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casa bella casa
A San Pancrazio di Russi una casa esemplare, 40 anni dopo _____________________________________________________ di Paolo Bolzani
storia e memoria
Il forziere “accessibile” dell'Archivio di Stato ____________________________________________________ di Pietro Barberini
Le mirabili alchimie
dell’immaginario: l’unicorno iconologia e storia _________________________________________________
grand tour
di Cetty Muscolino
Lo sguardo veritativo del viaggiatore. Da De Vogüé ad Antonioni ______________________________________________________________ di Alberto Giorgio Cassani
Buon Pastore, laddove sole e vento
danno latte e formaggio abitare il territorio __________________________________________________
idee e progetti
arte e colore
Un sentiero “sostenibile” fra spiaggia e pineta sul litorale ravennate __________________________________________________________ di Domenico Mollura
Il bianco può accecare: dal classicismo agli impressionisti fino alle avanguardie ___________________________________________________________ di Serena Simoni
deisgn e lifestyle
Rinascita verde e bianca purezza. Dal Salone del Mobile 2017 ________________________________________________________ di Sabina Ghinassi
spazi della cultura
La mediazione culturale come ponte Attività nel carcere di Ravenna ________________________________________________________ di Marina Mannucci
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Verso l'obiettivo dell'accessibilità urbana ___________________________________________________________ di Marco Turchetti
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È nel 1974 che Ezio "Cicci" Randi si trasferisce nella sua nuova casa a San Pancrazio di Russi, progettata da tre valenti architetti ravennati. L'edificio, singolare per il contesto rurale in cui si inserisce, si sviluppa in lunghezza nel grande lotto insinuato tra i retri di filari di casette vecchie e nuove, vigne, orti e giardini. La villa ottiene il plauso del giovane “illuminato” committente e viene subito segnalata dalla stampa di settore.
Autorizzazione Tribunale di Ravenna n. 1240 del 8 novembre 2004 Direttore responsabile: Fausto Piazza Consulenza redazionale: Paolo Bolzani Collaborano alla redazione: Pietro Barberini, Roberta Bezzi, Chiara Bissi, Alberto Giorgio Cassani, Federica Cavani, Serena Garzanti (segreteria), Maria Cristina Giovannini (grafica), Sabina Ghinassi, Marina Mannucci, Domenico Mollura, Cetty Muscolino, Guido Sani, Serena Simoni, Marco Turchetti. Progetto grafico: Quadrastudio - www.quadrastudio.info Restyling grafico: Gianluca Achilli Referenze fotografiche: Alberto Giorgio Cassani, Pietro Barberini, Paolo Genovesi, Barbara Gnisci, Maurizio Montanari, Fabrizio Zani (e altre citazioni in pagina). Redazione: tel. 0544.271068 - redazione@trovacasa.ra.it
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CASA BELLA CASA
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Una casa esemplare 40 anni dopo “Quello che resta” di un’architettura costruita a San Pancrazio da Claudio Baldisserri nel periodo dello studio ravennate BGM e recensita su “Casa Vogue” nel 1979: “tanto ancora” Nel 1972 Claudio Baldisserri, Giuseppe Grossi e Bruno Minardi, laureati a Venezia due anni prima, vengono contattati dal giovane fotografo Paolo Roversi per costruire la casa di Ezio “Cicci” Randi a San Pancrazio di Russi. Sono ravennati, bravi e giustamente ambiziosi. Baldisserri ne seguirà il progetto fino alla realizzazione
di Paolo Bolzani
1972. “Tanto tempo fa”, per la percezione del nostro tempo, denso del susseguirsi di eventi. Tre architetti ravennati da poco laureati a Venezia vengono contattati dal giovane fotografo Paolo Roversi per costruire una casa a San Pancrazio di Russi. Sono Claudio Baldisserri, Giuseppe Grossi e Bruno Minardi; rispettivamente 30, 28 e 26 anni. Hanno appena fondato lo studio BGM e stanno per iniziare una carriera che li porterà lontano. Roversi ha 25 anni e da Ravenna si trasferirà a Parigi, complice il servizio come fotoreporter di Associated Press che alla fine di quell’anno lo porterà a seguire il funerale di Ezra Pound a Venezia. Ora è riconosciuto come uno dei fotografi di moda più prestigiosi in campo internazionale. La signora Sofia Raggi di San Pancrazio gli ha chiesto di individuare qualcuno “bravo” per realizzare la nuova casa per il figlio, che ella intende collocare nel terreno situato dietro a quella che il nonno Napoleone, titolare di una piccola impresa edile, ha costruito a sua volta nel 1901 per la moglie e i quattro figli. La signora Raggi è infatti molto preoccupata per suo figlio Ezio “Cicci” Randi, perso nei “meandri” diurni e notturni del periodo sessantottino bolognese e romagnolo. Dopo una prima proposta, non attuata per i costi ritenuti eccessivi in relazione all’intervento, Baldisserri assume la direzione dell’opera, che seguirà da vicino in tutte le sue fasi. La leggenda narra che i tre architetti, di ritorno un po’ brilli da una festa veneziana, decidessero di trascorrere la notte nello studio di via Traversari, fino a giungere alla definizione di quello che sarà il progetto definitivo. E così è stato. Nel 1974 Cicci si trasferisce nella nuova casa, che si sviluppa in lunghezza nel grande lotto insinuato tra i retri di filari di casette vecchie e nuove, vigne, orti e giardini. La villa ottiene il plauso del giovane “illuminato” committente e viene subito segnalata dalla stampa di settore. Nel giugno del 1979 esce «Una piccola casa esemplare», un reportage di sei pagine sulla rivista “Casa Vogue”, in un numero in cui spiccano interventi di Paolo Portoghesi, Michele De Lucchi ed Ettore Sottsass. Nell’occhiello di apertura si racconta «come inserirsi
felicemente e con la massima semplicità in un contesto di edifici colonici preesistenti senza scendere a patti col vernacolo». Nel proseguo del pezzo si segnala la volontà dei progettisti «di costruire un edificio che si ponesse in relazione diretta con i corpi esistenti, pur conservando una sua piena autonomia». In seguito Baldisserri sarà solito descrivere il processo di insediamento di un’architettura in un “posto” come unico gesto in grado di cambiare un “luogo” informe in uno spazio qualificato. Maestro di molti architetti della generazione dei baby boomers e di quella successive, nel 1978 fonderà Teprin e alternerà architettura e scrittura fino al 15 ottobre 2010, quando ci lascerà, orfani del rigore e della sua severità progettuale. Le strategie per declinare uno stile “rurale” senza
A sinistra, in alto: vista della villa dal giardino. A sinistra in basso: il soggiorno con pavimento in listoni di eucalyptus; al centro divano eseguito su disegno; a sinistra si intravvede la poltrona Red and Blu (Gerrit Thomas Rietveld, 1918). Sotto: assonometria della villa, pubblicata su Casa Vogue n. 95/1979.
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CASA BELLA CASA Nel giugno del 1979 esce Una piccola casa esemplare, un reportage di sei pagine sulla rivista “Casa Vogue”, in un numero in cui spiccano interventi di Paolo Portoghesi, Michele De Lucchi ed Ettore Sottsass. Nell’occhiello di apertura si racconta «come inserirsi felicemente e con la massima semplicità in un contesto di edifici colonici preesistenti senza scendere a patti col vernacolo»
vernacolo approdano a un edificio in cui alla linearità di impianto, memore della preesistente storica casa di famiglia sviluppata su via Farini, si abbina l’idea del mutuo accostamento di semplici corpi di fabbrica dalle chiare funzioni, tipico dell’edilizia contadina. Ne deriva un corpo unitario, articolato dai volumi identificati da una falda unica variamente inclinata, da cui trapela la peculiarità spaziale degli interni, che si veste di modernità con un manto di copertura in rame. Il ricordo delle murature grezze contadine, ma anche della lezione dell’Ala Quaroni della Cassa di Ravenna costruita dieci anni prima, si svela nell’adozione di una pelle rugosa in mattoni faccia a vista, prodotti a mano dalla fornace ferrarese di Gallumara e tuttora in buono stato di conservazione. Vengono diligentemente apparecchiati “alla gotica”, a filari omogenei, con un’attenzione particolare alla stuccatura dei giunti in sottolivello, tale da mantenerne il perimetro particolarmente leggibile. Nella cortina muraria brunita si aprono piccole e grandi finestre quadrate su bancali in pietra serena e gli iperdisegnati infissi in legno tinto grigio scuro, oggetto di ripetuti momenti di scoramento di Pino e Bruno, titolari della falegnameria F.lli Fabbri di San Pancrazio, all’arrivo dei disegni di Baldisserri. Venendo dalla stradina ghiaiosa proveniente da via Farini si varca la porta di ingresso, non particolarmente segnalata, alla contadina, al pari del corridoio cui conduce, presidiato dal tubino giallo dell’attaccapanni da terra Signa disegnato per De Padova da De Paz, D’Urbino e Lomazzi. Il tema dell’ingresso non viene quindi enfatizzato, come nuovamente accadrà a Baldisserri in seguito, se non con i manifesti della barca il Moro di Venezia e della mostra La Città dei Desideri (1992), con il famoso disegno di Minardi A volte, trascritto su mosaico da Renato Signorini. Al termine del corridoio, ecco un ritratto e un profilo biografico di Baldisserri e un suo disegno con dedica a Cicci. Ma è già tempo di entrare nel vasto ambiente living, inaugurato dal tavolo da pranzo, una “piazza” domestica articolata da spazi e varie funzioni, in cui si snodano i percorsi principali. Sul pavimento a listoni di eucalyptus si susseguono la zona pranzo e il soggiorno; da qui ha inizio la irta salita, un retaggio della marineria veneziana, ad un piano soppalcato destinato a studiolo, da cui infine si sbarca nella camera da letto del padrone di casa. Da un rapido sguardo si dichiara subito la cifra degli arredi: mobili disegnati per l’occasione e realizzati dall’ebanista locale Antonio Pedna, omaggiati da alcune eccellenze del design d’autore.
In alto: vista della villa dalla stradina di ingresso. In basso: particolare della vista giardino con la grande finestra del soggiorno.
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CASA BELLA CASA
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vista della villa dalla vigna retrostante
Per declinare uno stile “rurale” senza vernacolo si sceglie un edificio sviluppato su una linearità di impianto memore della preesistente storica casa di famiglia, e l’idea del mutuo accostamento di semplici corpi di fabbrica dalle chiare funzioni, tipico dell’edilizia contadina
Nel primo caso abbiamo il divano, il lungo tavolo smaltato e la scala a giorno in gradoni lamellari di eucalyptus. Nel secondo Willow 1 e Red and Blu a delimitare il divano, le sedie di Herbatscheck in paglia di Vienna attorno al tavolo; la lampada a soffitto e la piantana a stelo cromato, rispettivamente disegnate per Sirrah da Giorgina Castiglioni e da Albini, Helg e Piva. La stessa determinazione si ritrova nelle camere da letto, dove si disegna il letto, per cui viene ideato un motivo decorativo che cambia di colore al succedersi delle stanze, l’armadio ad ante scorrevoli e i comodini, illuminati da sobrie Lumenform. Qua e là qualche altro oggetto disegnato da Raffaello Biagetti, come la console Sine Loco in pino tinto nero e qualche ceramica della linea Terrae. Il movimento dello spazio interno del living viene denunciato all’esterno dalla falda unica che ruota sensibilmente per accogliere lo spazio a doppia altezza del soppalco, mentre un grande finestrone si affaccia sul giardino che separa la villa dalla casa costruita da Napoleone, ornato da una crocchia di paulonie, associata a cinque liquidanbar, forsythie e fiori di pesco. Dalla porta situata vicino al finestrone, davanti alla
scala che conduce al soppalco, si entra nella zona notte al piano terra, destinata agli ospiti. Dalla porta accanto al tavolo da pranzo e a quella del corridoio di ingresso si accede invece in cucina, da cui si prosegue verso il garage-sgombraroba o ai servizi igienici della zona giorno. La cucina è un luogo che esprime passione e voglia di vivere: ecco perciò la scelta di un piastrellato rosso vino novello, lo stupito spaesamento della Hill House 1 accanto al frigorifero nero e a un pannello con una frase simbolico-sociale di Majakovskij («mangia ananas e mastica fagiani più non ti resta borghese un domani»), una parannanza da cucina attentamente posata accanto al piano cottura e recante una nota frase di Robert Mapplethorpe sulla consolazione della fotografia. Il tutto vegliato da un ritratto ironico e sornione di Federico Fellini. Con un nume tutelare come questo non meraviglia che questa dimora sia stata per oltre un decennio e per centinaia di ravennati la casa delle feste a musica live, sede del secondo “debutto” in pubblico dei mitici “Da Polenta”. Così come non sorprende abbia ospitato diverse personalità della cultura e delle arti italiane, tra cui il
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Una serie di viste della cucina, piastrellata di un rosso vino novello, da cui emergono le scelte della sedia Hill House 1 (Charles Rennie Mackintosh, 1902), accanto al frigorifero nero e a un pannello con una frase di Vladimir Vladimirovi Majakovskij, un ritratto di Federico Fellini, una parannanza da cucina con una frase di Robert Mapplethorpe accanto al piano cottura. In basso a destra: dedica di Claudio Baldisserri in un disegno posto nel corridoio di ingresso, datato 11/11/1988.
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Da un rapido sguardo agli interni si dichiara subito la cifra degli arredi: mobili disegnati per l’occasione, omaggiati da eccellenze del design d’autore. Willow 1 e Red and Blu a delimitare il divano, le sedie di Herbatscheck in paglia di Vienna attorno al tavolo; la lampada a soffitto e la piantana a stelo cromato, rispettivamente disegnate per Sirrah da Giorgina Castiglioni e da Albini, Helg e Piva
Premio Nobel Dario Fo, il pianista Giorgio Gaslini, Nando Dalla Chiesa con la moglie Emilia, Lucio Magri e Vincenzo Visco, Ministro delle Finanze della Repubblica. Nel solco del profondo legame con l’arte cinematografica nel 2001 questa villa è stata inoltre location primaria del film Tizca di Massimiliano Valli e Luisa Pretolani, con protagonista Elena Bucci, attrice e regista teatrale (premio Eti, Premio Ubu 2016, Premio Eleonora Duse 2016).
Tutte le fotografie del servizio sono di Paolo Bolzani
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CASA BELLA CASA
> Crediti Villa a San Pancrazio (Russi) di realizzazione della villa: • Progetto architetto Claudio Baldisserri, con gli architetti Bruno Minardi e Giuseppe Grossi esecutrice lavori edili: • Ditta Impresa Marino Silvestroni e F.lli, San Pancrazio (Russi) fornitrice del parquet in eucalipto: • Ditta Tavar, Ravenna di falegnameria: • Lavori falegnameria F.lli Fabbri, San Pancrazio (Russi); falegnameria Pedna, Ravenna fornitrice dei sanitari: • Ditta Casadio forniture idrauliche, Ravenna fornitrice dei corpi illuminanti: • Ditta Sirrah, Imola, forniti da Alessandro Randi e Artemide “Flos”, da AB1926 Antonio Berdondini srl, Faenza fornitrice delle tinteggiature: • Ditta La Villa bella di Tirapani e Avoni, Sesto Imolese termico: • Impianto Ditta Riccardo Chendi e pavimenti in ceramica: • Rivestimenti forniti da Ditta Cava, Cava dei Tirreni (Salerno) tramite Carlo Sama, negozio Nautilus, Ravenna (cessata attività da tempo) rivestimenti e pavimenti in ceramica: • Montaggio Mario Boghi fornitrice degli elementi in marmo: • Ditta “Francesconi Marmi”, Cervia girevole del garage-lavanderia: • Porta Società Mischler fornitrice di piante e alberi: • Ditta Fiorista Piccinini, Ravenna
Dall’alto, nell’ordine: a destra del divano, composizione con poltrona Willow 1 (Curved Lattice Back Chair, Charles Rennie Mackintosh, 1904), lampada a stelo in metallo cromato della Sirrah (Studio Albini Helg Piva) e scala a giorno in gradoni lamellari di eucalyptus. Tavolo da pranzo in legno smaltato 275x75 cm, eseguito su disegno, con sedie Thonet in faggio curvato tinto e paglia di Vienna di Herbatscheck; accanto la poltrona Red and Blu (Gerrit Thomas Rietveld, 1918). Una delle due camere da letto al piano terra Camera da letto al primo piano.
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STORIA E DOCUMENTI di Pietro Barberini
I luoghi, i palazzi, le strade raccontano la storia e spesso intrecciano, con singolari coincidenze, esperienze di studi e di vita. Manuela Mantani, frequenta il liceo classico “Dante Alighieri” di Ravenna per poi iscriversi alla Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna, dove si laurea brillantemente in storia moderna con il professore Fiorenzo Landi. La tesi riguarda i possedimenti del Monastero di San Vitale, l’Azienda “Fenili Rotonda”, la più vicina alla città che si spinge ben oltre il Mausoleo di Teodorico. La ricerca elenca i beni, le abitazioni di casanti e mezzadri con i conti economici e le annotazioni relative alle annate agrarie. Acquisita la laurea, gli interessi di Manuela Mantani, sollecitati anche dalla sua tesi, si orientano allo studio e conservazione di quei documenti che appaiono agli occhi della giovane ricercatrice, materia viva e stimolante. Accade così che viene assunta all’Archivio di Stato all’inizio del 1980 e mentre lavora su schede e regesti, ottiene il diploma biennale di archivistica a Modena, sospinta anche dagli studi universitari in paleografia. Nel 1986 dirige l’Archivio di Stato di Ravenna nell’edificio in via Guaccimanni, zeppo di atti, documenti antichi e degli importanti archivi delle Abbazie ravennati. Ben presto, lo spazio già angusto diventa insufficiente. Nell’ala ovest del complesso abbaziale di San Vitale, trasformato nel 1887 in caserma, dove erano gli antichi depositi granari dei “pignoli”, saranno conservati i documenti dell’Archivio di Stato. Una struttura in acciaio è stata inserita per contenere le scaffalature e rendere razionale la loro dislocazione. Dopo una lunga opera di ristrutturazione dell’edificio, che dalla soppressione napoleonica in poi ha avuto varie destinazioni (caserma militare nel 1887, nel secondo dopoguerra ricovero per gli sfollati e successivamente magazzino della Polizia Municipale di Ravenna), nel 2007 l’Archivio di Stato viene trasferito in quell’ala del monastero addossata alle
In questa pagina, a sinistra: un ritratto di Silvio Bernicoli che pare vigilare sul suo schedario. Sotto: via Fiandrini con i magazzini dei marmi “grossi e fini”. Pagina a fianco, in alto: l’ingresso che collega Piazzetta dell’Esarcato con via San Vitale è luogo di transito abituale per gli automobilisti che parcheggiano alla “Caserma Gorizia”. La prospettiva si apre su via Manfredo Fanti. In basso a sinistra: vista dell’edificio dal giardino recentemente intitolato a Teresa Gamba. Lungo le mura storiche è visibile l’antico arco di Porta Teguriense, in asse con via San Vitale. In basso a destra: Piazzetta dell’Esarcato, sullo sfondo il campanile di San Vitale.
