n. 104 MARZO 2016
Editore Reclam Edizioni & Comunicazione srl . viale della Lirica 43 . 48124 Ravenna . Iscrizione al Tribunale di Ravenna n. 1240 del 8/11/2004 . Redazione 0544.271068 . redazione@trovacasa.ra.it . Pubblicità 0544.408312 . info@trovacasa.ra.it . ISSN 2499-2550
CASA PREMIUM .
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n.104 MARZO 2016
BELLA CASA • CASA E STORIA • ARCHEOLOGIA E QUARTIERI • CITTÀ E LIFESTYLE • DESIGN CONTEMPORANEA • ARTE • ABITARE L’HABITAT
ARCHITETTURA, ARREDAMENTO
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ORDINE ARCHITETTI RAVENNA
Con la collaborazione di Con il patrocinio di
Comune di Ravenna
Comune di Faenza
Comune di Cervia
Comune di Forlì
Comune di Cesena
ciclo di conferenze 2016 Otto incontri/confronti fra protagonisti esperti ed emergenti della progettazione contemporanea con tavola rotonda Andrea Dal Fiume Imola
Giovedì 17 MARZO Salone Nobile
Palazzo Rasponi RAVENNA
Mauro Crepaldi
Giovedì 21 APRILE Show Room
Copparo (FE)
Oggetti d’Autore FORLÌ
Rossi&Tarabella
Giovedì 19 MAGGIO Show Room
Milano
Studio T RAVENNA
Zamboni e Associati Reggio Emilia
De Gayardon Bureau Cesena
Francesco Di Gregorio Parma
Ciclostile Architettura Bologna
Giovedì 16 GIUGNO Padiglione delle Feste
Cavejastudio
Terme di Castrocaro
Forlì
CASTROCARO (FO)
Nicola Marzot
Giovedì 14 LUGLIO Cantina
Alvise Raimondi
Bologna
La Pandolfa
Cesena
PREDAPPIO (FO)
Diverserighestudio
Giovedì 15 SETTEMBRE Sala Conferenze
Bologna
Magazzini del Sale CERVIA (RA)
Alberto Giorgio Cassani Ravenna
Massimo Iosa Ghini Bologna
InOut Architettura Ferrara
Giovedì 13 OTTOBRE Ridotto
Mide Architetti
Teatro Bonci
Venezia
CESENA Giovedì 17 NOVEMBRE Sala Conferenze
Pinacoteca Comunale FAENZA
ore 20 Apertura, registrazione crediti formativi ore 20.30 Spazio imprese ore 20.40 Architetti emergenti ore 21.20 Architetti esperti ore 22.15 Tavola rotonda ore 23 Brindisi e saluto conviviale
ETB Tessari/Bandiera Treviso Info Reclam tel. 0544 408312 redazione@trovacasa.ra.it - www.reclam.ra.it
Comitato scientifico Gianluca Bonini, Giovanni Mecozzi, Filippo Pambianco Organizzazione, promozione, documentazione Reclam edizioni e comunicazione srl – Casa Premium rivista dell’abitare
Via Faentina 218s - Fornace Zarattini Ravenna tel. 0544 463621 - www.ravennainterni.com marzo 2016
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poltrone e divano “Obi”, tavolini “Colorado”
contenuti 04 16 28 36 52 60 64 68 74
Rigenerazione urbana per un maxiedificio nel quartiere Borgo di Faenza _____________________________________________________ di Paolo Bolzani
casa bella casa
archeologia e storia
città e quartieri
grand tour
Fra le dune dell’Adriatico quando nacque la potenza navale della Classis Ravennatis ______________________________________________ di Pietro Barberini
Scomparse le vie d’acque, echi di storie e nuove prospettive fra via Mazzini e il borgo San Rocco ______________________________________________________ di Chiara Bissi
Il signor Dido e la città “abbottonata”. Sentimento di Ravenna di Alberto Savinio (1951) ______________________________________________________________ di Alberto Giorgio Cassani
grafica e fumetti
Quando l’Architettura resiste agli sfregi e alle iniquità della Storia ____________________________________________________ di Domenico Mollura
arte contemporanea
design e lifestyle
città e società
Sia fatta la luce: ricognizione fra gli artisti del minimalismo elettrico ________________________________________________ di Serena Simoni
Lightin design, filosofie luminose fra bello e benessere _____________________________________________________ di Sabina Ghinassi
Riforma costituzionale: principi democratici messi fra parentesi? ______________________________________________________________ di Marina Mannucci
abitare l’habitat
Costruire sul costruito e la capacità della società di innovare sulle fondamenta ___________________________________________________________ di Marco Turchetti
offerte immobiliari
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Idea Casa 14 . Gecos 15 . Studio Effe 23 . Gesticasa . Gabetti 24 . Futura 25 . Happy Home . Scor 26 . Romagna 27 . San Rocco 33 . Case d’Autore . Mondo Casa 42 . Assocase . Mazzini 43 . Edilmax 77 .
fotografie marzo 2016
VERDE BIO CP 2016:Layout 1 15/03/16 21:09 Pagina 1
A due passi dal Teatro Alighieri
CUCINA BIOLOGICA TOSCO-ROMAGNOLA, VEGANA, VEGETARIANA
Un ristorante davvero unico, perchè propone le specialità della cucina toscana e romagnola, insieme ad una accurata selezione di piatti della cucina vegana e vegetariana. Tutto rigorosamente bio. Un connubio così perfetto, che mette d’accordo tutti (in famiglia), può nascere solo dalla condivisione e passione per il proprio lavoro della gentilissima Marina e del toscanaccio Franco. Anche il luogo è originale, una terrazza unica nel cuore della città, al primo piano dell’edificio dell’orologio di piazza del Popolo. È sufficiente salire qualche scalino per assaporare una cucina semplice e mai banale, porzioni abbondanti, senza esagerare, e ingredienti di qualità provenienti da agricoltura biologica. Gustate un ottimo pranzo o cena tutti i giorni all’insegna della genuinità, della tradizione e della cordialità.
Piazza Einaudi, 1 - 1° piano - Ravenna - Tel. 334 3339725 dietro Piazza del Popolo, Palazzo dell’Orologio
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edizione di Ravenna
Controcopertina
Nel corpo degradato di un maxiedificio in via Fornarina, nel quartiere "Borgo" di Faenza, si è applicato recentemente un intervento paradigmatico di recupero edilizio, termine che in questa disagevole congiuntura storico-temporale che ci tocca vivere viene da qualche tempo sostituito dalla fascinosa locuzione di “rigenerazione urbana”.
Autorizzazione Tribunale di Ravenna n. 1240 del 8 novembre 2004 Direttore responsabile: Fausto Piazza Consulenza redazionale: Paolo Bolzani Collaborano alla redazione: Pietro Barberini, Roberta Bezzi, Chiara Bissi, Alberto Giorgio Cassani, Serena Garzanti (segreteria), Maria Cristina Giovannini (grafica), Sabina Ghinassi, Marina Mannucci, Domenico Mollura, Cetty Muscolino, Guido Sani, Serena Simoni, Marco Turchetti. Progetto grafico: Quadrastudio - www.quadrastudio.info Restyling grafico: Gianluca Achilli Referenze fotografiche: Alberto Giorgio Cassani, Pietro Barberini, Paolo Genovesi, Barbara Gnisci, Maurizio Montanari, Fabrizio Zani (e altre citazioni in pagina). Redazione: tel. 0544.271068 - redazione@trovacasa.ra.it
Editore:
Edizioni e Comunicazione srl
viale della Lirica 43 - 48124 Ravenna - tel. 0544.408312 info@reclam.ra.it - www.reclam.ra.it Direttore generale: Claudia Cuppi Stampa: Grafiche Baroncini - Imola - www.grafichebaroncini.it
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CASA BELLA CASA
Sopra: l’edificio-quartiere ECA a fine lavori nel 1978. Sotto: la vista del fronte principale dell'edificio dopo l'intervento.
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Rigenerazione urbana per un maxiedificio a Faenza Pratiche di recupero edilizio residenziale pubblico nella “Casbah” di via Fornarina di Paolo Bolzani
Premessa Mi scuso preventivamente se nel testo seguente verranno utilizzate numerose sigle abbreviate, ma in urbanistica appaiono un dato ineluttabile; ho perciò scelto di sciogliere l’acronimo volta per volta. Periferia orientale di Faenza: “Peep (piano per l’edilizia economica popolare) San Giorgio”, Erp (edilizia residenziale pubblica) quartiere “Borgo”, via Fornarina. Nel progettato trittico d’inizio d’anno sulla città dell’Astorre manfrediano, dopo l’eccellenza di Castel Raniero oggi segnaliamo quello che appare un caso paradigmatico di recupero
Il nostro sguardo oggi si posa sul complesso Eca (Ente Comunale di Assistenza), inaugurato nel 1978 su progetto dell’architetto Salvatore Romano a Faenza in via Fornarina. È declinato secondo un linguaggio che dichiara immediatamente la propria adesione stilistica al Moderno. Vale a dire a quel movimento architettonico, sorto ormai più di un secolo fa, che si basa formalmente su una serie di precetti vergati da Le Corbusier. Primi fra tutti la pulizia formale delle facciate e il tetto piano
edilizio, termine che in questa disagevole congiuntura storico-temporale che ci tocca vivere viene da qualche tempo sostituito dalla fascinosa locuzione di “rigenerazione urbana”. Come si legge in Premessa al documento redatto dal “Consiglio Nazionale degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori” (Cnappc) italiani, dal titolo “Il Piano Nazionale per la rigenerazione urbana e sostenibile”, «il tema della rigenerazione urbana sostenibile, a causa dell’esaurimento delle risorse energetiche e delle pessime condizioni del patrimonio edilizio costruito nel dopoguerra è, per gli architetti italiani, la questione prioritaria nelle politiche di sviluppo dei prossimi anni». Il tema va quindi inquadrato come una strategia innovativa (forse l’unica) per
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CASA BELLA CASA
Questo «edificio-quartiere» di alloggi sviluppati su oltre 14.500 metri cubi e posto su un’area di 4.300 metri quadri - forse anche a causa della frammentazione programmata dei fronti soggetti ad una semplificazione “cubizzata” dall’aura vagamente “mediterranea”, benché fosse sorto come un esempio residenziale pubblico sotto la stella dell’innovazione tipologica - era vissuto e percepito in maniera negativa.
In alto a sinistra: fronte e vano scala corpo centrale, prima dei lavori di ristrutturazione. In alto a destra: blocco centrale verticale fronte, prima dei lavori. In basso a sinistra: centrale termica e retro, prima dei lavori. Nella pagina a destra: in alto, vista del fronte principale dalla terrazza del corpo C, dopo l'intervento. In basso: particolare dell'accesso al corpo B, dopo l'intervento.
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affrontare il combinato-disposto tra crisi perdurante e recupero di circa 90 milioni di vani inseriti in fabbricati generalmente costruiti nel secondo dopoguerra nelle periferie delle città e con prestazioni sismiche, impiantistiche, energetiche molto mediocri, se non assenti. Nel testo si ritiene, almeno si auspica, che gli effetti di questi ragionamenti possano avere una positiva ricaduta sui quartieri privi di un’identità forte, o che ne siano sprovvisti tout court. «La rigenerazione urbana – prosegue infatti il piano del Cnappc – rappresenta l’occasione per risolvere problemi come l’assenza di identità di un quartiere, la totale mancanza di spazi pubblici e l’elevata densità edilizia che rende impossibile gli allargamenti delle sedi viarie, la realizzazione di aree verdi e perfino la messa a dimora di alberature lungo i marciapiedi». Perciò una prima conclusione cui si perviene è quella relativa alla necessità di rivedere il governo del territorio con la predispozione di strumenti urbanistici adeguati all’obiettivo di disincentivare il consumo di suolo non urbanizzato e di “rigenerare” il patrimonio edilizio ritenuto inadeguato. Ciò significa una nuova attenzione al contenimento dei costi diretti e indiretti a carico dell’ambiente all’interno della prospettiva della sostenibilità. Viene perciò prefigurata una strategia di riqualificazione urbanistica ed edilizia basata sull’utilizzo di materiali sostenibili e sul ricorso a energie alternative. Forse con una punta di eccessivo ottimismo, si indica questa come la via per favorire «l’eliminazione del disagio sociale conseguente allo sviluppo che ha caratterizzato il secondo dopoguerra, con interventi che hanno risposto quasi
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ASMAR CP PAG 2016:Layout 1 15/03/16 16:47 Pagina 8
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Per fortuna di questo «superblocco aperto, a fronte multiplo e sviluppo lineare di altezza limitata a 4 piani con grandi spazi comuni e percorsi passanti», il Comune di Faenza non aderisce alla reclamata richiesta rivolta alla sua demolizione e invece intraprende la strada del recupero, anzi della sua “rigenerazione”.
