di Footlose), quanto nei colori, nell’aspetto della ragazza e nei piccoli riferimenti nerd sparsi qui e là. “Me and my monsters” è antecedente e ha in sé gli elementi più caratteristici degli anni ‘70, a partire dal tema che tratta, l’aspetto vintage, i colori sgargianti, le texture disturbanti, il riferimento al Vietnam... l’attimo è quello successivo al nocciolo della leggenda, ovvero le conseguenze dell’assunzione dell’LSD da parte dell’ignaro bambino e quindi la sua morte. Infine Drops, d’ispirazione contemporanea alle locandine grafiche, concise e pregne di tutto il significato necessario di Olly Moss, è la rappresentazione del momento centrale della storia, quando l’assassino ha appena ucciso la sua vittima e la ragazza se ne sta rendendo conto, tramite appunto le gocce sulla macchina.

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Nessuna delle 3 è stata di facile realizzazione, chi per concecipemto dell’idea, chi per la scelta del soggetto, chi per le tecniche di realizzazione (ricordando che io NON sono una colorista professionista), hanno tutte rappresentato per me una bella sfida. E così anche i testi: l’unico punto fermo da cui ero decisa nel partire era l’uso della prima persona, perchè un racconto in soggettiva era più idoneo per me ad un’immediata immedesimazione dell’attimo descritto. Arriviamo a quella che sarebbe dovuta essere la prima domanda: che cosa ti ha ispirato per la realizzazione della cover di questo numero di Reader’s Bench Magazine? Che cosa stai leggendo in questo periodo? Onestamente l’idea è venuta da sé abbastanza in fretta. Non avendo tema se non quello di inserire una panchina e dell’inverno, la prima cosa che mi è venuta in mente è stata quella di una ragazza che legge al parco in attesa di un appuntamento. Subito dopo ho pensato che avrebbe avuto molto freddo a star ferma così, quindi mi è venuta in mente l’associazione che fuori c’è la temperatura glaciale ma dentro, grazie alla lettura, il cuore e la mente si scaldano. Da qui la scelta dei colori, mentre lo stile è personale in quanto io adoro le rappresentazioni grafiche (scusate se uso tantissimo questa parola, ma ha una doppia valenza, in questo caso è usata in contrasto al concetto di realistico). Avevo in mentre questa massa che proveniva dalla testa della ragazza, una massa fatta di tanti protagonisti, di tanti accadimenti, così ho scelto tra i personaggi e gli elementi più famosi e ricorrenti della lettura in generale, che sia narrativa, fumetti, letteratura, poesia etc etc. Spero sia piacevole, mi sono divertita molto nel farla perchè è un po’ lontana dal mio lavoro abituale. Purtroppo ultimamente sono un po’ ferma nelle letture perchè il lavoro mi ha totalmente inglobata, perciò nel poco tempo libero che ho mi nutro, mi lavo e dormo. Ah, e do’ qualche bacino anche al mio ragazzo che mostra tanta tanta tanta pazienza... u__u’ Comunque l’ultima cosa che ho letto è stato Wanted, di Millar e J.G. Jones. Sì,ho una caterba di arretrati da recuperare tra libri e fumetti. Se st’estate non ricevete la cartolina me li mettete sottoterra con me? Baci!

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l’altro larsson

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di claudia peduzzi

Nemo Profeta in patria. Premesso che Larsson in Svezia è un cognome più diffuso che Rossi in Italia, alla domanda “Conosce lo scrittore Bijőrn Larsson?” uno svedese facilmente risponderebbe: “ Larsson? Vuol dire Stieg...”. Bisogna riconoscere che Bijőrn non si è molto applicato per conquistarsi simpatie in patria, soprattutto nell’ambiente letterario. Dopo aver vissuto a lungo all’estero, anche adesso che insegna francese all’università di Lund, ha scelto di risiedere (e soprattutto pagare le tasse!) in Danimarca. Al pari del suo omonimo (che afferma di non conoscere come scrittore, ma al quale si riferisce ampiamente nel suo ultimo romanzo) ha contribuito ad alimentare in me l’idea che la Svezia sia come la Svizzera: una democratica dittatura, se la conosci la eviti. Nel suo profetico romanzo “L’occhio del male” del 1999 - in cui, due anni prima dell’attentato alle Twin Towers, immagina che un gruppo di estremisti islamici progetti di minare un cantiere della metropolitana di Parigi per far sprofondare, e contemporaneamente allagare con le acque di falda, l’intero quartiere soprastante, causando la morte di migliaia di persone – Larsson affer-

ma che tutti i tiranni combattono la letteratura e la fantasia, perchè consentire alla massa di immaginare li porterebbe fatalmente a capire che si può vivere diversamente. Ne Il segreto di Inga del 2003 realtà e finzione sono talmente intrecciate, che è stata una vera sfida, nel corso della lettura, cercare di separare la verità dall’invenzione narrativa. L’autore parte dichiarando che la letteratura non dovrebbe mai spacciare la realtà per finzione, ma che purtroppo a volte questo è l’unico espediente che consente di denunciare fatti che altrimenti cadrebbero sotto le maglie della censura. La Inga del titolo è Inga Andersson, ricercatrice presso l’università di Lund di criminologia e sette segrete. Invitata a partecipare in Francia ad un convegno su criminalità e letteratura, chiede consiglio ad un collega, il professore di francese, ma anche romanziere, Anders Ingesson (da notare, oltre alle evidenti analogie professionali con lo stesso Bijőrn, il gioco incrociato dei nomi dove il nome di battesimo dell’uno è il cognome dell’altro e viceversa). In seguito a questo confronto decide di non intervenire presentando la solita relazione, bensì di scrivere un

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racconto, incentrato sull’agenzia americana per la sicurezza nazionale NSA e il leggendario punto d’ascolto Echelon, sfidando la platea a riconoscere le informazioni reali da quelle inventate. Questa idea apparentemente innocua innescherà una serie di pericoli “reali” che coinvolgeranno Inga e i suoi fantastici angeli custodi, due vecchi pescatori, nonchè reduci

di guerra, danesi. In questo romanzo più che mai trova conferma una delle affermazioni care all’autore, ossia che ciò che più resta vivo nella memoria dei lettori sono i personaggi della letteratura e non il nome dello scrittore, benchè siano proprio gli scrittori a rischiare a volte la vita per le proprie idee, come Salman Rushdie o Saviano. Che sia per questo che ha scelto di affidarsi ad un alter ego narrante? Per

trasformarsi in personaggio e raccontare la verità in modo che la gente ci creda, ma senza correre rischi in prima persona? Quale che sia lo scopo, con Bijőrn si può essere certi che ogni lettura è un’avventura. Nella sua ultima fatica letteraria, “I poeti morti non scrivono gialli” (2011), è guerra aperta con le case editrici, colpevoli di pubblicare solo ciò che è di sicuro successo, come appunto i gialli, che tra l’altro in Svezia sembrano ormai essere diventati sinonimo di letteratura. Il romanzo è una parodia del genere, con moltissimi riferimenti all’omonimo Larsson a nome Stieg. Il protagonista è un poeta, Jan Y. Nilsson, che pur di consacrare la sua vita alla poesia si è lasciato cacciare di casa dal padre scegliendo di vivere su di un vecchio peschereccio in stato di semi-indigenza. Non che il suo talento e le sue capacità non siano state nel tempo riconosciute, ma la poesia vende poco e nonostante la buona volontà e la comprensione del suo editore le sue pubblicazioni sono sempre in perdita. Più per riconoscenza nei confronti della casa editrice, che non per necessità personale di denaro, accetta di scrivere un romanzo giallo, che intitola “Uomini che odiano i ricchi” (primo riferimento all’altro Larsson). Tutti sanno che non è per nulla convinto che si tratti di una buona idea ed anche che questo progetto è causa di discussioni con la sua innamorata (ben inteso, lei di lui e non viceversa), una donna che ha consacrato la sua vita a lui tanto quanto lui l’ha votata alla poesia. Quando l’editore lo trova impiccato nella sua casa galleggiante nessuno dubita che non si tratti di suicidio, causato dal rimorso di aver ceduto alle pressioni del mercato editoriale. Solo grazie al poliziotto del porto, un detective con l’insolito hobby della poesia, le indagini prendono una strada diversa. Il romanzo è un vero elogio alla poesia vista come mezzo per illuminare il mondo di una luce diversa. Barck, il poliziotto-poeta, si rivela un

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investigatore migliore proprio perchè grazie al suo hobby è maggiormente abituato alla riflessione. La poesia insegna a non dare nulla per scontato, ad osservare i particolari e di conseguenza permette di vedere quei collegamenti che rimangono invisibili agli occhi di chi è abituato a “consumare” la realtà senza vederla davvero. Scavando nella vita privata di Jan Y. il detective scopre che il padre che lo aveva diseredato non disdegna di dividersi l’eredità con l’altro figlio, mentre la paziente compagna di una vita, che il defunto aveva indicato come destinataria della sua eredità letteraria, non avrebbe diritto a nulla (chiaro riferimento alla penosa disputa per l’eredità di Larsson Stieg). Ma anche se una delle più belle liriche che compaiono nel romanzo (la cui paternità è del poeta francese, vivente, Yvon Le Man) s’intitola “Regalami libri che finiscano bene”, Bijőrn sceglie una conclusione poco romantica e molto sanguigna, perchè così capita nella vita reale, a differenza dei gialli. Chi già sapeva che Larsson di nome non fa solo Stieg avrà notato i grandi assenti di questa carrellata, ossia i titoli per cui Bijőrn è famoso nel mondo: Il cerchio celtico e La vera storia del pirata Long John Silver. Entrambi bellissimi presuppongono tuttavia che il lettore condivida con l’autore l’amore per la navigazione a vela. Manca anche il Porto dei destini incrociati, ma in questo caso manca proprio nella mia libreria ed è un buco che spero di riempire al più presto.

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tradurre tradire di ariberto terragni

La questione è antica. Leggere un’opera in lingua originale significa aderire ai codici espressivi dell’autore, magari cogliendo sfumature di senso e nodi lessicali che resi in altre lingue si perderebbero. Vero. D’altra parte la letteratura è figlia del linguaggio, non è musica o pittura, che si basano su altre forme compositive e su altri codici, che non hanno bisogno di traduzioni (o si? Lasciamo stare per questa volta). Ci sono testi che si prestano ad essere trasposti, come i fogli illustrativi o i libretti di

istruzione, ma la natura stessa di un’opera letteraria è innervata con il linguaggio con cui si manifesta: quell’espressione codificata non è solo la veste, ma anche la sostanza. Come tradurre senza tradire allora? La Commedia di Dante ha senso in giapponese? Può essere che sia così, la poesia, come il suono, si presenta in forme interpretative inaspettate, rivela se stessa oltre se stessa, ma questo aspetto esoterico non basta a risolvere il problema: tradurre vuol dire tralasciare qualcosa e aggiungere

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qualcos’altro. Lo sa bene la lingua italiana, così accogliente nei confronti degli altri idiomi con tutto il suo armamentario di aggettivi e avverbi e la sua duttilità sostantivale: nomi liquidi, che consentono un adattamento plastico sulle altre forme. La lingua italiana si fa concava e convessa a seconda delle necessità. Ma è bestiale da tradurre. Troppo evanescente, troppo sfuggente. E’ una lingua da chiare fresche e dolci acque, non da Zeitgeist: ha i tempi della poesia, ma non il rigore della filosofia: la lingua è anche il vettore della cultura di un popolo, del suo modo di vivere lo spirito del tempo (tre parole per dire Zeitgeist senza spiegarlo), e l’italiano è quello che è in quanto a metodo e precisione. Tradurre allora è tradire? Sì, forse. Forse però si tradisce per amare meglio, potrebbe rispondere il traditore di professione. D’altra parte non si possono conoscere tutte le lingue del mondo, e anche le forme di multilinguismo (posso provare a immaginare, io che sono cocciuto e le lingue vive le imparo male e con grande fatica) hanno in ogni caso la necessità di ricondursi ad una lingua madre, ad un linguaggio base che è poi quello della prima socializzazione. Diceva non a caso Nietzsche, in una delle sue provocazioni, che conoscere tante lingue è una forma di stupidità, perché significa che non si penetra a fondo di nessuna, e si resta a galla con tutte. Non so se sia vero. Ma è certo che uno scrittore fatica più di altri a togliersi di dosso l’armatura del proprio linguaggio, visto che questa aderisce alla sua pelle tanto da diventare parte fondante della sua identità. Le traduzioni, in altre parole, servono come l’aria. Senza il lavoro dei filologi alessandrini e dei monasteri nel medioevo noi oggi non potremmo leggere né la Bibbia né Platone, e persino Shakespeare, con quel suo inglese desueto, risulterebbe di difficile accesso anche agli Erasmus più incalliti. Il sapere per potersi

tramandare deve assumere altre forme: e forse è meglio una bella e accurata traduzione con testo a fronte (che fa moltissimo, dico per esperienza personale) piuttosto che un testo morto e letto da nessuno. La pratica della traduzione serve anche a rivitalizzare un’opera, a interrogarla nuovamente sotto l’aspetto filologico, lessicale, ma anche storico: quante traduzioni ha avuto Omero? Di certo non ci siamo fermati a Vincenzo Monti, la cui benemerita opera dovrebbe a sua volta essere tradotta per essere letta oggi. Il lavoro del traduttore assomiglia a quello di un chimico: deve avere conoscenza profonda degli elementi che maneggia, saperli dosare perché non gli esplodano tra le mani; gli elementi linguistici sono instabili, pronti a dare reazioni indesiderate e a combinarsi in modo letale. Tralasciando per un attimo gli aspetti di linguistica cognitiva e di semiotica di base, chi ha a che fare con lingue diverse sa quanto queste rischino di essere oggetti incompatibili le une con le altre: la prassi linguistica può diventare un grosso problema, specie nelle sfumature di significato, con quei chiaroscuro di senso (calembour, giochi di parole) che sono impossibili da rendere, perché in gioco, prima ancora che il senso, c’è il segno. Al lettore che cosa rimane alla fine? Non è detto che la risposta sia nulla. Nei vari travestimenti che le idee assumono si possono rivelare aspetti inediti di un’opera o di un autore. E’ voce comune e credo non infondata che il greco antico sia traducibile in modo accettabile solo in tedesco, non a caso, le due lingue della filosofia occidentale (curioso accostamento storico visti gli antipodi politico economici dove sono collocate ora le due nazioni), lingue per così dire specializzate nella precisione millimetrica dei concetti. A volte i gradi di parentela riservano sorprese.

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ebook dove sei ?

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di claudio turetta

Finalmente ho acquistato il mio ebook reader ed ora come lo “riempio”? Beh la domanda ha una risposta alquanto retorica, ovunque si acquisti un supporto per la lettura di ebook vendono a loro volta gli ebook stessi. Come non pensare ad Amazon ed al suo Kindle che mette a disposizione di chi possiede il famoso ebook reader rigorosamente in formato ad hoc per esso, lo stesso fanno i vari lettori eBook dei vari store online creando una fidelizzazione tra dispositivo e libro elettronico da acquistare. Ovviamente esistono diversi ebook store in Italia oltre a quelli canonici come Amazon appunto, oppure IBS, LaFeltrinelli e l’ultimo arrivato InMondandori (nomino questi tre perchè vendono anch’essi degli ebook reader legati al proprio market online), andiamo a vederne alcuni: Liber liber: ne abbiamo già parlato sulla nostra panchina ed è il sito del progetto Manunzio dove è possibile trovare moltissimi classici in diversi formati e che sta convertendo quelli presenti in formato epub. I libri sono tutti gratuiti ma per chi vuole c’è la possibilità di fare una donazione, oppure acquistare uno dei diversi gadget presenti nello store. Simplicissimus: altro sito di cui abbiamo parlato. In realtà è un portale molto più esteso che offre diversi servizi, tra cui una sezione in cui si vendono ebook, ma anche un utilissimo e praticissimo forum dove poter raccogliere in-

formazioni sul mondo degli ebook reader sugli ebook. Book Repubblic: altro celebre sito dove è possibile acquistare ebook. È probabilmente quello da più tempo sul mercato ed è dotato di un catalogo maggiore e presenta delle guide all’uso dei diversi ebook sui vari dispotivi eReader. I formati più venduti sono pdf ed epub. Quest’ultimo è il migliore perchè possiede tutta una serie di peculiarità, ed è un formato aperto, ovvero tutti possono usarlo, a differenza del formato che usa Amazon per i suoi dispositivi. Bene quindi quando volete acquistare un ebook, avete delle ottime alternative ai soliti siti mainstream.

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dieci libri sul giornalismo

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di damiano celestini “Perché non scrivi un articolo su dieci libri sul giornalismo che per te sono importanti?” mi hanno chiesto. Mica facile. Perché il giornalismo non è una scienza esatta. Vi immaginate che noia se lo fosse? E ci si può accapigliare sulle teorie più disparate ma resta sempre il fatto che questo mestiere si fa trovando il giusto equilibrio tra una passione quasi infantile per il raccontare il mondo con ogni mezzo e la necessità di frenare questo impeto arginandolo con i paletti dell’obiettività. Proprio per aver ben chiara la responsabilità che si ha tra le mani quando si batte su una tastiera un pezzo o si racconta una storia davanti ad un microfono mi piace partire da “Sul giornalismo” di Joseph Pulitzer. Non puoi leggere se non impari prima l’alfabeto. Non puoi fare il giornalista se non hai chiaro quali siano i valori che ti dovrebbero accompagnare. “Un’opinione pubblica ben informata è la nostra corte suprema – dice Pulitzer -. Perché a essa ci si può sempre appellare contro le pubbliche ingiustizie, la corruzione, l’indifferenza popolare e gli errori del governo, e una stampa onesta è lo strumento efficace di un simile appello”. Ecco, io una frase così la stamperei e ci tappezzerei una redazione. E non è detto che un giorno non lo faccia. Diciamoci la verità. Ognuno di noi ha poi un’immagine romanzata del giornalista: temerario, un po’ trasandato, fumatore incallito. Il mondo reale è un’altra cosa ma voglio segnalarvi tre libri che raccontano vite di giornalisti.

Il primo è “Tredici giornalisti quasi perfetti” di David Randall nel quale l’autore dipinge le storie di penne storiche del giornalismo. Da William Howard Russell “l’uomo che inventò le corrispondenze di guerra” a Edna Buchanan “il miglior cronista di nera mai esistito”. Vite che spesso assomigliano davvero ad un romanzo e che probabilmente appartengono ad un modo di fare giornalismo che con il nostro, fatto di agenzie, email e social network non ha nulla a che fare. Altro libro sulla vita di un giornalista è “È la stampa, bellezza!” di Giorgio Bocca. Un esempio di come si possano attraversare le epoche storiche e tecnologiche senza perdere mai di vista il fine ultimo di questa professione: raccontare i fatti. Non va dimenticato, poi, che il mestiere del giornalista può essere pericoloso. Seguire una guerra o un qualsiasi evento a rischio è come sporgersi dall’argine di un fiume in piena: se non stai

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attento puoi finire in acqua. Per questo voglio consigliarvi “I giorni della paura” di Daniele Mastrogiacomo. Un racconto che l’inviato di Repubblica fa del suo periodo di prigionia in mano ai talebani quando fu rapito in Afghanistan nel 2007. Fin qui ho parlato di esempi da seguire, di valori in cui credere. Il giornalismo, soprattutto nel nostro paese, non è però tutto rosa e fiori. L’assenza totale di editori puri (cioè che vivono di editoria e non sono costruttori, politici o altro) rappresenta un problema non da poco. Un quadro perfetto che emerge anche dal libro di Marco Travaglio “La scomparsa dei fatti” in cui racconta come il potere politico/economico controlli troppo spesso quelli che, in teoria, dovrebbero essere i controllori: i giornalisti. Il sesto libro che vi consiglio è “La casta dei giornali” di Beppe Lopez. In poche pagine l’autore spiega perfettamente quanti soldi pubblici vengano fagocitati ogni anno dai giornali sotto forma di sostegno di Stato e come questo, di fatto, limiti la loro libertà. Libertà che è messa a rischio anche dalle condizioni di lavoro di più del 50% dei giornalisti italiani: pagati a pezzo, poco e male. Molti di loro rischiano la vita per pochi spiccioli. Lo racconta benissimo Raffaella Cosentino nell’ebook “Quattro per Cinque. Quattro centesimi per cinque pallottole” edito da Terrelibere.org. A questo punto, giunto all’ottavo libro, dovrei consigliare anche un manuale. “Professione giornalista” di Alberto Papuzzi. Tutti i

miei coetanei, me compreso, hanno studiato su questo libro. Sia chiara una cosa però: per fare il giornalista serve studiare ma senza dimenticare che qualsiasi collega, anche l’ultimo arrivato, è in grado di insegnarti qualcosa. Di penne perfette e onniscienti al mondo non ne esistono. Chiudo questa carrellata con uno sguardo al futuro e alle nuove tecnologie che hanno rivoluzionato questo mestiere. Due libri su tutti: “L’ultima copia del New York Times” e “Penne Digitali 2.0”. Nel primo Vittorio Sabadin racconta come i quotidiani cartacei stiano cercando di adeguarsi cambiando formato, grafica e contenuti e di come il citizen journalism sia entrato prepotentemente nelle redazioni. Nel secondo, invece, Carlo Baldi e Roberto Zarriello rivedono il ruolo di un giornalismo: “Che sfrutta la tecnologia. Che mantiene le sue sacre regole. Che non viene usurpato dal contenuto generato dagli utenti”. Un’evoluzione tecnologica continua. Anche ora, mentre scrivo, il giornalismo si sta evolvendo e nascono nuove forme di comunicazione. Non è fantastico? Damiano Celestini

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Damiano Celestini è un giornalista e social media manager. Ha collaborato per circa 10 anni con il quotidiano Il Messaggero ma ha sempre lavorato a stretto contatto anche con l’informazone online. Negli ultimi anni la sua passione per i social network lo ha portato a diventare social media manager della casa editrice Abelbooks e anche del quotidiano Bignotizie.it. Ha all’attivo due libri: un romanzo giallo dal titolo “Cronaca di un legame di sangue” e un saggio sul giornalismo “Paese che vai, giornalismo che trovi” entrambi editi da Prospettiva Editrice. Nato e vissuto a Civitavecchia al momento vive a Dublino. Il suo blog è www.ilrompiblog.com.

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un lungo, lungo viaggio di stefano masier

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Non so perché l’ho fatto. Generalmente non sono uno che carica autostoppisti. E dire che nella mia vita ne ho visti così tanti: quasi tutti giovani, piegati sotto il peso di zaini più grandi di loro che sembrano contenere la loro intera vita, in fuga verso qualcosa o in viaggio verso qualcos’altro su strade che loro credono infinite, ma che alla fine sono soltanto una prigione, nemmeno troppo grande in realtà. Tutti con quell’aria speranzosa sul viso, mentre guardano la mia auto avvicinarsi sotto il sole cocente o la pioggia gelida, che velocemente si trasforma in delusione quando capiscono che non mi fermerò per loro. Alcuni, parecchi in realtà, mi hanno rivolto gesti osceni o parole volgari. Non importa. Non sono uno che se la prende per queste cose. Capiranno anche loro, prima o poi. Eppure, questa volta mi sono fermato. Non so perché, eppure l’ho fatto. Questa volta, sono io che non capisco. Ora guardo la ragazza seduta accanto a me – una bella ragazza di circa ventiquattro anni, ma non è quello il motivo per cui l’ho fatta salire. So cosa pensate – e mi chiedo che cosa mi abbia spinto ad accostare sul ciglio polveroso e a sbloccare la portiera. Lei mi rivolge un sorriso luminoso, carico di fiducia e gratitudine, e per un attimo mi ricorda mia moglie com’era quasi trent’anni fa quando l’ho conosciuta, piena di gioventù e voglia di vivere. Forse è per questo che mi sono fermato. O forse no. Non saprei dirlo. “La ringrazio, signore” mi ha detto salendo in auto. È ben educata, pulita, non sembra una vagabonda. La sua pelle è troppo chiara, i suoi jeans e gli stivaletti troppo puliti, la maglietta nera troppo integra perché sia in viaggio da molto tempo. La osservo cautamente, e per un attimo il mio sguardo si ferma tra i suoi seni, dove pende un monile simile a una croce. Non lo faccio per perversione o libido, lo so cosa

pensate; è solo che quell’oggetto sembra attirare il mio sguardo come una calamita. Mi pare di conoscerlo, di averlo già visto, ma non faccio domande. Non sono un tipo curioso. Se è importante mi verrà in mente. “Dove stai andando?” le chiedo, mentre ingrano la marcia e mi immetto cautamente in carreggiata. Cautela inutile, questa strada in mezzo al niente è frequentata solo da pochi camion, e mai a quest’ora del pomeriggio, ma è meglio non rischiare. La sicurezza innanzitutto. Mamma me lo diceva sempre. Come leggendomi nella mente, la ragazza allaccia la cintura di sicurezza. Il leggero scatto della sicura è coperto dalle sue parole, ma so che si è ben assicurata. La spia rossa sul cruscotto è spenta, come è giusto che sia. “Paradise Falls, Colorado” mi risponde. Sollevo un sopracciglio. Mi aspettavo il nome di una grande città, magari in un altro stato, non certo quello di un piccolo paesino di campagna, sperduto quanto questa strada polverosa e arsa da un implacabile sole di metà giugno. “Non è lontano da qui. Come mai ci stai andando?” Mi stupisco di me stesso per quella domanda. Solitamente non sono un tipo curioso. “Devo incontrare una persona.” Annuisco. Un ragazzo, probabilmente. Sarà scappata di casa per vivere la sua grande, piccola storia d’amore. Quanta ingenuità. Comunque non chiedo. Non sono un tipo curioso. “E lei invece dove va?” Mi domanda. Anche questa frase mi coglie di sorpresa. Non mi aspettavo che mi chiedesse di me. Ma forse lo fa solo per educazione. “In realtà da nessuna parte” rispondo con il mio sorriso da prima impressione. Rapidamente, lancio un’occhiata nello specchietto retrovisore, verso il catalogo, ordinatamente ripiegato sul sedile posteriore assieme al mio campionario, e alla mia valigia, appoggiata per terra