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Il forziere “accessibile” dell'Archivio
di Stato
Nei magazzini dell’antica Abbazia di San Vitale gli spazi che dal 2007 custodiscono la memoria storica e civile del territorio ravennate mura occidentali della città. Vi si accede da un elegante portone, dal quale sembra ancora sentir passare i carri rumorosi. Manuela Mantani ritrova così il luogo fisico della sua tesi universitaria sull’azienda monastica “Fenili Rotonda”: quel complesso di edifici, ricoveri per le carrozze, depositi dei marmi grossi e dei marmi fini, con le stalle delle bestie da soma, addette al pistrino. L’intero complesso si sviluppa intorno a tre chiostri, due dei quali risalenti ad epoca rinascimentale e il terzo completato nel Settecento, secolo nel quale vengono effettuati altri interventi come risulta dalla planimetria del 1798 redatta da Benedetto Fiandrini, architetto e archivista. Il corpo di fabbrica, infatti era su quattro piani che accoglievano al piano terra una rimessa per carrozze, locali per la servitù, una selleria e scuderie per i cavalli e ai tre piani superiori locali adibiti a “granai per i pignoli”. Benedetto Fiandrini fu artefice degli ultimi interventi alla “cittadella” abbaziale che occupava il lato nord occidentale all’interno delle mura della città. La soppressione degli ordini religiosi avvenuta alla fine del Settecento a seguito delle leggi napoleoniche, comporta per l’intero complesso benedettino di San Vitale diverse destinazioni d’uso, così nella parte occidentale, si insedia, come detto, l’Autorità Militare. Il luogo è conosciuto da tutti i ravennati, infatti, come “Caserma Gorizia”. Dopo i lavori di restauro “l’Archivio” si trasferisce nella nuova sede che verrà inaugurata un anno dopo la sua apertura, nel 2008. L’Archivio di Stato, che si affaccia su piazzetta dell’Esarcato e offre scorci su alcune strade cittadine e le mura storiche, non concede nulla al superfluo, ma rappresenta una funzione: la conservazione della memoria storica del territorio. Con il deposito di via Garigliano, sono nove i chilometri lineari di documenti, atti e carte: in testa una pergamena del X secolo firmata dall’Imperatore Ottone III con la quale veniva concesso ai monaci benedettini di costruire degli edifici ad uso abbaziale attorno a San Vitale. La memoria non poteva non tornare qui!
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STORIA E DOCUMENTI
Archivio di Stato di Ravenna, le vicende di Manuela Mantani, direttore Archivio di Stato di Ravenna*
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Manuela Mantani, il Direttore dell’Archivio di Stato di Ravenna, con in mano una pergamena del X secolo.
«Della necessità dell’istituzione a Ravenna di un Archivio di Stato scrive già nel 1900 Corrado Ricci auspicando “per un istituto d’eccezionale importanza storica e di decoro a Ravenna” l’utilizzo dei locali delle vecchie carceri, adiacenti alla sede della Prefettura, già Palazzo del cardinale Legato. Dovranno invece trascorrere diversi decenni prima che, con decreto del ministro dell’interno del 15 maggio 1941, fosse istituita “a partire dal 1° luglio 1941 nella città di Ravenna la Sezione di Archivio di Stato per la conservazione degli atti delle magistrature giudiziarie e delle amministrazioni statali della Provincia, nonché gli atti delle magistrature, amministrazioni ed enti morali diversi cessati”. L’istituzione dava attuazione alla legge 22 dicembre 1939, N. 2006, “Nuovo ordinamento degli Archivi del Regno d’Italia”, che prevedeva la creazione di Archivi di Stato in ogni capoluogo di provincia. Lo scopo istitutivo era quello di dotare ogni città capoluogo di un organo periferico preposto alla conservazione e alla libera funzione degli archivi governativi degli antichi regimi, costituiti dalla produzione documentaria delle magistrature operanti sul territorio a partire dal Medioevo. A Ravenna i fondi archivistici di pertinenza statale, come gli archivi della Legazione di Romagna e di Ravenna, le Corporazioni religiose soppresse e parte degli archivi giudiziari, si erano andati concentrando presso la Biblioteca Classense ed è anche per questo motivo che la Sezione di Archivio di Stato ebbe come prima sede alcuni locali del complesso Classense. Fu subito evidente la necessità di acquisire una sede autonoma che permettesse di accogliere gli importanti fondi notarili e altri archivi statali, come quello della Prefettura, della Questura e degli uffici finanziari, ancora conservati presso i rispettivi uffici produttori. Lo stato di guerra consigliò di differire il cambiamento di sede e il materiale archivistico statale venne sfollato insieme a quello della biblioteca sotto la sorveglianza e la responsabilità del personale della Classense e a spese del Comune. Terminato il conflitto mondiale, furono avviati i lavori di ripristino dai danni di guerra della sede, già individuata, nella parte dell’edificio dell’antico convento dei Francescani adiacente alla tomba di Dante, dove l’Istituto si trasferì nel 1956. Per la Sezione di Archivio di Stato di Ravenna l’accresciuta disponibilità di spazi portò all’acquisizione di rilevanti complessi documentari e, in primo luogo degli atti anteriori al 1800 conservati dall’Archivio notarile. Aspetto negativo fu invece il ritiro del deposito dell’archivio storico comunale che causò la fine dell’unità documentaria degli archivi pubblici ravennati sui quali avevano lavorato, lasciando strumenti di ricerca tuttora preziosi, archivisti e bibliotecari come Silvio Bernicoli, Michele Tarlazzi, Andrea Zoli e Santi Muratori. A seguito del Dpr 30 settembre 1963, n.1409, che istituiva un Archivio di Stato in ogni capoluogo di provincia, l’Istituto cambiò la denominazione in Archivio di Stato di Ravenna. Ben presto i locali della sede nella zona dantesca si rivelarono insufficienti ad accogliere ulteriori accrescimenti, come quelli provenienti dai versamenti da parte degli uffici statali della provincia. Nel 1966 pertanto l’Archivio si trasferì in un edificio di proprietà privata in via Guaccimanni, dove, grazie a più ampi spazi, fu possibile raccogliere e riunire un considerevole numero di archivi, anche di enti pubblici e privati della città e della provincia e dove l’Istituto rimase per quarant’ anni, anche se già dall’inizio degli anni ottanta fu evidente l’esigenza di predisporre una nuova sede». *Testo tratto dalla pubblicazione in occasione dell’inaugurazione della nuova sede dell’Archivio di Stato, Ravenna, 14 novembre 2008
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Manuela Mantani con la ricercatrice e storica dell’arte Cetty Muscolino.
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«Locali che sembrano interminabili, con scaffalature metalliche o ancora lignee, anche su più ordini e con materiale che straripa un po’ dappertutto; pezzi con legature antiche e altri collocati in moderni contenitori; pezzi che recano a prima vista tutti i segni del tempo e altri che sono appena usciti da un laboratorio di restauro; pezzi che hanno indicazioni risalenti a secoli fa, talvolta criptiche, talaltra sbiadite, o che sono di mano moderna e ben leggibili; diciture abbastanza comprensibili o pressoché oscure; date risalenti a secoli lontani o a periodi a noi vicini». Isabella Zanni Rosiello Dal 1973 al 1994 è stata direttrice dell’Archivio di Stato di Bologna e della Scuola di archivistica, paleografia e diplomatica annessa.
L'ingente patrimonio dell'ASRa Quando si citano le fonti, anche in questa rivista, abbreviamo in ASRa la parola Archivio di Stato di Ravenna. Gli Archivi di Stato, istituiti presso ogni capoluogo di provincia, conservano gli atti degli organi periferici dello Stato italiano precedenti gli ultimi quarant’anni. Sono conservati tutti i documenti del periodo antecedente lo Stato unitario, comprendente una gran messe di livelli, rogiti e atti. La complessità della storia di Ravenna ha fatto affluire un ingente patrimonio storico, capace di raccontare vicende politiche, demografiche, economiche e culturali di una realtà ben più vasta di quella provinciale. Dopo la dominazione veneziana che si conclude nel 1509, Ravenna torna sotto lo Stato della Chiesa e ben presto è a capo della Legazione pontificia della Romagna che si estende da Rimini a Imola, escludendo il solo
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territorio della cosiddetta Romagna estense: i Comuni del lughese. Il territorio della Legazione, inteso come giurisdizione e i relativi atti vengono interrotti dall’avvento delle repubbliche napoleoniche, che creano nuove unità politico-amministrative. Con il Congresso di Vienna viene ripristinato lo status quo ante, ma molte realtà territoriali, e i relativi archivi, sono ormai cambiate per funzioni e dimensioni. Ancor prima dello Stato unitario, proclamato nel 1861, si costituisce a Ravenna l’Ufficio del Genio Civile il cui materiale documentario è raccolto in circa 4.500 buste e registri dal 1860 al 1972, oltre ai precedenti 400 registri e buste dell’ingegnere in capo d’acque e strade del Dipartimento del Rubicone e dell’ingegnere della Legazione apostolica di Ravenna. Un corpus di mappe, carte, progetti, disegni e fotografie che illustrano con grande precisione l’imponente mole di lavori svolti nel territorio. Le grandi opere pubbliche, come la Cassa di Colmata del fiume Lamone avviata dall’Amministrazione pontificia, sono documentate non solo da una minuziosa raccolta di disegni, ma anche da progetti infrastrutturali. Grandi opere civili e di regimazione idraulica rafforzano il territorio ravennate che viene trasformato da un lungo lavoro le cui linee guida, i piani dei conti, l’elenco dei materiali, il numero delle maestranze, le ore lavorate, sono conservate nei depositi dell’Archivio di Stato. Da quel complesso di atti civili, concessioni di terreni, passaggi di proprietà e permessi di costruzione, è possibile avere conoscenza dell’evoluzione territoriale nei suoi rapporti economici e sociali. La documentazione catastale affonda le radici nella storia, passando da un potere politico all’altro e giunge ai giorni nostri permettendo di ritrovare diritti acquisiti, vecchie destinazioni d’uso utili anche al giorno d’oggi. Gli Archivi di Stato conservano, inoltre, la documentazione archivistica degli enti ecclesiastici e corporazioni religiose che, a seguito di soppressione, ebbero i beni confiscati dallo Stato. Per l’Archivio di Stato di Ravenna, questo fondo è di notevole importanza, poiché è ricco di un patrimonio straordinario, tra i più antichi conservati. E’ curioso annotare che la sede dell’Archivio di Stato si trova da dieci anni nell’area abbaziale di San Vitale. Il Monastero benedettino, le cui vicende hanno segnato la storia della città, riesce a conservare se stesso.
Il deposito: a temperatura controllata e protetti dalla luce vengono conservati oltre mille anni di memoria storica.
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ICONOLOGIA E STORIA di Cetty Muscolino
Fin dalle epoche più remote l’uomo ha intrecciato intense relazioni con gli animali, nutrendosene, impegnandoli nei lavori agricoli e nelle competizioni sportive, studiandoli, addomesticandoli, temendoli e spesso idolatrandoli per la superiorità fisica. Se ne è osservata la capacità organizzativa e la cura verso i propri piccoli, e spesso sono stati interpretati quale specchio della vita umana, come leggiamo nelle favole di Fedro, Esopo, e poi La Fontaine, in cui si cristallizzano caratteri come la cattiveria del lupo, l’innocenza dell’agnello, o la furbizia della volpe. Gli animali, per la ricca valenza simbolica, sono entrati a viva forza nell’inconscio collettivo, quale metafora di traumi, complessi, o rappresentazioni delle fasi del processo alchemico, come ha analizzato Jung nell’opera Psychologie und Alchemie (Zurigo, 1944). Dalla prima schedatura fatta dal vescovo di Lione Eucherio (432450) alle compilazioni enciclopediche come le Etimologie di Isidoro di Siviglia, che danno un’interpretazione cristiana agli animali biblici, si passerà rapidamente a rappresentarli nei luoghi sacri. Le caratteristiche, o nature, degli animali vengono catalogate e connotate in positivo o in negativo, e si costruisce una sorta di alfabeto simbolico utile per prediche e dimostrazioni. Indubbiamente nel grandioso zoo elaborato nel corso dei secoli un posto di primissimo piano è occupato dall’unicorno, la cui fortuna e lo strepitoso successo lo fa emergere fra tutti. Ma di quale bestia si tratta? Chi l’ha vista? Dove vive? Quattrocento anni prima di Cristo il greco Ctesia di Chido, medico e viaggiatore riferisce che nei regni dell’Indostan ci sono velocissimi asini selvatici di pelo bianco, testa purpurea, occhi azzurri e provvisti di un corno acuminato in mezzo alla fronte. Il suo corno è un formidabile alessifarmaco, antidoto contro i veleni e chi beve da questo corno è immunizzato dai mali inguaribili, perché non cade preda delle convulsioni, né viene ucciso dal veleno, e se prima
In alto: Capro-unicorno fronteggiante una testa di antilope delimitato da due volatili, dalla chiesa di San Vitale, Museo Nazionale di Ravenna. Al centro: Mosaico pavimentale, pannello con unicorno, chiesa di San Giovanni Evangelista, Ravenna. In basso: La Castità, In libros Aristotelis de animalibus, Francesco di Giorgio, Siena, Convento dell’Osservanza. A sinistra: Dama con liocorno, Raffaello,1505-1506, Galleria Borghese, Roma. Nella pagina a fianco: Marco Polo, Libro delle meraviglie, 1410-12, Biblioteca Nazionale, Parigi.
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Le mirabili alchimie dell’immaginario Come un dente di narvalo diventa il prodigioso corno di Unicorno ha bevuto qualcosa di nocivo, vomita e guarisce. L’unicorno, prosegue Ctesia, è chiamato dai Greci rinoceros, che in latino significa “corno sul naso”; ed ha lo stesso significato di monoceros, cioè unicorno, perché ha un corno in mezzo alla fronte, di quattro piedi, così aguzzo che perfora qualunque cosa assalga .Per la tradizione greca si tratta di un animale selvaggio dotato di poteri magici e apotropaici legati al corno, fornito di grandi virtù terapeutiche, capaci di neutralizzare i veleni. Plinio, d’altro canto, parla di una fiera, l’unicorno che per corpo assomiglia al cavallo, nella testa al cervo, nelle zampe all’elefante e nella coda al cinghiale. Muggisce forte e ha in mezzo alla fronte un lungo corno nero, e si narra che è impossibile prenderlo vivo. L’unicorno è avvistato in molte aree geografiche poste ad oriente ed è tenuto in grande anche presso i cinesi, che lo visualizzano con corpo di cervo, coda di bue e testa di cavallo, e la sua apparizione
segnala la nascita di un re virtuoso. Fra le opere più affascinanti dedicate alla natura degli animali, che raccolgono e fondono le favole di Ctesia, Plinio, Eliano e i commentari mistici aggiunti dai primi cristiani, i Bestiari occupano un primo posto, e fra questi emerge il Physiologus, scritto in greco fra il II e il IV secolo d.C. e tradotto successivamente in armeno, siriaco, etiopico, latino. «Il Fisiologo ha detto dell’unicorno che ha questa natura: è un piccolo animale, simile al capretto, ma ferocissimo: Non può avvicinarglisi il cacciatore a causa della sua forza straordinaria; ha un solo corno in mezzo alla testa. E allora come gli si dà la caccia? Espongono davanti ad esso una vergine immacolata, e l’animale balza nel seno della vergine, ed essa lo allatta, e lo conduce al palazzo del re. L’unicorno è un immagine del Salvatore, divenuto per noi corno di salvezza. Non hanno potuto avere dominio su di Lui
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ICONOLOGIA E STORIA
Orfeo incanta gli animali, maestro di Orfeo, Italia settentrionale, circa 1500, Museo Nazionale di Ravenna.