esclusivamente alla speculazione edilizia ed alla rivalutazione della rendita fondiaria». Quindi i settori cui si rivolge la rigenerazione urbana sono gli edifici dismessi, le aree sottoutilizzate e i quartieri degradati; infatti «lo sviluppo della città oggi dipende dalla capacità di reinventare l’uso degli spazi mettendo a sistema interessi e opportunità di diversa natura». Perciò il nostro sguardo oggi si posa sul maxiedificio Eca (Ente Comunale di Assistenza), inaugurato nel 1978 su progetto dell’architetto Salvatore Romano a Faenza in via Fornarina. È declinato secondo un linguaggio che dichiara immediatamente la propria adesione stilistica al Moderno, vale a dire a quel movimento architettonico, sorto ormai più di un secolo fa, che si basa formalmente su una serie di precetti vergati da Le Corbusier, primi fra tutti la pulizia formale delle facciate e il tetto piano. A questo si aggiunga la scomparsa di qualsiasi elemento decorativo, l’intonaco a pelle, ora purtroppo divenuto grigio, distaccato o solo degradato. Un altro degli elementi che forse il progetto originale non aveva compiutamente previsto è relativa ad un’eccessiva densità abitativa dovuta alla parcellizzazione dell’offerta, costituita da 55 appartamenti di piccola taglia, fino ai minilocali da 22 metri quadri. Aggiungiamo ancora l’inagibilità del 30% del fabbricato, la scelta programmatica rivolta a ideazione di ampi spazi comuni ma in qualche modo (o forse per questo) colpevoli di ingenerare un senso di insicurezza anche per gli stessi abitanti del maxiedificio. Ed ancora, volendo anche bonariamente scherzare su certi luoghi comuni (fino ad un certo punto): ecco la mal digerita adesione spesso incondizionata dell’infisso esterno a tapperella, che il mio amico poeta e lettore raffinato Giuseppe Bellosi definirebbe senza possibilità di appello come irrimediabilmente
In alto a sinistra: vista sul retro con gli stenditoi prima dell’intervento. In colonna, una serie di progetti per la riqualificazione del quartiere: nelle due prime immagini, dall’alto: street art, prospetti di Team GinKo; a seguire, pianta del piano terra, sistemazione delle aree esterne e pianta piano primo dopo l'intervento; nell’ultima figura in basso, la pianta del piano secondo e del piano terzo dopo l'intervento.
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C O O P E R AT I V A F A C C H I N I R I U N I T I
CASA BELLA CASA L’inervento di rigenerazione si è svolto dal 2013 al 2015 e in soli 4 anni di tempo si è passati dal finanziamento regionale all’ultimazione dei lavori. Da un rapporto costi/benefici termici si è attuato un risparmio pari al 78% del dato iniziale, mentre l’anidride carbonica dispersa nell’ambiente è scesa del 90%. In questo modo, il recupero di un maxiedificio pubblico del Moderno sembra essersi effettivamente rivelato come un convinvente esempio in cui coniugare con successo l’housing sociale e la rigenerazione urbana
Traslochi nazionali e internazionali con autocarri furgonati e attrezzature di sollevamento speciali (elevatori telescopici) Montaggio e smontaggio di pareti attrezzate, uffici ed allestimento fiere Piazzale e magazzino per deposito e stoccaggio merci Personale specializzato per movimentazione merci in area portuale con pale gommate e carrelli elevatori Magazzino per archiviazione e custodia documenti Nuovo magazzino per deposito mobili e arredi Gestione magazzini e piazzali
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“brutta”, specialmente se realizzata negli impegnati ma tecnologicamente rivedibili anni Settanta. Con queste premesse non dobbiamo oltremodo meravigliarci se l’edificio si fosse guadagnato tra gli abitanti del quartiere “Borgo” un nome che racchiude un giudizio negativo sia estetico che sociale: “la Casbah” di Faenza. Questo «edificio-quartiere» di alloggi sviluppati su oltre 14.500 metri cubi e posto su un’area di 4.300 metri quadri - forse anche a causa della frammentazione programmata dei fronti soggetti ad una semplificazione “cubizzata” dall’aura vagamente “mediterranea”, benché fosse sorto come un esempio residenziale pubblico sotto la stella dell’innovazione tipologica - era vissuto e percepito in maniera negativa. «L’adozione della distribuzione dei percorsi orizzontali in base al tipo a ballatoio – leggiamo dalla relazione redatta dal gruppo di progettisti guidato da Ennio Nonni, architetto-urbanista a capo del Settore territorio del Comune di Faenza che ha seguito l’intervento - con andamento passante ad ognuno dei quattro piani, unito alla mancanza di ascensori, a varie superfici inagibili e ad altre parti del fabbricato non più utilizzabili, suscitava un comprensibile senso di insicurezza, legato anche ad un verosimile appannamento della percezione dell’identità del luogo», tanto da dimostrarsi nel tempo incapace «di integrarsi nel tessuto del quartiere». Perciò si era presa in considerazione l’ipotesi di demolirlo, a fronte della reazione popolare incalzante, suscitata dal disagio provocato dalla sua presenza. Ma, per fortuna di questo «superblocco aperto, a fronte multiplo e sviluppo lineare di altezza limitata a 4 piani con grandi spazi comuni e percorsi passanti», il Comune di Faenza non aderisce alla reclamata richiesta di demolizione e invece intraprende la strada del recupero, anzi della sua “rigenerazione”. Iniziamo quindi ora a percorrere una articolata timeline, che inizia nel febbraio 2009. In questa data il Consiglio Comunale di Faenza approva la variante del Prg rivolta al mantenimento del volume esistente della “Casbah” e alla concessione di incentivi urbanistici per questo intervento, avviando un programma di riqualificazione urbana (Pru). Sembra opportuno segnalare come il mantenimento del volume esistente già rappresentasse un’eccedenza rispetto alle previsioni di Prg: 3,4 mc/mq reali a fronte di 2,6 concessi, con un’ulteriore possibilità di incremento volumetrico pari al 20 %, «subordinata all’adozione di azioni che aumentino l’efficienza energetica e la superficie degli appartamenti mediante l’accorpamento degli spazi comuni». Il Pru assume il nome di «Piano strategico del quartiere Borgo». L’anno successivo la Regione approva un bando per il finanziamento dei «programmi di riqualificazione urbana per alloggi a canone sostenibile» (Pruacs 2010), dal nome specifico di «Programma integrato di promozione di edilizia residenziale sociale e di riqualificazione urbana» (Pipers). Su 26 richieste regionali il primo posto spetterà proprio all’intervento faentino di via Fornarina, che avrà un finanziamento di 3,2 milioni di euro. Questo brillante risultato riesce a mettere in moto tutta l’operazione, che inizia con la sottoscrizione di un accordo fra i due proprietari dell’area: il Comune di Faenza e l’Azienda Servizi alla Persona (Asp). Essi individuano in Acer (Azienda Casa Emilia Romagna, ex Iacp, Istituto Autonomo Case Popolari) il soggetto attuatore.
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In alto: street art, dettaglio corpo A-B, dopo l'intervento. Qui sopra: installazione Il Moro. Al centro: vista del fronte retro dopo l'intervento. In basso: particolare del corpo C dopo l'intervento.
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CASA BELLA CASA Da qui hanno inizio quattro anni, entro i quali si giunge a compimento dell’opera. Uno dei problemi principali da affrontare deriva dalla presenza dei locatori, che nel dicembre 2010 consistono ancora in 33 famiglie in forte difficoltà economica (89 persone), che verranno spostate a seguito di una serie di “difficoltosi tentativi”, che verranno sbloccati con l’avvio di un percorso partecipato finanziato dal Fondo Sociale Europeo. Il percorso ha previsto l’attivazione di un laboratorio urbano pilota di partecipazione chiamato “Rigenera Faenza”, costituito dai seguenti strumenti e momenti: «un metodo comunicativo con volantini esplicativi, punto informativo e tecnologie multimediali», «un metodo conoscitivo con passeggiate nel quartiere e interviste agli stakeholder principali», «un metodo conoscitivo puntuale con focus group di approfondimento», cui si sommano «un metodo partecipativo con scenari di simulazione a 30 persone (amministratori, operatori, tecnici, cittadini) per generare nuove idee» e «un metodo per favorire la condivisione individuando le conflittualità, le reazioni e le risoluzioni negoziali». Il fabbricato sarà sgombrato nel dicembre 2012, allorché la maggioranza dei locatari avrà trovato un nuovo alloggio pubblico attraverso il percorso di partecipazione pubblica, mentre alcuni ritorneranno a vivere nel vecchio fabbricato rigenerato. In quello stesso 2012 era stato precedentemente approvato il progetto definitivo di rigenerazione del complesso, mentre il Sindaco aveva emanato il decreto di approvazione dell’Accordo di Programma tra Comune, Asp e Acer. Nell’Accordo si erano «presi impegni non solo sullo svolgersi del procedimento e sulle coperture economiche, ma anche sui diversi aspetti qualitativi del progetto», come la definizione preventiva di alcuni principi-chiave, cominciando dal trasformare i 55 monolocali in 42 appartamenti, costituiti da seguenti tre tagli: 18 con tre camere da letto, 14 con 2 e 10 con una, oltre a tre ambienti adibiti ad ufficio e commercio e una sala condominiale. Ogni appartamento verrà dotato di un piano cottura a piastre ad induzione e di un sistema di telelettura con dispositivi per il controllo della temperatura e con sonde di rivelazione. La riduzione delle unità immobiliari comporterà la diminuizione del carico urbanistico e condurrà al miglioramento della qualità dell’abitare, complice l’accorpamento degli spazi indipendenti comuni alle unità stesse come loro spazi pertinenziali, che in definitiva sembra aver contribuito a migliorare la percezione della sicurezza dei percorsi da e per gli alloggi. Oggi l’inserimento di un mix di funzioni non abitative al piano terra per una superficie di 400 metri quadri ha consentito di stemperare gli effetti negativi della monofunzione abitativa, insieme a scelte improntate al cohousing, rivolte alla gestione comune di una nuova sala condominiale attrezzata, alcune piazzette esterne, piccoli orti e giardini. All’Housing sociale – che prevede inoltre un piccolo parcheggio per bici per incentivare la mobilità sostenibile ed eliminare i parcheggi pertinenziali – si associa la riduzione del consumo energetico per mezzo di un cappotto termico e del rifacimento integrale del sistema impiantistico. Un ulteriore approdo al risparmio energetico deriva dalla scelta a favore dell’uso programmatico di energie rinnovabili, da posizionarsi sul tetto: dai pannelli solari termici ai fotovoltaici, al minieolico. Come viene riportato nella Relazione Nonni, l’uso di fonti rinnovabili «copre rispettivamente il 55% del fabbisogno di energia termica per riscaldamento e produzione di acqua calda sanitaria e l’83% del fabbisogno elettrico degli ascensori e dell’impianto di illuminazione esterno, mentre il contributo della piccola pala eolica al fabbisogno elettrico degli appartamenti e spazi comuni è dell’8%». Si è inoltre scelto di lavorare sulla costruzione dell’identità del maxifabbricato-quartiere per mezzo di interventi di ridefinizione dei volumi, integrando e risistemando quanto presente con l’introduzione di alcuni ascensori e di bovindo verticali a chiusura delle precedenti terrazze. I bianchi volumi ora recano inoltre un riuscito intervento di street art, realizzata dal gruppo faentino del Team GinKo (guidato dall’artista Cristiano Marchetti, detto Kry) per circa 1000 metri quadri di facciate e costruita su «una simbologia che incrocia elementi neutrali e geometrie fortemente cromatiche» (i toni delle fasce blu-azzurro in partico-
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Alcune immagini degli interni: sopra due cucine, a destra una camera da letto.
