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n. 101 OTTOBRE 2015

Editore Reclam Edizioni & Comunicazione srl . viale della Lirica 43 . 48124 Ravenna . Iscrizione al Tribunale di Ravenna n. 1240 del 8/11/2004 . Redazione 0544.271068 . redazione@trovacasa.ra.it . Pubblicità 0544.408312 . info@trovacasa.ra.it

CASA PREMIUM .

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n.101 OTTOBRE 2015

BELLA CASA •• CASA TOPOGRAFIA E STORIA E QUARTIERI • CITTÀ TOUR • GRAND E DESIGN •• STILE CITTÀ E SOCIETÀ

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OTTOBRE MESE DEGLI SCONTI

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contenuti casa bella casa

04 20 32 40 57 60 67 70

Da Boston a Ravenna in una abitazione dal perfetto equilibrio _____________________________________________________ di Paolo Bolzani

topografia e storia

città e quartieri

grand tour

ottobre 2015

Scenario Lamone, il fiume che scorre come cesura e continuità del paesaggio ________________________________________________ di Pietro Barberini

Appartata e autentica scorre quieta la vita nella casba del sobborgo San Biagio ______________________________________________________ di Chiara Bissi

La Ravenna di Piero ll ricordo di viaggio in città (1926) dell’artista Joseph Stella, ______________________________________________________________ di Alberto Giorgio Cassani

stile e design

città e società

Divano: l’oggetto domestico rifugio del nostro conforto My World, Tufty Time e Standard _________________________________________________________ di Sabina Ghinassi

Con passo leggero sull’acqua: dalle risorse idriche al dissesto idrogeologico ________________________________________________________ di Marina Mannucci

abitare l’habitat

Riqualificazione dei capanni, un grande progetto per valorizzare il territorio e il paesaggio _____________________________________________________ di Marco Turchetti

mercato immobiliare

offerte immobiliari

In ripresa le compravendite nel settore turistico Dati e commenti di Fimaa e Fiaip ______________________________________________________ di Roberta Bezzi

Futura 16 . Gecos 17 . Scor . Happy Home 18 . Romagna 19 . Rubboli 28 . 29 . Case d’Autore 30 . Assocase 31 . Idea Casa 38 . Edilmax 39 . Solo Affitti . Studio Effe 44 . Eurocase . Mazzini 45 .

fotografie www.facebook.com/RavennaInterniM ottobre 2015


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03 COLOPHON 2015:Layout 1 14/10/15 22:36 Pagina 1

edizione di Ravenna

Controcopertina Siamo nel 2011 e nel cuore di Ravenna si dà il via ad un totale restyling lungo 10 mesi di un fabbricato ricostruito interamente nel dopoguerra sulle macerie di un vecchio edificio privo di alcuno charme». Il risultato è una casa moderna nel centro di una città antica, dotata di tecnologie all’avanguardia, dalla domotica alla laundry chute.

La Falegnameria F.lli Ercolani, con un’esperienza che si tramanda da tre generazioni, garantisce qualità, funzionalità e prodotti certificati. Siamo specialisti nella realizzazione artigianale di infissi e serramenti che rispettano la certificazione CE e le normative termiche e acustiche. Ci occupiamo inoltre di fornitura e posa in opera di portoni basculanti o sezionali, zanzariere, persiane in alluminio, finestre in pvc, legno/alluminio, tapparelle, mobili su misura.

Autorizzazione Tribunale di Ravenna n. 1240 del 8 novembre 2004 Direttore responsabile: Fausto Piazza Consulenza redazionale: Paolo Bolzani Collaborano alla redazione: Pietro Barberini, Roberta Bezzi, Chiara Bissi, Alberto Giorgio Cassani, Serena Garzanti (segreteria), Maria Cristina Giovannini (grafica), Sabina Ghinassi, Marina Mannucci, Domenico Mollura, Guido Sani, Serena Simoni, Marco Turchetti. Progetto grafico: Quadrastudio - www.quadrastudio.info

Show Room: Faenza, Corso Matteotti 43/a tel. 0546 43415

Restyling grafico: Gianluca Achilli Referenze fotografiche: Alberto Giorgio Cassani, Pietro Barberini, Paolo Genovesi, Fabrizio Zani, Maurizio Montanari (e altre citazioni in pagina). Redazione: tel. 0544.271068 - redazione@trovacasa.ra.it

Editore:

Edizioni e Comunicazione srl

viale della Lirica 43 - 48124 Ravenna - tel. 0544.408312 info@reclam.ra.it - www.reclam.ra.it

Sede, laboratorio e sala mostra: Faenza Loc. Fossolo, Via Lovatella 14 tel 0546 44636 fax 0546 44710

Direttore generale: Claudia Cuppi Stampa: Grafiche Baroncini - Imola - www.grafichebaroncini.it

falegnameria@ercolanifossolo.it

www.ercolanifalegnameria.it febbraio 2015


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CASA BELLA CASA


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Da Boston a Ravenna Introduzione alla casa del perfetto equilibrio

«Questa è una casa in cui ho trovato un equilibrio perfetto», commenta con soddisfazione la padrona di casa, mentre da buona statunitense qui trova “la storia” ma anche una certa sensazione di protezione, perché «il centro storico di Ravenna è in realtà un condominio gigante»

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CASA BELLA CASA

Salendo la rampa di scale si “sbarca” in un grande spazio living, caratterizzato da un open space «minimalista», come precisa la progettista, che si affaccia ad est sulla strada silenziosa del centro, e a ovest sulla corticella interna. Da est a ovest il suo uso è costituito dalla sequenza cucina-pranzo-soggiorno, quest’ultimo articolato in spazio-divani e grande schermo-TV


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La cucina «a isola, nel tempo diventata un continente», si trasforma in una plancia di comando e di sosta, pronta all’uso anche come semplice supporto su cui posare il portatile e proseguire il lavoro dello studio, scambiare due chiacchere sorseggiando un tè o un calice di buon vino, consumare uno spuntino veloce

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CASA BELLA CASA

di Paolo Bolzani

Lui è un velista professionista di Ravenna, lei un’americana di Boston che lavora nello sport marketing, settore Olimpiadi. Mettono su famiglia in un grande complesso condominiale della cittĂ di Galla Placidia, dove nascono due figlie, che ora hanno 5 e 10 anni, perfettamente bilingui. Ma lei è abituata ad un quartiere di Boston ÂŤin cui puoi andare in giro per negozi senza portafoglio perchĂŠ ti conoscono e hai la loro fiduciaÂť. Vede questa casa a schiera in una via del centro che in qualche modo le ricorda e compensa il distacco dalla elegante metropoli della northeast coast. Ne parla con il marito ed insieme incaricano Alberta Pezzele, architetto di sicuro mestiere e gusti giusti, che cosĂŹ racconta l’incipit: ÂŤsiamo nel 2011 e si dĂ il via ad un totale restyling di 10 mesi di un fabbricato ricostruito interamente nel dopoguerra sulle macerie di un vecchio edificio privo di alcuno charmeÂť. Il risultato è una casa moderna nel centro di una cittĂ antica, dotata di tecnologie all’avanguardia, dalla domotica – il marito può spegnere o accendere le luci in giardino stando in Portogallo - alla laundry chute, vale a dire un collegamento diretto tra i piani per trasferire i panni sporchi direttamente in lavanderia. ÂŤQuesta è una casa in cui ho trovato un equilibrio perfettoÂť, commenta con soddisfazione la padrona di casa, mentre da buona statunitense qui trova “la storiaâ€? ma anche una certa sensazione di protezione, perchĂŠ ÂŤil centro storico di Ravenna è in realtĂ un condominio giganteÂť. I percorsi al piano


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CASA BELLA CASA

terra sono distribuiti da un androne laterale passante, omaggiato dal pozzo originale vetrato, e impreziosito da due porte antiche a celare e funzionalizzare il sottoscala. Mentre il nostro sguardo si perde a leggere i particolari di una serie di storiche carte geografiche e da portolano, i nostri passi ci conducono ad una corticella ripavimentata in pietra piasentina, spazio esterno ma con ancora i toni dell’intimità su cui si affacciano lo studio del padrone di casa e l’appartamento per gli ospiti, che spesso arrivano dalla parte opposta del mondo. È vegliata da una grande pianta di alloro «salvata dalle ruspe», come precisa l’architetto Pezzele, ora al centro di un’aiuola bordata da una seduta continua su tre lati, a fianco della quale trova posto una doccia molto discreta per il refrigerio nelle estati afose. Accanto all’ingresso, in cui le mani sapienti di un vecchio artigiano hanno assicurato altri lunghi anni di vita all’antico portone in legno, si trova il garage e la partenza della scala che riprende il materiale già incontrato nell’androne e che scopriremo essere il leit motiv delle pavimentazioni di tutta la casa: un teak a listoni, che ammorbidisce gli ambienti con il suo tono biondo miele, su cui si muove la silenziosa e sinuosa sagoma di un gatto certosino dallo sguardo indagatore. Salendo la rampa di scale si “sbarca” in un grande spazio living, caratterizzato da un open space «minimalista», come precisa la progettista, che si affaccia ad est sulla strada silenziosa del centro, e a ovest sulla corticella interna. Da est a ovest il suokk uso è costituito dalla sequenza cucina-pranzo-soggiorno, quest’ultimo articolato in spazio-divani e grande schermo-TV, che prosegue a nord con un’appendice, un piccolo spazio dominato da un torreggiante ca-


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minetto cui si affianca la fascinosa per quanto comoda poltrona Lounge di Charles Eames. Come spiega Pezzele, si tratta di «un angolo appartato dedicato all’intimità, con un classico del design su cui poter riposare, ascoltare musica o leggere». In corrispondenza all’affaccio su strada viene collocato il centro della casa, vale a dire una grande cucina “all’americana” elegante e multifunzionale, da cui si può controllare lo spazio e anche i movimenti della figlia minore. In effetti la conformazione ad isola, con effetto a «convivio a tutto tondo» (Pezzele), qui risolta in versione total white con top in corian - che ritroveremo a fianco nel lavello su fronte strada – è opportunamente sottolineata dalla centralità del “combinato disposto” tra fuochi in ferro scuro e aspirazione in inox. In questo modo questo enorme utensile per la preparazione e la cottura degli alimenti si trasforma in una plancia di comando e di sosta, pronta all’uso anche come semplice supporto su cui posare il portatile e proseguire il lavoro dello studio, scambiare due chiacchere sorseggiando un tè o un calice di buon vino, consumare uno spuntino veloce. Per la sua versatile ampiezza la cucina è «un’isola, nel tempo diventata un continente», come commenta sorridendo la felice padrona di casa, «perché tutta la vita della famiglia ci ruota attorno». Il vano scala dal primo al secondo piano si apre per accogliere uno spazio di circa 6 metri, enfatizzato da un lampadario appeso centralmente. Siamo infine arrivati negli ambienti più privati, le camere da letto, ma anche più sacri per le bimbe, in quanto la serie di stanze comincia con la camera dei giochi, stratagemma per impedire il proliferare di toys che in altri casi abbiamo visto scendere a precipizio dalle soffitte fino al piano terra, colonizzando gli ambienti “dei grandi”.

