n. 115 LUGLIO-AGOSTO 2017
Editore Reclam Edizioni & Comunicazione srl . viale della Lirica 43 . 48124 Ravenna . Iscrizione al Tribunale di Ravenna n. 1240 del 8/11/2004 . Redazione 0544.271068 . redazione@trovacasa.ra.it . Pubblicità 0544.408312 . info@trovacasa.ra.it . ISSN 2499-2550
CASA PREMIUM .
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n.115 LUGLIO-AGOSTO 2017
BELLA CASA • CASA ICONOLOGIA E STORIA • CITTÀ • ABITAREE VIAGGIATORI TERRITORIO • DESIGN EILLIFESTYLE • CITTÀ E SOCIETÀ •
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contenuti
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casa bella casa
storia e territorio
La “casa al mare” nelle raffinate suggestioni dell’interior designer Stefania Sanna _____________________________________________________
La contea di Giaggiolo, antico avamposto ravennate fra Bidente e Savio _____________________________________________________ di Pietro Barberini
iconologia e storia
città e viaggiatori
abitare il territorio
idee e progetti
Il viaggio del destino: i labrinti della mitologia, quelli dell’anima e il mistero del Minotauro ________________________________________________ di Cetty Muscolino e Federica Cavani
Vedi Ravenna e poi muori. “Commiato” finale __________________________________________________ di Alberto Giorgio Cassani
Il mondo delle fragole di Lucilla. Una famiglia in campo fra ricerca e innovazione __________________________________________________ di Chiara Bissi
Radici e contemporaneità. L’esperienza di Francisco Barata e Adalberto Dìas in mostra a Ravenna __________________________________________________________
design e lifestyle
locali e design
città e società
di Domenico Mollura
Nuovi Turismi per nuove Tribù Come Dioniso regola la nostra esperienza di viaggio ________________________________________________________ di Sabina Ghinassi
Mangiare e bere fra qualità e comfort: Enogastronomia Fricandò ed Enoteca Pisacane _______________________________________________________________ di Roberta Bezzi
L’Etica del turismo. Intervista a Corrado Del Bò ________________________________________________________________ di Marina Mannucci
abitare l’habitat
Il tesoro dei beni culturali. È necessario adeguare l’offerta turistica alle aspettative del visitatore ___________________________________________________________ di Marco Turchetti
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di Paolo Bolzani
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edizione di Ravenna
Controcopertina
Ecco il lieve fascino di due appartamenti in un'unica villetta a Marina di Ravenna, ideali per le vacanze. Per personalizzarli la padrona di casa ha chiesto l’intervento dell'interior designer Stefania Sanna che si è ispirata ai cromatismi tenui e al tipico immaginario della “casa al mare”, utilizzando anche curiosi oggetti "trovati” rifunzionalizzati per l’occasione non solo sul piano decorativo.
Autorizzazione Tribunale di Ravenna n. 1240 del 8 novembre 2004 Direttore responsabile: Fausto Piazza Consulenza redazionale: Paolo Bolzani Collaborano alla redazione: Pietro Barberini, Roberta Bezzi, Chiara Bissi, Alberto Giorgio Cassani, Federica Cavani, Serena Garzanti (segreteria), Maria Cristina Giovannini (grafica), Sabina Ghinassi, Marina Mannucci, Domenico Mollura, Cetty Muscolino, Guido Sani, Serena Simoni, Marco Turchetti. Progetto grafico: Quadrastudio - www.quadrastudio.info Restyling grafico: Gianluca Achilli Referenze fotografiche: Alberto Giorgio Cassani, Pietro Barberini, Paolo Genovesi, Barbara Gnisci, Maurizio Montanari, Fabrizio Zani (e altre citazioni in pagina). Redazione: tel. 0544.271068 - redazione@trovacasa.ra.it
Editore:
Edizioni e Comunicazione srl
viale della Lirica 43 - 48124 Ravenna - tel. 0544.408312 info@reclam.ra.it - www.reclam.ra.it Direttore generale: Claudia Cuppi Stampa: Grafiche Baroncini - Imola - www.grafichebaroncini.it
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CASA BELLA CASA
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mare
La casa al secondo la versione di
Stefania Sanna L’interior designer imolese all’opera con gusto in due piccole case a Marina di Ravenna di Paolo Bolzani
L’intervento consiste nella calibrata collocazione di oggetti significanti, che ci riportano all’immaginario tradizionale della casa al mare (vele, granchi, stelle marine, pesci, nidi di uccelli marini), all’uso dei colori tenui, al recupero di oggetti d’uso in chiave simbolica-decorativa
«Luglio si veste di novembre se non arrivi tu», recita la nota canzone di Riccardo del Turco, vincitrice di “Un disco per l’estate” edizione 1968. In questo caso il “tu” si trova «in riva al mare» e quindi come non andare a Marina di Ravenna, città “marinara” reduce da uno spettacolare processo di rivalorizzazione, sovente accompagnato da una significativa densificazione del costruito all’interno dei lotti. Sembra quasi di prefigurare quello che potrebbe accadere prossimamente in tutte le città della regione con il divieto di consumo del territorio in misura più marcata di quanto già accaduto in alcune zone del centro, mentre ora invece i comparti urbani più suscettibili di intervento, per sismica, energetica e potenzialità edificatoria, sono quelli eretti negli anni Cinquanta e successivi. Entriamo perciò in una casa costruita nel 1961, attraversiamo un sottoportico da cui si accede ad una piccola corticella, su cui si affaccia un fabbricato con il proprio lato minore ovest, per la metà nord trattato a faccia vista e per la metà sud rivestito di doghe bianche in legno. Alle due metà corrispondono altrettanti piccoli appartamenti, ricavati dal riuso del volume di un fabbricato di servizio degli anni Sessanta. Il faccia vista è in realtà l’esito di un recupero del 2000, il rivestimento a doghe segue un intervento dell’inizio dei nostri anni Dieci. Quindi si tratta di due mezze case, separate da un lungo muro di spina centrale, anche se il colmo si trova a metà del tetto sud. L’articolazione funzionale segue la classica disposizione con zona giorno al piano terra e zona notte (camera da letto matrimoniale con bagno) al piano superiore. Per personalizzarle la padrona di casa ha chiesto l’intervento di Stefania Sanna, Interior Designer già vista all’opera in questa rivista nell’illustrazione della sua casa-studio in centro a Imola (“Casa Premium” 102, novdic. 2015).
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CASA BELLA CASA
Ecco apparire il tono acqua marina, in cui la rassicurante presenza del verde chiaro si unisce alla lieve spiritualità venata dalla gaia spensieratezza dell’azzurro polvere del cielo; lo troviamo nella poltrona anni Cinquanta della seconda casa, che si incarica di centralizzare l’arredo nella zona living
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CASA BELLA CASA
L’intervento consiste nella calibrata collocazione di oggetti significanti, che ci riportano all’immaginario tradizionale della casa al mare (vele, granchi, stelle marine, pesci, nidi di uccelli marini), all’uso dei colori tenui che vanno dall’acqua marina all’azzurro cenere, al bianco. Nel primo caso sono integrati dal recupero di oggetti d’uso in chiave simbolica-decorativa, come la vecchia finestra posta a controllo della scala che conduce alla camera da letto, vegliata da un simpaticissimo armadio, rivestito di scuretti multicolori, mentre l’effetto-soffitta è stemperato dal pavimento in listoni di rovere sbiancato. Qua e là gli ambienti sono lumeggiati da grosse lampade in ottone dal sapore inequivocabilmente nautico. Scendendo al piano terra entriamo in cucina-pranzo, in cui la dop-
pia funzione è immediatamente segnalata dall’assenza di un tavolo, sostituito da un piano in legno a penisola per pranzo e preparazione vivande, rafforzata anche dal fatto che in estate si preferisce pranzare e cenare fuori, in questo caso nel giardino finemente erboso della corticella. Il “circolo della vita” è invece chiaramente indicato dalla gaia invasione di una serie di grandi giochi per i piccoli bimbi della famiglia, asserragliati accanto al piantone della penisola ma pronti a dar assalto ai movimenti degli adulti alla prima occasione. Passando nel secondo appartamento, dopo aver dato un’occhiata alla piscina coperta al piano terra di un secondo fabbricato attiguo, ecco apparire l’aura di «Luglio» nel verde acqua marina, in cui la rassicurante presenza del verde chiaro si unisce
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Un prodotto artigianale, frutto di oltre mezzo secolo di storia legata al filo della passione. Ilia e Stefano Facco
alla lieve spiritualità venata da gaia spensieratezza dell’azzurro polvere del cielo. Lo troviamo ben applicato nella tappezzeria della poltrona anni Cinquanta, che si incarica di centralizzare l’arredo nella zona living lumeggiata dalla grande finestra del vano a tutta altezza. In questo compito si accompagna con sovrana eleganza all’accogliente divano rivestito di tessuto leggero bianco e all’algida piantana di Karman, con paraluce finemente tessuto su tono bianco, ma soprattutto ad una serie di oggetti a reazione semantico-emotiva, posti su un mobiletto lievemente ruotato per facilitare la lettura unitaria della composizione: una piccola scultura in acciaio raffigurante una barca con le vele dispiegate al vento, una piatta scultura-sogliola e una lucerna porta candele azzurre, dal
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CASA BELLA CASA
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Posti su un mobiletto lievemente ruotato ecco una piccola scultura in acciaio raffigurante una barca con le vele dispiegate al vento, una piatta scultura-sogliola e una lucerna porta candele azzurre, dal tono vagamente shabby chic, con fianchi traforati da grandi ancore marine con cordame
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CASA BELLA CASA tono vagamente shabby, con fianchi traforati da grandi ancore marine con cordame. Stiamo muovendoci nuovamente su un parquet in listoni di rovere sbiancato, all’interno di uno spazio bianco, alto e stretto, con tetto in travi e assito ugualmente sbiancato, da cui parte la scala che conduce alla zona notte. Per stemperarne l’effetto, Sanna e la padrona di casa hanno pensato bene di collocare in mezzo alla parete un riequilibratore visivo, costituito da quello che sembra un vecchio asse di lavoro, dietro il quale si cela una luce che dà profondità alla parete di fondale mentre integra il flusso luminoso del tecnologico corpo sospeso al colmo del tetto. In realtà l’asse, scovata a Sesto Imolese, risulta vagamente misteriosa, quasi apotropaica, in quanto se ne ignora la funzione e le si attribuiscono molteplici interpretazioni semantiche. La sua forma allungata verso l’alto e la peculiarità della foratura omogenea da cui trapela la luce retrostante, insieme all’uso del legno a vista, lo trasformano purtuttavia in un elemento “necessario”, sui cui si catalizza l’attenzione dell’ospite. Ma non saremmo corretti nella descrizione di questo piccolo appartamento arredato con gusto, se non partissimo dagli eventi di forma che dall’ingresso ci accolgono in processione. Cominciamo dal piccolo tavolino, in ferro con piano in legno, sedie in ferro colore azzurro acqua marina. È drappeggiato da una stola, di colore coordinato, su cui è ospitato un nido a forma di cuore in legno con “uova” a doppia coppia di piccole coppe “azulejos” e bianche all’interno. Spostando lo sguardo alla parete che si sviluppa sotto la scala, osserviamo la partenza della cucina, omaggiata dalla presenza confortante di un granchio colore acqua marina su cornice in legno, mentre nei suoi pressi in fila indiana si allineano saliera e zuccheriera in porcellana. Reinterpretando con ironia il tema della casa al mare, ecco il disegno di Stefania Sanna unire la fragranza materica dell’abete spazzolato e quella del marmo Trani, i simpatici manici a forma di pesce agli “oblò” dei pensili, protetti da una rete metallica di derivazione agreste, mentre accanto al piano cottura ad induzione con bollitore, diligentemente prendono posto la teiera con tazze e la macchinetta del caffè. Salendo alla zona notte scopriamo nuovamente il gusto shabby per la materia âgé nella finitura dell’armadio, questa volta ottenuta dalla sovrapposizione di lamelle lignee incollate e verniciate di un tono bianco ad effetto gesso.