gli angeli e le potenze, ma ha preso dimora nel ventre della vera e immacolata Vergine Maria, «e il Verbo si è fatto carne, e ha preso dimora fra di noi» [Giov.,1.14]. Quindi l’unicorno allude alla passione di Cristo ed è simbolo della purezza e castità di Maria in quanto si fa avvicinare solo da una fanciulla vergine; quando le va vicino per farsi accarezzare, i cacciatori, nascosti dietro gli alberi, escono allo scoperto e lo uccidono. Allo stesso modo Cristo, salvatore dell’umanità, è nato dalla Vergine Maria e poi è stato ucciso dal popolo ebraico. Tutte le prodigiose credenziali dell’unicorno suscitavano il desiderio di possedere polvere di corno di una bestia così portentosa, o addirittura un intero corno che, trasformato in calice, si poteva utilizzare per neutralizzare i veleni. A risolvere brillantemente il problema ci pensarono gli ingegnosi navigatori dei mari del Nord, rinvenendo sulle coste zanne di narvalo (che potevano raggiungere i tre metri di lunghezza) che, vendute come avorio pregiato, bene si prestavano allo scopo e alla creazione di un commercio fruttuoso rivolto ai sovrani delle corti d’Europa. Così ben tre corni si trovano nella Basilica di San Marco a Venezia e nell’inventario del tesoro papale di Bonifacio VIII del 1295 si fa menzione di quattro corna di unicorno, lunghe e contorte, impiegate per testare tutto quello che era presentato al Papa. Elisabetta I d’Inghilterra esibiva nella sua camera delle meraviglie un corno di unicorno portatole da un esploratore. Nei lontani paesi esotici vivono quindi animali fantastici e stravaganti, di cui i viaggiatori narrano nei resoconti dei loro viaggi, e fra questi c’è l’unicorno, bestia selvatica e velocissima, imprendibile senza l’espediente della giovane vergine. È interessante ricordare che quando l’unicorno fu osservato da Marco Polo e descritto nel Milione in termini più verosimili, che sfatavano la diceria di una possibile relazione fra unicorno e fanciulla1,
il singolare animale non perderà il suo potere di seduzione perché gli uomini sono troppo affascinati dai propri sogni nonostante risultino incongruenti con la realtà . Leonardo nel suo Bestiario, lo pone quale emblema della intemperanza2. Il tema della cattura e uccisione dell’unicorno troverà grande fortuna nei bestiari d’amore per rappresentare l’uomo perdutamente innamorato della sua donna, affidatosi a lei totalmente, e ripagato col tradimento. Richard de Fournival nel suo Bestiario d’Amore (scritto nella metà del XIII secolo) dove espone i rituali e i paradossi dell’amore cortese attraverso le fantastiche descrizioni del mondo animale, ne sottolinea le peculiarità olfattive. «E fui catturato per mezzo dell’odorato, come l’unicorno che si addormenta al dolce profumo della verginità di una damigella». Ribadisce la sua forza e l’impossibilità di catturarlo e di avvicinarsi, all’infuori di una fanciulla vergine. «Perché quando ne riconosce una al fiuto, si inginocchia davanti a lei e si inchina con umiltà e dolcezza come volesse mettersi al suo servizio». Così i cacciatori «mettono una vergine sul suo passaggio, e l’unicorno si addormenta nel suo grembo; allora, quand’è addormentato, giungono i cacciatori che non avevano il coraggio di attaccarlo da sveglio e lo uccidono. Nella stessa maniera Amore si è vendicato di me… E Amore, che è cacciatore avveduto, pose sul mio cammino una fanciulla alla cui dolcezza mi sono addormentato e sono morto della morte che è propria di Amore, cioè di disperazione senza speranza di grazia. Per questo dico di essere stato catturato per mezzo dell’odorato». Anche noi, a Ravenna, abbiamo la possibilità di incontrare un unicorno in due frammenti musivi pavimentali medievali: uno meno noto, proveniente dal pavimento della basilica di San Vitale, ci mostra un capro con corno spiraliforme, contraddistinto da alcuni caratteri tipici dell’unicorno, l’altro, più celebre è quello policromo che spicca nel fantastico bestiario della chiesa di San Giovanni Evangelista. Ma ai cacciatori più curiosi e indomiti si suggerisce un’incursione al Museo Nazionale di Ravenna dove, in un bronzetto rinascimentale, fra gli animali incantati dalla musica di Orfeo compare anche un unicorno.
Note_____________________________________________ 1
Nella descrizione della «piccola isola di Iava» (Sumatra) scrive: «Elli ànno leofanti assai salvatichi e unicorni, che no son guari minori d’elefanti; ’e son di pelo bufali, i piedi come di lefanti; nel mezzo de la fronte ànno un corno grosso e nero. E dicovi che no fanno male co quel corno, ma co la lingua, che l’ànno spinosa tutta quanta di spine molto grandi; lo capo ànno come di cinghiaro, la testa porta tuttavia inchinata ve(r)so la terra… Ell’è molto laida bestia, né non è, come si
dice di qua, ch’ella si lasci prendere a la pulcella, ma è ‘l contradio». Marco Polo, Il Milione, 1982, cap.162 2
«L’alicorno, ovvero unicorno, per la sua intemperanza e non sapersi vincere, per lo diletto che ha delle donzelle, dimentica la sua ferocità e selvatichezza; ponendo da canto ogni sospetto va alla sedente donzella, e se le addormenta in grembo; e i cacciatori in tal modo lo pigliano».
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ICONOLOGIA E STORIA di Federica Cavani
In questa pagina, dall’alto: Mosaico pavimentale, particolare con unicorno e altri animali fantastici, Cattedrale di Santa Maria Assunta, Aosta. Mosaico pavimentale, particolare con unicorno, chiesa di Santa Maria del Patir, Rossano Calabro. Mosaico pavimentale, particolare con unicorno, chiesa di San Benedetto Polirone, Mantova. Nella pagina a fianco, dall’alto: Mosaico pavimentale, particolare con unicorno e Pantaleone, cattedrale di Santa Maria Annunziata, Otranto. Mosaico pavimentale, particolare con unicorno e dama, San Savino, Piacenza. Bestiario Bodley 764, l’unicorno si lascia ammansire da una fanciulla vergine, metà del XIII secolo, Bodleian Library, Oxford.
Durante l’XI-XII secolo i pavimenti musivi degli edifici sacri si caratterizzarono sempre di più dal punto di vista materico e iconografico. All’utilizzo di pochi colori dominanti ripetuti nel fondo e nelle bordure, alla tecnica più grossolana e all’impiego dell’opus sectile si affiancarono temi propriamente romanici con personaggi tratti dall’Antico Testamento, con allegorie dei dodici mesi dell’anno accompagnate dai relativi segni zodiacali, con visioni enciclopediche, geografiche e cosmogoniche. Oltre a personaggi che prefigurano il Nuovo Testamento, Sansone, Giona, Davide, Noé, Caino e Abele, si trovano rappresentati santi locali con episodi della loro vita. Frequenti sono anche i temi tratti dalla mitologia e dall’antichità, Teseo e il Minotauro, e i cicli ispirati alla letteratura, alla storia e alle leggende popolari, come quelli che fanno riferimento all’ascensione di Alessandro Magno, a Re Artù e ai cicli epici, alle imprese dei paladini di Francia. Ma le immagini più comuni sono quelle degli animali, reali o fantastici, soggetti tipici dei bestiari, frutto del progresso del sapere enciclopedico e delle conoscenze geografiche e zoologiche. L’interesse per le raccolte di racconti sugli animali, nonché la loro associazione a determinate caratteristiche, comportamenti, vizi e virtù, li hanno resi in epoca medievale soggetto prediletto e ampiamente utilizzato. Le immagini rappresentate nei pavimenti venivano concepite per essere ammirate e lette nella loro complessità man mano che si procedeva avanzando nell’edificio, in stretta relazione con la parte della chiesa che decoravano: la disponibilità di spazio e l’organizzazione liturgica determinavano la distribuzione dei temi. Alla zona presbiteriale, ad esempio, erano riservate decorazioni trasversali e spesso a carattere narrativo, mentre erano esclusi Cristo, la Vergine e i temi tratti dal Nuovo Testamento, perché non adatti a essere calpestati. Pur rappresentando un caso a parte, anche Ravenna, con i suoi mosaici pavimentali presenti senza soluzione di continuità dal IV al XII secolo, si arricchì in epoca medioevale di un ampio programma iconografico di elementi desunti dai bestiari, in armonia con quello tipico dei pavimenti romanici dell’Italia settentrionale. Oltre alla chiesa ravennate di San Giovanni Evangelista, i cui mosaici medievali sono più noti, numericamente più consistenti e meglio conservati, anche San Vitale ha restituito interessanti frammenti musivi rappresentanti animali appartenenti al repertorio abituale dei bestiari. Sia i frammenti di San Vitale sia i mosaici di San Giovanni Evangelista testimoniano una produzione ravennate di alta qualità databile dalla metà del XII secolo che si modificherà nel corso del secolo successivo con nuove semplificazioni grafiche. Collocati attualmente presso il Museo Nazionale di Ravenna alcuni dei mosaici pavimentali medievali provenienti da San Vitale sono stati in parte rinvenuti in occasione della realizzazione del nuovo piancito dell’abside e del presbiterio della chiesa, i cui lavori iniziarono nel 1899 con l’esecuzione di uno scavo nel coro della basilica o addirittura precedentemente, in concomitanza a interventi occasionali. Anche durante gli scavi del 1911-1915, condotti lungo tutto il perimetro dell’ambulacro, sotto la guida del Soprintendente Giuseppe Gerola, riemersero alcuni frammenti musivi attribuibili a diverse fasi pavimentali che vennero asportati e collocati su cemento, al fine di evitarne la dispersione. Tra questi probabilmente si trovavano altri elementi appartenenti alla produzione musiva ravennate del XII secolo e raffiguranti animali reali e fantastici, che, in origine, erano andati a colmare zone lacunose del pavimento originale della chiesa di San Vitale. A partire dal 1909-1910 alcuni di questi mosaici sono stati uniti e, in alcuni casi, collocati su nuovo supporto dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze; solo dal 1999 la Scuola per il restauro del Mosaico di Ravenna ha iniziato progressivamente a studiarli e restaurali sistematicamente.
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Alla ricerca dell’Unicorno L’arte musiva medievale, a Ravenna e in Italia, è ricca di raffigurazioni tratte dai Bestiari Tra i mosaici del XII sec. di San Vitale raffiguranti animali tratti dai bestiari medievali si riconosce un interessante capro che presenta alcuni caratteri tipici dell’unicorno, animale favoloso in forma di quadrupede: oltre al lungo corno ‘arricciato’ sulla fronte si riconoscono alcuni ciuffi di criniera, una coda leonina e zoccoli bovini. In questo pannello l’unicorno è fronteggiato da una testa di antilope e delimitato, lungo il margine sinistro, da due volatili riccamente policromi che fungono da bordo decorativo. Si stratta di un uccello acquatico, un anatide, forse un Germano reale, dal piumaggio colorato, dal largo becco, dalle zampe corte e palmate; l’altro è probabilmente un fasanide riconoscibile dalla coda più lunga e dalle zampe più esili. Una rappresentazione dell’unicorno compare anche nei mosaici pavimentali della chiesa di San Giovanni Evangelista a Ravenna, dove l’unicorno, tutt’altro che mansueto, presenta un manto policromo. Altre rappresentazioni coeve di unicorni si incontrano, solo per fare alcuni esempi, in altri mosaici pavimentali come quelli della Cattedrale di Santa Maria Assunta ad Aosta dove il quadrupede insieme ad altri animali fantastici è disposto all’interno di uno schema rigidamente geometrico o in quelli della chiesa di Santa Maria del Patir di Rossano Calabro, dove le raffigurazioni degli animali sono di straordinaria policromia ottenuta facendo ricorso all’impiego di rocce locali e ciottoli di fiume dai colori e dalle tonalità particolari o in quelli di San Benedetto Polirone a Mantova dove il liocorno appare in tutta la sua leggiadria ed eleganza. Contatti diretti tra l’animale e l’uomo si hanno nella cattedrale di Santa Maria Annunziata di Otranto, dove nel presbiterio, in uno dei sedici medaglioni raffiguranti animali e figure umane mitiche, un unicorno è affiancato dalla rappresentazione del monaco Pantaleone, ritenuto l’autore-registra del mosaico, e in San Savino a Piacenza, dove il grande mosaico della cripta con la raffigurazione dei mesi è compreso in un quadrato con cornice geometrica con scene figurate nelle quali ben si riconosce una dama con unicorno .
Bibliografia_______________________________________ P. Angiolini Martinelli, Frammenti di mosaico pavimentale (fine XII secolo). Ravenna, San Vitale, vestibolo occidentale dei matronei, in La Basilica di San Vitale a Ravenna, Modena, 197, pp. 252-255. X. Barral I Altet, Il mosaico pavimentale, in La pittura in Italia. L’altomedioevo, a cura di C. Bertelli, Milano, 1994, pp. 480-498. R. Farioli Campanati, Pavimenti musivi inediti a Ravenna: i mosaici medievali di San Vitale, in III Colloquio Internazionale sul mosaico (Anticora 1980), Ravenna, 1983, pp. 481-489. C. Muscolino, C. Tedeschi, Lacerti musivi medievali provenienti dal pavimento di San Vitale a Ravenna, in Atti del X Colloquio dell’Associazione Italiana per lo studio e la Conservazione del Mosaico (Lecce 2004), Tivoli, 2005, pp. 913-924. C. Muscolino, F. Cavani, Tra i mosaici di San Vitale. Rappresentazioni zoomorfe poco conosciute, in “Orizzonti. Rassegna di archeologia”, XVII, 2016, pp. 103-16.
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GRAND TOUR
> Caspar David Friedrich, Der Wanderer Ăźber dem Nebelmeer [Il viandante sul mare di nebbia], 1818, olio su tela, cm 98,4 Ă— 74,8, Amburgo, Hamburger Kunsthalle. Quale migliore immagine per un paesaggio invernale ravennate?
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Lo sguardo veritativo del viaggiatore Dal De Vogüé a Michelangelo Antonioni di Alberto Giorgio Cassani
Ravenna: «Il treno si ferma, si discende in una piazza deserta. Avvolta in questo lenzuolo di «[…] mi chiedo se il senso del viaggio non sia vegetazione, una piccola città a tinte ruggiin fondo più nel tornare, dopo aver preso le dinose, vuota, silenziosa, emerge come un ogstanze per vedere meglio, o semplicemente getto antico e disusato, con l’aria di una WIM WENDERS, per potere vedere»;1 «Sono convinto che vecchia d’altri tempi dimenticata insepolta. È Stanotte vorrei molto spesso sia necessario lo sguardo di uno Ravenna, la dolce morta, la Bisanzio occidenparlare con l’angelo, straniero per decifrare un luogo. Spesso la tale».7 Difficile ritrovare in un altro viaggia1989 gente che vive in quel luogo non è che non tore un così alto concentrato di sentenze, possa definirlo, comprenderlo, ma semplicedestinate a durare, sulla città. Ma non è finita. mente fa più fatica a coglierlo, proprio perché Il De Vogüé vede Ravenna come il luogo in cui vive continuamente lì, automatizza la propria sono venute a morire grandi anime del paspercezione delle cose, e tutto si amalgama sato: «Qui vennero a spirare, annichilirsi e innella visione giornaliera, tutto diventa abitufine riposare le più grandi anime che dine».2 l’umanità abbia conosciuto, l’anima di Roma, Così scrive Wim Wenders, sintetizzando un l’anima di Dante […]». È stato poi per un «inapensiero diffuso sul significato del viaggio, spettato capriccio della storia» che la «civiltà viaggio che è una delle cifre del suo cinema, s’è concentrata per un istante in questo dall’indimenticato Alice in den Städten3 (1974) luogo»,8 prima di eclissarsi per lungo tempo sino allo straordinario Until the End of the (e da Ravenna, sembra intuire, per sempre). World4 (1991). Ravenna, dunque, ultimo rifugio non solo per Anche noi siam giunti alla fine del viaggio, o Dante, come scrisse Corrado Ricci,9 ma altresì meglio al termine di quanto hanno visto, e ci per l’ex glorioso e ormai agonizzante impero hanno fatto vedere, i viaggiatori che hanno viromano. Anche la grande Roma, dunque, per sitato la nostra città, volutamente deviando settantaquattro anni, le fu soggetta – il De dal consueto percorso del “grand tour”. Si riVogüé la definisce, un po’ sprezzantemente, chiede forse, perciò, di fare il punto. In questo «la prefettura abbandonata sulle sponde del ci aiuta, moltissimo, un volume, a firma di Tevere». Ma il visconte non riesce a racchiuEraldo Baldini e Dante Bolognesi e pubblicato dere in un’unica immagine Ravenna e si per i tipi ravennati di Longo Editore alla fine chiede: «Quello che si vede qui è un resto la> Eugène Melchior De Vogüé, 1910 circa. del 2015, dal titolo: Il richiamo di Ravenna. La tino o un promontorio avamposto d’Oriencittà e i suoi dintorni secondo i visitatori stranieri 1800-1960. Un te?». Non si può rispondere in modo univoco, perché Ravenna è libro che, in oltre 400 pagine, raccoglie le impressioni, i giudizi – e una «città ibrida». Nel suo crogiuolo tutto si trasforma in modo mei pregiudizi – di centocinquantaquattro viaggiatori (e di sole tredici tamorfico: «l’arte pagana diventa cristiana, l’Augusto italico […] diviaggiatrici, ma che forse sono state più simpatetiche con la città viene greco, i re barbari […] assumono il ruolo di Cesari […]». Ma dei loro colleghi maschi).5 Quale l’immagine di Ravenna che ne ciò, ormai, non esiste più, perché nella Ravenna attuale tutto si è viene fuori? Il Bolognesi, nelle presentazioni pubbliche dell’opera, «ritirato»: «la vita e il mare». ha più volte evidenziato un aggettivo che ritorna come un leitmoLa storia, qui, non si è solo ritratta, ma è anche “sprofondata” sotto tiv nella stragrande maggioranza dei reportage di viaggio: la noterra: «I secoli l’hanno sommersa [sc. Ravenna] insieme a queste stra città è definita “antica”. Il termine ha principalmente un terre d’apporto, in cui occorre cercare a due metri di profondità il carattere positivo, onorifico ma, collegato ad altri che ricorrono con suolo antico e le basi delle colonne». Ravenna, grazie a ciò, «si è altrettanta frequenza – silenziosa, decadente, desertica… morta –, conservata quasi intatta», come le città dei faraoni «nel limo del assume, di certo, un aspetto meno glorificante. Quest’ultimo agNilo». Se dunque, per questa sua caratteristica, il De Vogüé la gettivo, «morta», sarà accompagnato, in quello che diverrà uno stechiama, lapidariamente, «la tomba delle tombe», il visconte però reotipo da cui sarà davvero difficile liberarsi, dal termine «dolce», non accetta lo stereotipo di tanti viaggiatori che l’hanno preceduto, da ascriversi all’intuito del visconte Eugène Melchior De Vogüé e che hanno dipinto Ravenna come «lugubre, desolata…»: «Ra(1848-1910), diplomatico e scrittore francese, che visitò la città nel venna non è lugubre. – egli ribatte – È la dolce morta. Non c’è ormaggio del 1893, dedicandole un articolo dal titolo À Ravenne, che rore intorno a lei, perché non c’è lotta della vita contro la normale ebbe una notevole eco, dal momento che fu pubblicato sulla celedissoluzione; perché non c’è niente di reale, in questo fantasma di berrima «Revue des deux mondes».6 La magnifica descrizione delun momento storico lontanissimo […]. Non c’è che pace, con un fal’arrivo nella nostra città è la summa degli stereotipi, veri o falsi, di scino infinito, sopra queste ceneri così poco disturbate».10 Quello
«In viaggio si vedono cose che a casa non si scorgevano più»
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che può sembrare un giudizio meno duro rispetto a quello di altri viaggiatori, è in realtà un de profundis definitivo sulla città. Se anche la morte è dolce in questa città, come potrà mai, la “bella addormentata”, risvegliarsi da quel sonno eterno? Ecco perché, anche nel luogo in cui maggiori dovrebbero essere la vitalità e la passione – il teatro Alighieri – in realtà quelle persone che il visconte v’incontra e che gli vengono presentate non sono che “illusioni”, o meglio le dramatis personæ dei mosaici che, per un momento, hanno abbandonato le pareti delle basiliche per incontrarsi di fronte a un palco: «Il popolo dei mosaici scende la sera in questa sala; – scrive magnificamente De Vogüé – il corteggio delle dame bianche s’è sparso in questi palchi. […] mi presentano a personaggi che sembrano reali, il signor Senatore, il signor Prefetto, il signor Sindaco; hanno propositi contemporanei, parlano dell’inquietante siccità, degli affari locali e di quelli generali […]». Ma il
In alto, da sinistra: Caspar David Friedrich, Greifswald im Mondschein [La città di Greifswald al chiaro di luna], 1817, olio su tela, cm 22,5 × 30,5, Oslo, Nasjonalgalleriet. Come nel nostro mare basso, le stesse reti per la pesca. Caspar David Friedrich, Mondaufgang über dem Meer [Luna crescente sul mare], 1821 ca., olio su tela, cm 135 × 170, San Pietroburgo, Hermitage. Un analogon del nostro Adriatico. Caspar David Friedrcih, Zwei Männer in Betrachtung des Mondes [Due uomini che contemplano la luna], 1819-1820, olio su tela, cm 35 × 44,5, Dresda, Galerie Neue Meister. Due viandanti che potrebbero trovarsi anche nel nostro “bosco”, la Pineta, così spesso visitato da tutti i viaggiatori stranieri. In basso a sinistra: Caspar David Friedrich, Die Lebensstufen [Le tre età dell’uomo], 1835, olio su tela, cm 72,5 × 94, Lipsia, Museum der bildenden Künste. Le stesse barche apparse in mezzo ai pini a De Vogüé. In basso a destra: Caspar David Friedrich, Frau am Fenster [Donna alla finestra], 1822, olio su tela, cm 73 × 44, Berlino, Nationalgalerie. «[…] mi chiedo se il senso del viaggio non sia in fondo più nel tornare, dopo aver preso le distanze per vedere meglio, o semplicemente per potere vedere», Wim Wenders.