lare), cui si associano le installazioni di arte contemporanea progettate da “il Moro” (all’anagrafe Giuseppe Morini). Sono scelte che infine consentiranno agevolmente di inserire l’opera nel “Museo a cielo aperto della città di Faenza”, instituito nel 2014 e compreso nel Sistema museale della provincia di Ravenna. Ma torniamo alla timeline dell’intervento: nel dicembre 2012 la Giunta Comunale approva il progetto esecutivo, il cui costo di realizzazione viene stimato in poco più di 5,5 milioni di euro. La riduzione degli alloggi da 55 fino a 42, goduti in locazione permanente, consente abbassare il costo a 4,6 milioni, 3,2 dei quali finanziati dalla Regione e 1,4 a carico di Comune e Asp. A seguito della gara d’appalto, due ditte teramane si aggiudicano i lavori con il 24,76% di ribasso, operazione che consente di coprire il finanziamento dell’intera opera. A seguito del ribasso d’asta il costo dei lavori passa infine da 3,6 a 2,8 milioni di euro (+Iva), cifra interamente coperta dal finanziamento regionale di 3,2 milioni; perciò i lavori procederanno speditamente per i 730 giorni previsti dal contratto, svolgendosi dal febbraio 2013 al 2015 nel rispetto di quanto pattuito. Perciò in soli 4 anni di tempo si passa dal finanziamento regionale (novembre 2010) all’ultimazione dei lavori (febbraio 2015). Da un rapporto costi/benefici termici si è attuato un risparmio pari al 78% del dato iniziale, mentre l’anidride carbonica dispersa nell’ambiente è scesa del 90%. In questo modo, il recupero di un maxiedificio pubblico del Moderno sembra essersi effettivamente rivelato come un convinvente esempio in cui coniugare con successo l’housing sociale e la rigenerazione urbana. Le foto del servizio sono di di Marco Cavina e Mauro Benericetti
> Crediti •
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Soggetti promotori: Comune di Faenza: Sindaco - Giovanni Malpezzi Azienda Servizi alla Persona (ASP) della Romagna faentina: Presidente - Massimo Caroli Azienda Casa Emilia Romagna (ACER) della Provincia di Ravenna: Presidente -Emanuela Giangrandi Progettisti incaricati Progetto preliminare: Ennio Nonni (capo gruppo) Mauro Benericetti, Antonello Impellizzeri, Gabriele Tampieri, Salvatore Pillitteri, Elisabetta Rivola, Lucia Rossignoli, Katjuscia Valori Responsabile procedimento PIPERS: Mauro Benericetti Progetto architettonico e D.L: Elisabetta Rivola Responsabile unico del procedimento: Carmine Severi Progetto impianti: Salvatore Pillitteri Coordinatore sicurezza: Giorgia Simonetti Processo partecipativo: CAIRE – Gianluca Cristoforetti Progetto aree esterne: Federica Drei
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ARCHEOLOGIA E STORIA
Fra le dune nasce la potenza navale della classis ravennatis È la grande flotta di Ottaviano Augusto di Pietro Barberini Ai primordi, Ravenna è costituita da un insediamento precario sopra dune parallele in prossimità del mare. Il fiume Lamone con percorso da Russi a Ravenna, correva lungo via Cavour e proprio all’altezza di piazza Andrea Costa piegava a Mezzogiorno, seguendo l’andamento meridiano dei festoni dunari intervallati da scorrimenti d’acque provenienti da Nord. Con il sedimentarsi di depositi alluvionali, le acque di un piccolo ramo meridionale del Po, il Padenna, si uniscono al fiume appenninico in una sorta di “y” ancora ben leggibile nel tessuto urbano cittadino. Lungo l’asse della duna che correva da via Salara a via Pasolini, importanti reperti del primo millennio a.C., testimoniano un insediamento di popolazioni umbro-italiche che a poca distanza da facili approdi costieri, trovano ben presto il modo di scambiare beni con navigatori provenienti dalla Grecia. Forse erano Tessali, di sicuro il ritrovamento di suppellettili attribuibili a questa popolazione, indirizza alla considerazione che molti storici avanzano sulle origini di Ravenna: «sulla riva del mare Adriatico, fondata dai Tessali in territorio umbro». Le acque trovavano un ampio seno lagunare poco più a Sud dove adesso è localizzato Ponte Nuovo. La linea costiera nel primo secolo corrisponde, infatti, all’andamento della ferrovia dalla stazione al ponte sui Fiumi Uniti. Le acque della Padusa arrivano in città dando il nome di Padenna a questo canale che viene percorso da imbarca-
zioni provenienti dal Po Eridano. L’andamento meridiano di questi scorrimenti d’acque fra un dosso litoraneo e l’altro, permette di costruire collegamenti endolagunari più a monte o più a valle, tutti afferenti alla vasta laguna che sta a Mezzogiorno della città, fra l’attuale zona ospedaliera e lo sbocco a mare localizzato all’altezza del ponte ferroviario sui Fiumi Uniti. Il grande porto di Ravenna si sviluppa qui nel 27 d.C. A cominciare dalla metà del primo secolo, quando l’entrata in città è segnata dalla Porta Aurea, monumentale accesso ornata di splendidi marmi, viene sottolineata l’importanza del collegamento fra il “Porto Classicano” voluto da Augusto e il cuore di Ravenna. Il passaggio dalla Porta conduce alla cosiddetta zona “Ercolana” che conserva tuttora il tipico andamento viario dell’urbanizzazione romana con strade parallele che si incrociano a 90 gradi: i cardi e i decumani. Poiché Ravenna ha una pianta traslata rispetto ai punti cardinali, si può supporre che il decumanus maximus fosse quello che attraversava la Porta Aurea. Ma non è certo, poteva anche essere quello che andava da Sud-Est a Nord-Ovest, corrispondente alle parallele via D’Azeglio e via Oberdan. Nella vasta zona portuale potevano trovare ormeggio ben 250 navi militari romane che garantivano rifornimenti e trasporti sicuri grazie al presidio armato del Mare Superum, così era chiamato l’Adriatico che proseguiva con lo Ionio e il Mediterraneo orientale. La visione geografica dei latini era, infatti, quella di un mare “sopra” la penisola e di un mare “sotto”: il Tirreno con il canale di Sicilia presidiato dalla flotta di stanza a Capo Miseno, nei pressi di Napoli.
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A quel tempo il Mediterraneo era completamente racchiuso dall’impero romano che dalle colonne d’Ercole circondava l’intero bacino: non poteva non essere chiamato Mare Nostrum. Ravenna riflette la potenza economica, militare e mercantile di Roma e il suo grande porto, per tre secoli, eccheggia di richiami nelle più svariate lingue e dialetti: dalmati, egizi e siri si mescolano con marinai cretesi e del Ponto Eusino, là dove c’è Trebisonda, importante punto di riferimento per la navigazione che, se “mancato”, avrebbe causato serie probabilità di naufragio. Da questo, ancora oggi si dice “perdere la Trebisonda” con significato di perdere l’orientamento, vacillare nel controllo. Per mantenere inalterati i fondali dei canali portuali e quelli degli specchi lagunari, vengono adottati nel tempo diversi provvedimenti. Si tratta di impedire alle piene primaverili ed autunnali dei fiumi appenninici, di minacciare le acque portuali e il relativo sistema idroviario di collegamento con il Po, fatto scavare in epoca augustea e denominato “Fossa Augusta”. La zona compresa fra Ravenna e Classe (Classis) è popolata da una sorta di città lineare (il sobborgo di Cesarea) che corre parallela alla linea di costa, protetta da difese a mare dove vengono utilizzate massicciate di blocchi lapidei e pietrisco tenuti assieme da malte di pozzolana. Quest’ultimo materiale, viene introdotto dagli abili costruttori Romani già nel I secolo a.C. A proposito della pozzolana, così ne scrive Vitruvio nel II libro del De Architectura: «...la pozzolana di Baia o di Cuma fa gagliarda non solo ogni specie di costruzione ma in particolare quelle che si fanno in mare sott’acqua».
Nella pagina a fianco: l’immagine scattata da Gianni Chiarini in una giornata di bassa marea all’inizio del febbraio 2016, suggerisce l’andamento dunoso della linea di costa e i suoi scorrimenti d’acque retrodunali. In questa pagina, a destra: Anonimo, particolare di un capitello di Porta Aurea, Berlino, Staatlische Museum Kunstbibliotek (n. 1245/recto). In basso: Giovanni Battista da Sangallo, prospetto di Porta Aurea, Firenze, Uffi zi, (arch. 1314).
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ARCHEOLOGIA E STORIA
Porta Aurea e la trionfale apoteosi dell’impero romano
Ravenna mantiene così il suo rango di città portuale, “bloccando” la linea di costa con difese radenti per più di tre secoli, consolidando gli ingressi all’interno della laguna attraverso varchi protetti da poderosi moli guardiani, come quello principale situato alla bocca del porto. Probabilmente anche di fronte alla città, sulla direttrice di via Ponte Marino che suggerisce una toponomastica rivolta verso il mare, si ubicava un bacino portuale poco a Nord dell’attuale stazione ferroviaria. Le acque vengono dominate più in terra che in mare, ma i cambiamenti politici, con il trasferimento della flotta da Ravenna a Bisanzio, avvengono nel momento in cui risulta più evidente una fase di subsidenza che compromette la funzionalità delle difese e delle opere portuali. Il suolo si abbassa e la grande potenza navale, che per più di tre secoli ha sostenuto Ravenna, abbandona i presidi che non sanno resistere alle minacce del tempo e degli elementi. L’impero è alle corde e proprio da Bisanzio, dove sono finite le ultime navi della Classis Ravennatis, tornerà a Ravenna un nuovo potere egemonico, quello dei bizantini.
Di fronte alla Porta Aurea, che ne aveva evidenziato con gloria i fasti, il porto romano viene ben presto ricoperto da sedimenti alluvionali che si spingono quasi fino alla sua imboccatura. Giordanes in un suo famoso scritto (metà del VI sec.) annota: «Dove una volta vi erano alberi da cui pendevano vele, ora vi sono alberi da cui pendono frutti...». Porta Aurea resta testimonianza del passato per tutta l’età bizantina, attraversando non senza danni il Medioevo. Nel 1582 fu distrutta: molte delle parti asportate (capitelli, frontoni, e le due bellissime patere) infine sono state collocate in una sala del Museo Nazionale di Ravenna che illustra la sua storia ai visitatori, oltre a riprodurre alcuni disegni, il più famoso dei quali venne eseguito dal Palladio. Di seguito si riporta integralmente il testo che descrive i reperti custidi nella sala del museo, che nella traduzione inglese inizia così: «Porta Aurea, golden gate...». «Porta Aurea voluta da Claudio, fu probabilmente inaugurata nel 43 d.C. durante il passaggio dell’imperatore a Ravenna di ritorno dalla trionfale campagna militare in Britannia. Si trattava di una costruzione celebrativa del potere imperiale con cui veniva esaltato il ruolo civico dell’imperatore come suggeriscono i motivi decorativi con corone di foglie di quercia,date in premio a coloro che avevano salvato in guerra cittadini romani. Probabilmente legato alla presenza di Claudio a Ravenna è anche il bassorilievo con l’Apoteosi di Augusto, di committenza imperiale, esposto nel Primo Chiostro del Museo Nazionale. Un’iscrizione, della quale rimangono due piccoli frammenti, ma il cui testo è riportato in numerose fonti, era posta lungo la trabeazione al fine di commemorare l’imperatore: TI. CLAVDIVS DRVSI FILIVS CAESAR AVGVSTVS GERMANICVS PONTIFEX MAXIMVS TRIBVNICIAE PO-
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TESTATIS II CONSVL II DESIGNATVS III IMPERATOR III PATER PATRIAE DEDIT. (Tiberio Claudio, figlio di Druso, Cesare Augusto Germanico, pontefice massimo, insignito della potestà tribunizia per la seconda volta, console designato per la terza volta, imperatore per il terzo anno, padre della patria, dedicò il monumento). Porta Aurea venne realizzata nel tratto sud-ovest dell’antico circuito delle mura di età repubblicana in corrispondenza di uno dei maggiori assi viari dell’oppidum, di forma rettangolare, che occupava il lato sud-occidentale della città ed era circondato da mura su tre lati e, a est e a nord-est, dal flumen Padennae e dal Flumisellum Padennae. Tuttora rimane incerta la sua funzione: potrebbe essersi trattato di una porta urbica oppure di un arco onorario costruito lungo le antiche mura già in disuso. In epoca tardoantica il monumento, inglobato nelle mura e inquadrato da due torri semicircolari demolite durante il dominio veneziano, ebbe funzione di ingresso meridionale alla città. A questo periodo risalirebbe anche l’appellativo di Aurea a imitazione della porta monumentale fatta costruire a Costantinopoli da Teodosio II nella prima metà del V secolo. Nel 1240-1241 Federico II la fece spogliare di molti dei suoi marmi, senza tuttavia distruggerla. Nel 1472 fu realizzato un sigillo in bronzo della città di Ravenna con la rappresentazione, poco verosimile, del monumento romano a due fornici, due porte laterali sormontate da clipei e affiancate da due torrioni circolari a tre piani. Nel cerchio interno si legge la scritta: PORTA AVREA DE RAVENNA. In epoca rinascimentale Porta Aurea fu uno dei monumenti più noti della città: fu disegnata da importanti architetti come Giovanni Battista da Sangallo, Andrea Palladio e Pirro Ligorio. Nel 1582, ormai interrata e in pessime condizioni, si decise di demolirla; non fu salvata neppure in seguito all’ipotesi di smontarla e ricomporla in prossimità della chiesa di Santa Maria in Porto. Il materiale superstite fu utilizzato nella decorazione di Porta Adriana, dove vennero incluse le due grandi patere, e successivamente nella Porta Serrata che fu restaurata nel 1648. Nel 1906-1908, data la necessità di aumentare le aperture lungo le mura cittadine, furono eseguiti dall’allora Soprintendenza ai Monumenti di Ravenna alcuni scavi e ricerche di fronte a via Porta Aurea, al fine di studiare gli eventuali resti ancora presenti sottoterra e comprendere così la conformazione della celebre struttura romana. Gli sterri compiuti fornirono importanti informazioni; rimisero in luce i resti delle due torri circolari in mattoni (tuttora visibili in sito), gli avanzi dei nuclei interni dei piloni angolari della porta, un tratto della strada basolata in trachiti e numerosi frammenti marmorei, forse appartenenti a una fase tardoantica di riutilizzo della porta, che confluirono,assieme a quelli sopravvissuti alla distruzione cinquecentesca, nelle collezioni del Museo Nazionale di Ravenna. La porta a due fornici, che si estendeva per una lunghezza, comprensiva delle due torri, di 36,5 metri e per una larghezza di 9 metri circa, era sostenuta da due piloni laterali in muratura e uno centrale in marmo, decorati, verso l’agro, da coppie di colonne scanalate (inv. n. 295) poste su plinti (inv. n. 306) e sormontate da semicapitelli corinzi (inv. nn. 296, 307). L’iscrizione (inv. nn.299, 300) correva lungo la trabeazione (inv. n. 302) posta sotto due frontoni che si trovavano
Nella pagina a fianco: in una sala del Museo Nazionale di Ravenna , a fianco del primo chiostro di San Vitale, sono conservati i magnifici resti di Porta Aurea con le colonne, i capitelli e il frammento del marmo della trabeazione con dedica a Tiberio Claudio Druso. Spiccano le due patere circolari. In questa pagina: dopo il 1585, Porta Adriana, impreziosita delle patere circolari, delle colonne e dei marmi provenienti dalla demolizione di Porta Aurea, è stata chiamata Porta Aurea Nuova. I leoni sono stati mutilati dai giacobini nel 1797 perché creduti simbolo della Repubblica di Venezia e non arme della città di Ravenna. Nel particolare, un leone decapitato e il pino, come appaiono ancora oggi nello stemma cittadino.
in corrispondenza delle due arcate caratterizzate da archivolti con cassettonato a esagoni e rombi (inv. n. 297) e sorrette da colonne a girali vegetali (inv. n. 309). Ai lati delle aperture due nicchie, affiancate da piccole colonne con motivi vegetali (inv. n. 308), erano sormontate da due patere (inv. nn. 292, 293) decorate da ghirlande ornate da piccoli fusi, da un secondo giro a foglie di quercia e da una fascia più ampia a palmette». La sala del museo contiene anche elementi architettonici frammentari provenienti da altri edifici pubblici, tra cui un cornicione di periodo medio o tardo repubblicano (inv. n. 327) e due frammenti di cornici (inv. nn. 301, 298) appartenenti probabilmente a edifici adiacenti a Porta Aurea.