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accanto alla piccola sacca da viaggio di tela della giovane. “Sono un commesso viaggiatore, e questa è la mia zona di riferimento. Così la batto tutta, in lungo e in largo, cercando di piazzare qualche articolo.” Non le dico che vendo articoli per la casa, e lei non me lo chiede. Come immaginavo, la sua domanda era dettata solo dalla cortesia. Ma dopo qualche secondo, lei mi spiazza di nuovo. “Ha famiglia, signor Moulinsky?” Per la sorpresa, distolgo lo sguardo dalla strada per fissare in viso la ragazza. Lei mi guarda a sua volta, con un paio di occhi neri come la notte contornati da una linea di henné che prosegue con uno sbaffo elegante fin quasi alla tempia, dove si confonde tra le onde dei suoi lunghi ricci, dello stesso colore dei suoi occhi. Quel trucco ricercato mi ricorda alcune immagini che ho visto un po’di tempo fa in un documentario in televisione, mentre me ne stavo sdraiato nella stanza di un motel a lato della statale. Immagini di murales e di strani simboli mi si affollano alla mente, e in un attimo rammento dove ho già visto quella strana croce. Se non sbaglio, si tratta di un simbolo in voga nell’antico Egitto, qualcosa che aveva a che fare con l’anima o l’aldilà. Un monile che ricorda la morte, la pelle pallida, il trucco nero: ora tutto assume un senso. Probabilmente si tratta da una qualche strana moda, una di quelle tendenze assurde in voga tra i giovani. Mi ricordo quella volta che mia figlia è tornata a casa con i capelli tutti verdi. Qui sarà qualcosa di simile. Comunque non chiedo. Non sono un tipo curioso. Ma questo credo di averlo già detto. “Come sai il mio nome?” chiedo invece. Cerco di non suonare troppo sconcertato, ma lo stupore deve trasparire comunque, perché la ragazza si mette a ridere. Poi indica il mio petto con un indice terminante in un unghia ben

curata e laccata di nero. “La sua targhetta” mi dice semplicemente. Abbasso lo sguardo. Ma certo, che stupido! Mi ero dimenticato di avere ancora la targhetta con sopra stampigliato il mio nome e il logo dell’azienda per cui lavoro appuntata in bella vista sulla camicia. Una risatina mi sfugge dalle labbra, anche se suona molto meno convinta di quella della giovane. “Ma certo. Che stupido” le dico, ripetendo parte dei miei pensieri. Non posso certo dirle che, per un attimo, sono stato fermamente convinto che mi avesse letto nella mente o qualcosa di simile. Che figura ci farei? Un uomo adulto come me che crede a queste sciocchezze sulla parapsicologia, la vita oltre la morte, gli UFO e i fantasmi? Queste sono storielle che vanno bene per i giovani; io ho mostri ben più reali da affrontare, come la rata del mutuo o le spese per i libri di scuola di mia figlia. E quelli sì che fanno paura. Riporto gli occhi sulla strada, rendendomi conto solo in quell’istante di aver distolto lo sguardo dal parabrezza. La macchina ha piegato leggermente sulla sinistra, e ora invade con l’intera ruota anteriore la corsia opposta. Rapidamente, correggo la direzione e ritorno sul lato destro della strada. Per fortuna non passavano macchine nell’altro senso, o sarebbe potuta finire molto male. Per un po’ rimaniamo in silenzio. L’asfalto bollente scivola sotto le ruote, sollevando ondate di calore che il refolo d’aria tiepida che esce dalle bocchette del condizionatore non riesce nemmeno a mitigare un poco. Niente aria condizionata nella mia macchina, grazie. Fa male ai reni e ai polmoni. In lontananza sembra quasi di intravedere dell’acqua in mezzo alla strada, ma quando ci avviciniamo l’illusione sparisce come se non fosse mai esistita, lasciandoti in bocca solo una vaga sensazione di sete. Inizio a riflettere tra me, come faccio sempre durante

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i lunghi viaggi, su come la strada assomigli alla vita in molte cose: entrambe ti allettano continuamente con promesse che non manterranno, come lo scintillio dell’acqua sul manto d’asfalto, eppure nonostante tutte le delusioni passate molti continuano a crederci, perché sono fermamente convinti che prima o poi troveranno davvero dell’acqua fresca in cui raffreddare il motore e riposarsi un pochino prima di ripartire. Solo dopo molto tempo e molte delusioni capisci che in realtà l’acqua non si trova lì, alla portata di tutti: te la devi guadagnare, scavando un pozzo e costruendo una pompa, o non avrai mai un attimo di pace. Assorto nei miei pensieri, mi dimentico completamente della ragazza seduta accanto a me tanto che quando parla, dando quasi voce alle mie riflessioni spicciole, per poco non faccio un salto sul sedile. “Che caldo. La vuole una bottiglietta d’acqua?” Percepisco un movimento accanto a me così, dopo essermi assicurato che non ci siano macchine in arrivo nell’altra direzione (per le curve non c’è da preoccuparsi: conosco bene questa strada e so per certo che per i prossimi chilometri proseguirà dritta come un fuso verso il nulla) mi volto per guardare cosa stia facendo. Il primo impulso è quello di gemere per la frustrazione: la ragazza si è slacciata la cintura di sicurezza (una cosa che mai e poi mai andrebbe fatta su una macchina in movimento, vero mamma?) e si è sporta verso il sedile posteriore cercando di afferrare la sua sacca, che apparentemente è rotolata da qualche parte sotto il suo sedile. Nella sua scomposta ricerca la giovane ha sollevato una gamba per mantenere l’equilibrio, ed ora corre il serio rischio di tirarmi involontariamente un calcio in testa o contro il braccio, con gravi conseguenze per la nostra sicurezza. Cercando di dominare il panico, inserisco la freccia nonostante la strada sia deserta e accosto sulla destra, rallentan-

do fino a fermarmi. Non appena l’automobile cessa di muoversi la giovane riemerge trionfante, tenendo stretta la propria sacca in una mano, e sedutasi nuovamente al suo posto si guarda intorno con aria interrogativa. “Perché ci siamo fermati?” mi chiede candidamente. Cercando di dominare la paura e la rabbia che sento montare, le spiego con quanta più calma possibile che con il suo comportamento stava mettendo in serio pericolo la nostra incolumità, e che dovrebbe prestare più attenzione alla sicurezza in viaggio. Mi rendo conto di aver automaticamente adottato il tono lento e pacato che usavo con mia figlia quando era più piccola (e che non sentivo più uscire dalla mia bocca da anni), lo stesso che mia mamma utilizzava con me. Per tutto il tempo, la ragazza mi osserva con un’espressione strana, a metà tra il curioso e il divertito, e alla fine della mia ramanzina non fa neppure uno sforzo per mostrarsi pentita delle sue azioni. Con fare disinvolto, estrae dalla sua sacca una bottiglia d’acqua da mezzo litro piena quasi fino all’orlo e me la offre con un sorriso. “Prego, prima lei” mi invita. Per un attimo sono tentato di mettermi a urlare, ma poi soprassiedo. Ringraziandola, bevo un sorso d’acqua dalla bottiglietta (è inaspettatamente fresca, nonostante la calura, e mi fa sentire subito meglio) prima di restituirgliela. Lei fa lo stesso, richiude il tappo e ricomincia a frugare nella sacca. “Se vuole ho anche una barretta di cioccolato” mi dice. “Ormai è ora di fare merenda.” A quelle parole, spinto dall’abitudine, getto un’occhiata distratta all’orologio sopra il cruscotto prima di ricordarmi che sono mesi ormai che le lancette sono ferme sulle quattro e dodici minuti. Continuo a ripromettermi di farlo riparare, ma ho troppe cose a cui pensare per avere il tempo di farlo davvero. Comunque, a giudicare dal sole, deve essere pomerig-

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gio inoltrato ormai. In ogni caso rifiuto l’offerta della giovane (non avrei dovuto nemmeno accettare l’acqua, mi rimprovero. E se fosse stata adulterata? Mamma non me l’avrebbe fatta passare liscia) e riprendiamo il viaggio. Per alcune miglia rimaniamo in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri. Quando sto per dimenticarmi nuovamente della sua presenza, la giovane parla nuovamente. “Lei ha famiglia, signor Moulinsky?” Anche questa domanda mi coglie impreparato. Pensavo che il tempo delle chiacchiere futili fosse ormai trascorso, e non mi aspettavo più domande personali. Comunque, per cortesia, rispondo. “Una moglie e una figlia.” Non dico altro. Non le chiederò della sua famiglia, come probabilmente lei voleva che facessi (altrimenti per quale motivo mi avrebbe posto quella domanda?) in modo da raccontarmi la sua storia infelice. Non voglio sapere perché sta viaggiando da sola su quella strada in mezzo al nulla. Non mi interessa. Non sono un tipo curioso. Lei annuisce, e non pare accorgersi del mio silenzio. Dopo pochi secondi, mi chiede ancora: “Il suo lavoro la porta a viaggiare molto. La sua famiglia non è triste per questo?” Scuoto la testa lentamente. “Mia moglie capisce che lo faccio per loro. E mia figlia – che deve avere pressappoco la tua età – è una ragazza con la testa a posto. Mi aspettano a casa, sono il mio porto e il mio rifugio.” “E lei? Non vorrebbe passare più tempo con loro?” A questa domanda, una strana sensazione mi attraversa. Come se la ragazza avesse toccato un nervo scoperto nel mio animo, un sottile cavo che ha fatto vibrare il mio intero essere. Eppure la domanda non mi pare particolarmente indelicata. Cercando di non pensare a quel sottile

senso di inquietudine, le rispondo: “Certo, ma so di non avere scelta. Torno a casa ogni volta che posso, tra un viaggio e l’altro, ma abbiamo bisogno di soldi per vivere,e questi non crescono mica sulle piante.” Era un’altra delle massime di mia madre, che la utilizzava spesso per farmi capire quanto la vita può richiedere sacrifici. Quando da piccolo volevo un dolce o una bibita che non potevamo permetterci mia mamma era solita domandarmi con un voce a metà tra l’irritato e il triste: “Hai raccolto tu i soldi dalla pianta, questa mattina? Perché io temo di essermelo dimenticato.” Allora io capivo che mi si stava imponendo un’altra rinuncia per il bene di entrambi, e non fiatavo più. Perché già allora, nonostante fossi poco più che un poppante, avevo capito. La vita è un viaggio lungo e difficile, e l’unico modo che hai per sopravvivere è conoscere il tuo veicolo alla perfezione e non chiedergli mai più di quanto abbia la possibilità di darti. La ragazza mi guarda per un attimo, poi inizia a ridacchiare tra sé. Dopo aver controllato per l’ennesima volta che la strada si sgombra, le lancio un’occhiata interrogativa. “I soldi sulle piante” ridacchia. “Bella come idea.” Sospiro. Come immaginavo, non ha capito nulla di quello che volevo dirle. Ma non importa. “Sa, anch’io vorrei passare più tempo con i miei” inizia lei, appena l’attacco di ridarella si è calmato. Io trattengo a fatica un sospiro e non dico nulla: sapevo che saremmo arrivati a questo. Così mi rassegno e aspetto che mi racconti della sua situazione familiare (che a me non interessa; non sono un tipo curioso) e dei motivi per cui ha intrapreso quel viaggio. Ma questa ragazza non pare proprio intenzionata a darmi soddisfazione: dopo un’ultima breve frase – “Ogni tanto facciamo qualche riunio-

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ne, ma niente di più” – ammutolisce di nuovo. Sotto il sole cocente, il viaggio prosegue in silenzio. Non ho un mangiacassette in macchina, quello che davano di serie l’ho fatto togliere da parecchio tempo (poteva distrarmi mentre guidavo. Mai ascoltare la musica se stai facendo qualcos’altro) e in questo postaccio non si prendono neppure le notizie sul traffico. Non che ce ne sia, di traffico: non incontro una macchina da non so più quanti chilometri. Alla fine, dopo aver svoltato a destra ad un bivio, il panorama si fa meno monotono; la strada inizia a curvare, inerpicandosi su per una salita piuttosto ripida. Superata quella montagna, in realtà alta solo poche centinaia di metri, saremo quasi a Paradise Falls, la destinazione della mia passeggera. Come intuendo che il viaggio sta per finire, lei raddrizza la schiena e passa dalla posizione sdraiata e scomposta in cui si era accomodata ad una quasi eretta, osservando con attenzione fuori dal parabrezza. Non ha la cintura allacciata, noto. Come a confermare la mia osservazione, l’apposita spia rossa si illumina. Parecchio in ritardo, devo dire. Forse c’è un contatto. La farò controllare non appena avrò tempo. E farò anche riparare l’orologio. “Ci siamo quasi” mormora la ragazza, con aria tesa. Sembra nervosa, ora, preoccupata. Per un attimo mi chiedo se per caso non ho frainteso tutto: magari non sta andando dal suo innamorato, magari ha bisogno d’aiuto... Sto quasi per domandarle qualcosa, ma in quel momento uno strano nervosismo coglie anche me. Sarà che non riesco a vedere bene la strada, con tutte le curve che ci sono, che non sono mai stato da quelle parti – nessuno vive su quella collina, o almeno nessuno che abbia bisogno di un set di coltelli da pesce in argento o di una spazzola per togliere i pelucchi dai vestiti – o che il sudore che da tutto il giorno mi imperla la fronte (niente aria condizionata: fa male ai reni e ai polmoni) è finalmente riuscito

a superare la gobba delle mie sopracciglia e a colarmi sugli occhiali, bagnandomeli in un paio di punti: fatto sta che la curiosità mi passa all’improvviso. “Per favore, ora stai tranquilla e allaccia la cintura. Questa strada non mi piace” le dico, cercando di suonare calmo. Con una mano, mi sfilo cautamente gli occhiali e li asciugo rapidamente contro la camicia, tutti i sensi all’erta per capire se dall’altra direzione stia arrivando qualcosa, magari una moto o un camion. Non appena riesco a rimettermi gli occhiali ora asciutti sul naso, riacquistando così i miei dieci decimi di vista, inizio ad accelerare gradualmente. Avevo quasi fermato del tutto la macchina prima, quando avevo tolto gli occhiali e ci vedevo poco o nulla, ma ora tutto ciò che voglio è levarmi da qui il più in fretta possibile. Sperando che nessuna lince mi attraversi la strada, o che un camion non spunti fuori all’improvviso da dietro una curva. Chissà perché proprio una lince, poi? Perché non un cane randagio, o magari un coyote? Misteri della mente. Siamo quasi sulla sommità della collina, quando la mia passeggera mi chiede: “Possiamo fermarci un attimo, arrivati in cima?” La osservo con aria dubbiosa. Non mi va di fermarmi. Questo posto non mi piace. È troppo isolato, e la strada troppo stretta e tortuosa. Voglio levarmi di qui il prima possibile. “Non penso che ci sia lo spazio per fermarsi” le dico, la voce velata dall’ansia che ora non riesco più a nascondere. “C’è una piazzola, ne sono certa. E la vista sarà meravigliosa” ribatte lei. Sembra convincente, ma io scuoto ancora la testa. “No, mi dispiace. Non è possibile.” “Facciamo così: se arrivati in cima c’è lo spazio ci fermiamo per qualche minuto; altrimenti proseguiamo diritti e io non dirò più una parola fino alla fine del viaggio” propone lei. In un primo momento vorrei rifiutarmi ancora, ma

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se lo faccio non riuscirò più a farla stare zitta. Continuerà a parlare finché non saremo oltre la collina, e io vorrei tanto un po’di silenzio per concentrarmi sulla guida. Così accetto. Tanto sono certo che non ci sarà nessuna piazzola. In fondo, anche se non ho mai percorso questa strada in particolare, conosco questa zona come le mie tasche, no? E allora perché mi sento così nervoso? La giovane mi sorride con gratitudine e si accomoda meglio sul sedile. Allaccia persino la cintura, come le avevo chiesto. Il suo nervosismo sembra del tutto scomparso. Beata lei, penso tra me e me. Quando arriviamo in cima non rallento neppure. Tengo gli occhi incollati sulla strada, ed è la ragazza a dovermi indicare lo spiazzo sulla sinistra. Belvedere, dichiara pretestuosamente il cartello scrostato dalla polvere e scolorito dal sole piantato sul ciglio della strada. “Guardi, una piazzola! L’ha promesso, ora si fermi! L’ha promesso!” inizia a piagnucolare. Sono tentato di accelerare e lasciarmi alle spalle quel posto e quella sensazione di disagio, ma non sono stato educato a infrangere le promesse. Così mi faccio forza, metto la freccia e attraverso la carreggiata fino a ritrovami nell’area di sosta, ovviamente deserta. Certo, chi vuoi che venga in un postaccio del genere? Anch’io non ci sarei mai salito, avrei fatto la strada a valle come al solito se non avessi dovuto accompagnare quella ragazzina a Paradise Falls... Quando sento la ghiaia sotto le ruote, raddrizzo l’auto e mi fermo, lasciando il motore acceso con la marcia in folle. Tiro il freno a mano, anche se siamo quasi perfettamente in piano, e mi volto verso la ragazza. “D’accordo, ci siamo. Fai il tuo giretto e poi ripartiamo. Massimo cinque minuti” le dico, indicando con aria eloquente l’orologio del cruscotto. Anche se è fermo, è il gesto che conta.

“Lei non viene?” mi domanda lei, un po’ delusa, slacciando la cintura di sicurezza. Scuoto la testa. “Io resto in macchina. Dai, fai in fretta.” Mi rendo conto di starmi comportando da maleducato, ma non posso farci nulla. Voglio solo ingranare la marcia e andarmene da lì, tornare alla mia strada diritta, alla mia vita tranquilla... Chiudo gli occhi e appoggio la testa sul volante. Faccio una serie di respiri profondi, cercando di calmarmi. Senza successo. Mi accorgo a malapena del rumore della portiera che si apre, dei passi affrettati sulla ghiaia che piano piano si allontanano. Ma il vento lo sento bene. Eppure non c’era vento, prima quando ci siamo fermati. Sollevo lo sguardo e guardo fuori dalla portiera sul lato passeggero, che la giovane ha lasciato aperta: effettivamente, fuori dalla macchina non si muove un filo d’aria, persino la polvere ristagna immobile. Ma allora come mai sento il rombo del vento nelle orecchie? “Signor Moulinsky! Venga a dare un’occhiata! La vista è splendida!” Mi volto e vedo, attraverso il parabrezza, la ragazza che mi fa cenni con il braccio. È in piedi a quattro o cinque metri dal muso della macchina, a pochi passi dal bordo del belvedere delimitato da una palizzata di legno dall’aria così fragile che sembra dover cadere solo a sfiorarla. Rispondo scuotendo per l’ennesima volta la testa. Non voglio scendere dall’auto, voglio solo andarmene di qui. Eppure la ragazza non si arrende. Lancia un’occhiata in basso, nel precipizio, e poi si volta ancora verso di me. “Signor Moulinsky! C’è qualcosa in fondo alla scarpata! Venga a vedere!” Non mi interessa cosa c’è là sotto, non sono un tipo curioso. Voglio solo andarmene di lì, ritornare sulla strada... “Signor Moulinsky! La prego! Solo un’occhiatina, poi potremo andare!”

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Sbuffo, esasperato. Quella ragazza mi sta facendo uscire pazzo. Ma che mi è saltato in mente? Quando mai ho caricato autostoppisti sulla mia macchina? Ecco ciò che ci si guadagna: solo scocciature e contrattempi. Rassegnato, spengo il motore e tolgo le chiavi dal cruscotto. Facciamo questa cosa e andiamocene, mi dico, prima che a quella sciagurata venga in mente di trascinarmi fuori dall’auto. Quando slaccio la cintura di sicurezza a mia volta e apro la portiera dal lato guidatore, l’odore della polvere è talmente forte che mi viene voglia di vomitare. Non sono abituato a queste cose, io il deserto lo attraverso sempre e solo in macchina, non mi sono mai trovato veramente a doverci camminare in mezzo. E se fossi allergico? L’odore di sabbia è così fastidioso che mi vengono le lacrime agli occhi. E non c’è nemmeno vento! Non è normale, dovrei richiudere la portiera e... “Signor Moulinsky!” Ah già. Ecco perché non posso andarmene. Dannazione a me e a quando l’ho caricata! Ah, ma se fosse mia figlia le avrei già tirato uno scapaccione di quelli... “E va bene, arrivo” borbotto tra me e me. Lentamente, cercando di respirare il meno possibile, esco dalla macchina, chiudo la portiera prima che quell’odore terribile mi invada l’auto e mi avvicino alla ragazza, stando sempre molto attento a dove metto i piedi. Il fondo di sabbia è sdrucciolevole e infido, senza dimenticare che potrebbe nascondere i “regalini” di qualche animale... A un certo punto sono costretto a circumnavigare un tavolino di legno, ricoperto di incisioni rupestri che mi informano che “Luke ama Terry” o che “Mambo ce l’ha lungo e duro”, ma alla fine arrivo al punto dove sta la ragazza. Mi pare che ci sia voluto un secolo; in realtà non ci sono voluti più di pochi secondi, il tempo di fare una decina di passi. La giovane è in piedi, appoggiata alla staccionata di stuzzicadenti, e guarda in basso

con aria curiosa. Il mio cuore perde un colpo a quella vista. “Vieni indietro, ragazza. È pericoloso sporgersi così...” Cerco di richiamarla, ma lei per tutta risposta mi fa un sorrisone e indica con un ampio gesto del braccio il panorama attorno. “Non è meraviglioso?” mi chiede. Osservo rapidamente: uno sterminato deserto di polvere giallastra dall’aria insalubre, arroventato dal sole di un pomeriggio afoso di giugno, cosparso di altipiani come quello in cima al quale ci troviamo ora e punteggiato di rocce sgraziate e deformi. Non esattamente il mio concetto di “meraviglioso” direi, ma non ho intenzione di contraddirla. Così annuisco, sperando che questo le basti e si decida finalmente a risalire in macchina. Ma a quanto pare, non è ancora abbastanza. “Guardi qui sotto. C’è qualcosa in fondo alla scarpata!” Con un gesto, mi invita ad affacciarmi e a guardare di sotto, esattamente a perpendicolo rispetto al parapetto. Ma questa volta è troppo. “Non intendo appoggiarmi a quel mucchio di legno tarlato” dico, forse con un po’ troppo astio nella voce. Ma non mi importa. L’unica cosa che mi importa è andarmene subito da quel posto. Con o senza di lei. Ora ne ho abbastanza. Mi volto infuriato, e in quel momento colgo un movimento in mezzo alla strada con la coda dell’occhio. Mi volto, pensando che possa essere una macchina o un camion che intende fermarsi a sua volta nella piazzola e a cui possa dare fastidio la mia auto. Ma non è affatto una macchina. È una lince. Una splendida lince fulva, dalla coda allungata e dalle orecchie appuntite. Stava attraversando la strada, diretta verso la piazzola, quando improvvisamente si è fermata, come paralizzata dalla vista di qualcosa. Ma non sta guardando noi. Ha gli occhi fissi lungo la strada, nella direzione dalla quale sia-

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mo arrivati. Un fremito mi attraversa da capo a piedi, tanto che per poco non cado in ginocchio sulla sabbia. Che sta succedendo? La mia mente ritorna a quel che avevo pensato mentre stavamo iniziando la salita: una lince potrebbe attraversare la strada... “Inizia a ricordare, non è vero?” Mi volto. La ragazza è ancora lì, nello stesso punto di prima, ma ora pare in qualche modo... non so, diversa. Nulla è cambiato in lei, eppure i suoi occhi sembrano più neri, i suoi capelli paiono muoversi come un groviglio di serpenti di inchiostro; sembra più alta, più presente, più concreta in un certo senso. Ma probabilmente sto solo delirando. La lince è una coincidenza, ecco tutto. Ne avvengono tante, a questo mondo. Mi giro di nuovo verso la strada e l’animale è sparito. Respiro di nuovo. Per qualche motivo mi sento sollevato, il groppo in fondo alla gola sparito. “No.” Il tono della giovane è imperioso. Un tono di comando, così diverso dalla voce spensierata e cristallina che mi stavo abituando a sentire. “Non dimentichi. Non rifiuti quanto accaduto. Ricordi.” E in un attimo, la lince è di nuovo lì. Non è saltata fuori dai cespugli, non è arrivata dall’altro lato della carreggiata. Semplicemente prima non c’era e l’attimo dopo è di nuovo lì, nella stessa identica posizione di prima, gli occhi sempre fissi su qualcosa che non riesco a vedere. Questa volta cado davvero in ginocchio. Per lo stupore. Per la paura. Non lo so nemmeno io. “Così. Ricordi.” La luce pare attenuarsi. Alzo lo sguardo verso il cielo e i miei occhi incontrano il disco giallo del sole, luminoso e torrido come sempre e senza l’ombra di una nuvola intorno. Eppure, mi pare che la luce stia diminuendo. Sembra addirittura che l’unico lampione della piazzola

si sia acceso con un leggero ronzio, spandendo attorno la sua luminosità malaticcia. “C’è un motivo se siamo venuti qui. Ricordi.” Tento di protestare. “No. Io non...” La mia voce suona debole, patetica, persino alle mie orecchie. “Ricordi.” E io ricordo. Ricordo quella stessa strada, di notte. Ricordo la fretta, la premura di arrivare. Ricordo le parole aspre di mia moglie, che attraverso la cornetta di un telefono scassato fuori da un motel mi accusava di non essere mai a casa, di non essere mai presente per la mia famiglia. Ricordo di aver sentito mia figlia singhiozzare in sottofondo, mentre mia moglie mi informava che sarebbe andata da sua sorella, a Pitkin. Ricordo la mia disperazione, il mio desiderio di raggiungerle e di sistemare le cose il più in fretta possibile. Ricordo la deviazione verso Paradise Falls che, ne ero sicuro, mi avrebbe fatto risparmiare quasi mezz’ora di viaggio. Ricordo la strada tortuosa e deserta, la strada che non avevo mai percorso prima di allora; ricordo la salita illuminata dalla luce dei fari che fendevano la notte buia, la tenebra di quel momento prima dell’alba nel quale l’oscurità è più fitta. Erano circa le quattro e dieci del mattino. Ricordo la curva, la lince ferma in mezzo alla carreggiata, paralizzata dalla luce dei miei fanali. Ricordo la sterzata brusca all’ultimo istante per evitarla. Ricordo come la staccionata di legno si sia sbriciolata come un biscotto all’impatto con il muso della mia auto. Ricordo la sensazione di cadere, il vento che sibilava attorno all’abitacolo e penetrava all’interno da una crepa nel parabrezza, portando con sé l’odore asciutto della sabbia. In un istante ricordo tutto. Quando riapro gli occhi che non mi ero accorto di aver chiuso, la lince è ancora lì, immobile nella stessa posizione. Mi volto verso la mia auto, ma ovviamente non c’è più. Non c’è

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mai stata. Mi rialzo lentamente e, camminando come in un sogno, vado verso il ciglio del precipizio e getto uno sguardo in basso, verso il punto indicato dalla ragazza. Eccola, la mia adorata Pontiac. Un ammasso di lamiere deformate dall’impatto, incastrato tra un mucchio di rocce aguzze. Nonostante la sabbia stia iniziando a ricoprirla, la carrozzeria riesce ancora a catturare qualche raggio di sole e a rifletterlo verso di me, come ammiccando. Come se mi stesse dicendo: “Ehi,ce ne hai messo di tempo per arrivare. Guarda come mi sono ridotta, stando qui ad aspettarti.” Deglutisco a vuoto. Non mi giro, ma so che la ragazza mi sta guardando. Sento la forza di quegli occhi neri gravare su di me, premere sulla mia stessa anima. “Dove siamo?” chiedo. Non ero un tipo curioso, ma ora non ha più molta importanza, non è vero?“Da nessuna parte” è la risposta. “Siamo in un sogno, in una fantasia. Uno sprazzo di vita che, nel suo ultimo istante di vita, lei ha costruito per sfuggirmi. Ma io non lascio mai un lavoro a metà, signor Moulinsky. Dovrebbe saperlo.” Annuisco. Mia mamma me lo diceva sempre. Porta a termine i tuoi compiti nel miglior modo possibile, e nessuno avrà di che lamentarsi. “Ci sarà anche mia mamma?” domando speranzoso. “Può darsi.” Mi giro. La ragazza mi sta osservando con aria pensierosa. Non sembra più la giovinetta fragile ed evanescente che avevo incautamente fatto salire sulla mia macchina (o sul ricordo della mia macchina, ormai distrutta); ora appare persino più reale della sabbia su cui poggia i piedi o delle rocce alle sue spalle. Ed effettivamente lo è. “La conosci?” “L’ho incontrata una volta. Come la maggior parte di quelli che incontro.”

