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n. 99 GIUGNO-LUGLIO 2015

Editore Reclam Edizioni & Comunicazione srl . viale della Lirica 43 . 48124 Ravenna . Iscrizione al Tribunale di Ravenna n. 1240 del 8/11/2004 . Redazione 0544.271068 . redazione@trovacasa.ra.it . Pubblicità 0544.408312 . info@trovacasa.ra.it

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n.99 GIUGNO-LUGLIO 2015

CASA BELLA CASA

TOPOGRAFIA E STORIA

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contenuti

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casa bella casa

affetti domestici

arte e critica

di Paolo Bolzani

di Pietro Barberini

Alla scoperta dei lidi ravennati Nord dove il turismo si sposa con sport e natura

città e quartieri

arte e artisti

Una villa concepita tra il verde, il design e la qualità del vivere

Da “strada della torre” a via Serafino Ferruzzi, passando per il XIII Giugno

topografia e storia

grand tour

giugno-luglio 2015

di Chiara Bissi

Salita al Parnaso Paul Klee in visita al “paradiso” ravennate di Alberto Giorgio Cassani

Infanzia bergamasca: lasciare le cose e ...vendere la casa di Alberto Giorgio Cassani

La cura di Giorgia Severi per il mondo, e l’arte esplora le forme naturali di Sabina Ghinassi

Una mostra ricorda Alberto Martini, intellettuale divulgatore della grande pittura di Serena Simoni

Aiutiamoci a guardare ciò che va visto: i rischi della “semplificazione edilizia”

città e società

di Marina Mannucci

Idea Casa 16 . Agenzia Romagna 17 . Case d’Autore. Mondo Casa 18 . Futura 19 . Scor . Happy Home 26 . Studio Effe . Universo 27 . Francesca Leonzi . Offerte Immobiliari 28 . Eurocase . Solo Affitti 29 . Ravenna Servizi 35 .

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edizione di Ravenna

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Controcopertina La caratteristiche dei terrazzi della villa, anche di quelli al piano inferiore, è una bordatura verde continua, che di fatto protegge dalla vista dell’intorno urbano e permette di coniugare la privacy e la riservatezza con la qualitĂ del vivere a contatto con la natura, specie se questa si presenta in veste di alta quinta continua a gelsomino e fioriere perimetrali. Il tutto caratterizzato dalla cornice di cromie pastello e un raffinato intreccio di arredi vintage e di design.

Autorizzazione Tribunale di Ravenna n. 1240 del 8 novembre 2004 Direttore responsabile: Fausto Piazza Consulenza redazionale: Paolo Bolzani Collaborano alla redazione: Andrea Alberizia, Federica Angelini, Pietro Barberini, Roberta Bezzi, Chiara Bissi, Alberto Giorgio Cassani, Serena Garzanti (segreteria), Sabina Ghinassi, Maria Cristina Giovannini (grafica), Marina Mannucci, Luca Manservisi, Domenico Mollura, Guido Sani, Serena Simoni. Progetto grafico: Quadra Studio, Ravenna Restyling grafico: Gianluca Achilli Referenze fotografiche: Alberto Giorgio Cassani, Pietro Barberini, Paolo Genovesi, Fabrizio Zani, Maurizio Montanari. Redazione: tel. 0544.271068 - redazione@trovacasa.ra.it

Editore: Reclam Edizioni e Comunicazione srl viale della Lirica 43 - 48124 Ravenna - tel. 0544.408312 info@reclam.ra.it - www.reclam.ra.it Direttore generale: Claudia Cuppi Stampa: Grafiche Baroncini, Imola - www.grafichebaroncini.it

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Tra natura, design e qualità del vivere La villa di Zaganelli coniuga privacy ed eleganza di Paolo Bolzani

Con questa villa, Lorenzo Zaganelli conferma, ove ce ne fosse bisogno, una coerente aderenza ad una cifra linguistica che ormai da tempo caratterizza i lavori di Rossi Zaganelli, architetti in Ravenna. Ad uno sguardo dall’esterno ecco ritornare il tono marrone, oscillante tra il beige e l’ocra scuro, a qualificare gli intonaci dell’attacco a terra, probabilmente in questa sede cromaticamente meno carico del solito. Ecco inoltre gli immancabili cornicioni marcapiano con accenni di piccole mensole in sottogronda. Il fronte su strada è dominato da una composizione simmetrica, con l’ingresso assiale in linea con il cubo superiore in cristallo, in cui scopriremo un sorprendente spazio living, sospeso in altezza tra due lussureggianti terrazzi. La facciata si completa con le due bucature delle logge al primo piano, sormontate al piano superiore da una quinta verde, dietro la quale emergono due bianchi pergolati. L’ingresso è caratterizzato da un passaggio pavimentato in porfido, con andamento parallelo alla strada e bordato

Il fronte su strada è dominato da una composizione simmetrica, con l’ingresso assiale in linea con il cubo superiore in cristallo, in cui scopriremo un sorprendente spazio living, sospeso in altezza tra due lussureggianti terrazzi. La facciata si completa con le due bucature delle logge al primo piano, sormontate al piano superiore da una quinta verde, dietro la quale emergono due bianchi pergolati

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CASA BELLA CASA

da ali di arbusti e ortensie bianche, che gli conferiscono le caratteristiche di una piccola promenade verde. In breve raggiungiamo il portone centrale, da cui ha inizio la scala comune, in quanto questo fabbricato, costruito tra il 2011 e il 2014 al posto di un precedente edificio residenziale, in realtà, rispetto alle apparenti vesti unitarie di villa, risulta costituito da quattro unità abitative. Ci colpisce per la cura del giardino, non particolarmente profondo davanti e nei fianchi, più generoso nel retro, illuminato a terra e in quota nei giardini pensili con lampade di Viabizzuno, a effetto washwall. All’interno le forme i materiali della natura entrano insieme a noi nel vano scala, illuminato dal globo di luce del grande Taraxacum S1, disegnato nel 1988 da Achille Castiglioni per Flos, omaggio al fiore del tarassaco. Alle pareti i morbidi corpi illuminanti ad applique Foglio, disegnata nel 1966 da Tobia Scarpa, in fase spenta sono la decorazione puntuale della scala in pietra chiara, protetta da parapetti in cristallo. Queste scelte ci parlano di un linguaggio moderno integrato con qualche eccellenza vintage, in cui si rivela anche la personalità della padrona di casa, con predilezione per pezzi di disegn d’autore. Percorriamo la scala fino all’ultimo piano, dove si trova un appartamento a sua volta sviluppato su due livelli, con


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CASA BELLA CASA

inversione di funzione: zona notte e salotto al primo livello, mentre lo spazio living e area cucina-pranzo vengono collocati a quello superiore, vero ultimo piano della casa. Il tono molto british che accompagna gli interni, introdotto dalla scelta per porte bianche con cornici classiche, viene risolto ancora facendo ricorso ad una pratica vintage. Il pavimento deriva infatti dal recupero di un parquet degli anni Settanta, in rovere tinto, montato a spina a 90° e testa avanti. Smontato in Piemonte e qui rimontato, costituisce con le cornici delle porte il fondo continuo degli arredi, in cui emerge una grande attenzione per luci e mobili leggermente agée. Già nell’ingresso si manifesta fin da subito il gusto per corpi illuminanti dalla forte e riconoscibile personalità, come il grande lampadario di Gino Sarfatti prodotto da ArteLuce negli anni Cinquanta, che riempie l’angolo destro dello spazio e su cui si affacciano opere di Fortunato Depero e Mario D’Anna, mentre altrove troveremmo anche dipinti di altri grandi noti, come Gabriele Partisani. Tra gli spazi di questo piano ci sono da segnalare il bagno padronale, in marmo venato colore marrone e il guardaroba, con porta scorrevole a specchio ad isolare la scar-


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Il tono molto “british” che accompagna gli interni, introdotto dalla scelta per porte bianche con cornici classiche, viene risolto ancora facendo ricorso ad una pratica vintage. Il pavimento deriva infatti dal recupero di un parquet degli anni Settanta, in rovere tinto, montato a spina a 90° e testa avanti. Smontato in Piemonte e qui rimontato, costituisce con le cornici delle porte il fondo continuo degli arredi, in cui emerge una grande attenzione per luci e mobili leggermente agée

piera. Ma è soprattutto il salotto ad emergere, per dimensioni, funzioni ed arredi; viene definito dal rapporto tra una lunga libreria a scaffali bianchi e una composizione di divani e poltrone, omaggiata a sua volta da una bella credenza art deco, che si trovava collocata nella casa preesitente nel sito a quella in cui ora noi stiamo passeggiando. Ma senz’altro l’ambiente che merita di essere vissuto, visto e descritto risulta lo spazio living all’ultimo piano, cui si perviene direttamente con un’ascensore, oppure, scelta preferibile, per mezzo di una scala inaugurata dalle applique Pistillo – cui seguirà Pistillino – progettata dallo Studio Tetrarch nel 1970. Quindi, con il pensiero agli stami trasparenti dell’androceo del fiore di Tarassaco della scala comune, ora in questa scala d’appartamento ci troviamo nuovamente di fronte a soluzioni illuminotecniche che coniugano classici del design con motivi floreali. La differenza sta nel fatto che, se prima il legame si istituiva con l’elemento maschile del fiore, ora in questa sede avviene con quello femminile. Saliamo in cima al fabbricato. Già a metà della rampa si percepisce dalla notevole intensità luminosa di essere ormai prossimi ad uno spazio speciale. Al centro si trova il combinato-disposto tra tavolo con sedie Tulipano di Eero Saarinen e grande lampadario di Ingo Maurer a vegliarlo con la propria eterogenia dei fini scritta nei foglietti appesi, che stempera la centralità della posizione con una divertita riflessione se-

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CASA BELLA CASA


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La caratteristiche dei terrazzi, anche di quelli al piano inferiore è una bordatura verde continua, che di fatto protegge dalla vista dell’intorno urbano e permette di coniugare la privacy e la riservatezza con la qualità del vivere a contatto con la natura, specie se questa si presenta in veste di alta quinta continua a gelsomino e fioriere perimetrali. Il tema della natura emerge infine con l’elemento che ancora non si era perfettamente palesato, vale a dire l’acqua

miotica in grado di condurre al di là del lampadario come mero oggetto di illuminazioone. Ma, in realtà, il vero centro vitale di questo ambiente elegante e luminoso è l’imponente cucina, con isola centrale in acciaio modello Convivium di ArcLinea, cui si abbina il modello Italia delle basi e della parete attrezzata, la cui presenza viene in qualche modo stemperata e anticipata dall'affettatrice manuale a volano Berkel, il cui rosso fuoco compensa l’algida composizione a campiture bianche e inserti in acciaio inox, con qualche deroga al grigio marezzato nel tavolo in marmo di Saarinen. L’arte del convivium ben si esplica nelle dotazioni funzionali degli spazi di cottura e preparazione delle vivande, che verranno consumate all’interno ma soprattutto all’esterno, in uno dei due terrazzi che fiancheggiano lo spazio centrale destinato a cucina-pranzo. La caratteristiche dei terrazzi, anche di quelli al piano inferiore è una bordatura verde continua, che di fatto protegge dalla vista dell’intorno urbano e permette di coniugare la privacy e la riservatezza con la qualità del vivere a contatto con la natura, specie se questa si presenta in veste di alta quinta continua a gelsomino e fioriere perimetrali. Il tema della natura emerge infine con l’elemento che ancora non si era perfettamente palesato, vale a dire l’acqua. E l’apparizione è veramente piacevole, perché si veste della

perchè il pavone? abbiamo scelto il pavone come nostro simbolo perchè è un animale antico, eccentrico, simbolo di eleganza, regalità, purezza ed immortalità; egli comunica anche aprendo a ventaglio la sua ruota dai mille colori, sfumature, disegni; il marmo viene identificato nella figura del pavone perchè anch’esso è antico, eccentrico, elegante, esclusivo, naturale ed immortale, di varie sfumature e venature proprio come le sue piume.

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diafana forma di una piccola piscina circolare con idromassaggio, incassata in un piano rialzato rifinito a parquet e coperta da una vaga pergola bianca, quasi ad evocare una loggia neoclassica, così come parimenti avevamo visto nel simmetrico spazio, destinato ad aumentare la zona cottura e pranzo con nuove dotazione per la convivialità all’aria aperta, anche se ancora in piena città. Rientrando nell’ambiente centrale “totemico” della cucinapranzo, si scopre come in realtà questo spazio prosegua verso la strada e vi si affacci con il bel volume vetrato che si era visto dal basso. E qui si conferma nuovamente l’idea compositiva di Zaganelli, che impernia il disegno dell’intera facciata principale sull’asse definito dalla linea che collega in basso il portone di ingresso, e culmina in alto al centro di una grande lastra trasparente. Ma è solo qui che si scopre di essere all’interno di un cubo di cristallo, da cui lo sguardo spazia su tutto il paesaggio urbano circostante e in cui viene ricavato un ulteriore living, che finisce per trasformarsi in una piacevole area relax in presenza del grande schermo del televisore.


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I rintocchi della campana sulla torre municipale e gli squilli di telefono dalla borsa cereali di Chicago scandiscono avvenimenti che si susseguono fra i palazzi Grossi e Monaldini, Pompili e Rasponi del sale… E passava di qui anche chi “cercava Mariola per Ravenna”

> Uno scorcio di via Ferruzzi (già XIII Giugno), vista dal lato est di Piazza del Popolo con, in primo piano, la facciata della chiesa del Suffragio.


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> Palazzo Pompili, già sede degli uffici dell’imprenditore Serafino Ferruzzi.