> Crediti • Lavori realizzati in dieci mesi nel 2011 • Progetto: architetto Alberta Pezzele • Impresa esecutrice: Giulio Casadio sas - Ravenna • Impianti idraulici: Gairsa srl - Ravenna • Impianti elettrici: Made Impianti - Ravenna • Corpi illuminanti: Comet Ravenna • Arredo bagni: Ciicai - Ravenna • Infissi: Tbt - Ravenna • Pietre e marmi: Moretti marmi e graniti srl - Ravenna • Parquet: Edillegno srl - Ravenna • Fabbro: Antonio Giannelli - Ravenna • Falegname restauratore: Michele Gambi – Ravenna • Cucina: Arclinea di Studio Interni - Mercato Saraceno ottobre 2015


FUTURA CP 2015:Layout 1 13/10/15 15:14 Pagina 16

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ROMAGNA CP 2015:Layout 1 13/10/15 15:18 Pagina 19

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RAVENNA, ZONA RUBICONE

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SAN BIAGIO Zona residenziale e tranquilla, ampio appartamento ristrutturato al secondo ed ultimo piano, composto da ingresso in zona giorno luminosa (2 porte finestre che affacciano sul balcone), soggiorno, zona pranzo e cucina separata, balcone e bagno con doccia. Nella zona notte ci sono tre camere da letto e il bagno con doccia. Al piano terra dispone di un garage, un bagno/lavanderia e un veranda chiusa attrezzata a cucina per pranzi e cene all'aperto. Impianti a norma ed autonomi. Nessuna spesa condominiale. € 225.000,00

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SAN BIAGIO

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TOPOGRAFIA E STORIA

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Un’ansa del Lamone nei pressi di Boncellino


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Scenario Lamone Il fiume è cesura e continuità del paesaggio Nasconde e apre, sovrastando paesi, orizzonti e stagioni ottobre 2015


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L’argine del Lamone a nord di Villanova

Sull’argine corre un sentiero prodotto dal calpestio e dalle ruote

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TOPOGRAFIA E STORIA

di Pietro Barberini Un tempo dietro la casa non occorreva "tirar su" il filo spinato o reti di metallo zincato, poiché la proda erbosa si alzava, ergendosi a baluardo protettivo. L’argine intagliato orizzontalmente, offriva una scaletta per raggiungere la sommità o per arrivare ai fili tesi fra pali di legno ai quali veniva appesa la biancheria ad asciugare. Il bucato, la bughè, veniva tenuto alto puntando sostegni a forma di “y” sull’erba dell’argine. Si vedono sempre più raramente le bianche lenzuola a far da ornamento allo spalto erboso che appare fra una casa e l’altra. Angoli di Fossolo, Boncellino, Borgo Rotta, Traversara, Entirate, si allungano a toccare contorni netti, dove le competenze passano dal Comune allo Stato. Per dieci metri dal piede dell’argine il fiume è del Genio Civile, che nel senso etimologico esprime grandi valori di patrimonio “civico” e senso comune. Villanova di Bagnacavallo nasce, si sviluppa e cresce lungo l’argine, il suo abitato è da sempre in simbiosi con il fiume, una minaccia domestica, un cane da guardia trattato bene. Per Villanova e i suoi abitanti il Lamone diventa un fondale teatrale, scandisce tempi e modi, mode e avvenimenti. È luogo di svago e di passeggio per abbienti ceti agrari dell’Ottocento, che nel fiume trovano refrigerio e ristoro alla calura estiva, allenamento per cani da “lepre” e da riporto o ripari nascosti per celare appostamenti da pesca sulle acque allettate da pasturazioni attente e meticolose. Sull’argine corre un sentiero prodotto dal calpestio, una rotaia concava di terra nuda che le ruote di biciclette, motorini e qualche motocicletta, percorrono rotolando su battistrada di gomma. Quante faticose pedalate hanno scavato granelli di polvere, affondando sotto il peso degli arnesi da lavoro trasportati... I pedali a primavera frustavano l’erba che cresceva rallentando l’andatura, fintanto che il

“Genio” non mandava qualcuno a “segare” la sommità dell’argine. Una teoria ininterrotta di braccianti in bicicletta, a pedalare con ritmo costante verso la valle. Da Traversara, da Villanova, Glorie e Mezzano, gli argini del Lamone erano la via più breve verso le larghe della bonifica. Le biciclette venivano allineate capovolte ai piedi della sponda, sul limitare dei campi, in fondo alle cavedagne. Gli alberi si stagliavano lontani e solitari, la calura provocava un tremolio nell’aria, alla fine delle terre. Verso sera, la luce del tramonto conferisce tranquillità familiare anche alle acque del fiume lasciate da oche e anatre. Palmipedi da cortile che tornano ai loro asciutti spazi richiamati dalle voci delle donne già pronte a svolgere altri non meno impegnativi lavori. Dietro la vecchia trattoria di Dumandò il tempo si è fermato, trattiene il profumo del soffritto di cipolla e odori, un filo di fumo esce da una porta aperta sull’interno, in ombra. Ogni veicolo che transitava sulle assi del ponte Bailey lì vicino scuoteva il torpore di pomeriggi pigri e assolati. Passava brontolando la corriera degli studenti, la mattina da una parte, nel primo pomeriggio dall’altra: una sorta di azzurra meridiana che divideva la giornata, senza la fretta delle lancette. Anche adesso il tempo è rallentato in quella striscia di terra fra la via principale di Villanova e la sommità dell’argine. Nel crepuscolo estivo molti anziani salivano lassù a fumare in silenzio, qualcuno la pipa di terracotta, la caratena, ma sigari e sigarette accendevano saettanti punti rossi nell’oscurità appena mossa dal vento. Sono i cortili che allungano richiami verso il fiume capace di tenere al riparo dalla bora le case più basse di Villanova. Sul palcoscenico erboso muovono cortei con bandiere rosse per il Primo Maggio e processioni fiorite con il prete in testa per la festa patronale. Il transito è consentito, per brevi tratti, a greggi di pecore che sembrano alzare la sponda, con i loro fitti dorsi lanosi. Ricordi a co-


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Per Villanova e i suoi abitanti il Lamone diventa un fondale teatrale

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> L’abitato di Villanova. Tutte le foto sono dell’autore

lori della memoria che, senza apparente contrasto, proseguono nel bianco e nero delle fotografie dove i bianchi ingialliscono, sconfinando nelle sovraesposizioni di un filmato otto millimetri. Anche i sogni mescolano queste immagini con sottofondo la ruota dentata del proiettore muto, così ognuno mette la sua musica. Un bell’andare, ma niente al confronto con il maestoso e incessante scorrere del tempo, che l’acqua del fiume porta. Una pista ciclabile si snoda, parallela all’acqua del Lamone, da Faenza alla foce. Un percorso che presenta qualche interruzione, ma “il ciclista da fiume” riesce a colmare facilmente la mancanza di continuità. La pista, erbosa o a fondo battuto, permette di passare sotto ai ponti stradali e ferroviari, scendendo nella golena per tratti più o meno lunghi, a volte risalendo con faticose pendenze. Con biciclette normali, come quelle usate un tempo dalle braccianti, bisogna scendere e risalire a piedi. Con biciclette ibride o fuoristrada dotate di cambio di velocità, con numerosi rapporti, si può rimanere sempre in sella. L’itinerario è percorribile nei due sensi, tutto l’anno, ma le stagioni ideali sono la tarda primavera e i mesi di settembre e ottobre. Si può pedalare controcorrente partendo dal mare verso la conquista dell’entroterra o scendere alla velocità di quel flusso instancabile che non smette mai di pedalare. Non è raro incontrare fagiani che attraversano il sentiero con il loro volo basso e il metallico grido d’allarme. A seconda dell’ora e della stagione, non mancano tordi e merli e, in caccia sui campi, voli di rapaci. Ogni ciclista potrà dosare le proprie forze, godendo di una luce mattutina o serale, correndo incontro ai venti, carichi di marini sentori. C’è anche chi sfida la curena, il dispettoso Libeccio che piega la vegetazione, percuotendo il fogliame. Sull’argine non c’è riparo, ma nelle giornate ventose la visione è nitida e arriva lontano. Immaginando il mare.

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RUBBOLI CP 2015:Layout 1 14/10/15 22:38 Pagina 28

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CITTÀ E QUARTIERI

> Nelle foto d’epoca, due scorci della via Maggiore nel cosiddetto borgo di Porta Adriana (o San Biagio) a fineOttocento. L’inquadratura è la stessa del dipinto di Telemaco Signorini datato 1875 riprodotto nella pagina a destra


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Appartata e autentica scorre quieta la vita nella casba I tesori e le molte storie del reticolo di vie del borgo che si sviluppa tra via Maggiore e circonvallazione Fiume Montone Abbandonato

di Chiara Bissi

Racchiusa fra due direttrici di traffico urbano come via Maggiore e la circonvallazione Fiume Montone Abbandonato, resiste all’incedere del tempo una zona ben circoscritta e omogenea della città. Si tratta di un dedalo di strade, con viuzze strette, sulle quali si affacciano case a un piano o poco più. Queste vanno a costituire uno dei sobborghi, addossato alle mura della città storica, dopo lo spostamento settecentesco dei due fiumi, Ronco e Montone, che cingevano d’assedio Ravenna, con ripetute inondazioni. Via Portone, Portoncino, Rampina, e ancora dei Rasponi, Scaletta, Mingaiola, Ghibuzza, Ferretti sono alcune delle strade di quella che molti chiamano ancora casba, per la sua particolare conformazione. Nata nel Settecento per ospitare chi in città offriva lavoro manuale, come i braccianti e gli operai delle poche manifatture sorte sul finire dell’Ottocento, la casba mantiene intatto il proprio fascino a pochi passi dalla blasonata via Cavour. Le famiglie che abitavano il sobborgo hanno lasciato in buona parte il posto a giovani coppie italiane e straniere che andranno a scrivere un nuovo capitolo della vita di quel luogo. La speculazione edilizia del dopoguerra e gli effetti del conflitto bellico non ne hanno però intaccato l’originalità e l’alterità.

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CITTÀ E QUARTIERI

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Borgo popolare un tempo, quieta area centrale oggi, con stradine che risalgono verso la circonvallazione Fiume Abbandonato, anche il nuovo piano generale del traffico urbano si preoccupa di inserirla nella nuova pianificazione. Fra gli interventi pensati per regolamentare l'accesso al centro storico c’era la redazione di un piano particolareggiato che prevedeva l’istituzione di una zona a traffico limitato nell'area delimitata dalle vie Maggiore, Montone Abbandonato, Spreti, Landoni, Moradei; nell’aggiornamento del piano del traffico 2014 rimane la promessa della ztl ma questa è legata alla disponibilità del parcheggio di via Fiume Montone Abbandonato. Scorrendo il piano del traffico, che tutti i cittadini possono reperire e leggere nel sito web del Comune, si legge: «per le vie Rampina, Portoncino, Portone e strade limitrofe sono stati avviati e completati gran parte degli studi relativi al completamento del Piano. Per completare le azioni è necessario che l’Amministrazione Comunale entri in possesso del parcheggio denominato Callegari». Le preoccupazioni di oggi, legate al peso del traffico sulla circonvallazione Fiume Abbandonato, sono lontane dalla descrizione del sobborgo “Adriano” poi “Saffi”, e oggi San Biagio, lasciate da Gaetano Savini che nel 1908 - 1909 definiva la strada principale, via Maggiore così. «Vi sono in gran numero osterie e bettole, dove si beve e si canta allegramente: vi sono altresì negozi di tutti i generi, caffè, macellerie, salsamenterie ecc., un’officina meccanica e altre botteghe per svariati mestieri». Savini nella pubblicazione Piante panoramiche volumi VI – VIII. Edifici pubblici e privati luoghi e cose notevoli suburbani riporta fedelmente il carattere e l’immagine del sobborgo oltre porta Adriana, dove c’era il mercato boario, e dove fino al 1865 si praticavano le esecuzioni capitali. Non mancavano poi la conceria delle pelli e il mercato equino, attività che garantivano la presenza di un vasto pubblico. Lungo via Maggiore si è persa traccia della chiesa di San Francesco da Paola (ricordata anche come San Franceschino) che Corrado Ricci dice ricostruita nel 1647 e «riparata» nel 1702, all’angolo con via Porticino. Nel corso della Seconda guerra mondiale l’edificio venne distrutto, ma appare nelle foto dell’epoca e nell’olio su tela Sobborgo di Porta Adriana, 1875, di Telemaco Signorini, conservato alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma e apprezzato dal pubblico della mostra “Il Bel Paese” allestita da marzo a giugno 2015, al Museo d’arte della città. Il resto della zona è fatta di «case rimodernate» dice il Savini dai tempi nei quali scorreva il fiume con le porte alte e brevi scalette esterne per sfuggire alle acque. Il quartiere quindi fu sempre caratterizzato da un brulicare di attività e di persone, le vicine scuole comunali maschili del 1902 sono tra i pochi edifici pubblici ricordati. La sede dell’ex circoscrizione Prima oggi ufficio decentrato, ospita al proprio interno in via Maggiore 120 La casa delle donne. L’associazione a carattere volontario Liberedonne ne gestisce e organizza le attività sociali e culturali. La Casa delle donne è sede dell’Udi, l’unione donne in Italia; delle Donne in nero, rete internazionale di donne contro la guerra, e della Fidapa, gruppo che promuove, coordina e sostiene le iniziative delle donne che operano nel campo delle arti, delle professioni e degli affari. Oggi a chi si prende tempo e cammina nel dedalo di stradine strette della casba non sfugge la cura e il pregio delle ristrutturazioni. Interventi mirati al recupero delle abitazioni che non tradiscono lo spirito originale della zona,