Annuisco. Io sono un caso particolare. L’ho costretta a fare gli straordinari. “Mi dispiace” dico semplicemente. A quelle parole, l’ombra di un sorriso le increspa le labbra. “Quasi nessuno si è mai scusato con me. È una sensazione strana.” Mi tende la mano, la pelle pallida che sembra quasi luccicare sotto il sole, o qualunque cosa sia che ci illumina. “Dobbiamo andare, ora” mi ricorda, e io annuisco di nuovo. Non c’è bisogno di dire nulla. Mentre la strada, la prigione che io stesso mi ero costruito per evitare l’inevitabile, inizia a sbiadire attorno a noi, allungo la mano e sfioro le dita di Morte. In un pomeriggio così afoso, sono inaspettatamente fresche.

l’autore Stefano Masier é il vincitore del concorso 500 storie d’autunno

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l’aspetto umano della scienza di chiara silva

In occasione dell’uscita nelle sale tedesche della riproduzione cinematografica del libro di Daniel Kehlmann La misura del mondo (Die Vermessung der Welt in tedesco), vincitore del Deutschen Buchpreis nel 2005, è giusto tornare a parlare di questo romanzo che ha riscosso enorme successo in Germania e all’estero, rimanendo a lungo ai primi posti nelle classifiche dei best-sellers. Kehlmann, già autore di altri libri come Io e Kaminski, consacra la sua fama e il suo talento con La misura del mondo, un romanzo che racconta in modo brillante e divertente la vita e le scoperte di due illustri menti tedesche: Carl Friedrich Gauß (1777-1855) e Alexander von Humboldt (1769-1859). Due personalità

tanto geniali quanto diverse. Il romanzo inizia nel 1828 con Gauß che sta compiendo un viaggio da Gottinga a Berlino per partecipare al Congresso dei naturalisti e medici tedeschi a cui è stato invitato dal geografo Alexander von Humboldt. Da quando si incontrano a Berlino i due rimangono in contatto, tenendosi aggiornati sui rispettivi progetti. Così le loro storie si intrecciano e a capitoli alterni il lettore conosce sempre meglio i due protagonisti. Fin dal loro primo incontro è evidente quanto i due illustri scienziati abbiano caratteri differenti: se Gauß è un pantofolaio scorbutico e scontroso, Humboldt è invece uno spirito libero, esuberante e intraprendente. Nonostante

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queste differenze caratteriali i due scienziati sono uniti da un forte amore per il sapere e la scienza e da una totale dedizione alla ricerca scientifica, motivi che li spingono a dedicarsi completamente allo studio del mondo e delle leggi che lo governano, seguendo ciascuno le proprie inclinazioni: Humboldt esplorerà il Sudamerica e affronterà mille pericoli per continuare le sue ricerche di botanica mentre Gauß preferirà svolgere i suoi studi di matematica senza doversi allontanare troppo da casa. Kehlmann ripercorre la vita e le scoperte dei due scienziati, senza però redigere un’autentica biografia, partendo dalla loro infanzia di bambini prodigio fino ad arrivare alla vecchiaia in cui i due scienziati perdono colpi e non vengono più presi molto sul serio. Chi non è appassionato di matematica e materie scientifiche potrebbe storcere il naso e pensare che La misura del mondo sia la noiosa celebrazione di due geni fuori dal comune. Tuttavia, chi si è fatto un’idea simile cambierà presto opinione perché il libro è scritto in maniera così divertente e scorrevole che riuscirà ad entusiasmare anche chi sa poco o nulla di scienza. Il romanzo di Kehlmann riesce infatti ad essere così coinvolgente perché l’autore focalizza l’attenzione sull’aspetto umano dei suoi due personaggi, presentando Gauß e Humboldt nella loro quotidianità e mettendoli a confronto con i componenti della loro famiglie o con i loro compagni di ricerche. In questo modo vengono messe in risalto le differenze e le incomprensioni che si creano tra i due geni che vivono per la scienza e le persone “normali” che li circondano, creando

un effetto comico irresistibile. Non si può che sostenere l’opinione che Kehlman ne La misura del mondo sia riuscito a coniugare con ottimi risultati scienza e letteratura in maniera piacevole e istruttiva. Questo è uno dei motivi per cui è stato giudicato un brillante esempio di letteratura tedesca contemporanea.

Letture consigliate: KEHLMANN, DANIEL: La misura del mondo. Feltrinelli, 256 pagine, 8 euro.

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reader’s kitchen

Benvenuti nella cucina del lettore, nel posto che unisce le vostre grandi passioni: la lettura e la cucina. Dove tenete i vostri libri di cucina? In salotto o sullo scaffale sopra i fornelli? Qualunque sia la collocazione prescelta la cosa importante é averne sempre uno a disposizione da leggere per rilassarsi e da avere sottomano per quei momenti in cui manca l’ispirazione. Se dovessi dare un titolo alla tendenza dei libri in cucina del momento (scelti tra le ultime uscite e i libri più venduti) vi direi sicuramente: Cucina al risparmio. E sì perché, da come avete intuito, siamo in piena crisi e allora perché non tornare alle vecchie tradizioni e magari imparare a fare il pane in casa? E’ questa la tendenza per i libri in cucina e così sono arrivati sugli scaffali delle nostre librerie

tantissimi libri a riguardo come La pasta madre. 64 ricette illustrate di pane, dolci e stuzzichini salati di Antonella Scialdone (Il sole 24 Ore Edagricole, 198 pagg, 18 euro) e poi c’é l’altro bestseller del momento La macchina del pane di Jennie Shapter in cui ci vengono spiegati i trucchi per utilizzare la diabolica macchina per fare il pane in casa (Dix, 256 pagg, 10 euro). Ma il pane chiama la pizza e come poter evitare di parlare del prodotto gastronomico simbolo del nostro paese? Non si può ed é per questo motivo che vi consiglio il libro di Antonio Esposito, volto del canale satellitare Alice, in libreria con Passione Pizza (Sitcom, 221 pagg, 18 euro) dove la storia della pizza si intreccia con quella di un pizzaiolo diventato poi proprietario ed uno dei massimi esperti in campo

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nazionale ed internazionale. Dopo il pane serve il companatico o magari una bella insalatina. Sono 365, in pratica una al giorno, le insalate proposte da Jeanne Perego direttamente dal suo blog Insalatamente http://insalatamente.blogspot.it/ e che oggi vengono riproposte nel suo libro 365 insalate per tutto l’anno e per tutti i gusti (Mondadori Electa, 288 pagg, 19 euro). Ricette e tanti suggerimenti per fare dell’insalata il piatto principale e ricco di tutti i nutrienti. Ha un nome salvifico e un rimando alla crisi sopracitata Da oggi il nostro pane quotidiano (Rizzoli, 18 euro) il nuovo libro di ricette e ricordi di Catena Fiorello. Il trend, tutto delle scrittrice siciliani con capofila Simonetta Agnello Hornby, continua e si fortifica. E cosÏ arriva in libreria un libro di cucina ma anche la storia di una famiglia, ma non una qualsiasi.

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l’affresco del sistema giuridico italiano di cristina monteleone Qualche settimana fa esco dall’ufficio come al solito a fine giornata, non ho per niente voglia di tornare subito a casa e decido di farmi una passeggiata. Cammino e cammino fin a quando incrocio l’entrata di una biblioteca comunale mai notata prima, apro velocemente il portafogli per controllare se ho con me la tessera per il prestito (precauzione inutile perché, manco a dirlo, c’è l’ho) e lì ho capito come avrei trascorso la successiva mezz’ora. Non so bene cosa cercare, così guardo un po’ a caso sullo scaffale della narrativa e tra gli autori italiani trovo De Silva con “Mia suocera beve”, che ha come protagonista l’avvocato Vincenzo Malinconico (ed il solo nome dice molte cose), perno anche di un altro romanzo precedente dell’autore da me letto, “Non avevo capito niente”, acuto e parecchio divertente, così prendo in prestito quello che mi sembra sia il seguito della sua vita scombinata. E già, il nostro caro avvocato è decisamente complicato, quarantotto anni, un figlio adolescente naturale, una figlia acquisita dall’ex marito della sua ex moglie, una compagna molto affascinante ma con un rapporto di coppia ormai logoro, una ex suocera malata di cancro a causa del vizio dell’alcool che lo usa come pedina per far soffrire la figlia, una ex moglie gelosa ed invadente, ed una carriera forense per nulla brillante e costellata da carenti risultati, il tutto condito con un pessimo carattere volto al continuo rimuginare. Cosa fare allora

un martedì mattina di scarsi impegni lavorativi se non andare al supermercato per comprare un inessenziale confezione di pesto quando a casa ne hai almeno una decina bel conservati nella dispensa: ma per cacciarsi nei guai ovviamente! Come spesso gli accade, si trova coinvolto in una situazione assurda senza che lui ne abbia una reale colpa o la volontà di entrarci: e così in un supermercato di un comune giorno feriale si improvvisa detentore assoluto della giustizia quando un padre decide di comunicare al mondo la sua rabbia per la libertà concessa all’assassino di suo figlio, ucciso in un regolamento di conti mafioso per uno scambio di persona, e di sequestrarlo sotto gli occhi di tutti nel posto dove il killer abitualmente si reca a comprare il suo yogurt preferito. Parlo proprio di detentore assoluto della giustizia perché lo scopo dell’Ingegnere Romolo Sesti Orfeo, il sequestratore, è quello di creare un caos televisivo nazionale, far sospendere i palinsesti ad ogni canale per mandare in onda lo pseudo reality show da lui improvvisato e mostrare alla sua nuova giuria, ovvero al pubblico italiano, quale sia il giusto processo che l’assassino di suo figlio avrebbe dovuto avere. Malinconico allora diventa l’avvocato sia dell’accusa che della difesa, portavoce del dolore di un padre ferito per quanto in un contesto surreale, ma anche rappresentante di un’istituzione che, diciamocelo, troppo spesso non fa bene il suo

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lavoro, e costringe le persone più fragili a cer- bertà, io cittadino non posso avere fede in uno care forme di giustizia alternative. stato che non mi protegge, non mi rappresenta. Malinconico è però consapevole di questo Bisogna riconoscere a De Silva l’abilità di cre- e non lo nasconde al lettore, è anzi descritto are una situazione argomentativa complessa e in modo divertente, tanto che in metropolitatutt’altro che banale con l’ironia di una nar- na mi sono beccata parecchi sguardi perplessi razione che spezza l’inevitabile tensione: la per la mia incapacità di trattenermi dal ridecoppia di agenti di polizia accorsi al supermer- re. Comunque sia, la giustizia privata non è cato ribattezzati Mulder e Scully; la bizzarra sicuramente il modo migliore per affermare presentatrice Mary Straqualurso, dislessica, i propri diritti, ed il fallimento dell’impresa ridicolmente vestita, incapace nel suo lavo- dell’Ingegnere Sesti Orfeo ce lo conferma, ma ro, eppure amatissima dagli italiani, la prima come fare se non possiamo fidarci dello stato? a trasmettere in diretta televisiva il sequestro La buttiamo sul ridere, ed in questo ci aiuta il per accaparrarsi l’evento con i relativi picchi maestro Malinconico. di ascolto; il grottesco killer, soprannominato Matrix, ammanettato al banco dei latticini “Mia suocera beve”, Diego De Silva, ed. Enaue circondato dal suo prediletto yogurt versato di, pag. 338, € 18,00 a terra; il tifo da stadio nel quale si trasforma la folla di curiosi ammassati davanti al supermercato quando Malinconico prende in giro Mary Straqualurso per la sua insulsa attività giornalistica; e potrei continuare. Insomma, non è difficile vedere una caricatura della società italiana, il nostro bel paese dove il livello televisivo è rappresentato dal Grande Fratello e dai superficiali talk-show che spesso parlano solo di cronaca nera (scusate, ma solo io noto l’assonanza tra Mary Straqualurso e Barbara Durso?). D’altra parte è anche vero che la domanda è proporzionale all’offerta, perciò non a caso la nostra televisione è assediata da programmi vuoti ed insignificanti: così, vi lancio il sasso, senza tirare indietro la mano. Ma tornando a De Silva, non possiamo trascurare l’affresco che ci regala del sistema legale italiano: disorganizzato, burocrate, cause protratte per anni, avvocati incompetenti (in primis Malinconico stesso) e, probabilmente la nota più dolente, gli errori commessi. Non è concepibile che un assassino sia lasciato il li-

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il tempo è un dio breve

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“Pierre ha pagato il suo nome. Una roccia da portare con sé. Pierre è mio marito. Per lui io sono qui. È la luce. La luce non può essere nascosta. Per questo io racconto. Per condividere la luce”. L’ultima opera di Mariapia Veladiano è un romanzo dalla bellezza sconvolgente. La delicatezza di ogni singola parola, l’armonia nella costruzione del periodo e la pacatezza del narrare non ostacolano l’elaborazione di concetti

importanti e drammatici. Ildegarda è una donna che si trova a raccontare la propria vita senza mezzi termini, indagando, parola dopo parola, la natura dell’amore, della paura, del male, della felicità, di Dio. Il romanzo assume quasi l’aspetto di una preghiera rivolta all’umanità, a quello che ognuno di noi è con il proprio bagaglio di precarietà esistenziali e fragilità emotive. L’idea del raccontare come condivisione di luce e della scrittura come esigenza di sopravvivenza, strumento di comprensione e di elaborazione coscienziale, perfettamente espressa nella frase riportata in apertura, è una delle costanti della scrittura della scrittrice finalista al Premio Strega 2011 con l’opera “La vita accanto”. Scrittura e luce, tormento e sollievo, male e bene, in un crescendo di pathos, mai ostentato o estremizzato che tocca l’anima e commuove. Capita così che scorrendo gli occhi lungo le pagine meticolosamente costruite, quasi intarsiate, dalla scrittrice, si resti trafitti da frasi che lasciano il segno e fanno riflettere, offrendo spunti di riflessione mai scontati e, anzi, assolutamente innovativi. “Della vita si ha paura a volte, perché non sappiamo se la felicità ci è davvero permessa. O se dobbiamo soprattutto domare il desiderio di felicità che ci riempie. Se la felicità è proprio questo impetuoso ammaestrare. Perché il fiume è sempre anche straripare, le rive su cui camminiamo sono sempre qualcosa che il tempo e le acque possono abbattere”. L’indagine sulla felicità condotta dalla Vela-

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diano coinvolge e cattura, quella felicità sulla quale spesso ci si interroga e che in “Il tempo è un dio breve” è così vicina eppure così sfuggente, inarrivabile o forse raggiungibile solo con l’accettazione dell’impossibilità di comprendere tutto. L’abbandono, agli altri, all’amore, a Dio anche quando gli altri, l’amore e Dio sembrano essere muti, assenti, distratti: questa potrebbe essere la soluzione L’abbandonarsi e il lasciarsi custodire. Sperare anche quando viene meno la forza di credere. Questo è ciò che fa Ildegarda, confidare negli altri, sperare che il futuro di suo figlio possa essere felice e sereno nonostante tutto, credere che qualcuno lo amerà e si prenderà di cura per sempre. Sperare in una luce di cui non riusciamo a vedere lo splendore ma di cui percepiamo il calore nelle viscere. Cos’è la fede se non la percezione interiore di un amore non scalfibile e che non possiamo vedere? “Disse che ci era stato fatto un dono e che non si poteva resistere alla vita quando si offre a noi con un disegno tanto evidente. La nostra era stata una seconda nascita, arrivata mentre eravamo nella disperazione e niente più riuscivamo a immaginare davanti a noi. Disse che tutto quanto ci dà felicità viene da Dio e che avere paura della felicità è il più subdolo dei peccati perché dietro un’apparenza di umiltà riveliamo una riserva radicale nei confronti di Dio, mostriamo che non sappiamo credere che ci ama sempre per primo, che la felicità è nelle sue mani e che ce la regala senza applicare contabilità sui meriti le colpe”. E’ un inno alla vita, alla gioia e alla felicità, un urlo che squarcia il nostro tradizionale modo di pensare Dio e la fede. Poveri noi, sembrano dire queste parole, noi che riduciamo Dio a un qualcosa di piccolo, che ne facciamo un contabile pronto a calcolare il numero dei nostri peccati e delle nostre buone azioni per concederci o meno il paradiso. Dio è molto più grande del nostro piccolo pensiero, sembrano

dire, e non sta lì, come la maggior parte degli uomini, ad ostacolare la felicità altrui. “La letteratura conosce mote versioni del patto scellerato. Che io sappia l’interlocutore è in ogni caso il diavolo. L’anima in cambio del sapere, come se potesse esserci un sapere senza anima. In realtà il diavolo vince perché provoca la divisione. Fa credere all’uomo che il sapere possa esistere senza l’anima e questa è la morte vera”. “Il tempo è un dio breve” è la celebrazione del sapere consapevole. Del credere, prima di tutto, negli uomini.

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la vita ha in sé una promessa di eternità

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Ho avuto la fortuna di poter intervistare Mariapia Veladiano, autrice del romanzo finalista al Premio Strega di qualche anno fa “La vita accanto”, adesso nelle librerie con la sua ultima, meravigliosa opera “Il tempo è un dio breve”. Ecco cosa Mariapia, sedutasi sulla panchina del Lettore, ha voluto dirci riguardo al suo nuovo romanzo, storia potente di fede, dubbi, umanità, dolore e ricerca di felicità. “Il tempo è un dio breve”: Perché questo titolo? E soprattutto perché l’accostamento tra caducità del tempo e dio? Il tempo è breve per noi perché la nostra vita finisce. Anche lunga, molto lunga, non basta, perché la vita ha in sé una promessa di eternità. Il tempo è un dio perché è qui nel tempo il nostro esistere. L’esistere nostro è nel tempo, ma la promessa di eternità ci accompagna. Perché scrivere un romanzo così fortemente e, a mio parere, meravigliosamente intriso di religiosità e senso della fede? Ho scritto tutta tutta la vita, senza pensare di pubblicare. E quindi senza la pressione della moda, sia per quel che riguarda la scrittura, sia per gli argomenti e le storie. Romanzi e racconti, anche quelli che ancora non ho pubblicato, nascono da quel che sentivo importante intorno a me. Ho scritto e riscritto, filtrando fatti e sentimenti ed emozioni. Ildegarda, la protagonista de “Il tempo è un dio breve”, dichiara il suo essere donna di fede, ma lo dichiara con parole che dicono la condizione di tutti. Lei dice: “Io ho conosciuto Dio. La presenza e l’assenza”. Ovvero il suo interrogare la vita e il male che la tocca nella forma dell’abbandono e della paura è un interrogare dalla sponda della comune umanità, non di un credere che diventa un fortino che ci difende dalla vita. L’abbandono da parte del marito amatissimo le arriva come bufera, così come bufera arriva a ciascuno di noi il dolore impensabile. E la domanda su Dio è qualcosa di comune. Ciascuno risponde in modo personale, come Ildegarda del resto. La sua risposta non è devota, non c’è un ossequio che comporti il sacrificio del pensiero. Insieme al piccolo Tommaso, suo figlio, smonta via via le risposte facili al problema del dolore. E arriverà a una sua risposta, che mette in gioco l’amore. E’ una risposta umana, molto umana. E insieme anche evangelica. Io non credo che possa esistere una verità di fede che va contro la verità dell’uomo. Solo quando la fede diventa ideologia questo sembra accadere. Ma la fede è libertà. Di interrogare e di trovare una propria risposta.

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Quale credi sia oggi il modo in cui gli uomini e soprattutto i giovani intendono dio e quale rapporto credi si venga ad instaurare tra uomo e fede in un contesto di continua evoluzione e crescita del sapere scientifico? Al sapere scientifico oggi è legata la grande speranza di salvare la terra grazie ad una tecnologia più leggera, meno inquinante, alla disseminazione di saperi che permettano ai paesi emergenti di non commettere gli errori del primo mondo che in nome di un progresso male inteso ha ipotecato il futuro alle generazioni che verranno. Il problema oggi è il ritorno del pensiero magico, che è paganesimo puro, volontà di controllare il mondo a partire da presupposti falsi. Il pensiero magico è un ostacolo vero alla fede, perché è un pensiero che si fa dio, che vorrebbe farsi dio. Dal tuo romanzo emerge chiaramente il concetto che dio ci ha creati e resi liberi di essere, di agire e anche di sbagliare, prendercela con Lui. Come interpretare questa libertà che ci è stata data? Ma la libertà non è interpretabile. C’è o non c’è. E certamente c’è rispetto alla possibilità di credere oppure no. Penso alla attuale presenza di Dio nella nostra storia. E’ presente nella Parola. La Parola è un modo di presenza estremamente debole ed estremamente potente. La Bibbia può essere letta o no, iniziata e abbandonata, ripresa o mai più ripresa. Se viene letta può essere potente, può cambiare la vita, quanti moderni santi che non finiranno su nessun calendario hanno agito nel nome di una fede potente che li ha accompagnati? E hanno cambiato la storia delle persone, dei villaggi, delle realtà in cui hanno lavorato. Oppure si può leggere la Bibbia e non trovare qualcosa che ci interessi. Ecco. Dio è presente in una forma che rispetta tutta la nostra libertà. “Il tempo è un dio breve” ha il personaggio di Pierre, marito di Ildegarda, che non crede e in ogni pagina e in ogni parola c’è il rispetto profondo per questa posizione. Non si tratta di cattiva volontà, di durezza di cuore, di opposizione colpevole. E’ un segreto delle nostre impossibilità. Come descriveresti il personaggio di Ildegarda? E’ una donna combattente, che sente, sente tutto quel che la circonda, soprattutto le emozioni.

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Ama. Un uomo, un bambino, la natura, le sue piante, la vita. Ama e non rinuncia ad amare nemmeno quando l’abbandono la colpisce come un’offesa che sembra insanabile. La sua lotta racconta la forza delle donne. Credi che esista coincidenza tra amore per Dio e amore per gli altri uomini, un legame tale che non rispettare la dignità umana e l’essere più profondo degli altri si possa configurare come mancato rispetto e amore di e per Dio stesso? Ma questo lo scrive il vangelo! Non c’è amore per Dio che non sia amore per l’uomo. Lo scandalo è come noi nel tempo siamo riusciti a far coesistere l’odio o l’indifferenza per gli uomini ritenendoci buoni cristiani. Questo la dice lunga sulla nostra capacità manipolatoria. E sulla nostra cecità. Per varie ragioni che qualunque lettore potrà conoscere leggendo il tuo romanzo, quella di Ildegarda finisce per essere una famiglia che stando ai canoni descritti dalla tradizione non può definirsi del tutto “convenzionale”. Quale è la tua concezione di famiglia, quale il ruolo che ad essa compete? E soprattutto è possibile individuare la famiglia laddove vi è amore indipendentemente da altri parametri? (penso alla discussione attuale sulla famiglia di persone legate da omoaffettivita’). Ildegarda perde un amore e poi, esattamente quando nulla sembra poter dare una svolta alla sua vita, inatteso come una nevicata improvvisa, arriva un altro amore. Cesare Segre nella recensione a “Il tempo è un dio breve” ha definito questo nuovo amore “imposizione di realtà”. Non è un amore che compensa un abbandono. Che guarisce una delusione. E’ come sempre è un amore. Qualcosa che arriva e cambia la vita, le dà un nuovo inizio non nel senso di negare il passato, ma nel senso di una nuova possibilità di valore data alla propria vita. Ora, ci sono tanti tanti modi di amore. Ildegarda ne vive tanti nella sua vita. Ama la vita, potremmo dire in sintesi, anche quando la sua faccia, lo dice lei, tocca la polvere del suolo. Credo che l’amore è vero se non ferisce, non crea dolore, se almeno un po’ migliora il mondo che ci circonda. Ci sono famiglie di affetto. Anche La vita accanto finiva con una bizzarra famiglia di affetto.

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naturale che sia cinema di ariberto terragni

La teoria del Cinema naturale, da cui trae il titolo la raccolta di racconti, non è niente di speciale, o per meglio dire, non è niente che si discosti da una nozione un po’ datata di immagine e di narrativa: i racconti suggeriscono sequenze che possono essere assimilate a quelle di un film, e la mente agisce di conseguenza, mostrandoci la rappresentazione di quel plot che stiamo leggendo. Parte da questa premessa la raccolta di racconti di Gianni Celati, riproposta di recente da Feltrinelli dopo la sua prima pubblicazione, negli anni ottanta, gli anni di Narratori delle pianure e di altre raccolte short stories del professore emiliano. L’Italia non ha mai creduto molto nei racconti.