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ARCHEOLOGIA E STORIA
Col favore degli astri Il rilievo dell’Apoteosi di Augusto (Un oroscopo... doc) di Cetty Muscolino L’Apoteosi di Augusto e la Scena con vittimari, considerate le sculture più famose della Ravenna romana, divennero immediatamente significative testimonianze delle raccolte lapidarie dei monaci benedettini di San Vitale che le esposero, a partire dalla seconda metà del XVII secolo, nella sacrestia della chiesa a ostentazione delle loro ricchezze artistiche. Assai improbabile risulta il loro utilizzo nelle decorazioni di Porta Aurea, dove non avrebbe avuto alcun senso la rappresentazione di temi figurativi rituali e religiosi, pertanto è più verosimile che i due frammenti fossero inseriti in un monumento o in un altare monumentale, dedicato al culto imperiale della famiglia Giulio-Claudia, simile all’Ara Pacis, anch’essa costituita da processioni e scene sacre. I due rilievi, raffinati e aulici, rivelano un’attenta indagine psicologica dei volti, una ricerca anatomica dei corpi e una resa naturalistica dei panneggi, espressioni probabilmente di un’arte della Capitale, che si riscontra anche in opere affini come l’Ara Pacis, il rilievo con i suovetaurilia conservato al Louvre con due scene di sacrificio provenienti dall’Ara Gentis Iuliae e ora conservate sulla facciata di Villa Medici a Roma. Il bassorilievo di Augusto venne probabilmente eseguito durante l’impero di Claudio, per l’attenzione riservata all’espressione dei volti che lasciano trasparire sentimenti e una maggiore umanità. Corpi volumetrici e solidi, giochi chiaroscurali e personaggi solo apparentemente statici sono infatti tipici della scultura del periodo dell’imperatore Claudio. Non è possibile identificare con certezza i personaggi rappresentati perchè la volontà di divinizzarli ha portato lo scultore a creare immagini idealizzate e avulse dal tempo. Plausibile è l’ipotesi che vede nel centro della lastra con apoteosi il personaggio principale rappresentato volutamente di statura più elevata a sottolinearne la sua importanza. La nudità eroica, l’himation, la corona di foglie di quercia, la sfera con segni zodiacali, i fulmini sotto nell’avambraccio sinistro, ancora in parte intuibili, e forse un lungo scettro in metallo, non più presente, nella mano destra, hanno portato a identificare questo personaggio con Augusto sotto le sembianze del dio Giove. Tale divinità, rappresentata in un atteggiamento simile anche in altre sculture, è infatti caratterizzata oltre che dall’himation dalla presenza di due attributi come il fulmine e lo scettro. L’astrologia, che ha sollecitato fin dai tempi più remoti lo studio degli effetti che i corpi celesti e i loro reciproci aspetti al momento della nascita esercitano sugli uomini, ha sempre occupato un ruolo rilevante nella cultura romana e lo stesso Quintiliano, nell’Institutio oratoria, ritiene che la sua conoscenza sia imprescindibile per l’insegnamento, alla stessa stregua della musica e della filosofia. Il favore e il sostegno degli astri hanno ispirato e condizionato suggestive creazioni artistiche in ogni epoca, ma non vi è alcun dubbio che con Ottaviano Augusto l’astrologia acquisti un ruolo di rilevanza assoluta, diventando parte fondamentale della retorica imperiale e strumento di legittimazione politica. Nato il 23 settembre del 63 a.C., alle prime luci dell’alba, paulo ante solis exortum, Augusto ha l’ascendente in Bilancia, sub pondere Librae, come specifica Manilio nel suo poema sugli astri. E nello stesso segno Virgilio predice l’ascensione del princeps fra gli astri, specificando che il luogo a lui destinato si trova fra la Vergine e lo Scorpione, ed è appunto la Libra, la Bilancia, ricavata dalle pinze dello stesso Scorpione e introdotta a Roma dal I secolo a.C. La collocazione di Ottaviano fra gli astri, il suo catasterismo appunto, è strettamente connesso alla dottrina platonica dell’origine astrale delle anime e della loro sopravvivenza, quale ricompensa per le azioni virtuose compiute
Entrambi i segni sono perfettamente funzionali all’apologia augustea, la Bilancia come glorificazione della gens Iulia, progenie di Venere e il Capricorno a lode della pax augustea in vita, tema a cui furono molto sensibili sia Cicerone che Manilio e che venne diffuso a Roma dal filosofo stoico Posidonio e dall’astrologo Nigidio Figulo. Dopo l’assassinio di Giulio Cesare il suo figlio adottivo Ottaviano lo fece oggetto di onori regali e gli innalzò un tempio come a un dio, e questa apoteosi, che svolgerà un ruolo fondamentale nella vita politica, costituisce il tassello fondativo della divinizzazione dello stesso Augusto. Pochi mesi dopo la morte di Cesare, nel 44 a.C., apparve nel cielo una cometa, un sidus crinitum, molto luminoso e di grandi proporzioni ma, contrariamente all’opinione corrente della negatività di tali signa, venne interpretata favorevolmente come un segno dell’ascesa al cielo dell’anima di Cesare, del suo divenire astro fra gli astri. La deificazione di Cesare non rappresentava del resto un fatto nuovo, sin dai tempi di Scipione l’Africano si era ammesso che Romolo fosse assurto in cielo e, divinizzato, si fosse identificato nel dio Quirino. Ottaviano sottolineò lo stretto legame fra l’apoteosi del padre adottivo con l’apparizione della cometa e sul timpano del tempio dedicato al Divus Julius, dopo la sua consecratio nel 42 a.C., fece applicare l’immagine della stella. Anche Plinio, parlando della luminosissima cometa, sottolinea come tale segno celeste fu ritenuto di buon auspicio e scrive: Admodum faustus Divo Augusto iudicatus (cometes) ab ipso,qui incipiente eo apparuit; haec ille (Augustus) in publicum; interiore gaudio sibi illum natum seque in eo nasci interpretatus est. Il sidus Iulium, che, secondo alcuni studiosi potrebbe essere il giovane rappresentato nel rilievo ravennate con la stella sulla fronte, venne quindi interpretato da Ottaviano come un signum relativo a lui e una chiara conferma del suo destino celeste. Virgilio nel proemio delle Georgiche scrive che per la metamorfosi astrale di Augusto sarà introdotto in cielo una nuova costellazione, un novum sidus, e nell’apparizione della cometa legge la promessa di un’imminente prosperità agricola. Svetonio, nel De vita Caesarum, Divus Augustus, narra che Augusto era salito insieme ad Agrippa, mentre si trovavano ad Apollonia nell’Illiria, nel 4544 a.C., sulla torre dell’astrologo Teogene per raccoglierne le profezie. Dopo aver superato l’iniziale reticenza, temendo di avere un pronostico inferiore rispetto all’amico, si decise a consultare l’astrologo e questo, dopo averne esaminato l’oroscopo, gli si gettò ai piedi in segno di adorazione, avendo letto nelle configurazioni celesti il più straordinario dei destini, che avrebbe portato al mondo un’età caratterizzata dalla prosperità e dalla pace. La reazione dell’astrologo rese il giovane sicuro e fiducioso del suo destino glorioso che gli era garantito dal segno natale del Capricorno: Tantam mox fiduciam fati Augustus habuit, ut thema suum vulgaverit atque nummum argenteum nota sideris Capricorni, quo natus est, percusserit. La decisione di Augusto di rendere pubblico il suo oroscopo, ut thema suum vulgaverit, è chiara dimostrazione della sua volontà di fare conoscere al mondo intero che tutto è scritto nei signa celesti e dal desiderio di offrire l’immagine di un princeps il cui cammino è segnato da un oroscopo che già in vita garantiva un futuro regale e un destino di immortalità astrale. Quindi, nonostante la Bilancia sia il suo segno natale e anche il suo ascendente, a partire dal 31 a.C., anno che lo vede trionfare contro Antonio nella
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battaglia di Azio, in molteplici creazioni artistiche e soprattutto nelle emissioni monetali, Ottaviano darà sempre più spazio al segno del Capricorno, segno che ospitava il sole al momento del suo concepimento, o in cui al momento della sua nascita si trovava la luna, la cui posizione era fondamentale nell’oroscopo antico. Le configurazioni del concepimento in Capricorno e della nascita in Bilancia, dodicesimo segno introdotto nel calendario da Giulio Cesare e generato appunto dalle branchie dello Scorpione, sono di per sé esplicite indicazioni che Augusto assume su di sé il ruolo di cronocratore, di regolatore del tempo e del fluire delle stagioni, essendo il Capricorno, governato dal pianeta Saturno, stazione del solstizio d’inverno e la Bilancia, governata da Venere, stazione dell’equinozio di autunno. Entrambi i due segni sono perfettamente funzionali all’apologia augustea, la Bilancia come glorificazione del gens Iulia, progenie di Venere, e il Capricorno a lode della pax augustea. Il Capricorno, creatura fantastica con la parte anteriore di capra e la coda di pesce, rispecchia la metamorfosi del dio Pan che, per sfuggire a Tifone, si rifugiò nell’acqua. Il polivalente simbolismo di questo singolare segno zodiacale, partecipe sia della natura acquatica che di quella terrestre, bene si presta a significare che Augusto esercita il suo dominio sia sulla terra che sul mare. Il Capricorno diviene pertanto il simbolo ufficiale di Augusto con le emissioni monetali: aurei e denari costituivano infatti un efficace mezzo di comunicazione col popolo. Per quanto riguarda invece la rappresentazione del globo celeste sotto ai piedi, come si vede nel rilievo ravennate, non risulta che questa compaia in altri rilievi monumentali, ma la si trova in un denario d’argento, dove Augusto regge lo scettro e l’aplustre, ornamento posto a poppa delle antiche navi, coniato a Roma nel 29 a.C., tra la battaglia di Naulochos e quella di Azio. Il rilievo del Museo Nazionale di Ravenna alla luce delle ricerche svolte, costituisce un unicum. Infatti presenta contemporaneamente in un’opera monumentale i principali attributi che mostrano la divinizzazione di Augusto sotto la specie di Giove: la corona di quercia, il fulmine, lo scettro e il globo, attributi che in numerose altre testimonianze artistiche compaiono singolarmente, ma che qui sono così mirabilmente riuniti. Nelle configurazioni celesti che sono scolpite a bassissimo rilievo nella fascia zodiacale che circonda il globo, per quanto molto abrase, sembra di poter leggere, procedendo da sinistra verso destra, i segni zodiacali dello Scorpione, del Capricorno e del Sagittario. Dal momento però che la corretta sequenza di questi segni nello zodiaco è Scorpione, Sagittario, Capricorno, si può ipotizzare che l’avere posto il Capricorno in una posizione centrale rispetto agli altri due sia stata determinata dal desiderio di focalizzare l’attenzione su questo segno. Dal punto di vista dell’interpretazione dei singoli segni mentre lo scorpione rappresenta il potere di cui una persona dispone, il sagittario si riferisce alla direzione e allo scopo dell’impresa che si deve compiere. Ed infine ecco al centro il Capricorno, immagine del costruttore, vale a dire l’imperatore Augusto, che realizza il suo progetto grazie al potere di cui è dotato e alla fede.
Apoteosi di Augusto, particolare dai bassorilievi della metà del I sec. d.C., esposti al Museo Nazionale di Ravenna, nel primo chiostro di San Vitale.