In alto a destra, una foto satellitare dell’area storica del borgo San Biagio; a sinistra si nota la larga arteria di via Maggiore, al centro a destra sopravvive la fitta tessitura della parte più antica del quartire che sorgeva fuori Porta Adriana, fatta di un intrico di vicoli e piccole case. In basso, una foto attuale dell’Aurora, circolo centenario dei socialisti ravennati


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non ne sviliscono l’anima con finti restauri in stile. Tanto che la compresenza di residenze ristrutturate e unità abitative segnate dal tempo rende viva e verace il quartiere che evidentemente rifiuta di diventare museo per turisti disattenti. Tra i tesori nascosti c’è uno dei circoli più apprezzati e più appartati della città, nel quale la convivialità affonda le radice nella pura tradizione enogastronomica ravegnana. Non c’è bisogno di insegne per sapere dove trovare il circolo La Gardela di via Portone, il ricordo personale indelebile o i racconti di amici e conoscenti guidano i fortunati avventori, custodi e cultori di sapori intensi e pieni, da scoprire ogni volta nei piatti di tagliatelle al ragù o nelle carni alla brace. La frequentazione e l’adesione è legata a consolidati rituali che limitano il numero dei soci, 160, e anche l’ingresso nel circolo è ammesso su invito di un socio, fra i quali si contano cittadini illustri come il maestro Riccardo Muti. Nelle sale del circolo fondato nel 1952 il legno e lungo tavoloni la fanno da padrone, l’atmosfera rustica scalda i cuori dei soci e degli ospiti ma un cartello ammonisce “Sono da evitarsi le discussioni politiche” e così rimane posto per lo sport e il beccaccino. Percorrendo le vie della casba la toponomastica regala tante piccole curiosità, da via Portoncino, traversa di via Maggiore, citata da Giuseppe Morini nello Stradario storico di Ravenna anche come via Muzza o Mozza, a seguito della lettura dei catasti del 1809, mentre in una pianta di epoca settecentesca Morini la ritrova descritta così: «Portoncino che si transita nella strada Monaldini e Costantinopoli». Via dei Pozzi che procede da via Mingaiola a via Ghibuzza indicava un’area ricca di acque, già nel Trecento; nel Settecento fu chiamata anche via Monaldini perché attraversava terreni della nobile famiglia ravennate. Anche via Scaletta rimanda alla presenza, sostiene Morini, dalla presenza di una gradinata o di scale per raggiungere l’argine del fiume Montone poi abbandonato. Via degli Spreti fino al 1928 era nota come II Sabbione, quattro infatti erano le stradine con questa denominazione. Si trattò quindi di omaggio a una delle più importanti famiglie nobiliari cittadine che tanta influenza ebbero nella

Oggi a chi si prende tempo e cammina nel dedalo di stradine strette della casba non sfugge la cura e il pregio delle ristrutturazioni. Interventi mirati al recupero delle abitazioni che non tradiscono lo spirito originale della zona e convivono tranquillamente con case segnate dal tempo

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storia di Ravenna. Proseguendo nelle pieghe della Toponomastica appaiono personaggio particolari: Jacopo Landoni, vissuto fra Sette e Ottocento professore di eloquenza, spirito bizzarro, famoso per burle famose nella tradizione ravegnana, scrive Morini. Via Ferretti rimanda invece a una famiglia ravennate alla quale appartennero alcuni uomini di valore, tra i quali Niccolò (XV secolo) grammatico e umanista, Gianpietro, erudito e storico di Ravenna (XVI secolo) e Giulio (XVI secolo) scrittore di cose militari. Se le curate ristrutturazioni, si diceva, danno il senso di un borgo pacificato, agli inizi del Novecento era la passione politica invece ad incendiare gli animi, con la Società socialista Aurora di via Ghibuzza opposta alla Società dell’Emancipazione di matrice repubblicana. E quando negli anni Venti l’Aurora subirà l’assalto delle squadre fasciste, sarà la generosità delle donne e dei bambini del sobborgo a salvare la casa dall’incendio con una catena umana fatta di secchi d’acqua. Di questi giorni la riapertura del circolo con una nuova gestione che si preoccupa di dare spazio anche a eventi culturali, dalla musica dal vivo ai dj set, dal cinema, ai libri e al teatro. Sopra, una curiosa immagine della casba negli anni ‘70, con fianco a fianco nel vicolo una Rolls Royce e una Citroen 2 Cavalli. Lo scatto è frutto di una ricerca del fotografo Eros Antonellini, intitolata “I Ravennati”. A sinistra, il voltone che da via Maggiore introduce a via Portone una delle direttrici del vecchio quartiere

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La Ravenna di Piero Il ricordo di viaggio di Joseph Stella, dadafuturista italo-americano (1926)

di Alberto Giorgio Cassani

Silenzio. Staticità. Dolore. Queste le non certo allegre immagini che Ravenna ispira a Joseph Stella (all’anagrafe Giuseppe Michele da Muro Lucano) – dadafuturista italoamericano, ma amante dei pittori “primitivi” italiani e amico del genio Duchamp – nel suo ricordo della nostra città, visitata nel 1926, dall’asciutto titolo: Ravenna.1 «L’Italia – afferma Stella nella Lettera a Ferdinando Santoro, suo critico nella mostra napoletana del 1929 – è l’unica mia vera ispiratrice».2 Che lo sia stata un po’ anche la “città del silenzio”? (che per un futurista è il massimo…). Il silenzio, dunque, innanzitutto: «alto, solenne, ieratico» come la processione «d’oro e bianco» (delle vergini di Sant’Apollinare Nuovo?, ipotizziamo noi). Su questo silenzio si elevano «con semplicità» e «naturalezza» gli «alti cilindri dei campanili» in uno scenario di «staticità vivente» (un bell’ossimoro per Ravenna) in cui però «s’intravede una vita profonda dilungarsi per i meandri del Mistero» (quei “meandri” che egli ha visto rappresentati nell’intradosso dell’arco che conclude la volta a botte col cielo stellato di Galla Placidia, citata, infatti, subito dopo nella poesia; quale miglior luogo per uno di cotal nome?). Stella “riscatta” la città silente, riconoscendole una vita «presente e viva come nei fondi animati dalla muta e tanto raccolta eloquenza delle figure di Piero della Francesca». Al pittore Stella non potevano che venire in mente i cristallini paesaggi senza


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A sinistra: Man Ray (Emmanuel Radnitzky), Three Heads, 1920, cm 20.7 × 15.7, stampa su gelatina d’argento, 1920-1928, Thomas Walther Collection 1901-1949. Dono di Thomas Walther, New York, The Museum of Modern Art © 2015 Man Ray Trust / Artists Rights Society (ARS), New York / ADAGP, Paris. Sopra: Piero della Francesca, Storie della Vera Croce, scena coll’Adorazione della Croce e l’incontro tra Salomone e la Regina di Saba, 1452-1466, affresco, Cappella maggiore della chiesa di San Francesco, Arezzo. Sotto: Piero della Francesca, Storie della Vera Croce, scena col Ritrovamento delle tre croci e verifica della Croce, 1452-1466, affresco, Cappella maggiore della chiesa di San Francesco, Arezzo.

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GRAND TOUR

tempo del grande Piero. Un paragone lusinghiero per Ravenna. Anche Galla e la sua tomba sono avvolti nel silenzio. In questa soffusa atmosfera, i rintocchi di campane non possono che apparire come «richiami flebili di moribondi», di «cuori» e di «palpebre» che si aprono e si chiudono nel dolore. Echi trakliani3 sono i colori netti del tramonto “dipinti” da Stella: il «blu» del cielo su cui si staglia l’orlo «nero» delle case. «Fuochi passanti», «ombre»: il pittore coglie la città per immagini. L’ultima è quella del campanile (ancora) e della facciata del duomo che «impallidendo nella sera ha una dolce chiarità soffusa di tenerezza ed amore come di moribondo». Difficile, per chiunque, prestargli soccorso.

NOTE: 1. In Joseph Stella, Ricordi e pensieri, Roma, Edizioni della Cometa, MCMLXXXIX, p. 84. Tutte le successive citazioni riferite a Ravenna sono tratte ibid. Su Stella si veda: Simonetta Nicolini Alla fine del viaggio. Immagini degli emigranti e dell’America negli scritti e nei disegni di Joseph Stella, in Viaggiare con i libri. Saggi su editoria e viaggi nell’Ottocento, a cura di Gianfranco Tortorelli, Bologna, Pendragon, 2012, pp. 263-291. 2. Joseph Stella, Lettera a Ferdinando Santoro, agosto 1928, in J. STELLA, Ricordi e pensieri, cit., pp. 85-86. 3. Georg Trakl, il poeta cantore del tramonto dell’“Austria felix”.

> Joseph Stella Ravenna «Il silenzio di Ravenna, alto, solenne, ieratico come la processione d’oro e di bianco lungo muro di purezza proteggente la vera Santità grave della Vergine. Case, chiese, campanili, gli alti cilindri dei campanili si elevano con semplicità, naturalezza nel silenzio su un fondo di staticità vivente, lungo cui si sente, s’intravede una vita profonda dilungarsi per i meandri del Mistero, ma presente e viva come nei fondi animati dalla muta e tanto raccolta eloquenza delle figure di Piero della Francesca. Nel silenzio la tomba di Galla Placidia – notturno soffuso… Suoni di campane ansimano brevi come richiami flebili di moribondi. Cuori che si aprono nel dolore e sul dolore si richiudono, palpebre appena sollevate e presto cadute su sguardi dolorosi. La sera cade lentamente, ma il cielo è chiaro, il blu del cielo divenuto d’un pallore soffuso di riflesso sugli orli neri delle case. Appena qualche lieve rumore – fuochi passanti si perdono nelle ombre inavvertite. E sul cielo, non campeggia che il campanile e la facciata del duomo, che impallidendo nella sera ha una dolce chiarità soffusa di tenerezza ed amore come di moribondo»

> Il meandro a mosaico, post 425, del Mausoleo di Galla Placidia, Ravenna.

> Joseph Stella, The Brooklyn Bridge: Variation on an Old Theme, 1939, olio su tela, cm 178.4 × 107.2, Whitney Museum of American Art, New York.


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ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE

«L’architettura del calcolo, dell’audacia temeraria e della semplicità»* «Noi […] canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri, incendiati da violente lune elettriche […] le officine appese alle nuvole per i contorti fili dei loro fumi» Filippo Tommaso Marinetti, Manifesto del Futurismo, in “Le Figaro”, 20 febbraio 1909

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Mantova, Fabbrica Mantovana di Concimi Chimici, magazzino per fertilizzanti, ingegner Alberto Minghetti, 1952, foto Marcello Modica, 2014