Novelle verghiane, pirandelliane, in qualche caso dannunziane; ci hanno provato anche eroi malinconici come Pavese e Fenoglio, già però influenzati dalla letteratura americana, grande madre delle short stories e sorta di vademecum ormai accettato da scrittori di più generazioni. Il vuoto stilistico che in Italia ha trovato poche soluzioni formali ha posto il problema di un canone, o se si vuole di una linea narrativa più o meno diffusa nel nostro paese: di uno stile autoctono, dotato di una sua originalità e di una sua espressività linguistica. Gianni Celati ci ha provato ha confezionare un racconto italiano: i risultati sono venuti alla luce soprattutto negli anni ottanta (e soprattutto in Nar-

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ratori delle pianure), periodo di transizione e di rivisitazione critica di tutti gli stili e di tutti i generi, rigenerati (è il caso di dirlo, e non è solo un gioco di parole) in quell’assemblaggio diverso, più libero e in qualche caso deliberatamente pastiche che è stato rubricato sotto il nome di postmoderno. In realtà il postmoderno è qualche cosa di più complicato, ma diciamo che l’assunzione del repertorio come categoria culturale ha prodotto in letteratura una sorta di bolla stilistica più votata al recupero e alla rielaborazione del già detto che non all’avanguardia pura. Ma questa è accademia. Cinema naturale, si diceva: un tentativo di racconto italiano. Storie in libera uscita su personaggi bizzarri, peripezie a metà strada tra l’apologo e la parabola, buffi esemplari, freak non ancora rinchiusi nelle riserve e su tutto l’aria della provincia che tenta con affanno di aprirsi un futuro e uno spazio quasi sempre collidendo con i pregiudizi e la derisione del condominio (leggi paese, contrada, quartiere...). L’intento è buono, la lingua si sforza di aprirsi un varco, una terza via che si tolga di dosso qualsiasi traccia di verismo (o neorealismo, se mai fosse possibile parlarne in letteratura), senza cadere nelle grandi tentazioni anglofone: frasi paratattiche, omissioni, essenzialità che qualche volta rischia di diventare incompletezza. Il respiro della prosa di Celati allora si fa ampio, prova a districarsi in una materia umana e sociale vasta, dove il viaggio in Africa, l’abbandono rabbioso della quotidianità e la ricerca di sé nell’oblio diventano le coordinate attraverso cui sottrarsi

alla mattanza di un tempo e di un luogo che ha escluso da sé l’altro, il diverso, l’alternativo. Ma il rischio è quello di trovarsi sulla scia di grandi fantasmi. Il parziale apporto favolistico alla matrice quotidiana e cittadina di alcuni racconti (l’infermiere che va in Africa e decide di farsi guru per sfuggire ad un disagio esistenziale, per esempio, o il Poema pastorale del detenuto Da Ponte) sembra quasi scollegato, aggiunto solo per dare valore di apologo, o di massima esemplare ad una situazione che altrimenti rischierebbe di non risolversi, o di risolversi alla maniera americana, bavero alzato e bottiglia a metà. La mancanza di riferimenti geografici potrebbe essere un espediente interessante anche se non originale con cui provare a decontestualizzare la storia consegnando il testo ad un contesto generale e sempre valido, ma è una soluzione a metà: gli agganci con il milieu dell’autore – università, provincia, trasferte di studio – restano di facile individuazione e il gioco autoriale che pure potrebbe instaurarsi tra scrittore e lettore rimane appena abbozzato. Non siamo in presenza di una architettura fantastica ma plausibile come quella di Calvino e delle sue Città, ma di una terra di mezzo dove la battaglia tra il luogo comune e la sua negazione viene vinta dal primo proprio per eccesso di esuberanza del secondo. Cinema naturale può trovare la sua dimensione ideale nella lettura in sé, depurata da ogni contesto e da ogni analisi, ma se vogliamo metterla su questo piano, tanti racconti di esordienti e di ignoti potrebbero dare maggiori soddisfazioni al lettore.

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booksalad: le avventure di una giovane coppia nell’editoria italiana

Ho conosciuto Anna Sophie Grashofer e Livio Sassolini, direttori editoriali di Booksalad http:// www.booksalad.it/ all’interno dell’Incubatore al Salone del Libro di Torino quasi un anno fa. Un incontro non del tutto fortuito dato che ero espressamente alla ricerca di nuove case editrici. E così mi sono imbattuta in questa giovane coppia coraggiosa che oltre a condividere la vita ha deciso di aprire una casa editrice. Una scelta non facile, visto i tempi, ma che tuttavia non ha impedito loro di puntare su giovani autori come Alessandro Marchi, l’autore di Fegato e Cuore che abbiamo avuto la fortuna di recensire sulla panchina, o scrittori di razza come Pino Tossici autore per Booksalad di Cento giorni sl comò. Questi erano i primi due titoli della casa editrice che si presentava al mondo editoriale in quel di Turin. Da quel momento in poi le uscite si sono succedute così come le presentazioni e gli eventi in lungo e in largo per l’Italia. In questa intervista scopriremo i nuovi titoli e la nuova collana thriller Angst che sta per sbarcare in tutte le librerie ma anche le avventure di una giovane coppia nel mondo dell’editoria italiana.

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Come e quando nasce l’idea di Booksalad? Come si inserisce nel vostro progetto di vita e, soprattutto, chi dei due ha avuto l’idea e che cosa vi ha spinto? Il progetto ha avuto una lunga gestazione! Più dei nove mesi classici. Anche prima di conoscere Anna-Sophie una mezza idea l’avevo sempre avuta in testa… una casa editrice, poter creare libri, veicolare messaggi, sogni. Poi con l’incontro abbiamo iniziato a condividere il progetto. Ne abbiamo parlato e riparlato. Provato a fare due conti (che a tutt’oggi non tornano mai) e pensato alle prime collane. La strada è stata lunga, ma era già segnata. Io italiano (toscano per la precisione), lei tedesca. Entrambi con tanta passione per i libri e le nuove sfide. Se proprio volessimo indicare un giorno in cui ufficialmente ci siamo detti: “ok! Apriamo una casa editrice”, questo è avvenuto in febbraio, a Viareggio. La sera prima eravamo stati alla festa dei rioni per il Carnevale (quello di Viareggio è meraviglioso) e il giorno dopo ancora mezzi brilli ci siamo giurati (oltre al consueto amore eterno) di investire le nostre forze per un progetto comune. Poi in serata la sbornia è passata, ma per fortuna il progetto è rimasto. Il nome è venuto in mente ad Anna-Sophie qualche giorno dopo. Volevamo qualcosa di particolare e che attirasse l’attenzione. La presentazione ufficiale di Booksalad e del suo catalogo é avvenuta nell’Incubatore al Salone del libro di Torino. Una grande opportunità ed immagino anche la vostra emozione. Come siete arrivati a Torino e come si é rivelata questa esperienza durante l’evento più importante per l’editoria italiana? Il Salone è stato il nostro battesimo del fuoco. Siamo arrivati là quasi per caso. Con molta confusione in testa avevamo stampato i primi libri (per fortuna venuti bene anche graficamente) e abbiamo iniziato a muoverci in tutte le direzioni per cercare di promuoverli (e promuoverci). Devo ringraziare molto il Salone e in particolar modo lo staff dell’incubatore. Tutti carini, tutti gentili e soprattutto tutti disponibili a parlare con sbarbatelli come noi. Quando inizi un progetto hai poca idea di tutto (anzi zero) e quindi incontrare persone che con pazienza ti spiegano come partecipare alla fiera (quando allestire, come pagare, quando etc) fa moltissimo piacere e ti rassicura. Al Salone abbiamo presentato i nostri primi due volumi con emozione. Abbiamo incontrato distributori e iniziato ad avere una visione più ampia del mondo della editoria anche grazie all’incontro di persone come voi. E’ lì che ci siamo conosciuti ed é lì che abbiamo potuto sfogliare Fegato e Cuore (già re-

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censito sulla panchina) e Cento giorni sul comò. Quale é stato il criterio di scelta e come é nata la collaborazione con gli autori? I due volumi provengono da strade diverse. Cento giorni è frutto di una collaborazione con la Libera Università della Autobiografia di Anghiari. Una vivace realtà culturale che offre ottimi spunti di crescita in ogni settore. Tra l’altro il libro Cento giorni sul comò è diventato una piecès teatrale che andrà in scena con due serate a Maggio a Roma. Una soddisfazione per noi.

Fegato e Cuore è un testo giovane e dinamico. Ho conosciuto Alessandro Marchi (l’autore) tramite amicizie comuni. Ha creduto nel nostro progetto, collaborando attivamente a tutt’oggi nella crescita della nostra casa editrice. Alessandro aveva alle spalle già una pubblicazione con una grande casa editrice. La prima volta che ho letto il manoscritto di Fegato e Cuore mi ha colpito. È un volume veloce, incalzante, dove poco spazio hanno le descrizioni. Tutto è lasciato al dialogo, alla voce dei protagonisti. Ed è anche una storia bella e appassionante, in una Londra fumosa e bagnata.

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L’uscita successiva é stata Ti sogno California. Voglio assolutamente saperne di più e anche del prossimo libro in uscita Yuri e il mistero delle scarpe blu e della collana Festina Lente. Insomma, dovete vuotare il sacco! Ti sogno California di Mattia Bertoldi è un libro sull’amicizia. Tre amici alla ricerca di una bella americana conosciuta una notte e poi scomparsa. Un viaggio attraverso la California dove riscoprono la voglia di stare assieme e divertirsi. Un libro giovane e fresco, perfetto per la collana Opachi. Mattia è un giornalista e uno scrittore che ha curato la autobiografia di Paolo Meneguzzi. Yuri e il mistero delle scarpe blu tratta in chiave autobiografica (collana Festina Lente) un percorso attraverso una malattia oncologica. Un percorso di sette anni di sofferenza, ma vissuti dall’autrice come anche una nuova prospettiva della vita. Il libro si apre con due prefazioni di prestigio. Durante l’anno avremo poi altre uscite come: Una crociera sui tacchi di Valeria Conti. Una avventura al femminile (senno alla fine mi accusano di essere maschilista) a bordo di una bellissima nave da crociera! E non dimentichiamo il nuovo libro di Andrea Malabaila dal titolo Revolver che presenteremo al prossimo Salone del Libro di Torino! Ma la grande novità della prossima primavera é sicuramente Angst, una nuova collana di thriller di giovani autori tedeschi. Anche qui la domanda é sempre la stessa: come é nata l’idea e su quale criterio si é basata la scelta degli autori? Angst è la nostra nuova grande sfida. Una collana di thriller tedeschi. Abbiamo concluso accordi con le più grandi case editrici tedesche (ne cito una per tutti Random, per chi non lo sapesse è una delle più grandi al mondo) per assicurarci autori di successo. È andata bene! Dopo sofferte trattative in italiano/inglese/tedesco siamo arrivati in fondo. Ci siamo accaparrati nomii del calibro di Silvia Roth e Vincent Kliesch. I loro libri hanno venduto decine di migliaia di copie in Germania e speriamo di bissare il successo in Italia. Das System in uscita a Marzo è già stato tradotto in inglese, coreano e giapponese. Noi ce la mettiamo tutta! Abbiamo rivoluzionato la grafica e creato delle copertine ad hoc. Abbiamo realizzato un booktrailer per la collana. Che dire… ci crediamo molto e ci affascina ancora di più!!! Non é stata una scelta facile, visti i tempi e visto soprattutto la condizione in cui verte l’editoria italiana, ma dalle foto della vostra pagina facebook si intravede tutta la vostra passione. Avventure e disavventure di ogni genere. Rifareste sempre questa scelta? Senza ripensamenti? In che cosa Booksalad e il vostro lavoro possono fare la differenza? Certo tutto tutto!! Per ora procede bene. I libri usciti sono state soddisfazioni anche in termini di

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vendita. Abbiamo avuto buone rispondenze sia dai distributori che dalle librerie. Le avventure e disavventure sono la parte bella del lavoro dell’editore. Fondere la frizione del Doblò cercando di raggiungere il nostro magazzino (che è una casa semidiroccata in campagna) fa parte della bellezza dell’essere un editore. In più noi abbiamo la sede ad Anghiari, un micro-borgo in Toscana, ma questo rende tutto più poetico (come dice la mia moglie tedesca). Abbiamo anche investito molto nei booktrailer; si sono rivelati una ottima idea!! Trasmettere in video le emozioni del libro è difficile ed il lavoro è tanto, ma il risultato è appagante. E il pubblico li apprezza. Il booktrailer di Fegato e Cuore è in finale al concorso Cortina Metraggio. Essere assieme ai grandi nomi dell’editoria italiana (a solo un anno e mezzo dalla nascita fa molto piacere). Incrociamo le dita!!! Parlavamo di difficoltà, quali sono state le vostre? Se si volesse enumerarle razionalmente sono veramente tante!! Primo (ovviamente) il comparto finanziario: i conti non tornano mai!!! Poi il rapporto con i distributori che sono poco interessati se sei piccolo e non gli assicuri un numero di uscite elevate all’anno e infine la visibilità. È difficile farsi vedere, farsi notare e soprattutto distinguersi. Ma dopo le difficoltà non possiamo non parlare delle vostre soddisfazioni. Quali sono stati i momenti più belli di questo primo anno di attività e cosa vi aspettate per il futuro e soprattutto pensate ad aprirvi al mercato editoriale? Accarezzare la prima copertina è stata veramente un’emozione speciale! L’inizio dell’avventura. È stato come essere sul vascello che lascia il porto. La partenza. Poi il Salone del Libro, il confronto col grande pubblico. Il promuovere direttamente quello in cui credi, in cui hai investito. Anche qualche presentazione è stata emozionante. Infine anche se meno poetico, quando arriva qualche bonifico nel conto fa piacere!!! Molto piacere!!! Book Salad sarà a Buk Modena il prossimo 23-24 Marzo, noi di Reader’s Bench ci saremo per raccontarvi gli incontri organizzati dalle case editrici invitate al Foro Boario.

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Alberto Petrosino

Fuga

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Guardavo incantato quei turbinanti petali di rosa in lotta contro il vento. Disegnavano spirali di colori caleidoscopici, caldi, mentre la gentile brezza della sera si divertiva a scompigliare i miei lunghi capelli ramati. Eterei profumi di vita galleggiavano placidi ai margini della coscienza, lambendo con delicato sospiro la consapevolezza di un mondo circostante. Il lungo viale si dipingeva d’una serpentina di ghiaia bianca: andava ad inoltrarsi tra grandi alberi fino a perdersi all’orizzonte degli eventi. Ai lati del sentiero mille e mille luci prendevano vita tra i globi di cristallo. I lampioni di ferro nero sostavano schierati come tanti pedoni, in silente attesa del buio imminente. Il re sole cominciava la lenta dipartita ai confini del mondo, triste sconfitto al cospetto di una nascente regina grigio perla. Gli alberi erano altissimi, ed io dovevo piegare la testa all’indietro per immaginare la vetta di quelle fronde affusolate. Imponenti. Si slanciavano coraggiosi contro il cielo; tremando leggermente, ma senza timore, al soffio di Dio. Riuscivo a catturare il loro sguardo altero e distante. Spettatori rispettosi di un silenzio carico d’echi evanescenti. Ai piedi di quei grandi antichi sorgevano lucide lastre di marmo disposte a schiera, con rigoroso ordine, in file distinte. Apparivano come tante tessere di un domino destinato a giocarsi in un futuro lontano. Ognuno di quei tasselli nasceva sovrastando un lieve dosso coperto da umida erba color smeraldo. Decine e decine di piccoli volti in carta stampata assistevano muti al nostro corteo, osservando curiosi da dietro la teca delle loro vite di marmo. Sotto ognuno di quei visi sorridenti, prigioniera del vetro, danzava un’unica fiammella di luce ardente. Centinaia di minuscole stelle sbarazzine che costellavano i margini del cammino. Perso nei pensieri venni ricondotto al mondo dal tocco di mia madre. La sua mano morbida strinse con sicurezza la mia, più piccola e goffa: sentii il pollice accarezzarmi con distratta abitudine la pelle.

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Voltai lo sguardo e la incontrai. Quel tentativo di sorriso rassicurante, in tralice, dipinto su labbra sottili leggermente tese. Minuscole increspature di vita disegnate ai lati della bocca, presenti nel contorno di occhi scuri, umidi, incapaci di nascondere la tristezza. Sorrisi a mia volta, di rimando, senza volerlo. Umile tributo al cospetto di tanta dolcezza. Mamma tornò a voltarsi tirandomi a sé, strappando realtà dalle mie fantasie. Raggiungemmo il resto del gruppo. Non conoscevo quelle persone silenziose. Rispondevo ai loro sguardi distanti con occhi innocenti ed un cenno della testa, senza alcuna malizia. Il passo cadenzato mi andava stretto: trovavo difficoltà nel non superare l’uomo che mi stava di fronte. Mia madre mi aiutava ad uniformare il cammino a quel corteo di burattini di scuro vestiti. Avanzammo per molti minuti, seguendo il sentiero di sassi bianchi, ancorati al suolo ma distanti dall’intero universo. Persi il contatto con lo scorrere del tempo, assuefatto ad una bolla di tristezza e rispetto. Tal nulla di rumori era interrotto da singhiozzi sommessi provenienti poco più avanti. Non capii con esattezza chi si nascondesse dietro quel velo di seta nera, posto come un sipario a celare il dramma d’un volto segnato da lacrime e disperazione. Riccioli biondi di media lunghezza facevano capolino sotto la tesa di un largo cappello color ebano. Il giallo acceso dei capelli contrastava nettamente nella selva di abiti scuri: brillava di luce neanche fosse la sola stella di uno spazio sconosciuto. La dama camminava a testa bassa, traendo forza e coraggio dal braccio di un uomo che procedeva al suo fianco. Costui aveva un che di familiare. Il solitario rintocco della campana scandì con decisione l’intermezzo di un’ora qualunque, persa anch’essa nello scorrere del tempo.

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La ghiaia conduceva il nostro cammino alla volta di un piccolo spazio disegnato nell’erba bagnata. Una ferita di terra smossa si apriva, svanendo in profondità, in quel tratto di mondo verde. La fossa rettangolare, scavata nel terreno uniforme, andava a disturbare la perpetua ripetizione del paesaggio. Una pennellata violenta inferta in un attimo di distrazione. Fiori intrecciati la costellavano: gigli e crisantemi tessuti ad arte, disposti come risarcimento a quella fastidiosa imperfezione. Un uomo dalle vesti fluenti attendeva pacato, osservando rispettoso l’arrivo del corteo: le braccia incrociate al petto stringevano un libro dalla copertina nera. Quelle sete viola ricamate d’oro e d’argento tremavano leggere al soffio del vento che andava a placarsi. Ci fermammo a ridosso della fossa. I burattini si disposero, con sguardo perso nella profonda oscurità, in due file ordinate ai lati di essa, favorendo l’approssimarsi di quattro individui dal pesante fardello. La grande cassa di legno lucido, più lunga che larga, intarsiata da bianco metallo, veniva portata in trionfo sulle spalle di uomini tristi ed affranti. Mia madre stava dietro di me, circondandomi amorevolmente con le braccia: mi teneva a sé, quasi timorosa che potessi fuggire da un momento all’altro. Sentivo il suo profumo inconfondibile ed ero perso nell’abbraccio, ma non riuscivo a distogliere gli occhi dalla scena. Con movimenti meccanici la cassa venne assicurata a corde robuste e fatta scivolare, lentamente, nell’oblio del buio. Non sono sicuro del tempo trascorso in quei momenti. Ricordo solo il perdersi in un’ipnosi, condotta da un limbo di parole cadenzate in litanie cantilenanti. La voce sussurrava lettere e frasi che andavano ad incrociarsi, mescolando un turbinio di suoni roboanti pieni di significato. Ma non per me. Non riuscivo a catturarne il senso. Sfuggivano, ovattati da una cappa di inconsapevolezza. Da qualche parte, qualcuno bruciava incenso.

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Il rombo di un tuono fracassò il silenzio, fece tremare il mio cuore e le nuvole bianche di un cielo evanescente fatto di sogni e miraggi. Il firmamento sopra le nostre teste si crepò, le stelle precipitarono in caduta libera, soggiogate al peso di una gravità intransigente. Mia madre mi stringeva forte, artigliandosi disperatamente a quegli ultimi istanti di speranza. Inspiegabilmente, pur trovandosi alle mie spalle, riuscivo a distinguere chiaramente il suo volto. E le calde lacrime che le solcavano le guance mentre piangeva affranta. Aprii gli occhi, svegliandomi al buio, udendo impercettibile quel richiamo suadente un istante prima che il soffitto della stanza mi crollasse sulla testa, devastato dal terremoto.

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Alberto Petrosino nasce a Livorno nel 1985. È alle medie che comincia ad interessarsi a giochi, hobby e letture che lo avvicinano al mondo Fantasy. La passione per l’universo fantastico cresce di anno in anno, guidandolo a scrivere racconti in grado di condurlo in un luogo incantato dal quale non vorrebbe mai far ritorno. La scrittura diventa uno strumento che crea un tramite tra vita ed immaginazione. Frequenta la Facoltà di Psicologia di Firenze, arrivando a specializzarsi in Psicologia Sociale e delle Organizzazioni. Pian piano si rende conto che scrivere è un modo per vivere nuovi sogni, poiché quelli degli altri a volte non bastano.

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push the sky away in collaborazione con

Dopo 5 anni di attesa da “Dig, Lazarus, Dig!!!” tornano Nick Cave and the Bad Seeds con la loro ultima fatica “Pushing the sky away”, 5 anni in cui il “Re inchiostro” ha fatto praticamente di tutto: scrittore, creatore di colonne sonore, musicista nel progetto parallelo “Grinderman”, e sicuramente questa attività frenetica e variegata ha fornito materiale fertile per nuovi dare alla band nuovi spunti creativi sui cui lavorare. “Pushing the sky away” si allontana dal blues rock nevrotico e grezzo del precedente lavoro per ritornare all’originale sound molto cupo e dark della band rendendolo ancora più scarno e minimale del solito con una vena minacciosa che sembra sempre pronta ad esplodere pur senza poi farlo mai, ma aleggiando come una nuvola minacciosa sull’ascoltatore. Non mancano brani dal sapore più melodico come la raffinatissima “Mermaids” o la ballata di ispirazione R.E.M. “Jubilee street”, ma è sicuramente nei pezzi più oscuri che la band il meglio di se: dalla ballata dark di ispirazione molto attuale “Higgs boson blues” ai pezzi più duri come “We no who r u” e “We real cool” alla conclusiva title track che a mio avviso è il vero e proprio gioiello di questo album.

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Un lavoro che probabilmente non toglie e non aggiunge nulla alla meravigliosa carriera di questo collettivo musicale ma che senza dubbio ce li restituisce ad un livello che non vedevamo da anni. Ho scelto di abbinare questo album a “Quattro soli a motore” perchè la vicenda mi ricorda tantissimo due immensi libri come “Il buio oltre la siepe” e “Io non ho paura”, due opere in cui un album di Nick Cave sarebbe la colonna sonora perfetta....

Massive Distortion nasce il 28 giugno 2012 come progetto di due coetanei ed amici di infanzia ( Alessandro e Roberto) che decidono di trasformare la loro passione per la musica in un canale tematico via FB prevalentemente indirizzato verso l'indie e l'alternative rock ma con frequenti excursus anche nel rock d'annata, nel punk, nel metal e perfino nell'elettronica, con il minimo comun denominatore della qualità degli artisti trattati. Dal semplice caricare la musica che ci piaceva con una scheda tecnica che descriveva la storia del pezzo ( o del video) e curiosità varie inerenti, ci siamo espansi trattando news musicali di ogni sorta, facendo live reports dei concerti a cui assistiamo e recensendo i dischi più interessanti in uscita arrivando a fornire un canale di comunicazione a 360 °. Il progetto si è poi successivamente espanso sia nel numero dei componenti ( con le preziose collaborazioni di Manuel e “Diane”) sia nella variabilità di piattaforme di comunicazione con una profilo twitter e una pagina web.

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my blood valentine

Quando qualche giorno fa Kevin Shields aveva annunciato che l’attesa per il nuovo album era finita, presentando i nuovi pezzi live e dichiarando che l’album sarebbe uscito in 2-3 giorni, molti avevano preso questa dichiarazione con le molle. Si sa, non era la prima volta che i My Bloody Valentine annunciavano l’uscita del seguito di Loveless ( datato 1991,ricordiamo) ma finalmente dopo 22 anni questa volta è quella giusta. Dalla scarnezza di titolo ( un secco MBV) e artwork viene da pensare che quando han fatto l’annuncio stavano ancora lavorando sugli ultimi dettagli, e probabilmente è andata così. Ma la musica è tutto quello che ci aspettavamo dai re irlandesi dello shoegaze e l’attesa è stata giustamente ricompensata. L’album conta in tutto appena 9 tracce ma tutte di altissimo livello: si aprono le danze con “She

found now”, brano in pieno stile MBV con il classico muro sonoro di chitarre distorte e le voci di Kevin e Bilinda che si intrecciano a perfezione su atmosfere rarefatte e suoni elettrici. Nelle successive due tracce “Only tomorrow” ( la prima cantata solo da Bilinda) e “Who sees you” ( la traccia migliore dell’album secondo me) il suono si estremizza diventando più noise e sporco ma senza perdere lo stile e la classe cristallina che contraddistinguono questa band, mentre la quarta traccia “Is this and yes” spezza completamente con il passato della band con una base ambient che sa un po di synth pop spezzata da intermezzi vocali suadenti e sognanti. Seguono “If i am”, anch’esso pezzo canonico per i dettami della band e “New you” che strizza l’occhio al pop contemporaneo più raffinato per poi tornare allo shoegaze duro e puro con “In another

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in collaborazione con

way” e con la cavalcata strumentale velata di punk “Nothing is”. Chiude le danze “Wonder 2″, abbastanza inusuale per questa band con il suo suono elettronico e campionato e con il chiarissimo utlilizzo di una massiccia drum machine ma sui cui si innestano le onnipresenti chitarre distorti, vero marchio di fabbrica di questa band. Nel complessivo un album davvero notevole e particolare, che può accontentare ed essere apprezzato sia dai fan più integerrimi sia dalle nuove leve grazie a questa vena sperimentale verso nuove sonorità che lo rende un disco storico ma allo stesso tempo contemporaneo.

zie alla nomea e all’influenza che ha avuto sul rock contemporaneo e proiettarsi nell’Olimpo dei “Grandi” ed invece ha preferito scegliere la strada difficile del continuare a comporre musica di qualità.