> Crediti Intervento di recupero di alcuni fabbricati di servizio e loro trasformazione in residenze Marina di Ravenna • Sede: Direzione e progetto degli arredi: • Interior Designer Stefania Sanna, Imola Falegnameria: • DM Srl, Via Colombarotto, 9 - Imola (BO) di recupero: • Pezzi Ditta Mariani di Sesto Imolese La Fabbrica del Verde, via Buozzi 2, Lescate (MI)
• Lampade: Ditta Karman srl, S. Martino Del Piano, Fossombrone (PU) • Marmi: IMA Marmi, Castelbolognese • Tappezzerie: Tappezzerie di Facco Stefano, Pinzolo (TN) • Fotografie: Ermete Corrivi
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STORIA E TERRITORIO
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Giaggiolo
La contea di antico avamposto ravennate fra Bidente e Savio Itinerari sui sentieri e le strade traverse della storia. I pedaggi perduti di Paolo Malatesta
«I percorsi più naturali, utilizzati quasi istintivamente fin dai primordi della civilizzazione, sono quelli di crinale: a partire dal crinale appenninico, vero e proprio spartiacque fra la Romagna e la Toscana, che rappresenta uno dei tratti più significativi della dorsale che si distende da nord a sud lungo l’intera penisola. Questo percorso, utilizzato già in età paleolitica, è stato per millenni la più importante via di comunicazione per le popolazioni che migravano da una regione all’altra dell’Italia. E in epoca storica se ne sono certamente serviti i pastori che dalle aree montane romagnole portavano le greggi a svernare in Maremma; o i boscaioli che a dorso di mulo trasportavano il legname fino ai passi montani, e da qui ai centri abitati di fondovalle». Giordano Conti in Identità e territorio. La Romagna, Bononia University Press, Bologna 2016
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Il paesaggio, aspro e selvaggio fra crinali e calanchi.
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di Pietro Barberini Le memorie di transiti e spostamenti umani, nell’Appennino romagnolo, si perdono nella notte dei tempi. Alcuni sentieri si consolidano e già nell’ultimo millennio prima di Cristo, ai tracciati che corrono sui crinali si affiancano itinerari di vallata, non meno impegnativi per i continui passaggi sugli affluenti che scendono al fiume principale da seguire ai suoi lati, ora sulla sinistra orografica, ora sulla destra. Tutti questi percorsi scendono a “pettine” verso la pianura e là dove incontrano la pista pedemontana, dal II sec. a. C. la via Emilia, costituiscono i principali nuclei d’insediamento territoriale. Si sviluppano così, i siti di Curva Caesena (Cesena), Forum Populi (Forlimpopoli), Forum Livii (Forlì), Faventia (Faenza) e Forum Cornelii (Imola). Queste città assumono tutte funzioni di coordinamento anche rispetto al territorio pianeggiante che viene colonizzato e appoderato, attraverso un’intensa attività di trasformazione e bonifica chiamata “centuriazione romana”. Gli assi centuriali, prima del 187 a.C. (anno di costruzione della consolare Emilia), sono orientati ad caelum poi, a partire dall’Agro Forlivese verso ovest vengono impostati sull’asse della grande strada romana, che corre da est-sud est a ovest-nord ovest. Il paesaggio romagnolo appare diviso in due parti: l’Appennino montuoso e collinare e la pianura, che un intenso lavoro dell’uomo ha privato del bosco, sostituito da una fascia agricola, coltivata in prevalenza a cereali, che si spinge verso i ristagni acquidosi a ridosso del litorale. Affacciandosi al colle Garampo, dove ora si erge la Rocca Malatestiana di Cesena, o sull’altro “promontorio” occupato da Bertinoro, un viaggiatore dell’epoca di Cesare avrebbe potuto ammirare i segni della potenza di Roma nella divisione territoriale, con la poderosa strada che corre verso la Gallia a marcare un confine geografico, facile da identificare anche oggi. In quello schema, l’impianto antropico realizzato con la colonizzazione romana, era ben più ordinato e facile da controllare rispetto agli itinerari transappenninici di crinale e di vallata, che consolidavano primordiali transumanze e cammini dall’Italia centrale alla Pianura Padana. I più antichi percorsi di crinale, in posizione elevata, che scendono verso la pianura, solitari e discosti dai fondovalle soggetti a frequenti controlli e pedaggi, tornano in auge nel Medioevo. Dalla Toscana alla Romagna, ci si sposta caricando merci a dorso di mulo, utilizzando più l’asino, umile e frugale rispetto al cavallo, potente ma meno a suo agio su questi sentieri accidentati. La conformazione di questo territorio ha favorito la diffusione di piccoli centri di coordinamento, affidati a famiglie nobiliari, titolari di feudi che accrescono il loro potere schierandosi, ora con la Chiesa, ora con l’Imperatore. A movimentare questo quadro politico capace di repentini cambiamenti, continua la forza dell’Arcivescovo di Ravenna, che non accenna a declinare neppure con l’inizio del secondo millennio. I mercanti e i pochi viaggiatori si spostavano utilizzando itinerari tortuosi, al fine di passare per “terre amiche” e cercando di evitare cattivi incontri ed esose gabelle. Anche le più importanti famiglie nobiliari dovevano fare i conti con questa realtà, impostando, per viaggi e spostamenti, un “ruolino di marcia” adeguato. Favori e regalie a volte permettevano di ottenere vantaggi e veloci “lasciapassare”. Ad ogni buon conto, era meglio transitare attraverso i propri “posti di blocco”:, torri e castelli situati in luoghi strategici, alti sui crinali e sulle selle, lontano dai borghi di fondovalle: dove c’era più traffico, i viandanti quasi sempre, camminavano senza some e senza somme! Abbondavano nelle città trattorie e locande con stallatico, attorno ai loggiati si aggiravano prostitute e ladri pronti a saltare addosso a quelle prede esauste per i disagi del viaggio. L’Arcivescovo di Ravenna che spinge i suoi presidi verso la dorsale appenninica romagnola anche dopo l’anno Mille, controlla abbazie, torri e castelli. Uno di questi, si erge solitario fra le valli del fiume Bidente e del torrente Borello, sopra una cresta che si allunga stretta fra due acque minori che ne scavano i fianchi: è il castello di Giaggiolo.
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STORIA E TERRITORIO
Sopra: scendendo dal crinale appenninico, il passaggio dal castello di Giaggiolo è “obbligato” anche oggi! Sotto: La Rocca di Giaggiolo si erge possente a 500 metri di quota sul livello del mare. Nella pagina a fianco, il grande bastione ottagonale e la piccola chiesa parrocchiale. Nella foto piccola l’interno della parrocchiale S. Maria Nuova in Giaggiolo, che appartiene alla Diocesi di Cesena – Sarsina.
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Giaggiolo vigilava sui traffici, alto su un crinale a poca distanza da Pieve di Rivoschio, che si trova sull’impervia strada di collegamento trasversale fra Civitella e Piavola, sul torrente Borello che porta alla vallata del Savio. Il toponimo Giaggiolo, molto probabilmente indica una derivazione da “gaggio”, nel senso diminutivo dal longobardo “gagi”: siepe. Passa poi al latino medievale ”gahagium”, terreno circondato da siepe. Così il Polloni, in Toponomastica Romagnola, (Firenze 1966). L’esistenza del fortilizio è documentata fin dal 1021, quando gli Arcivescovi di Ravenna, che ne detenevano la proprietà, lo affidarono a cinque fratelli ravennati, figli del nobile Rodolfo da Sigio. Dopo vari passaggi la contea di Giaggiolo fu concessa in feudo a Malatesta da Verucchio, il “Mastin vecchio” di dantesca memoria. Malatesta investì del titolo comitale il secondogenito Paolo, reso immortale con Francesca da Polenta nel V Canto della Divina Commedia. Siamo nella seconda metà del XIII sec. e la facile rendita dell’imponente torre può avere acceso l’ira del fratello Gianciotto più della gelosia nei confronti della moglie Francesca. In una moderna visione processuale il delitto potrebbe avere avuto anche risvolti economici, ma lasciamo questa suggestione ai viaggiatori che oggi si inerpicano quassù. Il luogo, infatti, appare del tutto fuori dagli itinerari turistici, segno tangibile del passare del tempo. Nel 1371 il cardinale Anglic de Grimoard riporta di un Castrum Glagioli che comprendeva la rocca e il palazzo, con 26 focolari. Nel 1471, estinto il ramo maschile dei Malatesta, il castello passa ai conti, poi marchesi Guidi di Bagno che utilizzarono il maniero come residenza estiva. Inizia così la decadenza, come descrive mirabilmente Mons. Domenico Mambrini negli anni Trenta del Novecento: «Del castello rimane, in gran parte, intatta nel suo perimetro, la cinta alta e ferrigna. Questo rudero imponentissimo che di lontano sembra una grande nave abbandonata su uno scoglio fra le onde, in un mare immenso di valli contorte e di montagne altissime, affascina e conquide per le grandi memorie che rievoca, per i misteri che nasconde». (Mambrini D., 1935)
Alla ricerca della villa di Teodorico Per ulteriori approfondimenti, si può visitare il Museo Civico Mambrini a Galeata in via Borgo Pianetto presso il rinascimentale convento dei Padri Minori. Il museo si è arricchito nel corso degli anni di materiali provenienti dai siti archeologici galeatesi (città romana di Mevaniola e villa di Teodorico), dall’abbazia di S. Ellero e dalle chiese del territorio. Contatti: tel.0543 981854 – mail: museomambrini@libero.it
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STORIA E TERRITORIO
> La castagna di Pieve di Rivoschio e la razza romagnola... I ricordi echeggiano ancora dei ritmi dei “Camaleonti” Le ondulate e dolci asprezze del territorio si mescolano nei nomi: Pian di Spino, Giaggiolo, Voltre, Ranchio e Pieve di Rivoschio. Quest’ultima località, appartenente al Comune di Sarsina, è nota per la produzione di castagne e la sagra dedicata a questo frutto si tiene ogni anno la terza domenica di ottobre.
Poco distante dall’azienda dei Minotti c’è quella di Luca De Ceglie, figlio del batterista dei Camaleonti, che nei favolosi anni Sessanta, quando il popolare complesso suonava nei locali della Riviera, era venuto sotto la Rocca di Paolo Malatesta e si era innamorato della magia del luogo. Luca De Ceglie ha lasciato così Milano e si è trasferito quassù, dove, si dice, che rudi gabellieri taglieggiassero i viaggiatori; adesso, invece, li aspettano per la festa di Giaggiolo che si tiene tutti gli anni la seconda domenica di settembre.
Da quassù, molti abitanti sono scesi verso le località di bassa collina e le città di pianura, lasciando ampie vallate ai voli di tanti falchi in caccia. Non lontano dal castello di Giaggiolo, Colombo Minotti, con la moglie Celeste e le figlie Giovanna e Olga, conduce con passione e tenacia, un allevamento di bovini di razza romagnola; una ventina di fattrici e vitelli che danno una delle carni bovine italiane più pregiate. L’azienda di quasi cinquanta ettari, produce grano e foraggio ad una quota mai inferiore ai 420 metri di altezza. C’è anche un piccolo vigneto con alcune piante vecchie che danno un bel rosso, di buon profumo, asciutto e poco tannico.
Sopra: Olga, ultima delle tre sorelle Minotti, alla specializzazione come orafa ottenuta con la maturità artistica, ha preferito le mucche di razza romagnola. In basso a sinistra: i terreni dell’azienda danno da mangiare non solo a vacche e vitelli ma anche a numerose galline ruspanti. In basso a destra la stalla dell’azienda di Colombo Minotti. Tutte le foto del servizio sono di Pietro Barberini
Su questi crinali manca l’acqua e fin dai tempi antichi il bene prezioso veniva conservato nella cisterna del castello che tuttora viene utilizzata da Hera come deposito collegato all’invaso di Ridracoli: è la stessa acqua che Traiano portò a Ravenna nel 112 a.C. Chi volesse conferma chieda, fra Meldola e Cusercoli, come viene chiamato il fiume Bidente ed otterrà questa risposta: “Acquedotto”!.
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NEL CUORE DELLA ROMAGNA ALLE PORTE DELL’APPENNINO Coltiviamo, raccogliamo e cuciniamo i prodotti della terra per condividere il piacere della genuinità
LA FILOSOFIA Katia, Cristian cugini e amici, uniti dalle nostre passioni: turismo, arte, enogastronomia, equitazione e attività all'aria aperta. Le nostre proposte culinarie derivano dalla tradizione contadina, dal recupero di antiche ricette e dai ricordi della nostra infanzia. Le camere dell'agriturismo ampie e confortevoli sono ideali punti di appoggio per un week end stimolante e a contatto con la natura.
LE ATTIVITÀ Pernottamento e colazione, ristorante, degustazioni prodotti tipici, passeggiate a cavallo,trekking, eventi.
I CAVALLI
L’AGRITURISMO
IL RISTORANTE
LE STANZE
Lo staff organizza passeggiate e trekking a cavallo nell’appennino tosco-romagnolo, battesimi della sella e corsi di avvicinamento a cavallo.