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ARCHEOLOGIA E STORIA
Il bassorilievo di Augusto e la sua fortuna critica di Federica Cavani Nella prima metà del XVI sec. l’erudito ravennate Gian Pietro Ferretti identificava il luogo di rinvenimento dei due frammenti marmorei romani, noti come Apoteosi di Augusto e attualmente esposti nel Primo Chiostro del Museo Nazionale di Ravenna, con il Mausoleo di Galla Placidia. Dopo il loro rinvenimento, le due sculture vennero infisse nel muro fuori dalla chiesa di San Vitale, generando così interesse e curiosità negli eruditi locali che iniziarono a descriverle nelle loro dissertazioni. È il caso di Girolamo Fabri nella sua Ravenna ricercata: «Dalla Chiesa si apre l’ingresso ala Sagrestia di bella fabrica […] nell’atrio della qual Sagrestia si vede affisso al muro un Marmo antico con varie figure di huomini, e di un Toro rappresentanti, come si crede, il Sagrificio di un’Idolo, opera antichissima non si sà fe de’ Romani, ò pur de’ Greci lodata, anzi ammirata dagl’Intendenti per cosa singolarissima; & eccedente qualsisia più profuso, e sollevato encomio, e tale insomma, che possa paragonarsi alle prime, che sian nel Mondo». Il Fabri già qualche anno prima, ne Le sagre memorie di Ravenna antica, aveva ricordato la loro collocazione in un ambiente che si trovava a sinistra dell’ingresso sud della basilica di San Vitale, che serviva a piano terra come sacrestia e al primo piano come museo-lapidario delle ricchezze artistiche della comunità benedettina insediatasi da secoli nel monastero adiacente la chiesa: «[…] nobili Reliquiarij dentro la Sagrestia, fabrica in ogni sua parte magnifica, e ricca di preziosi parati, e di quantità grande di argenti per uso del culto Divino, e ornamento de’Sagri Altari, nel cui ingresso vedesi affisso al muro un bellissimo basso rilievo con molte figure di huomini, e di un cavallo opera di molti secoli, si come pure nella piazza avanti la Chiesa sta un’antica lapide sepolcrale […]». Nel 1750 Giovanni Battista Passeri nella De ara augustea dissertatio IV dopo aver descritto minuziosamente i due frammenti, li ricorda anch’egli «in vestibulo Basilicae Divi Vitalis», restituendone un disegno completo delle parti mancanti. A Serafino Barozzi bolognese si deve un disegno del bassorilievo eseguito nella seconda metà del XVIII secolo. Il Barozzi ricorda il pregio di questa scultura in concomitanza ai Troni di Nettuno conservati entro la chiesa di San Vitale: «Pure non sono in conto veruno da porsi in confronto col meraviglioso Basso rilievo del marmo stesso, che sta nel vestibolo vicino alla porta della Sagrestia. Ho posto in fine di quest’Opuscolo il semplice contorno di sì famoso Basso rilievo, il quale quantunque sia inciso da mano maestra non servirà che a dare una piccola idea di tale Opera, il cui pregio non può conoscersi abbastanza senza vederla». Nella nota aggiunge che «Credesi, che questo Basso rilievo fosse fatto nel Secolo di Augusto, e rappresenta l’Apoteosi del medesimo Imperatore, ove vedesi la Figura di Roma, quella di Augusto, di Cesare, di Livia, e dell’Imperatore allora vivente armato d’asta, come indica l’eruditissimo Passeri nella sua opera […]». Nel 1791 Francesco Beltrami descrive ne Il Forestiere instruito delle cose notabili della città di Ravenna il bassorilievo collocato nel muro del vestibolo della sacrestia: «Passate al Vestibolo dalla Sagrestia, dove a mano sinistra presso la Porta sta incastrato al muro l’eccellente Basso rilievo, che esprime l’Apoteosi, o sia Deificazione di Augusto. Questo Basso rilievo fu interpretato dal celebre antiquario Giambattista Passeri Thesau. Gem. Antiq. Vol. 3 pag. 139. Egli giudicò che appartenesse a qualche Tempio dedicato a Roma, e ad Augusto, e che ser-
vise di parapetto all’Ara. Un così nobile Monumento vedeu espresso in due pezzi di marmo pario non interi, alti Pal. Rom. 4.7. Il pezzo più grande è lungo Pal. 5.8., e l’altro Palm. 2.3. Nel pezzo maggiore sono squisitamente scolpite le figure della Dea Roma, a cui vicino è Claudio Imperatore allora vivente, che da Lei impetra la Divinità a Giulio Cesare segnato sulla fronte di una stella, a Livia in sembiante di Giunone avente in mano l’immagine di un Fanciulletto, e ad Augusto di lei Marito sotto la figura di Giove. Nell’altro pezzo, o fragmento dimostrasi un Sacrifizio fatto ad Personaggi divinizzati […]». Considerata la scultura più famosa della Ravenna romana, questa opera divenne fin da subito significativa testimonianza delle raccolte lapidarie dei monaci benedettini di San Vitale che la esposero, perlomeno a partire dalla seconda metà del XVII secolo, nella sacrestia della chiesa a ostentazione delle loro ricchezze artistiche. Nella Guida di Ravenna esposta da Gaspare Ribuffi con Compendio Storico della città, uscita nel 1833, il bassorilievo viene infatti descritto tra gli oggetti degni di osservazione, ancora esposto «a sinistra presso la porta del Vestibolo della Sagrestia della Basilica di S. Vitale». Considerata «opera eccellente de’ tempi di Claudio Imperatore» ai tempi del Ribuffi si credeva «appartenesse a qualche Tempio dedicato a Roma e ad Augusto, e che servisse di parapetto all’Ara […] fatta eseguire dai Ravennati per onorare la memoria di Augusto, e di Claudio, ai quali furono debitori di molti monumenti fatti erigere in questa Città». Con la soppressione napoleonica degli ordine monastici (1797), la costituzione del Museo Municipale (1804) e la successiva istituzione del Regio Museo d’Antichità (1885), il lapidario benedettino di San Vitale fu trasferito progressivamente negli ambienti della chiesa di San Romualdo così come descritto nella Guida di Ravenna di Corrado Ricci, uscita nella sua terza edizione nel 1900. «Nel Chiostro, mirabile per la sua eleganza e grandiosità» si trovavano in due soli bracci sculture e iscrizioni greche, etrusche, romane e bizantine e il «229: celebre rilievo in pario detto generalmente l’Apoteosi d’Augusto: due frammenti appartenuti forse a un’ara». La descrizione continua con l’identificazione dei singoli personaggi. Luigi Ricci, fotografo ravennate e padre di Corrado Ricci, ricorda il bassorilievo tra i “capitelli e dettagli” della chiesa di San. Vitale nel suo Catalogo delle fotografie di Ravenna di Luigi Ricci, pittore fotografo, Bologna 1882, uscito nella sua terza edizione. A Corrado Ricci si deve inoltre una breve descrizione dell’Apoteosi ne Le raccolte artistiche di Ravenna del 1905 con l’aggiunta della proposta, nuova a suoi tempi, che vedeva le due sculture parti di un cenotafio dedicato a Druso, descritto dettagliatamente dal «valente archeologo Antonio Zirardini». Quest’ultimo tuttavia «confidando troppo in un’iscrizione riferita dal Grutero, non s’accorse ch’essa altro non era che la fusione incompleta ed errata di due diverse iscrizioni, di cui la parte che si riferisce a Druso era scolpita, com’è noto, su Porta Aurea, e non in un Cenotafio, la cui esistenza resta perciò esclusa». Dopo il trasferimento del Museo Nazionale di Ravenna dalla chiesa di San Romualdo al monastero benedettino di San Vitale, avvenuto nel 1913-1914, il bassorilievo trovò collocazione, assieme ad altre sculture, nella seconda stanza attigua al Primo Chiostro come descritto nella guida redatta dal soprintendente Ambrogio Annoni e come sembrano documentare due fotografie datate 1930 circa dell’Archivio Alinari-Villani di Firenze. Solo in seguito al riordino del Primo Chiostro curato da Giuseppe Bovini all’indomani della seconda guerra mondiale, che aveva causato il bombardamento di questa ala del Museo con conseguente distruzione di una parte del lapidario, il bassorilievo venne collocato nel lato sud del Primo Chiostro, dove attualmente si trova. Tutte le foto del servizio sono di Pietro Barberini (eccetto quelle diversamente indicate)
A sinistra: l’archeologa Federica Cavani davanti al bassorilievo dell’Apoteosi di Augusto. A destra: copia in bronzo dell’Imperatore Ottaviano Augusto “loricato”, davanti alla Basilica di Sant’Apollinare in Classe.
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CITTÀ E QUARTIERI
Scomparse le vie d’acque infiniti echi di storie lontane e nuove scommesse Via Mazzini e il borgo San Rocco raccolgono la sfida del tempo rigenerando spazi e funzioni
di Chiara Bissi
Guardarlo oggi, pienamente riqualificato, a tratti pittoresco, si stenta a credere che dietro alla bella cortina di case dai colori accesi, ci fosse in passato un borgo dalla vita turbolenta, abitato fino all’inizio del Novecento da operai, braccianti, piccoli artigiani, del tutto esclusi dagli agi della città. A dispetto della quiete signorile di oggi, quella del borgo San Rocco è sempre stata una zona effervescente, che ha saputo vivere anche alcuni appuntamenti con la grande storia. Il suo aspetto raccolto e i vicoli raccontano del passaggio dell’Eroe dei due mondi nel 1849, braccato dall’esercito pontificio. Garibaldi trovò rifu-
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gio nelle case di Gregorio Zabberoni prima e dei fratelli Plazzi poi, nei pressi del Portonaccio. Al termine del secondo conflitto mondiale il borgo aspetterà l’arrivo degli alleati e della brigata partigiana Garibaldi, il quattro dicembre 1944. Un’irrequietezza, quella del borgo, capace di svanire oltrepassate le mura e Porta Sisi. Lì si apre via Mazzini che ancor oggi bordata da severi e antichi palazzi appare una strada elegante e pienamente urbana. Chiamata fino al 1873 strada di Porta Ursicina vanta la presenza di alcune residenze appartenute ad antiche casate nobiliari ravennati, a partire dalla casa dei Polentani su via Zagarelli alla Mura, indicata come la possibile dimora di Francesca da Polenta, prima di andare sposa a Gianciotto Malatesta e incontrare un destino di morte nella corte riminese. Nel Cinquecento la casa passò di proprietà ai Lovatelli, famiglia dalla quale prese corpo il secondo ramo dei Lovatelli Del Corno, che costruì nelle vicinanze il proprio palazzo, ora sede delle suore Tavelli. Impreziosiscono la via anche palazzo Settecastelli poi Benelli in prossimità di via Cerchio e palazzo Pignatta o Pignata, già sede del consorzio agrario, costruito
Nella pagina a sinistra, e qui a destra, due prospettive di via Mazzini vista da piazza Caduti e da porta Sisi. Sopra, la facciata dell’antica basilica di Sant’Agata.
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CITTÀ E QUARTIERI
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davanti alla basilica di Sant’Agata. Qui una lapide ricorda la breve permanenza di Torquato Tasso di passaggio in città, la famiglia Pignatta intratteneva infatti stretti rapporti con la corte ferrarese. Cuore della via rimane la basilica di Sant’Agata eretta nel V secolo a pochi passi dal fiume Padenna e oggi ad alcuni metri sotto il livello del piano stradale. Come gli altri edifici religiosi dell’epoca, nel VI fu dotata di una decorazione musiva che sicuramente adornava l’abside. Purtroppo nel 1688 un terremoto provocò la distruzione del catino absidale eccetto che per alcuni frammenti negli intradossi delle finestre. Se il passato della via racconta di un mondo severo e tetro, specchio di una nobiltà che nulla poteva spartire con l’aspra vita del borgo, la recente pedonalizzazione e la riqualificazione degli ultimi anni hanno reso via Mazzini una delle più piacevoli passeggiate del centro
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storico. La rete commerciale rivolta ai residenti e ai turisti si presenta mai scontata nell’offerta, dall’abbigliamento per adulti e bambini alle calzature, dai complementi di arredo, alle gioiellerie, ai servizi alla persona, sede per lungo tempo della libreria antiquaria Tonini, e oggi della libreria per bambini Momo, di recentissima apertura. Bar e negozi di alimentari, con la gastronomia e ristorante Marchesini all’angolo con via Guaccimanni, l’emporio gourmet La luna di pane, di prossima apertura, ne fanno un piccolo microcosmo dalle potenzialità non del tutto espresse. La crisi economica infatti colpisce le attività del centro storico, tanto più, sembra, quelle non servite da posti auto vicini. Per queste la carta da giocare rimane la qualificazione dell’offerta e l’incomparabile contesto. Qui nella vicina via Cerchio ha scelto di aprire il proprio atelier e spazio vendita la mosaicista Dusciana Bravura che già anima lo Studio Du accanto a Palazzo Grassi, in Calle de
Ancora due vedute, in campo lungo, di via Mazzini: (a sinistra) con l’antica porta che introduce al borgo San Rocco sullo sfondo; (a destra) l’imbocco della strada all’incrocio fra piazza Caduti e via Guaccimanni, con il singolare passaggio pedonale realizzato in pietra sul pavé.