Ho scelto di abbinare questo album a “Versioni di me” perchè la storia del chitarrista Nik rinchiuso quasi a una vita eremitica di isolamento mi ha fatto pensare alla vicenda di Kevin Shields e all’attesa spasmodica tra un album e l’altro dei My Bloody Valentine fatta di EP qua e là e di mezze rivelazioni sull’album in uscita che è durata la bellezza di 21 anni. Una band che dopo “Isn’t anything” e “Loveless” avrebbe potuto campare di rendita gra-

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baustelle fantasma

Dopo aver tentato per anni di sposare ( con buoni risultati) la musica d’autore con l’immediatezza del Pop. i Baustelle si ripresentano al mondo della musica con il loro album più completo ed ambizioso. “Fantasma” è un disco monumentale ed eterogeneo sia a livello concettuale che a livello musicale/compositivo: già dalla scelta di affrontare come in un immenso viaggio ( o in un bellissimo libro da sfogliare) il tema del Tempo in tutte le sue sfaccettature, si capisce che questo è un disco che nonostante il filo conduttore che lega tutti i pezzi, presenta una variabilità di storie e di anime invidiabile. Ma è nel lato compositivo dei pezzi che questa nuova verve si fa sentire in tutta la sua grandezza e al massimo delle proprie possibilità: Bianconi infatti decide di mollare l’impostazione più pop rock di “Amen” e “I mistici dell’occidente” per salire decisamente di livello indossando lo smoking delle grandi occasioni. La scelta di collaborare con un’orchestra di sessanta elementi, quella di Breslavia per la precisione, denota la necessità avvertita dalla band di affidare ad un album più maturo e complesso un muro sonoro adeguato al progetto. Potrebbe sembrare una scelta supponente e presuntuosa ,che abbina-

ta all’idea pubblica che si ha di Bianconi di un personaggio che sembra guardare il resto dell’umanità dall’alto in basso come a volerle spiegare la verità che ha tra le mani ( e per carità non è un’impressione ingiustificata a volte), porterebbe a pensare a un disco che è un magnifico esercizio di stile ma molto asettico come spesso succede ad opere di questo tipo. Eppure il lato orchestrale che rimanda nelle partiture ad autori immensi come Mahler e Stravinskji viene alternato e dosato con immensa saggezza ad echi morriconiani di colonne sonore ( basti a pensare ai tre spezzoni di “Fantasma” a scandire inizio, fine e metà opera come per l’appunto si trattasse di un immenso film), al grande cantautorato italiano del passato ( da Endrigo a Celentano passando per De Andrè, probabilmente la più grande influenza in questo disco) e perfino a pezzi che rimandano al Baustelle-sound più canonico farciti di ribellione post adolescenziale e spocchia da indie ( “Monumentale” e la dialettale “Contà l’inverni”) che sono a dire il vero i meni riusciti e decisamente fuori posto in questo album. Un insieme di voci e di anime che lascia fare in modo che l’album possa essere ascoltato ed apprezzato da persone che vengo-

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in collaborazione con

no da background musicali molti diversi tra di loro ma uniti dal filo conduttore della qualità e dell’amore per la buona musica, ma che probabilmente lo rende meno possibile da essere apprezzato da una fetta di pubblico molto più ampia come era accaduto con i lavori del passato prossimo della band.

Ho scelto di abbinare questo album a “Tanti modi di fuggire da una città” per l’affinità concettuale che secondo me c’è tra le due opere: il tema del viaggio ( fisico da parte del protagonista nel libro, più a livello mentale invece nel disco) e del mutamento, i due cardini di entrambi i lavori, a mio avviso.

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atoms for peace

Quando spesso si parla di supergruppi spesso i dischi di esordio di questi progetti vengono caricati di aspettative ( a volte anche eccessive) e di febbrili attese che poi scornandosi con la realtà vengono ridimensionate: non necessariamente grandi interpreti riusciranno a produrre un lavoro di qualità proporzionale ai loro nomi. La strada intrapresa dagli Atoms for Peace è però decisamente diversa ed inequivocabile: c’è stata anche qui l’attesa spasmodica per l’uscita del primo disco di questo ambizioso progetto musicale, ma tra performance live e la diffusione web di vari inediti nel tempo la band ha fatto in modo che capisse nel suo aspetto più genuino ( ossia tramite l’ascolto) cosa realmente fossero gli Atoms for Peace. Cosa dire musicalmente di questo album? Partiamo dalle premesse che hanno permesso la nascita degli Atoms per capire la loro idea di musica: tre anni dopo l’uscita del suo disco solista

“The Eraser” Thom Yorke recluta alcuni amici come Flea dei RHCP (basso) il produttore storico dei Radiohead Nigel Godrick ( tastiere e synth) il produttore e turnista di Beck e REM Joey Waronker ( batteria) e il polistrumentista brasiliano Mauro Refosco ( percussioni varie) allo scopo di poter suonare dal vivo proprio i pezzi di questo album. E’ senza dubbio questa matrice elettronica l’anima che più influenza il lavoro degli Atoms for Peace ma resa più contaminata e sporca dalle varie influenze musicali inevitabilmente portate da musicisti che vengono da contesti molti diversi. Dal brano di apertura “Before your very eyes” dal forte sapore groove ( con una linea ritmica di basso,batteria

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in collaborazione con

e percussioni campionate da brivido) alla psichedelia della title track conclusiva “Amok” passando per brani che attingono a piene mani dai Radiohead degli ultimi anni ( “Stuck together pieces” e “Judge, jury ed executioner” su tutti), si capisce quanto questo album sia variegato ed eclettico rispetto a “The eraser”, che ne può essere considato lo stadio embrionale più grezzo. Un disco senza dubbio valido e intrigante ma che richiede come quasi tutte le produzioni dei Radiohead da Kid A in poi numerosi ascolti per essere apprezzato e lo pone inevitabilmente a rischio ostracismo da parte di chi sostiene che la musica deve essere suonata. Ho scelto di abbinare Amok a “Musica per orsi e teiere” per-

chè dalla sinossi si evince che si tratta di un’opera senza dubbio particolare ed eclettica, e cosa ci si abbina meglio se non uno dei dischi più complessi ed attesi degli ultimi anni?

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massimo carlotto di diego rosato

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l’intervista

Oggi sulla nostra panchina si è accomodato Massimo Carlotto, celebre autore di romanzi noir, famoso soprattutto come padre del personaggio de “l’Alligatore”, che però non compare nel suo ultimo romanzo “Respiro corto”, di cui abbiamo seguito la presentazione durante la rassegna “Giallo Latino”. Buongiorno e grazie per esserti accomodato sulla nostra panchina. Durante la presentazione di “Respiro corto” hai raccontato come sia nato il personaggio B.B.: vorrei chiederti, più in generale, come nascono i tuoi libri. Vedi un volto, nasce un personaggio e scrivi una storia o parte tutto da una trama in cui inserirai i personaggi adatti? I miei romanzi prendono sempre spunto da fatti realmente accaduti o dal desiderio di raccontare fenomeni criminali in atto. All’inizio mi serve un’idea, uno spunto che possa diventare un’inchiesta. Quando ho il quadro completo della situazione passo alla fase successiva e cioè a costruire una trama dove finzione romanzesca e realtà si fondono in un unico progetto narrativo. I personaggi devono sempre assomigliare a quelli reali, per questo ho sempre bisogno di visistare i luoghi e tornare con volti impressi nella memoria. A leggere i tuoi libri, benché non li abbia ancora letti tutti, ho avuto l’impressione che spesso manchi un buono, anzi, che manchi il Buono. È solo una scelta letteraria? Oppure pensi che la realtà sia fatta così? Quando scrivo noir, i buoni sono le vittime. Nel romanzo poliziesco è diverso, c’è sempre un “buono” che è il motore dell’indagine. Il mio personaggio seriale L’Alligatore si può considerare un personaggio di questo tipo. La saga de “l’Alligatore” riflette molto della criminalità del nord-est italiano, “Respiro corto” racconta della questione marsigliese, altri libri come “Arrivederci amore ciao” raccontano di storie che potrebbero essere tratte dalla cronaca, piuttosto che dalla fantasia. Questa verosimiglianza dei tuoi romanzi è un bisogno o una naturale espressione del tuo io scrittore? Un mezzo o un fine? È una concezione del romanzo poliziesco e noir in chiave moderna. Il genere ha sempre raccontato il reale che circonda gli avvenimenti narrati nei romanzi, oggi è necessario essere più specifici, più dettagliati. Io preferisco che la quota di reale nella narrazione non sia inferiore al 50%.

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Il nord-est italiano, Marsiglia, il Messico sono terre molto diverse tra loro, ma che hanno almeno due punti in comune: sono afflitte dalla criminalità e sono luoghi di ambientazione delle tue storie. Possibile che non si possa fare nulla di più che raccontare, quando lo si fa, quello che vi accade? Si può fare molto di più. Per questo non ho mai voluto attenermi solo ai doveri che mi impone la scrittura. Come cittadino credo nella necessità di attivarsi ma il problema è ben più complesso quando la criminalità s’infiltra nelle pieghe dei modelli economici locali. Tutto diventa più opaco e le resistenze istituzionali e di categoria a fare luce al proprio interno diventano molto più forti. Oltre allo scrittore, c’è quanto meno il curatore della collana Sabot/Age: ce ne vuoi parlare? Una collezione (collana dove i volumi hanno il dorso numerato) non di genere ma di contenuti. Pubblichiamo quindi romanzi ben scritti e dalla trama che affonda le radici in esperienze vissute, inchieste, storie negate... Ci interessa il rapporto con la realtà per raccontare questo Paese. Il progetto è una sorta di mappa dove per zona vengono affrontati i tempi più importanti del nostro presente. Negli ultimi tempi l’editoria ha subito diversi cambiamenti, prima con la diffusione degli eBook, poi la legge Levi, detta anche “anti-Amazon” e addirittura in California si parla di libri scolastici open-source. Cosa pensi di questi sviluppi? Che sono articolazioni di trasformazioni e tecnologie inarrestabili. L’importante è non perdere di vista il senso dell’editoria e cioè il ruolo di promotrice della letteratura e della lettura in questo Paese. Anche se ne hai già parlato a “Giallo Latino”, vorrei chiederti di anticiparci qualcosa sulle tue prossime opere. In particolare mi piacerebbe sapere se c’è una storia, una terra, un personaggio che vorresti raccontare in futuro. Il 5 febbraio esce Cocaina, tre autori e tre racconti. Con Carofiglio e De Cataldo mi cimento nel raccontare la Padova della coca ripescando un personaggio che ho usato nella serie Crimini: l’ispettore Giulio Campagna. Potresti consigliarci delle buone letture? Non passare per il sangue di Eduardo Savarese e Undercover di Roberto Riccardi, gli ultimi due Sabot/Age (edizioni E/O). Davvero belli.

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tanto male da togliere il fiato

Dopo la lettura della trilogia di Fabio Mon- scrizioni sono funzionali alla narrazione e mai tale, sono tornato a Marsiglia e devo dire che eccessive. Tutta l’opera non è scevra di una la situazione non mi sembra migliorata, anzi... macabra ironia, che credo sia tipica dell’autore, un’ironia che lascia davvero poco spazio Un indiano, un russo, una svizzera ed un napo- per un lieto fine (quale potrebbe mai essere, letano... no, non è la solita barzelletta vecchio poi?), ma una porticina aperta per un eventuastile, ma la “banda” di giovani rampanti figli di le seguito. papà che decide di recidere ogni contatto con la propria famiglia (sia naturale, che crimina- Un buon romanzo, di quelli che ti fanno venir le) e fondare da zero un nuovo impero crimi- voglia di vedere che altro ha scritto il suo aunale. I quattro si troveranno a dover operare tore. nella Marsiglia capitale europea del crimine, dimenandosi tra le strategie dei servizi segreti russi, il sonnolento vivacchiare della mafia locale, l’ambizione delle bande sudamericane ed una poliziotta bordeline pronta a guastare la festa a tutti. Questo è il primo romanzo che leggo di Massimo Carlotto e devo dire che sono più che piacevolmente colpito. La storia all’inizio può lasciare un po’ spaesati, perché fin dalle prime pagine c’è molta carne al fuoco, ma pian piano tutti gli elementi si incastrano e tutto sembra al lettore più chiaro, che non può che seguire la girandola di eventi desiderando sapere come andarà a concludersi la vicenda. Lo stile è asciutto, diretto, crudo, con un giusto mix diazioni, dialoghi e riflessioni. Le de-

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vita di un sociopatico

Se un giorno aveste interesse a conoscere la definizione di sociopatico e proprio trovaste noiosi i testi di medicina e psicologia, potrei suggerirvi una lettura decisamente più prolissa di una voce di dizionario, ma molto più accattivante, “Arrivederci, amore, ciao” di Massimo Carlotto. Un uomo decide di porre fine alla sua latitanza, cominciata anni prima per colpa di un attentato in cui è morto per errore un metronotte, e non esita a minacciare i suoi ex compagni di trascinarli in galera se non lo aiuteranno a cancellare la sua accusa. Tutto sembra andare bene, ma un poliziotto della Digos non la beve e lo ricatta. Il protagonista non si dà per vinto e, se da un lato spera di cancellare dalla sua fedina penale altri piccoli reati che gli causano non poche grane, dall’altro inizia una vera è propria carriera criminale che lo porterà ad integrarsi perfettamente con la criminalità del nord-est italiano. Tra ricatti, soprusi, rapine e omicidi, il nostro protagonista sarà costretto a tagliare tutti i ponti col passato, senza alcuna remora, se non quella di tornare in galera.

un romanzo di formazione criminale. Il protagonista si ritrova latitante quasi (e sottolineo quasi) per caso, ma poi sviluppa un cinismo ed un’abilità degni di un gangster. Non sono poche le occasioni di redenzione, ma la sua incapacità di rassegnarsi ad una vita anonima lo porta a precipitare sempre più nel gorgo. Lo stile è quello tipico di Carlotto, una narrazione in prima persona dai ritmi incalzanti. Rispetto ad altre opere forse è più semplice prevedere lo sviluppo degli eventi, ma solo perché la narrazione non richiede grandi colpi di scena. Più che un giallo, questo è un diario di un cattivo ragazzo.

Gran bel liQuest’opera potrebbe essere considerata come bro!

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il fuggiasco

Immagtinate di essere accusati di omicidio e di fuggire. Cosa fare? Come vestirvi? Come evitare i controlli? Dove trovare aiuto? La vita del latitante occasionale può essere molto dura e, se raccontata dal giovane Massimo Carlotto, anche tragicomica.

Francamente non c’è molto altro da dire su questo libro, se non che è un’opera prima e forse risente dell’inesperienza di un autore che ha sicuramente molto da raccontare, ma non ha ancora raggiunto la maturità espressiva necessaria a creare un testo organico e scorreIn questo libro, a metà tra il diario ed il ma- vole, come quelli a cui Carlotto ci ha abituato nuale, l’autore ripercorre la sua esperienza di successivamente. latitanza all’estero in Francia e Sudamerica. Il volume è suddiviso per argomenti, più che Non la migliore opera di Carlotto, ma il testo per sequenza cronologica, anche se in realtà resta comunque interessante e gradevole. si tratta di un compromesso tra le due scelte.

Oltre alla ricostruzione di cosa fare e perché, l’autore racconta diversi aneddoti personali e si abbandona non di rado a riflessioni non solo sulla sua vicenda personale, ma anche su quelle delle persone che ha incontrato, delle zone in cui ha vissuto e della politica in generale.

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senza l’angoscia dell’avvenire

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di chiara silva Ascolto consigliato: The spirit carries on – DREAM THEATER

Memorie di Adriano è un romanzo della scrittrice franco-belga Marguerite Yourcenar (1903-1987) pubblicato nel 1951. L’autrice afferma di aver scritto la prima bozza del libro quasi totalmente tra i venti e i venticinque anni ma poi per diverso tempo ha continuato le sue ricerche per rielaborare, approfondire o modificare le parti del romanzo. Il risultato finale è un viaggio affascinante nell’Impero Romano all’epoca dell’Imperatore Adriano, narratore e protagonista della sua stessa vicenda. Yourcenar lascia infatti parlare liberamente il suo protagonista attraverso una lunga lettera che l’imperatore scrive al nipote adottivo Marco, quando si trova allo stato terminale di una malattia che lo ha colpito nel corpo ma non nello spirito. Con il pretesto della lettera Adriano narra la sua vita in retrospettiva, delineando le tappe che lo hanno portato a diventare l’uomo più importante di Roma. Adriano inizia il suo racconto parlando della sua infanzia e della sua famiglia, dei suoi studi e della sua passione per le arti e per il mondo ellenico che caratterizzerà anche la sua futura linea politica. Mentre racconta, Adriano non nasconde al nipote la sua aspirazione al potere, dettata più

dal desiderio di realizzare pienamente se stesso e dall’ambizione di instaurare ordine e pace sui territori imperiali che dalla cieca volontà di sottomettere e dominare i popoli. Tale pensiero ha assillato Adriano dalla giovinezza fino all’età di quarantun anni, quando diventa imperatore dopo essersi guadagnato la stima e la fiducia del suo predecessore grazie ai successi della sua carriera militare. Una volta divenuto imperatore, Adriano si occupa della pace e della stabilità di ogni regione dell’impero e tra i suoi numerosi spostamenti conosce in Bitinia il giovane Antinoo che diventa subito il suo amante. Il ricordo di questa relazione è molto delicato e carico di passione e tenerezza. Sebbene i due siano felici l’uno nelle braccia dell’altro, Antinoo non cela una certa inquietudine e un disprezzo per la vecchiaia che lo porterà a suicidarsi, probabilmente seguendo un rito propiziatorio a favore di Adriano. La morte del giovane Antinoo, appena ventenne, sconvolge Adriano nel profon-

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do, il quale non riesce a trovare consolazione e a dare un senso a questa tragedia. Anche dopo le esequie, la deificazione e l’istituzione del culto di Antinoo non si attenua molto il lutto di Adriano, in quanto è consapevole che ogni tentativo di tener viva la memoria del giovane è solo un vano palliativo al suo dolore. L’imperatore però ritorna ai suoi doveri e riesce a sistemare la penosa questione imperiale, designando un degno successore che porterà avanti la sua opera; tutto ciò mentre la sua malattia inizia a manifestarsi e lo costringe lentamente a ritirarsi dalla vita pubblica. Nell’ultimo capitolo Adriano parla di come sta vivendo la sua malattia. All’iniziale desiderio di togliersi la vita per porre fine alla sua agonia, Adriano contrappone la patientia, contraddistinta da un atteggiamento più rispettoso per la vita e da un’accettazione serena e imperturbabile di ciò che l’esistenza ha riservato per lui. Così il romanzo si avvia alla conclusione, lasciandoci le impressioni di un uomo che ora guarda al mondo senza l’angoscia dell’avvenire e che riconosce la bellezza della vita anche nella prova più difficile. Yourcenar non ha deciso di celebrare Adriano attraverso i suoi trionfi ma ha preferito mostrarci l’imperatore privato, l’uomo e i suoi pensieri, permettendoci così di entrare a fondo nel suo intimo. Il comportamento risoluto e paziente di Adriano, soprattutto in punto di morte, può essere un ottimo monito per l’uomo moderno che forse sta dimenticando a sopportare con coraggio le avversità della vita.

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il limite delle cose di ariberto terragni

La prosa di Carver è sofferta, nuda, senza difese. Dietro la corazza dura del worker disadattato della provincia americana, c’è un’umanità ferita che lotta per vivere. Nei racconti di Raymond Carver, discusso scrittore di poesie e short stories, il filo rosso che unisce i vari aspetti della sua opera attraversa in ogni singola parola i campi della dignità offesa e del dolore privato. Un dolore intimo e inesprimibile che corrode i suoi personaggi, antieroi senza nome sullo sfondo dell’immensa, anonima provincia Usa. Una vita tutta in salita quella di Ray. Il padre alcolizzato, un matrimonio in anni ancora troppo giovani, i lavori più usuranti e disparati. Poi la scoperta della letteratura come arma di riscatto esistenziale: i racconti dei grandi maestri come Anton Cechov e Flaubert fino ad una difficoltosa, lenta risalita personale e

sociale che lo portò ad insegnare, non senza polemiche dovute ai suoi metodi eterodossi, all’università. Risalite e ricadute, il matrimonio fallito, la spirale dell’alcolismo. E poi i libri, naturalmente. Uno stile debitore di Hemingway, diciamolo subito così sgombriamo il campo da ogni equivoco, ma declinato in modo molto originale, senza guerre, senza corride, senza eroi, ma con una dose di verità a volte ai limiti del sopportabile; una dose di insicurezza, di frustrazione e insomma di vita vissuta che pochi altri autori sono riusciti a condensare nel breve respiro di un racconto. Racconti come Cattedrale, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, Attento, sono le tappe di una corsa a ostacoli dove tutto è omesso perché tutto sia visibile, a volte ai limiti dell’osceno, negli anfratti oscuri delle esistenze infelici di tante persone, inchiodate a lavori inutili

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e alla necessità di raggranellare qualche soldo per vivere. Era Carver stesso a dire che amava descrivere situazioni in cui la sorte incombesse come una minaccia: lui è così, ci conduce sul ciglio del burrone e ci lascia interdetti ad interrogare l’abisso. L’operazione stilistica è scabra e ridotta all’osso, e forse proprio per questa ragione lascia il segno: l’abisso non sta nell’eccezionale, ma nella corrosione quotidiana. Non fu facile ottenere quel tipo di prosa, tutta giocata sul versante della sottrazione. Fu un lavoro di scavo e di scelta, dove le parole hanno un peso specifico molto alto e la concentrazione emotiva rende lo scenario narrativo saturo fino a livelli raggiunti da pochi. Di chi fu il merito? Di Carver? C’è chi dice che in realtà il deus ex machina dello stile e del successo dello scrittore americano sia da attribuire a Gordon Lish, suo mentore ed editor, figura di spicco del minimalismo letterario, che avrebbe apportato modifiche decisive alle prime stesure dei racconti. Non ho elementi per dire se ciò sia vero. Senz’altro Carver ad un certo punto della sua vita avvertì questa collaborazione come troppo ingombrante, tanto da sostenere che proseguendo in quella direzione sarebbe arrivato ad “un punto morto”. I racconti di piena matrice carveriana hanno trovato spazio nella famosa autoantologia Da dove sto chiamando, nel 1988, l’anno stesso della morte dello scrittore, stroncato da un tumore ai polmoni proprio quando i cocci della sua esistenza si stavano ricomponendo, e alla ritrovata serenità sentimentale si erano accompagnati i riconoscimenti sia letterari che economici.

Per andare sul pratico, Da dove sto chiamando è un libro importante, forse il vero libro necessario della poetica carveriana, più delle poesie e più delle raccolte uscite alla spicciolata: dentro si avverte un sentimento più vero, una dinamica che non si accontenta di accennare gli eventi, ma li vive. Sì, forse Da dove sto chiamando non ha il fascino dei racconti di Hemingway, né la perfezione formale di Cechov, ma ha molti colori sulla sua tavolozza: sfumature, accensioni, lampi improvvisi. Carver in un’impostazione asciutta e per certi versi radicale, riesce a contemplare una gamma di coloriture emotive ampia e non scontata. Una certa critica con la mania delle etichette ha bollato la sua produzione con la formula del minimalismo, ma è un termine che non spiega niente e in più apparenta scrittori e tendenze che nulla hanno a che vedere l’uno con l’altro. La vera tensione di Carver sta tutta nella sospensione: ogni scena è gravata da un dubbio, da un senso di tragedia imminente, che può risolversi in alcuni casi, ma che più spesso rimane incombente, come una triste metafora dell’esistenza. Se ciò sia tanto o sia poco spetta ai lettori dirlo. Di certo in scenari narrativi sempre più artificiosi, Carver ci ricorda che i sentimenti forti abitano anche nella più comune delle esperienze.

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l’inverno sta arrivando di giuseppe recchia

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Mi si chiede di scrivere un articolo su un fantasy per lo speciale invernale di RB e io, sarò banale, penso subito a George R.R. Martin. Non potevo farne a meno. Sono ormai cinque libri (dodici nella versione italiana... grazie Mondadori...) che il geniale autore statunitense ci ripete incessantemente “l’inverno sta arrivando, l’inverno sta arrivando, l’inverno sta ecc. ecc.” e francamente, per un lettore fanatico come me, la brutta stagione è diventata sinonimo di Stark di Grande Inverno, di Estranei e di Re Oltre la Barriera. Chi conosce già le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco (A Song of Ice and Fire in originale, abbreviato in ASoIaF) ha più o meno capito a cosa mi riferisco. Per tutti quelli che invece non sanno di cosa sto parlando e che magari hanno voglia di leggersi un fantasy fatto bene allora qualche spiegazione sarà utile a spiegare le mie farneticazioni e ad incentivare l’acquisto. L’opera di Martin è una monumentale storia ambientata nei Sette Regni di Westeros, un vasto e variegato reame diviso da guerre, rivalità feudali e intrighi di corte. Niente magia, o

meglio, poca, pochissima magia ben nascosta. Tanta violenza invece e un crudo realismo che hanno fatto dell’autore un temuto assassino di personaggi: mai affezionarsi ad uno dei protagonisti, perché non c’è eroismo che tenga e in qualsiasi momento, nei modi più terribili, può scapparci il morto. Niente guerrieri invincibili, ma rudi mercenari e cavalieri dalla morale non proprio in linea con gli ideali della Tavola Rotonda, perfettamente coerenti con la scelta di non delineare nettamente un confine tra il bene e il male. Si lotta per il potere o per la sopravvivenza e non c’è spazio per l’etica e i buoni sentimenti. E poi c’è l’inverno alle porte. Le stagioni nell’ambientazione martiniana possono durare anni interi e quando arriva il freddo sono guai per tutti. Ne sanno qualcosa gli Stark, nobili signori del Nord e veri protagonisti della vicenda. Il loro motto “winter is coming” dice tutto. Mentre il gelo e i demoni ad esso legati tornano a minacciare gli uomini, gli Stark si trovano a dover fronteggiare anche l’ennesima guerra dei Sette Regni, con re che si accavallano e abili burattinai che muovono le loro trame da dietro le quinte. Un “gioco di troni” insomma, come recita il titolo del primo volume originale, in cui non c’è spazio

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per i classici topoi del fantasy, in cui la magia e i mostri non hanno nessun ruolo. Conta solo l’uomo, la sua violenza e le sue passioni. I veri mostri sono insomma gli esseri umani e se a poco a poco l’elemento sovrannaturale fa breccia, questo viene a lungo ignorato dai mortali intenti a scannarsi l’un l’altro, relegato al mondo della fantasia. Ma ASoIaF resta un fantasy. È come se Martin avesse voluto dividere il suo mondo in due, mettere da una parte Westeros con il suo razionalismo, dall’altra Essos, il continente al di là del Mare Stretto, con il suo misticismo. Qui si muove Daenerys Targaryen, legittima erede al trono dei Sette Regni, ultima della sua dinastia e... madre dei draghi. Si perché ci sono anche i draghi, forse il maggiore “omaggio” che lo scrittore di Bayonne fa ai classici del genere. Con i capitoli dedicati a Daenerys, Martin accontenta davvero tutti i lettori, riuscendo ad alternare in modo armonioso ambientazioni e sottogeneri diversi. Draghi quindi, e anche fuoco. Inverno e ghiaccio da nord, fuoco da est. E con le fiamme, con la luce, nascono anche le ombre, con nuovi intrighi e nuove minacce ai delicati equilibri dei due continenti. Il tutto infarcito con una quantità enorme di profezie, divinità, eroi predestinati, sotto-trame e particolari che sembrano buttati lì a caso e che invece sono frutto di

una sceneggiatura perfetta e sorprendente. Unica pecca? Il tempo che bisogna aspettare tra un libro e l’altro. Iniziata ormai vent’anni fa, la saga è arrivata al quinto dei sette libri previsti, pubblicati in Italia in modo assurdo (i primi due libri sono diventati quattro, il terzo è diviso in tre parti, il quarto in due e il quinto di nuovo in tre... in pratica l’intera collezione in lingua originale costa meno di 40 dollari; da noi, in versione economica, 120 euro). Io ho iniziato a leggerla qualche anno fa e ho fatto tutta una scorpacciata fino al quarto volume, aspettando solo qualche mese per l’edizione in inglese del quinto. E adesso? Se tutto va bene tocca aspettare il 2015 perché Martin, tra libri e sceneggiatura della serie tv tratta dall’opera, se la sta prendendo comoda, lasciando i lettori di mezzo mondo con il fiato sospeso per le sorti di alcuni dei protagonisti e con mille domande su misteri disseminati ovunque. Ma lo spazio, a volte più del tempo, è tiranno e non riesco a dirvi altro. Questa però vuole essere solo un’introduzione all’enorme mondo creato da Martin, un piccolo assaggio di inverno. Le prossime settimane tornerò sull’argomento con una serie di articoli sull’ambientazione, sui personaggi e sulla trama delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, sempre sui vostri schermi, sempre su Reader’s Bench.