Da “strada della torre” a via

Serafino Ferruzzi

I segni del tempo in una via centrale di Ravenna prima e dopo il 13 giugno 1859 di Pietro Barberini

È una bella strada, appartata ma non ristretta e buia, oggi chiusa al traffico che non può proseguire oltre il sagrato della chiesa del Suffragio. Qui Serafino Ferruzzi, nelle stanze del palazzo Pompili, al civico 8, aveva un suo riservato “quartier generale” munito di telescrivente funzionante ad ogni ora del giorno e della notte. “Fino”, il commendator Ferruzzi, si tratteneva negli uffici, dove operava personalmente collegandosi con le “borse cereali” americane e del Sud Est Asiatico. L’imprenditore ravennate, uno dei più potenti al

mondo nel commercio delle granaglie, spesso dormiva in ufficio, fra un ordine al telex o in attesa di conoscere il fixing dei prezzi. Il palazzo Pompili, costruito in mattoni faccia a vista e con belle rifiniture, è impreziosito dal bel portale in pietra d’Istria. Ciò contribuisce a rendere elegante e ricco di personalità il palazzo tardo cinquecentesco non troppo imponente, a pochi passi dalla piazza del Popolo, dove a volte, il mercoledì, giorno di mercato, Serafino Ferruzzi compariva dopo le undici del mattino. La strada “della torre” che collegava la Piazza alla torre civica, nel 1882 fu ribattezzata via XIII Giugno. Forse da lì passarono i popolani provenienti dalla zona settentrionale della città dirigendosi verso il palazzo apostolico,

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TOPOGRAFIA E STORIA

> Via


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lasciato in fretta dal delegato pontificio monsignor Achille Maria Ricci, la mattina del 13 giugno del 1859. La sua partenza fu precipitosa, tanto che molte cronache dicono di un prelato scappato in gran fretta, quasi catapultandosi dentro la carrozza in pantofole e fuggito con la sua scorta attraverso Ponte Nuovo verso Rimini. Il governo della città era stato ceduto, pochi istanti prima, al Gonfaloniere conte Giuseppe Pasolini. In poco tempo i poteri passarono di mano e il comando militare fu assunto da una “Giunta provvisoria di Governo che a sua volta pubblica un proclama”. «Viene immediatamente istituita la Guardia Civica mentre il comando militare della piazza è affidato al ravennate capitano Pietro Malagola... Il nuovo Comandante invita i cittadini ad iscriversi nei ruoli onde preparare un contingente di 200 uomini da mobilitare per eventuali soccorsi ad altre città». Così scrive, nel suo prezioso stradario, Giuseppe Morini. È una data storica, quella del 13 giugno 1859, che rappresenta la fine del potere temporale della Chiesa a Ravenna. Prima di essere intitolata a quella ricorrenza, la strada era detta “della torre”, poiché metteva in comunicazione la maggiore torre della città con la Piazza. La torre dei “macellai”, le cui origini possono datarsi nel corso dell’XI secolo, come appare in un documento del 26 novembre 1202, Turris macellatorum in Regione Ponti Marini..., diventa ...Turris Comunis que olim dicebatur Guizolorum in guaita Sancti Michaelis. Da torre della corporazione dei Beccai, passò ai Guiccioli ed infine ai signori Da Polenta nel 1317. In anni recenti la torre è stata oggetto di molti interventi che ne hanno consolidato la staticità, limitandone l’altezza per contrastarne l’accentuata pendenza. A lavori già iniziati, è stata asportata dalla sua nicchia la testa lapidea, forse di un imperatore romano, ma ritenuta da tutti una figura femminile: la “Mariola”. Il cavaliere resta al suo posto, lato minore di un sarcofago romano “incastonato” nella torre, mentre la pesante testa velato capite è depositata in un magazzino della Soprintendenza Archeologica dell’Emilia Romagna presso il Museo Nazionale di Ravenna. Su questa storia voglio riportare quanto ha scritto Giuseppe Morini nel suo stradario stampato nel 1986: «Nel lato Nord della Torre, che guarda verso via Girolamo Rossi, vedesi inserita una scultura a rilievo rappresentante un cavaliere che tiene in mano una corona. Certamente fu qui posta all’epoca della costruzione della torre che risale, come abbiamo detto al Mille o al Millecento e tutto lascia supporre che si tratti di un frammento ricavato dalla fiancata di un sar-

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Alcune vedute e particolari dell’ex via XIII Giugno – ora via Serafino Ferruzzi – dove dove il magnate ravennate dell’agroalimentare aveva il suo quartier generale. Qui a sinistra, il vicolo della Casa Matha.

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Il Cavaliere e la Mariola incastonati nel muro della Torre Civica, in una foto di alcuni decenni fa. L’antica testa è stata asportata dopo i lavori di “capitozzamento“ e consolidamento della torre ed tutt’ora è conservata dei magazzini della Soprintendenza Archeologica a Ravenna.

cofago distrutto. Più sotto verso la destra, è pure inserita una testa marmorea estremamente logorata. Vi si vedono incisi dei rozzi segni che vorrebbero segnare gli occhi e la bocca. Tutto però lascia sospettare che si tratti dei resti di una figura d’uomo col capo velato poi deturpata nel modo che ancora oggi vediamo. Il nostro popolo vide in questi due avanzi che rappresentano il primo un cavaliere che procede verso sinistra alla ricerca di qualcuno che gli sta invece dietro, l’altro la testa informe (quasi un’entità misteriosa) qui fissata da secoli, la ragione del proverbio “Cercar Mariola per Ravenna”. Nel 2003 la strada è stata intitolata a Serafino Ferruzzi che qui aveva il suo studio dove tornava sempre al termine dei suoi viaggi. Si trovava bene in quel palazzo, abitato dopo i nobili Pompili dalla famiglia Matteucci. Quasi di fronte si affaccia sulla strada casa Monaldini, una delle più antiche dimore ravennati, anche se ne rimangono pochi elementi. Nel 1920 il palazzo fu venduto alla Società Elettrica Romagnola e attraverso alcuni passaggi è stato fino a una decina di anni fa di proprietà Enel. All’angolo con via Paolo Costa, palazzo Grossi, edificio cinquecentesco fatto costruire da Pietro Grossi che per i servigi offerti alla Repubblica della Serenissima, ottenne privilegi e terre a Castiglione di Ravenna dove tra-

sferì la sua proprietà. Il palazzo, negli anni Cinquanta, fu occupato dalla stamperia Ravegnana, ora vi si trova un ristorante. Dalla via si apre un bel cortiletto che porta alla parte retrostante del palazzo. In uno degli edifici minori a fianco del cortile trova spazio la bella vetrina di Old England Scotch House che conferisce un tono di colore alla via, proponendo una fornitissima collezione di whisky. Il locale è stato aperto alla fine del 1988. Fra la torre e via della Casa Matha, anticamente vicolo di San Michele (in Africisco), poiché era a lato dell’omonima chiesa, negli anni Settanta venne aperta la prima sede della libreria “Rinascita”. Fra i tanti nomi della strada non possiamo dimenticare che dal Settecento è stata chiamata anche via del “Suffragio”, dopo la costruzione della chiesa a pianta ottagonale concentrica di Santa Maria dei Suffragi. Ben presto la parte della chiesa rovinò sulla stessa strada cittadina. Finalmente fu ultimata dall’architetto Camillo Morigia nel 1787, con la facciata barocca in sasso d’Istria, sormontata dalle statue rappresentanti la Carità e la Giustizia. L’interno presenta un bel pavimento in marmo bianco e rosso di Verona e una natività di Andrea Barbiani. Tutte le foto a colori sono dell’autore


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CITTÀ E QUARTIERI

di Chiara Bissi

Complice l’arrivo dell’estate, l’oggetto delle ricognizioni urbane avviate in questi mesi rimane la conoscenza del territorio, ma in questa occasione si sposta sulla costa. In particolare l’attenzione è rivolta ai lidi nord, ovvero le tre località poste a settentrione del porto canale Candiano: Porto Corsini, Marina Romea e Casalborsetti. Anche per queste vale la regola già adottata, cioè quella di privilegiare il presente e le prospettive future, vista l’attenzione costante delle cronache e le attese del movimento turistico. Per tutte vale la forte vocazione ambientale, la ricchezza e la qualità di aree naturali di rara bellezza, un’offerta turistica costruita per offrire relax ma anche tante occasioni per praticare attività sportiva all’aria aperta (escursioni in natura, cicloturismo, equitazione, pesca sportiva). Allora partendo dall’attualità è d’obbligo partire dal terminal crociere, un’opportunità turistica per Ravenna, spesso vista con diffidenza dai residenti di Porto Corsini, per il massiccio via vai di automezzi a servizio del trasporto dei croceristi. Grazie alle risorse del progetto europeo Ea Sea-Way “Europe-Adriatic”, la Provincia ha annunciato recentemente l’arrivo di finanziamenti per at-

trezzare il terminal di una linea di acqua potabile, riducendo il passaggio di autocisterne; la posa in opera entro il 2015 di fibra ottica per la banda larga dalla zona industriale Bassette lungo via Baiona fino ad arrivare al Terminal Passeggeri e a servizio di tutta Porto Corsini; e il cofinanziamento con Provincia e Autorità portuale del progetto di un nuovo terminal, opera dal costo di circa 2 milioni di euro. Risorse certe per interventi concreti a differenza di quanto avvenuto nel recente passato di Porto Corsini, quando un progetto faraonico ne voleva trasfigurare l’aspetto. Per il 2012 era previsto l’avvio dei lavori del progetto chiamato nuovo Borgo marino, un investimento di circa 100 milioni di euro per un terminal crociere, (unica opera realizzata) uno sporting club, un albergo, un centro commerciale, una piazzetta e una nuova viabilità. Il progetto votato dalla giunta comunale e acquisito dall’Autorità portuale doveva valorizzare le aree demaniali che si estendono per più di 180 mila metri quadrati. Nella piazza in fregio al canale doveva essere collocata la statua di Clemente XII, quel papa Corsini che volle l’apertura del canale nel 1746. Sul monumento custodito all’interno del museo nazionale si sprecano proposte di collocazione nei più diversi spazi urbani. Una rivoluzione urbanistica mancata


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Lidi nord:

il turismo in natura

Porto Corsini, Marina Romea e Casalborsetti, grandi numeri per gli amanti del relax, fra percorsi green e sport d’acqua per il profilo minuto della località con 1.517 abitanti, secondo i dati registrati al 31 dicembre 2014, stretta fra il canale e la pineta, con un turismo familiare, vicino ma del tutto diverso dal modello glamour imposto dalla spiaggia di Marina. Volgendo lo sguardo al passato fino agli Trenta le parti terminali del canale Candiano andavano a formare l’abitato di Porto Corsini, collegato da un traghetto. Poi la porzione in destra canale prese il nome di Marina di Ravenna. Se i principali servizi nascevano in destra canale, a sinistra poche erano le famiglie, in prevalenza pescatori e braccianti ad occupare piccole abitazioni in canna palustre. La borgata venne presto rinominata “Abissinia” per le condizioni di estrema povertà dei residenti. Nel corso della prima guerra mondiale dopo l’incursione della Marina austriaca Porto Corsini ospitò una base aeronautica statunitense sul Candiano con 26 idrovolanti e 400 uomini; i bombardamenti della seconda guerra mondiale poi, cambiarono il volto delle due località affacciate sul canale. Oggi la sede della capitaneria di porto, un attrezzato circolo velico che ospita gli appassionati del vento, siano in barca a vela, in catamarano, in wind surf, surf o kite surf, e ancora un’area camper sono i punti di attrazione della località. Proseguendo lungo i 35 chilometri di spiaggia ravennate anche per Marina Romea la spiaggia intatta, la lunga fascia di pineta e la valle compongono un’oasi di tranquillità, dove il relax si coniuga con lo sport, e il turismo si fa ecocompatibile. Elegante, ricca, curata, ri-

Un lussureggiate intreccio, di acque, terra e boschi segna il territorio intorno ai Lidi Nord di Ravenna. Da Punta Marina a Marina Romea a Casalborsetti, le cittadine sono inserite fra la linea di spiaggia, valli e pinete. Luoghi ideali per escursioni, passeggiate, attività sportive...

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CITTÀ E QUARTIERI

chiusa nel verde dei giardini, Marina Romea, vive nelle ville, dove si consumano le estati, fra vita da spiaggia, cene fra amici, mah jong, e relax. Ma non mancano alberghi, residence e campeggi aperti che dalla primavera ad ottobre offrono quiete e servizi a misura di famiglia. I 1.303 residenti al 31 dicembre 2014 ne fanno comunque una località viva, e le lottizzazioni degli ultimi anni nonostante le polemiche, non ne hanno di fatto modificato il profilo. I centri per la pratica dell’equitazione, le spiagge aperte ai cani dei bagni Aloha Beach, Papiriki e Marisa ne fanno inoltre una località amica degli animali. Le iniziative pubbliche animano le strade e le piazze, ma il profilo prevalente è quello privato che rifugge gli echi del glamour della riviera. La nascita di Marina Romea risale agli anni Cinquanta del XX secolo. Il nome della località, riporta il sito della pro loco di Marina Romea, è frutto di un concorso aperto ai cittadini, bandito dalla Camera di commercio nel

In alto, la piallassa Baiona; sulla spiaggia un’esibizione di windsurf e kitesurf; un capanno sul moletto di Marina Romea e la spiaggia della località balneare.


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CITTÀ E QUARTIERI

> Alloggi in legno, a piano terra, ecocompatibili: ma il Rue per ora dice no Il sogno di Paolo Rametta e Cristiano Vitali spera nell’aggiornamento del regolamento urbanistico A Casalborsetti fra progetti realizzati e piani sulla carta rimane un progetto dalle forti caratteristiche ecosostenibili, al momento fermo davanti alle norme del regolamento urbanistico edilizio (Rue). Rue che è in corso di aggiornamento e semplificazione dopo le forti pressioni della Regione che ha decretato la fine di un’epoca nella quale tutti i Comuni dal più piccolo al più popoloso approvavano regolamenti propri in una sorta di neo Medioevo urbanistico. A raccontare la propria esperienza Paolo Rametta e Cristiano Vitali di Seagullholding. «Abbiamo fatto – spiega Vitali – una lottizzazione all’interno del paese come prevedeva il Prg ’83 vendendo tutti gli 80 appartamenti costruiti. Ora nella località abbiamo un terreno a destinazione commerciale e ricettiva. Oggi un albergo stagionale per reggere deve avere almeno 130 camere e il nostro terreno per le dimensioni non si presta. Noi non vogliamo una struttura che si sviluppa in verticale. Abbiamo così proposto una riduzione della superficie per fare una residenza turistica alberghiera a piano terra. Si tratta di 18 – 20 alloggi in legno, costruiti con moduli con impianto fotovoltaico, con sottoservizi leggeri con le sole fognature e le linee elettriche a spese nostre. Una soluzione per 50 ospiti circa che può anche essere temporanea, per 4 – 5 anni, e poi smontata. Al momento ci hanno risposto che il Rue non contempla questo tipo di progetto, ma questo non dovrebbe voler dire che non si può fare. Noi speriamo che con l’aggiornamento del Rue, Casalborsetti possa avere un Rta a basso impatto e forte risparmio energetico».