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le Carrozze, a Venezia. Una presenza che colloca via Mazzini fra le migliori mete dell’arte musiva contemporanea. Sempre sulla via si trova la sede dell’associazione Mirada, promotrice del festival del fumetto di realtà Komikazen, purtroppo giunto alla chiusura e in via di trasferimento altrove, del concorso dedicato ai giovani artisti italiani e di numerosi eventi espositivi. La strada inoltre ha di recente assunto una nuova funzione, dal 2015 è anche La Via dei Poeti. Quindici pannelli su supporti a leggio invitano i passanti alla lettura in più lingue di citazioni di opere di letterati, scienziati e artisti, ispirate alla città o scritte in occasione di lunghe o brevi permanenze. La scelta è caduta su Dante, Papa Giovanni Paolo II, George Byron, Oscar Wilde, Hermann Hesse, Dario Fo, Margherite Yourcenar, Henry James, Thomas S. Eliot, Carl Gustav Jung e Sigmund Freud. Nato da un’idea di Eraldo Baldini, autore delle ricerche bibliografiche per conto della fondazione Flaminia, il progetto consegnato poi al Comune, offre la possibilità di un’inedita passeggiata letteraria anche se l’accoglienza è stata tiepida e poco dopo l’installazione i pannelli sono stati in parte imbrattati. L’aspetto odierno della strada è segnato dalla presenza antica delle acque, ovvero il fiume Ronco, vicino alle mura, prima della deviazione settecentesca, e il canale del Molino fino al Novecento, che correva sotto l’attuale via Gabici, fino al molino Lovatelli. Il borgo, detto anche Sisi e per un breve periodo Fratti, ancora oggi è delimitato dall’arco di Morigia o Portonaccio in ingresso da via Ravegnana, e da porta Sisi appunto, che segna l’apertura di via Mazzini in direzione del centro. L’arco del Morigia eretto nel 1785 è il monumento di pregio dell’intero borgo, visto che delle fortificazioni medioevali da cui la dizione Castel San Pietro non rimane traccia, se non,
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come ricorda Gaetano Savini nella raccolta delle Piante panoramiche Edifici pubblici e privati luoghi e cose notevoli suburbani (1908 – 1909), la facciata di una chiesa in prossimità della porta, profanata nel 1600, e citata dalle fonti già dal 1188. Perno della vita del borgo, l’attuale chiesa di San Rocco, ricostruita nel 1846 dopo il crollo di quella edificata nel 1827, che doveva sostituire l’edificio religioso voluto nel 1583 dall’arcivescovo Boncompagni. Una delle più grandi parrocchie popolari della città. Scorrendo le foto della fine dell’Ottocento si riconosce il lavatoio dove ora c’è la piazzetta ora intitolata all’attrice Anna Magnani, i ponti in prossimità delle porte Sisi e San Mamante, i piccoli commerci di strada per la gente che viveva nella Bassa del Pignattaro, dove un vecchio cinema è diventato un ristorante di grande fascino. Lo strano toponimo secondo Giuseppe Morini, autore dello Stradario storico di Ravenna, sarebbe dovuto alla presenza, già a partire dal 1400, di un’attività legata alla fabbricazione di vasi in terracotta di uso comune. La presenza del fiume Ronco avrebbe garantito in abbondanza l’argilla necessaria. La storia dell’Alexander comincia nel 1924 a seguito della trasformazione dell’ex Trattoria dell’Allegria in Cinema Teatro Eden. In stile Liberty, la sala fungeva anche da teatro ospitando spettacoli di varietà. Ed è proprio negli anni Venti del Novecento che il cinema vivrà un periodo di grande
In alto, a sinistra, una palazzina affacciata su via Mazzini; a destra, uno scorcio del borgo e dell’asse di via Castel San Pietro, ripreso da sotto il voltone di porta Sisi.
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CITTÀ E QUARTIERI successo. Nel 1929 il cinema viene acquistato dall’imprenditore ravennate Gaetano Gualtiero Fuschini che lo renderà uno dei locali più frequentati della città, sia per le proiezioni che per gli spettacoli teatrali. Numerose nel tempo le denominazioni conosciute, nel 1936 prese il nome di cinema Savoia, nel 1946, divenne il cinema Astra, e così nei decenni successivi, nel 1966 fu acquistato dalla Sagis di Bologna ma sul finire del millennio vive anche la condizione di cinema porno. Nel 2000 diventa cinema d’essai e con l’ultimo nome di Alexander, chiuse nel 2004. La rinascita con la nuova funzione avviene nel 2006, nel nome Cinema Alexander Ristorante è racchiusa la memoria del passato, mentre la riqualificazione restituisce la magia del mondo di celluloide. L’atmosfera Liberty oggi avvolge i frequentatori, accompagna il lavoro dei proprietari e le creazioni dello chef Mattia Borroni. Risalendo la Bassa del Pignattaro un tempo rapidamente si raggiungeva il grande lavatoio al quale accedevano le famiglie di via Portanaccio, vicolo completamente riqualificato, o di via Carraie, dove negli anni Ottanta nell’Ottocento il giovane Nullo Baldini fondò la prima forma cooperativa di lavoro fra operai. Della vivacità delle osterie, rifugio della setta degli accoltellatori, il borgo non conserva memoria diretta, ma i locali per i giovani e il piccolo cinema Jolly la sera ne fanno un luogo dove è bello semplicemente passeggiare, nel quale l’austerità delle vie del centro è stemperata dall’andamento irregolare delle strade e dalla meraviglia dei vicoli. La rete commerciale è in difficoltà anche nell’antico borgo, ma non mancano proposte di qualità, genere merceologici ormai rari, in un mix fra presente e passato gradevole e calibrato. Nel borgo San Rocco si ritrova il senso di un luogo dalla forte identità, mai esclusivo. La pressione legata al traffico di attraversamento, la preservazione della tranquillità nelle ore serali sono temi sempre aperti che allontano comunque il borgo dalla dimensione rigida del museo, riportandolo a pieno titolo fra le zone più vitali della città. Servizio fotografico di Barbara Gnisci
In alto, il Portonaccio (Arco del Morigia) che da sud introduce al borgo San Rocco. A sinistra, l’imbocco del vicolo del Pignattaro, con in primo piano il vecchio cinema Alexander, riconvertito in uno dei più rinomati ristoranti della città. In basso, due particolari degli edifici tipici del borgo fuori porta.
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GRAND TOUR
Il signor Dido e la città
“abbottonata” Sentimento di Ravenna di Alberto Savinio (1951)
di Alberto Giorgio Cassani
I “bottoni” di Ravenna Vero “viaggiatore” e non semplice “turista” – secondo la nota distinzione di Paul Bowles1 – a velocità “ruskiniana”, sulla sua «vetturetta di cilindrata minima»,2 il signor Dido, alias Alberto Savinio, alias Andrea De Chirico, incontra Ravenna. Come John Ruskin, infatti, che voleva abolire i treni per le carrozze a cavalli e i piedi, il signor Dido non ha fretta. Vede gli altri automobilisti che lo superano a tutta velocità, guardandolo come un povero «vecchietto», e pensa che «corrono velocemente alla morte». Di più: «sono già morti», e invece «guardano lui [...] come un morto». Il signor Dido «ama più il presente che il passato». Ci tornerà utile, più avanti, parlando del «molle» Onorio. Il signor Dido non ha itinerari da rispettare, non ha con sé il “Baedeker”, guida indispensabile per ogni accorto “turista” e quando vede «un cartello con su scritto: Ravenna», si dispone senza tema all’incontro con l’incognita città e dice alla signora Dido «Fermiamoci a Ravenna». Anche se lo dice «senza calore». Premonizione? Venendo dalla strada che collega Rimini a Ferrara, allora Romea, il signor Dido entra in città percorrendo il borgo Garibaldi e passa sotto la porta Garibaldi, già Pamphilia e ancor prima Gregoriana, oggi porta Nuova. Immediatamente Ravenna gli fa «uno strano effetto»: «Tutte le città – pensa il signor Dido –, anche le più pudiche, hanno un punto, mercato o rione popolare, in cui i visceri della città vengono fuori». Ravenna è un’eccezione, la eccezione: «Ravenna è abbottonata fino al pomo d’adamo nel suo abito di pietra». Il ...“ventre” di Ravenna è ben nascosto, non solo agli occhi di un viaggiatore. Anche molti che ci vivono non l’hanno ancora scoperto. Verso mezzogiorno al signor Dido viene fame. E se c’è una cosa che a Ravenna tutti i viaggiatori hanno sempre trovato, è un buon ristorante.
Anastagi, chi erano costoro? Il signor Dido e la toponomastica Il signor Dido, entrato da porta Garibaldi, percorre – non era ancor vietato al traffico – l’allora corso Garibaldi (oggi via di Roma) – a quel tempo l’eroe dei due mondi era ancora qualcuno – sezionando da parte a parte la città, «senza avvedersene»: tanto Ravenna può essere attraversata senza lasciar trapelare nulla di sé.
Giunge così all’angolo di una via il cui nome lo porta lontano con la catena delle assonanze: via Anastagi.3 Oggi – «La forme d’une ville change plus vite, hélas! que le cœur d’un mortel», ci ammonisce Baudelaire4 – la via è divenuta un parcheggio («Prima era un tango, adesso è un parcheggio»,5 afferma sconsolato Pepe Carvalho, per un analogo abbattimento, in nome del “progresso”, di uno storico edificio del ballo a Buenos Aires), dopo la distruzione del quartiere di San Vittore, per metà operato dai bombardamenti alleati, per metà dalla speculazione edilizia. Un incontro con un nome che piace al signor Dido. La potente famiglia degli Anastagi, signori feudali, è ricordata da Guido del Duca, assieme ai Traversari, nei versi 107-108 del canto XIV del Purgatorio. Apparsa sulla scena nel XII secolo, è già «diretata» – «spenta»,6 come traduce Corrado Ricci –, al tempo di Dante.
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Al signor Dido il nome Anastagi fa subito venire in mente Nastasio degli Onesti della novella ottava della quinta giornata del Decameron, con la «tragica cavalcata attraverso la pineta di Chiassi, davanti ai giovani e alle giovani raccolti in un desinare». Casi del destino: Nastagio/Anastasi ama, non corrisposto, «una figliuola di messer Paolo Traversaro».7 Nella pineta di Classe ha luogo l’incontro col suo alter ego, Guido degli Anastagi, specchio perfetto del pericolo cui va incontro ogni mal d’amore.
Cucina multietnica Il signor Dido è di fronte a via Anastagi e i ricordi si affollano: «Nastagio, ossia Anastagio, ossia Anastasio: il Resurto». Occorre un po’ di pratica di greco, visto che Savinio è nato in quelle terre, precisamente ad Atene, nel 1891. Un nome simbolico, “doppio”, come tutti i veri simboli (sumbállo: «getto insieme» e súmbolon, una tessera di terracotta che si spezzava in due e che si conservava, per denotare un legame o un’alleanza tra due individui o due città) che mettono assieme in concordia discors due cose in apparenza antitetiche: Anastáseos, al tempo stesso, da un lato, l’“elevare”, la “risurrezione” e, dall’altro, la “demolizione”, la “rovina”. «Resurto», dice il signor Dido, da “resurgere”, variante letteraria arcaica di “risorgere”. Che sia un simbolo anche di Ravenna, ex capitale e capitale mancata, sempre in attesa di “resurgere”? Ma lasciamo l’arida filologia, perché il signor Dido, come detto, ama il presente: «Andare tutti insieme sul fiume del Presente: questa la via
per il signor Dido. E quando il fiume del Presente imbocca la galleria chiamata Passato, entrare tutti assieme nella morte: questo è l’amore per il signor Dido». La fame, si sa, non aspetta l’erudizione: e il signor e la signora Dido entrano in un «ristorante che sopra è albergo». Una guida Touring dell’epoca, forse, ci aiuterebbe a rintracciarlo. Ma che importa! Ciò che conta è la “multietnicità” di Ravenna: «Si misero a un tavolino. Sedevano agli altri tavolini stranieri di varie razze, di vari sessi, di varie età. Tiravano su spaghetti, lasagne, fettuccine: se le introducevano in bocca con diligenza, come se si applicassero per mezzo di quei cibi a imparare l’italiano». Da sempre il Bel Paese è apprezzato dagli stranieri per i suoi paesaggi, la sua arte e la sua gastronomia, che, come afferma Pepe Carvalho, assieme al «sesso» è la cosa più seria che esista.8 Nella pagina a fianco: Alberto Savinio, © courtesy Angelica Savinio de Chirico. In alto a sinistra: copertina del volume: Alberto Savinio, Il signor Dido, Milano, Adelphi, 1978, 19923; a destra: Sandro Botticelli, Nastagio incontra la donna e il cavaliere nella pineta di Ravenna, 1483, tempera su tavola, cm 83×138, Madrid, Museo Nacional del Prado. Sotto, a sinistra: Alberto Savinio, Le temple foudroyé, 1931, tempera su tela, cm 64,5×80,6, collezione privata. Evidente, il ricordo della basilica di Sant’Apollinare in Classe (Saint’Apollinaire!). Simile è Venerdi Santo, 1933 ca., olio su tela, cm 55,3×44,5, Verona, Fondazione Domus per l’arte moderna e contemporanea. A destra: Enrico Galassi, Villa Savinio, Poveromo (MS), vista del fronte, foto di Maurizio Montanari.