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di Alberto Giorgio Cassani

Form follow Function: la forma segue la funzione. Mai come nel caso dei “paraboloidi” (o più esattamente dei “cilindri parabolici”) questo caposaldo proverbiale dell’architettura contemporanea, coniato da Louis H. Sullivan1 (o forse da un suo socio di studio), calza nella maniera più perfetta. Le pareti inclinate di 38° circa di questi magazzini per lo stoccaggio d’inerti “accompagnano”, infatti, la naturale conformazione di materiali che si sedimentano in forma conica, evitando così le pericolose spinte che s’innescherebbero nel caso le pareti fossero verticali (come nei precedenti magazzini a forma “basilicale”). Anche se, va detto, probabilmente i primi paraboloidi non furono pensati per l’industria, bensì per la custodia dei dirigibili, come dimostrano i due hangar di Orly, del 1923-1924, capolavori d’ingegneria cementizia armata, progettati da Eugène Freyssinet e malauguratamente distrutti dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Come che sia, queste “cattedrali” del XX secolo incarnano, assieme alle torri di raffreddamento, anch’esse strutture appartenenti alla stessa famiglia dei paraboloidi – le “coniche” –, le forme dell’immaginario industriale del Novecento, suscitando l’ammirazione sconfinata, dopo il grandioso incipit del futurismo italiano (Sant’Elia canta «la bellezza nuova del cemento e del ferro»2), in alcuni dei più importanti teorici e architetti del cosiddetto “Movimento Moderno”: Tony Garnier,3 Hermann Muthesius,4 Le Corbusier5 e Walter Gropius, in particolare. A queste forme s’ispireranno, oltre a questi nomi appena citati, molti dei maggiori progettisti del secolo appena trascorso: Robert Maillart, Pier Luigi Nervi, Richard Buckminster Fuller, Ivan Leonidov, Felix Candela (maestro insuperato dei paraboloidi iperbolici), Paolo Soleri. Molti, anche, sono stati gli architetti che si sono esercitati nella progettazione di vere e proprie fabbriche: da Peter Behrens (fabbrica di Turbine, fabbrica di piccoli motori, stabilimento dei materiali per l’alta tensione, sala di montaggio per grandi macchine per l’AEG di Berlino-Moabit, fabbrica del gas e fabbrica Hoechst IG Farben a Francoforte sul Meno, 1911 e 19201924), ad Hans Poelzig (fabbrica di prodotti chimici Moritz Milch & Co. a Luban (Polonia), 1911-1912 e i magnifici progetti, quasi tutti non realizzati, delle Torri dell’acqua), a Walter Gropius (fabbrica Fagus, Alfed an der Leine (Bassa Sassonia), 1911-1913 e fabbrica modello, con Adolf Meyer, all’Esposizione del Werkbund a Colonia del 1914), a Eric Mendelshon (Hut Fabrik – cappellificio Friedrich Steinberg, Herrmann & Co. – a Luckenwalde (Brandeburgo), 1919-1920 e fabbrica tessile Krasnoye Znamya – “Bandiera rossa” – di San Pietroburgo, 1926), agli architetti italiani (Figini e Pollini, 1934-1957 e Eduardo Vittoria, 1956) che hanno ideato i successivi ampliamenti dell’Olivetti a Ivrea, fino ad Alvaro Siza che ha firmato la fabbrica della Vitra a Weil-am-Rhein. Alla fine del XIX secolo, appare chiaro come ingegnere e architetto abbiano ormai preso due strade divergenti: quello della ricerca di nuove forme per nuovi materiali, il primo, quello di una posizione di “retroguardia” formalistica e accademica, il secondo. Ecco perché gli architetti del nuovo secolo, il secolo del Moderno, guardano ai primi come modelli da seguire. Forse il primo ad aver individuato nell’ingegnere la figura dell’uomo, al tempo stesso, antico e attuale, è stato Adolf Loos: «C’è ancora, nel nostro tempo, qualcuno che lavora alla maniera dei Greci? Oh sì! Gli Inglesi come popolo, gli ingegneri come categoria. Gli Inglesi, gli ingegneri sono i Greci dei giorni nostri. A loro dobbiamo la nostra cultura. Essi sono gli uomini perfetti del dician-

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A sinistra, in alto: Mantova, Fabbrica Mantovana di Concimi Chimici, magazzino per fertilizzanti, ingegner Alberto Minghetti, 1952, foto Marcello Modica, 2014. A sinistra, in basso: Pasquasia (Enna), miniera di sali potassici misti di Pasquasia-Corvillo (ISPEA-Italkali), magazzino “solfato”, 1969, foto Marcello Modica, 2011 . Sopra: Tortona (Alessandria), Monopoli di Stato, magazzini del sale, ingegner Pier Luigi Nervi, 1950-1951, foto Marcello Modica, 2013

novesimo secolo… I vasi greci sono belli come bella è una macchina».6 Curioso che, qualche anno più tardi, in Vers une architecture, Le Corbusier metta a confronto il Partenone e l’automobile, benché il passo da Loos a «une maison est une machine à habiter» non sia affatto breve; ma questa sarebbe un’altra storia, Loos non essendo affatto un mero “anticipatore” del Movimento Moderno.7 Questa vicenda, che vede Le Corbusier in prima fila – «GLI INGEGNERI AMERICANI SCHIACCIANO COI LORO CALCOLI L’ARCHITETTURA AGONIZZANTE»8 –, è stata raccontata, come soltanto lui poteva fare, da Reyner Banham, lo storico dell’architettura più anticonformista ed uno dei più acuti del secolo scorso, in numerosi articoli,9 nella sua tesi di dottorato10 e infine nel suo libro A Concrete Atlantis: US Industrial Building and European Modern Architecture del 1989.11 Che poi questi architetti innamorati delle forme industriali e dell’estetica della macchina – primi fra tutti gli architetti del Costruttivismo sovietico e poi, in una versione assai più ludica, gli “eroi” delle Megastrutture degli anni Sessanta e Settanta – abbiamo col tempo compreso che non bastava rifare queste forme per ottenere automaticamente un modello di Modernità, è altrettanto vero. Tornando ai paraboloidi, cosa ci dicono, oggi, questi grandi contenitori? Che la forma può seguire la funzione, ma, ciononostante, essa va oltre la mera “traduzione” di una necessità pratica, realizzando forme di “platonica” bellezza che ci sanno parlare anche dopo che la loro “funzione” è caduta in disuso. Il paragone con le cattedrali non è affatto peregrino e buttato lì.12 Delle grandi chiese gotiche, questi semplici magazzini conservano l’aspetto luministico, coi tagli di luce che provengono dalle finestre en longuer (siano esse parallele alle pareti o collocate lungo la curvatura dell’arco). Chi ha avuto la fortuna di entrare in uno di questi grandi spazi vuoti si è reso conto della qualità della luce che ne illu-

mina gl’interni con effetti scenografici (che ne farebbero luoghi deputati alle rappresentazioni del teatro contemporaneo). Ecco perché questo primo censimento sui paraboloidi italiani condotto da Marcello Modica e da Francesca Santarella è un lavoro importante che finalmente fa il punto su queste moderne cattedrali del lavoro. Un lavoro analogo sarebbe augurabile anche sulle torri di raffreddamento dismesse, anche se, per quanto riguarda queste ultime, non si ritrova certamente la varietà di forme e di tipologie presenti nei magazzini con copertura a volta parabolica. Qualunque ipotesi di conservazione di questi manufatti presuppone innanzitutto la loro catalogazione e la conoscenza dello stato di fatto. E questo volume – così ben illustrato dalle fotografie di Modica – permette la conoscenza, per la prima volta, di quest’importante e diffuso patrimonio architettonico. Si dirà: conoscere non vuol dire automaticamente conservare. Allo stesso modo non significa sapere sempre cosa fare di questi giganti svuotati dalle loro funzioni di contenitori di materiali inerti (a granuli o in polvere).13 Questo lo sappiamo bene. Ma già un’iniziativa editoriale di questo livello permetterà, ce lo auguriamo, d’impedire, con maggior speranza di successo (o minor speranza d’insuccesso), il rischio, sempre in agguato, delle demolizioni. Si raccoglierà, in tal modo, l’eredità di Eugenio Battisti, primo in Italia a capire l’importanza di quelli che lui chiama «i grandi mostri della meccanizzazione»,14 ma “mostri” solo «per la loro dimensione, non per le qualità, anche di stile, che presentano e che ormai si possono apprezzare, con equità, da due opposti versanti: entrando dentro, là dove sopravvivono impalcature metalliche, capannoni a vista, macchine ed attrezzi, e tutelandoli come il tesoro nostrano di quella civiltà industriale, cui si devono forse i massimi capolavori di strutture architettoniche pure più suggestive che in qualsiasi quartiere creato

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dallo stile internazionale»; nonché «relitti» della civiltà industriale, dalla spazialità disponibile a nuovi utilizzi in quanto l’architettura industriale «richiede spazi interni il più possibile aperti e sgombri, quindi esclude tramezzi, celle, corridoi, tutta quella camicia di forza che il ricalco, insensato, delle piante obsolete dei palazzi barocchi ha introdotto nelle abitazioni piccolo borghesi ed operaie. Cioè spalancando le porte, si hanno spazi immensi, liberi, da trasformare e da adattare con sistemazioni che saranno per forza sempre provvisorie: scuole […], sale da conferenza, palestre coperte, piscine, padiglioni per esposizioni, mercati artigiani o nuove industrie».15 Non soltanto questo, però. Salvare queste testimonianze è, per Battisti, «una delle migliori forme di riconoscenza e di rispetto per l’immane

piattaforma di sforzi, fatica, ingegnosità su cui il nostro facilitato e pigro benessere è fondato».16 Sapendo quanto labile è questo benessere. Essendo ben consapevoli, anche, che questo specifico patrimonio culturale, più di qualunque altro pervenutoci, «non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento della barbarie».17 Magazzino deriva dall’arabo “Machsan” (o “Al-Machsan”), che significa luogo da riporre e custodire, ma anche tesoro e celliere. Un luogo, dunque, ospitale e protettivo. Speriamo di essere all’altezza di questi luoghi dell’accoglienza, salvandoli dall’abbandono (che spesso, però, ha permesso la loro sopravvivenza e il mantenimento della loro autenticità), attribuendo loro nuove funzioni, rispettose dei loro grandiosi spazi, che permettano loro di sopravvivere a questi nostri tempi difficili (chi l’avrebbe detto che sarebbe tornato di moda Dickens?). Speriamo, soprattutto, che la parabola dei paraboloidi non sia discendente, ma punti decisamente verso l’alto.

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Sopra: Santa Maria degli Angeli, presso Assisi (Perugia), Stabilimento concimi chimici Montecatini-Montedison, magazzino per fertilizzanti cosiddetto “Morandi”, 1948, foto d’epoca proveniente dall’Archivio fotografico Montecatini-Edison

Sotto: Cáceres (Estremadura, Spagna), Zona industriale Aldea Moret, magazzino per fertilizzanti cosiddetto “Embarcadero”, 1957, recupero a cura degli architetti Fuensanta Nieto e Enrique Sobejano, 2006-2007, foto Roland Halbe


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A sinistra: Ravenna, Società Interconsorziale Romagnola (SIR), magazzino per fertilizzanti, ingegner Elio Segala, 1956-1957, foto Stefano Barzizza, 2014 A destra: Prato, Opificio tessile Campolmi, tintoria, anni ’50, recupero a cura dell’architetto Marco Mattei, 2009, foto Marco Mattei

> Il volume Paraboloidi. Un patrimonio dimenticato dell’architettura moderna sarà presentato all’Istituto della Enciclopedia Italiana “Treccani” lunedì 26 ottobre 2015 (ore 17.30) alla Sala Igea di Palazzo Mattei di Paganica, Piazza dell’Enciclopedia Italiana, a Roma, con interventi di Massimo Bray (ex Ministro dei Beni, delle attività culturali e del turismo ed ora direttore editoriale della “Treccani”), Giorgio Muratore (Professore ordinario di Storia dell’architettura contemporanea all’Università La Sapienza di Roma che, tra i numerosi volumi e saggi da lui scritti, ha curato, nel 2006, la voce «Archeologia industriale» per la VII Appendice dell’Enciclopedia Treccani), Alberto Giorgio Cassani, Marcello Modica e Francesca Santarella.

Note * Si tratta della Prefazione al volume di Marcello Modica, Francesca Santarella, Paraboloidi. Un patrimonio dimenticato dell’architettura moderna, prefazione di Alberto Giorgio Cassani, scritti di Ivanoe Balatroni et alii, Firenze, Edifir Edizioni, 2014, pp. 9-13. 1. The Tall Office Building Artistically Considered, in «Lippincott’s Magazine», LVII, marzo 1896, pp. 403409. 2. Antonio Sant’Elia, L’architettura futurista: Manifesto, foglio volante, Milano, 11 luglio 1914, poi in «Lacerba», II, n. 15, pp. 228-231: 228. 3. Une cité industrielle: Étude pour la construction des villes, Paris, Massin & Cie, 1917, 2 voll.

«[…] nell’idea di felicità risuona ineliminabile l’idea di redenzione. Ed è lo stesso per l’idea che la storia ha del passato. Il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione. Non sfiora forse anche noi un soffio dell’aria che spirava attorno a quelli prima di noi? Non c’è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un’eco di voci ora mute? […] Se è così, allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come a ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto. Questo diritto non si può eludere a poco prezzo».18

Milano, Adelphi, 1980, p. 28. Cfr. Massimo Cacciari, Adolf Loos e il suo Angelo - Adolf Loos, Das Andere / L’Altro - Festschrift: Per i sessant’anni di Adolf Loos, Milano, Electa, 1981 (ora: Adolf Loos e il suo Angelo: «Das Andere» e altri scritti, Milano, Electa, 2002). 8. Vers une architecture, ed. cit., p. 20; e ancora: «Non seguendo un criterio architettonico, ma semplicemente guidati dalle necessità di un programma imperativo, gli ingegneri d’oggi si impadroniscono degli elementi che generano e fanno risaltare i volumi; essi mostrano la via e creano fatti plastici, chiari e limpidi che appagano lo sguardo e infondono allo spirito la gioia della geometria. Tali sono le fabbriche, primizie rassicuranti dei tempi nuovi», ibid., pp. 28-29. Si veda anche Ludwig Hilberseimer, Groszstadt Architektur, Stuttgart, Julius Hoffmann Verlag, 1927, trad. it. di Bianca Spagnuolo Vigorita, Groszstadt Architektur: L’architettura della grande città, Napoli, Clean, 1981, in particolare pp. 9098.