Un luogo immerso nella notura incontaminata, nel silenzio delle splendide colline romagnole. Riscopri te stesso nella nostra oasi di pace.
Alla ricerca delle antiche ricette contadine, i sapori di un tempo, quelli semplici e genuini, mediante l’utilizzo dei prodotti della nostra azienda agricola e dei nostri territori.
Camere d’autore realizzate e decorate da artisti romagnoli che hanno sprigionato la loro fantasia arredandole nello stile e nel design, immerse nel verde e dotate di ogni comfort.
Coordinate geografiche
44.002639 - 11.933292
AGRITURISMO CAMPO ROSSO Strada comunale di Buggiana, 146 Civitella di Romagna (FC) Tel. 380 5142609 - info@agriturismocamporosso.com
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ICONOLOGIA E STORIA
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Il viaggio del destino I labrinti della mitologia, quelli dell’anima e il mistero del Minotauro di Cetty Muscolino Il labirinto classico, pur nelle sue diverse forme, quello cretese a sette circonvoluzioni, quello romano ad angoli retti e suddiviso in quartieri, quello cristiano a undici spire, esprime un forte sentimento di disagio e spaesamento e da sempre ha affascinato l’uomo perché racchiude in un’unica immagine un tema di risonanza universale. Alcune fonti letterarie fanno intendere che il labirinto fosse un edificio di pietra degno di ammirazione progettato da Dedalo, capostipite di tutti gli architetti. «Minosse comanda che tolgasi quella vergogna [il minotauro]/ dal nuziale suo letto e si chiuda negli andirivieni/ di tenebroso edificio, tra cieche muraglie. Quest’opra/ Dedalo fece, famoso architetto di mente ingegnosa:/ ne scompigliò tutti i segni traendo lo sguardo in errore/ per giravolte tortuose di molte mutabili vie./ Come il Meandro di Frigia scherzando tra l’onde fluenti/ scorre ora avanti ora indietro con giri e rigiri e tornando/ verso sé guarda la propria corrente che vienegli incontro;/ e alla sorgente talora, talora si volta all’aperto/ mar, dubbioso del corso: così quell’artefice sommo/ empì di giri ingannevoli l’innumerabili strade./ A malapena lui stesso potè ritrovare l’uscita, / tanto l’intrico ingannava».1 Secondo altre interpretazioni la forma originaria in cui si manifestò l’idea del labirinto è probabilmente una danza apprestata a Cnosso da Dedalo per Arianna dai riccioli belli, come descrive Omero parlando dello scudo di Achille. Questa danza, veniva eseguita anche a Delo da Teseo insieme a giovani fanciulli che si tenevano per mano: il movimento ritmico, con evoluzioni e deviazioni continue, imitava gli andirivieni e i giri di un labirinto. «Si dice che un tempo nella nobile Creta/ il labirinto tra oscure pareti chiudesse un cammino/ tortuoso e intricato tra mille diverticoli,/ sì che fosse impossibile andare diritti alla meta;/ con eguali volute i figli dei Troiani/ intrecciano i passi, tessono per gioco fughe e battaglie/ come delfini che scherzano per la distesa marina/ fendendo le acque di Scarpanto e di Libia./ Ascanio, mentre cingeva le mura di Alba Longa,/ rinnovò questo tipo di corsa e gara/ e li insegnò ai prischi Latini nell’identico modo/ in cui lui giovinetto l’aveva praticato/ insieme ai giovani Teucri: gli Albani a loro volta/ lo insegnarono ai propri ragazzi: la grande Roma/ l’ebbe da loro e mantenne la tradizione; sicchè/ ancora oggi quel gioco è detto Troia e la schiera/ dei fanciulli a cavallo è detta la schiera troiana».2 La danza rituale del labirinto, denominata Troiae lusus, veniva praticata in circostanze speciali, quali la fondazione di una città o le onoranze funebri. Attraverso il movimento pendolare e il continuo mutamento della direzione di marcia da sinistra ( morte, perché in senso contrario all’apparente moto del sole) a destra (direzione della vita) si creavano delle mura protettive dagli spiriti cattivi che, non ci potrei giurare, volano solo in linea retta. Il labirinto traccia quindi una netta demarcazione fra mondo interno ed esterno e di conseguenza per il suo potere protettivo è uno dei segni apotropaici più antichi e simbolo di iniziazione.
A sinistra: Villard de Honnecourt, Labirinto di Chartres e animali, 1232, disegno su pergamena, Parigi, Biblioteca Nazionale Sopra: Pablo Picasso, Minotauro che beve, 1958, olio su tela, Collezione privata.
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ICONOLOGIA E STORIA Anche sul portale del Tempio di Apollo a Cuma, Dedalo aveva rappresentato un labirinto che Enea osserva con grande attenzione e percorre mentalmente. Ma che dire del Minotauro, generato da un orrendo connubio, infelice e incolpevole inquilino della mirabile architettura? «Tutto è sempre assolutamente interessante e per questo le mie notti sono intense come i miei giorni. Un continuo fluire, scorrere, scivolare, saltare, girovagare come in un labirinto senza un Minotauro in agguato, perché il Minotauro sono io e le tante frecce infisse nel mio corpo hanno appesantito il mio passo e la mia anima».3 La storia del Minotauro è un mysterium tremendum, mirum, admirandum, fascinans, è il mistero del diverso, inspiegato e incompreso. «Qudo est illud quod interlucet mihi et percutit cor meum sine laesione? Et inhorresco et inardesco. Inhorresco in quantum dissimilis ei sum. Inardesco, in quantum similis ei sum».4 Il Minotauro è immagine e proiezione della nostra duplice natura, umana e bestiale, dell’interiore coesistenza di ragione e istinto e del grande conflitto per riuscire ad armonizzare le nostre parti. Noi, in definitiva, siamo il Minotauro, ma nello stesso tempo siamo anche il vittorioso e solare Teseo che, affrontando l’oscurità, esce dal labirinto e riconquista la luce. E allora diamo inizio alle danze. Affrontiamo questo viaggio, certamente sconsigliato dalle agenzie turistiche, ma che con ogni probabilità è inevitabile!
Note ______________________ 1
Ovidio, Metamorfosi, vv.157-168
2
Virgilio, Eneide, vv.578-603
3 Cetty Muscolino, Perfide e cattive, 2015, Edizioni del Girasole 4
Agostino, Confessioni, II, 9,I
Sopra: George Frederic Watts, Il minotauro, 1896, olio su tela, Londra, Tate Gallery. In basso: Edward-Burne-Jones, Teseo e il Minotauro nel labirinto, 1861, Birmingham Museum and Art Gallery.
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dentro il labirinto perdersi per poi ritrovarsi Intricati percorsi simbolici fra artificio e natura di Federica Cavani
Utilizzato in diverse culture fin dall’antichità come elemento simbolico, il labirinto, inteso come viaggio dell’anima verso la salvezza, acquisì una valenza prevalentemente cristiana nel Medioevo per poi essere utilizzato a partire dal tardo Rinascimento all’interno dei giardini come frutto del “desiderio della psiche di perdersi per poi ritrovarsi”. Tra il XVI e il XVIII secolo alcune delle dimore signorili più prestigiose d’Europa si arricchirono di verdi labirinti, da un lato frutto del desiderio dell’uomo di controllare la natura al fine di creare un ambiente gradevole e armonioso, dall’altro luogo di piacere, gioia e intrattenimento. Tutti gli elementi che vivono e crescono nel giardino possono essere controllati, coltivati, potati, tagliati, piegati e intrecciati, sfrondati o lasciati volutamente crescere in maniera selvatica, così come il labirinto può essere concepito consapevolmente come luogo dalle molteplici valenze simboliche, positive o negative, da elemento prodigioso a spaventoso, da percorso obbligato a struttura multicursale con molte vie, bivi e vicoli ciechi. L’opus topiarium, l’arte romana del giardinaggio ornamentale, che consisteva anche nella moda di ritoccare piante sempreverdi dando loro forme insolite, come scene di caccia o flotte di navi, fece la sua ricomparsa nel Medioevo quando si iniziò a potare a strati alberi e arbusti. Nei giardini di villa Rucellai a Quaracchi, vicino a Firenze,
A sinistra: i giardini di villa Rucellai a Quaracchi, Firenze, 1820. A destra il giardino storico di Barbarigo a Valsanzibio, Padova.
sfere, portici, templi, vasi, urne, scimmie, buoi, orsi e giganti si susseguivano senza soluzione di continuità. È così che nei giardini formali o all’italiana di epoca rinascimentale e barocca si iniziarono a realizzare, accanto a sculture vegetali di varia forma, articolati disegni geometrici ottenuti con filari alberati e siepi di bosso, rosmarino, lauro che ben si addicevano anche nella creazione di vasti labirinti, come quelli dei giardini di Villa d’Este o di Versailles. Qui nella seconda metà del XVII secolo, nella reggia reale di Luigi XIV, su consiglio di Charles Perrault venne completato e abbellito un precedente labirinto con l’inserimento di trentanove fontane e gruppi scultorei che rappresentavano le favole di Esopo. Fu nella Francia del XVII-XVIII secolo che si perfezionò l’arte della potatura: chilometri di bosso nano o milioni di carpini piantati a siepe o piante dall’aspetto spettacolare a foggia di colonnati, palizzate e archi diventarono elementi essenziali per la creazione di splendidi “angoli di quiete e pace”. A tal fine vennero pubblicati veri e propri prontuari che dessero ai giardinieri suggerimenti per creare il proprio paradiso, plasmando e controllando la natura e prediligendo alcune piante come il bosso, l’albero, diffuso in chiostri e giardini, che meglio si presta alla costruzione di labirinti. Amato dai giardinieri perché facile da modellare in siepi e bordure, ma anche in sculture fantasiose, il Buxus sempervirens dalle foglie piccole e rotonde, fitte e lucenti, che si rinnovano continuamente, cresce molto lentamente così come dovrebbe essere l’intercedere di chi entro il labirinto percorre il cammino mistico della perfettibilità umana. Un emblematico esempio è costituito dal labirinto lungo un chilometro e mezzo e costituito da circa seimila piante di bosso che si trova nel giardino storico di Barbarigo a Valsanzibio nel padovano, disegnato nel XVII secolo da Luigi Bernini. Fu così che in Toscana a pochi chilometri da Firenze venne realizzato nella seconda metà del Cinquecento attorno alla villa medi-
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ICONOLOGIA E STORIA
cea della Petraia, rifugio fuori porta della famiglia Medici, uno spettacolare giardino nel tipico stile all’italiana. Si devono al cardinale Ferdinando le modifiche più consistenti dell’edificio che da palagio trecentesco si trasformò in una fastosa villa signorile. Tra i primi e più importanti cambiamenti voluti dal nuovo proprietario, ci fu la trasformazione dei giardini circostanti che erano pietrosi, da cui il nome di Petraia, in rigogliosi terrazzamenti sovrapposti, ai quali lavorò anche Jehan Boulogne detto il Giambologna. Qui fu realizzato anche un delizioso e ben articolato labirinto vegetale di siepi di bosso. Un altro esempio di giardino di epoca tardo barocca mirabilmente organizzato è quello di villa Garzoni a Collodi. La prima notizia della villa risale al 1633 e al marchese Romano di Alessandro Garzoni che probabilmente fu anche il primo architetto del giardino, nel 1652 già delineato nelle forme attuali. Un secolo prima veniva descritto assieme al labirinto nell’opera poetica Le pompe di Collodi di F. Sbarra. A Stra, lungo il fiume Brenta, fra Venezia e Padova, si trova la nota villa Pisani appartenuta all’omonima famiglia, che la fece realizzare dal famoso poeta architetto Girolamo Fringimelica nella prima metà del XVIII secolo. Oltre alla villa, l’architetto progettò il giardino, dove è possibile ammirare uno dei pochi labirinti europei sopravvissuti nell’impianto originale settecentesco: nove cerchi concentrici costituiti da siepi di bosso, che sostituirono nel corso dell’Ottocento quelle di carpini, con al centro una torretta dotata di doppia scala esterna elicoidale che funge da “guida” per quanti incautamente vi si avventurino. Si tratta di un percorso multicursale nel quale accesso e uscita coincidono e la cui irregolarità e le cui pareti curve, tutte uguali, portano il visitatore allo smarrimento. Concepito essenzialmente per scopi ludici, come un labirinto d’amore in cui perdersi per poi ritrovare la giusta via e ottenere l’agognato premio, si racconta che al tempo dei Dogi e delle commedie goldoniane sulla torretta centrale, sotto una pergola che si trovava al posto della statua attuale, una fanciulla attendesse colui che per primo fosse riuscito a raggiungerne il centro. Lo stesso Gabriele D’Annunzio nel Fuoco, lo ricorda quando Perdita Foscarina, entrata nel labirinto con il suo amante Stelio, si smarrisce: «Composto da un giardiniere ingegnoso, per il diletto delle dame e dei cicisbei nel tempo dei calcagnini e dei guardinfanti». Uno dei labirinti più misteriosi è quello del giardino di palazzo Giusti a Verona, descritto da Charles de Brosses nelle sue Lettere dall’Italia del 1740. Nella grotta, il cui ingresso è sovrastato da un grande e diabolico mascherone con le fauci spalancate, dalle quali il conte Giusti, per impressionare i suoi ospiti, faceva uscire lingue di
A sinistra: i giardini di Villa d’Este, 1560-1575. A destra il giardino-labirinto di Borges, Isola di San Giorgio, Venezia.