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GRAND TOUR La storia vista dal buco. Un imperatore imbelle e un genio Una guida poliglotta «in giacca a vento e occhiali neri» richiama all’ordine i turisti in tre lingue: alle tredici e quarantacinque, visita ai monumenti! Come un sol uomo, all’annuncio, il gruppo esce, incolonnato. Il Passato, di colpo, fa la sua irruzione nel Presente del signor Dido: «Ho finito di mangiare: dovrei andare a rievocare sui monumenti la storia di Ravenna». A questo pensiero il signor Dido si sente «infelice»: «Non è che il signor Dido non ami la storia: l’ama ma preferisce guardarla attrverso il buco della serratura». E, attraverso questo buco, il signor Dido guarda la storia di Ravenna: gli appare una sala da pranzo, anche se vecchia di alcuni secoli rispetto a quella in cui sta comodamente seduto; e una scena assai poco solenne si svolge sotto i suoi occhi. Vede Onorio, primo imperatore romano d’Occidente – dopo la divisione in due dell’Impero – e fratello di Galla Placidia. «Molle di carattere», scambia “Roma” con la sua amata omonima gallina e gli viene quasi un colpo quando un nunzio gli porta la notizia che i barbari «hanno preso Roma». «Scemo! [...] Me lo potevi dire subito!», è la sollevata risposta di Onorio quando si rende conto dell’abbaglio. La storia “alta” di Ravenna non merita, agli occhi del signor Dido, di essere sbirciata, dunque, che dal «buco della serratura». Liquidata la Storia, il signor Dido cerca una «camera fresca» per un «magnifico sonno ristoratore». E sogna. Sogna «il suo amico Enrico. E chi altro avrebbe sognato il signor Dido a Ravenna?». Ora sappiamo che da noi non solo è morto un genio, ma ne è anche nato uno: Enrico Galassi.9
L’infanzia di Enrico
Dall’alto: Enrico Galassi, Villa Savinio, Poveromo (MS), vista dell’interno, foto di Maurizio Montanari. Enrico Galassi con la figlia Alice “Babina”, Taormina, 1947, archivio Enrico Galassi. Pagina a fianco, dall’alto: Alberto Savinio, Arlecchino (ritratto di Enrico Galassi), tempera su tela, 1939, distrutto nel bombardamento della Galleria “Il Milione” di Milano. William Blake, Antæus setting down Dante and Virgil in the Last Circle of Hell, 1824-1827, penna, inchiostro e acquerello, mm 526×374, Melbourne, National Gallery of Victoria.
Il signor Dido non ci svela il cognome di Enrico. Ci dice soltanto che è nato «un po’ meno di cinquant’anni sono» a Ravenna. Il padre, «restauratore di mosaici», pensa di trasmettere a Enrico, il «più geniale dei suoi tre figli», «i segreti» di un’arte «difficile e paziente». A Enrico il signor Dido dedica buona parte dei ricordi della visita a Ravenna. Ne viene fuori uno spaccato di storia ravennate assai più vivo di tanta un po’ noiosa agiografia nostrana. «Uscivano padre e figlio da Porta Garibaldi che era ancora notte, traversavano il Canale del Molino Lovatelli [oggi non più in uso e “gambizzato” dall’interramento del canale], si mettevano per la campagna diretti a Sant’Apollinare in Classe, ove in quel tempo si stavano eseguendo importanti lavori di restauro.10 A metà strada si fermavano a una bettola. Era uno stanzone enorme e nero, in mezzo al quale ballavano le fiamme di un braciere». Una storia materiale di dignitosa povertà. Piatti “caldi” e “freddi” si alternano: «C’era tra quei clienti mattutini anche l’accalappiacani, tirava fuori dal tascapane un pezzo di carne, lo buttava nella padella; e anche i più ignari di zoologia riconoscevano in quel pezzo di carne un coscio di cane. C’era anche il serparo, ma costui mangiava freddo. Tirava fuori della bisaccia a tracolla una biscia, la stringeva viva e guizzante tra le dita, intingeva la punta nella ciotola del sale posata in mezzo alla tavola, addentava, masticava». Riprova evidente che la cucina non è che la «dissimulazione del cannibalismo».11 Questa è l’unica storia ravennate che il signor Dido dimostri di apprezzare. Quella legata direttamente alle persone, anche alle persone qualunque. Ma Enrico non è affatto una persona qualunque.
Virtus et (S)fortuna Enrico, come tutti, attraversa l’«infanzia» e l’«adolescenza». Anche se, a differenza dei più, diventa «uno degli adulti più geniali che il signor Dido avesse mai conosciuto». Come ogni genio, opera in campi diversi, contro ogni tranquillizzante orticello: «pittore, architetto, scrittore, ideatore di infiniti progetti».
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In qualità di pittore è precocissimo: i suoi primi disegni e tempere risalgono alla fine degli anni Venti. Benché poi esponga, fuori dal piccolo mondo ravennate, a varie quadriennali romane, a Parigi, Stoccolma, Oslo, Londra, in Svizzera e in America, aspetta ancora di essere “rivisitato e rivalutato”.12 Come architetto, nel 1936, progetta proprio la casa di Savinio a Poveromo, vicino a Forte dei Marmi, in Versilia, dove Enrico vive a lungo in compagnia di Lorenzo Viani, Enrico Pea, Moses Levy e Krimer (alias Cristoforo Mercati). Di questa casa, «mègaron straordinario»,13 tuttora esistente, lo stesso Savinio ce n’ha data una descrizione magistrale: «La mia casa Galassi l’ha disegnata a forma del più casalingo degli animali: a chiocciola. Galassi è stato a Ibiza, che è la più piccola delle Baleari. [...] A Ibiza le case portano davanti alla fronte un gran muro pieno, che le guarda dai grandi venti del largo. Nella mite foresta del Poveromo i grandi venti del largo non arrivano, ma davanti alla mia casa Galassi ha alzato ugualmente un gran muro pieno e curvato a S, e questo muro, nonché guardarmi dai grandi venti metafisici, segna perentoriamente la lettera iniziale del mio nome».14 Delle tante villeggiature della famiglia Savinio al Poveromo ne rimane testimonianza solo una foto, con Savinio e la moglie affacciati ad una finestra della casa. Enrico, come spesso accade ai geni, è stato «sempre guardato in cagnesco dalla sorte»: «ora, dopo tanto lavorare, dopo tanto ideare, dopo tanto progettare, è povero, malato. Abita dentro un corridoio, sul tetto di un vecchio e illustre palazzo romano;15 un corridoio che mediante un gioco di coperte tirate da muro a muro egli ha trasformato in un molle labirinto; un molle e ondeggiante labirinto che una bambina traversa e ritrova quale una piccola luce danzante: Donnina,16 la figlia di Enrico; una bambina di cinque anni che se Mozart l’avesse conosciuta, avrebbe scritto apposta per lei un’operina della sua musica più sottile e scintillante». Enrico Galassi, nato a Ravenna il 14 novembre 1907 e morto a Pisa il I° settembre 1980, forse unico genio assieme al “nostro” Corrado Ricci, di questa terra aspra per i geni (a uno, fra i più grandi, è stata fatale). Del tutto ignoto alla sua città natale.
Dante, scultore di parole Tra tutti i possibili monumenti di Ravenna, cosa decide di visitare il signor Dido, dopo la prevedibile sollecitazione – «E i monumenti?» – di una pazientissima signora Dido? Naturalmente... la tomba di Dante. Dante è poeta-scultore: «trasforma la parola in forma scolpita». Alcuni modellano «con la mano». Dante «con la lingua e con le labbra». E dalla sua bocca – «per quanto stretta e risucchiata» – esce un «lungo nastro» di «marmo formato». Vero re Mida della poesia, tutto quello che tocca acquista valore: come quando, per non dire il nome del monte (Pisano o di San Giuliano) che divide Lucca da Pisa, impiega un’intera terzina (Inferno, XXXIII, 28-30). Sovrintendenti catene «sospese a festone» sbarrano la strada alla sua pur quasi pedonale vetturetta e il signor Dido, come tutti i mortali, si reca a piedi in devoto/dovuto pellegrinaggio alla tomba «dell’Altissimo poeta». Subito un parallelo, senza pudori di falsa modestia, balena nella mentre del signor Dido: Dante, qui, nella zona del Silenzio (ma silenziosa lo era divenuta solo da un paio di decenni, dopo la realizzazione del progetto di sistemazione degli anni Trenta), riesce a «dormire». Non il signor Dido nel suo «pianterreno» di Roma, dove, oltre a dormire, lavora «dodici ore al giorno». Zone di rispetto, infatti, il signor Dido non ne ha e, novello Giovenale (Saturæ, III, vv. 235 sgg.), ripensa ai «veicoli che corrono rombando sotto le [...] finestre» e che gli «mandano il cervello per aria». La retorica, evidentemente, non piace al signor Dido e allora la scritta «Dantis poetae sepulcrum», non può non stimolarlo: «Perché poetae?». «E perché quel latino» per «il più italiano dei poeti»? Chi lo ricorderebbe, oggi, «se avesse scritto soltanto libri in latino»? Quanto «Petrarca come autore dell’Africa».
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musaici»: e «certe parole agiscono sul signor Dido come respingenti». È ormai troppo tardi. Quando la signora Dido esclama (stupita, ma non troppo, abituata com’è alle stravaganze del signor Dido»): «Come non ti piace l’arte musiva?», il signor Dido, infatti, sta già «uscendo dalla città». Non solo: accelera (cosa per lui straordinaria). Quello che sarà il futuro patrimonio mondiale dell’umanità viene clamorosamente dribblato dal signor Dido: le basiliche, il mausoleo di Galla Placidia e, last but not least, il Guidarello – allora ancora alieno da pericolose insinuazioni sulla sua paternità – nonostante «non sia un musaico, ma il pensant maschile della lucchese Ilaria del Carretto». C’est égal, dice la signora Dido, ma non riesce a trattenere una rimostranza garbata che sottolinea, a suo parere, un > Alberto Savinio e sua moglie Maria Morino affacciati a una finestra della Villa al Poveromo. paradosso bell’e buono: «Venire a Ravenna e non vedere Sant’Apollinaire!». Apollinaire? Un lapsus spiegabilissimo: la signora Dido «ama i poeti francesi di questi ultimi cinquant’anni». Non è che l’ultimo motto di spirito di Alberto Savinio, alias signor Dido (o viceversa?). Suprema, straordinaria ironia di un grande artista (come il suo grande amico Enrico), nonché acutissimo, impagabile «E i musaici?». Dopo aver visto naufragare l’idea di visitare i monuviaggiatore del Novecento appena trascorso. Veni, vidi, vici: Savinio si menti (per il signor Dido, è Dante un monumento in carne, ossa e paferma appena un giorno a Ravenna ma è quanto basta per mettere allo rola), la signora Dido prova, candidamente, con l’asso nella manica scoperto, con straordinaria leggerezza, le nudità, bizantinamente nadella città. Era tutta intenzione del signor Dido, naturalmente, di visiscoste, di un’abbottonatissima città. Non lo ringrazieremo mai abbastanza. tare i «famosi mosaici», ma «la signora Dido non disse mosaici, disse
“Mosaici” e “Musaici”. La fuga del signor Dido
Note 1.
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5.
6.
«Non si considerava un turista, bensì un viaggiatore. E in parte la differenza sta nel tempo, spiegava. Laddove, in capo a qualche settimana o mese, il turista si affretta a far ritorno a casa, il viaggiatore, che dal canto suo non appartiene né a un luogo né all’altro, si sposta più lentamente, per periodi di anni, da un punto all’altro della terra», PAUL BOWLES, The Sheltering Sky, London, John Lehmann, 1949, trad. it. di Rosanna Molinari, Il te nel deserto, Milano, Sugar, 1965, ed. cons: Il tè nel deserto, Traduzione di Hilia Brinis, Milano, Garzanti, 1989, pp. 12-13, frase parafrasata spesso da Manuel Vázquez Montalbán. Tutte le citazioni, non diversamente indicate, sono tratte da: ALBERTO SAVINIO, Il signor Dido, Milano, Adelphi, 1978, 19923, cap.: Sentimento di Ravenna, pp. 103-108. Il testo apparve per la prima volta sul “Corriere d’informazione”, del 30-31 luglio 1951. Nome e luogo a me assai caro. CHARLES BAUDELAIRE, Le Cygne, quarta poesia della sezione “Tableaux parisiens” de Les Fleurs du mal, raccolta pubblicata per la prima a Parigi dal Libraio-Editore Poulet-Malassis et De Broise volta il 25 giugno 1857. MANUEL VÁZQUEZ MONTALBÁN, Quinteto de Buenos Aires, Barcelona, Planeta, 1997, trad. it. di Hado Lyria, Quintetto di Buenos Aires, Milano, Feltrinelli, p. 22. CORRADO RICCI, L’ultimo rifugio di Dante Alighieri, con illustrazioni e documenti, Milano, Ulrico Hoepli Editore-Libraio della Real Casa, 1891, p. 122.