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l’infiltrato

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di claudia peduzzi

Ho sempre avuto un debole per gli eroi solitari della letteratura, ma Antonio Salas è assurto a vero mito essendo lo pseudonimo di un uomo in carne ed ossa. Solo che più che un eroe è un pazzo furioso. Nel campo dello spionaggio internazionale, che si tratti di politica o di segreti industriali, gli infiltrati sono all’ordine del giorno, tuttavia hanno sempre alle spalle un’organizzazione che svolge un minimo servizio di copertura. Salas no è un cane sciolto, un indipendente che si autofinanzia con i diritti di vendita dei suoi libri, oltre che con il lavoro “ufficiale” di giornalista del quale, per ovvie ragioni, non si conosce il nome. Delle sue inchieste non mette mai al corrente nessuno, nemmeno i suoi familiari più stretti, il che lo costringe a gestire tre identità contemporaneamente: quella vera, quella come Antonio Salas e quella dell’infiltrazione del momento. Non ho letto i due reportage precedenti “Diario de un skin” e “El Ano che trafique con Mujeres”, disponibili solo in spagnolo, ma ne l’Infiltrato (titolo originale El Palestino) sono abbondantemente citati e quest’ultima infiltrazione, durata sei anni, finisce anche perchè il giornalista deve partecipare al processo seguito alle denunce scaturite dall’infiltrazione tra i naziskin, il cui esito è riportato nell’Epilogo.

bo non sarebbe certo stato sufficiente “fingere” di essere palestinese, anche perchè lo studio dell’arabo si era subito rivelato uno scoglio molto più grande del previsto. Quindi oltre a smettere di bere alcolici, di fumare e di mangiare carne di maiale Salas ha finito non solo per convertirsi all’Islam (religione che per altro ha deciso di continuare a seguire anche ad infiltrazione finita), ma anche per farsi circoncidere, decisione estrema e molto sofferta, ma inevitabile per la prosecuzione del progetto.

La prima regola per riuscire in una infiltrazione – spiega Salas - è che non basta fingere di essere qualcuno, ma bisogna DIVENTARLO. Per infiltrarsi tra le cellule del terrorismo ara-

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La seconda regola, molto più difficile da seguire della prima, è che durante l’infiltrazione NON SI DEVONO COMMETTERE REATI. Salas riesce nell’intento ritagliandosi una posizione come “webmaster” diventando il portavoce ufficiale di Carlos Lo sciacallo, il terrorista più ricercato al mondo prima dell’avvento di Bin Laden, e di Hezbollah Venezuela, un gruppo che per sua stessa ammissione praticamente non è mai esistito. Commentando la sua attività di webmaster Salas non manca di sottolineare l’estrema facilità con cui si possono diffondere notizie false tramite internet. Chiunque può affermare qualsiasi cosa e, siccome la maggior parte degli internauti non si prende la briga di verificare l’attendibilità della fonte, la notizia inizia a circolare diventando “automaticamente” vera quanti più sono a condividerla. La nuova generazione informatizzata crede di essere più documentata di quelle precedenti, in realtà la rete è un potente AGENTE DI DISINFORMAZIONE e, al pari degli altri mass media, in politica è un’arma di più efficace delle bombe: chi riesce a creare una corrente di opinione la può facilmente trasformare in voti e di conseguenza in potere. Durante l’infiltrazione Salas ha osservato che i terroristi più intelligenti e sfuggevoli erano quelli più diffidenti rispetto al web, benchè solleticandone l’egocentrismo e il narcisismo sia riuscito a strappare comunque qualche “intervista impossibile”. Perchè il materiale raccolto sia credibile, e soprattutto successivamente utilizzabile per eventuali denunce e\o processi, tutto deve essere registrato per cui, oltre a girare sempre con una telecamera nascosta (con i conseguenti rischi del caso) Salas ha sfruttato la sua posizione di webmaster per intervistare diversi personaggi legati al mondo del terrorismo islamico.

le e diretto con il famoso terrorista Carlos lo Sciacallo, attualmente rinchiuso nelle carceri francesi per scontare anni di pena per cui non gli basterà una vita intera. La storia personale di Carlos ha ispirato molti scrittori e registi. Robert Ludlum ha inserito il personaggio nella trilogia di Bourne, ma la figura è stata tagliata nella versione cinematografica. Irving Walla-

ce ha immaginato il rapimento di Carlos nel romanzo “L’onnipotente”, Tom Clancy la sua evasione in “Rainbow Six”, mentre alla vita del terrorista è ispirato il film del 1997 “L’incarico” con Aidan Quinn, Donald Sutherland e Ben Kingsley. Antecedente alla sua notorietà è invece il romanzo “Il giorno dello Sciacallo” di Frederick Forsyth (1971), come pure l’omonimo film di Zimmermann (1973). Tuttavia Il risultato maggiore dell’infiltrazione di Salas proprio al libro di Forsyth è legata l’origine del è stato riuscire a stabilire un contatto persona- soprannome. Il terrorista, che è venezuelano e

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si chiama Ilich Ramirez Sanchez, è il primo figlio di un ricco avvocato di fede marxista (i fratelli minori si chiamano Vladimir e Lenin) Negli anni Sessanta viene mandato a studiare, insieme ai fratelli, a Londra. Da qui si sposta prima a Parigi e poi a Mosca. In Europa entra in contatto con il movimento palestinese del FPLP. Ricercato dal Mossad per il fallito attentato n e l 1973 a J.E.

Sieff, proprietario della catena inglese Marks&Spencer, perde l’anonimato a Parigi nel 1975. Riesce a sfuggire all’arresto, ma nell’occasione uccide un agente della polizia francese. Una sua ex-amante, spaventata da quanto apprende dai media, porta alla polizia una valigia, che l’uomo le aveva lasciato in consegna. Qui, tra altri effetti personali, gli agenti trovano il libro di Forsyth e da quel momento i giornalisti aggiungono al nome da combattimento Carlos (derivato dall’arabo

Khalil, amico) il suffisso Lo Sciacallo. La latitanza finisce nel 1994 in Sudan, “venduto” ai francesi dal governo in cambio di aiuti economici da Parigi. Nel 1997 il remake del film “Il giorno dello Sciacallo”, intitolato The Jackal ed interpretato da Bruce Willis, Richard Gere e Sidney Poitier, è solo vagamente ispirato al romanzo di Forsyth e la figura dell’assassino ricalca completamente quella di Ilich Ramirez Sanchez. Nel 2011 il canale satellitare 131 di Sky ha trasmesso la miniserie “Carlos” del regista francese Olivier Assayes, presentata fuori concorso al festival di Cannes del 2009. La presunta amicizia con Lo Sciacallo, che in Venezuela è quasi un eroe nazionale, e l’ineccepibile curriculum palestinese-venezuelano (comprensivo di falsa moglie morta a causa di un raid israeliano) che riesce a costruirsi, permettono a Salas di entrare in contatto con differenti gruppi terroristici, non necessariamente di matrice islamica. Una delle scoperte più interessanti che riserva la lettura del reportage del giornalista spagnolo è che la religione con il terrorismo centra ben poco. Salas afferma che ricopiare il Corano in arabo, esercizio linguistico oltre che pratica necessaria a consolidare la sua credibilità, gli ha permesso di sfatare molti pregiudizi occidentali. Il suggerimento è che tutti - cristiani, musulmani, ebrei - dovremmo prenderci la briga di leggere i libri sacri dei nostri “nemici di fede”. In questo modo molti malintesi verrebbero automaticamente risolti. Identica è, per esempio, l’opinione su aborto, omosessualità e matrimonio, mentre il rispetto per la famiglia per gli arabi è anche maggiore che per gli altri. Del resto La tomba dei patriarchi in Giudea raccoglie quattro coppie sacre (Adamo ed Eva, Abramo e Sara, Isacco e Rebecca, Giacobbe e Lia), che hanno la medesima rilevanza nel Corano, nel Talmud e nella Bibbia. Se tra queste tre religioni, che si fanno la guerra da oltre 15 seco-

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li, vi sono più affinità che differenze è chiaro che i motivi dei contrasti devono essere altri e probabilmente sono interessi economici e politici a strumentalizzarne gli ideali. La miglior dimostrazione a questa tesi è il fatto che molti neonazisti si siano convertiti all’Islam. Condividendo il principio “che il sionismo è all’origine di tutti i mali” l’Islam è diventato l’ultimo bastione per la difesa degli ideali del Terzo Reich. Così due ideologie opposte e rivali arrivano a commettere gli stessi reati sulla base delle rispettive dottrine. Gli estremi si toccano. I mass media si guardano bene di parlarne, ma sia in Iraq che in Palestina esistono milizie armate cristiane, come le pattuglie paramilitari di Bartala, Tel Qef e Qaraqosh: evidentemente gli affari legati alla guerra sono troppo proficui e l’etichetta di terroristi un pretesto politico troppo redditizio per evidenziare certe notizie. Nel quarto anno della sua infiltrazione (2008) Salas partecipa, come portavoce ufficiale di Carlos Lo Sciacallo, al VII Forum socialista Mondiale di Stoccolma organizzato dalla ABF svedese, un’organizzazione nata nel 1912 che si occupa di iniziative sociali e che raggruppa più di 55 organizzazioni di sinistra. Qui trova ulteriore conferma che il denominatore comune di tutte le organizzazioni armate par-

tecipanti, ben lungi dall’essere la religione, è il traffico d’armi. Che si tratti di cristiani, islamici, ebrei o atei la parola d’ordine della propaganda ideologica è: uccidere di più e meglio. È il principio della Guerra Asimmetrica, che utilizza la guerriglia non per vincere, ma per fare in modo che il nemico perda. Il triste effetto collaterale è che l’unica grande sconfitta è la popolazione civile. Salas evidenzia come gli attentati di matrice islamica facciano spesso più vittime tra la popolazione musulmana, piuttosto che tra quella occidentale, il che è un evidente controsenso. Nel suo percorso di formazione per “diventare” palestinese il giornalista racconta di aver fortunatamente incontrato molte persone che hanno scelto di combattere con altri mezzi contro l’occupazione israeliana. È il caso di gruppi musicali come MrT, Lofti e soprattutto i Dam, il gruppo più famoso, che, nello stesso spirito dei rappers americani, usano l’Hip Hop al posto del fucile “sparando” parole come pallottole. La canzone “Who’s the terrorist?” dei Dam è un inno per i giovani palestinesi. Il giornalista spagnolo spera che il suo lavoro possa avere analoga utilità e afferma “Le mie armi sono i servizi speciali che realizzo, le mie pallottole sono le lettere, di calibro tanto potente da forare qualunque blindaggio. Il mio fucile è una telecamera, la mia pistola la tastiera del computer”.

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Ariberto Terragni

Tornare tardi

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Il tepore della terra umida e gelata annunciava pioggia; cominciava a piovere sull’arteria polverosa che percorreva per tornare a casa. Un giorno di pioggia, sporco. Il tergicristallo batteva colpi regolari da un capo all’altro del vetro, disegnando perfette mezzelune di sudicio. L’uomo guidava senza pensieri, con la testa leggera e il fiato un po’ corto, come se avesse appena fatto una lunga corsa. Il traffico delle sei di sera aveva qualcosa di rassicurante, qualche clacson ogni tanto, una frenata improvvisa, e la vita di tanti travet rientrava a casa una volta consumato l’orario di lavoro. Provò a mettersi più comodo sul sedile, ma la schiena gli dava qualche problema, era indolenzita e un po’ contratta, e non c’era verso di trovare una posizione comoda. Intanto guidava, senza badare alle ore e alla stanchezza che a tratti gli segnava il volto. Era ancora un uomo giovane, di bella presenza come si usava dire; aveva tutto quello che si poteva desiderare in fondo: salute, una bella famiglia, un lavoro abbastanza sicuro. Non era merce da poco per i tempi che correvano. Nella scala sociale che era andata profilandosi in quegli anni, Dario si poteva considerare ad un livello più che soddisfacente, di sicuro invidiabile. Prese la solita uscita, corresse di poco la direzione per evitare una pozza d’acqua e si ritrovò nella grande rotonda che smistava i pendolari da un capo all’altro dei paesi. Certi nomi andrebbero scritti in inglese, in italiano non significano nulla e non hanno alcun fascino. Dario pensava che nemmeno la sua vita avesse fascino: era una vita come tante, con qualche gratificazione e parecchie noie, grattacapi di provincia che superavano secondo lui abbondantemente le piccole gioie della casa, della piccola proprietà, della piccola sicurezza. Non si sognava di lamentarsi – in casa dei suoi genitori era bollato come “lamentoso e incontentabile” chiunque si azzardasse a muovere un’obiezione qualunque – ma ogni tanto ci pensava, specie nei momenti di vuoto, come quello della ritorno a casa in macchina o nella doccia o prima di addormentarsi. Parcheggiò nel garage sotto casa. Un piccolo sacrificio economico per comprarlo, con l’aiuto dell’eredità da poco ricevuta dalla moglie. E poi la moglie, in casa, con i suoi due figli, sette e quattro anni, un maschio e una femmina. Sua moglie si chiamava Elvira e lavorava come segretaria part time in uno studio notarile. Elegante, a suo modo un tipo. Dodici anni che si conoscevano.

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Gli aprì la porta Rebecca, piccola e impacciata con un bambolotto strangolato tra le manine. “Ciao principessa.” “Ciao papà.” La prese in braccio. L’odore della sua pelle era di miele e camomilla. Non voleva chiamarla Rebecca, aveva deciso Elvira, ci teneva, era il nome di sua nonna. Un nome è soltanto un nome aveva pensato Dario, ma quel Rebecca era un po’ il suono di compromesso tanto vicino alla sconfitta. Povera bimba, che pensieri fa tuo padre, pensò. “E’ è andato tutto bene all’asilo?” Lei si mise a raccontargli qualcosa che non catturava l’attenzione di Dario. Annuiva, faceva delle piccole smorfie per farle capire che era interessato, anche se non lo era e pensava ad altro, a quello che era accaduto quel giorno, nella normalità imbarazzata di un giovedì come tanti altri. E ci pensava ancora mentre attraversava il corridoio, e il soggiorno dove suo figlio Alberto faceva i compiti seduto al tavolo e lo salutò con un rapido cenno della mano. Elvira era in cucina. Stava parlando al cordless, doveva essere sua sorella a giudicare dal tono e dagli argomenti. Sai, la mamma non l’ho vista granché bene... ma devono andare ancora in vacanza in quel posto quest’inverno? Ma guarda che è troppo umido, poi le vengono i dolori e anche a papà, che non è più un ragazzo... eh, lo so, lo so, ma vaglielo a dire. Spense l’apparecchio. Rebecca giochicchiava con il lembo della sua giacca. Elvira sorrise, rapida e stanca. “Come è andata oggi?” Gli chiese. “Bene, e a te?” “Bene, dai. Mi ha chiamato il grande capo, forse dovrò lavorare martedì e mercoledì pomeriggio, i tuoi possono andare a prendere i bambini?” “Chiama mia madre.” “Chiamala tu, sai che a te non dice di no.” “Nemmeno a te.” “Non è vero, a me dice sempre di no, ma tu sei il suo bambino, non ti nega un favore.” “Non dovrebbe essere un favore prendersi cura dei propri nipoti per qualche ora.” “Sai com’è fatta tua madre.” No, non lo sapeva. Davvero era diventata così anche

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lei? La bambina cominciò a dare segni di insofferenza, e volle essere lasciata andare, Dario le diede un bacio sulla testa e la posò per terra. Rebecca, corse via, a giocare e poi a litigare con suo fratello; era un copione che conosceva a memoria. Bastava un niente e la polveriera saltava, anche se fino a un secondo prima regnavano pace e concordia. “Io venerdì torno tardi, ho del lavoro arretrato.” “Che tipo di lavoro?” Chiese Elvira. “Mi devo vedere con quelli dell’ufficio vendite, dobbiamo parlare di un paio di cose.” “Noie?” “No, niente di che, solita solfa. Loro chiedono soldi che non ci sono, e io devo ricordargli di non sforare i budget, tutto qui.” Elvira appoggiò il mestolo sul bordo del piatto e si avvicinò a lui. Lo accarezzò, e nel mentre spostò il suo capo verso di lei con una leggera pressione sotto al mento: “Sei sicuro che va tutto bene? Sei un po’ pallido, un po’ sbattuto.” “Va tutto bene, sono solo un po’ sotto pressione.” Sentire le mani di sua moglie a contatto con la pelle del viso fu un piccolo shock. Erano mani di donna, come quelle di Mina poche ore prima; guardò l’orologio, un’ora esatta prima era tra le braccia di un’altra. Altro piccolo shock. Gli sembravano passati anni e universi, eppure quello spazio modesto e infinitesimale era trascorso senza particolari attività, solo con il ritorno in macchina e una ridda di pensieri pigri. Elvira era davanti a lui. Non poteva saperne niente. Era lucente nella luce a basso voltaggio. Una donna premurosa, fedele, che aveva diviso con lui tutto, dagli inizi ad ora. Le accarezzò il viso a sua volta e sentì di amarla tanto, con tutto se stesso, ma evidentemente non era abbastanza. Peggio di non saper amare è non essere amati, ma peggio di tutto è non essere in grado di amare abbastanza. L’amore non è un assoluto, mormorò, come tra sé. “Come dici?” “No, niente, che mangiamo stasera?” “Ho fatto le cosce di pollo ripiene, ti vanno?” “Sì, mi vanno.”

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Gli aveva chiesto di rimanere a cena con lei. Dai, ci prendiamo una cosa dal cinese, fanno il pesce buono, spendiamo poco, resti un po’ qui e poi... Niente da fare. Dario era un uomo che si metteva paletti precisi intorno, ed era difficile che andasse oltre. Oltre non si sa che cosa c’è. Un precipizio, un mostro, si può trovare di tutto. Non aveva voglia di trovarsi sorprese in quel buio, così aveva risposto di no, che non aveva tempo, che doveva tornare a casa. Da quando aveva cominciato a pensare alla propria famiglia aveva avvertito le prime fitte al petto, piccole scariche azzurrine che lo infilzavano da parte a parte. E poi oggetti. La cucina presa insieme, quel coltello in ceramica, l’orologio da muro che Elvira voleva tanto. Anche i giocattoli dei figli: la palla rossa e blu, la bambola di pezza di Rebecca, il soldatino parlante di Alberto. “Alberto come sta?” Chiese. Elvira ruotò il capo di qualche grado, mentre apparecchiava la tavola: “Sta bene, perché?” “Non lo so, mi pare un po’ silenzioso.” “Silenzioso? No, è normale, sai che è sempre stato così. Un po’ mi sa che ti assomiglia.” “Spero di no per lui.” “Io sarei contenta invece, e piantala di dire il contrario, ce ne fossero come te.” “Non ne sono così sicuro.” “Ti ho detto di smetterla, guarda che mi arrabbio, sul serio.” La voce di Elvira tendeva all’acuto, si fermava un attimo prima di diventare stridula, e poi tornava piana, come una superficie desertica increspata di tanto in tanto da qualche roccia. Un leggero mal di testa. Nel suo campo visivo, lei stava ancora seduta ai bordi del letto, il lenzuolo tirato sul seno, i capelli spettinati; una lunga chioma nera impastata di sudore e di lacca si appoggiava alla sua spalla. Una curva sinuosa. Aveva esagerato, Dario, aveva quasi il fiatone e non passava. “Ma tu piuttosto, ti vedo stanco oggi.” “E’ il lavoro Elvy, il lavoro... non sai come sono stato preso oggi. Il lavoro, una brutta cosa. Chiedono tutto a me, mi trattano come se io sapessi risolvere tutti i problemi.” “Beh, è un vantaggio no? Con i tempi che corrono meglio essere utili, fidati.” “Già, beh. Domani sera, per esempio, mi tocca tornare tardi.”

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“Quanto tardi?” “Ma non lo so, penso mezzanotte, o anche dopo. Una riunione con i giapponesi, te l’avevo detto no? Vengono qui, vogliono discutere di certi problemi che non ho capito nemmeno io, e bisogna assecondarli, e secondo te chi mandano? Me.” Elvira lo guardò con un misto di tenerezza e malinconia. Grandi occhi verdi, mani di madre. “Non era così quando abbiamo iniziato, vero? Quando ci siamo sposati dico. Siamo tutti e due stanchi, non credi anche tu? Non mi voglio lamentare, lamentarsi è una cosa da deboli, ma noi due non siamo un po’ peggio rispetto a quando ci siamo sposati? Prova a pensarci.” “Che vuoi dire Elvira?” Un nodo alla gola. La mano corse a infilarsi in tasca. “Non lo so, non lo so. Saranno pensieri dettati dalla stanchezza. Non è facile a volte, tra il lavoro e la casa da mandare avanti. I bambini crescono, non è facile stargli dietro.” “Ma tu sei tanto brava, non devi fare questi pensieri.” Dario si avvicinò a sua moglie e le carezzò il capo. Non riusciva ancora a deglutire e più ci provava più aveva la sensazione di soffocare. Con l’altra era tutto diverso, c’era sì una forma di delicatezza, ma non così tanto, e c’era meno affetto. Sì, non era roba da entrare nella stanza e sbatterla sul letto, ma era una cosa più fisica, dove la testa ragionava meno e ragionava di più tutto il resto. Che poi era la stessa identica cosa che accadeva con Elvira, quando erano ragazzi, tanti anni prima. Ma si sa come vanno queste storie, no? Insomma, la gente cambia. Con l’altra c’erano territori da esplorare, con Elvira era già tutto più o meno noto, e insomma non riusciva più a immaginarsela in atteggiamenti troppo provocanti. Era una madre oltretutto. “Ehi, guarda che mi fai male.” Disse lei. Dario le tolse la mano dai capelli. Non gli sembrava di aver fatto troppo forte. Rebecca entrò in cucina con un disegno in mano: erano i tratti stereotipati di una famiglia di quattro persone. “Questa sono io, questo è Alberto, mamma e papà.” Nel disegno Rebecca e Elvira erano gigantesche. Dario se la giocava con Alberto; era un po’ più grosso, ma non così tanto. Dunque era così che sua figlia lo vedeva? Non poteva lamentarsene, in fondo non aveva fatto proprio nulla per trovarsi in una

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situazione diversa. “Che bello amore.” Disse Dario. Elvira prese in mano il disegno: “Sì tesoro, ma ti pare che papà è così piccolo? Non lo vedi papà com’è grande? Non è più piccolo di me e di te, vedi?” Rebecca guardava suo padre perplessa. Una boccuccia corrucciata e il dito infilato nell’angolo della bocca, sembrava valutare le parole di sua madre. Alla fine fu in parte d’accordo con lei: “Sì, forse, sì... Io sono ancora piccola.” Poi uscì dalla stanza con il foglio e la matita in mano. Era leggera, saltellante, una sfida alla gravità. “Ma sì” disse Dario “è un bel disegno e basta.” “Eh no, bisogna dirgliele le cose, con garbo, ma bisogna dirgliele, è una bambina, mica una stupida, lo vede anche lei che tu non puoi essere piccolo come Alby, o no?” “A me pareva una rappresentazione del suo mondo, tutto qui.” “Guarda che hai ancora il soprabito addosso.” “Uh, ah, sì, lo tolgo.” “Mettilo in ingresso che è ancora umido di pioggia.” Sentì i suoi passi croccanti sul parquet un po’ sollevato; a ben guardare sarebbe stato da rifare, forse tra qualche mese, non subito, con tutte le spese che c’erano. Alberto gli disse se poteva dargli una mano con i compiti, che era rimasto indietro. “Ora arrivo.” Il cellulare vibrò. Dario non aveva voglia di guardare, tanto sapeva di chi era il messaggio. Si sedette di fianco a suo figlio al tavolo del soggiorno. Il fiatone gli stava passando finalmente.

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Ariberto Terragni, scrittore e blogger, ha all’attivo un romanzo pubblicato: Un uomo da abbattere. Collabora a Reader’s Bench da tre anni, si interessa principalmente di narrativa e filologia novecentesca europea e americana. Appassionato di lingue classiche, in particolare di etimologia. Per Reader’s svolge principalmente l’attività di articolista e recensore, autore talvolta anche di brevi monografie e racconti. Sinossi libro: Ha da poco pubblicato, in selfpublishing, Roberto detto Bobby è il capitano della Mentre vado via squadra, è magro e un po’ curvo, ma ha lo Seguite Ariberto anche sul suo Quaderno sepolto sguardo tagliente come una lama. Cesare è il suo amico, è detto Bulldog perché in campo è un mastino, uno che non tira indietro la gamba. Poi ci sono Filippo, il bomber, che fa di tutto per togliersi di dosso l’etichetta di figlio di papà, e Leonardo, il mediano preciso e arcigno. I primi due provengono da famiglie difficili e vanno male a scuola; gli altri sono figli della società bene di un ricco paese di provincia. Quattro amici. Quattro vite che si prendono e si lasciano lungo l’arco di vent’anni. In mezzo, le scelte diverse, gli incontri, gli amori. E il ricordo di una partita di calcio giocata tanti anni prima che potrebbe essere stata lo spartiacque delle loro esistenze. Sullo sfondo i percorsi paralleli, i successi e i fallimenti che porteranno i quattro ragazzi a diventare uomini. Mentre vado via è la cronaca di quattro vite incrociate, lontane nelle esperienze ma tenute insieme da un filo sottile, quel filo che le farà tornare sui loro passi per giocare un’ultima partita, quella decisiva.

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la sfida di marco caselli

Ho conosciuto Marco e la sua Cassandra durante i giorni al Lucca Comics ed é stato amore a prima vista. Amore letterario, s’intende, per una storia che mi ha affascinato già dal suo titolo: Cassandra. Un nome che rimanda al teatro greco, ad una passato lontanissimo e allo straordinario potere divinatorio della figlia di Priamo. Ma la Cassandra di Caselli-Valenti- De Cataldo che vive nella periferia romana e frequenta gente poco raccomandabile che cosa ha da spartire con la nobile principessa? La bellezza, senz’altro, la nobiltà se non di sangue ma dell’animo e la stessa straordinaria capacità divinatoria che farà comprendere a Marco la sua vera natura. Ma Cassandra é molto di più, una divinità eterea che naviga in un terra invasa dal sudiciume che non vuole comprendere, fino in fondo, la sua straordinaria natura. Un fiore che é nato tra l’asfalto ed il cemento che incontra Marco, poliziotto che, come vuole la tradizione di un buon poliziesco, é in lotta contro il mondo intero. Una storia d’amore, un classico d’indagine poliziesca, una fotografia della nostra società, un bellissimo graphic novel disegnato dal giovane Marco Caselli, sceneggiato da Leonardo Valenti che prende avvio da un racconto di Giancarlo de Cataldo che della criminalità romana ne sa qualcosa. L’immaginario dell’autore di Romanzo criminale, la saga che ha ispirato un’intera generazione, é finito nella mani di questo giovane disegnatore, a lui ho rivolto qualche domanda per conoscere il suo lavoro e la bellissima Cassandra.