fuoco, un gioco di specchi e un’eco di voci e di scrosciare d’acqua confondeva il visitatore, il quale una volta uscito incontrava altre grotte e un piccolo labirinto in bosso dal tracciato complicato che inevitabilmente finiva per disorientare i visitatori. L’attuale labirinto disegnato nel 1786 dall’architetto veronese Luigi Trezza, che ha modificato, semplificandolo, l’antico percorso, occupa l’area di quello originario cinquecentesco, fatto costruire da Agostino Giusti. Anche il labirinto di siepi del parco di Masino a Caravino nel torinese, seppur ricostruito in tempi recenti utilizzando mille metri di siepi realizzate come in passato e duemila piante di carpini tagliati con estrema regolarità e precisione, ricostruisce scrupolosamente il disegno del labirinto settecentesco, la cui documentazione è stata recuperata negli archivi storici. A conferma del fascino da sempre esercitato da questa mitica struttura sono alcune realizzazioni recentissime come la ricostruzione del giardino-labirinto di Borges avvenuta in occasione dei venticinque anni dalla morte di Jorge Francisco Isodoro Luis Borges. Progettato dall’architetto inglese Randoll Coate (1909-2005) in onore dello scrittore argentino è stato realizzato nell’isola veneziana di San Giorgio Maggiore. Ispirato al racconto de Il giardino dei sentieri che si biforcano (1941) il labirinto si presenta come un libro aperto lungo il quale si incontrano oggetti e simboli cari allo scrittore. Il labirinto della Masone progettato e realizzato a partire dal duemila dall’editore Franco Maria Ricci nella sua tenuta nei pressi di Fontanellato, in provincia di Parma, è il più grande labirinto esistente, composto interamente da circa duecentomila piante di bambù, di varia altezza, tra i trenta centimetri e i quindici metri, appartenenti a venti specie diverse. Si tratta ancora una volta di un percorso in cui inoltrarsi e perdersi, luogo carico di simbolismo, ideale per riflettere e allo stesso tempo fantasticare.
Bibliografia _______________________________________ P. de Bay, J. Bolton, Giardino mania, Milano, 2001. F. M. Ricci, Labirinti, 2013.
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CITTÀ E VIAGGIATORI di Alberto Giorgio Cassani
Il viaggiatore che arriva a Ravenna in treno probabilmente non lo nota; ma chi riparte dalla città non può non vederlo. Si tratta di un sarcofago messo in vetrina in fondo al sottopasso della stazione ferroviaria. Un po’ malconcio, a dire la verità, a testimoniare che perfino ciò che dovrebbe durare il più a lungo possibile, a futura memoria, è soggetto al tempus edax rerum. Anche il rivestimento in marmo delle pareti del tunnel, a ben riflettere, contribuisce a questa dimensione funebre. Non ci sono in loco indicazioni di alcun tipo sull’origine del reperto, ma sappiamo che fu recuperato durante i lavori di realizzazione del sottopassaggio della stazione.1 L’area che va dalla chiesa di San Giovanni Evangelista fino al Candiano era interessata, infatti, da una vasta necropoli. Il sarcofago è databile alla fine del VI secolo e appartiene al gruppo di quelli provenienti, prefabbricati, dalla costa croata e in particolare dalle cave dell’isola di Brač.2 Esso è attualmente incorniciato da un largo bordo di mosaico (di tipo industriale) a ricordare, per chi non lo sapesse, che Ravenna ne è (o ne era) la Capitale. Perché tutto ciò? Chi ha letto il mio articolo Eppur si muore. Yves Bonnefoy e i sepolcri di Ravenna (“Casa Premium”, n. 109, ottobre 2016, pp. 30-33) ne comprende chiaramente il messaggio. A Ravenna, come ha scritto il grande poeta francese, da poco scomparso, tutto respira di morte (nonostante quest’ultima ci parli, paradossalmente, dell’immortalità della natura che, continuamente, rinasce a ogni primavera). Il viaggiatore che riparte, dunque, porta con sé un preciso messaggio:
“Memento mori”, “Ricordati che devi morire”. Lo sappiamo tutti, certo, anche se cerchiamo giustamente di dimenticarlo. Ma la nostra città ce lo rammenta in modo perentorio, mettendo ogni viaggiatore di fronte al fatto che qualunque viaggio ha un termine. Che almeno sia un buon viaggio, lontano dagli assalti dei briganti.
Nelle pagine di apertura: sarcofago in vetrina nel sottopasso della stazione ferroviaria di Ravenna. Foto dell’autore. Qui in basso: Bartolomeo Pinelli, Viaggiatori assaliti dai briganti, 1917, acquerello su carta, cm 25 × 32, ubicazione sconosciuta (Vienna, casa d’asta Dorotheum).
Note_____________________________________________ 1. Cfr. Singolare scoperta alla Stazione ferroviaria di Ravenna: un sarcofago ariano sotto le rotaie, in “Il Resto del Carlino”, 6 maggio 1976. 2. Devo tutte queste notizie, come pure il rimando della nota 1, alla gentilezza di Paola Novara che me le ha volute anticipare rispetto al suo articolo, in corso di stampa, che tratterà ampiamente dell’argomento, dal titolo: Limestone sarcophagi’s trade from Brac’s island quarries. New evidences from Ravenna and Northen Adriatic, in Atti del convegno Transformations of Adriatic Europe. 2nd-9th c., Zadar , 11th-13th February 2016.
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Il mondo delle fragole di
Lucilla
Una famiglia in campo fra ricerca e innovazione per la Geoplant vivai di Savarna
di Chiara Bissi I terreni sabbiosi hanno a lungo rappresentato una maledizione per molti proprietari, una presenza considerata un incubo per tanti coltivatori, ma non per chi ha fatto della ricerca e dell’innovazione la propria ancora di salvezza e la chiave di un successo duraturo. Con 25 – 30 milioni di piante di fragole e 700 – 800 mila piante da frutto vendute all’anno la Geoplant di Savarna dimostra che anche da un apparente disvalore può crescere un’impresa. Lucilla Danesi rappresenta con la sorella Priscilla la seconda generazione di una famiglia che ha cambiato il proprio modo di fare vivaismo introducendo modalità innovative e tanta tanta ricerca. Nel territorio ravennate vocato a colture estensive e cerealicole non mancano esperienze diverse, che incidono sul paesaggio e sfuggono alle condizioni estreme in cui versa la produzione e vendita di frutta. Le piante da frutto non sono più intese come un bene di consumo ma di investimento e diventano oggetto di studio. Solo la qualità e il miglioramento della struttura e della morfologia possono garantire reddito a chi le coltiverà.
A sinistra, in alto, fragole del tipo “Asia”. In basso: Adriana Siboni (socio fondatore), Priscilla e Lucilla Danesi, socie dell'azienda. In questa pagina, alcune immagini dei vivai sperimentali.
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ABITARE IL TERRITORIO
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Le piante da frutto non sono più intese come un bene di consumo ma di investimento e diventano oggetto di studio e di ricerca. Solo la qualità e il miglioramento della struttura e della morfologia possono garantire reddito a chi le coltiverà
Anche la fragola, il frutto amato a tutte le età, apprezzato fresco o trasformato in confetture e sciroppi, vanta numerose varietà ed è soggetto se non alle mode di certo a mutevoli canoni estetici. Cresciuta tra le fragole, Lucilla, 38 anni da compiere, ha fatto studi classici, laureandosi in storia dell’arte, e da 12 anni si occupa nella società di famiglia di mercati internazionali e di logistica. «Sapevo che il mio destino sarebbe stato qui, fin da bambina ho imparato i ritmi dettati dal vivaio, a 4 anni seguivo mia madre a Cesena per le consegne, conoscevo clienti e fornitori. Ora vendiamo piante in tutta Europa e licenze in Cina e Canada. Ho portato in azienda la parte creativa e relazionale, curo i clienti esteri, viaggio e partecipo a simposi internazionali». Da 40 anni nel vivaismo da azienda individuale, la Geoplant vivai è diventata una società. E Lucilla racconta con semplicità e consapevolezza un’avventura imprenditoriale unica in Romagna. «Nel 1992 i miei genitori Secondo e Adriana di fronte a una concorrenza fortissima da parte di aziende ferraresi nel mercato del nord Italia e in presenza di una sempre minor capacità di solvenza dei mercati del sud Italia, capirono che senza una svolta innovativa in poco tempo sarebbero stati costretti a chiudere. Così arrivò la scelta di impegnare risorse e tempo nel breeding cioè la ricerca sulle piante, le ibridazioni, gli incroci, le selezioni, per approdare a nuove varietà. Basti sapere che per una nuova varietà servono 7 – 8 anni per le fragole, 10 per il pero e anche 20 per il pesco. Abbiamo avviato nel tempo campi di ricerca, dove selezioniamo e studiamo le nuove varietà. Questa attività è stata fondamentale per farci conoscere e allargare il nostro bacino di utenza. Oggi mia sorella Priscilla è responsabile amministrativo e abbiamo tre soci. Ma se penso a certo realtà europee siamo un’azienda media. In Italia c’è un’altra azienda ferrarese simile a noi. Il nostro obiettivo è crescere consolidarci ma non in maniera repentina». Anni di ricerca che hanno permesso la nascita di varietà precoci come le fragole Alba (in onore della nonna paterna) o la fragola Aura; oppure di Tea che piace particolarmente in Francia. E poi Olimpia dal colore rosso brillante e tante rifiorenti sempre dai nomi femminili in onore della formazione classica di Lucilla. Molte le varietà anche negli alberi da frutto come Febe pesca nettarina e di Gea che ha molto successo in Cile. Tante le varietà proprie o prodotte di su licenza di melo, pesco, pero, ciliegio, albicocco, susino, kiwi, cachi. Nei campi sperimentali inoltre vengono valutate selezioni avanzate e varietà provenienti da istituti di ricerca esteri ed italiani. «Oltre alle nostre piante vendiamo licenze a livello europeo, chi acquista paga le royalty sulle piante. I criteri di selezione per le nostre varietà vanno dall’elevato grado zuccherino, alla produttività che
Coltivazioni in serra e a cielo aperto.
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ABITARE IL TERRITORIO deve garantire la copertura dei costi, all’epidermide del frutto resistente, quindi il sapore e la resistenza. Non meno importante l’attrattività del frutto. Le selezioni sono mirate alle preferenze dei mercati nazionali. In Belgio per esempio la fragole deve essere cuoriforme, in Francia il frutto è più piccolo e a cono corto, solitamente invece piace a cono allungato. Anche il colore cambia da paese a paese. Più spesso è richiesto un rosso brillante ma chiaro, per l’industria invece occorrono frutti scuri, consistenti e dolcissimi. I nostri mercati si espandono fino in Ungheria, Polonia, Romania, Ucraina, Russia, lavoriamo in Serbia, Francia, Spagna, Germania, Olanda. Abbiamo campi di ricerca a Borgo Masotti, e poi coltiviamo le nostre varietà a Madriole, Sant’Alberto, Lido di Dante e Fosso Ghiaia. Cerchiamo terreni sabbiosi ma con acqua dolce perché è più facile il processo di estirpazione per la vendita delle piante. Il 65% della nostra produzione di piante di fragole avviene in Italia, anche nel veronese, ma coltiviamo anche all’estero, in Spagna. Mettiamo a dimora piante madri poi inizia processo di certificazione, l’estirpazione avviene tra metà dicembre febbraio. De- sabbiate e confezionate consegniamo le fragole dalla fine di gennaio a settembre, perché ogni paese ha le sue esigenze. In futuro vorrei occuparmi di piccoli frutti come il lampone, chissà. Per ora facciamo ciò che ci riesce meglio».