1956. Nel 1951 su 88 ettari di pineta fra il mare, la valle e le paludi del fiume Lamone, nacque la lottizzazione. Allora solo una pista permetteva il collegamento con Casal Borsetti, un villaggio di braccianti, e a Porto Corsini, borgo di pescatori. Nel dicembre 1952 ebbero inizio i lavori di costruzione di una vera e propria strada litoranea fra Casalborsetti e Porto Corsini, l’attuale viale Italia. Il riferimento iniziale fu Milano Marittima ma in seguito non furono edificati schiere di alberghi. Il primo edificio terminato fu l'hotel Corallo, nel 1957, seguito a breve dagli hotel Columbia e Millepini, lungo la nuova strada litoranea. Strada che lasciato il fiume Lamone e le molteplici offerte musicali del bagno Boca Barranca, cambia nome e conduce verso Casalborsetti, il lido ravennate più a nord della provincia. Una località balneare capace di numeri importanti in termini di presenze turistiche, apprezzata da ospiti italiani ma soprattutto stranieri, grazie a una formula che propone un’accoglienza fatta di campeggi, area camper e villaggi immersi nel verde della pineta. A questa si aggiunge la presenza di alberghi e appartamenti in affitto. Il lido conta 938 abitanti, secondo il rilevamento al 31 dicembre 2014, e si distende tra le foci dei fiumi Reno a nord dove si trova un’area militare e Lamone a sud. Il volto della località è cambiato con la costruzione di Porto Reno, il porticciolo da 550 posti barca alle spalle del lido, costruito sul canale nel 2008. Un’opera per la quale fu necessario l’abbattimento del ponte pedonale, spostato fra le polemiche


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Foto dall’alto del terminal crociere di Porto Corsini.

più a valle. Il paese disposto fra le due sponde del canale è oggi collegato da una passerella pedonale, grazie alle tenaci proteste degli abitanti. Sul porticciolo 70 bungalow, edificati in un corpo a forma di spirale posto sull’acqua, e dotati di posto barca e posto auto. Il tutto progettato dall’architetto Winfred Gruber fu realizzato dalla Cmr di Pier Bruno Caravita, coop. fallita nel 2011 dopo aver firmato anche la realizzazione di Marinara. Ma nel futuro della località si affacciano altri progetti. Casalborsetti offre i servizi balneari tipici della riviera in una atmosfera informale e tranquilla, a pochi passi dalla spettacolare oasi di Punta Alberete, dall’area protetta della Valle della Canna e dalla Cascina di Mandriole dove morì Anita Garibaldi. Un po’ a sorpresa torna la previsione di un campo da golf da 18 buche, una club house, una zona residenziale, una ricettiva, con una nuova rete viaria e opere di riqualificazione della pineta. Un progetto che a 16 anni dalla prima presentazione potrebbe prendere il via nel 2016. Proprietarie di circa 170 ettari di terreno la Molinetto Srl e la Valore e Sviluppo Spa. Al Comune verranno ceduti 80 ettari circa di pineta verso Marina Romea. Un nuovo intervento per Casalborsetti, che ai primi del Novecento era un semplice borgo di pescatori, e prese il nome dal Casello o Casolare in cui abitava un finanziere di nome Giovanni Borsetti.

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GESTIONE BENI CULTURALI

Alcune vedute della prima Stazione del Parco Archeologico di Classe, denominata “Il Porto Antico”, che dovrebbe essere inaugurata nel luglio 2015. In alto, l’ingresso della stazione in via Marabina, ormai completato, con il Centro Visitatori dotato di strumenti multimediali (al centro pagina un rendering dell’edificio). Qui a fianco, gli scavi archeologi, con i resti della strada a servizio dell’antico porto della flotta romana. Nella pagina fianco, in basso a sinistra: il rendering dell’allestimento della grande “onda di mosaico” che accoglierà i visitatori all’ingresso del Museo archeologico nell’ex Zuccherificio di Classe, la cui apertura al pubblico è prevista nel 2016. In basso a destra: una visione d’insieme dell’allestimento di Tamo,il museo permanete del mosaico, gestito da RavennAntica nella chiesa di San Nicolò, in via Rondinelli a Ravenna.


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Sistemi museali e luoghi della cultura: quale futuro? Conversazione con Sergio Fioravanti, direttore della Fondazione Parco archeologico di Classe - RavennAntica

di Paolo Bolzani

Fabio Donato, Ordinario di Economia Aziendale Università di Ferrara, in occasione di un convegno dal titolo “La crisi sprecata”, ha delineato la seguente situazione: «oggi la riduzione dei finanziamenti alla cultura viene fronteggiata non attraverso una riconsiderazione dei modelli di governance e di management, ma con la riduzione dei costi attraverso il blocco delle assunzioni. Il che significa ostacolare l’ingresso delle generazioni più giovani nelle istituzioni culturali ». Con riferimento a queste affermazioni, qual è la sua opinione al riguardo e quali sono gli strumenti validi per la progettualità museale del futuro? «Quando la crisi economica si protrae per un periodo così lungo come quello in cui stiamo vivendo, è un intero sistema sociale che soffre. Ebbene, Il settore della cultura, inevitabilmente, soffre di più. E i primi a farne le spese sono i giovani laureati in discipline umanistiche che si vedono sbarrare le porte di accesso al mondo del lavoro. I primi a risentirne, ovviamente, sono loro ma, in termini di fantasia, intraprendenza, innovazione ed entusiasmo soffrono anche i luoghi della cultura che non possono giovarsi di nuova linfa vitale. E, direi, soprattutto, corrono il rischio di rinviare quel processo di ripensamento della propria funzione, di rinnovamento dei servizi erogati e di ricollocamento nella società».

In cosa consiste questo processo di ripensamento, rinnovamento e ricollocamento dei luoghi della cultura e a che punto è l’elaborazione progettuale di questi concetti. «La domanda cruciale è: i luoghi della cultura a chi appartengono e in favore di chi devono espletare la propria funzione? A seconda della risposta che si da a questa domanda ci si deve poi organizzare in termini di assetti, di assunzioni, di formazione del personale e di relazioni esterne. A mio avviso i luoghi della cultura sono della collettività, tutti dovrebbero potervi accedere in quanto piacevolmente attrattivi e ciascuno, compatibilmente con i propri interessi e il proprio grado di istruzione, dovrebbe essere posto nella condizione di poterli capire traendone la massima soddisfazione possibile. Una concezione di questo tipo, chiaramente, in aggiunta all’irrinunciabile funzione culturale e della ricerca dei musei, impone una riflessione circa la loro dimensione minima, le professionalità che vi operano e la loro valenza nell’ambito del contesto turistico circostante». Questa impostazione introdurrebbe elementi di novità sulle figure professionali che operano nell’ambito dei Beni Culturali? «Una giornalista di “Repubblica”, Cinzia Dal Maso, che da sempre si occupa di divulgazione in materia di Beni Culturali ha curato recentemente un libro, intitolato Archeostorie, nel quale trenta e più archeologi raccontano le loro storie professionali non “convenzionali”. Il quadro

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GESTIONE BENI CULTURALI

In alto, la grande sala basilicale del Museo Tamo, con i mosiaici permanenti e l’allestimento di una mostra temporanea. In basso, lo stesso spazio utilizzato per una sfilata di moda. Tamo è frequentemente utilizzato anche per laboratori didattici dedicati ai bambini, incontri culturali e conferenze. In basso, a destra, la sala di Tamo intitolata “Il Genio delle Acque”. Nella pagina fianco, il sito sotterraneo della “Casa dei Tappeti di Pietra”, sempre gestito dalla Fondazione RavennAntica.

che ne emerge è una ricca rassegna di “mestieri del futuro”, come li chiama chi afferma che il nostro paese deve puntare sui beni culturali, ma che in realtà esistono già da tempo. Sono mestieri che gravitano nel campo della comunicazione e del management, poi però ci sono mestieri nuovi o nascenti che devono poter essere declinati dagli addetti ai lavori a modo loro: pensiamo al social media manager, al videomaker, all’esperto di videogame o di Open Data. Pensiamo poi a chi gestisce siti e musei con l’attenzione rivolta alle esigenze di tutti i visitatori, o chi inventa storie sempre nuove per coinvolgerli, o chi sperimenta con successo crowdfunding e crowdsourcing». La eliminazione della gratuità per gli over 65 rimette in gioco, secondo alcune stime, e a regole date, circa 3,5 milioni di euro di fatturato potenziale nel mercato. Pensa che sarà un elmento positivo o negativo nella gestione dei siti museali? «Nei siti gestiti da RavennAntica non è mai stata applicata alcuna riduzione agli over 65. Da un lato abbiamo sempre


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saputo che gli anziani sono fra i più assidui fruitori degli eventi e dei luoghi della cultura, dall’altro ci è sempre parsa riduttiva l’equazione anziano uguale a indigente. Ora che queste considerazioni sembrano aver trovato cittadinanza anche nella gestione dei monumenti statali credo che le risultanze economiche non potranno che trarne un rilevante beneficio. Le cose da fare, però, restano ancora molte». Ha qualche idea in proposito? «Io non ho davvero la pretesa di insegnare alcunchè a nessuno. Mi limito a rilevare che nel settore della gestione dei beni culturali continua a regnare una visione schizofrenica che ondeggia pericolosamente fra la concezione meramente educativa e formativa dei beni culturali e quella a valenza economica totalizzante che viene comunemente espressa con la frase “petrolio d’Italia”. La verità, come spesso accade, è che bisognerebbe sforzarsi di trovare una linea di equilibrio fra queste due visioni che, peraltro, non sono affatto antitetiche». Da dove bisognerebbe partire per conciliare queste due esigenze, quella culturale e quella economica? «Dal riconoscimento reciproco che, in una perdurante situazione di crisi economica e di inevitabile e progressivo calo delle risorse e dei trasferimenti, i luoghi della cultura per poter continuare ad esercitare la loro funzione primaria, non possono più sottrarsi ad alcune regole di sana amministrazione gestionale che adottino corrette politiche commerciali, promozionali e di corretto impiego delle risorse umane disponibili per la migliore erogazione dei servizi. Dall’altro, il riconoscimento che la natura stessa del prodotto di cui si tratta impone cautela e prudenza nella consapevolezza che ben difficilmente potrà raggiun-

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gersi la produzione di utili in sé ma che, invece, potrà diventare un formidabile volano per l’economia locale. Innanzitutto per l’indotto turistico ma anche per l’editoria, l’artigianato locale ed i servizi alla persona». Vuol farci qualche esempio di regole attualmente disattese di sana amministrazione gestionale? «Beh, è sufficiente analizzare gli orari di apertura dei musei e dei monumenti per rendersi immediatamente conto che vengono proposti non per favorire la fruizione dei visitatori ma tenendo conto delle esigenze del personale che vi è impiegato. Ancora: va bene menare a vanto il sistema del museo diffuso sul territorio ma deve pur esserci un minimo di razionalizzazione che eviti l’eccessiva polverizzazione con quel che ne consegue in termini di costi correnti di gestione. Che dire poi delle varie iniziative promozionali, come la settimana della cultura in aprile, che propongono la gratuità ai luoghi della cultura nei periodi di massima affluenza stagionale? Sarebbe come se un albergatore decidesse di scontare della metà il prezzo delle sue camere a Ferragosto!». Prima, però, faceva riferimento anche alle superiori esigenze della cultura davanti alle quali anche le esigenze della sana gestior devono arrestarsi… «Si. Penso che in un’ottica strettamente commerciale, ove si compisse un valutazione analitica, risulterebbe che i prezzi dei biglietti sono mediamente troppo bassi e con fasce di riduzione e gratuità eccessive. Ancora: alcuni progetti espositivi di indubbio valore scientifico sono evidentemente rivolti a pubblici molto esigui. In questi casi è evidente che il criterio economico non può essere l’unico al quale riferirsi proprio perché il prodotto che si ha alle mani deve imporre consapevolezza e cautela».

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GESTIONE BENI CULTURALI

Due immagini della Cripta Rasponi, con i giardini pensili e le stanze ipogee decorate a mosaico, gestite da RavennAntica all’interno del Palazzo della Provincia, con ingresso in piazza San Francesco

Per chiudere. Quali sono i prossimi obiettivi di RavennAntica? «In questi dodici anni di vita molto è stato fatto. Abbiamo restituito alla fruizione, valorizzandola, la Domus dei Tappeti di Pietra. Abbiamo organizzato eventi espositivi di grande valore scientifico che non hanno mai richiamato meno di 40.000 visitatori, dimostrando che si può associare successo di pubblico a qualità della proposta culturale. Abbiamo realizzato un’offerta laboratoriale rivolta ad oltre 15.000 ragazzi all’anno distribuita su tre centri allestiti, arredati e professionalmente all’avanguardia. Abbiamo restaurato, allestito e valorizzato il complesso di San Nicolò realizzandovi Tamo, il museo del mosaico. Abbiamo costituito una squadra di giovani laureati in Conservazione dei Beni Culturali, formati sul campo a tutte le discipline della comunicazione, del marketing, della didattica, della gestione museale e del restauro. A conclusione di questa intensa attività di preparazione ci apprestiamo ora a conseguire due importanti obiettivi della mission che ci è stata assegnata: l’Inaugurazione a luglio di quest’anno della prima Stazione del Parco Archeologico di Classe – l’Antico Porto – e l’apertura entro il 2016 del Museo nell’ex Zuccherificio di Classe».


