Un cono d'ombra

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Un lungo cono d'ombra, luglio 2012 Un racconto di Ariberto Terragni per la collana Click di Reader's Bench la copertina è stata realizzata in esclusiva da Mattia Galliani Tutti i diritti sono riservati


In genere se posso dormire fino a tardi la mattina lo faccio più che volentieri, perché sono uno che, tra una scusa e l’altra, tira sempre tardi la sera. Stamattina è andata diversamente però. Ho cominciato a rigirarmi nel letto verso le cinque e mezza, ho combattuto con cuscino e lenzuola fino alle sette e poi mi sono alzato, con quel brivido che di solito mi scuote le ossa quando non ho riposato bene. Nella stanza filtra già la luce di luglio dalle tapparelle sgangherate, con quel pulviscolo svolazzante che seguiva traiettorie irregolari, tanto insensate da sembrare perfettamente logiche. Ancora intorpidito nel letto, con la schiena faticosamente trascinata sulla spalliera, vedo le sagome dei libri e dei quaderni sparpagliati sulla scrivania dalla sera prima, con uno strano odore di chiuso e di inchiostro che impestava l’aria della stanza. Mi sono alzato bruscamente e mi è girata la testa tanto da farmi appoggiare al muro. Un’occhiata: nessun segno di Serena; un’altra occhiata per sincerarmi: alcune cartoline ammucchiate sul bracciolo della poltrona in soggiorno: ecco l’indizio della sua presenza. Ho ancora nella testa la sua voce roca che canzonava le dediche scritte sul dorso delle cartoline: baci e abbracci da Cattolica; Un fresco saluto da Cortina; Saluti da un posto stupendo (uno stronzo che era stato a Washington). Stava seduta proprio lì Serena con le sue gambe accavallate e io ero così intronato e preso da tutte le mie carte da non notare quello che di solito in una donna mi eccita di più: il bianco delle ginocchia piegate, la curva che le gambe di una donna disegnano quando sono aperte e piegate ad accogliere un uomo. Ho guardato l’appartamento con occhi diversi e mi sono sentito solo: senza un fratello, senza una famiglia; c’è un quadro, un solo quadro, l’unico che sono riuscito ad appendere che mi guarda e mi dice che

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sono un cretino. Pare un paesaggio, ma il colore è steso così male che potrebbe essere qualunque cosa: io mi sono convinto che è il parco di Monza, con un tratto di Lambro reso da quegli sbaffi acquosi che danno tanto l’idea di essere delle pennellate fuori controllo. Comunque ormai è andata. Ho provato a prendermela con me stesso pensando al modo più congruo per farmela pagare, ma ho desistito dopo poco; mi sarei accontentato di preparare da me la colazione per punirmi. È suonato il citofono proprio mentre stavo tentando di rimettere un po’ di cose a posto: tutte le riviste buttate in giro, qualche libro e briciole, un’invasione di briciole che stava colonizzando il divano e buona parte del pavimento. Era Ciccio che mi aveva portato i demo da ascoltare come gli avevo chiesto. Per una volta tanto si è ricordato di fare una cosa, dico una che gli ho chiesto e io non ero nemmeno pronto a dovere per festeggiare il momento. Ho arraffato una maglietta e un paio di pantaloni che giacevano senza troppe speranze pressati sotto una pila di cuscini. È salito Ciccio e subito mi ha detto di andare a fare colazione insieme che i demo li avremmo ascoltati dopo. Aveva ragione, il fatto è che di solito sono abituato a scattare perché all’ora in cui mi alzo usualmente non resta molto della mattinata; allora ho infilato le scarpe e sono sceso in strada, ancora una volta stordito dal sole e dal caldo di quest’estate a cui fatico ad abituarmi. Mi dice: “Dove andiamo a fare colazione?” Gli rispondo: “L’unico aperto è il Colombo.” Il bar più costoso della città ma non avevamo alternative; ho controllato nel fondo delle tasche e avevo ramini e una patacca da un euro e forse forse sarei stato anche in grado di prendere un cornetto. La panna no, la panna era da escludere. L’aria della mattina però è buona, e respiro profondamente. I lampioni disegnano sull’asfalto dei lunghi coni d’ombra per via di quel sole