Altre immagini dei terreni coltivati a vivaio della Geoplant di Savarna. Nella foto in basso la fragola del tipo “Roxana”.
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IDEE E PROGETTI
In alto: a sinistra il Dipartimento di Ingegneria Meccanica, Università di Aveiro, 1997. Il fronte Sud, protetto dalla muratura in mattoni, lascia alla luce la sola asola orizzontale in sommità (foto Luis Ferreira Alves). In alto a destra la Residenza per Studenti, Università di Aveiro, 2011. I volumi si ripetono, unificati dalla linea orizzontale della copertura. In primo piano due cavalli che, involontariamente, richiamano un dialogo di Tavora e Siza – ricordato dall’architetto Gattamorta – nel quale il primo precisa al secondo che il progetto di architettura è come un cavallo selvatico sul quale non bisogna saltare in sella prima di averlo addomesticato (foto Fernando Guerra). Nella foto centrale: Funicolare dos Guindais, 2001; sotto a sinistra, nello schizzo la sezione di uno dei tratti in galleria che assume la forma bombata tipica delle bottiglie del vino Porto (habitarportugal.org). In basso a sinistra: Ponte do Infante, attraversamento stradale del Fiume Douro, Porto, 1997 (plastico del concorso). Edificio per abitazioni Masarellos, Porto, 1989/95. Il grande fronte urbano aperto sulla città.
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Radici e contemporaneità. L’esperienza di Francisco Barata e Adalberto Dìas in mostra a Ravenna di Domenico Mollura
Il Dipartimento di Architettura dell’Università di Bologna torna a Ravenna con la mostra Francisco Barata – Adalberto Dias. Architetture, organizzata presso Palazzo Rasponi con la collaborazione dell’Ordine degli Architetti di Ravenna e il Comune di Ravenna. La conferenza di presentazione, dal titolo Costruire luoghi, è stata l’occasione per riprendere quella sinergia tra l’Amministrazione comunale e l’Università di Bologna – come ha affermato Elsa Signorino, assessore comunale alla Cultura –, concretizzata in anni recenti nella rassegna “Architettura a Ravenna”, che vedeva nell’Urban Center di via Cavour il suo fulcro. Quella esperienza riprende vita seguendo nuovi percorsi con l’obiettivo di perseguire nuovi risultati. Le sfide urbane che si pone l’Amministrazione comunale, su tutte la riprogettazione della
Zona del Silenzio in vista del settimo centenario dantesco sono importanti e «necessitano – prosegue Signorino – di apporti ampi e di respiro internazionale», per questo lo scambio culturale con l’ateneo bolognese e il suo Corso di Laurea in Architettura di Cesena può rappresentare un nuovo inizio. La mostra, inoltre, è colta per celebrare il 30° anniversario della fondazione dall’Ordine degli Architetti di Ravenna che ha sempre visto nella forma dell’esposizione – ha precisato Gioia Gattamorta, nell’ultimo atto ufficiale da Presidente, prima della nomina delle cariche del nuovo consiglio – per avvicinare il cittadino ai temi del progetto e della città, rendendolo maggiormente consapevole. La stessa esperienza dei due progettisti portoghesi si allinea all’idea del mestiere dell’architetto come bene comune, sintesi di cultura ed etica e rappresenta,
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IDEE E PROGETTI
forse, quello che l’architettura italiana poteva essere ma non è stata, mancando a quella tradizione invece conservata nella Scuola di Porto, di mescolare le radici con la contemporaneità. Antonio Esposito, tra i curatori della mostra insieme a Jacopo Gasparo, Elena Mucelli e Andrea Ugolini, ha tracciato un breve profilo dei due progettisti, docenti alla Facoltà di Porto – una tra le più importanti al mondo – e entrambi visiting professors nel 2015 nel corso di progettazione del 3° anno a Cesena. Dias e Barata hanno attraversato le stesse tensioni sociali, politiche e culturali del Portogallo degli ultimi 40 anni, condividendo la stessa esperienza formativa, lo stesso approccio programmatico, che non si basa esclusivamente sul dialogo tra committente e progettista ma si allarga alla città e al suo sapere collettivo, iniziando a lavorare con i due indiscussi Maestri
dell’Architettura lusitana, Fernando Tavora (Barata) e Alvaro Siza (Dias). «Tutto ha inizio con una linea che rappresenta, senza preconcetti – esordisce Dias – l’idea progettuale per la quale anche l’ultima linea (che non è mai l’ultima) può avere la forza di aggiungere, ridefinire, dare peso ad un segno che deve farsi materia». I concetti chiave sono adattamento, equilibrio tra luogo e progetto, dove il secondo è gesto di continuità con il primo dal quale deve trarre anche una profonda atemporalità. Numerose le tipologie presentate da Dias: il recupero di un mulino, il Dipartimento di Ingegneria Meccanica (Aveiro) dove il mattone diventa unità di misura lasciando alle diverse tonalità di rosso e alle irregolarità dell’elemento costruttivo tradizionale, il compito di scongiurare una meccanica ripetizione; il volume puro si stem-
In alto a sinistra: Castello di Santa Maria da Feira, 1990-2001. Particolare dell’ascensore ricavato all’interno delle intercapedini di una delle torri, con una delle pareti interne in vetro che lascia vedere la muratura in pietra. In alto a destra: uno scorcio del Dipartimento di Ingegneria Meccanica (Università di Aveiro). Il fronte Nord diventa traslucido grazie alla lunga parete vetrata che illumina i laboratori. In basso: Patio San Miguel, Evora, 2013. Lo spazio del patio recuperato e incorniciato dagli edifici storici ricondotti ad una lontana unità di linguaggio, grazie al bianco brillante dei fronti.
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pera nei fronti, chiudendosi a Sud e lasciando ampie aperture a Nord. Nel progetto per un Campus da 500 posti espande il modello del Dipartimento. Il modulo abitativo standard è stato realizzato a scala naturale, testato e condiviso con le associazioni studentesche e la stessa Università di Aveiro. Il progetto di riqualificazione di una delle rive del Fiume Douro, che corre nella città di Porto, diviene lo spunto per confrontarsi con il paesaggio fluviale e l’accesso urbano alla seconda città più importante del Portogallo. Il nuovo ponte in progetto raccorda due strade esistenti in un’ampia curva che al contempo distingue il nuovo attraversamento del Douro dai due ponti storci esistenti. L’opera non viene realizzata e a compensazione di quell’incarico, a Dias viene affidato il compito di riqualificare, nell’ambito degli interventi legati a Porto Capitale Europea della Cultura, la nuova funicolare per il collegamento dello stesso Douro con la parte alte di Porto, dove i tratti in galleria riprendono nella sezione la sagoma tipica del vino Porto. Francisco Barata ha voluto portare il racconto di un metodo, esemplificato con tre sole opere ma frutto di un lungo percorso a tappe capaci ognuna di lasciare una profonda traccia. Scorrono per prime, infatti, le immagini del passato, dei maestri, delle letture e dei luoghi. Allo stesso modo ogni progetto – in particolare sul costruito – non è altro che l’ultimo capitolo (ma non il definitivo) di una lunga storia.
Quadriportico di Braccioforte e la tomba dell'Alighieri nella Zona Dantesca di Ravenna detta anche “del silenzio”. Un’area centrale della città che il Comune ha intenzione di riprogettare in occasione del settimo centenario della morte di Dante (2021): «...interventi importanti che necessitano di apporti ampi e di respiro internazionale» (Elsa Signorino, assessore comunale alla cultura).
Questo punto di vista è certamente uno di quelli che maggiormente di discosta dall’idea di conservazione tesa al solo mantenimento dello stato materiale di un edificio. Il grande edificio per abitazioni (di tipo popolare) Massarellos a Porto pone a Barata due ordini di problemi: la riduzione dei costi dell’opera e la necessità – data la lunghezza imponente del fronte del vecchio edificio da recuperare – di mimetizzarsi con il paesaggio urbano. La scelta del bianco e il richiamo al linguaggio dell’edilizia abitativa della tradizione risolvono l’inserimento contestuale, mentre la verifica delle diverse possibili situazioni abitative ha permesso di individuare più di una tipologia da distribuire in funzione degli affacci e delle giaciture del grande lotto. Con i due progetti di recupero del Castello di Santa Maria da Feira e del Patio di San Miguel Barata affronta il tempa del recupero e delle funzionalizzazione di due monumenti studiandone lo stato di fatto ma soprattutto ogni passaggio che ne ha determinato la trasformazione, al fine di recuperare non solo il linguaggio materiale ma anche quello compositivo individuando i più ampi margini operativi possibili. Al termine della conferenza i due progettisti hanno espresso il loro originale punto di vista sul ruolo dell’architetto e dell’architettura nella nostra epoca. «L’architetto è in via di estinzione – provoca Dias – come creatore di spazi poetici. La rete, l’eccesso di norme, la mancanza di committenti illuminati, lo relegano ad un esecutore dotato di firma. L’unico, piccolo (e raro), spazio ancora aperto all’architettura è rappresentato dalla volontà politica e amministrativa di dotare le città di spazi di qualità». In sintonia la posizione di Barata che avverte il declino del ruolo sociale dell’architetto evidenziando, numeri alla mano, come l’eccesso stesso del numero delle figure professionali e la divaricazione con lo studio della tecnologia siano forse elemento acceleratore di questa tendenza: in Portogallo esistevano “solo” 6 scuole di architettura divise su tre città. Oggi le scuole sono diventate 20 per una popolazione di 10 milioni di abitanti.
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Nuovi turismi per nuove Tribù Come Dioniso regola la nostra esperienza di viaggio. Dalla ricerca delle “nuove rovine” all'inseguimento dell'arte di strada, dai raduni neofolk ai cammini della spiritualità millenaria di Sabina Ghinassi
Il turismo è l’ambito d’eccellenza di quello che il filosofo francese Michel Maffesoli ha definito il neotribalesimo postmoderno. Le nuove tribù contemporanee non hanno un fine da raggiungere, non si riconoscono in un progetto – economico, politico o sociale – da realizzare: la loro sola ragion d’essere è il «desiderio di un presente vissuto collettivamente». L’obiettivo che dirige questi nuovi gruppi postmoderni, è la «conquista del Presente», la «ricerca di una vita quotidiana più edonistica, […] meno finalizzata, meno determinata dal “dover-essere” e dal lavoro», la quale «porta a sperimentare dei nuovi modi di essere», nei quali anche le microazioni condivise come la passeggiata, la partita alla playstation, il concerto della band preferita, l’apericena al lounge bar o anche il tramonto sulla spiaggia in mezzo ai gabbiani, purché vissuti insieme, occupano un ruolo importantissimo: diventano rituali. A differenza delle tribù primitive, quindi, queste neotribù possono essere puntuali ed effimere: ciò che le muove è il semplice desiderio di “essere insieme”. «[…] il tenersi caldo, il sostenersi a vicenda, lo stringersi agli altri», il sentirsi parte di un gruppo, anche soltanto per un breve periodo di tempo.
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1 - foto Annie Spratt 2 - foto Adrian 3 - foto Ezra Jeffrey 4 - foto Arthur Poulin 5 - foto Asa Rodger 6 - foto Austin Ban 7 - foto Fineas Anton Immagini tratte dal sito web https://unsplash.com.
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8 - foto Jacob Ufkes 9 - foto Rafael Morais Dos Santos 10 - foto James Besser 11 - foto Jon Flobrant 12 - foto Kimson Doan 13 - foto Lukas H. Immagini tratte dal sito web https://unsplash.com.