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Andrea Oliva

e l'edificare fra sostenibilità ambientale e rigenerazione urbana Le visioni, fra interno, esterno e installazioni, di

MIRO architetti Quinto appuntamento per la serie di incontri - confronti del ciclo di otto conferenze "SeDici Architettura", in programma giovedì 18 giugno nell'inedita cornice dei Poderi dal Nespoli a Cusercoli nell'alta valle del Bidente in provincia di Forlì-Cesena. Si tratta di un luogo “speciale“, sia per la produzione vitivinicola d'eccellenza sia per le caratteristiche delle strutture dell'azienda: dalle storiche cascine al padiglione commerciale, dagli spazi di accoglienza alle cantina e le altre infrastrutture produttive. Che sono state restaurate o realizzate nel rispetto del sito agricolo originario e con soluzioni ecosostenibil. Gli architetti di Miro (Bologna) e Andrea Oliva, fondatore dello studio Cittàarchitettura di Reggio Emilia, racconteranno le loro esperienze progettuali attraverso sguardi e metodi di due differenti generazioni impegnate nel campo, e sul senso, dell'architettura odierna.. La conferenza è promossa da questa rivista e dalla società editoriale Reclam, in collaborazione con Nuovostudio di Ravenna e Archibiotico di Forlì (che curano la parte scientifica degli incontri) e con il patrocinio – anche ai fini dei crediti formativi professionali – degli Ordini degli Architetti di Ravenna e di Forlì-Cesena.


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Andrea Oliva - Cittàarchitettura. Laureato in architettura al Politecnico di Milano nel '98, in seguito svolto attività di ricerca e didattica, partecipando a seminari di progettazione e teoria urbana in diverse università italiane e intervenendo in conferenze nazionali e internazionali. All'Università di Parma ha curato il "Progetto Rete (Reggio Emilia Territorio Esteso)" e la "Riqualificazione della via Emilia, ed è stato consulente per il Psc del Comune di Reggio Emilia. Nel 2000 ha fondato lo studio Andrea Oliva - Cittàarchitettura, in cui porta avanti la progettazione a diverse scale attraverso la ricerca tipologica e morfologica di nuovi insediamenti nel contesto del paesaggio contemporaneo, prestando particolare riguardo ai temi della sostenibilità energetica. L'attività spazia dalla realizzazione di edifici pubblici, residenziali, commerciali, industriali e complessi alberghieri fino all'organizzazione di spazi pubblici, piani urbanistici e progetti paesaggistici, riqualificazioni urbane e architettoniche in ambito storico. Le opere di Oliva sono state pubblicate su giornali e riviste tra cui "The Plan", "Giornale dell'Architettura", "Il Sole 24 Ore", e i progetti esposti in mostre italiane ed internazionali. In Italia e all'estero ha ottenuto importanti riconoscimenti in vari concorsi fra cui "Centocittà" (per un centro multiculturale a Bologna), il Premio Sostenibilità 2006, 2009 e 2011, e per il progetto del Tecnopolo per la ricerca industriale, selezionato fra i venti migliori progetti europei al "European Union Prize For Contemporary Architecture Mies van der Rohe Award 2015". Proprio il progetto Tecnopolo sarà illustrato dall'architetto Oliva durante la conferenza, insieme ai quelli della Casa sulla Morella, delle Residenze rpe 18 e della Casa sulla Beviera.

Nelle foto alcune delle opere realizzate dall’architetto Andrea Oliva e dallo studio Cittàarchitettura di Reggio Emilia.

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SEDICI ARCHITETTURA 2015 MIRO architetti. Lo studio di progettazione è stato fondato a Bologna nel 2009 dagli architetti Valentina Cicognani, Giacomo Minelli e Riccardo Pedrazzoli. Prerogativa dello studio è la composizione architettonica alla scala dell'edificio, tuttavia nel tempo il suo campo di ricerca è stato ampliato con successo, includendo diverse altre scale e intensità della progettazione dello spazio. Suo interesse è inoltre la difesa e promozione della nuova architettura, causa alla quale non fa mancare il proprio impegno. Fra i suoi interventi si trovano svariate realizzazioni di interni residenziali e commerciali, allestimenti e installazioni, come la Casa Tascabile in Santa Caterina e l'Installazione temporanea per Bologna Water Design a Bologna, oltre a un appartamento, uno showroom e alcuni uffici a Ningbo, in Cina. Lo studio è anche autore di progetti di concorso per il padiglione austriaco all'expo di Milano, per l'urban center di Ferrara, per un edificio residenziale a Katrineholm (Se) e per un hotel termale a Longguan, in Cina. Tutti lavori che saranno illustrati in occasione della loro conferenza. Vincitore di premi e concorsi italiani e internazionali, MIRO nel 2011 è stato incluso da New Italian Blood nella top ten dei più promettenti studi under 36 del paese. Titolo del loro intervento: "MIRO Opera recente: interni, installazioni e visioni di architettura fra Italia, Europa e Catai".

Nelle immagini rendering dei progetti ideati dallo studio MIRO architetti di Bologna per concorsi nazionali e internazionali.


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ORDINE ARCHITETTI RAVENNA

Con il patrocinio

Comune di Ravenna

Comune di Cervia

Comune di Lugo

Comune di Forlì

Comune di Cesena

ciclo di conferenze 2015 Otto incontri/confronti fra protagonisti esperti ed emergenti della progettazione contemporanea Alessandro Bucci Faenza

Tomas Ghisellini Ferrara

Iotti / Pavarani Reggio Emilia

M2R Reggio Emilia

Giovedì 19 FEBBRAIO

Albergo Cappello RAVENNA Giovedì 19 MARZO

Oggetti d’Autore FORLÌ Giovedì 23 APRILE

Edilpiù LUGO Giovedì 21 MAGGIO Sala Conferenze

Autorità Portuale

Laprimastanza Montiano (FC)

Stefano Piraccini Cesena

Brenso Bologna

Tappi / Barbieri Cesena

RAVENNA Andrea Oliva Reggio Emilia

Giovedì 18 GIUGNO Azienda vitivinicola

Poderi dal Nespoli

Miro architetti Bologna

NESPOLI (FC) Antonio Ravalli Ferrara

Alessandra Chemollo Marghera (VE)

Marco Mulazzani Ferrara

Giovedì 17 SETTEMBRE

Magazzini del Sale CERVIA Giovedì 15 OTTOBRE Galleria Comunale

Palazzo del Capitano

Pulelli / Valbonesi Cesena

Ecrù Parma

CESENA Giovedì 19 NOVEMBRE

Albergo Cappello RAVENNA

ore 20 Apertura, registrazione crediti formativi ore 20.30 Saluto azienda promotrice ore 20.45 Architetti emergenti ore 21.45 Architetti esperti ore 22.45 Spazio interventi e saluto conviviale

Sperandio / Pozzi Santarcangelo (RN) Info Reclam tel. 0544 408312 redazione@trovacasa.ra.it - www.reclam.ra.it

Comitato scientifico Gianluca Bonini, Stefania Bertozzi, Giovanni Mecozzi, Filippo Pambianco Organizzazione, promozione, documentazione Reclam edizioni e comunicazione srl – Casa Premium rivista dell’abitare

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GRAND TOUR

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Paul Klee. Da http://www.entretantomagazine.com /2013/03/19/paul-klee-maestro-de-la-bauhaus/.


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Salita al Parnaso Paul Klee e il “paradiso” ravennate (1926) di Alberto Giorgio Cassani

Paul Klee, nel suo secondo Grand Tour del 1926, giunge a Ravenna, con la moglie Lily, sostandovi dal 12 al 16 ottobre, da una Firenze in cui a fatica si era separato dai capolavori degli Uffizi. Klee amava Firenze così come non sopportava troppo Venezia, «una città senza auto, senza carrozze, senza cavalli, senza asini, senza alberi, con pochi cani, molti gatti (ma nessuno bello)»,1 come scriverà alla moglie Lily il 9 ottobre 1932. Non avendo purtroppo nessun appunto autografo su questa visita – come stupirsi, visto che si trovava nella “città del silenzio”? – ci dobbiamo accontentare dei ricordi di Felix, il figlio-biografo del grande pittore svizzero. Ravenna, una «città così poco italiana»,2 esercita sul padre «un incanto particolare con i suoi mosaici bizantini, dai colori sfarzosi».3 A tal punto che il «periodo divisionista» di Klee, iniziato nel 1930 con le composizioni pointillistes eseguite a Düsseldorf, ha probabilmente avuto un decisivo «impulso»4 da questo incontro. Felix ci informa che, nei giorni in cui sosta in città, in carrozza, i Klee si recano al mausoleo di Teodorico e alla «meravigliosa»5 chiesa di Sant’Apollinare in Classe (dove Paul – binocolo a tracolla, cappello in testa e braccia incrociate dietro la schiena, con gli occhi leggermente alzati forse sul fianco esterno della chiesa – e Lily si fanno fotografare davanti alla basilica) e, infine, sulle sempre più affollate orme di Dante, Byron e James, «attraverso la pineta»,6 fino al mare. Qui Klee, nella laguna ravennate, ammira, come James, «le vele variopinte con strani disegni».7 Ed è tutto. Non ci resta che immaginare, in maniera un poco sciovinista, che il famoso quadro Gradus ad Parnassum [Salita al Parnaso] del 1932 gli sia stato suggerito dalle sfolgoranti tessere di nostrani cieli stellati. Un anno dopo, nel 1933, sospeso

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dall’insegnamento all’Accademia di Düsseldorf in quanto «artista degenerato», dopo aver militato come Maestro nel mitico Bauhaus di Weimar-Dessau, anch’esso fatto chiudere nello stesso anno dai nazisti, Klee scoprirà il Descensus ad Inferum cui è costretta la ragione dalla stupidità umana.

> Note 1. Citata in Felix Klee, Paul Klee, Zürich, Diogenes Verlag, 1960, trad. it. di Angioletta Mazza, Vita e opere di Paul Klee, Torino, Giulio Einaudi editore, 1971, p. 58. 2. Ibid., p. 59. 3. Ibid. 4. Ibid. 5. Ibid. 6. Ibid. 7. Ibid.

Paul Klee e la moglie Lily davanti a Sant’Apollinare in Classe, ottobre 1926.

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GRAND TOUR

In alto a sinistra: Stadtburg Kr. [Castello di città Kr.], 1932, olio e tempera su gesso, cm 36 × 30,5. In alto a destra: Das Licht und die Schärfen [La luce e i bordi], 1935, 102. Acquerello e matita su carta montato su cartone, cm 32 × 48, Berna, Zentrum Paul Klee. Sotto: Gradus ad Parnassum [Salita al Parnaso], 1932, olio su tela, cm 100 × 126, Berna, Kunstmuseum.


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Dedicato alle farfalle, per risarcimento

Infanzia bergamasca Lasciare le cose


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di Alberto Giorgio Cassani

«La propria casa non si vende. Preferisco darle fuoco».1 Così afferma, senza mezzi termini, il detective Pepe Carvalho alla proposta del direttore della succursale della cassa di risparmio di Barcellona di “ipotecarla” o “venderla”. Forse ha ragione. Curioso – e un po’ azzardato – sostenerlo sulle pagine di un mensile che proprio sulla vendita di case basa la possibilità di essere distribuito gratuitamente. Ma tant’è. Se uno scrive quello che pensa deve assumersi certi rischi. Come quello di essere accusato di piromania. Lasciare le cose è fare esperienza del fatto di non essere eterni, bensì mortali. Ma è più facile a dirsi che a farsi. Le cose, gli oggetti con cui trascorriamo del tempo, assorbono un po’ della nostra vita, diventano parte di noi stessi. Quelle ereditate, poi, sono cariche delle vite degli altri, di chi ci ha preceduto. Le case, in questo, sono i massimi accumulatori di esperienze vissute. È per ciò che è così difficile separarsene. Nelle case si nasce, si fa l’amore, si muore. Le stanze sono testimoni di lunghe ore trascorse in solitudine, a leggere un libro, a non far niente, a fantasticare, a ridere e a piangere. Delle case, specialmente nell’infanzia, conosciamo tutti i dettagli: ogni crepa del muro, ogni disegno delle piastrelle del pavimento diventano figure di un mondo della nostra fantasia, immagini che rimandano a ciò che c’è “al di là dello specchio”. Ci sono case normali, in cui viviamo tutti i giorni, e ci sono case particolari in cui trascorriamo il tempo tutto speciale delle ferie e delle vacanze. La casa di mio bisnonno materno, e poi dei miei nonni e infine di mia madre, è la casa in cui ho trascorso, fino all’adolescenza, tutte le lunghe estati della mia vita. Dunque, una casa del tutto singolare, unica, sorprendente. Non vedevo l’ora che mio padre ci portasse, mia madre e tutti e tre noi fratelli (allora non eravamo ancora in cinque, come poi siamo diventati), sulla Fiat 1100 color beige in quello che era un viaggio avventuroso, attraverso un paesaggio completamente nuovo – anche se visto due volte ogni anno, all’andata e al ritorno – alla casa dei nonni. E lì cominciava un nuovo tempo, che durava fino al ritorno nel paese dove abitavo, per l’inizio della scuola. Di quegli anni mi ricordo le gite in montagna, i pic-nic domenicali con la valigia in vimini dove c’era tutto, ma proprio tutto, l’occorrente per mangiare, le domeniche nei boschi, le incursioni a Lugano per comprare la saccarina per mia nonna che aveva il diabete, le sigarette per mio nonno e la cioccolata svizzera per tutti. Un viaggio pericoloso, perché dovevamo nascondere il prezioso dolcificante che in Italia costava tanto e in Svizzera, invece, assai meno. Il momento della “perquisizione” dell’auto me lo ricordo come un istante di alta tensione emotiva da parte degli adulti. Ma l’atmosfera si diffondeva anche a noi fratelli, piccoli complici dell’esportazione abusiva di capitali svizzeri in Italia. C’era in realtà un’altra casa in cui trascorrevamo una parte delle vacanze estive. Una strana villetta di mezza montagna, con un terrazzo-solarium con dei pilastrini-parapetti che sembravano i merli di un castello e un fantastico affresco naïf con la cartina della zona (le montagne, i paesi, il lago e il paese da favola, Capo di Lago). Lì ci portava mio nonno e poi ci veniva a trovare