4. Come sottolinea Reyner Banham in Theory and Design in the first machine Age, London, The Architectural Press, 1960, trad. it. di Enrica Labò, Architettura della prima età della macchina, Bologna, Calderini, 1970, pp. 61 sgg. (nuova edizione a cura di Marco Biraghi, traduzione di Sandra Montagner, Milano, Christian Marinotti, 2005).

10. Il già citato Theory and Design in the first machine Age.

5. Vers une architecture, Paris, G. Cres, 1923, trad. it. di Pierluigi Cerri, Pierluigi Nicolin e Carlo Fioroni, Verso una architettura, a cura di Pierluigi Cerri e Pierluigi Nicolin, Milano, Longanesi & C., 1973, 1986, 19987.

11. Edito a Cambridge (Mass.) dalla MIT Press, trad. it. di Emma Ansovini, L’Atlantide di cemento: Edifici industriali americani e architettura moderna europea, 1900-1925, Roma-Bari, Laterza, 1990.

6. Adolf Loos, Vetro e argilla [26 giugno 1898], in ID., Ins Leere gesprochen; Trotzdem, Wien-München,Verlag Herold, 1962, trad. it. di Sonia Gessner, Parole nel vuoto, Milano, Adelphi, 1972, 19802, pp. 41-47: 43.

12. È lo stesso Le Corbusier a paragonare gli hangar di Orly a Notre-Dame: «Concezione e costruzione di Freyssinet e Limousin. Larghezza ottanta metri, altezza cinquanta metri, lunghezza trecento metri. La navata di Notre-Dame misura dodici metri di larghezza e trentacinque metri di altezza», Vers une architecture, ed. cit., p. 240, didascalia.

7. Ludwig Wittgenstein: «Chi è soltanto in anticipo sul proprio tempo, dal suo tempo sarà raggiunto», Vermischte Bemerkungen, herausgegeben von Georg Henrik von Wright, Frankfurt am Mein, Suhrkamp, 1977, trad. it. di Michele Ranchetti, Pensieri diversi, a cura di Georg Henrik von Wright con la collaborazione di Heikki Nyman, edizione italiana a cura di Michele Ranchetti,

9. Si vedano, per tutti, quelli, magistrali, raccolti nell’antologia Architettura della Seconda Età della Macchina: Scritti 1955-1988, a cura di Marco Biraghi, Milano, Electa, 2004.

13. Ricordiamo il monito di Walter Benjamin: «Che valore ha […] l’intero patrimonio culturale, se proprio l’esperienza non ci congiunge a esso?», Erfahrung und Armut, in «De Welt im Wort», I, n. 10, 7 dicembre 1933,

trad. it. di Fabrizio Desideri, Esperienza e povertà, in Walter Benjamin, Opere complete, vol. V: Scritti 19321933, a cura di Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhäuser, edizione italiana a cura di Enrico Ganni con la collaborazione di Hellmut Riediger, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2003, pp. 539-544: 540. 14. Eugenio Battisti, Perché l’archeologia industriale, in «Archeologia industriale: Centro di documentazione e di ricerca», Bollettino n. 1, marzo 1977, in occasione del Convegno di Archeologia Industriale, Milano, 24, 25, 26 giugno 1977, pp. 3-6: 3. 15. Eugenio Battisti, Il fascino dell’archeologia industriale, in «Italia Nostra», n. 158, 1978, pp. 42-46, ed. cons. in Id., Archeologia industriale: Architettura, lavoro, tecnologia, economia e la vera rivoluzione industriale, a cura di Francesco Maria Battisti, prefazione di Paolo Galluzzi, con i contributi di Aldo Castellano, Ornella Selvafolta, Milano, Jaca Book, 2001, pp. 35-40: 36. 16. Eugenio Battisti, Archeologia industriale: questioni di metodo, in Franco Feliciani, Giuseppe La Spada, Walter Pellegrini, Archeologia industriale in Abruzzo, con interventi di Eugenio Battisti et alii, s.l., s.n., [L’Aquila, Stabilimento litografico Gran Sasso], 1985, ed. cons. in Eugenio Battisti, Archeologia industriale…, cit., pp. 41-50: 49. 17. Walter Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, in Walter Benjamin zum Gedächtnis, [Edited by] Institut für Sozialforschung, Los Angeles, 1942, pp. 1-16, trad. it. di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, Sul concetto di storia, in Walter Benjamin, Opere complete, vol. VII: Scritti 1938-1940, a cura di Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhäuser, edizione italiana a cura di Enrico Ganni con la collaborazione di Hellmut Riediger, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2006, pp. 483493: 486. 18. Ibid., pp. 483-484.

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ORDINE ARCHITETTI RAVENNA

Con il patrocinio

Comune di Ravenna

Comune di Cervia

Comune di Lugo

Comune di Forlì

Comune di Cesena

ciclo di conferenze 2015 Otto incontri/confronti fra protagonisti esperti ed emergenti della progettazione contemporanea Alessandro Bucci Faenza

Tomas Ghisellini Ferrara

Iotti / Pavarani

Giovedì

Albergo Cappello RAVENNA Giovedì 19 MARZO

Oggetti d’Autore FORLÌ Giovedì

Reggio Emilia

23 APRILE

Edilpiù

Reggio Emilia

M2R

19 FEBBRAIO

LUGO Giovedì 21 MAGGIO Sala Conferenze

Autorità Portuale

Laprimastanza Montiano (FC)

Stefano Piraccini Cesena

Brenso Bologna

Tappi / Barbieri Cesena

RAVENNA Andrea Oliva Reggio Emilia

Giovedì 18 GIUGNO Azienda vitivinicola

Poderi dal Nespoli

Miro architetti Bologna

NESPOLI (FC) Antonio Ravalli Ferrara

Alessandra Chemollo Venezia

Marco Mulazzani Ferrara

Giovedì

17 SETTEMBRE

Magazzini del Sale CERVIA Giovedì 15 OTTOBRE Galleria Comunale

Palazzo del Capitano

Pulelli / Valbonesi Cesena

Ècru Parma

CESENA Giovedì

19 NOVEMBRE

Albergo Cappello RAVENNA

ore 20 Apertura, registrazione crediti formativi ore 20.30 Saluto azienda promotrice ore 20.45 Architetti emergenti ore 21.45 Architetti esperti ore 22.45 Spazio interventi e saluto conviviale

Sperandio / Pozzi Santarcangelo (RN) Info Reclam tel. 0544 408312 redazione@trovacasa.ra.it - www.reclam.ra.it

Comitato scientifico Gianluca Bonini, Stefania Bertozzi, Giovanni Mecozzi, Filippo Pambianco Organizzazione, promozione, documentazione Reclam edizioni e comunicazione srl – Casa Premium rivista dell’abitare


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Alessandra Chemollo Ècru architetti

l'architettura interpretata dall'occhio fotografico

l'ibridazione urbana e la metamorfosi di spazi e territori

Nuovo appuntamento per la serie di incontri- confronti del ciclo di otto conferenze "SeDici Architettura", in programma giovedì 15 ottobre (dalle ore 20) nella sala conferenze del Palazzo del Capitano (o del Ridotto) di Cesena. Gli architetti dello studio Ècru di Parma e l'esperta di fotografia Alessandra Chemollo di Venezia racconteranno la loro esperienza professionale e i loro progetti attraverso la visione di due differenti generazioni impegnate nel campo della ricerca architettonica contemporanea. La conferenza è promossa da questa rivista e dalla società editoriale Reclam, in collaborazione con Nuovostudio di Ravenna e Archibiotico di Forlì (che curano la parte scientifica degli incontri) e con il patrocinio – anche ai fini dei crediti formativi professionali – degli Ordini degli Architetti di Ravenna e di Forlì-Cesena.

Alessandra Chemollo è nata a Treviso nel 1963 e vive a Venezia. Si è laureata presso l'Università Iuav di Venezia nel 1995, con una tesi sulla relazione tra architettura e fotografia nel contemporaneo. La riflessione sulla rappresentazione dell'opera architettonica, e più largamente del paesaggio antropizzato, si sviluppa nel suo lavoro professionale e nei progetti autonomamente prodotti, senza soluzione di continuità. Nella sua ventennale esperienza professionale spazia dall’architettura storica a quella contemporanea e sviluppa ambiti teorici con finalità didattica. Ha esposto e pubblicato le sue fotografie in mostre e in riviste e pubblicazioni in Italia e all’estero. In una intervista pubblicata sul sito internet del suo studio così commenta il rapporto fra fotografia e architettura di cui è una dei massimi esperti in Italia: «La mia esperienza è cominciata con una buona palestra fotografica di architettura classica, collaborando con Manfredo Tafuri. Lavorando su opere di architettura contemporanea mi sembra più congruente far entrare nella rappresentazione il mondo in cui viviamo, che è il mondo in cui sono state progettate le opere che fotografo. Ogni architetto poi, sviluppa il suo pensiero attraverso le sue opere, e fotografare l’intera opera di un architetto è specialmente bello, è come entrare nella sua testa. Mi sento un po’ uno “Zelig” della fotografia, mi piace aderire e farmi prendere da quello che ho davanti, dall’altro da me. C’è una parte di lavoro che viene impostata a priori, sulla base di una lettura dell'opera che devo fotografare, certo, ma poi ci sono pensieri che corrono e che si mescolano magari con cose che abbiamo letto o visto ed ecco le immagini poi nascono un po’ così… Fotografare le opere avendo come committenti gli architetti stessi è un po’ più impegnativo, capita spesso che gli architetti siano come le mamme che portano i loro “bambini” al fotografo chiedendo che il fotografo li faccia sembrare molto più belli che in realtà. Preferisco incarichi esterni, per una casa editrice, ad esempio. In questo caso forzo sempre un po’ la lettura, mi prendo un po’ più spazio di quello che mi viene dato perché ho constatato che in fondo poi siamo tutti contenti di vedere il frutto di un pensiero, invece che un adeguamento a norme prestabilite».

Immagini di architetture firmate da Alessandra Chemollo

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SEDICI ARCHITETTURA 2015

In questa pagina, altri scatti di Alessandra Chemollo; Nella pagina a destra, alcuni progetti dello studio Ècru architetti

Ècru architetti è uno studio di progettazione architettonica e paesaggistica di Parma. Fondato nel 2012 da Simona Bertoletti, Filippo Cavalli, Antonello A. Sportillo e Giulio Viglioli. Dal 2015 è guidato dagli architetti Sportillo e Viglioli. Si è distinto in concorsi nazionali e internazionali. I componenti hanno al loro attivo diverse collaborazioni con affermati studi di progettazione italiani. Quello di Ècru architetti è il gusto del metodo. Un metodo che parte dalla teoria, ma che non interviene nella storia dell’architettura a partire da una posizione teoricamente delineata. Un metodo che oscillando tra arte e tecnica, tra verità e poesia, declinando accademismi, anteponendo la comprensibilità all’astrazione, vorrebbe rappresentare un approccio disciplinare possibile e concreto. Un modo di fare architettura coerente, severo ma umile verso le circostanze della vita, anomalo nel panorama contemporaneo ma che dà dignità e valore ad un’ipotesi. In occasione della conferenza presenteranno "Invena", un intervento che traccerà un itinerario lungo 7 progetti dello studio con l’obiettivo di interrogarsi sul tema dell’ibridazione urbana e delle logiche della metamorfosi di ogni spazio e territorio.


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Divano, l’oggetto rifugio del nostro conforto Semplice, flessibile, in sintonia col nostro abitare come MyWorld, Tufty Time e Standard di Sabina Ghinassi

Con le sue leggi della semplicità John Maeda, il graphic designer nippoamericano, allievo di Nicholas Negroponte e docente al Mit di Boston, ha spiegato, in modo assai zen, una strada praticabile per affrontare la complessità contemporanea. Il multitasking al quale siamo giornalmente sottoposti e le infinite, e spesso inutili, opportunità offerte dalle nuove tecnologie dovrebbero rendere più facile la nostra quotidianità ma, spesso, non fanno altro che complicarla, rendendola più dispersiva e disturbata. Esattamente come la cattiva ricezione del segnale del digitale terrestre (avete presente tutti quei quadratini sullo schermo?) Questo articolo inizia dalle leggi sulla semplicità perché è autunno e, dopo l’estate, si ritorna casa, si chiudono le finestre, si tira il bavero della giacca sul collo ancora abbronzato e ci si rifugia in casa, dopo il lavoro. Tutte cose molto semplici ed elementari che hanno a che fare con il nostro essere nel mondo, con le stagioni, con il nostro camminare dentro il paesaggio urbano. Si ha voglia

«Semplicità significa sottrarre l’ovvio e aggiungere il significativo» John Maeda, Le leggi della semplicità, Mondadori

Sopra: “My World”, progettato da Philippe Starck per Cassina.