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ancora obliquo che taglia le cose e le persone come un rasoio. Ciccio mi ha fatto le solite domande: per lui l’educazione di routine è un obbligo e io sono portato a considerare la sua come una nobile abitudine, e rispondo di buon grado e a mia volta gli chiedo qualcosa. Casa tutto bene? Hai fatto qualcosa di interessante, ma niente, nessuna cosa che valga la pena di divulgare. Che ci diciamo allora? Abbiamo un progetto in ballo. Ho scritto la sceneggiatura di questo corto su decine di foglietti e taccuini diversi, che ho la maledetta abitudine di iniziare contemporaneamente per poi puntualmente perdermi e perdere le occasioni. Anche i demo sono pronti, stavolta non ci ferma nessuno. Abbiamo fatto il giro lungo, in mezzo al primo traffico cittadino e a quella nube di corpi e valigette e zaini che si dirige verso la stazione come sotto effetto dell’ipnosi. A luglio le ventiquattrore sono state in parte sostituite dai trolley e dalle classiche valige della vacanze: qualcuno parte, qualcuno accompagna i partenti e via così fino alla fine di agosto. Tu che fai nelle vacanze? Raggiungo i miei al mare e tu? Vado con la ragazza da qualche parte ma non so ancora dove decide tutto lei, io le lascio fare perché non sono in grado di organizzare niente. Non sono in grado di fare niente per la precisione. Ho voglia di prendere il giornale ma capisco che i soldi non mi bastano, allora sbircio con fare altezzoso la prima pagina fuori dall’edicola, con il giornalaio che mi guarda malissimo e non capisce che cosa stia facendo ma capisce altrettanto bene che alla fine non avrà il mio euro. Vent’anni che passo di qui e ancora non mi riconosce ‘sto pirla. Dico a Ciccio che mi serve un’idea per concludere la sceneggiatura e lui mi risponde che preferisce sempre comprare i giornali che parlano solo di cronaca locale; gli chiedo che cazzo c’entra con la mia osservazione e lui dice che non mi stava ascoltando

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tanto per cambiare. Grazie a Dio però non mi ha chiesto niente di Serena. Amo Ciccio anche per questo, per la sua innata discrezione e per la sua capacità intuitiva di sminuire qualsiasi accidente. Fa sempre comodo averlo nei paraggi. Fa sempre comodo dire: ho un amico qui vicino che mi sopporterà oltre al limite molto basso che di solito gli altri mi riservano, e anche quando quel limite sarà superato farà finta di darmi spago e di considerarmi una specie di eroe. Alla fine ci sediamo dal Colombo, che è raggiante di vederci: sfodera il sorriso gagliardo e ci dice: il solito? Fai anche il cornetto stavolta, va’. Non so ancora se ho i soldi a sufficienza. Ho senz’altro l’euro e venti del cappuccino, ma il cornetto? Confido nelle risorse di Ciccio, che viaggia con quantità sorprendenti di ramini nascosti nelle pieghe delle tasche e in quella specie di pezza di pelle lisa che usa come portafoglio. Abbiamo parlato del più e del meno, lui si è anche fumato otto sigarette in venti minuti, il che non so se sia un record ma mi ha impressionato abbastanza, anche perché io non fumo, né ho mai fumato, solo tre o quattro sigari in tutta la mia vita, vuoi perché c’era qualcosa da festeggiare vuoi perché volevo giocare al rivoluzionario. Insomma facciamo la colazione e mi sento subito meglio: nessuna donna all’orizzonte vecchia o nuova, solo l’ingombro di questi foglietti di carta che mi pungono nelle tasche e che so già che mi sono portato dietro per niente perché stiamo parlando di tutto tranne che di quello che dobbiamo fare. Ci troviamo a discutere Mishima e del bushido senza quasi accorgercene per poi virare senza motivo sulla musica dodecafonica che Ciccio considera una fesseria e io non so proprio come considerare. Schonberg mi dice e io mi ricordo di averlo letto in qualche alluvione verbale di qualche germanista nostrano.

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Così torniamo sui nostri passi già rassegnati all’idea che ognuno dovrà lavorare per sé e che solo in un secondo momento assembleremo i nostri lavori in fretta e furia e senza grande cura filologica. Buona la prima sempre e comunque. Che si fa stasera? Niente, non si fa niente, cominciamo a pensare a quello che faremo di giorno che è ancora lunga e non abbiamo mezza idea su come continuare. Ci siamo salutati solo nel primo pomeriggio alla fine, dopo un pranzo improvvisato e tante chiacchiere. Ora mi guardo allo specchio e mi trovo un po’ più pallido di ieri, con uno strano alone rossastro che mi colora le congiuntive e mi fa sembrare nevrotico. Non ho una bella cera direbbe mia madre. Serena invece chissà che direbbe.

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Ariberto

Terragni, scrittore e blogger, ha all'attivo un romanzo pubblicato: Un

uomo da abbattere. Collabora a Reader's Bench da un anno, si interessa principalmente di narrativa e filologia novecentesca europea e americana. Appassionato di lingue classiche, in particolare di etimologia. Per Reader's svolge principalmente l'attività di articolista e recensore, autore talvolta anche di brevi monografie e racconti. Seguite Ariberto anche sul suo Quaderno

sepolto


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