alla fine della sua settimana di impiegato-contabile in una segheria di Bergamo; e poi si tornava a casa, perché tutte le cose finiscono. Mi ricordo l’odore delle mucche e un “gioco” fatto con delle povere farfalle, che, a ripensarci, mi viene un terribile senso di colpa. I bambini sono anime sadiche e criminali.2 Per fortuna si cresce. Lì altri amici che si sono persi nel tempo, ma non nella memoria. La strada per arrivarci era talmente ripida che mio nonno ci faceva scendere dalla Fiat 850, altrimenti non ce l’avrebbe fatta ad arrivare in cima. Ma non era la nostra casa. Eravamo ospiti di un’amica di mia nonna e di mia madre, l’ostetrica che mi ha fatto nascere in una clinica di Bergamo. Sono nato a Bergamo per caso, perché l’ospedale di Ravenna, allora, aveva un reparto di ostetricia da far accapponare la pelle. A mia madre era bastata l’esperienza della nascita di mia sorella maggiore e poi aveva deciso di farci nascere tutti a Bergamo. La casa dei nonni è – non riesco a dire era, anche se dopo la vendita, il nuovo proprietario con tutta probabilità la modificherà a tal punto che sarà un’altra casa – la vera casa di una volta, raffigurazione dell’ordine del cosmo: la cantina, simbolo dell’elemento ctonio; i due piani – quello rialzato, in cui abitava mia zia, nubile, e poi mia sorella col suo compagno di una vita e poi marito, e il primo piano, in cui abitavano i miei nonni materni con mia madre e dove poi ha abitato mio nonno dopo la morte di mia nonna, ed anch’io, negli anni dell’università e nel periodo “milanese” durato quasi vent’anni – simbolo del mondo terreno; infine la soffitta – luogo meraviglioso in cui la densità delle cose si centuplicava, per la presenza di misteriosi cassoni di legno che conservavano mirabiliæ (come un misterioso disegno di un’anatra tracciato con mano sicura sulla parete delle scale in legno, cigolanti, come in tutte le soffitte che si rispettano, e che io immagino lasciato dalla fantasia di qualche muratore-artista – simbolo del mondo celeste. Per capire le tante revêrie di una casa, bisogna leggersi quel libro, capolavoro d’altri tempi (tempi più lenti e non folli come quelli odierni), che è La poetique > Walter Benjamin de l’espace3 di Gaston Bachelard. I miei ricordi più personali me li tengo per me e per le persone che ho incontrato in quegli anni, se qualcuno di loro se ne ricorda, ma alcuni li posso rendere pubblici. Primo fra tutti la notte più lunga della mia vita: il 21 luglio 1969, quando mi fu permesso, per via dell’atterraggio sulla luna (se c’è stato, tutto sembrava un sogno), di vedermi una serie meravigliosa di film di fantascienza (che è il genere che ancora amo di più), tra cui il bellissimo Ultimatum alla terra. Ma mi ricordo anche mia zia che ascoltava alla radio le opere liriche (Donizetti, soprattutto, in quanto eroe locale), così come i lunghi giorni trascorsi a studiare la mia amata Architettura. Se penso a quel tempo, non posso fare a meno di citare Walter Benjamin e la sua Infanzia berlinese. «Non possiamo mai recuperare interamente quanto si è dimenticato. E questo è forse un bene. Lo shock del riavere sarebbe così distruttivo che dovremmo smettere all’istante di comprendere il nostro anelare. Così invece lo comprendiamo, e tanto meglio quanto più profondamente il dimenticare giace in noi».4 Lì ho letto molti libri per me fondamentali, tra cui, dello stesso autore, l’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.5 Ma non sono solo ricordi belli. Ci sono quelli infinitamente tristi, che porterò sempre dentro di me, come tutti, del resto. Dobbiamo elaborare il lutto, altrimenti crepiamo. Si forma una crepa nell’anima, che ci spacca.

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AFFETTI DOMESTICI Ma i tempi della rivista impongono una stretta al fiume di ricordi, che forse, anzi sicuramente, sono spesso impudichi per chi non li ha vissuti, quando non addirittura imbarazzanti o, meglio, del tutto indifferenti. La casa non è più nostra, ora. L’atto di rogito in un asettico studio notarile da cui io e mia madre non vedevamo l’ora di scappare, dopo aver fatto la conoscenza dei nuovi proprietari (ma che significa proprietà?: siamo venuti al mondo con nulla e con nulla ce ne andremo e un certo Francesco d’Assisi, sapendolo meglio di tutti, l’ha messo in pratica già durante la sua vita), ha sancito il passaggio di consegne della casa. Anche se è stato doloroso, anche se so che la cosa non è stata condivisa da tutti i miei fratelli, e, nel profondo, ne sono certo, da nessuno di noi, perché appunto, forse è meglio darle fuoco che venderla, la propria casa; nonostante tutto ciò, paradossalmente, da un certo punto di vista, sono sereno. È finito un ciclo, un’epoca. Rimangono, intatti, i ricordi. Tornando a darle un ultimo saluto, devo dire, in tutta sincerità, che pensavo di emozionarmi di più. Invece la casa era lì, come distante, come se la vera casa fosse stata trasportata da un’altra parte, quando era piena delle voci e dei rumori della vita vissuta. La casa che mi vedevo di fronte, ormai non più abitata, stava andando in rovina. Non sarebbe stato giusto, anche se sarebbe stato forse bello dal punto di vista letterario, che fosse crollata come la casa degli Usher di Edgar Allan Poe. A testimoniare com’era rimangono le foto di un tempo e quelle pubblicate su queste pagine. Forse la casa è contenta. Torna a vivere. Le auguro una vita felice come quella che ha regalato a me.

> Note 1. Manuel Vázquez Montalbán, El hombre de mi vida, Barcelona, Editorial Planeta, 2004, trad. it. di Hado Lyria, L’uomo della mia vita, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 220. 2. Anche il piccolo Walter Benjamin è stato un “cacciatore” di farfalle. Cfr. Walter Benjamin, A caccia di farfalle, in ID., Infanzia berlinese intorno al millenovecento. Ultima versione (1938), Note al testo di Rolf Tiedemann, con due scritti di Theodor W. Adorno e Peter Szondi, Traduzione e note di Enrico Ganni, Torino, Giulio Einaudi editore, 2001, pp. 14-15 (edizione originale: Berliner Kindheit um neunzehnhundert. Fassung letzter Hand, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1987). 3. Paris, Presses Universitaires de France, 1957 (edizione italiana: La poetica dello spazio, Bari, Dedalo, 1975, 2006, nuova edizione). 4. Walter Benjamin, L’alfabetario, in Infanzia berlinese intorno al millenovecento…, cit., pp. 88-89: 88. 5. Pubblicata in prima edizione, nella traduzione francese di Pierre Klossowski e Walter Benjamin, sugli “Zeitschrift für Sozialforschung”, n. 5, 1936, pp. 4068; la prima edizione del testo tedesco, col titolo, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, è apparsa in Walter Benjamin, Schriften, herausgegeben von Theodor W. Adorno und Gretel Adorno unter Mitwirkung von Friedrich Podszus, 2 Bände, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1955, Bd. I, pp. 366-405; quella italiana, nella traduzione di Enrico Filippini, è stata stampata dall’editore Einaudi nel 1966 e ripubblicata in seguito più volte, dallo stesso editore, fino alla nuova edizione a cura di Francesco Valagussa, con un saggio di Massimo Cacciari; dal 2012, l’opera è disponibile anche nei tipi di Se, Donzelli e Bur.


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Un folto pubblico - nella cornice del Circolo Ravennate e dei Forestieri - ha partecipato alla presentazione del Ravenna Festival Magazine 2015. La rivista, edita da Reclam ma pubblicazione ufficiale del Festival, ricca di immagini e servizi dedicati ai temi, agli eventi e ai protagonisti della manifestazione, è stata illustrata e commentata, come evento di apertura del 1° Festival dell’Industria e dei Valori d’Impresa, rassegna sulla cultura d’impresa di Confindustria. Hanno espresso il loro apprezzamento il vicepresidente dell’associazione Beppe Rossi e i rappresentanti della direzione del Ravenna Festival, il sovrintendente Antonio De Rosa e i condirettori artistici Franco Masotti e Angelo Nicastro. La pubblicazione, 120 pagine di articoli, interviste, retroscena e immagini sul Festival è pubblicata in 45mila copie e diffusa gratuitamente in tutta la Romagna, a partire dalla biglietteria del Festival e durante gli spettacoli fino ai luoghi pubblici della cultura e del divertimento dei centri storici delle città romagnole. La presentazione si è conclusa con brindisi e degustazioni prelibate dello chef Mattia Borroni, al Ristorante Alexander di Ravenna. Collaborazione immagine di Estetica Solidea e Quintessence parrucchieri.

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ARTE E ARTISTI

La cura di

Giorgia Severi per il mondo Profilo di una artista ravennate che ha dedicato la sua poetica – particolarmente etica – alla segreta e prorompente fecondità della natura di Sabina Ghinassi

Sono passati quindici anni dal mio primo incontro con l’artista Giorgia Severi. Era il 2000 e partecipò, giovanissima, alla prima edizione della Biennale Giovanile di Mosaico a Ravenna. Era un’ allieva di Felice Nittolo all’Istituto d’Arte Severini di Ravenna. Aveva presentato un grande lavoro, coraggioso e imponente, una sorta di scudo arcaico nel quale la materia musiva era costituita da piccoli semi, miglio, orzo e tanti altri ancora. Mi ricordo che al tempo quell’opera mi fece venire in mente la seconda prova che impone Afrodite a Psiche per aver guardato Eros. Le atmosfere erano vicine all’Arte Povera, ma più raccolte e intime perché segnate da un gesto che, come le piccole formiche che aiutano Psiche a separare l’orzo dal miglio e dai semi di papavero, creava con grazia la bellezza usando cose minime. Quel grande scudo entrò subito nella casa di un grande collezionista veneto che se ne era immediatamente innamorato. Negli anni l’ho incrociata altre volte e ho avuto modo di vedere che la sua determinata volontà di narrazione delle cose del mondo attraverso l’esperienza artistica era cresciuta, sempre coerente e profonda, e si era messa in viaggio per il mondo. Prima il Tibet, il Nepal, poi il Marocco, la Grecia, l’India e tanti altri luoghi, lì intanto raccoglieva esperienze, sguardi, relazioni, guardava in silenzio e lavorava. Lavorava come una raccoglitrice di semi che sceglie i migliori e poi li pianta in luoghi diversi, li cura , li annaffia e poi li incontra di nuovo, quando sono cresciuti. Da quel viaggiare nomadico e un po’rizomatico, perché Giorgia Severi in qualche modo riesce a radicarsi ovunque come un’apparentemente fragile erba pioniera, a en-


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Giorgia ha creato quattro lavori artistici per il progetto Restoring the world ispirato dall’incendio che ha devastato nel 2012 la pineta della Bassona

Pagina a sinistra: Scudo, 2000, installazione, ferro, malta, semi, ossidi, conchiglie, sassi (200 x 80 cm.) In questa pagina, in alto a sinistra: Juniperus Chinensis Stricta, 2011, installazione, inox, vetro, juniperus, glicerina (40x40x170 cm.) In alto a destra: Essiccatoio, 2006, ferro e foglie di palma (150x100x40 cm.) In basso a destra: Florescenza, 2011, installazione, fiori essicati su muro (misure variabili)

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ARTE E ARTISTI

In alto a sinistra: Cura, 2012-2013, installazione, legno, stucco, cemento. In alto a destra: Campo Base, 2013, performance (tenda in Piazza del Popolo a Ravenna). Al centro: Barks, 2013, trittico, carbone su carta (100 x 150 cm.). In basso: To everyone, 2012, pietra dolomia (150x150x150 cm.) Pagina a destra, in alto: Kaparliku, 2014, fibre vegetali intrecciate (varie dimensioni). In basso: Culla, 2014, paglia (50x 30 cm.).

trare in relazione linfatica con i mondi che incontra, sono nati tanti progetti portatori di una grazia povera e disadorna, ma sempre sorprendente. Progetti che parlano un linguaggio pauperista, vicini alla delicata poesia di Richard Long, alle epifanie vegetali di Christiane Lohr, alla polifonia di Penone, Pistoletto, Kounnellis, Calzolari e Merz, alle performance sciamaniche di Beuys ma diventano altro, si muovono in una relazione che è sottilmente tattile, vicina, in simbiosi empatica con ciò che sceglie di incontrare. Sono nate così gli Essicatoi, le Incubatrici, le Florescenze, gli Innesti, le Culle di fibre intrecciate grazie a un gesto onnivoro che è forte, ma insieme tenero e materno, un gesto che cura, che ricompone che manipola con la dolcezza di filigrana ogni segno di natura, ogni impronta evanescente della bellezza perfetta e assoluta di ciò in cui siamo immersi. Il suo è diventato un percorso estetico e insieme etico che parla la lingua del principio di responsabilità del filosofo Hans Jonas sulla necessità di una riflessione costante sulle conseguenze delle nostre azioni nei confronti del mondo. Severi lo fa a modo suo, da artista. Lo ha fatto dopo il grande incendio che ha distrutto quaranta ettari del bosco della Bassona, la pineta tra Lido di Classe e Lido di Dante il 19 luglio del 2012, dando inizio al progetto Restoring the world, del quale, nel corso di un anno e mezzo, sono entrati a far parte quattro lavori: Barks, Cura, Operazione Campo Base, ARSA. In Barks le carte diventano le sindoni dei tronchi bruciati in una scrittura che diventa traccia rispettosa del dolore, in Cura i frammenti di alberi bruciati diventano oggetto di un delicato restauro, reliquie da conservare, museificate. Operazione Campo Base è invece una performance che molti ravennati ricordano. Nel 2013 Severi, con la collaborazione della Protezione Civile, innalzò una delle loro tende in Piazza del Popolo. Lì dentro coinvolse passanti e amici in una performance di arte partecipativa durante la quale consegnò i semi degli alberi e delle piante della pineta incendiata attraverso una sorta di rituale taumaturgico. Ognuno dei semi era destinato ad essere


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Recentemente, durante una lunga residenza in Australia, la Severi ha documentato ricerche e incontri con la cultura degli aborigeni, in mostra fra gli eventi collaterali dell’edizione 2015 della Biennale di Venezia

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visitabile sino al 22 novembre 20015 alla Gervasuti Foundation di Venezia, è uno degli eventi collaterali della Biennale di quest’anno. Qui Severi espone, attraverso una sorta di narrazione epica partecipativa, insieme alle opere di quaranta artisti nativi, i lavori nati dal suo incontro con le voci degli aborigeni incontrati durante il suo lungo viaggio: manufatti, video, installazioni sonore che documentano la persistenza e l’importanza di una cultura che, in qualche modo, rappresenta un principio di responsabilità etica ed estetica per tutti noi. Un altro capitolo per un’artista viaggiatrice che dalle tessere di mosaico è partita per ricomporre il mondo con un gesto di cura tagliente e bellissimo.