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d’introspezione, di leggere un libro e di godersi la malinconia/felicità del momento, guardando, se possibile, il foliage fuori dalla finestra, come un gatto accucciato che fa le fusa sul divano. Per questo se si dovesse trovare un oggetto di arredo in grado di simboleggiare l’autunno sarebbe il divano, un divano grande, tanto comodo da assorbire tutto lo spleen possibile, insieme al desiderio di cura e conforto che ci avvolge in questo momento. Ma questo divano dovrebbe riuscire a suggerire anche una via di fuga dallo spleen stagionale, per esempio consentire di lavorare da casa o accogliere nel nostro spazio le persone importanti della nostra vita. Dovrebbe essere un divano in grado di contenere tutto il nostro mondo senza difficoltà. My World, progettato da Philippe Starck per Cassina, è esattamente questo: qualcosa che può essere un divano e, nello stesso tempo, un sistema living. “Viviamo in una società schizofrenica. Prendiamone atto. My World è un bozzolo, un nido, un mondo in cui possiamo essere egocentrici e stare comodamente insieme alla nostra ombra o raccogliere frammenti di notizie dal mondo, che si dice sia reale”, racconta il designer a proposito del suo progetto. My World, infatti, può essere arricchito da diversi complementi: i tavoli, sia laterali sia free-standing, i contenitori-box, i paraventi che definiscono l’area intorno al divano. All’interno del contenitore-box il sistema living ha una stazione elettrica di caricamento, un caricatore USB e una soluzione di caricamento wireless Duracell Powermat® per restare, se si sceglie, sempre connessi. Nello stesso tempo, le sedute grandi e morbide ti fanno sentire protetto, dentro uno spazio non rigido, ma incredibilmente flessibile. È un divano piacevolmente umorale, che entra in sintonia con chi lo possiede. Sempre di sintonia e di flessibilità parla un altro divano che, proprio quest’anno, ha compiuto dieci anni: Tufty Time di Patricia Ur-

quiola per B&B Italia, riedito quest’anno in una nuova versione. Nato come rivisitazione delle tipologie Capitonné e Chesterfield alla luce delle riletture degli anni ’60 e ’70, molto amate dalla designer spagnola, Tufty Time parte dalla semplicità del modulo quadrato del pouf, intorno al quale si possono muovere, seguendo una disposizione libera e informale, elementi centrali, angolari e terminali, con braccioli alti e bassi. Anche in questo caso il divano può essere luogo di conversazione, intrattenimento, relax, sonno. Ancora più informale e “ cocoon” è Standard di Francesco Binfaré per Edra. Il punto di forza di Standard, elegante e allo stesso tempo apparentemente semplice, è il cuscino, con schienali/ braccioli trasformabili e regolabili a piacimento. Questo consente una vasta gamma d’interpretazioni, ricercata attraverso più di un ventennio d’indagine tipologica e tecnologica, dalle prime configurazioni variabili allo studio dei materiali e delle possibilità di variare l’assetto e la seduta attraverso movimenti semplici ed elementari. Designer anticonformista ( è anche insegnante di Biodanza), Binfarè è il maestro della libertà, una libertà studiata nei minimi dettagli che trasforma il divano in un abbraccio morbido o nel palcoscenico della più assoluta informalità o formalità, adattandosi plasticamente ai desideri di chi lo usa. Si tratta di un designer- filosofo che, attraverso la progettazione, s’interroga sul Comportamento, sullo Spazio, sulla Comunicazione, ambiti che più di altri incidono sulla nostra relazione costruttiva con il mondo.

Sopra: “Tufty Time” in alcune delle possibili composizioni. A sinistra in alto: “Standard” di Francesco Binfaré per Edra A sinistra in basso: “Tufty Time” di Patricia Urquiola per B&B Italia

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La chiusa di San Marco (Ravenna)


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Con passo leggero

sull’acqua di Marina Mannucci

gramma d’azione nel quale sono stati rilevati alcuni temi prioritari: - combattere l’inquinamento; - promuovere il razionale uso dell’acqua; - combattere le deficienze idriche persistenti; Il carattere «insostituibile» dell’acqua significa che l’insieme di una - prevenire e gestire le situazioni di crisi. comunità umana, ed ogni suo membro, deve avere il diritto di acL’Ispra, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, cesso all’acqua, e in particolare, all’acqua potabile, nella quantità ha recentemente reso disponibile il rapporto sul dissesto idroe qualità necessarie indispensabili alla vita e alle attività econogeologico in Italia nel 2014. Relativamente alle aree a pericolosità miche. La Dichiarazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, idraulica, i dati indicano che circa il 4% del territorio nazionale si del 2000, stabiliva, tra gli obiettivi, quello di dimezzare entro il trova nelle condizioni di pericolo2015 la percentuale di popolazione sità elevata (P3: alluvioni fremondiale che non ha accesso a quenti), l’8,1% in quelle di pericoun’acqua veramente potabile e ai losità media (P2: alluvioni poco servizi sanitari di base come la rete frequenti), mentre le aree a pericofognaria. Quando si parla di acqua, losità bassa (P1: scarsa probabilità vi sono però profonde divergenze di alluvioni o scenari di eventi sulle strategie da adottare. Oltre estremi) sono circa il 10,4% del teralla questione della privatizzaritorio nazionale. In Emilia-Romazione, e alla nascita delle grandi gna, la popolazione esposta a perimultinazionali dell’acqua, i pareri colosità media è di 2.759.962 divergono anche sull’utilità delle abitanti (dato riferito alla popolagrandi dighe per governare il corso zione residente al 2011). dei fiumi e creare riserve da usare Si è inoltre verificato un notevole anche a fini energetici; come pure degrado degli ambienti rurali, in sui modi migliori per amministrare particolare nelle zone di collina e di l’acqua per l’irrigazione. L’innovabassa montagna, con frequente abzione tecnologica sta fornendo bandono dell’attività agricola e nuove soluzioni. A mio avviso, l’acdelle connesse sistemazioni idrauqua non può che appartenere alliche con conseguente aumento l’economia dei beni comuni e della dell’erosione del suolo. Non vanno distribuzione della ricchezza e non inoltre dimenticati lo spopolamento all’economia privata. La politica della montagna, i disboscamenti e ambientale comunitaria ha prol’accumulo antropico sulle coste: dotto riguardo al tema dell’acqua elementi che incidono in un caso una vasta legislazione e indica la per la mancata presenza dell’uomo, realizzazione a breve di diversi nell’altro per l’eccessiva pressione obiettivi che si possono così rias> Sul ponte di Santa Trìnita, Firenze su risorse quali acqua e suolo. A sumere: tali fattori si è poi unita la variabilità - stabilire una politica integrata climatica con il conseguente regime della gestione delle risorse idriche; di piogge intense e concentrate - proteggere e migliorare la qualità degli ecosistemi acquatici; nello spazio e nel tempo. Luca Mercalli, metereologo e climato- promuovere un uso sostenibile dell’acqua basato su una gelogo, in un’intervista di Sabrina Mechella pubblicata sul sito Mestione a lungo termine; gachip Democrazia nella comunicazione, Globalist syndacation - garantire la disponibilità di una giusta quantità di acqua quando http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=79487, già nel 2013 affermava che «in Italia manca la conoscenza fondae dove è necessaria secondo criteri di solidarietà. mentale della geografia del Paese, che non si studia neanche più Importante passo sarà anche la realizzazione del Sesto Pro-

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CITTÀ E SOCIETÀ

COMUNITÀ ALLOGGIO PER ANZIANI A Villa Mimosa si vive in compagnia, in un ambiente bello e confortevole, fra il verde del parco, il buon cibo genuino e i nostri sorrisi accoglienti. Lo staff competente e motivato è al servizio degli ospiti 24h su 24.

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a scuola. Non ci sono le basi per capire cosa sia una frana, un’alluvione, quali sono i tipi di territorio più o meno favorevoli. Questo si sovrappone a una contro cultura che è quella del fatalismo: meglio appendere il cornetto o pregare il santo devoto piuttosto che occuparsi di studiare un opuscolo di protezione civile. Il terzo punto che coopera questa situazione è la frammentazione di utenti. Anche il cittadino più informato e volenteroso poi si scontra con il fatto di non sapere chi sia il suo partner pubblico che gli deve dare l’informazione. Mentre in molti Paesi europei, negli Stati Uniti o in Canada c’è un unico servizio di cui ci si fida e che dà le informazioni di protezione civile, qui c’è il Comune, la Provincia, la Regione e spesso ognuno di questi settori dice cose diverse, non le dice proprio o sono poco chiare. Il cittadino non sa mai cosa fare e come comportarsi.


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È chiaro che in questa situazione gli atti di miglioramento sono evidentemente molti. A cominciare dall’educazione nelle scuole, la produzione di informazione per la gente comune: penso a normalissimi opuscoli o anche a trasmissioni televisive che spieghino alla gente come comportarsi in caso di calamità naturale. Nessuno sa cosa fare in questi casi. Se io adesso andassi per strada e gridassi “C’è l’alluvione!” la gente sarebbe sorpresa chiedendosi cosa fare. Basterebbe un decalogo delle cose da fare in questi casi, anche molto banali tra l’altro, tipo non andare nei sottopassi con l’auto: nell’arco di dieci anni sono morte dieci persone in questo modo. Ci vuole dunque informazione in tutti i settori: scuole, televisione, giornali, la classica bacheca comunale, il corso di formazione nei piccoli centri: tutte cose fattibili». Luigi Zoja, intellettuale dalla formazione economica e psicanalitica

Vista dei fiumi uniti dalla chiusa di San Marco

junghiana, nel suo libro Utopie minimaliste. Un mondo più desiderabile anche senza eroi afferma che «L’uomo non deve smettere di pensare che la sua vita e il suo futuro siano nelle sue mani; non deve lasciarsi schiacciare dalla disperazione della sindrome T.I.N.A. (There Is No Alternative) propagandata da chi non ha a cuore il bene dell’umanità ma solo la preservazione dello status quo […] i deve fare i conti con se stesso, con quelle mentalità che costituiscono il maggior mistero del nostro secolo, quell’accumulo di insensibilità e crudeltà verso il mondo e se stessi che gli uomini, se non intenzionalmente programmano, certo tollerano […] il singolo dispera di poter incidere realmente sui fenomeni globali e confida illusoriamente nell’avvento di un “eroe” solitario, stereotipo la cui prassi fallimentare è tanto ben documentata dalle rivoluzioni storiche». Ed ancora l’autore precisa che se «da un lato