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visconte vede assai bene cosa si nasconde dietro quell’«Illusione» fuorviante: in realtà, quelle figure sono «[…] logoteti, curopalati, sono le compagne di Galla Placidia; spettri usciti dai sarcofagi, larve attratte dal chiarore delle scale per godere di una fiaba, vane ma sensibili per un istante, come il suono che esce da un violino». Il visconte ne è certo; si è trattato di una messinscena, di un’illusione teatrale: «Non c’è altro modo di spiegare questa apparizione, poiché non ho trovato traccia di questi esseri notturni, l’indomani, nella città delle case con le porte chiuse…»11 (meno male che, oggi, non è più così...). E qui non si può non pensare al buon signor Dido e a quel suo: «Ravenna è abbottonata fino al pomo d’Adamo nel suo abito di pietra».12 Ravenna è davvero, però, tutta un’illusione? Il De Vogüé non può mancare di fare una visita alla “selva oscura” di Dante, la Pineta. Dopo averne riscontrato i danni dovuti «a qualche inverno troppo duro», e una volta uscito da «questo labirinto»13 di colonne arboree,14 gli viene incontro «uno spettacolo magico»: la visione di un luogo, né terra, né mare, che s’intravede tra «le arcate dei grandi pini, immobili e neri […]». Si tratta di «una piana indefinibile, steppa, torbiera, palude, [che] srotola la sua tela vuota fino alle linee incerte del mare»,15 come uno di quei mari del nord dipinti da Caspar David Friedrich, o come un paesaggio fiammingo-olandese
o nilotico.16 E in questo apparente “deserto” – altra parola chiave che ritorna continuamente nei memoriali dei viaggiatori stranieri – dove di primo acchito non v’è «nessun accadimento, nessun movimento», in realtà qualcosa si muove. È, come scrive il De Vogüé, «un’apparizione fantastica», in cui «grandi vele, dai vivaci toni arancioni e color zafferano, si spostano lentamente rasoterra, senza che si scorgano le barche che le portano nei canali: un miraggio in più, oltre a quelli che il baluginare di un’aria bruciante fa tremare sui piani lontani di questa solitudine».17 Non vi viene in mente qualcosa? A volte la storia si contrae e ieri e oggi non sono che parole senza senso. Vi do qualche indizio: il De Vogüé parla di “deserto”, di “barche” che s’intravedono tra i pini neri e la “pialassa” e, infine, di un “miraggio”. Certo che vi ricordate: è la famosa sequenza di Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni in cui, come in un sogno, all’improvviso una grande nave da cargo sembra attraversare la pineta, come se non ci fosse sotto l’acqua, ma come se la chiglia della nave sfiorasse soltanto il terreno. Con l’albero di metallo che sembra un tronco di pino in movimento. Direi che non c’è miglior modo di lasciarci. Ravenna: un “deserto”, un “miraggio”… in movimento. Verso che cosa? Ce lo diranno, sicuramente, i futuri viaggiatori.
Note ____________________________________________________________________________________________________ 1. WIM WENDERS, L’atto di vedere / The Act of Seeing, Milano, Ubulibri, 1992, p. 36.
di Ravenna di Alberto Savinio (1951), in «Casa Premium», n. 104, marzo 2016, pp. 36-40.
2. WIM WENDERS, Conferenza presso la Triennale di Milano, 1994, citata in PAOLO FEDERICO COLUSSO, Wim Wenders. Paesaggi luoghi città, Torino, Testo & Immagine, 1998, p. 20.
13. Le due citazioni sono tratte da E. M. DE VOGÜÉ, A Ravenna, cit., p. 227. 14. Cfr. ibid.
3. Alice nelle città.
15. Le tre citazioni sono tratte ibid.
con l’Egitto ritorna, in entrambi i casi, ben due volte nell’articolo del De Vogüé: «[…] una sorta di Fiandra verde, umida», ibid., p. 224 e «Un cielo sovente opaco, una terra grassa, acquitrinosa, che produce e divora, paludi tiepide, simili all’Olanda o al delta del Nilo», ibid., p. 226. Per l’altra citazione dell’Egitto, si veda, supra, nel testo, e nota 10.
4. Fino alla fine del mondo.
16. Il paragone con le Fiandre/Paesi Bassi e
17. Le tre citazioni sono tratte ibid., p. 227.
5. Lo hanno giustamente notato i due autoricuratori del volume nel bel saggio iniziale dal titolo: L’immagine di Ravenna e del suo territorio tra Otto e Novecento: gli stereotipi e la realtà: cfr. pp. 18-19. E l’ha colto anche Simone Weil. Cfr. il mio articolo Simone e le “grazie” di Ravenna (1937), in «Casa Premium», n. 103, gennaio-febbraio 2016, pp. 42-47. 6. Del 15 giugno 1893, pp. 925-940. 7. EUGÈNE MELCHIOR DE VOGÜÉ, A Ravenna, trad. it. parziale di Eraldo Baldini, in ERALDO BALDINI, DANTE BOLOGNESI, Il richiamo di Ravenna. La città e i suoi dintorni secondo i visitatori stranieri 1800-1960, Ravenna, Longo Editore, 2015, pp. 223-228: 224. 8. Le tre citazioni sono tratte ibid. 9. Cfr. CORRADO RICCI, L’ultimo rifugio di Dante Alighieri, Milano, Ulrico Hoepli, 1891; ID., L’ultimo rifugio di Dante, seconda edizione con ventidue illustrazioni e diciassette tavole, Milano, Ulrico Hoepli, 1921; ID., L’ultimo rifugio di Dante, Nuova edizione con 47 illustrazioni, premessa e appendice di aggiornamento a cura di Eugenio Chiarini, Ravenna, Edizioni Dante di A. Longo, 1965. 10. Le dodici citazioni sono tratte da E. M. DE VOGÜÉ, A Ravenna, cit., p. 224. 11. Le quattro citazioni sono tratte ibid., p. 226. 12. ALBERTO SAVINIO, Il signor Dido, Milano, Adelphi, 1978, 19923, capitolo: Sentimento di Ravenna, pp. 103-108: 104. Cfr. il mio articolo Il signor Dido e la città “abbottonata”. Sentimento
Postilla Nella prima parte del mio articolo su Gabriele D’Annunzio e Ravenna (La «città fatale». Gabriele D’Annunzio, Corrado Ricci e Ravenna (1901 e 1902). Prima parte, in «Casa Premium», n. 110, novembre-dicembre 2016, pp. 26-29), ho scritto, a p. 28, nota 16: «Di tale registro, purtroppo, non c’è riscontro presso la Biblioteca». Mi riferivo al “libro dei visitatori” citato da FAUSTO SAPORETTI, in Gabriele D’Annunzio e Corrado Ricci. (Ravenna e la preparazione della Francesca), in «Felix Ravenna», Fascicoli 23, (XLVII-XLVIII), 1938, pp. 57-74: 66-67. In realtà, dopo un controllo effettuato dai bibliotecari della Classense, tale “libro” esiste realmente. Si tratta del ms. n. 625 intitolato Album / ovvero / Libro dove i forestieri distinti / Visitatori della Classense / sono pregati / di segnare di propria mano / il loro nome. / Cominciato l’anno 1862. Alla c. 60r compare la firma «Marco Fulgoso - Venezia», a margine della quale un’altra mano ha scritto: «Pseudonimo di Gabriele D’Annunzio 24 maggio 1901». Inoltre, alla c. 62r, alla data «27 maggio 1902», compare di nuovo la firma «Gabriele d’Annunzio», cui fa seguito quella di «Fd’Hohenlohe Waldenburg» con accanto l’aggiunta: «(insieme all’attrice drammatica Clara Della Guardia)» (Clara Della Guardia, 1865-1937, che lavorò con la sua compagnia anche in Sud America, recitò vari drammi del Vate come La nave e La Gioconda). È confermata, dunque, anche la seconda visita alla Classense, assieme al principe Fritz di Hohenlohe Waldenburg e a sua moglie Zina (anche se manca la firma di quest’ultima), di cui parlavo in La «città fatale». Gabriele D’Annunzio, Corrado Ricci e Ravenna (1901 e 1902). Seconda parte, in «Casa Premium», n. 111, gennaio-febbraio 2017, pp. 26-30: 28. Alla c. 88r dell’Album, in aggiunta, si legge la firma di «Eleonora Duse», alla data 29 marzo 1916, quando ormai la storia d’amore col D’Annunzio era, da tempo, terminata. Ma la Duse, dopo la sua visita ravennate nel 1902, aveva continuato a scrivere a Elisa Ricci Guastalla, moglie di Corrado, almeno fino al 1912, come testimoniano le numerose lettere, scritte da Boston e da Roma, conservate nel Carteggio Ricci della Classense (nn. 11612-11634, dal 29 agosto 1902 al 3 febbraio 1912, oltre ad alcune senza data). Infine devo rimediare a una dimenticanza. Parlando, sempre nella prima parte dell’articolo su Gabriele D’Annunzio e Ravenna, degli autori che hanno citato le lettere del carteggio D’Annunzio-Ricci (La «città fatale». Gabriele D’Annunzio, Corrado Ricci e Ravenna (1901 e 1902). Prima parte, cit., p. 27), non ho fatto il nome di Mariachiara Guerra che, nel suo bel volume Gabriele D’Annunzio e il patrimonio culturale italiano. “L’arte è memoria che non può difendersi”, pubblicato a Lanciano dalla Casa Editrice Rocco Carabba nel 2014, libro che ha ricevuto la Medaglia del Presidente della Repubblica, nel paragrafo “La bellezza artistica di una città è il frutto dell’amore dei cittadini”: Corrado Ricci e Gabriele d’Annunzio, pp. 147-175, ha riprodotto ampiamente le lettere del Vate al Ricci. Me ne scuso con Lei e con tutti i benevoli lettori.
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ABITARE IL TERRITORIO
Sopra, il caseificio dell’azienda Buon Pastore, ; in basso un repertorio dei formaggi prodotti. Nella pagina seguente, dall’alto: la pala eolica che fornisce energia pulita all’impresa di allevamento e agroalimentare nella tenuta agricola di 71 ettari a Sant’Alberto. Il gregge nel prato-pascolo dei pannelli fotovoltaici dell’impianto Solar Farm e al rientro nelle stalle.
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Laddove sole e vento danno latte e formaggio Il paesaggio cambia pelle e dai campi incolti nasce il pratopascolo fotovoltaico e il caseificio Buon Pastore a Sant'Alberto
di Chiara Bissi
Da sempre la presenza umana modifica il paesaggio, lo ordina, lo definisce e lo rende abitabile; nei casi peggiori, purtroppo è noto, lo sfrutta dissennatamente e lo sfregia. Un esercizio che si ripete implacabile di generazione in generazione, che modifica dinamiche economiche e determina i destini di intere popolazioni. Da qualche tempo il fenomeno dell’abbandono dei terreni agricoli pone anche nella realtà romagnola nuovi problemi di gestione ambientale, sembra però, che la ricerca sulle fonti rinnovabili proponga formule inedite di convivenza, economicamente sostenibili. Un caso di studio nel ravennate è rappresentato dall’esperienza avviata da Solar Farm, impresa partecipata da Tozzi Green e da Gardini 2002 srl, che opera nel campo delle energie rinnovabili. Nasce così l’idea di bonificare e recuperare un’intera area agricola a Sant’Alberto lasciata in condizioni di abbandono e riqualificarla, restituendo valore a una tradizione considerata marginale come la pastorizia. Prende corpo così nel prato-pascolo fotovoltaico da 71 ettari il caseificio Buon Pastore. Innovazione tecnologica e antiche pratiche casearie si incontrano su un terreno governato dal sole e dal vento: da poco meno di dieci anni infatti 600 pecore di razza sarda in allevamento estensivo convivono e “collaborano” con l’impianto fotovoltaico Solar Farm. Gli ovini pascolano liberi in prossimità di pannelli solari, in un prato seminato con erbe selezionate senza impiego di sostanze chimiche e fitofarmaci. Una filiera produttiva a chilometri zero che rifugge l’alta quantità di materia prodotta per perseguire la qualità nella alimentazione e ritmi di vita dei capi, nella conservazione e
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ABITARE IL TERRITORIO
Il locale storico di Brisighella che ha fatto la storia della ristorazione Italiana Ricavato all’interno della vena del gesso Romagnola, vi offre l’opportunità unica di cenare in un ambiente suggestivo e incantevole. Una cucina genuina che valorizza la freschezza e i sapori del territorio ponendo particolare attenzione al rapporto qualità prezzo. La grotta è anche catering. La nostra qualità dove vuoi tu! Segui tutte le nostre serate su facebook La Grotta Brisighella
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nel trattamento del latte; fino alla preparazione del prodotto finito e alla stagionatura. Il ricovero degli ovini alterna spazi aperti e chiusi permettendo ai capi di muoversi liberamente. Attrezzature moderne garantiscono tutte le operazioni di gestione degli animali dall’alimentazione, alla mungitura. Nel complesso trovano posto processi di lavorazione come la stufatura, la salatura dei formaggi e la stagionatura che esaltano profumi e aromi dei prodotti artigianali derivati da latte di pascolo trattato in modo biologico. I pannelli fotovoltaici poggiano su strutture collocate sul terreno senza cemento armato, che vanno ad alimentare un impianto in grado di coprire il fabbisogno energetico di oltre 10mila famiglie. Il campo fotovoltaico nel quale è inserito il caseificio è tra i più grandi d’Italia per potenza installata e dimensioni. Ha una potenza nominale di 35 MWp per un’estensione di 71 ettari (ma l’effettiva superficie coperta dai pannelli è inferiore al 40%). Produce circa 42.000.000 kWh/anno pari a 25.200 tonnellate di CO2 non emesse e 3.612 tep risparmiate. La struttura di sostegno dei pannelli è del tipo «a cavalletto», in acciaio zincato ed alluminio. La tipologia di struttura scelta garantisce il ripristino dei luoghi a fine ciclo di vita dell’impianto fissato in 30 anni. Una turbina mini eolica da 10 kW, progettata e prodotta da Tozzi Green (società holding del Caseifi-
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In alto, alcune delle pecore dell’allevamento dell’azienda Buon Pastore che conta 600 capi di ovini di razza sarda. Uno scorcio della stalla che ospita gli ovini liberi di pascolare durante il giorno nella vasta area della tenuta seminata con erbe selezionate senza uso di fitofarmaci. A fianco, una forma di pecorino di pregio prodotta con il latte dei capi allevamento.
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cio e di Solar Farm), è installata in prossimità del caseificio ed è in grado di produrre fino a 37.300 kWh ad una ventosità media annua di 5 m/s. Ai sopraccitati prato-pascolo fotovoltaico ed aerogeneratore si aggiunge un impianto fotovoltaico di 16 KWp installato sul tetto del Caseificio. Il sistema energetico combinato e diversificato copre l’intero fabbisogno delle strutture per l’allevamento e la trasformazione casearia del Buon Pastore. Dagli elementi viene raccolta e prodotta energia mentre dal lavoro dell’uomo nasce ogni giorno un’ampia gamma di formaggi che copre la tradizione locale e nazionale, declinata in freschi, stagionati, cremosi e speciali. Prodotti lattiero-caseari da gustare e acquistare anche nello spaccio aziendale o in alcuni negozi attenti alle migliori produzioni locali e in alcuni ristoranti. Prodotti che raccontano la tradizione dalle caciotte, al Raviggiolo, dal fior di ricotta e dallo yogurt agli stagionati maturati in foglie di noce, con nomi che evocano la storia del territorio, da Teodorico ad Anita Garibaldi. Infinite, infine, le preparazioni in cucina: insalate di frutta, paste ripiene, lasagne, risotti e carni bovine sono gli abbinamenti consigliati, ma la tradizione ha spalle larghe per accettare sfide nuove anche in cucina nel piatto di gourmet e sperimentatori oltre che nel prato-pascolo fotovoltaico di Sant’Alberto.