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Le neo tribù, per Maffessoli, sono unite quindi da una socialità empatica, basata sulla condivisione di passioni e affetti. Una condivisione che però è effimera, rizomatica, liquida, per citare Baumann. Il neotribale può trasferirsi da un’identità all’altra, partecipare a un gruppo con determinati rituali e a un altro con rituali diversi. Il tutto senza essere in contraddizione perché ogni neotribù è e resta un sistema aperto, si aggancia da altre e diventa costellazione. E, nonostante le apparenze, le neotribù non sono esclusivamente composte dalle generazioni più giovani, ma anche da baby boomers, tutti ugualmente delusi dalla distanza siderale della politica e dalla caduta delle ideologie, tutti ugualmente alla ricerca di una quotidianità da sacralizzare, di un hic et nunc rassicurante che li faccia sentire “ casa”. Per fare qualche esempio: tutti noi apparteniamo a qualche community sul web che, paradossalmente, invece di renderci più virtuali ci ha reso più “ fisici” e , per citare ancora una volta Maffesoli, dionisiaci, nel bene e nel male. Ci ha messo per strada, con i piedi e con la testa. Può essere il mio amico fotografo, che, come Filippino Lippi e il Ghirlandaio che “ andando per ruine” alla Domus Aurea hanno trovato le grottesche, è impegnato in mappature di edilizia bellissima e abbandonata – le sue ruine – sulle orme degli Atlanti di Silvia Camporesi e di Gehrard Richter. Può essere il giovane writer che vuole vedere tutti gli esempi di public e street art di una città e si informa sull’ultimissima app che li localizza per chi arriva. Ma può essere mio figlio diciottenne che segue in meno di dieci giorni due festival di folk-pagan metal sparsi per l’Italia, si riunisce con la sua tribù di amici di tutta Europa, cimentandosi anche con il lancio del tronco e con la full immersion nella cornamusa scozzese. O può essere la mia amica, assolutamente atea, che, fiera del quarto cammino di Santiago di Compostela, quest’estate ha già fatto, in due step diversi, la Via Francigena a piedi, insieme ad un gruppo di amici conosciuti su Facebook. Tra poco ha intenzione di cimentarsi con la Via Appia, seguendo con altri fedelmente il libro di Paolo Rumiz. Come anche tutti quelli che si mettono per strada e camminano, sempre più numerosi fanno Nordic Walking in città, trekking sugli Appennini alla ricerca delle lucciole o dei grandi Patriarchi (gli alberi secolari), partono in bicicletta per viaggi lunghissimi, con buona pace di una nazione che dovrebbe investire in piste ciclabili e sentieri antichi e non lo sta facendo, per oscuri motivi (forse perché imprese meno titaniche di ponti tra Scilla e Cariddi?). Anche se spesso lontano dalla disponibilità finanziaria delle élite, questo turismo neotribale che frequenta festival e luoghi insoliti portatori di nuove storie e miti, è mediamente piuttosto colto e porta, con il suo effetto costellazione, non poche ricadute economiche ai territori che vengono scelti, con tutto il rispetto per il luxury di Briatore in Puglia, regione che, già da tempo e prima dei suoi consigli, ha saputo promuoversi con intelligenza in ambito neotribale, valorizzando le sue ricchezze (artistiche, culturali, gastronomiche, paesaggistiche) con guadagni non indifferenti e ben distribuiti tra la popolazione. Perché questo turista è anche polisensoriale e multimotivato; vuole la relazione “vera” con il luogo, immergersi nella cultura, assaporarne la lentezza, i sapori antichi, ascoltarne i suoni e le musiche, viverla “ dionisiacamente”. Il che non ha alcuna relazione con gli stereotipi, ma riflette una nuova libertà, una libertà non astratta, ma piccola, interstiziale e minima, relativa anche soltanto a un’esperienza, ma vissuta come emotivamente ricca, specchio di una nuova possibilità estetica e insieme etica.
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LOCALI E DESIGN Da sempre si sa i viaggi sono ricchezza per lo spirito e per la mente. Perché vedere cose nuove apre la mente, allarga gli orizzonti e ricarica di energie. Per chi è particolarmente intraprendente poi, l’esperienza può portare anche a nuove idee che non si vede l’ora di realizzare una volta rientrati a casa. E c’è chi decide di aprire un locale, ispirandosi a questi ricordi – soprattutto nelle scelte riguardanti architetture, arredi e complementi – come è il caso di Fricandò a Ravenna, e chi si spinge persino oltre, ossia nel proporre anche una offerta enogastronomica diversa che “strizza“ l’occhio al Paese del cuore, come l’Enoteca Pisacane di Cervia.
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enogastronomia
Fricandò di Roberta Bezzik Il Fricandò di Ravenna è un locale speciale, appartato ma in pieno centro storico poiché situato in quel tratto di via Maggiore che confina quasi con via Cavour, dallo stile ricercato negli ambienti ma in grado di accogliere tutti con calore a qualsiasi ora della giornata. Aperto nel marzo 2011, è frutto delle idee di Giorgia Gordini, figlia d’arte visto che cresciuta in una famiglia di ristoratori e albergatori, e del marito Matteo Siboni, architetto con la passione per la ristorazione. «Il nome lo abbiamo scelto a tavolino, come si suol dire, dopo che mio marito ha disegnato interamente il progetto – racconta Giorgia Gordini –. Ci è venuto in mente pensando al piatto ‘fricandò’, un insieme di verdure, che ben rispecchia il tipo di locale aperto, un insieme di attività: bar, ristorante, tabaccheria e bottega dei prodotti del territorio. E poprio questo forte legame con la Romagna e la nostra regione nel complesso, è presente in tutto ciò che proponiamo per bere o per mangiare». A colpire, appena si entra e anche sin dalle insegne esterne dal sapore retrò, è il gusto ricercato che si evince dagli arredi e dagli accostamenti che sembra quasi raccontare una storia, quella di un’osteria moderna ma che ha saputo prendere il meglio dal passato. «Il locale è in tutto e per tutto frutto del nostro modo di essere – aggiunge Giorgia –. Lo abbiamo fatto esattamente come ci sarebbe piaciuto, con una grande
la Soluzione per i professionisti della Ristorazione Tecnohelp dispone di una sala dimostrativa attrezzata per corsi di cucina, di barman, di pizzeria, in cui i clienti possono toccare con mano la qualità delle aziende e dei prodotti che trattiamo.
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LOCALI E DESIGN attenzione per i materiali destinati a durare nel tempo. Il nostro grande bancone, per esempio, richiama quelli vecchi da osteria con il marmo incastonato nel legno. Una scelta che ricorre anche in molti tavoli, mentre per le sedie abbiamo preferito l’effetto metallico per un tocco di contemporaneità. Un effetto a contrasto anche nelle luci, a volte sobrie e minimaliste, altre volte invece più antiche e ricercate con la forma a palla. A influenzare le nostre scelte sono certamente stati i viaggi in altri città e paesi, dove ci siamo divertiti a osservare le architetture dei locali più apprezzati». Impossibile non notare poi le meravigliose vetrate che delimitano in modo ordinato ed elegante, ma senza “occultare” la sala con i tavoli dalla cucina, lasciando a vista, l’imponente selezione di vini, le proposte di salumi e formaggi e il lavoro stesso del personale. Di grande impatto, in questa zona, è anche la grande lavagna-quadro con i piatti inseriti in menù. Da Fricandò, la vita comincia la mattina con le colazioni e prosegue fino a tarda sera con gli eleganti aperitivi “a sedere”. A pranzo, il fiore all’occhiello è una cucina espressa del territorio con preparazioni ridotte al minimo, in modo da far apprezzare al meglio minestre prelibate, zuppe di antica memoria e pasta tirata al mattarello, ma anche secondi di carne con animali di bassa corte, il bollito dai cinque ai sette tagli accompagnato da salse e contorni, o il pescato del giorno. Seguendo la filosofia del “Quello che mangi, lo puoi portare via”, da Fricandò si possono acquistare confetture e marmellate di produzione propria, ma anche tante altre prelibatezze. Un legame con la tradizione dunque, ma nel segno dell’innovazione. Ed è muovendosi in questa direzione che si continua a investire, al punto che la grossa novità è l’apertura nei prossimi mesi, in un locale adiacente presto collegato, di “Fricandò Natura. Pane e pizza”, per colazioni, merende e pause pranzo a base di centrifughe, yogurt e frutta, zuppe, insalate, ma anche pizza.
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enoteca
Pisacane di Roberta Bezzik Si respira subito il sapore della Spagna, per la precisione dell’Andalusia, all’Enoteca Pisacane di Cervia, aperta il 1° maggio 2014 da Simone Rosetti, con una consolidata esperienza nel settore. Fa capo a lui infatti un’esperienza consolidata come la Ca’ de Be’ di Bertinoro, pluripremiato locale, ma anche attività parallele come il Pastificio artigianale La Sprunèla di Castiglione di Cervia. Con sempre idee che ‘bollono’ in pentola, visto che entro il prossimo dicembre, aprirà anche un nuovo locale a Cesena. Con l’Enoteca Pisacane, Rosetti ha realizzato un piccolo sogno. «Ho una specie di ‘malattia’ – afferma –, una specie di passione allo stadio più estremo per la Spagna, dove ho fatto molti viaggi. Sono diventato nel tempo un fine conoscitore delle tapas e, per anni,
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sognavo di aprire in Italia un locale che ricordasse i bar tipici del Sud della Spagna. Non ho mai pensato, come spesso avviene, di proporre un’offerta enogastronomica di tapas, senza ricreare anche un locale che rievocasse il sapore dell’Andalusia anche nell’atmosfera e negli arredi». Ispirandosi a quanto visto in giro per la penisola iberica, Rosetti ha sposato una filosofia del “recupero”, utilizzando cioè per il suo locale solo materiali di riciclo, sia per i pavimenti che per i rivestimenti del bancone. Il locale, situato nel cuore di Cervia e proprio nella piazzetta Pisacane che è un piccolo gioiello, ha interni piuttosto contenuti, di appena 50 metri quadrati, dove trovano spazio la cucina e il banco bar con pochi posti a sedere. Ma tutto è studiato sin nei minimi dettagli. Grazie all’aiuto dell’azienda Redil di Ravenna, il pavimento è stato ricavato da assi di legno smantellate da vecchie case romagnole, poi tagliate su misura e dipinte in una tonalità scura, in modo da far meglio risaltare i colori delle vecchie cementine in stile Liberty, dipinte a mano, che ricoprono interamente il bancone e una parte del pavimento delle suggestive toilette. Ogni pezzo di arredo ha una sua storia e fa incantare chiunque entro per la prima volta. «Mi è stato molto di aiuto – aggiunge Rosetti –, il mio amico Alberto Fantini che è un architetto professionista, con cui siamo andati in giro per aziende, mercatini e case private segnalate. Così, abbiamo scovato diverse antiche macchine da cucire Singer da tavolo, utilizzate proprio come mini appoggio per i clienti che si siedono all’interno del locale, ma anche una splendida stufa a gas che abbiamo messo in bagno». Le luci sopra il banco? Sono lampade di inizio Novecento, in stile industriale, mentre le altre a parete e quelle esterne sono state prese persino da cantieri navali. In una piccola salettina stata anche recuperata una vecchia lampada a incandescenza Edison. Durante la stagione estiva l’Enoteca Pisacane gode di un piccolo ma accogliente spazio esterno di 60 metri quadrati, dove i clienti possono sedersi in sedie e fra tavoli recuperati dalle scuole e da industrie tessile della Francia e dell’Asia. «Proprio per le sue caratteristiche strutturali – conclude il titolare –, il nostro locale si presta più per coppie o piccoli gruppi di amici, giovani e adulti, piuttosto che per famiglie. Come in Spagna, questo è il posto giusto in cui consumare un aperitivo o una cena a base di tapas. Il fiore all’occhiello della nostra enoteca è una selezione di ben 180 vini, in gran parte biologici e naturali».
L'azienda Arredamenti Pedrizzi gode di un’esperienza sessantennale nella produzione su misura di arredi per locali pubblici. In questo ultimo decennio ha portato il proprio lavoro anche all’estero: Lussemburgo, Germania, Russia, Croazia, Algeria, Romania per citarne solo alcuni. Il punto di forza di Arredamenti Pedrizzi è la produzione di arredi eseguiti con l’utilizzo di ogni tipo di materiale (legno, acciaio, marmo e pietre, cristalli), ma, a richiesta, è in grado anche di fornire progetti completi con la formula “chiavi in mano”, compresi della relativa Direzione Lavori, possibile grazie alla presenza in azienda dello specializzato ufficio tecnico, il quale lavora partendo dal progetto preliminare fino alla definizione estetica, per concludere coi disegni esecutivi.