piantato per ricreare, attraverso la relazione e la responsabilità collettiva, ciò che era stato distrutto. ARSA è invece il video della doppia narrazione della devastazione del paesaggio dopo l’incendio e della performance partecipativa di Campo Base. L’intero progetto è stato esposto alla Fondazione La ParCo/ Padiglione Arte Contemporanea di Treviso nell’autunno del 2014 con la curatela di Chiara Massini. Nel 2014/2015 ha trascorso un lunghissimo periodo in Australia, dove in collaborazione con la Gervasuti Foundation di Venezia, ha creato il grande progetto partecipativo Country che documenta due anni di ricerca e incontro con la cultura aborigena australiana. La mostra,

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ARTE E CRITICA

Alberto Martini e Mattia Moreni a Brisighella, 1955. Fotografia di Roberto Pagnani (Ravenna, Archivio Collezione Ghigi Pagnani)

Alberto Martini il critico divulgatore L’accademia di Belle Arti di Ravenna con una mostra ricorda la vita e l’opera dell’intellettuale mantovano di Serena Simoni

A distanza di cinquanta anni dalla scomparsa di Alberto Martini (1931-1965), l'Accademia di Belle Arti di Ravenna è l'unica istituzione locale a ricordare uno dei più illustri critici d'arte italiani: in due sale della sede è stata allestita una interessante esposizione documentaria a cura di Federica Nurchis, giovane storica dell'arte bergamasca, con la collaborazione di Roberto Pagnani, pittore e collezionista ravennate. L'incontro fra i due curatori non è casuale: Federica ha dedicato la propria tesi, una serie di studi e una mostra alla ricostruzione del percorso internazionale di Martini, dagli esordi come allievo di Roberto Longhi fino ai successi straordinari ottenuti con le serie editoriali come "I Maestri del colore" dei Fratelli Fabbri di Milano; il secondo è il nipote di uno dei più grandi amici di Martini, di cui porta lo stesso nome – Roberto Pagnani – un intellettuale e collezionista d'arte ravennate che si spense assieme alla moglie e allo stesso Martini in un in-

cidente d'auto a Santarcangelo di Romagna nel maggio 1965. Nonostante la semplicità dell'allestimento composto da vari pannelli fotografici e documentari provenienti dagli archivi di Martini e Pagnani, da alcune riviste, testi e diversi esemplari delle collane ideate dal critico, la mostra consegna uno spaccato dell'Italia artistica fra gli anni '50 e '60, intrecciata saldamente al panorama europeo. I contatti dei due amici furono infatti numerosi e spesso interscambiati, grazie alle frequentazioni milanesi e parigine di Pagnani e ai numerosi viaggi in tutto il mondo effettuati da Martini per motivi di studio, per visitare o organizzare mostre e per dare vita alle pubblicazioni della Fabbri, quelle che rivoluzionarono lo scenario editoriale d'arte internazionale. Sottotraccia scorre in mostra anche la storia di Ravenna di quegli anni, che aveva visto Martini giungere in giovane età dalla provincia mantovana, in tempo per frequentare il Liceo Classico cittadino. Il luogo di incontro degli intellettuali locali era il Bar Byron, dove un Martini appena ventenne conosce


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Pagnani, più vecchio di una quindicina di anni. Di quest'ultimo, Alberto ammira la passione politica – Roberto scrive articoli e dirige "Democrazia", il periodico del Comitato di Liberazione Nazionale – oltre a condividere il medesimo interesse per l'arte: a casa di Pagnani e della moglie Raffaella Ghigi non esiste solo una bella collezione di opere antiche, ma si sta costituendo un'interessante raccolta di opere contemporanee in sintonia con quello che si muove in Europa, dall'Informale all'Espressionismo astratto, dallo Spazialismo al Nuclearismo. Così, saldata l'amicizia e corrisposti gli interessi, Martini si dirige su Firenze dove si distingue fra gli allievi di Roberto Longhi, mentre l'amico stringe una rete di contatti con mercanti d'arte a Milano e a Parigi, con artisti come Georges Mathieu e Ben Shahn, con critici d'arte come Arcangeli. La formazione di Martini si partisce ben presto fra lo studio dell'antico – a lui si deve un saggio fondamentale sugli esordi del pittore quattrocentesco Bartolomeo della Gatta (1953) – e la passione per la contemporaneità: tornato a Ravenna nel '54, insieme a Pagnani conosce Ben Shahn al quale dedica un articolo sulla rivista "Paragone". Sarà la severa formazione alla scuola di Longhi a permettergli di affrontare l'arte contemporanea con una precisa attenzione alla vocazione etica del lavoro, ma lo svincolo dall'imprinting del maestro si evidenzia nella libertà dei riferimenti utilizzati dal giovane critico, che osa citare Chaplin insieme ad Eliot e Grosz. Con l'ausilio di Longhi, Martini inizia nello stesso anno la collaborazione con la radio nazionale: cosciente dell'importanza della divulgazione come il proprio maestro, scrive i testi per alcune trasmissioni dedicate agli artisti contemporanei fra cui vorrebbe inserire Mattia Moreni, conosciuto insieme a Pagnani. Due anni dopo inizia la sua collaborazione con la Tv, pronta ad accogliere iniziative divulgative di alto profilo scientifico per soddisfare l'esigenza didattica nei confronti di un paese affamato di cultura. Martini realizza i testi per alcune trasmissioni come "Almanacco" e "Le tre arti" e lo storyboard per un documentario su Medardo Rosso: il filmato, ancora esistente, indaga l'opera dello scultore fornendo confronti con Rodin e inserendo interviste con Carrà e Soffici. Oltre a questo si conserva anche nell'Archivio familiare un altro documentario dedicato a Virgilio Guidi (1960), realizzato nello studio dell'artista in Palazzo Ducale a Venezia. La dimensione internazionale dei contatti di Martini si rileva nell'organizzazione di una mostra itinerante in Germania in cui vengono presentati alcuni artisti italiani contemporanei: nel 1958 a Kassel come a Colonia espongono Scanavino, Moreni, Vedova, Dova, Bendini, Romiti, autori su cui il critico manterrà un vivo interesse anche negli anni successivi. Intanto, sulle varie riviste italiane come "Paragone", "Arte veneta", "Arte antica e moderna", si susseguono suoi interventi sull'antico, con un particolare riguardo ai beni artistici romagnoli. Il tempo a Ravenna viene passato setacciando l'Archivio di Corrado Ricci e i depositi della Pinacoteca comunale, all'epoca situata nella sede del Monastero di Classe. Gli studi condotti portano ad una rivalutazione della pittura riminese del '300 a Ravenna fornendo spunti significativi ai successivi interventi dell'amico Carlo Volpe, e restituiscono nuove attribuzioni riconoscendo una maggiore rilevanza ad autori e

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> Alberto Martini, Roberto Pagnani con Ben Shahn e la moglie a Cesenatico, 1956. Ravenna (Archivio Collezione Ghigi Pagnani)

periodi storici meno indagati, come il '400 e il '500 a Ravenna o le figure di Rondinelli, degli Zaganelli e dei Longhi. Un dono alla città è la sua guida alla "Galleria dell'Accademia di Ravenna", pubblicata nel 1959 ma con un'introduzione datata al gennaio di due anni prima: si tratta di un catalogo selezionato delle opere della collezione comunale che con fare profetico Martini auspica venga trasferita alla Loggetta lombardesca. Dopo le pubblicazioni di Corrado Ricci e Adriana Arfelli, il catalogo – fortemente voluto da Mario Giuliani-Ricci, presidente dell'Azienda autonoma di Soggiorno e Turismo di Ravenna – ricalibra attribuzioni e interpretazioni critiche, avvalendosi dei suggerimenti di colleghi e amici fra cui, oltre al solito Longhi, sono Sergio Bettini, Ferdinando Bologna, Giuliano Briganti, Giuseppe Fiocco, Cesare Gnudi, Mina Gregori, Rodolfo Pallucchini, Ulrich Middeldorf e Carlo Volpe. Come a dire il Gotha della storia dell'arte italiana. Ma Ravenna "non è terra per esploratori" come afferma Pagnani in una lettera all'amico, che nel 1958 si trasferisce definitivamente a Milano. Lo strabismo fra antico e moderno viene mantenuto con grande intelligenza: da una parte, la collaborazione con Paolo Marinotti per una mostra allestita a Palazzo Grassi di Venezia spinge Martini a mantenere desto l'occhio sul contemporaneo, ottenendo un successo tale da trasferire l'esposizione in Germania e in Olanda. E mentre organizza un dibattito sulla XXX edizione della Biennale di Venezia del 1960 – registrato con Gian Alberto Dell'Acqua, sovrintendente a Brera, insieme allo scrittore Dino Buzzati, al collezionista Carlo Cardazzo e al critico Marco Valsecchi – esce nello stesso anno un suo articolo sulla Madonna Ruskin

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ARTE E CRITICA

oggi ad Edimburgo. Il critico propone un'attribuzione a Leonardo, suscitando scalpore e curiosità mondiali, a partire dalla Bbc a cui illustra l'ipotesi di un intervento del giovane fiorentino su cartone del Verrocchio. Contemporaneamente, Martini continua a scrivere su riviste d'arte nazionali approfondendo figure che ritiene sacrificate dai grandi miti del '900 come i postimpressionisti Bonnard e Vuillard, per i quali nutre una profonda passione mai dismessa. Tentata con successo la grande diffusione attraverso radio e televisione, naufragata al contrario l'esperienza di un periodico d'arte come "Arte figurativa antica e moderna", è l'incontro nel 1960 con Dino Fabbri a cambiare la vita di Martini e il panorama dell'editoria nazionale. Mediatore dell'incontro fra i due è ancora Roberto Longhi che propone l'ex allievo alla casa editrice milanese, fino ad allora indirizzata alla produzione di testi scolastici ed enciclopedie. "Capolavori nei secoli" è la prima iniziativa ideata da Martini che irrompe nelle edicole con immagini a colori invece del solito bianco/nero e con un formato quasi quadrato, adatto alla riproduzione delle opere più famose del mondo. Saltando da New York a San Francisco, da Washington a Honolulu, dal Giappone all'India attraverso Taiwan, Hong Kong e Bangkok, in un anno Martini raccoglie centinaia di permessi e fa eseguire altrettante fotografie al fidato Alfredo Loprieno. Si tratta della maggiore iniziativa editoriale italiana del secolo in campo artistico assieme alle serie successive dei "Maestri del colore", usciti in edicola fra il 1963 e il '69, e di "L'arte raccolta" (1965-66), realizzata grazie ad un accordo fra Fabbri e Skira. Il successo di edizioni a portata di ogni tasca è tale che i testi vengono tradotti in numerosi paesi del mondo da case editrice famose come la Hachette di Parigi o la Octopus Books di Londra. Punta di forza delle varie edizioni – diversificate fra opere celebri, dipinti di ogni tempo e cicli legati ad un luogo o ad un periodo particolari – sono l'apparato scientifico dei testi, affidati al proprio entourage di esperti, la precisione quasi maniacale dei fotocolor, e l'alta tiratura venduta a prezzi contenuti: i musei entrano così massicciamente nelle case della


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gente comune. Fra i vari artisti e cicli che Martini si riserva di trattare ci sono gli affreschi di Masolino a Castiglione Olona, il profilo di Morandi e quello di Alberto Giacometti, conosciuto tramite Ugo Mulas nel 1962 alla Biennale e presto divenuto suo amico. Le recensioni critiche alla XXXI Biennale si alternano alle uscite dei numeri delle edizioni Fabbri, agli studi su Otto Dix, ai ritorni frequenti a Ravenna, dove con Pagnani realizza alcune mostre alla Galleria di Anna Fietta in via Argentario dove vengono esposte opere grafiche, dipinti contemporanei, oggetti di arte precolombiana. Non contenti, i due amici si accordano per collaborare con la nascente galleria di Giuseppe Maestri, la "Bottega" di via Baccarini. Nessuno dei due farà mai a tempo per l'inaugurazione della mostra di disegni di Carrà da loro progettata: l'incidente li sottrae per sempre alla scena italiana. Il lascito di Pagnani rimane nella collezione di casa e nella storia della città; quello di Martini nelle case di migliaia di italiani.

Nella pagina a fianco, dall’alto: Carlo Cardazzo, Gian Alberto Dell’Acqua, Alberto Martini, Marco Valsecchi e Dino Buzzati nell’ufficio di Dell’Acqua a Brera, in occasione della redazione di un Dibattito sulla XXX Biennale per la rivista “Arte figurativa”, 1960. (Milano, Archivio Alberto Martini) Alberto Martini all’esterno del Metropolitan Museum of Art di New York, 1961. Fotografia di Alfredo Loprieno. (Milano, Archivio Alberto Martini) Alberto Giacometti e Alberto Martini sfogliano un volume dei “Capolavori nei secoli” presso l’atelier dell’artista a Stampa, 1963. Fotografia di Alfredo Loprieno. (Milano, Archivio Alberto Martini) In questa pagina, dall’alto: Alberto Martini e Dino Fabbri in una sala della Biennale di Venezia del 1964. (Milano, Archivio Alberto Martini) Alberto Martini e Virgilio Guidi davanti a una tela dell’artista, 1960. (Milano, Archivio Alberto Martini) Francesco Zaccherini, Alberto Martini e Roberto Pagnani a Talamello, 1955. (Ravenna, Archivio Collezione Ghigi Pagnani)

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Aiutiamoci a guardare ciò che va visto Riflessioni sulla semplificazione edilizia dello “Sblocca-Italia” in un’intervista all’architetta Piera Nobili


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> Bansky, Follow your dreams cancelled, quartiere di Chinatown, Boston (Mass.), maggio 2010. giugno-luglio 2015


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CITTÀ E SOCIETÀ

di Marina Mannucci

Con questo articolo concludo il ciclo di tre indagini avviate riguardo alla Legge “Sblocca-Italia”; tramite il quale ho ripreso, tra l’altro, alcuni punti del libro Rottama-Italia (edito da Altreconomia, scaricabile dal sito www.altreconomia.it/rottamaitalia). I sedici autori di questo libro (tutte firme autorevoli) Smontano pezzo per pezzo il decreto legge diventato ufficialmente legge il 6 novembre 2014 e citano l’art. 9 della Costituzione, per rinforzare i valori della tutela del territorio e richiamare l’esigenza di legalità e di una visione sostenibile del futuro. Nei due articoli precedenti ho raccolto informazioni in merito alle politiche energetiche del governo italiano, scrivendo di trivellazioni terrestri e offshore e, in merito al tema della tutela dell’ambiente, parlando di raccolta e smaltimento dei rifiuti. In quest’ultimo pezzo cercherò di approfondire il tema della cementificazione, delle deroghe alla normativa ordinaria, che capovolgono la gerarchia costituzionale fra pubblico interesse e profitto privato, e del bavaglio alle Soprintendenze, che impone agli organi di tutela ubbidienza alle imprese di costruzione.