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IDEE E PROGETTI
di Domenico Mollura
Nel 2011 il Comune di Ravenna organizzava presso l’Urban Center di San Domenico la mostra dal titolo “Progetti per Ravenna” (cfr. Idee per Ravenna, dal centro storico al mare, Trovacasa Premium n. 64, pag. 62-63) nella quale venivano esposti gli esiti di due concorsi di idee, banditi l’anno precedente, per altrettanti importanti temi di riqualificazione urbana: Piazza Kennedy e stradelli retrodunali. A distanza di quasi sei anni la nuova Piazza Kennedy è stata riaperta al pubblico, mentre per gli stradelli non ci sono stati concreti sviluppi, nonostante nelle previsioni i primi interventi avrebbero dovuto essere realizzati nel 2012, accedendo ad un “(…) finanziamento regionale, proveniente da fondi europei” (comunicato stampa del Comune, luglio 2010). Il progetto primo classificato prevedeva soluzioni sperimentali per il tratto di litorale tra Marina di Ravenna e Punta Marina con una pista ciclopedonale in blocchi di calcestruzzo punteggiata da padiglioni modulari, assemblabili anche in altezza (fino a 25 m) per creare, oltre a punti belvedere tra mare e pineta, segni distintivi lungo il nuovo tracciato. Sul tema degli stradelli, un gruppo di giovani architetti ha elaborato una proposta progettuale con il fine, da un lato, di focalizzare nuovamente l’attenzione sulle modalità d’uso dello spazio retrodunale e, dall’altro, individuare interventi più snelli e di immediata realizzazione. Il progetto prevede – come principale elementi qualificanti – un percorso ciclo-pedonale con passerella in legno, un sistema di illuminazione notturna di tipo radente e totem identificativi per ogni stabilimento balneare lungo il percorso. In affiancamento alla passerella potrebbe essere realizzato un percorso parallelo, largo un paio di metri e attrezzato per roller/skate/ecc.; sarebbero garantite così nuove modalità di collegamento, in sicurezza, tra i bagni e il parcheggio scambiatore, tenendo lontano dal mare il più alto numero di autoveicoli. In questo modo si potrebbe ottenere un altro risultato: permettere agli stabilimenti balneari un secondo affaccio “nobile” – sul retro – da poter attrezzare per migliorare la propria offerta. Il nuovo percorso, infine, potrebbe integrarsi in un più ampio sistema di mobilità lenta che abbracci il Terminal Crociere, le oasi naturalistiche e le aree umide del territorio ravennate. Abbiamo inquadrato la proposta di riqualificazione degli stradelli con l’architetto Giovanni Mecozzi, nella sua doppia veste di componente del team di progettazione e di coordinatore dell’iniziativa all’interno di Nuovostudio. Nel 2010 il Comune di Ravenna ha bandito un concorso di idee per la riqualificazione degli stradelli retrodunali. Il progetto coordinato da Nuovostudio vuole colmare lo scarto tra quell’idea e le condizioni oggettive di oggi? «Crediamo che oggi, sempre più, un progetto non possa essere pensato senza l’ascolto dei soggetti che poi dovranno usufruire dell’opera (in questo caso quindi i proprietari degli stabilimenti balneari) e dal confronto con gli enti che sono chiamati ad esprimere un parere sullo stesso (Sovrintendenza, Demanio e Lavori Pubblici). Partendo
Due rendering dell’ipotesi di progetto del team coordinato da Nuovostudio, che rappresentano alcuni degli elementi salienti della proposta: il percorso ciclopedonale in elementi lignei e il totem pensato come misura del tracciato e punto notevole per individuare gli stabilimenti balnerari.
da questi presupposti il progettista si deve fare interprete e regista dei diversi stimoli che ciascun soggetto immette nel progetto, farne sintesi e fornire la soluzione più idonea sotto i diversi profili estetico, economico, sostenibile e gestionale. Questo vale per qualsiasi tipo di opera, che sia lo stradello retrodunale o un palazzo pubblico, ed è stato l’approccio che abbiamo tenuto per definire questa prima bozza progettuale». Da chi è composta la squadra di giovani architetti organizzata da Nuovostudio e quali saranno i ruoli all’interno del progetto? «La squadra è composta da un gruppo di cinque giovani progettisti della zona, che si sono distinti negli ultimi anni per un’attività progettuale di qualità, dimostrando il loro valore attraverso una ricerca progettuale che spazia su diversi ambiti. Il loro lavoro è già stato premiato attraverso pubblicazioni e riconoscimenti ed è quindi contraddistinto dal merito acquisito sul campo. È una squadra multidisciplinare, all’interno della quale i ruoli specifici verranno definiti nel dettaglio se, come ci auguriamo, il progetto vedrà una sua concretizzazione. Il gruppo, coordinato da Nuovostudio nella persona di Emilio Rambelli, è composto dallo studio Angeli e Brucoli di Faenza, da Caveja Studio di Forlì, da Paolo Lazzarini di Lugo, da Burroni&Dapporto Architetti di Ravenna e da me, in qualità di componente del team di progetto e coordinatore dell’iniziativa all’interno di Nuovostudio». Il vostro progetto nasce anche dalle esigenze di efficienza e funzionalità infrastrutturale degli stabilimenti balneari? «Certo. Come detto, il nostro progetto nasce proprio da questo, da un confronto diretto con alcuni tra i proprietari degli stabilimenti balneari. È un progetto condiviso con loro, che cerca quindi prima di tutto di dare risposte a loro esigenze che poi sono anche quelle della comunità, tra le quali certamente anche quelle infrastrutturali, ma non solo. Vi sono importanti aspetti naturalistici da coordinare e valorizzare, all’interno di un progetto unitario di vasta scala territoriale attuabile per fasi e che potrebbe facilmente coinvolgere anche altri lidi e, perché no, le meravigliose valli con i suoi unici paesaggi». Nella redazione della proposta progettuale siete partiti da nuovi principi (tecnici, estetici e funzionali) o avete tenuto come traccia l’idea classificata al primo posto nel concorso del 2010? «Il progetto vincitore del concorso è nato purtroppo da una modalità operativa distante da quella illustrata nelle precedenti risposte. Il bando non aveva coinvolto né gli stabilimenti balneari né gli enti
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Un sentiero “sostenibile” fra spiaggia e pineta L'architetto Giovanni Mecozzi illustra il progetto preliminare per la riqualificazione dello stradello retrodunale fra Marina di Ravenna e Punta Marina Terme, ideato assieme ad un gruppo di giovani progettisti coordinati da Nuovostudio. Una sistemazione essenziale per la tutela ambientale e la migliore fruizione turistica del litorale ravennate, disattesa ormai da un decennio
preposti ad esprimere poi un parere. Indipendentemente dal valore del progetto, perciò, mancavano i presupposti per far sì che tale progetto potesse evolvere in un suo sviluppo reale». Il progetto è già stato sottoposto ad un iter autorizzativo? «Ad oggi abbiamo redatto un primo progetto preliminare che nasce dal confronto con una rappresentanza dei bagnini di Marina di Ravenna, che ci hanno stimolato fornendoci elementi, indicazioni ed esigenze chiare e precise, che sono divenute la base della nostra riflessione. E’ una prima proposta preliminare per offrire un confronto e una discussione. Il prossimo passo dovrà essere senza dubbio il coinvolgimento degli enti di controllo del territorio, in primis la Sovrintendenza per i Beni Architettonici ed Ambientali».
finanziamenti può sollevare gli enti pubblici dal rischio imprenditoriale. Il pubblico rimarrebbe il regista dell’operazione, ma sarebbe il soggetto privato ad assumersi il rischio imprenditoriale della redazione del progetto, che è necessario per accedere alla richiesta di finanziamento ma che non ha certezze di essere finanziato».
Qual è la previsione di spesa per l’itero stralcio esecutivo? Chi si farà carico della realizzazione delle opere? «In questa fase è difficile, vista la definizione preliminare del progetto, fornire una stima esatta di spesa. Quello che possiamo dire, visti i materiali utilizzati che sono per lo più legno e piante autoctone, che la spesa sarà la minore possibile per fornire un opera semplice, sostenibile e gestibile con il minimo di risorse possibili».
Il progetto di questo primo stralcio, potendosi considerare come soluzione modulare e ripetibile, sarà donato al Comune perché lo possa adattare e realizzare progressivamente in tutti i lidi ravennati? «Come detto, questo progetto è poco più di una bozza, un’idea sulla quale confrontarsi e fare gli approfondimenti del caso (calibrare le esigenze di utilizzo e relazionarsi con gli enti amministrativi). Nel caso lo sviluppo del progetto nelle sue fasi attuative dovesse avere un futuro, ci aspettiamo che il gruppo di lavoro che abbiamo composto ne divenga parte attiva, e che quindi gli sia attribuito il giusto ruolo e il giusto riconoscimento. Vista la semplicità dell’opera, la sostenibilità e l’attuabilità per stralci, l’idea può certamente essere una base di lavoro per tutti gli altri lidi ravennati e una base anche per mettere a sistema i diversi ambiti paesaggistici della nostra costa».
Quale sarà il ruolo del Comune e a chi sarà affidata la gestione e la manutenzione dei nuovi stradelli? «Anche su questo è difficile darti una risposta, il processo è tutto da impostare. Quello che possiamo dire, a carattere generale, è che in questi anni sta mutando molto velocemente il rapporto pubblico/privato e che, se non si avviano sinergie serie tra i soggetti, sarà sempre più difficile riuscire a realizzare e gestire nel tempo le opere pubbliche. Questa modalità operativa vale sia per gli stradelli come per ogni altra nuova opera pubblica. C’è poi il tema dei finanziamenti (regionali, statali ed europei) e delle modalità con le quali richiederli. Anche in questo caso la sinergia pubblico/privato diventa fondamentale. Il coinvolgimento di soggetti privati fin dalle fasi di richiesta dei
Quali potrebbero essere i prossimi passaggi prima di trasformare il progetto in opera cantierabile? «La prima fase sarebbe quella di un approfondimento del progetto con i bagnini, per poi passare ad un confronto con gli enti (Sovrintendenza, Comune, Demanio, etc…). Sulla base di questo si potrebbe impostare un progetto ufficiale condiviso, con il quale accedere ai finanziamenti pubblici, non solo regionali. Pensiamo che un tale progetto si possa configurare anche in un’ottica di contributo statale, ma perché no anche europeo. Osiamo dire che si potrebbe valutare anche il coinvolgimento di alcuni sponsor che, se resi opportunamente visibili, potrebbero far parte della partita».
Sezione tipo di stradello nel progetto primo classificato al concorso di idee bandito dal Comune di Ravenna nel 2010. La proposta, elaborata dall’Architetto Matteo Fraschini di Segrate (Mi), mirava ad un intervento di arredo urbano complessivo che coinvolgeva lo spazio retrodunale, la spiaggia e il mare. Oltre al percorso ciclopedonale erano previste sedute, padiglioni modulari e torri belvedere. Il costo complessivo previsto per lo stralcio Marina di Ravenna-Punta Marina era pari a circa 4 milioni di euro. Ma il progetto non è mai stato realizzato per la mancanza dei finanziamenti previsti dalla Regione.
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IDEE E PROGETTI
Creative spirits, la messa in rete di eco-sistemi urbani creativi del continente europeo Al piano partecipa anche Ravenna che ha candidato i progetti di riuso temporaneo contenuti nel Poc tematico Darsena
di Domenico Mollura
La Commissione Europea ha pubblicato, alla fine dello scorso febbraio, la terza edizione dell’indice di competitività che mette a confronto le 263 regioni europee e la “(…) loro capacità di offrire un ambiente attraente e sostenibile alle aziende e ai cittadini che vi vivono e lavorano”, in funzione di parametri come innovazione tecnologica, governance, trasporti, infrastrutture digitali, salute e capitale umano. I migliori risultati, in base all’indice complessivo, sono quelle di Lombardia e Trentino, mentre l’Emilia Romagna può comunque vantare prestazioni al di sopra della media nazionale. L’obiettivo dell’indice è quello di valutare i punti di forza e di debolezza e suggerire possibili percorsi di miglioramento. Gli strumenti messi a disposizione di tutti gli Stati Membri sono rappresentati da numerosi programmi di finanziamento che privilegiano progetti intelligenti, sostenibili e solidali, nel pieno rispetto della coesione territoriale prevista della strategia Europa 2020. Nell’ambito del periodo di finanziamento 2014-20, il Comune di Ravenna è stato coinvolto in una partnership internazionale guidata dalla Municipalità di Ujbuda, la più popolosa di Budapest (Ungheria), all’interno della cornice di Urbact III. Il programma comunitario di sviluppo urbano integrato, per il quale le città italiane sono le prime per partecipazione, privilegia la formazione di reti transna-
zionali finalizzate allo scambio di competenze e buone pratiche per il miglioramento complessivo dell’eco-sistema urbano creativo, ovvero di quell’insieme di condizioni strutturali, gestionali ed economiche che permettono di rendere attrattiva un’area urbana definita, tramite l’Industria creativa e culturale. Il progetto specifico è denominato Creative Spirits e interviene a sostegno di piani integrati già sviluppati dalle realtà urbane convolte; insieme alla città ungherese e a Ravenna, fanno parte del network anche Kaunas (Lituania), Lublino (Polonia), Maribor (Slovenia), Loulè (Portogallo), Ibi (Spagna), Sofia (Bulgaria) e Waterford (Irlanda). URBACT III, bandito nel giugno del 2016, prevede il finanziamento fino ad un totale compreso tra 600 e 750 mila euro per ogni network ammesso e, in Italia, ha come punto di contatto l’Anci, mentre il ministero competente è quello delle Infrastrutture e dei Trasporti. La durata complessiva del progetto è pari a 30 mesi, e le sue attività, avviate alla fine dello scorso novembre, saranno sviluppate dalla singola città in due fasi. Il progetto mescola due dei principali temi del programma, ovvero governance ed economia e, per tale motivo, Ravenna ha candidato il Poc tematico Darsena, inteso come frutto di un percorso partecipato non solo urbanistico ma anche imprenditoriale. In secondo luogo Ravenna “porta” come risultato innovativo del Piano, la disciplina che regola i riusi temporanei fino all’approvazione dei Piani di Attuazione definitivi, di aree e contenitori abbandonati all’interno del grande comparto urbanistico. La prima fase di Creative Spirits si è sviluppata attraverso la crea-
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zione del gruppo urbano locale, nel quale sono confluiti rappresentati dell’Amministrazione Comunale, dell’Autorità portuale, delle associazioni di categoria, dell’Università e delle industrie creative locali. Ad inizio Febbraio si è tenuta la visita alla città da parte di Hen Gerritse, lead expert del progetto, e di una delegazione ungherese, finalizzata alla stesura di un report sullo stato dell’arte, l’individuazione delle diverse filosofie di progetto, le peculiarità di ogni partner, per creare un quadro operativo condiviso. Dal sopralluogo tecnico, effettuato all’Almagià, a Darsena Pop Up, alla Raffineria 42, al Tiro a Segno e all’area orti, Gerritse ha colto la volontà di trasformare la Darsena «(…) in un luogo di grande attrazione per tutti». La costruzione di competenze e lo scambio di esperienze, è uno degli obiettivi di Urbact e per questa ragione ad inizio marzo si è tenuto a Bologna un incontro indirizzato ai rappresentati della Amministrazioni comunali emiliano-romagnole coinvolte nelle diverse reti del programma: Parma, Piacenza Bologna, San Lazzaro di Savena, Forlì, Cesena e Ravenna. Il meeting è stato aperto da Patrizio Bianchi (Assessore regionale al coordinamento delle politiche europee allo sviluppo, scuola, formazione professionale, università, ricerca e lavoro), che ha precisato come Urbact sia un forte stimolo alla progettazione, attività complessa che nessuna città può affrontare singolarmente ma all’interno di politiche che aumentino partecipazione e identità, per ricucire rapporti territoriali che diventano cruciali in quest’epoca di euroscetticismo diffuso. La seconda fase del progetto sarà quella nella quale lo scambio transnazionale entrerà nel vivo attraverso focus, formazione e informazione; nella quale sarà formalizzato il quadro di azione per fornire metodi, suggerimenti e risposte pratiche alle sfide individuate, senza tralasciare l’aspetto comunicativo – principale strumento della programmazione europea – affinché la conoscenza delle buone pratiche diventi circolare.
Da sinistra: uno scorcio dall’alto della Darsena di città al centro, per quanto riguarda Ravenna, del progetto europeo di rete di ecosistemi urbani e creativi denominato Creative Spirits. Di seguito due mappe relative al progetto, che definiscono le relazioni fra le città europee coinvolte nel progetto e l’indice di competitivita delle diverse regioni del continente che fanno parte dell’Unione Europea.