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Marco Caselli: un ragazzo che dall’autoproduzioni é passato a Tunué ma non con un graphic novel normale ma con un adattamento di un racconto di Giancarlo De Cataldo. Sembra un film ed invece é vero Marco! Come é iniziata questa avventura? Bisogna tornare indietro a poco più di un anno fa. La Tunuè mi chiamò per propormi di fare alcune tavole di prova per un progetto che aveva come autori Giancarlo De Cataldo e Leonardo Valenti. Essendo io un grande fan della serie Romanzo Criminale, accettai subito con entusiasmo. Le prove andarono bene e da lì ho iniziato una lavorazione serrata di sette mesi che ha portato al risultato che avete oggi in mano. Una storia che, come é tipico di De Cataldo, racconta una metropoli e situazioni al limite della legalità. Come hai deciso di affrontare la storia e quali sono stati i suggerimenti dell’autore? Siccome i tempi erano abbastanza stretti non ho potuto fare il lavoro di documentazione che avrei voluto. Quattrocastelli è un quartiere inventato, per cui per elaborarlo mi sono ispirato a vari angoli della periferia Romana, usando foto passatemi dall’autore e dall’editore e compiendo delle vere e proprie passeggiate virtuali attraverso Google Street View. Per l’atmosfera e l’andamento della storia invece, mi son rivisto diverse puntate di Romanzo Criminale, dove ho ritrovato degli ottimi spunti che m’hanno permesso di dare un certo tono a molte scene. Il tuo stile, in bianco e nero puro, pulito, é nello stile del fumetto italiano eppure la storia non é proprio facilissima. Chi é Cassandra e quali sono gli autori a cui ti sei ispirato per raccontare questa storia? È difficile fare un profilo preciso di Cassandra. Leggendo la sceneggiatura di Leonardo, ho elaborato il personaggio per far sì che risultasse ad una prima occhiata una bellissima ed attraente ragazza. Però con l’andare avanti della storia, se il lettore è un minimo attento, può notare tutta una serie di piccoli dettagli che rendono ambigua la sua figura, come i lineamenti più spigolosi o le mani un po’ troppo grandi. Questi particolari abbinati al suo triste passato, la rendono sicuramente un personaggio tormentato, che però alla fine sapra’ districarsi e far luce sui problemi dell’altro protagonista di questa storia, Marco, ed aiutarlo a risolverli. Siccome lei stessa è una grande fan di Patty Pravo, ho preso la cantante come punto di riferimento per dare un volto e una gestualita’ a Cassandra, rendendola il personaggio di cui avete letto. Il disegnatore, lo sceneggiatore e l’autore del racconto. Cassandra racchiude in sé tre diverse professionalità. Come si amalgamano e che posto hanno avuto nel racconto e come hanno influenzato il tuo lavoro? Rispondendo a questa domanda mi tocca fare una grande confessione. Non ho letto il racconto originale di De Cataldo. Inizialmente perchè il tempo era poco, per cui avevo iniziato da subito la lavorazione pensando di recuperare il racconto in un secondo momento. Col passare dei giorni però, e dopo aver letto più volte la sceneggiatura di Leonardo, si erano create tutte una serie

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di suggestioni e meccanismi ben solidi. Siccome fino a quel momento avevo cercato il libro senza successo, decisi che a quel punto preferivo andare avanti come avevo fatto fino ad allora, vivendo la cosa un po’ come una sfida. “Finiamo prima la lavorazione di Cassandra, poi leggerò il racconto originale. Vediamo quanto son riuscito a cogliere, aggiungere, cosa ho involontariamente tolto e cosa invece ho semplicemente modificato.” Era diventato questo il mio pensiero. Per quanto riguarda il lavoro di Leonardo, devo ritenermi fortunato ad avere avuto uno sceneggiatore come lui alla mia opera d’esordio. La nostra collaborazione è stata estremamente aperta, avevo la possibilita’ di gestirmi la griglia quasi sempre in maniera autonoma, tenendo conto ovviamente del numero delle vignette per pagina, ed ero libero di apportare modifiche se le ritenevo necessarie. Leonardo m’ha dato tantissima liberta’ e fiducia in questo lavoro ed è una cosa per la quale non smetterò di ringraziarlo. A proposito di lavoro sei candidato, per il Comicus Prize 2013, come miglior disegnatore italiano e anche Cassandra ha ricevuto una nomina come miglior graphic novel. Che sensazioni hai provato quando hai avuto la notizia? Sinceramente? Sono mezzo entrato nel panico! Essere messo nella stessa lista di certi mostri del disegno nostrano ed internazionale, che ho sempre per lo più guardato come punti di riferimento (e lo faccio tutt’ora), m’ha lasciato di sasso. L’unica cosa che posso dire a riguardo è che mi impegnerò per meritarmi questa mia intrusione in mezzo a tanti grandi nomi. Successi, premi ma sono sicura che la più grande soddisfazione é il contatto con il pubblico. Come é stata l’esperienza a Lucca Comics di quest’anno e quali sono stati i commenti e le opinioni che hai ricevuto? E’ stata una bellissima esperienza. Non era la prima volta che mi trovavo dall’altra parte della “barricata”, (era gia’ successo l’anno scorso con l’autoproduzione Metastasi), però avere una casa editrice alle proprie spalle fa tutto un altro effetto. Il rapporto col pubblico è in effetti una delle cose più belle che ti capitano in fiera. Capita qualche volta che un perfetto sconosciuto ti compri l’albo e poi ti cerchi in rete per scriverti e farti i complimenti. Son cose che fanno bene! Fino ad ora i pareri sentiti su Cassandra son stati per lo più positivi, accompagnati da buoni consigli e qualche critica costruttiva. Parlaci dei tuoi progetti futuri e, mi raccomando, dacci qualche anteprima! Purtroppo è un po’ troppo presto per parlare dei prossimi progetti. Mi trovo in un periodo della mia vita dove ho tantissime cose in ballo sulle quali mi piacerebbe lavorare ma sono ancora tutte in fase embrionale. Sicuramente a breve qualcosa comincerà a muoversi. L’unica cosa che posso aggiungere è che da un po’ di tempo a questa parte ho iniziato a collaborare con altri due giovani esordienti del mondo del fumetto, coi quali ho dato vita all’InFame Studio. Per chi fosse interessato, ci può trovare su facebook a questo indiirizzo https://www. facebook.com/InFameStudio?fref=ts dove potra’ trovare varie illustrazioni e novita’ sui progetti futuri.

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little readers

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Eccoci cari Little Readers ad nuovo appuntamento con Gufy ed i suoi consigli per gli acquisti in libreria. Potrete trovare il gufetto più curioso del web ogni settimana come ospite d’onore della panchina del lettore o sul sito Little Readers http://littlereaders-bench. blogspot.it/ e naturalmente su Reader’s Bench Magazine. Ma quali sono, a questo punto, le ultime uscite in libreria? Quali sono i titoli che non potete farvi scappare? Gufy é pronto a svelarci i libri da non perdere e quelli che dovete, per forza, farvi regalare da mamma e papà. Qual é uno dei vostri animali preferiti? Scommetto, anzi, sono certa che sia il delfino. A lui, alle curiosità che lo circondano é dedicato Il Delfino, il libro di D. Grinberg, P, Caillou (Editoriale Scienza, 93 pagg, 12 euro) che vi permettere di sapere tutto, ma proprio tutto sul mammifero acquatico più simpatico del mondo. Dai 6 anni in su. Sull’orlo della tempesta (di Linda S. Park, Piemme, 238

pagg, 16.50 euro) é invece la nuova avventura dei fratelli Cahill ambientata nei turchesi mari dei Caraibi. In questo appuntamento si scoprirà finalmente il passato di Nellie, la loro adorata compagna di viaggio e naturalmente non mancherà la compagnia dell’Uomo in Nero. Dai 9 anni in su. Si tiene in tasca ed é così breve che mamma e papà dovranno leggervelo in ogni momento della giornata, di che cosa sto parlando? Del libro Rosabianca e Rosarossa di Stefano Bordiglioni (El, 32 pagg, 4 euro). Dai 3 anni in su. Agathe lavora in una centrale nucleare eppure i suoi fratellini Alexandre e Chloé si fanno un sacco di domande sul quell’immenso camino a forma di fungo. Per soddisfare la loro curiosità Agathe organizza allora una gita in centrale. S’intitola Esploriamo una centrale nucleare il libro di Jean Marc Cavedon e M. Ludin (Dedalo, 60 pagg, 7.50) che cercherà di rispondere a tutte le vostre domande sull’energia nucleare. Dai 9 anni in su.

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C’è “qualcuno” dentro la poesia di Cavalli di simone di biasio

“E adesso non chiami, perché?/ Ti godi le ferie/ sei andata in crociera/ quale ergastolo ti divora?/ Questi silenzi sono un pozzo asciutto,/un pezzo sano di cacciagione./ Mangio avanzi cucinati dal freezer./ Sono mesi che lucido scarpe,/ non appari su nessuna superficie./ Cosa sarà successo, in quale vita,/ di così grave, tra me e te,/ per perderci?”. Ennio Cavalli appartiene ad una generazione di poeti cresciuta “con qualcuno dentro”, ma anche con qualcosa in più. La presenza che aleggia sin da dentro il titolo della sua silloge poetica è quella della moglie scomparsa prematuramente: in questi pochi versi della lirica “E adesso” circolano più lacrime, più sangue che in un intero corpo. Paola Malavasi è scomparsa a quarant’anni e stavamo imparando a conoscerla nel mondo delle lettere. Prima di morire aveva scritto in una sua poesia: “Io vado avanti, tu vieni dopo?”. C’è da ammettere che la raccolta ha un’unica sezione che stride con il resto, le “Poesie incivili”. “Quel senatore che sputa addosso a quell’altro,/ via subito via,/ e quell’altro che vende il suo voto,/ via subito via, la borsa tra le gambe,/ il portaborse a gambe all’aria,/ e i camorristi che portano ciotole di voti infetti,/ via come cani decollati”. È solo uno degli esempi di versi (in)civili che rispondono sì ad una visione del mondo “giornalistica”, ma che faticano a trovare connotazione poetica, piuttosto di prosa/

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cronaca in versi. Premio Viareggio nel 2009 con questa motivazione per “Libro grosso”: “La poesia di Cavalli transita dalle magiche alchimie del mondo naturale a quella di caotici continenti interiori per esorcizzare il magma nel <continuo cicaleccio quotidiano> “. Lui, Ennio Cavalli, invece ha seguitato a dire: “Se non c’è ascolto, le parole, anche quelle dette o scritte dal poeta più ispirato del mondo, chiunque esso sia, non comportano alcun effetto, restano sterili e inutili”. Niente di più vero per il 55enne originario di Forlì, romano di adozione, giornalista radiofonico in RAI, autore di una decina di libri di poesie, di alcuni romanzi per adulti e per bambini, di diversi saggi. Ennio Cavalli, Poesie con qualcuno dentro Nino Aragno editore € 12 pp. 218

Giornalista, laureato con lode in “Comunicazione” presso “La Sapienza” di Roma. Gestisce uffici stampa per Enti pubblici e privati in Provincia di Latina e organizza eventi culturali. Innamorato della poesia. III posto al “Premio Laurentum - online” nel 2007 e due menzioni d’onore (2009 e 2012) al premio internazionale di Poesia “Castello di Duino”. Nel 2008 finalista al Premio “Sparagna” di Latina, per 3 anni consecutivi (dal 2008 al 2010) al “Libero De Libero”. Nel 2010 e 2011 la vittoria al “Poeti a duello” nell’ambito della manifestazione “Terracina Book Festival” e nel 2011 l’invito di Claudio Damiani a partecipare in Roma a“Educare alla bellezza”, reading di giovani poeti emergenti curato da Davide Rondoni, invito rinnovato anche nel 2012. Nel 2012 ha ritirato il primo premio al concorso di poesia “E. Cantone” di Savignano sul Rubicone, a due passi dalla terra del compianto maestro Tonino Guerra. Il 1° Febbraio 2013 ha ricevuto in Campidoglio il Premio “I Tredici” del Centro di Poesia Contemporanea di Roma, grazie al quale pubblicherà la sua prima silloge poetica a fine estate con il parere favorevole di Claudio Damiani.

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la summa delle esperienze della mia vita

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di ariberto terragni

Il libro di cui vorrei parlare oggi è un libro non finito, un’ipotesi di libro, un mistero. Il suo titolo è Petrolio, l’autore Pier Paolo Pasolini. Cominciamo dal principio, che poi forse è la fine: Petrolio è l’opera a cui lo scrittore morto assassinato nel 1975 fa riferimenti sibillini negli ultimi anni della sua vita, di cui dice e non dice, lascia intendere e ritratta. La chiama “la summa delle esperienze di tutta una vita”, la scrive a spizzichi e bocconi nel corso di quattro o cinque anni, scandisce i diversi momenti narrativi in “Appunti” di varia lunghezza, dove alterna il registro poetico a quello saggistico, il dialetto all’italiano aulico, arrivando addirittura a progettare sezioni in greco antico e giapponese. La trama, per quanto ne possiamo dire, è intricata e sfuggente. Carlo, ingegnere proveniente da una agiata famiglia torinese, vive uno sdoppiamento: la sua persona viene scissa nei due caratteri di Carlo di Polis e Carlo di Tetis, che si scambiano di ruolo in ogni episodio del romanzo, ciascuno con una diversa perversione sessuale. Carlo viene assunto e fa carriera all’Eni, grazie a cui compie un viaggio in oriente nel quale viene a contatto con lo splendore degradato della civiltà umana. In un crescendo erotico che ha del parossismo (sono inclusi episodi esplicitamente incestuosi), la personalità di Carlo trova sbocco nella definitiva trasformazione in donna. Sullo sfondo, in sottotraccia, la saga della famiglia Troya, splendore e irreversibile decadenza di un casa-

to; un testo nel testo che si innerva nella trama precedente, e costituisce la tematica più propriamente politica del libro. Gli ultimi appunti lasciano supporre la definitiva auto reclusione di Carlo in una villa del Canavese, sorta di ritiro mitico dopo le fatiche di un lungo e i fruttuoso viaggio: la concezione pasoliniana dell’abbandono del mondo come unica soluzione possibile di fronte al suo smerdamento trova un corrispettivo nelle ultime pagine del romanzo (e in qualche modo anche in Salò o le 120 giornate di Sodoma, suo ultimo film). La chiusa definitiva è assente, o non pervenuta fino a noi o addirittura mai scritta. Il senso ultimo del romanzo, come suggeriscono alcune note, forse sta proprio nella testimonianza in sé e per sé che il libro rappresenta, ossia il costituire una traccia, un “qualche cosa di scritto” come l’autore stesso suggerisce, espressione ripresa da Emanuele Trevi per il suo recente Qualcosa di scritto, finalista dello Strega. Lo schema è dantesco, anzi no, forse è addirittura sadiano, secondo l’itinerario estremo e ossessivo che Pasolini va inseguendo da qualche anno, sempre più disperato, sempre più immischiato con le vicende oscure di un’Italia che cambia e intreccia trame tra politica e affari: sono gli Anni di Piombo, gli anni della contestazione, gli anni delle pagine corsare sul Corriere della Sera. Gli anni delle stragi. Pasolini scrive una serie di articoli polemici che alimentano dibattiti, compreso quello del

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famoso Io so. E intanto lavora per il cinema, soprattutto per il cinema, precisando il proprio discorso nei pressi dell’antipoetica di matrice appunto sadiana, fatta di escrementi e di sangue, di anarchia e disordine: è uno schema, forse un’epifania che connota un po’ tutta l’ultima fase del poeta delle ceneri, una lettura della realtà destinata a produrre, a livello artistico, un repertorio di puro terrore, di assenza di bene, di vuoto. Sarebbe presuntuoso tentare il riassunto di Pier Paolo Pasolini in poche righe e per sommi capi. Ma una ricognizione rapida, magari alla buona, credo sia necessaria per inserire Petrolio in un contesto pubblico e privato molto preciso, al di fuori del quale molto del suo significato potenziale (stiamo parlando di un libro postumo e incompleto) andrebbe perduto. Impossibile allora non ampliare il discorso alle ipotesi avanzate sul significato politico del romanzo, letto da tanti intellettuali e studiosi come una mappa figurata attraverso cui risolvere, almeno a livello concettuale, alcuni dei grandi misteri italiani, dalla morte di Enrico Mattei alla strage di Piazza Fontana: Petrolio si presta a svariate chiavi di lettura, magari non tutte pertinenti, ma spesso ricche di suggestione. Possibile che Pasolini sia stato ucciso anche a causa di questo libro? Si racconta che dei misteriosi figuri, a poche ore dall’omicidio, si fossero introdotti nello studio dello scrittore per trafugare alcune pagine, un capitolo in particolare, Lampi sull’Eni, che secondo alcuni non è mai esistito e secondo altri è invece un tassello importante del mistero. Ricordate la vicenda piuttosto imbarazzante di Marcello Dell’Utri, il quale dichiarò di essere in possesso del capitolo per poi smentirsi, negare, addurre strane spiegazioni? L’episodio risale a un paio d’anni fa, e si risolse in un’interrogazione parlamentare che non spiegò nulla e lasciò morire la faccenda sul nascere. È solo un esempio per far capire che non ci

troviamo di fronte ad un libro qualunque, ma a molti libri, che si diramano in tante direzioni diverse, con il rischio di condurre su una falsa pista, oppure al centro dei tanti misteri che oscurano la storia repubblicana del nostro paese. Sotto il profilo narrativo Petrolio si presenta come un accumulo di fonti e ispirazioni diverse, De Sade, Dante, ma non solo. L’insieme di esperienze che Pasolini intreccia si offre come un immenso, disordinato, incoerente Satyricon della contemporaneità, un percorso a ridosso, all’interno dei corpi, luogo privilegiato dell’esercizio del Potere. Così i corpi cambiano, mutano, diventando merce e prodotto, spogliati di ogni umanità. Il viaggio in oriente dell’ingegnere Carlo è la copia impressa dei numerosi viaggi di Pasolini in Africa e in Medioriente, alla ricerca del corpo perduto, della purezza corrotta, un’ossessione, un’utopia perversa che segna tutto l’itinerario terminale del poeta, sempre più all’interno della realtà, ma proprio per questo, per feroce contrappasso, anche sempre più lontano dal mondo fenomenico, dal mondo abitato. Il grado di lettura che Petrolio richiede è in realtà molto, troppo alto. Il senso di totalità che questa ultima fase della letteratura pasoliniana reclama e impone come filtro necessario per la sua comprensione si risolve spesso in una dichiarazione di aperta ostilità nei confronti del lettore. Così come il cinema di Pasolini non ha mai fatto nulla per essere piacevole o complice, allo stesso modo gli ultimi scritti del poeta si collocano a ridosso della illeggibilità testuale, che è in realtà una categoria del leggibile molto ma molto rarefatta, con testi collocati ad un livello di sofisticazione concettuale a cui è difficile accedere. Il testo diventa una barriera e una linea di confine. Nessuna concessione al ludus letterario, ma per contro un’esaltazione del simbolo come unico viatico possibile per riferire la realtà al di fuori della sua rappresen-

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tazione burocratica e giuridica: io so, ma non ho le prove. Questo era il livello della proposta di Pasolini. Non sappiamo se e quando Petrolio avrebbe trovato una sua dimensione filologica compiuta e codificata. Non è possibile desumerlo dagli appunti né dalle lettere. Volendo provare un gioco al massacro potremmo dire che Petrolio è in fin dei conti un tentativo presuntuoso di fare dell’ideologia con la cronaca, infarcendo gli squarci narrativi di cui è composto con abbondanti dosi di perversione sessuale e di cinismo (il grande convitato di pietra di questo romanzo non romanzo: il distacco compiaciuto e indifferente di alcune sezioni, la distanza che il narratore onnisciente pone tra sé e il mondo, tra sé e i personaggi, tra sé e il lettore; non è dato sapere se ciò sia dovuto alla forma ancora involuta e preparatoria del testo, se si tratti di una precisa scelta stilistica di stampo sadiano o se ancora non si tratti della vera forma mentis in cui l’ultimo Pasolini era scivolato). Ma il sospetto di trovarsi di fronte ad un libro ricco di implicazioni è molto forte. Lo è in modo scontato per il nutrito gruppo di difensori di Pasolini ma lo è anche per i suoi oppositori (per inciso, nemmeno io sono un suo ammiratore incondizionato, non ho amato i suoi romanzi precedenti). Personalmente non sono in grado di formulare una motivazione esaustiva e univoca. Petrolio è l’immagine di un’Italia diversa rispetto ai canoni istituzionali: è un’immagine defor-

me, corrotta, ma vicina ad una ipotesi di realtà palpabile, rimossa ma avvertita da tutti. Il caso Mattei, il terrorismo, i bagni di sangue delle stragi, sono stazioni di sosta, tappe che se osservate per un attimo al di fuori delle letture giuridiche e giornalistiche rivelano una trama più sottile e sordida, una trama che un artista può permettersi di denunciare in forza della propria capacità di sentire e collegare gli eventi. Il fondale in cui si agita questa convulsa dinamica è un paese che cambia, che si modernizza ma che ha anche perso l’innocenza. Ora, è difficile segnare una linea di confine tra l’innegabile ossessione di Pasolini per un cambiamento che avvertiva come nefasto e l’oggettivo sviluppo della vicenda storica. Ma forse l’oggettività è insufficiente quando ci si trova di fronte ad un viluppo di false piste e segreti di Stato, ed è proprio in quel punto che interviene la capacità dell’intellettuale di riannodare i fili e ordinare le cose. Petrolio al lettore di oggi si offre come una narrazione simbolica che permette di rileggere la nostra storia recente sotto una luce diversa, meno scontata, di certo parecchio distante dalla verità processuale (chiamiamola così) che siamo abituati a sentir dire. Altre considerazioni non mi sento di farle. Pier Paolo Pasolini è stato ucciso per via di questo libro? No, non credo. Credo anzi che il racconto agiografico che in alcuni casi ha infiocchettato la vita del poeta abbia contribuito a confondere le acque e a mettere fuori fuoco la sua testimonianza e la sua opera. Opinione personale di cui mi prendo tutta la responsabilità. Restano le opere. Resta Petrolio, cupo, ambiguo, enigmatico ultimo atto.