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www.arredamentipedrizzi.it
> Crediti Enogastronomia Fricandò: Scozzoli, Montaletto - Ravenna • Cucine: Vetreria: Ponticelli, Ravenna • Attrezzature • Tecnohelp dibar: Segurini Enrico e Bartoletti Massimo, Ravenna ferro, marmi, bancone legno: realizzati da vari artigiani • Tavoli su disegni dei proprietari
Enoteca Pisacane: Redil, San Bartolo (RA) • Pavimenti: Arredamenti Pedrizzi, Forlì • Arredi: Esterni: Ferro Design di Strada Omar &. C., Cesena •
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di Marina Mannucci
L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha dichiarato il 2017 Anno internazionale del turismo sostenibile per lo sviluppo, allo scopo primario di favorire l’ambiente e le economie in difficoltà. Il concetto di turismo sostenibile è stato introdotto nel 1988 dall’Organizzazione mondiale del turismo (Unwto) e indica un modo di viaggiare rispettoso del pianeta, che non altera l’ambiente – naturale, sociale e artistico – e non ostacola lo sviluppo di altre attività sociali ed economiche. Si tratta in pratica di un tipo di turismo non distruttivo, con un impatto ambientale basso e che punta a favorire le economie più in difficoltà. La definizione si oppone a quella di turismo di massa, che non tiene conto delle specificità dei territori, è invasivo e non favorisce di certo lo sviluppo economico, sociale e ambientale dei paesi più poveri. Nel 1999 sempre l’Organizzazione mondiale del turismo ha varato il Codice Mondiale di Etica del Turismo, un documento basato sui concetti cardine di responsabilità, sostenibilità, equità e rispetto delle differenze culturali, che costituisce a tutt’oggi il punto di riferimento per l’agire etico di quanti operano, direttamente o indirettamente, nel settore. I dati dell’Eea-Agenzia europea per l’ambiente testimoniano che l’impatto dei turisti è spesso elevatissimo: secondo uno studio del 2015, aggiornato al novembre 2016, i turisti europei consumano ogni giorno dalle 3 alle 4 volte l’acqua che consumerebbero normalmente, mentre il trasporto aereo in UE sarebbe uno dei settori maggiormente responsabili delle emissioni di gas serra in atmosfera. Il turismo deve essere un’opportunità e non un problema, è quindi indispensabile riflettere su come usare questo settore del mercato – che genera ogni anno un fatturato di circa 1.260 miliardi di dollari – per il bene dell’ambiente e delle persone. Dalla sua nascita come attività sociale organizzata, il turismo è sempre stato oggetto di svariate forme di critica: «il turista ammazza il viaggia-
«L’occhio dello straniero vede solo ciò che già conosce» Proverbio africano tore» è un tema ricorrente fra i critici e saggisti della fine Ottocento, come lo è, ugualmente, in alcuni saggi letterari, storico-antropologici e sociologici del secolo scorso. In Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi (1878-1880) nell’aforisma dal titolo Viaggiatori e loro gradi Friedrich Nietzsche scrive: «Si distinguano i viaggiatori in cinque gradi: quelli del primo e più basso grado sono coloro che viaggiano e vengono visti viaggiare – essi propriamente vengono viaggiati e sono per così dire ciechi; i secondi sono essi a vedere realmente il mondo; i terzi fanno delle esperienze in conseguenza del vedere; i quarti rivivono dentro di sé le esperienze fatte e le portano via con sé; infine ci sono alcuni uomini di massima forza che devono da ultimo necessariamente anche rivivere fuori di sé, in azioni e opere, tutto ciò che hanno visto, dopo averlo sperimentato ed internamente vissuto, non appena siano tornati a casa. Simili a queste cinque categorie di viaggiatori vanno in genere gli uomini tutti per l’intero pellegrinaggio della vita, i più bassi come
Sopra: foto di Nicole Taylor, in https://becomingchristians.com/sitemap.xml. A destra: Copertina del libro di Corrado Del Bò, Etica del turismo. Responsabilità, sostenibilità, equità, Roma, Carocci editore, 2017.
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L’Etica del turismo Intervista a Corrado Del Bò mere passività, i più elevati come coloro che agiscono e muoiono senza alcun residuo inutilizzato di fatti intimi». Il tema del viaggiare è ripreso anche nell’aforisma Dove si deve viaggiare: «Chi, dopo lungo esercizio in quest’arte del viaggiare, è diventato un Argo dai cento occhi, alla fine accompagnerà dappertutto la sua Io — voglio dire il suo ego —, e in Egitto e in Grecia, a Bisanzio e a Roma, in Francia e in Germania, nelle epoche dei popoli nomadi e di quelli sedentari, nel Rinascimento e nella Riforma, in patria e fuori, anzi nel mare, nel bosco, nelle piante e nei monti riscoprirà le avventure di viaggio di questo ego nel suo divenire e nelle sue trasformazioni. — Così conoscenza di sé diviene conoscenza del tutto in rapporto a tutto il passato: così come, dopo un’altra serie di osservazioni, che qui accenniamo soltanto, negli spiriti più liberi e più lungimiranti autodeterminazione e autoeducazione potrebbero diventare un giorno determinazione del tutto in rapporto a tutta l’umanità futura». Il 15 giugno scorso, a Ravenna, alla Darsena Pop Up, Corrado Del Bò ha presentato il suo ultimo libro, Etica del Turismo (Carocci Editore, 2017): un’indagine per acquisire maggiore consapevolezza degli effetti del turismo sulle persone e sull’ambiente. All’incontro, moderato da Marinella Isacco, hanno dialogato con l’autore: Giacomo Costantini, assessore al Turismo del Comune di Ravenna e Filippo Donati, Presidente Nazionale di Assohotel della Confesercenti. L’evento è stato promosso dalle Associazioni: Legambiente Circolo Matelda di Ravenna e Libertà e Giustizia circolo di Ravenna. In quell’occasione, Corrado Del Bò, docente di Filosofia del diritto all’Università degli Studi di Milano e di Etica e filosofia al corso di laurea in Scienze del turismo presso la Fondazione Campus, a Lucca, mi ha gentilmente rilasciato un’intervista, che riporto qui di seguito, esponendomi il contenuto del libro.
Professore, perché ha sentito il bisogno di scrivere un libro che indaga sulle principali questioni morali legate al turismo? «Dopo sei anni di insegnamento mi sono reso conto che non esistevano testi in italiano di Critica del turismo per come la intendo io; gli ottimi lavori di esperti come Marco Aime e Duccio Canestrini mettono in luce con grande competenza alcuni problemi morali legati al turismo (soprattutto al turismo “esotico”) ma pur sempre dal punto di vista dell’antropologia culturale. Avendo accumulato diverso materiale, ho deciso di scrivere questo libro, realizzando una discussione filosofica dei principali problemi di etica del turismo, nel tentativo di colmare, almeno parzialmente, questa lacuna». Il diverso materiale raccolto negli anni chiarisce, da una parte, che cosa sia l’etica e, dall’altra, che cosa sia nello specifico l’etica del turismo e i suoi fondamenti teorici e concettuali. Può parlarmi dell’impianto del libro? «La struttura che ho voluto dare al lavoro è relativamente semplice. Il primo capitolo è una breve analisi filosofica del turismo dedicata a una mappatura di ciò che si può considerare fare turismo, e affronta il problema della differenza tra turista e viaggiatore, della turistofobia e dei casi incerti del turismo: quello religioso e quello sessuale. Nel secondo capitolo cerco invece di delineare in che cosa consista il complesso disciplinare che va sotto il nome di etica, quali le sue partizioni interne, che cosa sia l’etica del turismo, i suoi fondamenti teorici e concettuali. I quattro capitoli successivi sono dedicati a quattro idee centrali che si trovano nel Codice Mondiale di Etica del Turismo. Il terzo capitolo approfondisce la nozione di responsabilità in relazione al turismo e affronta le questioni
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CITTÀ E SOCIETÀ
di quando il turismo può essere dannoso, in che senso può essere sbagliato e se è giusto praticare il boicottaggio delle mete turistiche. Nel quarto capitolo mi soffermo sull’idea di sostenibilità, parlando di cosa significa richiedere un “turismo sostenibile”, sul perché i beni d’interesse turistico dovrebbero essere tutelati e sui doveri verso le generazioni future. Nel quinto capitolo parlo di equità approfondendo il significato di equa distribuzione dei proventi del turismo, dei rapporti di lavoro che espongono a rischi più o meno gravi i lavoratori del settore del turismo e di come regolare l’accesso ai beni turistici in modo da evitare la congestione ma senza discriminare nessuno. Nel sesto capitolo ho analizzato il tema dell’idea di differenza culturale e la querelle sul relativismo e il tema dell’alterità soffermandomi anche sul turismo etnico». Cosa intende per turismo etnico? «Intendo quel turismo in cui le persone vanno a vedere certe comunità per conoscere usi, costumi, stili di vita, tradizioni che, da un punto di vista sociale e antropologico, sono diversi dai nostri». Può farmi un esempio? «Nel Nord della Thailandia, vive un sottogruppo dell’etnia Karen, i
Kayan o Padaung, le cui donne sono note in Occidente come “donne dal collo lungo” o, secondo un’espressione irriguardosa, “donne giraffa”. L’allungamento del collo è ottenuto con l’abbassamento della cassa toracica, che consegue a sua volta al fatto che le donne karen sin dai quattro o cinque anni indossano anelli di ottone al collo che nel corso dell’esistenza posso arrivare anche ai venticinque centimetri di lunghezza e ai dieci chilogrammi di peso, e che non possono essere tolti senza mettere a rischio la loro salute. Questa tradizione ha una spiegazione di carattere simbolicoreligioso e svolge funzione di consolidamento del clan; difatti adottare la pratica degli anelli di ottone è condizione necessaria per non essere allontanate dalla famiglia di origine e dal gruppo patriarcale di appartenenza. Oggi però indossare gli anelli è diventata soprattutto un’attività economica redditizia. Sta di fatto che non è chiaro quanto volontaria sia la scelta delle donne karen di indossare gli anelli, vuoi perché gli anelli sono messi in età infantile, vuoi perché esistono pressioni sociali perché continuino a indossarli. Pressioni dovute al fatto che, da un lato, non esiste per i Karen una reale alternativa al reddito garantito dall’esposizione delle donne allo sguardo dei turisti e perché è indubbiamente il turismo che fornisce ai Karen i mezzi di sussistenza; dall’altro le au-
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torità e i tour operator traggono proventi notevoli dai flussi turistici verso i villaggi karen, molto maggiori di quanto arrivi ai Karen. Del resto, l’opzione di lasciare il villaggio è per le donne karen più teorica che reale; giunte in Thailandia dalla Birmania nel 1988, sono formalmente profughe, con tutti gli svantaggi giuridici che ciò comporta in termini di opportunità lavorative e di libertà di movimento. Quindi, se pur non si deve sbrigativamente liquidare una tradizione perché non soddisfa i nostri requisiti morali, è necessario resistere all’idea che la tradizione tutto scusa o fare assunzioni troppo rapide sulla volontarietà. In questo caso, ad esempio, la tradizione risente della situazione di vulnerabilità economica e sociale della comunità Padaung e della conseguente pressione cui sono esposte le donne di etnia Karen. La solidità della tradizione e, dunque, la reale volontarietà di indossare gli anelli, potrebbe essere paradossalmente saggiata escludendo i Karen dai circuiti turistici: a quel punto, non essendoci più un incentivo economico per farlo, si potrebbe verificare se la scelta di indossare gli anelli è volontaria. Le donne karen possono essere considerate vittime del cosiddetto effetto zoo: sono cioè trattate come gli animali che popolano i giardini zoologici, un modo inappropriato in quanto lesivo della loro dignità. A motivare questi comportamenti esecrabili c’è una distorsione nella mente del turista che tende all’esotico e al primitivo». Può parlarci dei temi affrontati nell’ultimo capitolo del suo libro? «Nell’ultimo capitolo del libro parlo di voyeurismo turistico: la scelta di visitare luoghi in cui sono avvenuti o stanno avvenendo disastri naturali, fatti di sangue o tragedie di vario genere. Prendendo spunto dal cosiddetto turismo del macabro o dark tourism, nel capitolo si affronta anche il tema di quale sia la distanza, temporale o spaziale, da porre tra un accadimento drammatico e l’attività turistica e la questione se la povertà possa essere oggetto di turismo».
A sinistra, foto tratta da http://www.viaggiarelibera.com/turismo-responsabile-mozambico/. Sotto: donna Kayan, in http://www.kontrokultura.it/1857/myanmar-donne-giraffa-vita-durissima/.