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IDEE E PROGETTI
Creatività e condivisione in Darsena Le recenti esperienze di coworking nate con Raffineria 42 e CoLaBoRa La Darsena sta registrando un crescente interesse verso attività creative, aperte alla condivisione di spazi di lavoro. È l’idea del coworking che nasce principalmente per dare spazio a professionisti free-lance ma viene, sempre più spesso, vista come occasione per riattivare il costruito e animare lo spazio pubblico. Abbiamo ascoltato la voce di due realtà coinvolte nel progetto Creative Spirits, già insediate in Darsena, attraverso le parole di Marianna Panebarco e di Antonio Lazzari, rispettivamente fondatrice di Raffineria 42 e presidente di Kirekò che, insieme a Centuria e Ethic Solution, gestisce gli spazi di CoLaBoRa. Il primo spazio nasce dal desiderio di sperimentare un coworking creativo e dalla disponibilità di uffici liberi all’interno di un studio tecnico già esistente; da questi due diversi presupposti – ci racconta Panebarco – è nata la domanda: «perché non uniamo le forze e non proviamo a fare qualcosa di nuovo in questi spazi per promuoverli e popolarli?». Diverso è il caso di coLaBoRa, nato da un progetto dell’Assessorato comunale alle Attività Produttive, in collaborazione con la “Fondazione Enrico Mattei”, per sviluppare un incubatore di start-up, oltre a spazi di lavoro condivisi; «insediare un luogo dove si crea innovazione è stata un’idea lungimirante», specifica Lazzari che sottolinea come, anche a Ravenna, «l’innovazione e la creatività possono contaminare anche imprese produttive più classiche e ricevere da esse supporto ed energia». Le attività all’interno di un coworking si evolvono in fretta e l’aspetto comunicativo/divulgativo diventa fondamentale per diffonderne i principali risultati, in particolare in una città come Ravenna che «ha numeri veramente piccoli in termini di potenziale pubblico», precisa Lazzari. «Insieme a Lidia Marongiu di G&M Network, che con me condivideva la voglia di sperimentare un primo nucleo di creatività in Darsena, abbiamo costruito – ricorda Panebarco – un ricco calendario di iniziative (le 11 “lezioni in raffineria”) per farci conoscere e per far conoscere ai ravennati lo spazio». Nel suo primo anno di attività, coLaBoRa è stata impegnata nella ricerca – non facile – «di un equilibro e sintonia con le start-up incubate e con il territorio» e nel suo secondo anno di vita (con il nuovo bando di assegnazione degli spazi) i gestori si attendono una forte richiesta e «la possibilità di aprire ancora di più lo spazio alla contaminazione», anche a «professionisti che desiderano accettare la sfida dell’innovazione lavorando fianco a fianco con l’entusiasmo di chi sta sviluppando il progetto che potrebbe essere della vita». Gestire spazi condivisi ha delle difficoltà, specie in un’area che sta ancora ricercando una sua vocazione urbana. Le lezioni organizzate da Raffineria 42, ad esempio, sono andate spesso in overbooking «nel senso che creavamo per ogni evento la lista d’attesa, ma poi pochi posti si liberavamo e quindi non riuscivamo a soddisfare tutti quelli in lista d’attesa»; tuttavia «quasi nessuno ha fatto il salto dal partecipare alle lezioni gratuite al diventare membro attivo della community, occupando una scrivania o un ufficio liberi (a fronte di un canone mensile)». È la stessa Panebarco ad individuare tre delle principali cause. L’impegno da dedicare ad ogni attività, specie nella
Momenti di incontro e spazi di confronto nell’ambito delle pionieristiche esperienze di coworking in Darsena a Ravenna; dall’alto, gli uffici di coLaBoRa e , in basso (a sinistra e a destra) di Raffineria 42.
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Lo scorso febbraio i due coworking hanno ricevuto la visita del coordinatore del progetto Creative Spirits, quali esempi di come l’industria creativa possa contribuire all’innovazione territoriale e introdurre, nella Darsena di Città, una dimensione culturale europea. Per Marianna Panebarco, da anni impegnata nell’industria creativa, «è necessario scompaginare le gerarchie e unire le persone a diversi livelli, è necessario creare intersezioni tra insiemi e sottoinsiemi di persone che mai nella vita si troverebbero ad uno stesso tavolo»; occorre, inoltre, privilegiare la componente informale e favorire il dialogo tra le generazioni. In questo senso i programmi di “alternanza scuola-lavoro” diventano occasioni fondamentali per i più giovani che «devono entrare nelle aziende e parlare con gli imprenditori/imprenditrici, bisogna ascoltare il loro punto di vista. La creatività non può prescindere dallo studio e dalla conoscenza e oggi deve contaminare tutti i settori economici». Il ruolo degli Enti Pubblici – prosegue – è quello di «oliare queste dinamiche, stimolarle», come avvenuto in «un recente percorso ravennate al quale, purtroppo, abbiamo voltato le spalle molto, troppo velocemente». Il riferimento è al percorso di candidatura della città a Capitale Europea della Cultura: «aldilà dell’esito finale, in generale ciò che è stato fatto si è configurato come un contributo preziosissimo per la città, ha messo in relazione persone e ambiti diversi, ha smosso il terreno, stimolato le persone. Trovo ingiusto l’atteggiamento che abbiamo avuto in seguito alla bruciante sconfitta, perché come è stato sempre detto quello era un processo; la meta è importante, ma il viaggio lo è altrettanto!». La Darsena è un giacimento ancora da portare alla luce. È un’area che, per potenzialità e ruolo nell’ambito urbano di riferimento, può essere facilmente associata «ad esempi di grande successo come Barcellona– evidenzia Lazzari – dove gli spazi ex-industriali si sono aperti alla creatività ed al turismo trasformando l’intero territorio». L’Europa, con la sua spinta alla coesione territoriale e alla diffusione e condivisione di esperienze positive, può «sicuramente insegnare a gestire in maniera funzionale ed organica un territorio ampio e vasto, a renderlo realmente attrattivo ed interessante, sia per chi vuole fare impresa che per chi vuole semplicemente trascorrere un momento piacevole». L’ex scalo portuale può trasformarsi in uno «spazio – conclude Lazzari – per rendere Ravenna ancora più interessante e coLaBoRa può essere uno dei tanti fiori all’occhiello di cui la Darsena si può fregiare.
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fase di avvio, dovrebbe essere costante e annullerebbe ogni altro impegno lavorativo; inoltre ogni settore necessita di spazi «adeguati al target». È per tale motivo che gli spazi di via Zara sono stati modificati per adattarsi ad uno specifico obiettivo; essendo all’interno di un ufficio attivo nel settore immobiliare, Raffineria 42 è spontaneamente diventato luogo condiviso per free-lance geometri e ingegneri, occupato anche da «un avvocato e da una cooperativa che si occupa di servizi educativi». Infine, uno dei limiti del coworking è la stessa dimensione della città, nella quale sono nati almeno 6 spazi simili in contemporanea, «quando ancora il coworking per i ravennati era un concetto da metabolizzare». In termini di relazioni, interne ed esterne agli spazi di Raffineria 42, il ciclo di incontri sta dando buoni frutti. Per coLaBoRa, la sfida è quella di trovare la propria vocazione guardando alla Darsena che «ha un’identità che si sta pian piano costruendo e inizia ora ad essere percepita dalla cittadinanza come luogo di aggregazione e sviluppo e non più come luogo di degrado ed abbandono». La sua mission è quella di spazio dove «portare e ricevere competenze, dove confrontarsi per sviluppare idee a beneficio personale e della città» essendo – ricorda Lazzari – uno spazio pubblico; tuttavia bisogna costantemente adattarsi, «leggere le modifiche della Darsena e cercare di essere in sintonia con essa». Anche per coLaBoRa il bilancio, in termini di networking, è positivo: «dopo una prima e naturale fase di studio e diffidenza, oggi i ragazzi lavorano in gruppo, mettono in circolo le competenze reciproche, si contaminano a beneficio di tutti. In poche parole creano innovazione stabile e non effimera legata solo alla creatività».
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ARTE E COLORE di Serena Simoni
A proposito del Design Week 2017 che si tiene a Milano i primi giorni di aprile e comprende il Salone Internazionale del Mobile negli spazi della Fiera vale pena concentrarsi sul Fuorisalone, dislocato in vari punti della città e incentrato su di un progetto promosso da Oikos, azienda artigianle nata nel 1984 a Gatteo a Mare che si è evoluta in impresa dagli orizzonti internazionali dedicata alla produzione di una vasta gamma di colori e materiali per rivestimenti ecologici e di alta qualità (se ne parla più diffusamente in un altro articolo di questa rivista). Si tratta di cinque mostre a cura di Giulio Cappellini che coinvolgono grandi maestri dell’architettura, artisti, interior designers e giovani emergenti degli istituti di formazione che esprimeranno la loro personale interpretazione del “bianco“, un colore che ha una lunghissima storia artistica alle spalle, non sempre così lineare come si pensa. Il bianco è il colore che ha affascinato intere generazioni del Grand Tour che dalla seconda metà del ‘700 attraversavano l’Italia e si avventuravano talvolta in Grecia abbagliate dal candore delle rovine classiche. Il colore fu talmente un must nell’immaginario europeo da inclinare il gusto contemporaneo per gli arredi delle case di lusso di tutta Europa. Peccato che il bianco fosse un colore residuale dovuto al passaggio del tempo e che i templi e le sculture antichi - dal periodo arcaico all’Ellenismo - fossero in origine completamente colorati di azzurro e rosso, con piccoli interventi di nero, verde, giallo, rosa e... bianco. In questo generale fraintendimento si colloca la produzione di sculture contemporanee neoclassiche e romantiche che privilegiarono la scelta del candore con qualche rara eccezione: Canova ad esempio era famoso per stendere una patina rosea sulle proprie sculture - oggi difficilmente leggibile - che doveva simulare il colore dell’incarnato in una sorta di sfida fra arte e vita. Occorre aspettare le ricerche degli ottici ottocenteschi per comprendere che il bianco non è un colore ma una semplice somma di colori: è luce, la condizione per vedere i colori, così come il suo opposto, il nero, è il grado zero della visione. Di queste scoperte ne faranno tesoro gli Impressionisti che cercheranno di evitare l’uso del bianco e del suo contrario, cercando di utilizzare solo colori puri. A seguito, sullo scorcio del secolo, Seurat e Signac daranno vita al cosiddetto Neoimpressionismo - o Pointillisme secondo una dizione che a loro non piaceva - che traduce questa ed altre indicazioni scientifiche come il punto di partenza per la realizzazione di tutte le loro tele. Arriviamo così alle riflessioni fra suono e colore di Vasilij Kandin-
In colonna, nell’ordine: Kazimir Malevič, Quadrato bianco su fondo bianco, 1918, olio su tela, New York, The Museum of Modern Art. George Segal, Walk, Don’t Walk, 1976, tecnica mista (plastica, cemento, metallo, legno dipinto e luce elettrica), New York, Whitney Museum. In basso a destra: Ben Nicholson, 1934 (relief), 1934, oil su legno, London, Tate Modern. Nella pagina a fianco, da sinistra: Kara Walker, African American, 1998, incisione su linoleum su carta non vergata. Kara Walker, A Subtlely, 2014, installazione alla Domino Sugar Factory di Brooklyn.
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Il bianco può accecare Dal classicismo agli impressionisti fino alle avanguardie e ai contemporanei Adrian Piper e Kara Walker, vicende percettive e simboliche del cromatismo che rievoca la luce skij che nello “Spirituale nell’arte” (1911) afferma come il bianco sia “il simbolo di un mondo in cui tutti i colori, come principi e sostanze fisiche, sono scomparsi”, un mondo così alto da impedirci di avvertire alcun suono. Per l’artista il bianco è come un “immenso silenzio che, tradotto in immagine fisica, ci appare come un muro freddo, invalicabile, indistruttibile, infinito”. Sembra assoluto, simile alle pause musicali - dice l’artista russo - che interrompono uno sviluppo di un tema o un discorso, ma è ricco di potenzialità, come un’origine che sta “prima della nascita”. Non è strano che il secondo artista a misurarsi col bianco sia un altro russo - Kazimir Malevič, il fondatore del Suprematismo - che nel 1918 lancia la provocazione di un Quadrato bianco su fondo bianco in cui si distingue una forma geometrica inclinata e fuori asse, distinta da una sottile linea di contorno dallo sfondo, di una tonalità leggermente più calda. Il significato attribuito da Malevič sta nel contesto della sua idea di arte in cui gli oggetti o le loro rappresentazioni non hanno alcun senso: per lui, l’unica strada percorribile è rendere i moti dell’animo scaturiti dalle tensioni fra forme geometriche e spazio circostante. Le forme bianche sono la formalizzazione di un processo di conoscenza “di uno stadio più alto di ogni realtà”, un’affermazione che porta invariabilmente a pensare che ci sia solo un privilegio culturale a distinguere questo posizione dalla spiritualità dell’oro delle icone ortodosse così diffuse in Russia. Ben diverso è l’interesse al bianco dello statunitense Ben Nicholson che negli anni Trenta aderisce al gruppo Abstraction-Création e inizia un rapporto intellettuale con il più anziano collega Mondrian, definendo in una serie di sculture a parete un linguaggio astratto in cui semplici geometrie bianche si autodefiniscono grazie al rilievo e alle ombre proiettate. Dopo la seconda guerra mondiale, il bianco è un colore sdoganato in campo artistico: lo vediamo nelle sagome umane del pop artista George Segal che
rende nei suoi calchi dal vero a grandezza naturale, simili ai frammenti di vita dei resti umani di Pompei, una quotidianità disumanizzata. Il colore è ormai diventato una sorta di tributo doveroso da parte di una generazione - sempre d’oltreoceano - interessata al Minimalismo e all’Arte concettuale: Robert Ryman ad esempio, tende ad interpretare il bianco non come un’esperienza interiore o spirituale ma come un metodo in grado di analizzare tutte le componenti dell’esperienza visiva. Declinato anche nelle sue affinità alla luce o nelle sue valenze concettuali, negli anni ‘60 e ‘70 il bianco acquista anche una complessità politica. D’altra parte erano gli anni giusti e il tema del razzismo diventa centrale nella riflessione di numerosi artisti statunitensi, nel momento più internazionale dei movimenti dei diritti civili e della liberazione sociale. Adrian Piper (New York 1948) si è sempre interessata a questioni inerenti identità, razza e genere, affrontate tramite opere concettuali oltre a video e performances. Abituata a pensare che il personale è anche politico, nel 1981 Piper disegna autoritratti in cui esagera visibilmente gli elementi fisiognomici che appartengono allo stereotipo della razza nera, realizzati grazie alla mediazione fra la percezione di sè e quella restituita dagli altri. Suscitare reazioni nel pubblico è l’effetto di molti dei suoi lavori, come in Cornered - un’installazione del 1988 - in cui l’artista sfrutta l’estrema chiarezza della propria pelle per presentarsi su uno schermo mentre afferma di “essere nera”, un’asserzione contestata dall’apparenza fisica ma la cui ambiguità è rafforzata dall’esposizione di due certificati di nascita del padre, in cui si afferma - in uno - la sua appartenenza alla razza bianca e - nell’altro - a quella nera. Virando all’attualità, Kara Walker (1969) affronta tematiche non distanti, ma con tecniche e argomentazioni diverse se pure sempre a partire dal colore bianco e dal suo opposto. Nella varietà di impiego dei media, sono famose le sue lanterne magiche e in-
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ARTE E COLORE
In alto, da sinistra: Atena pensante, Museo dell’Acropoli di Atene, 470 a.C. (formella in gesso, copia della stele originale conservata al museo di Atene). Adrian Piper, Cornered, 1988, videoinstallazione con certificati di nascita, monitor tv, tavolo, sedie, Chicago, Museum of Contemporary Art. Robert Ryman, B.1930 Untitled, 1964, pittura vinilica su alluminio. Sotto: Lorenzo Bartolini e Cincinnato Baruzzi, Monumento funebre di Elisa Bonaparte e Felice Baciocchi, 1809-10, Firenze, Galleria dell'Accademia (foto Paolo Villa).
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stallazioni di silhouettes di carta che l’artista ha cominciato ad utilizzare dall’inizio degli anni ‘90. La scelta della tecnica non è ininfluente perchè dal tempo della sua importazione negli Stati Uniti nel corso del ‘700 ha avuto un lungo successo fra le classi aristocratiche e l’alta borghesia dove diventò una pratica insegnata alle signorine della middle class. Il legame storico di questa tecnica alla ritrattistica così come la semplificazione dei lineamenti fisiognomici e la riduzione al bianco/nero dello sfondo e delle sagome sono elementi che a livello simbolico restituiscono il riduzionismo su cui si basa anche la costruzione degli stereotipi razziali. Whiteness e blackness sono i due termini che si confrontano nel lavoro di Walker, poco interessata a trattare l’appartenenza razziale in modo autoreferenziale: quello che muove il suo lavoro è l’analisi delle relazioni fra bianchi e neri dal punto di vista storico, emozionale, fisico, sessuale, razziale, in particolare dei contesti e modi di attivazione delle dinamiche di potere. Ambientate generalmente nel Sud degli States prima della guerra civile, le sue scenette mettono in scena una meta-storia, frutto della contaminazione fra realtà, letteratura, finzione e fantasia, secondo un procedimento metanarrativo ibrido che è simile nel processo di costruzione della memoria storica e delle identità razziali. Violenza e soprusi sono mescolati ad una vena ironica che si accende talvolta di sarcasmo, ma l’inquietante che travolge lo spettatore è la relazione fra dominio sessuale e bestialità che ricade sui più deboli: donne e bambini di colore. L’humour evidente - mescolato a sessualità e violenza - non è però sufficiente a rendere accettabili le opere di Walker che mettono in scena dei veri e propri tabù, ovvero quel complesso di desideri e piacere - nel ventaglio più ampio delle componenti che arrivano alla pura devianza - collegato alla storia della schiavitù dei neri. Tutte le associazioni più triviali legate alla blackness emergono, esposte senza pudore. L’artista non cerca stigmatizzazioni morali ma una presa di consapevolezza del rimosso, una sana e rivalutabile vergogna, magari - dice l’artista - “per aver semplicemente creduto nel progetto del modernismo”. In questo modo, si disfa in questi ultimi decenni la nostra sicurezza del bianco come colore del benessere e le sue associazioni a sinonimi di purezza, ad un candore che non è mai stato se non un’attribuzione culturale. L’arte è la migliore arma contro gli stereotipi, anche quelli attribuiti ad un colore così virginale.