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il futuro del libro

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di claudio turetta

Anno 2013. Sembra che la rivoluzione digitale, in fatto di libri, si sia ormai concretizzata anche se ancora non c’é dato sapere i dati effettivi delle vendite e della diffusione degli ebook nel nostro paese. Fatto é che, dati ono dati, la nuova teconologia sta prendendo sempre più piede. Eppure vedo, sento, leggo, pareri contrastanti in merito a questo nuovo...come possiamo definirlo? Ritrovato tecnologico? Mezzo multimediale? Libro elettronico? Anche sulla definizione c’è piuttosto confusione non si è ben chiaro cosa sia un eBook, quali siano le sue potenzialità, i suoi limiti, a volte con eBook si intende sia il file elettronico che il device per leggere i file stessi. A tal proposito mi capita questo libro della Historica, casa editrice famosa perchè il proprietario, Francesco Giubilei, ha solo 20 anni ed ha deciso di mettersi in gioco in un settore che in Italia non ha molti proseliti. Il libro di Massimo Maugeri non si pone come un vademecum per orientarsi nel mare magnum degli eBook, ma è una raccolta di pareri e sensazioni che esprimono alcuni addetti ai lavori in merito al mondo eBook. Quindi si

cerca di porre la questione piuttosto che in termini tecnici, in termini di “pancia”. Come stile mi ha dato, soprattutto all’inizio, la sensazione di essere molto “didattico” ma nei capitoli successivi mi sono piacevolmente sorpreso della quantità e delle professionalità interrogate a riguardo. Una sorta di documentario a ritroso nell’esatto momento dell’arrivo degli ebook nel nostro paese. Devo dire che questo libro è molto semplice e all’apparenza non dice niente di nuovo. Però andando avanti e raccoglie alcuni spunti di riflessione interessanti, oltre alle famose affermazioni che si fanno in merito al libro cartaceo (niente può sostituire l’odore della carta, lo sfogliare le pagine etc etc...) ne fornenisce altre che permettono di conoscere i periodi storici in cui è passato il libro stesso. Il primo spunto lo offre fin dall’inizio con una bella provocazione:”Sarai tu non lettore a salvare il libro cartaceo.” L’Ebook e (è?) il futuro del libro di Massimo Maugeri, Historica Edizioni, 8.90 EUR 130 pagine

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ho sempre scritto per me

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di claudio volpe

Oggi a sedersi sulla Panchina di Reader’s Bench sarà l’attore Paolo Stella. Paolo gestisce un blog su internet dove scrive e si confronta con i suoi lettori. Sulla sua pagina facebook si presenta così: “Sono nato il 12 marzo. E da allora cerco di capirci qualcosa, con scarsi risultati. 12 marzo. 12 / 3. E mi chiamo Paolo Stella. 1 2 3 stella! Sarà stata colpa della data di nascita? Di certo mi piace giocare, con la vita, con quello che mi accade, con le mie paure, con la gente che mi sta intorno, con le parole e con i numeri, con la sfiga e con le botte di culo. E di entrambe ho fatto il pieno. Sono arrivato alla recitazione scappando di casa. Per un provino visto in tv. Lasciando la facoltà di architettura e la mia media del quasi trenta, lasciando famiglia, amici e sicurezza e trovandone altre. Dal 2002 per me Roma è il mio punto fermo. Ne sono innamorato e anche se mi capitato di vivere altrove solo qui mi sento “a casa”. Ho avuto tante e diverse esperienze professionali nel campo dello spettacolo, ognuna mi ha insegnato qualcosa. Ma fare l’attore mi ha portato a capire che l’unica cosa che mi interessa davvero è capire chi sono.” Ci incontriamo a Piazza San Cosimato a Roma, ci sediamo a un bar e davanti a un caffellatte e ad una spremuta d’arancia iniziamo a parlare. Abbiamo discusso tenendo entrambi gli occhiali da sole sugli occhi forse perché proprio gli occhi sono la via d’accesso più veloce per l’anima ma grazie alle parole e alla scrittura siamo riusciti ugualmente ad offrirci pezzi di noi a vicenda. La parola crea legami e li riveste di bellezza. Qual è il tuo approccio alla scrittura? Ho sempre scritto per me, come sfogo della mia anima e lo scrivere per lungo tempo non è stato un canale di espressione per me usuale. Ho sempre avuto un grande bisogno di espressione creativa che ho soddisfatto principalmente col teatro. Ho iniziato a scrivere per caso, per razionalizzare e addomesticare il dolore dovuto alla morte improvvisa di un mio amico il quale prima di morire mi aveva spronato a creare un blog dicendomi che scrivevo bene. Dopo il funerale ho aperto il computer e la prima pagina che si è visualizzata è stata quella del mio blog. Ho capito

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dunque che per andare avanti avrei dovuto scrivere. Ho iniziato ascrivere senza intenzione di pubblicare. Poi il blog ha iniziato ad essere molto seguito e moltissime persone mi hanno scritto per confrontarsi e spronandomi a continuare. Ora siamo a 70000 visite. Ho dunque usato la scrittura per imparare a gestire una cosa così assurda come la morte del mio amico. Ho iniziato un percorso per capire come affrontare questa situazione. Cosa significa per te scrivere? Scrivere significa raccontare a me cosa sono, conoscermi e arrivare a una verità mia. Col tempo ho compreso che nel momento in cui sei situazioni di ricerca esistenziale, quella verità che tu stai cercando diventa di tutti e tutti riescono ad immedesimarsi e a rivedere la propria vita nelle tue parole. Cosa significa e cosa implica gestire un blog? Io non penso a gestirlo, rispondo a chi mi scrive perché tengo molto al dialogo e al confronto ma non penso a pubblicizzarlo né a renderlo economicamente produttivo. E’ un autodiario, un bisogno, il quale mi ha permesso di comprendere che il momento di massima vulnerabilità è quello dove sei invincibile. Scrivo di getto, non ricontrollo (infatti ci sono degli errori nel mio blog), ascolto musica mentre scrivo perché stimola il mio pensiero. Ogni post ha la sua musica. Nel blog, inserisco anche dei video per far vedere l’ironia e la leggerezza che sono una parte molto importante di me. Ci risulta che hai scritto un libro partendo dal tuo blog. Qual è secondo te la differenza tra lo scrivere in un blog e lo scrivereun libro? A Natale dell’anno scorso un giornalista del resto del Carlino ha raccolto ciò che ho scritto sul mio blog, dicendomi di pensare ad un libro a partire da questo materiale per farlo pubbli-

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care. Il giornalista è Massimo Pandolfi. Il libro che ho realizzato e che attualmente è in visione presso un editore italiano e uno americano è una sorta di diario rimaneggiato. Ho iniziato a scrivere anche un romanzo che attualmente è nel cassetto e che ho lasciato per questioni di lavoro e di tempo. La gestione di un blog implica la possibilità di scrivere ciò che si pensa in un modo più immediato e richiede una minor quantità di lavoro. Scrivere un libro richiede invece un’attenzione e impegno maggiore: lettura, rilettura, correzione… Pensi che ci sia un collegamento tra l’attività dello scrittore e quella dell’attore? Sì. Sono due lavori che scavano dentro. L’attore è alla continua ricerca di se stesso proprio come lo scrittore. L’attore si scrive, lo scrittore scrive la vita dell’uomo. E’ una ricerca molto dolorosa, feroce e affascinante. La scrittura implica un carico maggiore di dolore o di piacere? Il dolore è necessario per apprezzare il piacere. Quindi c’è più piacere anche se esso deve quasi inevitabilmente passare per il dolore. Con la scrittura sono riuscito a trasformare tutto il dolore in positività. Perché scrivere? Scrivere ti permettere di dare concretezza alle cose che vivi. Ciò che scrivi diventa quello che sei, ti permette di andare a fondo nella tua essenza di persona e di artista. Cosa puoi dirci del tuo futuro libro? Si intitolerà “Meet me alla boa.” Il titolo è stata l’unica cosa di cui ho avuto consapevolezza prima di iniziare a scrivere. Un titolo che credo si possa comprendere solo iniziando a leggere l’opera ma che evidenzia fin da subito l’idea del venirsi incontro.

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Quali sono i tuoi autori di riferimento, quelli che ami più leggere? Vado a periodi. Da Pirandello a D’Avenia, da Shakespeare a Dostoevski. Qual è il tuo libro preferito? Credo che il libro che più mi ha colpito sia stato “L’arte di correre” di Murakami. La scrittura può salvare? Certamente. La scrittura salva. La condivisione è l’unica cosa che ci può salvare in questo momento. Dedicarsi agli altri per dedicarsi a se stessi: in questo credo. Tirarsi fuori dall’ego. Solo condividendo quello che siamo possiamo salvarci. Credi nell’ispirazione? Assolutamente sì. Non riesco a scrivere per imposizione. Scrivere è un bisogno fisico. Dopo ti senti libero dai pesi che ti hanno tormentato e che piano piano finiscono per andarsene. Quando e come scrivi? Scrivo in modo totalmente disorganico ma devo trovarmi obbligatoriamente in una situazione di bellezza che può essere, ad esempio, in cima ad una collina, in un castello, in un salotto dell’Ottocento, in qualunque posto dove l’anima possa godere di qualcosa di bello. Parlo di bellezza etica. La bellezza salverà il mondo. La ricerca di essa è fondamentale, la bellezza del dettaglio, della piccola cosa, dell’anima sono indispensabili. La bellezza estetica fine a se stessa non mi interessa anche se poi la bellezza etica si rispecchia spesso nella bellezza estetica. La genuinità delle cose, dei pensieri e dei sentimenti rappresenta quello che sono. Terminata l’intervista ci salutiamo augurandoci di rivederci presto e di poter finalmente toccare materialmente il libro di Paolo. Sicuramente sarà così.

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tre personaggi per raccontare nina berberova

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di cristina monteleone

Amo gli autori russi da quando andavo al liceo, hanno sempre avuto un fascino particolare su di me, la loro storia politica e culturale, soprattutto quella contemporanea, è stata la causa di molte vite dolorose, comprese quelle artistiche e letterarie, che hanno di conseguenza generato delle opere ricalcanti la loro drammatica situazione sociale. Nello scorso numero estivo della nostra rivista Ariberto ci ha parlato di Boris Pasternak e del “Dottor Zivago”, e sulla sua scia ho scelto “Il capo delle tempeste” di Nina Berberova: autori che condividono lo stesso periodo storico e lo stesso amore per la patria vissuto attraverso la lontananza forzata dalla propria terra. La Berberova lascia la Russia da giovane, nel 1922, poco dopo lo scoppio della rivoluzione, per trasferirsi inizialmente a Parigi, e poi negli Stati Uniti, dove vivrà il resto della sua vita. “Il capo delle tempeste” lo scrive in francese negli anni ’50, ed è indicativo il fatto che, per sua volontà, resta inedito fino alla sua morte, avvenuta nel 1993 a Philadelphia. Sottolineo questo fatto perché il romanzo si snoda intorno a tre sorelle, tre diversi caratteri che racchiudono, ognuno a suo modo, una parte della personalità della Berberova, come se il suo intento fosse quello di non svelarsi completamente al suo pubblico prima della morte. Neo del romanzo, ed è necessario dirlo per indirizzare chi si vorrà avvicinare a tale lettura, è la lunghezza, in quanto gli stessi concetti sa-

rebbero comunque stati espressi in un minore numero di pagine, ma comunque questo non incide sull’intensità della narrazione. Daša, Sonja e Zaj, le protagoniste, hanno lo stesso padre, Tjagin, e madre diversa, si conoscono a Parigi dove condividono la stessa casa. Daša è la maggiore, ed è quella che conosce più di tutte la Russia, ci è nata, ci è cresciuta, e ha visto la guerra portarsi via sua madre, uccisa durante un combattimento militare. Quando ciò accade è adolescente, i genitori sono già separati, e suo padre decide di portarla con sé in Francia insieme alla sua nuova moglie, per darle una vita che in Russia non potrebbe avere. Zaj è figlia di una relazione tra Tjagin con un’attrice france-

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se, per la quale però non è disposto a lasciare la moglie e questa, a causa del dolore provato, si suicida. Ignara dell’accaduto, Zaj trascorre l’infanzia e l’inizio della sua adolescenza in Russia con un’altra famiglia che crede essere la sua fino a quando il vero padre, con l’intento di proteggerla dagli sconvolgimenti sociali del primo novecento russo, la fa trasferire a Parigi, dove lui già vive con la moglie e le altre due figlie. Sonja infatti nasce in Europa, non conosce direttamente la realtà delle sue radi-

ci se non attraverso i racconti degli altri, ed è sicuramente la più emblematica delle sorelle. Il lettore vede Sonja per mezzo del suo diario, quindi non osserva le sue azioni, ma entra immediatamente nei suoi pensieri, e soprattutto per questo si è detto essere la figura delle tre che meglio rappresenta l’autrice, ovvero l’espressione diretta delle idee della Berberova tramite la voce di Sonja. Il suo personaggio è immobile, durante tutto il romanzo non le

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accade nulla, ci confrontiamo con lei solo su riflessioni che riguardano il mondo e la ricerca dell’armonia per fondersi con esso. Non ha mai conosciuto la sofferenza vera, non sa cosa significhi stare “là”, in Russia, dove vivere vuol dire lottare per non morire di freddo e di fame, non soccombere al regime, ed essere inerme rispetto all’esistenza stessa è un lusso che non ci si può concedere. E’ vero, la Berberova parla di sé attraverso Sonja, ma, a mio parere, solo una parte del suo io emerge nel diario. Per certi aspetti infatti trovo che sia più simile a Daša, lei che non vuole affrontare il dolore, tenta di cancellare i ricordi legati alla Russia perché incapace di sostenerli, e si rifugia in una vita piatta, fatta solo di azioni ordinarie che riempiono le sue giornate, come lavorare per aiutare il padre, accettare un matrimonio senza amore ma che di certo non le dà preoccupazioni, con un uomo ricco che le consente di avere una bella casa e dei bei vestiti. E quando Daša sta per sposarsi, e prepara i bagagli per andare via, regala a Sonja alcuni abiti che non usa più, ma lei si ostina a non accettarli perché non le servono, caparbia nell’indossare sempre lo stesso vestito logoro perché, per vivere, le basta quello. Daša ha paura di essere povera ed infelice, di trovarsi sola e smarrita come da bambina di fronte al cadavere della madre, perciò accetta dei compromessi, sa che non vivrà più angosce, il rigore e la calma sono più importanti della felicità, non è capace di provare gioia, solo inerzia e staticità fanno parte delle sue scelte. Sonja vive illudendosi, non concepisce la passività emotiva della sorella nei confronti del mondo, e si nutre di inquietudini, per lei “c’è soltanto ambivalenza, in tutto l’universo non esiste pietra che non vacilli”, sono inutili le comode scappatoie per non sentire le insicurezze che pervadono la re-

altà, ma bisogna invece cercare a tutti costi di raggiungere un’armonia esistenziale. Zaj è l’unica delle sorelle che prova ad affrontare la vita, si stupisce appena arrivata dalla Russia a Parigi quando vede l’abbondanza di pane per tutti e la facilità nel poterlo procurare, ma non vuole dimenticare le sue origini, provando però a cogliere le opportunità che il cambiamento le propone, anche se non sa bene dove orientarsi. Inizialmente pensa che la vera fonte di felicità sia l’amore, e riversa le sue energie in questo, poi si stanca e si appassiona al teatro, che però non la gratifica davvero e cambia rotta verso i libri e la lettura. E’ il personaggio più dinamico a livello emotivo, le piace passeggiare in solitudine al crepuscolo e osservare le persone nelle proprie case, crede che vivere significhi liberarsi delle sue paure e, per farlo, attraversa diverse fasi, dove ognuna rappresenta un gradino più alto verso la sua beatitudine. Ma Zaj è anche molto fragile, e per quanto grande sia il suo desiderio non è capace di realizzarlo veramente, soprattutto perchè costretta a confrontarsi con l’instabilità di Sonja: “Non c’è equilibrio. Ora, ciò che manca di equilibrio, di armonia, di misura, non esiste. Ogni creatura umana deve essere armoniosa. Dunque io non esisto, non sono mai esistita.” Così come il Capo di Buona Speranza è stato scoperto da Bartolomeo Diaz che però, non essendo riuscito a superarlo, lo ha simbolicamente chiamato Capo delle Tempeste, nessuna delle sorelle raggiunge i propri obiettivi, e la Berberova si colloca in mezzo alle tre, desiderosa delle sicurezze concrete di Daša, dell’armonica fusione universale di Sonja, e dell’abbandono delle paure di Zaj.

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assenza

foto di Valeria Verdini, poesia di Raffaella Bartolomucci, vincitrici rispettivamente della categoria foto e posie del concorso Buon Compleanno Reader's Bench

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Posso contemplare questo mio animo, come le foglie che cadano da quell’albero, posso vederli i ricordi di noi hanno lo stesso colore di queste foglie d’autunno e posso sentire i miei pensieri, freddi, come questa panchina su cui sono seduta senza di te.

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in collaborazione con

la panchina

di marzia pacella

A terra non c’è quasi ombra. E’ mezzogiorno. Ancora niente, non arriva. Strano, è sempre qui a quest’ora. Anzi è sempre qui, veramente. A mezzogiorno apre il suo fagottino e tira fuori il pane. Un po’ per lui e un po’ per me. Il mio amico…è di lui che sto parlando. Un vecchio pieno di rughe. Buono, molto buono. Che sorride senza denti e con gli occhi chiusi. Chiude gli occhi e le rughe gli formano dei raggi su tutto il viso, ed il viso gli si illumina come un diamante. Pietra opaca che prende luce un istante, l’istante di quel sorriso rivolto a me. Ha un cappello verde scuro, di lana, bucato. Dal buco gli fuoriescono un po’ di capelli bianchi, ispidi. Lo toglie quando fa caldo e lo appoggia sulla panchina, su questa panchina…sulla nostra panchina, precisamente. Sì perché lui viene sempre qua, in questo parco e si siede sempre qua, su questa panchina. Il parco è brutto, sporco, pieno di cartacce in giro. Siringhe anche e brutte facce. Nessun bambino a giocare, nessuna mamma a chiacchierare, nessun nonno a sonnecchiare. Niente. Però dev’essere stato bello tanto tempo fa. Ci sono i resti mutilati di scivoli e altalene, ci sono dei vasi grandi…chissà che belle piante contene-

vano. Le panchine sono in ferro battuto, tutte ghirigorate da qualche abile fabbro. Fiori, foglie, farfalle. Belle panchine. Nere. Ora però sono vecchie e le sculture di ferro, divelte qua e là, sono diventate pericolosi spuntoni pronti a ferire. La nostra panchina invece è ancora bella. E’ perfino lucida. -L’ho riverniciata io!- Mi ha detto un giorno il mio amico, il vecchio. Ne è fiero. Perché questa panchina è un po’ come se fosse casa sua. E anche mia. Lo trovo già qua la mattina, forse ci dorme anche. Sì perché quando arrivo vedo che piega fogli di giornale e cartoni come fossero lenzuola. Eh, sì! Ci dorme qua sopra! Non ci avevo mai pensato. Potrei starmene qua anch’io, invece di andare nel portone di quella strega, a prendere scopettate ogni mattina, quando mi sorprende. Fa freddo però! Come si fa a dormire qua? Comunque oggi non c’è il mio amico, non arriva. E’ sparito da ieri. Eppure lo avevo visto da lontano. Era accucciato, come se stesse cercando qualcosa sotto la panchina. C’erano delle persone intorno ma non lo aiutavano a cercare.

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Poi un rumore mi ha spaventato. Come un grido. A gridare era una di quelle grosse auto bianche con sopra una luce che lampeggia. Un’ambulanza. Era vicina, mi entrava nella testa. Allora mi sono nascosto dietro un cespuglio e sono stato lì un po’, perché so che dopo, quando riparte, ricomincia a gridare. Ma non ho sentito più niente, così sono uscito per correre dal vecchio. Ma non c’era più. E neanche le persone. Forse si è spaventato anche lui ed è scappato. Stamattina però non c’è ancora. Che abbia cambiato panchina? No, non può essere, mi avrebbe aspettato. Siamo amici noi. Lui mi regala sempre un po’ del suo pane, mi sorride e mi chiama –Vecio!-Senti chi parla…!penso io. Oggi questa panchina vuota mi sembra un deserto immenso. E lo stesso deserto lo sento dentro di me… Arriva un furgone ora nel parco. Scendono due uomini. Hanno una brutta piega ai lati della bocca, come di chi non sorride mai e non chiude mai gli occhi, lasciandosi illuminare un momento. Non capisco…stanno scardinando da terra le panchine. Tutte! Ora si avvicinano alla nostra. Non vorranno mica togliere anche

questa? E’ bella, la nostra panchina, l’ha riverniciata il mio amico! Uno dei due mi tira un calcio. Ma perché, che ho fatto? -Togliti cagnaccio! Via da qua! Giovà, chiama quelli del canile…sto cane è pericoloso. Mi cacciano! Ma io non posso andare via, devo aspettarlo! Dove sei amico mio…dove sei? Marzia Pacella è la vincitrice del concorso: Buon compleanno Reader’s Bench

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reader’s club la tua passione in un libro

Adesso mi è tutto chiaro. Essere indecisi non è necessariamente negativo. Non vedere tutto in termini di slogan e partiti organizzati e fedi e morte può essere una convinzione per la quale vale la pena di morire. Pensavo di non avere credo. Adesso mi rendo conto di averne uno molto forte.


di clara raimondi

Philip K. Dick é tornato in libreria grazie a Fanucci che pubblica Il cerchio del Robot (295 pagg, 17 euro). San Francisco, anni Cinquanta. Jim Briskin è un dj radiofonico di successo che non riesce a lasciarsi definitivamente alle spalle il rapporto con la sua ex moglie Pat. Li lega a doppio filo una sorta di distruttiva interdipendenza, un destino comune di perdizione che finirà per travolgere anche le esistenze di due giovani fan di Jim, Art e Rachael. Il ragazzo sarà sedotto da Pat ed entrambi rimarranno invischiati in una relazione screditante, mentre la giovane seguirà Jim in Messico, affidando all’uomo la propria vita e quello del bambino che ha in grembo. Sullo sfondo le insicurezze dell’America del Dopoguerra, di due generazioni in cerca di nuovi punti di riferimento e separate da una distanza incolmabile, nella quale Dick colloca con notevole capacità immaginifica personaggi improbabili e incoerenti. L’unica via per Jim e Pat sarà quella di tornare sui propri passi, lasciandosi alle spalle buona parte di sé stessi e segnando la propria sconfitta.


politica

I Risultati elettorali sono davanti a ciascuno di noi ma credo che nessuno li abbia capiti fino in fondo. Per fortuna ci sono sempre loro: i nostri adorati libri che come supereroi ci vengono, ancora una volta, in aiuto. Magari non riusciranno a dipanare l’ingarbugliata matassa ma di certo ci chiariranno le idee senza mai mancare al loro primo dovere: informarci. L’unica dato, a questo punto, chiaro e difficilmente contestabile é la vittoria del Movimento Cinque Stelle. Anche qui per i misteri e i dubbi non sono facili da dissolvere e vediamo se in libreria possiamo trovare le risposte alle nostre domande. Chi é veramente Beppe Grillo, l’uomo politico e non il comico, e come é nato e si é diffuso il movimento Cinque Stelle? Ce lo spiegano gli stessi interessati nel libro Il Grillo canta sempre al tramonto (Chiarelettere, 200 pagg, 13.90 euro). Interrogati da Dario Fo, l’altro comprimario del movimento, Beppe Grillo e il misterioso Casaleggio spiegano tappa, dopo tappa il successo di un movimento politico che ha riportato all’attivismo politico miglia-

ia di italiani. Il partito di Grillo é il libro di Elisabetta Gualmini e Piergiorgio Corbetta (Il Mulino, formato ebook, 8.39 euro, 16 euro per la versione cartacea) che analizza il fenomeno del Grillismo. L’indagine degli autori cerca di capire se il movimento é la risposta all’incertezza politica degli ultimi tempi. Fenomeno di costume o reale protagonista della politica italiana? Un altro libro sul fenomeno Grillo é Politica a cinque stelle di Roberto Biorcio e Paolo Natale (Feltrinelli, 155 pagg, 14 euro). Un’altra inchiesta questa volta incentrata su quello che per la prima volta il Movimento é riuscito a fare in Italia: raccogliere grandi consensi a partire da un’idea nata in rete. Morire di democrazia é invece il libro di Sergio Romano (Longanesi, 109 pagg, 12,90 euro) che esce dai confini dell’Italia per indagare la crisi della democrazia in tutti gli stati occidentali. Un fenomeno inevitabilmente collegato alla crisi economica e alla nascita di movimenti populisti.

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moda

Hanno appena finito di smontare le passerelle della fashion week eppure ci ritroviamo qui, sulla panchina del lettore, ancora a parlare di moda. Ma il nostro sarà anche un lungo viaggio tra le icone che più hanno influenzato la società e l’immaginario del nostro secolo. S’intitola Moderne icone di moda il libro (Einaudi, 244 pagg, 18 euro) di Federica Muzzarelli che quelle icone le ha studiate per davvero e soprattutto ne ha riscontrato l’impatto anche attraverso la fotografia. Il potente mezzo in grado di trasformare Cléo de Mérode o Charles Baudelaire in personaggi immortali. Foto in bianco e nero, opere di artisti come Man Ray, in un libro che vi porterà alla scoperta dell’età moderna About Face (libro+dvd, Feltrinelli, 80 pagg) é il titolo di un documentario, andato in onda per l’americana HBO, del fotografo Timothy Greenfield-Sanders che raccoglie quelle che, invece, sono state le vere icone degli ultimi anni: le modelle. Un carrellata di volti e di storie delle donne più belle del mondo, quelle che ci hanno fatto sognare e che ora si trovano ad affrontare il mestiere più difficile del mondo:


invecchiare. La moda, negli ultimi tempi, ha dispiegato uomini e forze per dirci quale era il modo giusto di vestirsi. Il libro Modaterapia (Salani, 140 pagg, 11 euro) di Stefano Sacchi e Andrea Balconi va oltre e cerca invece di proporre un nuovo ideale per utilizzare la moda per star bene con sé stessi. Aldilà delle regole e dei dictat la moda dovrebbe rispecchiare noi stessi e i nostri stati d’animo. Antonio e Roberta Murr sono dei veri e propri style coach, tra i più noti al grande pubblico ed arrivano in libreria con Vestiti con stile (Kowalski, 176 pagg, 14 euro) un manuale motivazionale con una serie di consigli per tutti i tipi di figura femminile con i must have che non possono mancare. Piccole fashioniste crescono e per loro arriva in libreria La moda nella storia di Ruth Brocklehurst e Cristophe Lardot (Usborne Publishing, 31 pagg, 6.86 euro) con oltre 160 adesivi per ripercorrere le tappe fondamentali dello stile. Dai 6 anni in su.


musica

Per la sessione Libri & Musica dopo i consigli dei Massive Distortion http://www.massivedistortion.it/, arriva una carrellata di monografie alle quali sarà difficile resistere. Iniziamo con Io vagabondo (Arcana, 191 pagg, 17 euro) nel quale il mitico Beppe Carletti, il tastierista storico dei Nomadi, ripercorre la sua vita fino all’incontro magico con Augusto. L’Italia come non l’avete mai conosciuta: attraverso i ricordi e le stagioni della nostra musica. Aldo Nove invece arriva in libreria con Mi chiamo (Skira, 112 pagg, 14 euro) una straordinaria invenzione narrativa in cui é la stessa Mia Martini, sul suo letto di morte, a raccontare la sua vita ed i momenti più bui della sua esistenza. Ma il libro é anche la raccolta dei momenti più significativi nei quali l’artista ha voluto abbracciare il mondo intero con la sua arte. Qualche giorno fa Janis Joplin avrebbe compiuto 70 anni. Clara Baldi nel suo Janis Joplin. Sepolta viva nel blues (Imprimatur, 192 pagg, 11 euro) ripercorre le tappe fondamentali dell’esistenza delle cantante statunitense e fotografa esattamente il momento in cui é diventata un’icona del mondo hippy. Stefano Bollani realizza una monografia non incentrata sulla sua figura ma più che altro sulla sua concezione di musica. Un concetto, come la lettura, alla portata di tutti e a differenza di quanto si possa credere facile da comprendere anche alla maggior parte del pubblico. Parliamo di musica (Mondadori, 138 pagg, 17 eruo) é la sua personalissima storia della musica. Il successo di Marta sui Tubi durante la scorsa edizione del Fatival di Sanremo ha puntato i riflettori sul mondo della musica indipendente italiana. Un pianeta fatto di un vero e proprio mercato parallelo. Riserva Indipendente. la musica italiana negli anni zero di Francesco Bommartini ci porta alla scoperta di questo mondo e delle band simbolo, tra gli altri: Uochi Toki (di cui vi abbiamo già parlato) Verdana e Tre Allegri Ragazzi Morti.

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internet

Web writing & Seo non si fa che parlare d’alt Sono in arrivo una serie di iniziative (e magari al solito, di trovare qualcosa che fa al caso nos Seo Power. Strategie e strumenti per essere vi ed ora anche aggiornata, in fatto di posizionam potenzialità offerte da YouTube. S’intitola semplicemente Google Adwords il li di un altro, fondamentale mezzo, per poter far Ma se il dovessimo crearlo da zero, come potre di creare, da soli, e facilmente dei siti ma sicur si affidano a questo strumento per creare il pro A riguardo vi consiglio di leggere Wordpress d nel Kindle Store a 4 euro.

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tro, ormai. La vera tendenza del momento, in fatto di Internet, non poteva non trovare spazio su RB. qualche video) proprio sulla panchina del lettore ma nell’attesa andiamo in libreria e cerchiamo, come stro. isibili sui motori di ricerca (Hoepli, 416 pagg, 29.90 euro) di Giorgio Taverniti é la guida completa, mento di siti web. L’autore ci svela tutte le strategia anche in fatto di gestione dei social e delle nuove

ibro di AdWords Perry Marshall e Bryan Todd (Hoepli, 352 pagg, 28 euro) che tenta di svelare i segreti conoscere il vostro sito e per realizzare una campagnia pubblicitaria su internet davvero efficiente. emmo fare? Esistono vari tipi di CMS (Content Management System) cioé piattaforme che permettono ramente Wordpress é tra i più usati e conosciuti tanto che sono tante le aziende, grandi e piccole, che oprio sito/blog. di Andrea Martino (Apogeo, 166 pagg, 8,99 euro) e Creare con Wordpress di Filippo Sigotti, in vendita

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Tutto il mondo dei libri su una panchina

Magazine Primavera

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31 Maggio 2013 Reader’s Bench

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