Nell’Italia del dopoguerra non c’è mai stato un vero governo del territorio, se non per omissione, lassismo e compromesso con gli interessi forti. Allo stesso modo non sono mai state concepite delle politiche urbane dedicate specificatamente alla città, nelle differenziate configurazioni che oggi assume l’urbano (Città tra sviluppo e declino, Un’agenda urbana per l’Italia, a cura di Antonio G. Calafati, Roma, Donzelli, 2014). L’agenda urbana, se veramente la si vuole redigere, deve perciò cercare di colmare una lunga assenza di governo e soprattutto dovrà introdurre un modo diverso di considerare il territorio e la città, pensati sinora come suolo e spazio edificabile, senza nessuna nozione di quanto ricco e complesso sia l’oggetto che si intende valorizzare. Le attività per la messa a punto dell’agenda urbana vanno perciò intese come lavoro per la costruzione di un approccio strategico, multidimensionale e centrato su questioni di sostenibilità e giustizia territoriale che aumenti la coesione fra territori. Tenendo sempre conto che l’assetto urbano è anche l’arena di un inevitabile conflitto inter-istituzionale e politico, contro le forze e le rendite che frenano lo sviluppo di ogni approccio complesso e differenziato. Si profila quindi la necessità di avviare un diverso atteg-


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giamento culturale, che veda coinvolte più direttamente alcune discipline, tuttora incapaci di portare avanti un discorso unificante ed egemone da contrapporre alle banalità di base che guidano la politica e gli affari in questi campi. La posta in gioco in questa vicenda è il territorio e la città, cioè l’unico vero asset dell’Italia: un concentrato plurisecolare di beni di varia natura nonché risorse capitali di ogni genere e specie. Il 30 settembre 2014 Salvatore Settis, a proposito dell’allora decreto “Sblocca-Italia”, scriveva su «la Repubblica» che «La ricetta Lupi per “sbloccare il Paese” è una deregulation che capovolge la gerarchia costituzionale tra pubblico interesse e profitto privato» ed «imbavagliando le Soprintendenze impone agli organi di tutela ubbidienza alle imprese di costruzione». Qualche esempio: l’Amministratore delegato delle Ferrovie è Commissario per la costruzione di nuove linee ferroviarie, e ogni eventuale dissenso può essere espresso solo aggiungendo «specifiche indicazioni necessarie ai fini dell’assenso», dando per scontato che ogni progetto debba essere sempre e comunque compatibile con la tutela del paesaggio. Quando poi vi sia «motivato dissenso per ragioni di tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o della tutela della salute e della pubblica incolumità», la decisione è rimessa all’arbitrio inappellabile dello stesso Commissario (art. 1). L’autorizzazione paesaggistica viene cancellata all’art. 6, per ogni posa di cavi (sottoterra o aerei) per telecomunicazioni e non si terrà più conto del Codice dei Beni Culturali; e all’art. 25 l’autorizzazione viene “semplificata”, cioè di fatto rimossa, per «interventi minori privi di rilevanza paesaggistica», e assoggettata al silenzio-assenso ignorando le sentenze della Corte Costituzionale (26/1996 e 404/1997) secondo cui in materia ambientale e paesaggistica «il silenzio dell’Amministrazione preposta non può aver valore di assenso». L’art. 17 dello “Sblocca-Italia” è indirizzato alla “semplificazione edilizia”: scompare la “denuncia di inizio attività”, sostituita da una “dichiarazione certificata”, di fatto un’autocertificazione insindacabile; e crea un “permesso di costruire convenzionato”, una “licenza” che affida al negoziato fra costruttore e Comune l’intero processo, dalla cessione di aree di proprietà pubblica alle opere di urbanizzazione, peraltro eseguibili per “stralci”, cioè di fatto opzionali. Un’affermazione dei “diritti edificatori generati dalla perequazione urbanistica” e delle “quote di edificabilità” commerciabili. Anziché agevolare la preminenza del pubblico interesse, prevarrà il negoziato con le im-

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CITTÀ E SOCIETÀ

Murales su una casa dell’East Village a New York.

prese legalizzando il conflitto d’interessi. Ne consegue che con queste “semplificazioni” si abbasseranno i livelli di trasparenza e di lotta alla corruzione. Altra fonte di critiche e dubbi è l’articolo 9, definito dal capo dell’Agenzia nazionale anticorruzione, Raffele Cantone, tra i più importanti dello “Sblocca-Italia” ma che, aggiunge il magistrato, «pone una serie di problemi». Per esempio, il provvedimento introduce per tutti gli interventi che rientrano nella definizione di “estrema urgenza” – e che riguardano la messa in sicurezza degli edifici scolastici, la riduzione dei rischi idraulici e geomorfologici, l’adeguamento della normativa antisismica, la tutela ambientale e del patrimonio culturale – la possibilità di usufruire di «ulteriori disposizioni di carattere acceleratorio per la stipula del contratto, in deroga a quelle del Codice». La stessa norma, inoltre, permette alle imprese coinvolte nei lavori di non dover fornire alcuna garanzia a corredo dell’offerta. Questa disposizione, secondo Cantone, potrebbe portare gli operatori economici a non rispettare gli impegni assunti, senza subire per questo alcun danno. Un altro aspetto poco chiaro (al comma 2, lettera d) sta nella possibilità di avviare “procedure negoziali” senza dover pubblicare un bando, ma solo invitando almeno tre operatori economici (nel testo definitivo diventano 10), anche per importi molto elevati (l’attuale

soglia comunitaria è infatti di 5 milioni e 800 mila euro). Ma su quali basi alcune imprese verrebbero scelte e altre no? Chiedo all’architetta ed amica Piera Nobili, contitolare dello Studio Othe di Ravenna, un suo parere riguardo le conseguenze della legge “Sblocca-Italia” in merito alla pianificazione urbana. L’attività professionale di Piera è connotata dall’attenzione al tema dell’accessibilità, fruibilità ed usabilità degli spazi urbani ed architettonici, dallo studio e progetto ergonomico di spazi, arredi ed attrezzature con particolare riguardo al design for all, al building automation e all’assistive technology. Parlo da libera professionista quale sono attingendo direttamente dalla mia esperienza. Non posso non essere d’accordo con quanto hai già detto tu, Marina, ed al contempo non posso non pensare “chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Credo che fra i vari attori che avrebbero dovuto e potuto svolgere una tutela attiva, definita dalla cultura del progetto più che da leggi e regolamenti, ci siano i progettisti come me: urbanisti, architetti ed ingegneri. Grazie alla preminenza del mercato che ha vieppiù reso merce l’esito del progetto e sotto il “ricatto” del lavoro, ab-


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Feste ed eventi in Romagna

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biamo assistito silenziosi alla svalutazione del nostro ruolo ed allo svilimento del nostro lavoro. Non è un caso che ci chiamino, ormai, indistintamente e genericamente tecnici, rafforzando con ciò la convinzione poco palese ma pervasiva che chi progetta non sia altro che un mero esecutore di istanze altrui, un applicatore ed interprete di norme, un redattore di pratiche, un contabile dell’opera in corso. Ed oggi siamo ripiegati tutt’al più, e non sempre, nell’alveo della categoria del bello quasi fossimo gli “stilisti”, quando va bene, di città e territori di cui gli archistar sono la frontiera più qualificata. Un altro attore che vorrei chiamare in causa è la scuola ed in particolare l’università che, in virtù delle riforme subite ma non solo, sempre meno prepara i progettisti ad affrontare una sfida complessa che è sì di natura compositiva, fondamentale per il disegno architettonico delle città e dei territori, ma anche di natura ambientale, sociale e culturale, importanti perché riguardano il futuro di tutti/e noi. A questi si accostano altri attori: i funzionari, i geometri, gli ingegneri e gli architetti che operano negli Enti locali preposti alla gestione dell’ambiente che è parte preponderante di qualsiasi governo, visto che ogni scelta politica ha una ricaduta diretta sul territorio. La proliferazione di norme, diverse per ogni regione, provincia e comune, ha creato un intrichio di indicazioni dove «gli atti urbanistici sono diventati enormi pacchi di carte, inconsultabili ed ermetici. La corrispondenza fra gli atti e le trasformazioni reali è difficile o impossibile da accertare» (Leonardo Benevolo). Questa situazione, già da decenni, ha prodotto burocrati che hanno abdicato le loro funzioni alle carte e ai moduli, anziché essere promotori di buona programmazione e di costante controllo, producendo incertezze sulle domande, allungamento spropositato dei tempi, proliferazione di organi di controllo seduti nei propri uffici. Non ultime in questo pseudo elenco le strutture politiche che hanno fluidificato le proprie funzioni privatizzandole, trasformando con ciò i politici in amministratori. E la città, rispondendo a fini modellati dall’intreccio fra potere ed economia di mercato non è vista e progettata come città da fruire, usare e vivere, ma essenzialmente come città dello scambio, della rendita fondiaria e della produzione edilizia. Gli stessi urbanisti accusano la deriva che tale “cultura” sta producendo in tema di pianificazione ed uso delle risorse, sottolineando, al contempo, le difficoltà a governare i complessi processi che caratterizzano la nostra società, segnata dalla crisi profonda della politica intesa come colei che prefigura il futuro e come colei che negozia i conflitti. La città, e con essa l’intero territorio, sono diventati beni da consumare, merce che serve a colmare le casse comunali e statali quando va bene, quando non agisce l’illegalità a più e diversi livelli come è stato più volte accertato. In tema di mercificazione racconto un piccolo episodio accaduto anni fa.

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CITTÀ E SOCIETÀ

Manifesto di un’assemblea contro la gentrification del quartiere a basso reddito di Point Saint Charles a Montreal, organizzato dalla chiesa unita di Saint Columba House. In sociologia il termine gentrificazione (adattamento della parola inglese gentrification, derivante da gentry, ossia la piccola nobiltà inglese e in seguito la borghesia o classe media), indica l’insieme dei cambiamenti urbanistici e socio-culturali di un’area urbana, tradizionalmente popolare o abitata dalla classe operaia, risultanti dall’acquisto d’immobili da parte di popolazione benestante (ad vocem, Wikipedia.org).

Ero affacciata con amici ad un belvedere in Umbria durante un aranciato tramonto estivo stemperato da una lieve e lontana foschia. Di fianco a me la bimba di un’amica, di fronte la vallata, colline prossime e montagne distanti, cittadine nella piana e piccoli paesi lungo le pendici, macchie d’alberi e campi coltivati, strade lineari come tagli e tortuose nella fatica di arrampicarsi. Mi rivolgo alla bambina con voce sorridente e dico: «Guarda che bel paesaggio», lei scontrosa risponde: «Non è un paesaggio è un panorama», e poco dopo corre via. La bambina gode della bella vista, dei colori e della luce quasi fossero dipinti e conserva il ricordo di un’inconsapevole cartolina. Anch’io godo della bella vista, dei colori e della luce; guardo quei territori intrisi di storia e di

lavoro umano cercando di rintracciare le forme della natura, quasi a distinguere un prima ed un dopo, un dato di totale naturalità ed uno di antropizzazione del luogo. Operazione possibile solo sottraendo, sottraendo e ancora sottraendo pezzi di storia. Cosa resta alla fine? Un panorama o un paesaggio che, come hanno insegnato i geografi, si aggettiva con naturale? Sarà che dentro alla parola paesaggio c’è la parola paese … abitato … scambi … socialità … gente … operosità … Che cosa rende paesaggio un paesaggio e non un panorama? Lo sguardo affettivo che oltrepassa l’edonismo del momento o del programma. Uno sguardo che è tale solo se possiede la narrazione delle vicende, la conoscenza dei singoli luoghi che lo compongono, dei ritmi della vita, delle ferite del territorio, delle sue risorse, dei suoi progetti, dei crucci e delle aspettative di chi vi abita. Uno sguardo che è dato dall’insieme di tanti sguardi, quelli della collettività che abita il paesaggio. Ho voluto raccontare questo episodio perché il paesaggio, territoriale ed urbano, oggi è tutt’al più un panorama da vendere al miglior offerente e non è detto che sia il turista, anzi. Ma non solo, la storia che costruiamo e lasciamo al futuro dell’attuale paesaggio è quella dell’eco-finanza dove il valore dominante è il prodotto-merce usa e getta. Lo “Sblocca-Italia” va in tal senso sbloccando soprattutto il controllo di ciò che potrà accadere nelle nostre città e territori lasciando, di fatto, nelle mani di pochi poteri forti il “che fare”; non ripeto ciò che già Marina ha scritto, ed avanzo un’ulteriore riflessione. Le nostre città, anche le più piccole, sono delle perenni incompiute, non solo perché è carente l’attenzione e il governo costante della riqualificazione e rigenerazione di ciò che già c’è, ma anche perché continuamente si espandono. Infatti, le nostre periferie hanno confini instabili perché non guardano un altrove, un diverso con cui colloquiare e mettersi in relazione, ma aspettano un nuovo frontista, come a dire che l’unico futuro per loro pensato è quello di continuare ad espandersi senza forma. Questa stessa realtà si esprime anche e soprattutto nelle aree metropolitane italiane. Città come Milano, Napoli, Roma, fondamentali per gli scambi commerciali, per l’economia industriale, per quella turistica e terziaria, hanno occupato aree sempre più grandi, sino ad inglobare paesi e cittadine prima separate ed autonome, creando un continuo edilizio ed infrastrutturale che ha scompaginato il paesaggio preesistente. Sono conurbazioni o meta-città diffuse sui pochi territori facilmente accessibili della nostra realtà geografica: pianure, coste e zone pedecollinari. Questa città infinita che si allarga senza forma apparente, il cosiddetto sprawl urbano, sottolinea la centra-