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DESIGN E LIFESTYLE
di Sabina Ghinassi
Il presagio è arrivato poco prima di Natale: il colore dell’anno Pantone, quello che riassume i segnali per il nostro futuro, è il Greenery, un tono di verde primaverile, luminoso. A lui il compito di tirarci fuori dalla crisi e di prenderci per mano in un orizzonte non proprio confortante, trasformando il limite in opportunità. Per raccontare secondo le regole del marketing esistenziale il colore simbolo del 2017, Pantone – in team con Airbnb – ha aperto una dimora pop up dal 27 al 30 gennaio 2017 a Clerkenwell Road a Londra: Outside - in House. Dentro, attraverso un’immersione esperienziale, gli ospiti potevano entrare in un paradiso inebriante, essere accolti da una foresta reception, soggiornare dentro una serra interna-salotto, mangiare in una cucina con orto botanico, dormire in una camera da letto-giardino con prati circondati da sculture vegetali e piante soporifere, con un angolo fornito di tenda per i bambini. Per chi voleva, prenotando le Airbnb Experience, erano a disposizione anche corsi per la creazione di arazzi con tinture vegetali, per la distillazione di gin, per comporre l’erbario domestico e altre amenità verdi, sotto la guida di tutor del luogo. Lasciandoci prendere la mano da questo colore si può anche parlare delle probabili hits del Salone del Mobile 2017 (Milano, 4-9 aprile) sempre all’insegna di una sostenibilità interpretata non soltanto in chiave di recupero, ma di innovazione e benessere, indirizzata a un consumo più responsabile delle nostre risorse. Così al Salone 2017 il Greenery scivola lungo l’Isola Design District, nuova hub urbana diffusa e strategia di marketing territoriale promossa dal Comune di Milano. Si può partire dal progetto Green Island, curato dalla cri-
tica d’arte Claudia Zanfi e pensato dall’artista Emilia Faro che colonizza con le sue sculture vegetali il negozio Tiger nella Stazione di Porta Garibaldi, la fucina intrigante dell’Algranti Lab sino ad arrivare allo showroom di eco-arredamento Riva Viva con l’opera Botanik. Riprendendo il modello partecipativo dei tutor locali dei corsi dell’Outside - in House Pantone, i totem informativi di Green Island sono realizzati dagli artigiani del Quartiere Isola. Sempre Greenery è il curioso concept store/laboratorio milanese Bici e Radici, incrocio di pensiero botanico e mobilità sostenibile, che presenta l’installazione Suspended Garden, lo stesso fa il filosofo giardiniere
In alto, da sinistra: Outside in House, interno, Pantone in collaborazione con Airbnb, Londra, gennaio 2017. Outside in House, particolare spazio bimbi, Pantone in collaborazione con Airbnb, Londra, gennaio 2017. Outside in House, particolare Dispensa, Pantone in collaborazione con Airbnb, Londra, gennaio 2017. Sotto: Outside in House, esterno, Pantone in collaborazione con Airbnb, Londra, gennaio 2017. Nella pagina a fianco, in alto: Green picture, Cameron Kyrby, Unsplash.com. In basso a sinistra: Mini Living-Breath, esterno, creazione MINI/Soil, Milano Design Week, 4-9 aprile 2017. In basso al centro: Mini Living-Breath, interno, creazione MINI/Soil, Milano Design Week, 4-9 aprile 2017. In basso a destra: Green picture, Raul Petri, Unsplash.com.
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Rinascita verde e bianca purezza Dal Salone del Mobile 2017 gli indizi living sono tutti a favore di una rinascita sotto il segno del benessere, della natura e dell’ecosostenibilità. Mauro Nobile dello spazio Offfi, sempre al Quartiere Isola. Verde è lo spazio di Mini Living - Breathe, creato da MINI in collaborazione con lo studio newyorchese Soil: un’interpretazione lungimirante di un modo di vivere cosciente e consapevole delle risorse, all’interno di uno spazio fisico contenuto. L’installazione - home concept è uno spazio largo 5 metri e alto 10, ideale per tre persone e mette in discussione lo stile di vita convenzionale, dimostrando come l’architettura possa rispondere in modo creativo alle sfide future, come spazi sempre più contenuti e risorse limitate nelle aree urbane. La mini-casa è così concepita come un ecosistema attivo: il rivestimento esterno trasparente filtra l’aria e inonda lo spazio di luce naturale in modo da garantire un ambiente interno luminoso e piacevole. Inoltre un giardino pensile, con piante rigogliose che producono ossigeno, contribuisce a migliorare l’aria e il microclima urbano. Sul tetto, un sistema di raccolta dell’acqua piovana ne permette il riutilizzo. Per la struttura sono stati impiegati materiali riciclabili ed eco-friendly, incarnando così a pieno il concetto di un uso consapevole delle risorse. Ma il verde al Salone del Mobile passa anche attraverso altre strade, si fa rizomatico e si accompagna al benessere, alla purezza e al nitore. Il colore fil rouge dell’appuntamento più importante del Salone 2017 è infatti il Bianco, con il progetto White in the city, curatore Giulio Cappellini, main sponsor Oikos, la grande azienda dell’imprenditore Claudio Balestri che, con base a Gatteo Mare, produce soluzioni cromomateriche, pitture e vernici per interni ed esterni caratterizzate da bellezza, innovazione, basso impatto ambientale e bellezza. Unica azienda italiana fra i vincitori del premio Sbid (Society British & International Design) Awards 2016 con la finitura Bronzo fuso, Oikos è stata definita l’eccellenza nel settore per il mix di innovazione sostenibile e artigianalità italiana, e per la capacità di interpretare il volere dei progettisti, realizzando off-site campioni su misura con
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DESIGN E LIFESTYLE
il suo reparto Ricerca&Sviluppo coordinato da Vicky Syriopoulou. Oikos produce, grazie a texture materiche uniche, 187 tipi di bianco differente. In White in The City queste centinaia di variazioni di bianco diventano un‘immensa metafora per progetti, dichiarazioni poetiche, visioni estetiche, oggetti attraverso la relazione con un numero straordinario di progettisti, artisti e creativi. White in The City coinvolge alcuni degli spazi più affascinanti del Quartiere Brera di Milano: Accademia di Belle Arti, Pinacoteca, Palazzo Cusani, l’ex chiesa di San Carpoforo e Class Editori Space, ognuno con una diversa visione e declinazione ma uniti in un unico percorso che segue il Bianco, pagina sulla quale potere scrivere tutte le più brillanti e sostenibili intuizioni per un futuro in chiave di ben-essere urbano, domestico, ma soprattutto esistenziale. Nello Spirituale nell’Arte Wassily Kandinsky diceva che «il bianco operava nella nostra anima come il silenzio assoluto, un silenzio non morto, traboccante di possibilità vive… un niente pieno di gioia giovanile o, per meglio dire, un niente antecedente alla nascita, antecedente all’inizio». Anche in White in the City il colore bianco diventa in realtà pensiero, a partire dalla dimensione simbolica di candore, tranquillità, pausa, sostenibilità, «diventando – secondo il concept di Claudio Balestri e Giulio Cappellini – non un punto di partenza ma un punto
di arrivo in grado di coinvolgere tutte le discipline di progetto, dall’architettura alle arti visive, dal design al fashion». Nel Bianco di White in The City rientrano tutte le aree socio-culturali legate all’essere, al vivere, all’abitare, al contemplare, all’operare una trasformazione. È infatti, simbolicamente, il colore dei riti di passaggio, dello spostamento da una condizione all’altra, di ciò che si evolve: i candidati di tutte le cerimonie di iniziazione erano e sono ancora vestiti di bianco. Così la Pinacoteca di Brera diventa il teatro per le azioni e i pensieri “bianchi” di alcuni protagonisti degli scenari dell’architettura internazionale con Whitearchitecture: Giulio Cappellini stesso, Stefano Boeri, David Chipperfield, Daniel Libeskind, Aires Mateus Asociados, Marco Piva, Patricia Urquiola, Studio Zaha Hadid. Palazzo Cusani ospita White Icons, le icone del bianco attraverso lo sguardo curatoriale di Giulio Cappellini, e Whiteonwhite, il bianco su bianco, ovvero l’essenzialità assoluta, il dialogo tra i mille tipi di bianco, la luce e i volumi in una narrazione ambientale progettata a più voci da alcuni dei profili più intensi del panorama internazionale, tra cui Jasper Morrison, Studio Mamo, 5+1AA, Alberto Apostoli, Studio Svetti, Vicky Sirioupoulou, Raffella Laezza, Studio Rotella, Caberlon Caroppi Italian Touch Architects. All’ex chiesa di San Carpoforo, il bianco diventa un’installazione, il Bianco Oikos, in cui una grande parete che con tasselli di diverse dimensioni diventa il tableaux vivant delle infinite trame e sfumature del bianco Oikos – colore del benessere, materia principe per la finitura di arredi eco-sostenibili creati da giovani designers, in una sorta di live action interno alla mostra. Poi c’è il Class editori Space, dedicato a giovani designer internazionali che affrontano il tema del bianco come ecosostenibilità con la mostra White Young, creando una serie di progetti innovativi e visionari, in una mostra che diventa luogo di incontro e dialogo tra sensibilità, storie, esperienze e creatività diverse. Infine, sempre sotto il segno del Bianco, nella mostra White Beyond Blank all’Accademia di Belle Arti di Brera nei Corridoi tra i Gessi del Canova e le volte dell’ex collegio dei Gesuiti, gli studenti danno una loro visione precisa del “futuro bianco”, simbolo materiale e immateriale del ben-essere, attraverso una mostra di opere, prototipi e installazioni.
In alto a sinistra: White beyond blank, mostra del progetto White in the City, Milano Design Week, 4-9 aprile 2017. In alto a destra: White young innovative, mostra del progetto White in the City, Milano Design Week, 4-9 aprile 2017. Al centro: White Picture, Philipp Berndt, Unsplash.com. In basso a sinistra: White Picture, Tim Wright, Unsplash.com. In basso a destra: White Picture, Joel Filipe, Unsplash.com.
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> Claude Monet, Le Bassin des nympheas, 1899, cm 92 × 73, New York, The Metropolitan Museum of Art.
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La mediazione culturale come ponte Intervista a Marisa Iannucci e Latifa Bouamoul sulla loro attività nella Casa circondariale di Ravenna di Marina Mannucci
ecc. Per quanto riguarda la deontologia di questa “nuova professione” è sempre più urgente che A partire dagli anni Novanta, i movivenga avviato un percorso di ricomenti migratori sempre più rilevanti e noscimento istituzionale del ruolo l’accentuata mobilità hanno elevato i e la definizione formale delle comtassi di intreccio interculturali, interpetenze. A livello nazionale, la nareligiosi e interlinguistici in tutte le scita di un tavolo di lavoro parti del mondo. Ai fini della coesione interregionale sul sistema di forDecisione n.1983/2006/CE sociale, premessa indispensabile per malizzazione e certificazione delle del Parlamento Europeo la realizzazione del programma di ricompetenze, nonché sugli stane del Consiglio del 18 dicembre 2006 forme previste dalla strategia di Lidard professionali, fa intuire che relativa all’anno europeo sbona dell’Unione Europea, grande qualcosa si sta muovendo, anche del dialogo interculturale, 2008 valenza assumono quelle persone, cose si è ancora lontani da un vero e munità e gruppi istituzionali che, conproprio riconoscimento istituziotribuendo a garantire pari opportunità e la non discriminazione, nale. La definizione di un profilo professionale giuridicamente forfavoriscono il dialogo, l’interscambio e l’interazione tra le diverse malizzato a livello nazionale è un’importante premessa per culture. Nelle migrazioni dei cittadini stranieri e nell’ambito delle garantire la necessaria credibilità a operatori che agiscono in setpolitiche locali d’integrazione sociale, la funzione “ponte” tra ditori delicati, a stretto contatto con target molto spesso socialmente verse culture, per la promozione e lo sviluppo del dialogo interculvulnerabili. Nel caso contrario, questa figura rischia di rimanere turale, è stata storicamente promossa e sviluppata dai mediatori ambigua, debole e poco chiara rispetto sia al proprio ruolo deoninterculturali. Si tratta, secondo la definizione formulata dal Cnel, tologico sia al proprio profilo contrattuale. La centralità posta sul Organismo di Coordinamento per le politiche di integrazione soconcetto di standard professionale, e un adeguato servizio di forciale degli stranieri, di un «agente attivo nel processo di integramalizzazione e certificazione delle competenze, consente quindi di zione» che si pone «fra gli stranieri e le istituzioni, i servizi pubblici intendere la qualifica non più come titolo formativo, bensì come tie le strutture private, senza sostituirsi né agli uni né alle altre, per tolo professionale formale. favorire invece il raccordo fra soggetti di culture diverse». Sul piano Sulle esperienze di mediazione all’interno della Casa Circondariale dell’agire, la mediazione è una prassi discorsiva, conciliatoria, asdi Ravenna, incontro le amiche Marisa Iannucci e Latifa Bouamoul, sertiva, che conduce dunque verso una situazione di equilibrio. Le rispettivamente Presidente e Vicepresidente dell’associazione Life capacità del mediatore sono legate all’ascolto, all’imparzialità e Onlus di Ravenna. alla neutralità. Tuttavia il mediatore, proprio per il semplice fatto Life è un’associazione di volontariato no profit apolitica e indipendente di essere in possesso di un sapere, di un saper fare e di un saper fondata nel 2000 a Ravenna da un gruppo di donne musulmane di essere, deve essere considerato, a ragione, un soggetto dotato di varia nazionalità che si occupa di tutela dei diritti umani, empowerpotere, poiché grazie al suo intervento certi rapporti sociali disement femminile, interventi in carcere a favore della popolazione deteguali possono subire un cambiamento. Il mediatore culturale è nuta, mediazione interculturale, prevenzione dei conflitti ed quindi un operatore sociale volto a facilitare la realizzazione delle educazione alle differenze, dialogo interreligioso e agisce contro ogni pari opportunità di accesso dei cittadini stranieri nei vari ambiti forma di razzismo e di discriminazioni (sull’attività di Life cui si veda il della società italiana. La sua opera aiuta a prevenire situazioni di mio articolo O sorelle, madri, figlie voi siete... la vita delle nazioni. Riconflitto e a intervenire in quelle in atto; contribuisce a combattere flessioni su Life, associazione di volontariato fondata da un gruppo di pregiudizi e a creare aperture solidali; favorisce il dialogo e individonne musulmane in “Trova Casa Premium“, n. 74, maggio 2012, pp. dua bisogni. I mediatori sviluppano la loro professionalità specia22-25). https:// issuu.com/reclam_ravenna/docs/tc_web_maglizzandosi in aree specifiche d’intervento: educativa-scolastica, gio_2012I sociale, della sicurezza e della giustizia, del lavoro, dell’emergenza Marisa Iannucci, presidente dell’associazione Life onlus, è titolare e della prima accoglienza, sanitaria, materno- infantile, psichiatrica dal 2015 dell’attestato di Promotore della salute in carcere, una
«I cittadini europei e tutti coloro che vivono nell’UE in modo temporaneo o permanente dovrebbero avere l’opportunità di partecipare al dialogo interculturale e realizzarsi pienamente in una società diversa, pluralista, solidale e dinamica, non soltanto in Europa, ma in tutto il mondo».
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SPAZI DELLA CULTURA
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A sinistra: Catering solidale multietnico dell’Associazione “Life”. Sopra: Immagine tratta da www.ilgiornale.it. Sotto: Immagine tratta da https://luciogiordano.wordpress.com.
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professionalità che si pone l’obiettivo di sviluppare maggiore equità nella tutela della salute delle persone recluse, attraverso un miglioramento della capacità di prendersi cura di sé e l’adozione di stili di vita salutari (alimentazione, attività fisica, no fumo, no alcool, superamento dell’approccio farmacologico). Latifa Bouamoul, è educatrice e mediatrice linguistica e interculturale in ambito sociale e sanitario. Lavora nei servizi sociali e sanitari dei Comuni di Ravenna e Forlì, e nell’ambito del progetto SPRAR Servizio di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati, è mediadrice presso l’infermeria del carcere di Ravenna dal 2006 e presso lo sportello sociale per i detenuti di Life Onlus., di cui è anche la vicepresidente. Vive a Forlimpopoli. Marisa Iannucci: «Svolgo un lavoro prettamente di volontariato all’interno del carcere; con Latifa siamo autorizzate a operare con i detenuti, e, oltre a noi, siamo riuscite a fare entrare altre quattro donne, sempre volontarie, che ci supportano in un lavoro di mediazione che sta avendo ottimi risultati. È molto importante che persone libere entrino in contatto con le persone che vivono recluse. Ovviamente è di fondamentale importanza la collaborazione con gli altri operatori penitenziari nell’ottica del lavoro d’équipe per sfruttare al meglio il potenziale dato dall’incontro di più saperi professionali, evitando cosi inutili sovrapposizioni e sprechi di energie. L’approccio metodologico della mediazione interculturale è basato sull’ascolto, la comprensione empatica, l’accettazione della legittimità del punto di vista dell’Altro. La gestione dei rap-
porti, l’azione di contenimento, la traduzione operativa dei regolamenti, la gestione delle dinamiche tra gruppi di detenuti, la costruzione di un sistema di relazioni tra operatori capaci di produrre effetti positivi nella comunicazione costituiscono l’ambito in cui si colloca il nostro ruolo e la funzione della nostra presenza anche come operatrici volontarie esperte nell’ambito migratorio. Oltre a proporre progetti culturali, organizziamo momenti di convivialità come il pranzo in occasione del Natale e due feste; una in occasione dell’Aid Al-Idha, la festa del sacrificio, conosciuta come la Pasqua dei musulmani e una in occasione dell’Aid al-fitr, che segue il Ramadan, la cena in rottura del digiuno. Le feste che organizziamo, come anche lo sportello di volontariato che seguiamo è rivolto a tutti i detenuti e, infatti, hanno sempre partecipato tutti, musulmani e non, e in questo senso non abbiamo mai avuto problemi. Per i momenti conviviali possiamo disporre di una sala accogliente nella quale, attraverso il convivio, le persone entrano in relazione e nascono vicinanze. Il fatto che ci siano donne con il velo che cercano di ricreare situazioni di normalità all’interno di un luogo di detenzione fa vacillare diversi luoghi comuni e le persone iniziano a
Catering solidale multietnico dell’Associazione “Life”. Da sinistra: Marisa Iannucci, Touria Rayhane e Latifa Bouamoul.