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è chiaro che anche il più piccolo dei comportamenti singoli può inserirsi in un movimento collettivo (o addirittura innescarlo) accrescendone la forza; dall’altro, questa forma di partecipazione anonima e invisibile richiede – da parte di chi la compie – una pazienza, un’umiltà e una fiducia che non sono tipiche delle personalità mediocri». Bene, partendo da questa lunga ma indispensabile premessa, è difficile informare-informarsi per spot. Sappiamo che la messa in sicurezza idrogeologica si attua attraverso: riduzione del rischio derivante dalle piogge intense; intervenendo per efficientare le aree utilizzate per agricoltura e attività forestali e agendo sulla gestione e regimazione delle acque. Si devono effettuare dunque opere per il drenaggio e la raccolta delle acque al fine di evitare alluvioni, realizzare canali scolmatori, adeguare le reti fognarie. In un’intervista rilasciata a Federica Angelini e pubblicata il 15 febbraio scorso sul settimanale “Ravenna&Dintorni”, Claudio Miccoli, dirigente della Regione per il Bacino della Romagna, stimava in 100 milioni il costo della messa in sicurezza del nostro territorio. In quell’occasione l’esperto di problemi idraulici sottolineava che, se pur i danni provocati dall’alluvione avvenuti la settimana precedente, fossero stati più contenuti rispetto a quello che successe nell’ottobre del 1996, nel territorio erano presenti situazioni di pericolo. «Istituzioni e mass media – spiegava – non vogliono parlare del rischio, mentre sarebbe bene non temere di impaurire la gente, dicendo la verità, per far capire quanto è necessario investire in sicurezza e quanto conviene, soprattutto in un bacino subsidente con molte zone al di sotto del livello del mare». Nel corso dell’intervista, Claudio Miccoli rilevava anche che tra i fiumi critici del nostro territorio c’è il Montone con un punto di fragilità alla chiusa di San Marco. Dal 1985 si procede per stralci per provvedere alla messa in sicurezza ma al momento «le arginature non permettono di stare tranquilli per la confermazione»: occorrerebbero altri 1520 milioni di euro. Se il dottor Claudio Miccoli attraverso l’intervista rilasciata in febbraio ha voluto far presente alla cittadinanza che il nostro territorio, da un punto di vista idrogeologico, è bisognoso di particolari cure e che l’approccio politico e amministrativo al problema è insufficiente per prevenire possibili eventi catastrofici prevedibilissimi, è bene prenderne atto e riflettere sul cosa fare. Riguardo al rischio idraulico della nostra regione anche il Comitato ambiente e paesaggio di Castel Bolognese ha ripetutamente evidenziato l’urgenza di rifare gli studi e rivedere i piani della regione per la messa in sicurezza. Dati statistici alla mano, il semplice buon senso indicherebbe come prima strada la necessità di non rincorrere l’emergenza, spendendo molto di più per tamponare i danni di quanto sarebbe servito per evitarli. Dal Piano A.N.B.I. per la Riduzione del Rischio Idrogeologico del febbraio 2015, ribattezzato report “Manutenzione Italia: Consorzi di bonifica in azione per #italiasicura”, si evince, infatti, che fra il 2010 e il 2012 il costo del dissesto idrogeologico è stato stimato in 7,5 miliardi di euro (in media 2,5 miliardi l’anno), mentre nei 65 anni precedenti era stato, in valore attuale, di 54 miliardi di euro (in media 0,83 miliardi l’anno). Nel 2008 il ministero dell’Ambiente calcolava che per mettere in sicurezza idrogeologica le zone a maggior rischio del territorio italiano sarebbero stati necessari almeno 40 miliardi di euro in 15 anni. In pratica con le somme spese in risarcimenti e riparazioni dei danni nelle sole località colpite si sarebbe potuta realizzare la difesa dell’intero territorio, abbattendo i costi futuri ed evitando le perdite umane. Ed ancora nel piano proposto per il 2015 dall’Associazione Nazionale


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Bonifiche e Irrigazioni (ANBI), ad una lista di interventi vengono affiancate una serie di raccomandazioni, tra cui limitare il consumo del suolo attraverso un’apposita norma e inserire la “invarianza idraulica” tra i presupposti della progettazione urbanistica. La prevenzione dei rischi è un tema chiave per azioni future anche in materia di politica comunitaria di coesione. In tale ambito rientrano i piani per l’attuazione della Direttiva Europea 2007/60: si tratta dei piani di gestione del rischio alluvioni a livello di distretto idrografico, che gli Stati membri erano tenuti a pubblicare entro il 22 giugno 2015. Per realizzare le proposte dell’ANBI, con la legge finanziaria 2010, si sarebbe dovuto iniziare a realizzare un programma di prevenzione finanziato da risorse, assegnate per il risanamento ambientale con delibera Cipe, pari a 1.000 milioni di euro. Tali risorse dovevano essere utilizzate attraverso accordi di programma tra ministero dell’Ambiente e Regioni, che contemplassero il cofinanziamento regionale, definendo la scala di priorità degli interventi. A suo tempo sono stati stipulati i succitati accordi di programma con l’individuazione degli specifici interventi e delle relative priorità, prevedendo un impegno complessivo di 2.097.771.266 di euro tra finanziamento statale e cofinanziamento regionale. Per ogni accordo è stato nominato un Commissario con il compito di provvedere alla realizzazione degli interventi previsti. A luglio 2014, risulta però essere stato speso meno del 4% di quanto previsto. Praticamente solo il necessario per mandare avanti i regimi di commissariamento.

La chiusa di San Marco

Nel giugno 2014 è stata istituita presso la Presidenza del Consiglio una “Struttura di missione contro il dissesto idrogeologico e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche”, avente il compito specifico di accelerare l’attuazione degli interventi di messa in sicurezza del territorio, di coordinare le azioni di tutte le strutture dello Stato e gli enti operanti nel settore, di supportare la nuova programmazione delle risorse per il ciclo 2014-2020. Per la stessa finalità il cosiddetto “decreto competitività” (decreto legge n. 91 del 2014) ha affidato la responsabilità della realizzazione degli interventi ai presidenti delle Regioni in qualità di “Commissari straordinari delegati”, attribuendo loro importanti poteri sostitutivi e di deroga. Un successivo decreto legge ha reso ordinaria l’attribuzione, ai presidenti di Regione, di funzioni per gli interventi di mitigazione del rischio idrogeologico avviando contemporaneamente un procedimento di ricognizione sullo stato di attuazione di tutti gli interventi finanziati anche in data antecedente al 2009 per procedere alla revoca delle risorse economiche non ancora utilizzate e destinarle ad interventi altrettanto urgenti, ma immediatamente cantierabili. L’obiettivo è stato quello di trasformare in cantieri oltre 2 miliardi di euro non spesi dal 1998 per ridurre situazioni di emergenza territoriale. Le Regioni, con le Autorità di bacino e la Protezione civile, hanno indicato la necessità di circa 5.200 opere per un fabbisogno di 19 miliardi di euro. Contemporaneamente la Struttura di missione ha raccolto, insieme al ministero dell’Ambiente, le proposte regionali per due piani: il Piano

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Pannelli informativi sul primo progetto della chiusa di San Marco di Gianantonio Zane, realizzata tra il 1733 e il 1739, con un’incisione della stessa tratta da Filippo Diego Bellardi, “Ragguaglio istorico della diversione dei duo [sic] fiumi il Ronco e il Montone della città di Ravenna”, Bologna, C. M. Sassi, 1741.

nazionale per la difesa del suolo 2014-2020 (risorse tra i 7 ed i 9 miliardi di euro) e il Piano stralcio destinato alle aree metropolitane. Se qualcosa si sta muovendo almeno per quanto riguarda i miliardi già stanziati e mai spesi è evidente che un piano organico e concreto non si esaurisce con la conclusione degli interventi già previsti, ma solo se viene pensato come spesa strutturale per l’intero Paese. Il rischio di dissesto idrogeologico in tutta l’Emilia Romagna è peggiorato notevolmente, aumentando complessivamente di circa il 10% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Le opere da realizzare riguardano le manutenzioni “straordinarie” di bonifica, sistemazioni idrauliche, adeguamento e potenziamento delle opere di scolo delle acque, laminazione delle piene, realizzazione delle casse di espansione (fondamentali per la sicurezza anche dei centri urbani), consolidamento frane e ripristino dei versanti montani, realizzazione di briglie di contenimento del terreno. Tra le proposte di Legambiente riguardo al dissesto idrogeologico leggiamo la necessità di - delocalizzare i beni esposti a frane e alluvioni, se legali; - adeguare lo sviluppo territoriale alle mappe del rischio presente sul territorio; - ridare spazio alla natura. Restituire al territorio lo spazio necessario per i corsi d’acqua, le aree per permettere un’esondazione diffusa ma controllata, creare e rispettare le “fasce di pertinenza fluviale”, adottando come principale strumento di difesa il corretto uso del suolo; - sorvegliare in modo speciale torrenti e fiumare; - attuare una manutenzione ordinaria del territorio che non sia sinonimo di artificializzazione e squilibrio delle dinamiche naturali dei versanti o dei corsi d’acqua; - prevenzione degli incendi. In molti casi il disboscamento dei versanti causato dagli incendi può aggravare maggiormente il rischio di frana di un versante, oltre che avere un notevole impatto ambientale; - applicare una politica attiva di “convivenza con il rischio” con sistemi di allerta, previsione delle piene e piani di protezione civile aggiornati, testati e conosciuti dalla popolazione; - rafforzare le attività di controllo e monitoraggio del territorio per contrastare illegalità come le captazioni abusive di acqua, l’estrazione illegale di inerti e l’abusivismo edilizio; - gestire le piogge in città.

«Gli aborigeni si muovevano sulla terra con passo leggero; meno prendevano dalla terra meno dovevano restituirle» Bruce Chatwin, Le vie dei canti [The Songlines], Milano, Adelphi, 1987

Le foto del servizio sono di Alberto Giorgio Cassani


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Riqualificazione dei capanni Un grande progetto di valorizzazione del territorio e del paesaggio marino e vallivo di Marco Turchetti * Il dibattito sui capanni ormai da tempo immemore tiene banco sulla stampa locale, ormai quasi quotidianamente si trovano interviste, articoli, scontri e confronti su questo tema per i ravennati così importante. In effetti la loro grande diffusione, la passione e la tenacia nel difenderli dei ravennati dimostrano che i capanni sono una parte integrante della tradizione ed una espressione della cultura locale a cui non si può e non si deve rinunciare. Il capanno da pesca è stato nel tempo la risposta della gente di valle e di mare ad una necessità naturale di ripararsi, di avere un luogo deputato alla protezione ed allo sviluppo delle attività che consentono di vivere: la pesca e la caccia, prima ancora della raccolta e dell’allevamento. A fronte di una necessità così ancestrale, risulta impossibile determinare quando siano natie come si siano evoluti i primi capanni nella zona.

Così, è forse il loro “esistere da sempre” il loro far parte del paesaggio che li ha finora resi trasparenti agli occhi degli studiosi. Negli ultimi tempi ci si è tuttavia resi conto che i capanni sono una forma storica di fondamentale importanza per il territorio delle zone umide e dei litorali della Romagna. Se ci soffermiamo sulla lenta evoluzione ed i diversi stadi di sviluppo dei capanni da pesca nelle nostre zone, ci si rende conto che, dietro a queste strutture, si nasconde la traccia vivente delle origini della civiltà del nostro territorio e la storia dell’evoluzione delle forme abitative nelle zone costiere, fluviali e di valle. L’evoluzione dei capanni, è anche l’espressione dell’indole delle genti di questi luoghi, dei conflitti sociali ed economici che ne hanno caratterizzato i tempi: la contrapposizione tra i possidenti terrieri e gli abitanti del territorio che reclamano gli usi civici, braccianti e pescatori, rivoluzionari e reazionari, uomini di destra e di sinistra, ambientalisti e ricreativi. L’evoluzione dei capanni da pesca è anche legata indissolubilmente

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ABITARE L’HABITAT

Il padellone sembra aver superato la fase di oblio e di incertezza, le strutture si stanno riqualificando sotto la spinta della regolamentazione. I capanni si accingono a diventare sempre di più un luogo di svago, di escursione e di socialità

alla cultura e alla tradizione dell’uso dei prodotti locali ed in particolare dei prodotti della valle, che sviluppò nelle popolazioni abilità e capacità di costruire rifugi con canne, giunchi ed altre erbe palustri. L’uso di queste erbe nel territorio di valle, documentato anche nel Museo della Civiltà Palustre di Villanova di Bagnacavallo, e l’esistenza dei “capannari”, abili artigiani dediti a confezionare strutture in canna per la costruzione di ripari e capanni, testimoniano una tradizione che, pur ridimensionatasi con il decremento dei canneti a seguito delle bonifiche, è stata viva fino all’ultimo dopoguerra ma che si è persa quasi del tutto con l’avvento delle nuove tecnologie e l’utilizzo di materiali differenti. L’attività principale svolta nel capanno, ovvero la pesca si prestava ad attività svolte anche da una singola persona non troppo esperta e in maniera non regolare. Si può dire che la pesca con il bilancione fosse quindi integrativa di altre attività economiche, in quanto tecnica non particolarmente produttiva. A partire dagli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, il capanno da pesca è diventato sempre più un luogo di svago, piuttosto che di necessità, seguendo l’evoluzione degli usi e dello stile di vita del Novecento in piena crescita economica, con un periodo di particolare fioritura negli anni Settanta. Proprio verso la fine degli anni Settanta l’attenzione si è spostata sull’impatto ambientale di questi manufatti sulla fauna ittica, sull’ecosistema e sulla gestione idraulica degli invasi. In un sistema basato su un forte senso di libertà, di individualismo e