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lità delle periferie. Le periferie sono da molto tempo una spina nel fianco dell’espansione urbana, qualcosa di non riconosciuto e riconoscibile, definite come “non luogo” o come “il luogo dove i valori della città muoiono”, al punto che il termine periferia ha assunto nell’uso collettivo valore di aggettivo e perso valore di sostantivo. Al punto che con il termine periferia si definiscono tutte le aree marginali, anche quelle comprese nei centri storici, nei paesi e nelle cittadine limitrofe alle aree metropolitane. Luoghi che non sono semplicemente abbandonati o degradati, ma che hanno soprattutto perso la connotazione dei valori distintivi della città. Come ho già avuto modo di scrivere, se gli interventi a scala territoriale, urbana ed edilizia possono aiutare a superare l’attuale crisi economico-finanziaria non è necessario, però, ripercorrere errori già commessi in nome degli stessi motivi: le periferie diffuse che hanno dato luogo a informi agglomerati di volumi vuoti perché inutili ed invendibili; le cittadelle del consumo e gli ipermercati che hanno reso periferie luoghi prima vivificati e tutelati dagli stessi abitanti; i forti investimenti economici rivolti alla “rinascita” di centri storici e località geograficamente significative, che hanno portato all’alterazione del paesaggio e ad una ristrutturazione globale delle relazioni socio-spaziali, con l’espulsione degli abitanti più “deboli” a favore di classi medio-alte e del turismo (gentrification); le grandi opere infrastrutturali che disegnano soprattutto una mobilità ancora legata all’uso del trasporto su ruote; le doppie case e gli stabilimenti turistici che hanno fatto esplodere la corsa al cemento lungo le coste o sulle montagne più prestigiose anche in località non idonee dal punto di vista geomorfologico con conseguenti alluvioni e frane, senza parlare dello scempio operato sul paesaggio; ecc. ecc. ecc. L’elenco sarebbe lungo, basta leggere l’articolo di Tomaso Montanari su «la Repubblica» del 4 maggio scorso per comprendere. Eppure le alternative ci sono, non mancano di certo i “bisogni”. Come rimarginare le ferite apportate dal non esaustivo elenco prima fatto tramite la riqualificazione di ciò che si può e si deve conservare; la rigenerazione delle molte e diverse periferie; il consolidamento d’intere aree che hanno subito nel tempo, per mano umana, il dissesto idro-geologico e di quelle fragili per conformazione; la realizzazione d’infrastrutture per la mobilità leggera abbinata alla rete ferroviaria rivitalizzando anche quella dismessa o in dismissione; la valorizzazione e consolidamento delle nostre aree archeologiche e dei siti monumentali; la creazione di una rete museale diffusa ed accessibile che operi di concerto pur nella diversità; la riqualificazione della mobilità urbana a favore di tutti/e coloro che abitano le città e non solo; la riconversione verso l’uso di risorse rinnovabili; ecc. Anche qui l’elenco si farebbe lungo. Per concludere, penso che si debba riflettere sul limite, sui punti di non ritorno oltre i quali il dissennato utilizzo di suolo e di risorse ambientali sia naturali che storiche comprometterebbero in modo definitivo il futuro nostro e di chi verrà dopo di noi.

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CITTÀ SOSTENIBILE

Come contrastare il consumo di suolo Si tratta di un bene prezioso, oggetto di utilizzazioni molteplici

Perché è necessario contrastare il consumo di suolo? Credo che in primo luogo occorra assumere piene consapevolezza del fatto che il suolo è un bene prezioso per ciò che esso è, per le sue caratteristiche proprie: - è la pelle del pianeta, substrato delle comunità biologiche, l’infrastruttura della vita, - è il palinsesto della storia delle civiltà umane, - è l’habitat della società umana, il suo sistema insediativo. Da queste sue caratteristiche discendono le molteplici potenziali utilizzazioni del suolo per la razza umana: - il ciclo della biosfera, - il deposito di risorse naturali utili all’uomo, - la produzione degli alimenti, - l’habitat dell’uomo, - la testimonianza e l’insegnamento della storia delle civiltà. Le trasformazioni della civiltà umana hanno prodotto, soprattutto negli ultimi secoli, un pesante processo di trasformazione che ha privilegiato, l’uso del suolo come habitat dell’uomo nella forma dell’urbanizzazione: abbiamo inventato ed esteso la città, che è divenuta al tempo stesso gloria e dannazione della civiltà umana. Oggi constatiamo che il suolo si sta gradatamente ma velocemente trasformando in quella che Antonio Cederna definiva la «repellente crosta di cemento e asfalto». Decisivi in questo mortifero processo sono stati due elementi: - la mancata consapevolezza del valore del suolo come bene (come patrimonio da gestire con parsimonia), e non come merce, - il ruolo che ha, via via assunto, la rendita urbana, come

spiegato su questa rubrica il mese scorso: più precisamente, la sua appropriazione privata. La potenzialità economica della rendita nell’economia capitalistica, esclude via via più decisamente, le altre possibili utilizzazioni (oltre a cancellare la “città dei cittadini”: quella cioè finalizzata al ben-essere e ben-vivere dei suoi abitanti). Per contrastare il consumo di suolo dobbiamo tener conto che esso ha molte forme ma è su una in particolare che vorrei soffermarmi, tenendo conto che non è l’unico, che anche gli altri vanno combattuti e che solo una visione complessiva può consentire il formarsi le alleanze necessarie per vincere. Cominciamo dunque da quello che è l’enorme problema della distruzione materiale della naturalità, della bellezza e della storia, cioè la sostituzione della pelle del pianeta con la "repellente crosta di cemento e asfalto". Partiamo ponendoci una domanda: Quando il consumo di suolo è diventato un problema, un aspetto rilevante dei processi di degrado dell’ecosistema planetario? Il punto di svolta è stato rappresentato dagli orribili anni 80, le cui prime radici si sono potute vedere in Italia nelle "controriforme" del decennio precedente. Ecco allora le cinque parole chiave del degrado: • La “perequazione”, intesa e praticata come spalmatura dell’edificabilità, • l’invenzione dei “diritti edificatori”, termine fino ad allora completamente estraneo sia al linguaggio corrente che al mondo del diritto, • la “vocazione edilizia” come attributo del suolo, • il trionfo della “rendita urbana”, • l’abbandono della pianificazione, il cui emblema è costituito dalla la legge Lupi. Il punto di svolta è stato insomma determinato dall’onda globale del neoliberismo aggravata nella sua versione italiana a causa di due elementi nostrani: - il ruolo della rendita nel nostro paese, - la debolezza della pubblica amministrazione dello Stato unitario, Ma perché allora la gravità del fenomeno è stata avvertita così tardi? È una domanda che bisognava assolutamente porsi


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quando ci siamo accorti che cultura, politica e amministrazioni non consideravano lo sprawl un grave pericolo da combattere e che tutto ciò con molta probabilità è addebitabile soprattutto a 4 cause: • L’egemonia conquistata dall’ideologia della crescita indefinita (lo “sviluppismo”) • La decadenza della politica e il suo appiattimento sul giorno per giorno, • La distrazione della gran parte dei saperi specialistici dagli aspetti propri della pianificazione delle città e del territorio, • Il prevalere nell’accademia della formazione di tecnici per la gestione dei processi in atto (facilitatori) anziché di intellettuali dotati di spirito critico e quindi propositori di strade alternative. Oggi il “No al consumo di suolo” è diventato uno slogan di massa: il peggioramento delle condizioni materiali, i risultati del saccheggio in nome della rendita hanno suscitato reazioni estese di protesta e di puntuale proposta alternativa Ma “No al consumo di suolo” è diventato anche una parola passepartout, come è accaduto per le parole sostenibilità, sviluppo, e perfino con la parola democrazia. Dobbiamo porre la massima attenzione attenti ai falsi profeti, ai lupi mascherati da agnello. La confusione non è un buon segno, perché allontana dalla buona soluzione. Eppure la situazione e gravissima ed è urgente dire “stop al consumo di territorio” nella pratica. Molto si può già fare, a tutti i livelli. Ma è in primo luogo necessario disporre di una visione strategica, quindi alternativa rispetto alla miopia prevalente oggi, dotarsi di un dispositivo che leghi tra loro i diversi livelli di governo: le istituzioni della Repubblica, stato, regioni, città metropolitane e province o ciò che ne sarà, comuni. Senza dimenticare l’attivazione di procedure che consentano di dare voce informata e consapevole al “popolo sovrano”, coinvolgendolo nel processo di decisione. A livello comunale esistono già alcune buone pratiche ed esperienze di autocontenimento del consumo di suolo con gli strumenti della pianificazione urbanistica: Il Prg di Napoli del 2004 e, in Toscana il piani di Lastra a Signa e quello di Sesto fiorentino nel 2004 e 2005: ma ce ne sono certamente altri. A livello regionale si possono certamente spendere due parole sulla proposta di modifica della legge 1/2005 approvata dalla giunta regionale della Toscana, un testo esemplare soprattutto per tre aspetti: • assegna priorità alla tutela e al riconoscimento del valore del patrimonio comune rispetto alle trasformazioni,

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• esprime in termini chiari le buone intenzioni confusamente espresse nella legge precedente e, soprattutto, le traduce in dispositivo efficace e tassativo, • pone in termini corretti e produttivi l’integrazione delle competenze dei vari livelli di governo. È un testo normativo che merita di essere indicato come modello per ogni legge regionale in materia e di essere assunto (soprattutto per le sue definizioni) come matrice di una nuova legislazione nazionale. A livello nazionale è certamente necessario un intervento normativo, non solo perché non tutta l’Italia è come la Toscana ma anche perché ci sono nodi che solo a livello della Repubblica possono essere risolti. Per tutelare il territorio non urbanizzato, a livello nazionale si dovrebbe: • stabilire regole valide per tutte le regioni avvalendosi delle competenze statali in materia di paesaggio. • Applicare le leggi esistenti, e procedere tempestivamente alla individuazione delle “linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio, con finalità di indirizzo della pianificazione", come prescrive il Codice del paesaggio. • Ribadire il principio che l’edificazione è una facoltà che appartiene alla collettività e alle sue rappresentanze democratiche (ripartendo da Bucalossi) e fare piazza pulita con le teorie e le pratiche dei “diritti edificatori” e delle connesse compensazioni e perequazioni. • Ultimo ma non marginale impegno, si dovrebbe affrontare la questione della formazione di una pubblica amministrazione competente, motivata, autorevole, in assenza della quale nulla di serio e di durevole si potrà fare nel territorio. Un’ultima considerazione. Nel contrastare o meno il consumo di suolo dobbiamo tener presente che le nostre scelte coinvolgono orizzonti molto più ampi. La corsa all’urbanizzazione dei paesi del terzo mondo, promossa e incentivata dalle agenzie internazionali, avviene utilizzando i modelli offerti dalla civiltà dominante. Dobbiamo essere capaci non tanto di proporre modelli alternativi a quelli correnti, ma di fornire l’esempio di logiche e strategie rispettose dei patrimoni e delle identità locali. Marco Turchetti [Progettare Sostenibile - Ravenna] info@progettaresostenibile.com

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CONSULENZA E INTERMEDIAZIONE IMMOBILIARE

«La crescita delle compravendite farà ripartire l’economia» Gli operatori del settore vedono segnali positivi. Il commento di Pierluigi Fabbri, presidente provinciale Fimaa

Quando il mercato immobiliare tornerà a risplendere, l’intera economia ripartirà. Perché la rimessa in moto del comparto artigiano, avrà benefici ben più diffusi. Ne sono convinti gli operatori del settore, che però – allo stato attuale – preferiscono essere cautamente ottimisti. «Certamente c’è da registrare un netto miglioramento dell’interesse rispetto a qualche tempo fa – afferma Pierluigi Fabbri, presidente provinciale Fimaa -. Questo significa più contatti in agenzia, più visite, ma da qui a concludere l’affare, ce ne passa. Anche i dati sono contrastanti. Da un lato c’è chi sottolinea un aumento delle transazioni nel 2014, ma non bisogna dimenticare che il raffronto è con l’anno precedente che aveva visto un vistoso crollo. Dall’altro il primo trimestre di quest’anno ha fatto ancora registrare il segno negativo. Però questo rinnovato interesse potrebbe dare presto buoni frutti. Rispetto agli anni più neri della crisi, la gente è oggi più predisposta a fare progetti di acquisto, anche grazie ai tassi più appetibili proposti dalle banche sui mutui. Molti di coloro che avevano preferito l’affitto, sono ora disposti a fare il salto di qualità, comprandosi anche un piccolo appartamento. Certo, l’unica incognita sono le tasse sulla casa che non favoriscono certamente un investimento nel settore». Il mercato che forse ha meno risentito degli effetti nefasti della recessione è quello degli affitti, che però va affrontato con il piede giusto, possibilmente rivolgendosi a un’agenzia specializzata. La prima preoccupazione di chi ha un piccolo immobile da mettere a reddito è infatti quella di trovare il giusto affittuario. Il fai da te non premia, mentre si rivela prezioso il ruolo di ‘filtro’ dell’agenzia. «Un operatore di settore – aggiunge Fabbri – è in grado di dire il target di chi sarà interessato alla propria casa in base al prodotto che

si offre. A volte, fornisce consigli per apportare quelle migliorie, a livello tecnologico, di consumi o di arredamento, che consentono di orientarsi verso in cliente più affidabile. Oggi come oggi, falsificare qualche busta paga è la cosa più facile del mondo, ma un buon professionista sa valutare più componenti anche grazie alla sua esperienza». Qual è invece la situazione del cosiddetto ‘mercato del mare’? In merito alla compravendita, per ora, non ha beneficiato dello stesso risveglio di interesse del mercato residenziale ravennate. «I nostri lidi sono caratterizzati per lo più da seconde case – commenta il presidente provinciale Fimaa -. In questo momento, però, l’alto livello di tassazione scoraggia nuovi acquisti e incoraggia chi già ha un immobile a metterlo a reddito durante la stagione estiva. Anche il mercato degli affitti ha subito cambiamenti e oggi è molto più last minute: chi affitta a luglio, si muove solo a giugno, per esempio. Sono lontani i tempi in cui si affittava la propria casa, con largo anticipo e con un buon margine di guadagno, per tutta la stagione estiva».

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