> Il Codice Mondiale di Etica del Turismo Il Codice Mondiale di Etica del Turismo, adottato mediante risoluzione dall’Assemblea Generale dell’Organizzazione Mondiale del Turismo di Santiago del Cile (27 settembre – 1° ottobre 1999), ha come obiettivo fondamentale quello di promuovere un turismo responsabile, sostenibile e accessibile a tutti. Articolo 1: Il turismo quale strumento di comprensione e di rispetto reciproco tra i popoli e le società. Al punto uno, si sottolinea che il turismo è uno degli strumenti che i popoli hanno per conoscersi, per apprezzare e rispettare le diversità. Articolo 2: Il turismo quale mezzo di realizzazione individuale e collettiva. Il turismo è l’attività più frequentemente associata al riposo, alla distensione, allo sport, all’accesso alla cultura e alla natura e in questo senso è da considerarsi come mezzo privilegiato per realizzazione individuale e collettiva. Articolo 3: Il turismo quale fattore di sviluppo sostenibile. L’articolo tre ci ricorda che il turismo può essere uno strumento molto importante per lo sviluppo sostenibile delle popolazioni locali. Per questo gli attori del settore turistico devono impegnarsi al fine di promuovere una crescita economica sana, tale da soddisfare in modo equo le necessità e le aspirazioni delle generazioni presenti e future. Articolo 4: Il turismo come fruizione del patrimonio culturale dell’umanità e sostegno al suo arricchimento. Questo è altro punto importante: il turismo permette di visitare i siti che sono Patrimonio mondiale dell’umanità. Le risorse finanziare derivanti dalla visita a questi siti e ai monumenti devono essere utilizzate, almeno in parte, per il mantenimento, la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio stesso. Articolo 5: Il turismo quale attività vantaggiosa per i paesi e le comunità ospitanti. Questo articolo si collega al punto tre: le popolazioni locali devono essere partecipi dell’attività turistica e condividere in maniera equa i benefici economici, sociali e culturali in modo particolare per quanto riguarda la creazione diretta o indiretta dell’occupazione. Articolo 6: Obblighi degli attori del settore turistico. I professionisti del turismo devono fornire informazioni obiettive e oneste e devono garantire la sicurezza dei viaggiatori, vigilando sui turisti. Articolo 7: Diritto al turismo. Questo è un punto molto bello e lo riportiamo alla lettera: «La possibilità di accedere direttamente e personalmente alla scoperta ed al godimento delle ricchezze del pianeta rappresenta un diritto di cui tutti gli abitanti del mondo devono poter usufruire in modo paritario». Articolo 8: Libertà di movimento a scopo turistico. I turisti e i viaggiatori, nel rispetto delle leggi, hanno il diritto di circolare liberamente all’interno dei paesi da loro visitati senza dover subire eccessive formalità né discriminazione alcuna. Articolo 9: Diritti dei lavoratori e degli imprenditori dell’industria turistica. I lavoratori dell’industria turistica hanno il diritto e il dovere di acquisire una formazione idonea; tutte le persone che hanno le capacità e le qualità professionali necessarie hanno il diritto di condurre un’attività professionale nel turismo. Articolo 10: Applicazione dei principi del Codice Mondiale di Etica del Turismo. Gli attori del turismo si impegnano a vigilare che questi principi vengano applicati.
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ABITARE L’HABITAT
Il tesoro dei beni
culturali
È necessario adeguare l’offerta turistica alle aspettative del visitatore per valorizzare il patrimonio artistico e culturale territoriale di Marco Turchetti * La valorizzazione di un bene culturale, sia esso un edificio, un paesaggio o una tradizione, gli attribuisce il riconoscimento della sua importanza nel sistema di valori di una comunità. Questa azione, culturale e comunicativa, si inserisce nella rete di simboli che contribuisce alla definizione di un territorio. Diventa essenziale prima di prendere in considerazione la valorizzazione sottolineare che cosa si intende per patrimonio culturale. Il patrimonio culturale è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici, sono beni culturali le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose quali testimonianze aventi valore di civiltà. Sul patrimonio culturale è particolarmente significativa anche la definizione di paesaggio che non significa solamente le ‘bellezze naturali’ o anche quelle che ad opera dell’uomo sono inserite nel territorio, né la sola natura, ma la forma del territorio, o dell’ambiente, creata dalla comunità umana che vi si è insediata, con continua interazione della natura e dell’uomo. La valorizzazione è quindi intesa come esercizio delle funzioni e delle discipline della attività dirette a promuovere la conoscenza
del patrimonio culturale e assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso al fine di promuovere lo sviluppo delle cultura. Da questo punto è facile intuire che la valorizzazione è fortemente vicina al concetto di tutela e conservazione ma non può però esserne sinonimo. Il concetto di tutela, pur essendo unico, si articola in tre componenti essenziali: conoscenza, tutela e valorizzazione di cui solo la tutela è, e deve restare, competenza esclusiva delle Soprintendenze, le quali sole possono garantirla, al di sopra di ogni altro interesse economico e sociale, come vuole la nostra Costituzione. Le Università devono affiancare le Soprintendenze per la conoscenza, presupposto essenziale della tutela, e gli enti territoriali devono partecipare alla valorizzazione, che senza conoscenza e tutela non avrebbe senso. Dobbiamo considerare la valorizzazione come una serie di azioni che portano a tradurre il bene culturale in narrazione storica capace di arrivare alle grandi masse, con la coscienza che non tutto può essere valorizzato. I beni culturali costituiscono un tessuto di cultura visibile, che contiene solo in potenza la informazione storica, che per tradursi in atto va esplicitata ai visitatori. Comprendi-
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amo così che la valorizzazione è fondata sulla conoscenza e sull’informazione. È necessario partire dalla considerazione del bisogno di valorizzazione dei beni culturali in vista del loro non rendimento economico. Emerge così il problema più rilevante nel concetto di valorizzazione, ossia la sua unione con la tutela. Il limite della valorizzazione sta nella tutela, qualsiasi impresa di valorizzazione non può incidere il recinto della tutela. Deve fermarsi obbligatoriamente su quel confine. Ma tutelare che cosa significa? Tutelare vuol
Nella pagina a sinistra: La valorizzazione di un bene culturale, sia esso un edificio, un paesaggio o una tradizione, gli attribuisce il riconoscimento della sua importanza nel sistema di valori di una comunità. In alto a sinistra: La valorizzazione è fortemente vicina al concetto di tutela e conservazione ma non può però esserne sinonimo. In alto a destra:I beni culturali costituiscono un tessuto di cultura visibile, che ontiene solo in potenza la informazione storica, che per tradursi in atto va esplicitata ai visitatori. In basso a sinistra: Il territorio non è un deposito inerte e fermo di risorse e di beni, ma da considerare come un patrimonio di valore inalienabile e inimitabile, quindi unico, che racchiude specificità culturali, storiche e artistiche da tutelare e valorizzare in un’ottica di sviluppo sostenibile. In basso a destra:-«La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione», è definita rispetto allo sviluppo anche nell’art. 3-ter e quater del D.Lgs. n. 152 del 2006 che chiarisce che le azioni della pubblica amministrazione devono essere finalizzate a dare primaria considerazione alla tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale.
dire che non si possono fare azioni che superino quei presidi posti a garanzia della protezione e della conservazione per fini di pubblica fruizione. Sottolineiamo perciò il nesso tra la tutela, l’utilizzo, il recupero e la valorizzazione dicendo che si è arrivati a una certa sclerotizzazione dei ruoli e dei saperi, secondo uno schema che vede da un lato i profanatori del tempio e dall’altro i difensori; e ciò risulta deleterio quando interferisce sul rapporto tra tutela e valorizzazione. La valorizzazione deve essere uno strumento per la conoscenza, non una minaccia alla tutela. La valorizzazione è diventata negli ultimi anni un’opportunità concreta di investimento, oltre alla sua funzione educativa e materiale tangibile della memoria storica, il patrimonio culturale è riconosciuto come luogo dove intraprendere iniziative culturali e azioni capaci di sviluppare il livello socio-economico locale e del territorio. Non solo, la valorizzazione diventa il prodotto esportabile dell’insieme dato dal territorio, il paesaggio, il beni culturali e la collettività. Infatti diventano essenziali per un intervento di valorizzazione vincente il sostegno e l’approvazione della collettività che diventa garante e proprietario del patrimonio stesso. Il processo assume significato quando si rende portatore di messaggi culturali e di sinergie nate sul territorio; se inteso come semplice processo economico, l’intervento perde il suo aspetto identitario e sinergia territoriale, diventando un semplice intervento a breve periodo destinato al fallimento o alle denaturalizzazione dell’offerta. La valorizzazione deve rendere fruibili i beni culturali in comunicazione con il territorio in modo da comunicarne, esportarne e rendere attraente il significato intrinseco di valore della civiltà. Il territorio non è un deposito inerte e fermo di risorse e di beni, ma da considerare come un patrimonio di valore inalienabile e
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ABITARE L’HABITAT
inimitabile, quindi unico, che racchiude specificità culturali, storiche e artistiche da tutelare e valorizzare in un’ottica di sviluppo sostenibile. La conoscenza è il legame con il territorio, è il frutto di una riflessione che mette in luce anche le teorie del restauro, rilevando che la valorizzazione dei beni culturali non può essere solo più estetico ma deve acquisire un criterio ermeneutico. A questo proposito bisogna stare in guardia dal pensare che accumulare frammenti di preesistenza sia uguale all’accomunare memoria, sottolineando l’importanza della riattualizzazione dell’azione, il ricordare può avvenire solo nel presente. La valorizzazione, come commercializzazione dei beni culturali o trasformazione della cultura in prodotto economico, è stata ampiamente criticata soprattutto dalle associazioni e dai comitati cittadini che trovano accordo sull’intendere l’azione come una opportunità di crescita e di investimento per il mercato culturale, puntando all’allargamento del pubblico e alla fruizione compatibile e sostenibile dell’offerta culturale presente sul territorio. La gestione dei beni collettivi può essere facilmente ricondotta ai beni culturali; possiamo rilevare che la privatizzazione delle risorse e le gestioni centralizzate oltre ad essere molto costose sono inefficaci, mentre prevede un utilizzo organizzato con regole spontanee e doveri gestionali, in una logica di autogoverno dei beni pubblici, si può evitare lo sfruttamento eccessivo favorendo il sostegno dell’azione collettiva. Inoltre si deve considerare una sorta di subordinazione della valorizzazione alla tutela dei beni culturali, per ovvi motivi di degrado e di denaturalizzazione del bene. La tutela è di importanza prioritaria, oltre ad essere dettata dall’art. 9 della Costituzione italiana: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione», è definita rispetto allo sviluppo anche nell’art. 3-ter e quater del D.Lgs. n. 152 del 2006 che chiarisce che le azioni della pubblica amministrazione devono essere finalizzate a dare primaria considerazione alla tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale. Una politica rivolta alla sinergia di conservazione e valorizzazione tutela e previene eventuali impatti negativi sulle realtà locali, allungandone la durata nel tempo e la redditività. Tale aspetto viene anche tenuto in considerazione dall’Organizzazione Mondiale del Turismo che consiglia di adeguare l’offerta turistica alle aspettative del visitatore valorizzando il patrimonio culturale territoriale, tenendo conto dell’impatto ambientale e della sostenibilità del territorio. Il rischio che la valorizzazione non tenga in primaria considerazione la tutela è la perdita della memoria storica e del patrimonio che rende quel territorio unico nell’offerta; inoltre il riscontro si ha anche a livello economico, nella perdita di attrattività del luogo: degradando e abusando del patrimonio viene a mancare il principio
base fondamentale della valorizzazione. La valorizzazione rappresenta un fattore chiave per la competitività territoriale e per la qualità della vita, valorizzare un territorio partendo dalla valorizzazione di un bene culturale significa aumentare l’attrattività e l’offerta locale favorendo investimenti economici non solo culturali. L’integrazione con il territorio e con le comunità locali diventa elemento essenziale per permettere lo sviluppo dell’offerta economica dei beni culturali. La vera opportunità e sfida negli ultimi anni per i beni culturali è stata l’integrazione delle politiche di intervento tra Stato, enti locali e privati, che – oltre al recupero – si sono orientati verso la promozione e la gestione programmata di azioni indirizzate alla valorizzazione e alla soddisfazione dei nuovi bisogni di conoscenza di un pubblico più esigente. Il coinvolgimento dei privati nella valorizzazione è espresso nel codice dei beni culturali che stabilisce che gli interventi possano essere sia di iniziativa pubblica che di iniziativa privata, definendo l’iniziativa privata come un’attività socialmente utile e di solidarietà sociale, non prevedendo quindi l’intervento privato in chiave economica e di profitto. L’importanza rilevante nella valorizzazione dei beni culturali di origine privata è rappresentata dalle Fondazioni bancarie, le quali entrano in gioco dove la sinergia economica tra Stato e Regioni non riesce a colmare le numerose lacune presenti nella realtà dei beni culturali. Le Fondazioni bancarie per statuto perseguono scopi di utilità sociale nei settori dell’arte, dei beni storici e delle attività culturali. * Marco Turchetti [Progettare Sostenibile - Ravenna] info@progettaresostenibile.com
A sinistra: la valorizzazione rappresenta un fattore chiave per la competitività territoriale e per la qualità della vita. A destra: le Fondazioni bancarie per statuto perseguono scopi di utilità sociale nei settori dell’arte, dei beni storici e delle attività culturali.
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