di autoregolamentazione sociale e su un’anarchia costruttiva legata alla spontaneità creativa dei capannisti ed al riciclo dei materiali, i cambiamenti e le restrizioni imposte sono stati vissuti con vivaci contrapposizioni che però hanno aiutato e aiuteranno a trasformare questi luoghi in ambienti sempre più confortevoli ed in armonia con l’ecosistema circostante, aperti alle famiglie dei paesi vicini ma anche a quelle di città più lontane. Osservando la situazione attuale, l’ottimismo sembra essere all’orizzonte. I capanni da pesca offrono soprattutto un’occasione di svago alle persone. Le generazioni comunque si avvicendano: i giovani di ieri che accompagnavano i padri e gli zii sono i capannisti di oggi. Questi luoghi vengono frequentati per immergersi nella natura da soli o in compagnia, lontani dallo stress e dalle convenzioni della vita cittadina. Il padellone sembra aver superato la fase di oblio e di incertezza, le strutture si stanno riqualificando sotto la spinta della regolamentazione. I capanni si accingono a diventare sempre di più un luogo di svago, di escursione e di socialità. Il capanno da pesca rimane pur sempre, come alle sue origini, un rifugio ma non più per ripararsi dalle intemperie o per sottrarsi alle persecuzioni o per nascondersi entrando in clandestinità; ora prevale il desiderio di passare alcune ore nella natura, in semplicità, respirando la tradizione della cultura locale ed ancestrale. Dalla determinazione di alcuni capannisti nel continuare a costruire manualmente ogni anno inverosimili edifici temporanei con le reti sospese sull’acqua, a dispetto della forza della natura che continua a danneggiarli e dei vari Enti preposti che continuano a pretendere rispetto delle regole, si capisce che il fenomeno costituito dai capanni da pesca è destinato a rimanere ancorato nella nostra cultura, anche se deve giustamente essere definitivamente regolamentato per garantire il rispetto dell’ambiente civile e naturale, visto che per gli stessi capannisti questo è uno dei valori più importanti. Il capanno del futuro, non solo è stato riconosciuto come simbolo iconografico del paesaggio costiero e lagunare del nostro territorio, ma è anche entrato a far parte di studi architettonici poiché ha costituito uno stimolo per la creazione di luoghi del transitorio e del temporaneo, nuovi ed antichi allo stesso tempo. Le opportunità che si prefigurano per questi luoghi sono molteplici


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Si è partiti da semplici capanne in canna palustre, poi si è passati a strutture in legno e falasco. Nel dopoguerra si sono diffuse le strutture miste, i prefabbricati in metallo e cemento ed infine sono state costruite strutture completamente in muratura. Negli ultimi anni vi è stato finalmente un ritorno ai materiali di origine naturale

ma due linee principali di sviluppo sembrano chiaramente emergere: la valorizzazione della vocazione turistica, ricreativa ed escursionistica dei capanni da pesca e l’integrazione del capannista nei processi di monitoraggio dell’ecosistema acquatico e fluviale a supporto di una gestione sostenibile delle aree umide del territorio. Si è partiti da semplici capanne in canna palustre, poi si è passati a strutture in legno e falasco che sono state costruite fino alla prima metà del secolo scorso. Nel dopoguerra si sono diffuse le strutture miste, i prefabbricati in metallo e cemento ed infine sono state costruite strutture completamente in muratura. Negli ultimi dieci anni vi è stato finalmente un ritorno ai materiali di origine naturale, espressione dell’attenzione agli aspetti di sostenibilità e di minimizzazione dell’impatto sull’ambiente e sul paesaggio. Le strutture più recenti sono, infatti, generalmente di legno. Bisogna fare attenzione che l’imposizione di tipologie o abachi di materiali troppo rigidi non comporti una perdita di originalità, in modo che rimanga alta l’attenzione dei proprietari che continuano a personalizzarle e ad arricchirle. Questa evoluzione, viva e visibile a cielo aperto, costituisce una sorta di percorso museale della tradizione abitativa delle nostre zone umide, un potenziale eco-museo che ora si affaccia al terzo millennio raccogliendone le sfide e assecondandone le tendenze. Difficile sarebbe immaginare il nostro paesaggio, dei fiumi, delle valli

e finanche dei moli senza la presenza dei capanni (padelloni), quasi impossibile sarebbe pensare e immaginare che questi ambienti sarebbero più belli senza di loro, come pensare che Ravenna fosse più bella senza il Candiano. L’ambiente, specialmente quello d’acqua è così perché oltre duemila anni di profonda antropizzazione lo hanno plasmato e, se è vero che ha un valore, dobbiamo trovare il modo di mantenerlo non curandone solo la tutela ma al contrario continuando a coltivarlo come fosse l’orto di casa. Il nuovo regolamento dei Capanni elaborato ed attuato recentemente dal Comune di Ravenna, rappresenta una grandissima opportunità per tutti, in particolare per i capannisti che hanno finalmente la possibilità e l’occasione da non perdere per rendere la presenza dei capanni non un elemento tollerato ma non accettato, ma finalmente di veder riconosciuto il proprio diritto di esistere e la propria utilità economica sociale e ambientale. Sono personalmente convinto che fra qualche anno, quando la riqualificazione delle strutture sarà ben avviata e saranno visibili i risultati ottenuti, i capannisti saranno i primi ad essere orgogliosi dei risultati ottenuti e della qualità dell’ambiente e del paesaggio che ne deriverà. È assolutamente necessario compiere il salto culturale che viene richiesto per l’applicazione del programma di riqualificazione dei capanni avviato dal nuovo “regolamento Comunale”, poiché tutto ciò sarà in grado di innescare un processo virtuoso in cui la bellezza, la tradizione e la storia delle nostre valli diventi finalmente un bene comune a beneficio di tutti. * [Progettare Sostenibile - Ravenna] info@progettaresostenibile.com

Galleria di immagini di varie tipologie di capanni, che nel ravennate caratterizzano le piallasse Piomboni e Baiona, altre aree e vene lagunari, la parte terminale e la foce dei fiumi e le dighe foranee a mare

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In ripresa le compravendite nel settore turistico I dati e i commenti sugli scambi e il valore seconde case nelle località di villeggiatura del territorio regionale e della riviera ravennate secondo l’Osservatorio di Fimaa e i numeri registrati da Fiaip di Roberta Bezzi Dopo anni di segno negativo, finalmente il mercato immobiliare turistico torna a sorridere. Se nel 2011/2012 il crollo delle compravendite aveva toccato nei lidi ravennati il 29,7 per cento, attestandosi a un più lieve –6,1 per cento nell’anno successivo, l’inversione di tendenza è stata registrata per la prima volta nel 2013/2014 con un bell’aumento del 2 per cento. Inevitabile dunque che ci si aspetti segnali ancora più rassicuranti per il prossimo futuro. Questo è quanto emerge dall’Osservatorio Nazionale Immobiliare Turistico 2015, realizzato dal Sindacato provinciale Fimaa Ravenna e da Confcommercio. I dati riportati corrispondono nel complesso a quelli registrati, nei periodi in esame, anche dal Sindacato provinciale Fiaip. Guardando al “peso” delle singole località, Milano Marittima resta la reginetta dei lidi ravennati per il 2015, con prezzi sui 6.700 euro al metro quadrato, che valgono il 19° posto nella graduatoria delle 280 cittadine turistiche italiane, lo stesso dello scorso anno. A seguire Cervia, che con i suoi 4.200 euro al mq si classifica al 77° posto, perdendo una sola posizione rispetto al 2014. Balzo in avanti invece per Marina di Ravenna (3.300 al mq)

Esperti del settore immobiliare, rappresentanti del sindacato Fimaa e dell’amministrazione comunale, in occasione della presentazione in municipio a Ravenna del report 2015 del mercato turistico nazionale e locale


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che guadagna ben quattro posizioni, piazzandosi al 121° posto. Stabile Lido di Savio (3.100 al mq), al 142°, mentre scalano una posizione Marina Romea (2.900 al mq), Punta Marina (2.900 al mq), Casalborsetti (2.300 al mq) e Porto Corsini (2.300 euro al mq), che si posizionano rispettivamente al 154°, 155°, 200° e 201° posto. Chiudono la classifica, Lido di Classe (2.200 al mq) che perde una posizione ed è al 218° posto, Lido Adriano (2.100 al mq), stabile al 223° posto e Lido di Dante (2.100 al mq), che avanza di ben sette posti e si porta a 226. «Il mercato delle seconde case – afferma Fabrizio Savorani, esperto del settore immobiliare turistico Fimaa – stenta a riprendersi, ma se pensiamo che rispetto ai valori massimi del 2008, anno che ha segnato l’inizio della crisi, ha perso il 35-40 per cento, c’è di che ben sperare. Le condizioni per una ripresa ci sono tutte: dal basso costo del denaro per accedere ai mutui al miglioramento generale dell’economia che infonde fiducia. A pesare sono, invece, a livello locale le carenze infrastrutturali per raggiungere la costa ravennate, e a livello nazionale, la crescente incidenza del carico fiscale». Il leggero aumento delle compravendite non si è però tradotto, almeno per il momento, in una ripresa dei prezzi delle case al mare che invece continuano a calare. Stando ai dati Nomisma e Fimaa-Confcommercio, nel 2015 i prezzi medi degli appartamenti sono calati un po’ ovunque rispetto allo scorso anno. Per esempio, a Milano Marittima, del 2,7 per cento per le nuove costruzioni, del 5,8 per cento per le abitazioni usate in centro e del 5,6 per quelle usate ma in posizione periferica. Calo più vistoso a Cervia dove il Top Nuovo si è deprezzato persino del 4,1 per cento, mentre il centrale usato e il periferico

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di Dante, il nuovo regge (calo medio solo del 2,7 per cento), stabile l’usato in posizione centrale, crollo dell’usato periferico (–8 per cento medio). Al contrario, a Lido di Savio, va meglio l’usato periferico (–3,4 per cento), rispetto al nuovo (–5,3 per cento) e all’usato centrale (–4,9). La stessa situazione, si registra a Porto Corsini, dove l’usato periferico è rimasto stabile, a fronte di un calo del 4,9 per cento del nuovo e del 6,7 (con punte del 9,1) per cento nell’usato centrale. A Marina Romea, ad andare peggio è l’usato centrale (–5,7 per cento medio), a fronte di un – 3,8 del nuovo e dell’usato periferico.

rispettivamente del 3,8 e 5,3. A Marina di Ravenna i prezzi del nuovo sono calati solo del 3,3 per cento, mentre quelli del centrale usato fino al 4,1; impennata per il periferico usato, –6,7 per cento, con punte persino del –9,1 per cento. Diversa ancora la situazione a Casalborsetti, dove – al contrario – i prezzi del nuovo sono calati del 4,7 per cento, mentre stabili sono quelli dell’usato sia centrale che periferico. A Lido Adriano, invece, i prezzi sono diminuiti tutti più o meno in egual misura, dal –5 per cento medio del nuovo al –6,5 per cento dell’usato centrale e periferico. A Lido di Classe le nuove costruzioni sono state meno deprezzate (–2,5 per cento medio), a fronte di un calo piuttosto vistoso dell’usato periferico (- 6,9 per cento medio, con punte di –8,3) e dell’usato centrale (– 3,2 per cento medio, con picchi fino a –7,1). Stessa cosa a Punta Marina, dove il nuovo è diminuito in media del 3,9 per cento, mentre l’usato centrale del 5,3 e quello periferico del 6,9. A Lido

«Rispetto al mercato residenziale – afferma Alex Dosi, delegato Fiaip al Settore turistico –, quello turistico ha risentito meno, inizialmente, della crisi per diversi fattori: perché il ricorso al finanziamento per l’acquisto di una seconda casa è molto basso, se non addirittura nullo in alcuni casi, ma anche in quanto il bacino di utenza è molto più ampio, potendo contare su acquirenti di altre province, regioni e Stati. Senza dimenticare che gli immobili comprati come forma di investimento e destinati alle locazioni, potevano contare su forme più semplici e meno rischiose di locazione rispetto a quelle canoniche residenziali. Poi chiaramente, con il perdurare della crisi, il mercato turistico ha conosciuto l’altra faccia della medaglia. Oggi si può essere cautamente ottimisti, in quanto l’abbassamento dei prezzi ha comunque stimolato nuovamente la ricerca di appartamenti nelle zone turistiche e, al giusto prezzo, la casa è ancora considerata un bene su cui investire». Per quanto riguarda le locazioni, l’andamento è stato abbastanza stabile e il mercato del mare ha tenuto anche nelle annate più difficili sotto il profilo meteorologico. «Quest’anno – aggiunge Dosi – è stato più debole il mese di luglio, complice probabilmente il fatto che prima era il mese “della vacanza vicino a casa, poi ad agosto si parte”, mentre oggi si è probabilmente preferito o dovuto fare un’unica scelta, preferendo alla fine il mese di agosto».

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