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vederci in un modo sempre piĂš lontano dal pregiudizio. Se si conosce poco del mondo carcerario e ancor meno della vita in carcere di tanti immigrati che vengono arrestati per scontare a volte anche pochi mesi di pena, non si conosce assolutamente nulla delle dinamiche religiose che si attivano in questi luoghi. Vorrei allora consigliare la lettura del libro L’Islam in carcere (Franco Angeli editore, 2010) di Mohammed Khalid Rhazzali, dottore di ricerca in Sociologia dei processi comunicativi e interculturali presso l’UniversitĂ di Padova nonchĂŠ professore a contratto di Sociologia dei diritti umani presso la stessa universitĂ e Docteur de recherche en Sociologie presso l’École de Hautes Etudes en Science Sociale di Parigi. Ăˆ un’indagine approfondita sull’esperienza religiosa dei giovani musulmani nelle prigioni del nostro paeseÂť. Latifa Bouamoul: ÂŤPartiamo da alcune premesse importanti che riguardano la Casa Circondariale di Ravenna. Mi riferisco al fatto che le persone vi transitano per periodi che possono variare dal qualche giorno a qualche anno; parliamo comunque di periodi sempre relativamente brevi e questo comporta un avvicendamento continuo di persone. Altri dati significativi sono il ridimensionamento del sovraffollamento e l’alleggerimento che ha portato con sĂŠ il passaggio di competenze dell’assistenza sanitaria alla popolazione detenuta dall’amministrazione penitenziaria al Servizio sanitario nazionale e ai Servizi sanitari regionali. Premesse necessarie che servono per avviare un’analisi sulla situazione piĂš generale dei detenuti immigrati, che comporta generalmente una condizione di grave svantaggio ed esclusione sociale e culturale. Sovente molti immigrati non capiscono perchĂŠ sono stati condannati. La gran maggioranza ha le famiglie all’estero; non fanno quindi colloqui e non hanno sempre la possibilitĂ di telefonare ai familiari. La mancanza di una rete di riferimento non favorisce il reinserimento all’uscita; la rete della microcriminalitĂ rischia, cosĂŹ, di rimanere l’unico contatto con il fuori. Esiste, inoltre, una seria difficoltĂ per gli immigrati di accesso alle misure alternative e ai diritti previsti dalla legge. La sostanziale complessitĂ del comprendere le culture di provenienza degli immigrati – lingua, codici culturali, dinamica interna alle diverse comunità –, nonchĂŠ l’ambivalenza e la molteplicitĂ interpretativa delle normative, sono spesso alla base di un amplificarsi della condizione di disagio e isolamento dei detenuti stranieri. All’interno di queste situazioni, il lavoro di mediazione culturale è indispensabile per costruire le condizioni per un effettivo lavoro di rete tra operatori del carcere e operatori del privato sociale e costruire un lento ma importante miglioramento per tutti della qualitĂ dello spazio-carcere, tenendo sempre ben presenti i vincoli e la rete di relazioni di tutti gli attori coinvolti nei luoghi di detenzione. Noi come Life siamo in carcere dal 2006 con uno sportello sociale in convenzione con l’Azienda Servizi alla Persona attraverso il quale io svolgo il mio ruolo di mediatrice culturale per i detenuti una volta la settimana. Con Marisa Iannucci facciamo parte del Tavolo Carcere del Piano di zona di Ravenna, che impegna enti e associazioni, sottoscrittori di un protocollo d’intesa volto al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione detenuta, allo studio e alla realizzazione di percorsi di reinserimento sociale e lavorativo. Anche noi abbiamo sottoscritto il nostro impegno per la salvaguardia della salute dei detenuti. Questo tipo di volontariato è molto particolare ma è quello cui teniamo di piĂš perchĂŠ la spinta personale è molto forteÂť.
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ABITARE L’HABITAT
Verso l'obiettivo
dell'accessibilità
urbana
Migliorare le condizioni di vita, non solo in termini di possesso di beni, ma di effettiva utilizzabilità degli stessi, significa abbattere ogni genere di “barriera architettoniche” di Marco Turchetti *
- gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di parti, attrezzature e componenti;
Per diverse e positive motivazioni di tipo culturale, socio-economico oltre che tecnico-progettuale, va delineandosi in questi ultimi anni ed in maniera sempre meno astratta e vaga, una nuova “disciplina” relativa alla progettazione ed alla riorganizzazione del territorio inteso nel senso più ampio del termine. Voglio alludere alla “accessibilità urbana”. Essa, in analogia a quanto già definito dalla legislazione vigente per ciò che riguarda gli edifici, rappresenta l’insieme delle caratteristiche spaziali, distributive ed organizzative regionali dell’ambiente costruito che siano in grado di consentire la fruizione agevole, in condizioni di adeguata sicurezza ed autonomia, dei luoghi e delle attrezzature della città, anche da parte delle persone con ridotte o impedite capacità motorie. Perciò, al fine di perseguire l’obiettivo di una “città accessibile” occorre provvedere alla successiva eliminazione delle barriere architettoniche, delle fonti di pericolo e delle cause di disagio o di affaticamento. Al proposito è opportuno fare riferimento alla definizione ufficiale di “barriera architettonica”.
- la mancanza di accorgimenti e segnalazioni che permettono l’orientamento e la riconoscibilità dei luoghi e delle fonti di pericolo per chiunque e in particolare per i non vedenti, per gli ipovedenti e per i sordi.
Per barriere architettoniche si intendono: - gli ostacoli fisici che siano fonte di disagio per la mobilità di chiunque ed in particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacita motoria ridotta o impedita in forma permanente o temporanea;
La definizione dimostra quanto si sia evoluto culturalmente questo termine rispetto alla legge italiana che lo introduceva per la prima volta (l. 118/71, art. 27). L’accessibilità urbana si sta sviluppando, anche se lentamente, come importante settore interdisciplinare, oltre che come movimento sociale interpersonale. A Ravenna, proprio recentemente, è stata presentata la bozza del Piano di accessibilità urbana. Sono stati inoltre presentati i servizi comunali rivolti alle persone con disabilità e alle loro famiglie, con una panoramica su appuntamenti già svoltisi in occasione della “Giornata internazionale della disabilità” e altri in programma in futuro. Per l’amministrazione comunale è stata un’occasione importante, per fare una sintesi in merito alle politiche e alle azioni da continuare a mettere in atto per dare a tutti i cittadini le stesse opportunità di inclusione nella vita sociale della comunità. Una sfida complessa che per essere vinta deve essere affrontata a partire da una strategia organica, con la collaborazione di tutti i soggetti coinvolti, a partire dalle associazioni che fanno parte del Tavolo delle
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disabilità e dalle istituzioni scolastiche. Quindi l’accessibilità urbana si ripromette di approfondire e sviluppare questo nascente ed importante filone concettuale ed applicativo, che peraltro ha ragguardevoli ricadute positive sulla effettiva operatività di qualsivoglia operazione progettuale che abbia per oggetto il territorio dell’uomo.
Gli obiettivi dell’accessibilità urbana Tra quelli prioritari che tale disciplina individua si evidenziano i seguenti: - elevare il comfort dello spazio urbano per tutti i cittadini eliminando o riducendo gli ostacoli, le barriere architettoniche, le fonti di pericolo e le situazioni di affaticamento o di disagio; queste ultime possono essere ad esempio, nell’ambito della città, il percorrere a piedi distanze eccessive, ovvero dover permanere in posizione eretta un certo periodo di tempo alle fermate dell’autobus; - aumentare la qualità della vita degli spazi urbani, intesa come rapporto tra le finalità che si intendono perseguire e la quantità delle energie psico-fisiche che si rendono necessarie per raggiungerle; - rendere più tangibile il concetto di uguaglianza intesa come raggiungimento di pari opportunità di scelte, indipendentemente dalle condizioni specifiche di svantaggio delle singole persone; - aumentare le possibilità di opzioni individuali mediante il potenziamento dell’autonomia personale; - tendere ad una più corretta ed intelligente utilizzazione delle energie psico-fisiche dell’uomo, inteso anche come risorsa.
Le modalità e le strategie d’intervento L’accessibilità urbana deve essere intesa come disciplina “trasversale” di supporto e di raccordo tra i vari filoni normativi e di settore attinenti qualsiasi azione progettuale per l’uomo. Deve cioè fornire i necessari input, relativi alle reali caratteristiche psico-fisiche delle persone anche tenendo conto delle possibili situazioni di svantaggio, a tutti coloro che si occupano di pianificazione, governo e ges-
Nella pagina a fianco: L’accessibilità rappresenta l'insieme delle caratteristiche spaziali, distributive ed organizzative dell'ambiente costruito che siano in grado di consentire la fruizione agevole, in condizioni di adeguata sicurezza ed autonomia, dei luoghi e delle attrezzature della città. Sopra: Obiettivo primario è rendere più tangibile il concetto di uguaglianza intesa come raggiungimento di pari opportunità di scelte, indipendentemente dalle condizioni specifiche di svantaggio delle singole persone. Sotto: Per tendere verso l'obiettivo della "città accessibile" occorre procedere con programmi organici e tra loro integrati cercando di agire in tal senso utilizzando ogni occasione e qualsiasi intervento edilizio da effettuarsi sull'esistente o di nuova realizzazione.
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ABITARE L’HABITAT tione del territorio e degli spazi urbani costruiti. Più in particolare essa deve costituire uno degli elementi di base per l’impostazione degli strumenti di pianificazione urbanistico-edilizia del territorio, di recupero del patrimonio immobiliare esistente, di restauro e riuso dei monumenti, di riorganizzazione ambientale. Inoltre deve fornire essenziali indirizzi nella predisposizione dei Piani urbani del traffico (Put) e delle sistemazioni di arredo urbano, dell’organizzazione dei sistemi di trasporto collettivo e delle attrezzature connesse, degli adeguamenti alle prescrizioni antincendio o antinfortunistiche, delle soluzioni di sistemazione e di arredo degli spazi interni. Per tendere verso l’obiettivo della “città accessibile” occorre procedere con programmi organici e tra loro integrati cercando di agire in tal senso utilizzando ogni occasione e qualsiasi intervento edilizio da effettuarsi sull’esistente o di nuova realizzazione. La somma di tanti singoli episodi, se sono riferiti ad un piano generale, sarà in grado, nei tempi medi e lunghi, di far verificare un sensibile miglioramento delle situazioni ambientali urbane e sul territorio sotto l’aspetto di cui si parla.
I benefici e le ricadute positive Le azioni per il perseguimento degli obiettivi sopraccennati porteranno benefici sensibili, in modo particolare, nei confronti delle cosiddette categorie svantaggiate, ma si otterranno anche evidenti ricadute positive per la generalità dei cittadini. Essi, infatti, potranno usare al meglio uno spazio urbano più confortevole e sicuro, ottenendo un conseguente potenziamento dell’autonomia personale e facilitando per tutti lo svolgimento delle attività desiderate. Tutto ciò, a maggior ragione, per coloro che, per differenti motivi ed in modo temporaneo o definitivo, si trovano in condizione di invalidità più o meno sensibile, nello spostarsi nell’ambito cittadino o nel compiere determinate azioni. Si renderà quindi possibile una più intelligente gestione delle energie psicofisiche disponibili di ciascuno, anche se limitate o “residue”.
Dall’alto, nell’ordine: Le barriere architettoniche non sono solo scale o dislivelli ma soprattutto la mancanza di accorgimenti e segnalazioni che permettono l'orientamento e la riconoscibilità dei luoghi e delle fonti di pericolo per chiunque. La redazione del Piano per l’Accessibilità Urbana è per l’amministrazione comunale un’occasione importante, per fare una sintesi in merito alle politiche e alle azioni da continuare a mettere in atto per dare a tutti i cittadini le stesse opportunità di inclusione nella vita sociale della comunità. L’accessibilità va interpretata come un, sistema diffuso e complesso per il comfort ambientale e per una mobilità agevole sul territorio. La città, può essere interpretata come specifico contesto ad alta complessità per la verifica delle condizioni alle quali le risorse presenti nel contesto sono effettivamente accessibili alle persone e per la sperimentazione di soluzioni volte a migliorare le condizioni di vita, non solo in termini di possesso di beni, ma di effettiva utilizzabilità degli stessi.
L’eliminazione delle barriere architettoniche e delle fonti di pericolo promuoverà anche un sensibile calo degli infortuni e degli incidenti che sono sempre da considerazioni danno economico e sociale oltre che, ovviamente un grosso problema personale. Inoltre potrà riscontrarsi un potenziamento della “partecipazione” dei cittadini ad ogni attività sociale, culturale, ricreativa, ecc., con maggiori entrate conseguenti per gli esercizi commerciali, ricettivi, del tempo libero. A livello più generale perciò, oltre che ridurre le condizioni di emarginazione delle categorie deboli, si renderà possibile elevare il numero delle persone in grado di svolgere un’attività produttiva e di relazione e quindi di trasformare soggetti “assistiti” in “contribuenti”, con sensibili vantaggi, a livello di macro-economia, per la collettività. Da quanto esposto risulta chiaro che l’accessibilità urbana non va intesa semplicemente come la risoluzione, in modo episodico e saltuario, di singoli elementi o porzioni dello spazio urbano rispetto ai quali vengano eliminate le barriere architettoniche. Al contrario essa va interpretata come un, sistema diffuso e complesso per il comfort ambientale e per una mobilità agevole sul territorio. L’accessibilità deve essere considerata come uno dei parametri di base anche per arrivare a specifiche invenzioni dello spazio costruito e/o dell’organizzazione del servizio da cui far discendere le soluzioni tecniche e gli approfondimenti progettuali. Tutto ciò, pertanto, e cosa ben diversa dalla mera verifica o adeguamento ad astratte norme dimensionali, “a posteriori” di quanto già progettato o addirittura già costruito. *[Progettare Sostenibile - Ravenna] info@progettaresostenibile.com
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2017: confermati i bonus fiscali per le proprietà immobiliari
Dalle ristrutturazioni agli interventi antisisma, dagli ecoincentivi ad elettrodomestici e mobili di Roberta Bezzi
Attorno al pianeta casa ruotano diverse tipologie di incentivazione fiscale che è bene tenere a mente qualora si decida di apportare migliorie o fare acquisti. La legge di stabilità, approvata l’11 dicembre 2016, prevede – in sintesi – detrazioni per chi vuole ristrutturare la propria abitazione (50 per cento), fare dei lavori di miglioramento dell’efficienza energetica (65 per cento) e acquistare mobili e grandi elettrodomestici (50 per cento). Sono previsti inoltre incentivi fino all’85 per cento per chi decide di intraprendere interventi antisismici.
BONUS RISTRUTTURAZIONI È prevista una proroga delle detrazioni Irpef del 50 per cento per chi esegue lavori di ristrutturazione edilizia entro il 31 dicembre 2017. Si applica fino a un tetto di spesa massimo di 96mila euro, coprendo per esempio interventi di manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo. Rientrano all’interno del bonus anche i lavori necessari per la ricostruzione o il ripristino di un immobile danneggiato a seguito di una calamità, a condizione ‘che sia stato dichiarato lo stato di emergenza’. L’agevolazione riguarda le persone fisiche e gli immobili residenziali, e sono detraibili anche le opere di manutenzione delle parti comuni. Il rimborso non riguarderà solo le spese strettamente connesse alla fase esecutiva ma ricomprenderanno anche gli eventuali materiali acquistati. I pagamenti relativi alle spese dei lavori, dovranno avvenire
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IMMOBILI E NORMATIVE
a mezzo bonifico o assegno. Metodi tracciabili, quindi. Mentre le fatture relative dovranno riportare nella causale una dicitura che specifichi la natura dei lavori eseguiti. Il rimborso è spalmato su dieci anni che riconoscerà una detrazione massima di 200 mila euro di spese.
ECO BONUS Sono previste detrazioni al 65 per cento su lavori di riqualificazione energetica degli edifici (per esempio, sostituzione degli impianti di climatizzazione invernale, installazione di pannelli solari, etc.), fino al 31 dicembre 2017. È previsto un tetto di spesa agevolabile che cambia a seconda dell’entità dei lavori effettuati. Quindi per le singole abitazioni si ha diritto a un bonus del 65 per cento, mentre si potrà salire - e questa è una novità della manovra 2017 – al 70 se l’intervento interessa ‘almeno il 25 per cento dell’involucro edilizio’ come nel caso in cui si decida di dotare lo stabile del cosiddetto ‘cappotto termico’ e al 75 per cento quando l’intervento porti al miglioramento della prestazione energetica non solo invernale ma anche estiva. Questi incentivi, nel caso interessino parti comuni degli edifici condominiali o tutte le unità immobiliari dello stabile, saranno validi per gli anni di imposta dal 2017 al 2021 per un massimo di 40mila euro all’anno per abitazione.
BONUS MOBILI Sono state prorogate fino al 31 dicembre 2017 anche le agevolazioni fiscali correlate all’acquisto di nuovi mobili o grandi elettrodomestici per la propria abitazione. Per queste spese, si avrà diritto
a una detrazione fiscale del 50 per cento per un massimo di 10mila euro, a patto che l’ammodernamento avvenga in parallelo ai lavori di ristrutturazione iniziati a partire dall’1 gennaio 2016. Per quanto riguarda gli elettrodomestici ci si potrà avvalere del bonus solo acquistando apparecchiature di classe energetica non inferiore alla A+ (solo per i forni è ammessa la classe A) e per le quali è prevista l’etichetta energetica. Mentre tra gli arredi sono previsti: letti, armadi, cassettiere, librerie, scrivanie, tavoli, sedie, comodini, divani, poltrone, credenze, ma anche materassi e apparecchi di illuminazione. A differenza dell’anno scorso, il bonus mobili non prevede specifiche agevolazioni per i giovani, che quindi potranno godere delle detrazioni solo nei casi elencati in precedenza. I metodi di pagamento possibile sono sempre gli stessi ovvero strumenti e forme che consentano una tracciabilità: bancomat, bonifici, assegni. È importante che il negoziante da cui si acquista, inserisca nella fattura il riferimento normativo al bonus mobili. Senza questa dicitura infatti, non si potrà utilizzate l’acquisto per ottenere le detrazioni fiscali.
SISMA BONUS Alla luce del recente grave terremoto che ha colpito – nell’agosto 2016 – il Centro Italia, anche nel 2017, sono previste delle detrazioni che arriveranno fino all’85 per cento in caso di miglioramenti considerevoli della classe di rischio. In base alla categoria antisismica raggiunta dopo l’intervento, infatti, si avrà diritto al 50, 70 o all’80 per cento per le singole abitazioni e al 50, 75, 85 per cento per i condomini. L’incentivo sarà valido per gli interventi realizzati dal primo gennaio 2017 fino al 31 dicembre 2021, e coprirà una spesa massima di 96mila euro, che verrà rimborsata in cinque anni.
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