7.
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10.
11. 12.
13. 14.
GIOVANNI BOCCACCIO, Decameron, V, 8, ed. cons.: a cura di Natalino Sapegno, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese1956 e 1988, pp. 532-539: 533. «Il sesso e la gastronomia sono le cose più serie che esistano», MANUEL VÁZQUEZ MONTALBÁN, Tatuaje, Barcelona, José Batlló, 1974, trad. it. di Hado Lyria, Tatuaggio, Milano, Feltrinelli, 1991, p. 142. Su Enrico Galassi, oltre alla fondamentale “voce” di ROSANNA RUSCIO nel Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, 1998, vol. LI, pp. 347-348, mi permetto di rimandare a due miei studî: Enrico Galassi: Il vero “dilettante”, in Ravenna Festival 2007: La pietra di diaspro “quando il cielo si squarcerà...”, Catalogo, Ravenna, Tipografia Moderna, 2007, pp. XVII-XXIV ed Enrico Galassi: L’artista “fuorilegge”, in “La Piê”, LXXXI, n° 1, gennaio-febbraio 2012, pp. 26-31. Da parte di Giuseppe Zampiga, nel periodo 1907-1911. È probabile che Savinio qui non sia molto attendibile: Enrico avrebbe avuto solo tre anni. M. VÁZQUEZ MONTALBÁN, Quintetto di Buenos Aires, cit., p. 80. Cfr. GIORDANO VIROLI, L’arte figurativa e la dignità del «silenzio», in Storia di Ravenna, V. L’età risorgimentale e contemporanea, a cura di Luigi Lotti, Venezia, Comune di Ravenna-Marsilio Editori, 1996, pp. 43-80: 73. ALBERTO SAVINIO, s.v. «ALBERO», in ID., Nuova enciclopedia, Milano, Adelphi Edizioni, 1077, 20025, pp. 23-24: 23. ALBERTO SAVINIO, La mia casa, in “Corriere della Sera”, 1° settembre 1946, in ID., Opere. Scritti
dispersi. Tra guerra e dopoguerra (1943-1952), introduzione di Leonardo Sciascia e Franco De Maria, a cura di Leonardo Sciascia e Franco De Maria, Milano, Bompiani, 1989, ora in ID., Scritti dispersi 1943-1952. A cura di Paola Italia, Con un saggio di Alessandro Tinterri, Milano, Adelphi Edizioni, 2004, pp. 408-413: 410. Nella voce «ALBERO» della Nuova enciclopedia, Savinio aggiunge qualcosa al significato delle due volute della “S”, dal momento che ognuna «circonda una quercia»: «Così nell’architettura di un nostro contemporaneo si ripetono i temi delle più antiche costruzioni: quale prova migliore della sua grande serietà di artista? Le prime colonne non erano di pietra fabbricata dall’uomo, ma colonne naturali, molto spesso alberi, intorno ai quali si edificava la casa», A. SAVINIO, s.v. «ALBERO», cit., pp. 23-24. Cfr. anche ID., Miti. Albero, in “Il Popolo di Roma”, 25 luglio 1943. Su casa Savinio si veda: PAOLO RUSCONI, Galassi architetto di Casa Savinio, in Ascolto il tuo cuore, Versilia? Alberto Savinio al Poveromo, scritti di Enzo Siciliano, Ruggero Savinio, Paolo Rusconi, Zeno Birolli, Bocca di Magra (SP), Edizioni Capannina, 2001, pp. 19-33. 15. Palazzo Altieri in piazza del Gesù, progettato da Giovanni Antonio De Rossi nel 1650. Al piano superiore a quello di Enrico abitava Carlo Levi; vi soggiornò anche Anna Magnani. Ringrazio Alice Galassi, figlia di Enrico, per queste preziose informazioni. 16. In realtà, “Babina”, soprannome di Alice Galassi, carissima amica appena ricordata, che attualmente vive negli States.
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SEDICI ARCHITETTURA 2016
La
progettazione sostenibile
– fra valori sociali e ambientali – di Andrea Dal Fiume e De Gayardon Bureau Esperienze e indirizzi professionali, lavori e visioni dei protagonisti del primo degli incontri-confronti dedicati ai temi dell’architettura contemporanea, in programma il 17 marzo a Palazzo Rasponi di Ravenna
di Chiara Bissi
Andrea Dal Fiume apre l’edizione 2016 degli incontri sull’architettura contemporanea promossa dalla rivista Casa Premium della società editoriale Reclam e ideata dal comitato scientifico composto da Gianluca Bonini e Giovanni Mecozzi di Nuovostudio e da Filippo Pambianco di Cavejastudio. L’architetto Dal Fiume sarà il primo dei “SeDici” protagonisti che animeranno otto appuntamenti, affiancato il 17 marzo da De Gayardon Bureau, giovane collettivo cesenate. Palazzo Rasponi dalle Teste è la tappa iniziale di un percorso che attraversa la Romagna e indaga le migliori esperienze di progettisti e studi associati con sede in regione ma operanti in Italia e nel mondo. Di riuso e rigenerazione urbana a vantaggio del territorio, delle comunità e dell'economia dialogano infine nella tavola rotonda “Il (buon) senso del rifare” i relatori della conferenza e gli architetti Paolo Bolzani (consigliere Ordine Architetti di Ravenna) e Maria Cristina Garavelli (Officina Meme, Ravenna).
A Imola una società pubblica per pianificare i beni comuni È un tema caro quello della rigenerazione per Dal Fiume, come è facile intuire dalla ricca biografia professionale. Nato a Modena nel 1959, si laurea in architettura a Firenze nel 1989. Nel 1990 inizia l'attività di collaborazione in area tecnologica all'interno della Facoltà di Architettura di Ferrara dove, dal 1995 al 1998, è professore incaricato e titolare del modulo didattico di “Progettazione Ambientale”". Coautore del testo Architettura sostenibile, Pitagora Editrice Bologna
1998, è autore di alcuni contributi inseriti nei volumi editi da BolognaFiere nell'ambito del Saie anni 1993 e 1994. Attualmente svolge la propria attività all'interno del Comune di Imola in qualità di responsabile del Servizio opere pubbliche attraverso la società BeniComunisrl. Tra le opere realizzate si segnalano l’ampliamento del cimitero del Piratello in Imola, premiato all'interno del festival dell'Architettura di Parma 2004, pubblicato nel volume “Almanacco di Casabella - giovani architetti italiani 2001 - 2002” e sulla rivista “Paesaggio urbano” (n. 6/2005 - Maggioli Editore - Rn). Inoltre la scuola per l'infanzia di San Prospero, vincitore del Premio “Le citta' per un costruire sostenibile” 2004 - Trieste, pubblicato all'interno della rivista “L'architettura naturale” (n. 25/2004 - EdicomEdizioni Go). Infine la nuova mensa della scuola primaria A. Rubri a Imola, e la scuola secondaria di primo grado “Orsini” di Imola, premiata al concorso per le 20 scuole più belle d'Italia, promosso dal Mibact nel 2014. In particolare quest’ultima è stata realizzata in adiacenza all’esistente scuola elementare per rafforzare le esigenze della continuità didattica fra le due scuole e definire alti standard nella qualità della fruizione.
Nelle foto, alcuni degli edifici e degli spazi pubblici, realizzati a Imola su progetto e direzione lavori dell’architetto Andrea Dal Fiume, dirigente della società comunale BeniComunisrl.
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L’edificio risponde al principio della captazione delle radiazioni solari per distribuire parti opache e parti vetrate. I materiali scelti non contengono sostanze allergeniche o potenzialmente cancerogene, gli isolanti e le finiture sono di origine naturale (sughero, fibra di legno e canapa e argilla). Sollecitato, Andrea Dal Fiume interviene su alcuni temi puntualizzando posizioni e ampliando la discussione su concetti come la sostenibilità e la corretta gestione “della cosa pubblica”. Architettura sostenibile è il titolo di un volume di cui è coautore, a quasi vent'anni dalla pubblicazione quanto di quelle riflessioni è diventato patrimonio comune poi applicato nella progettazione dai professionisti, quanto in seguito è stato apprezzato dalle committenze e quanto invece ancora rimane inascoltato? «In questi venti anni credo si sia sviluppata una coscienza ecologica che ha portato ad adottare una serie di meccanismi normativi che pongono come requisito essenziale, per le costruzioni e l’ambiente, da una parte l’igiene, la salute e l’ambiente e dall’altro il risparmio energetico. Abbiamo tutti l’onere di sviluppare una progettazione che integri una visione generale delle problematiche, che sia ecologicamente compatibile, supportata da buone conoscenze dei materiali e da nozioni corrette di pianificazione urbana». Come descriverebbe BeniComuni srl, la società del Comune di Imola di cui è dirigente Ritiene che sia un modello esportabile su vasta scala? «Benicomuni srl è la società attraverso cui il Comune di Imola, socio unico, provvede a realizzare, gestire, manutenere, implementare il proprio patrimonio immobiliare e infrastrutturale. L’attuazione delle attività gestionali è tesa alla ricerca di soluzioni efficienti, efficaci ed economiche, implementando soluzioni organizzative e operative dinamiche e innovative. Il nostro impegno è diretto a costruire un’azienda in grado di rispondere ai bisogni dei cittadini, massimizzando la qualità dei servizi rispetto alle risorse disponibili e in cui
coesistono competenza e creatività, per creare soluzioni orientate all’innovazione e al miglioramento continuo. La pubblica amministrazione langue ormai da anni in un mare di leggi, decreti, nuovi codici che si intrecciano e sovrappongono nel disperato tentativo di rincorrere il continuo evolversi delle esigenze dei cittadini. Non so se il modello BeniComuni sia la soluzione, credo possa essere una strada interessante da esplorare in un nuovo sistema di gestione della “cosa pubblica” che ponga come prioritario l’attenzione ai costi, coerenti con gli obiettivi aziendali di bilanciamento tra l’interesse pubblico di ottenere servizi di qualità e la necessità di razionalizzazione delle risorse alla ricerca del miglior prezzo di mercato in un’ottica di analisi costi/benefici». Come è cambiato nel tempo il ruolo del progettista nella pubblica amministrazione? «Lavoro all’interno della pubblica amministrazione dai primi anni Ottanta e chi allora svolgeva attività di progettazione in realtà affrontava le stesse problematiche di oggi; non è cambiato il “ruolo” sono profondamente cambiati gli “attori” e le dinamiche che regolano rapporti tra di loro. Oggi ci sono giovani professionalmente molto preparati e i rapporti con gli amministratori sono di minor sudditanza. La vera differenza è negli uomini». Tra le opere realizzate nel suo curriculum appaiono diversi edifici scolastici, premiati a livello nazionale anche per l'attenzione alla sostenibilità. Al cospetto di un'utenza particolare come quella dell'infanzia, chiamata ad utilizzare esclusivamente spazi di socialità nei quali è indispensabile il massimo comfort in termini di salubrità, illuminazione, coibentazione, come si muove il progettista alla ricerca della qualità architettonica? E quali sono le peculiarità dei casi imolesi da lei seguiti? «L’architettura caratterizzata da un uso attento delle risorse e delle tecnologie, tende ad ottimizzare un principio fondamentale: quello della massima efficienza con il minimo dispendio di energie. Possiamo
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quindi chiamare questo rapporto “sostenibile” perché caratterizzato da regole di “comportamento” non distruttive e finalizzate a uno sfruttamento controllato delle risorse. La scuola è la casa dei bambini e quindi il luogo che ospita “abitanti” particolarmente delicati, sensibili, ricettivi e preziosi. Un’architettura consapevole pone loro al centro del progetto e le loro più sottili esigenze; la scuola è il luogo dove si costruisce l’idea di comunità e, quindi, il valore di “appartenere”. Lo spazio e la sua forma sono anch’essi elementi con un profondo valore educativo e orientativo nella crescita dell’individuo e la scuola in particolare è il luogo di sollecitazione delle capacità cognitive ed espressive del bambino. Forse tutto questo, insieme, è bioarchitettura. Abbiamo sempre attuato la politica dei piccoli passi, cercando di consolidare di volta in volta i piccoli successi e le certezze acquisite nelle esperienze precedenti. Così ogni progetto ha rappresentato un gradino in più da superare, una sorta di “invito a salire” nell’ottimizzazione progettuale, migliorando in innovazione e consolidando le conoscenze acquisite. La partecipazione poi con gli insegnanti e i bambini nel processo di progettazione è sempre stato al centro delle nostre attività».
Da Cesena idee e progetti sulle ali di De Gayardon Lo studio associato De Gayrdon Bureau, nato a nel 2013 a Cesena si avvale delle competenze di tre giovani componenti, i fondatori Sara Angelini e Alessio Valmori, e Dania Marzo che rafforza il collettivo professionale nel 2014. Tutti e tre architetti, sono decisi, dopo esperienze a livello nazionale ed europea (presso Cobe, Big, Msu Planning,
Startt, Behles und Jochimsen Architekten, Ipostudio, in Scandinavia e Germania), a costituire un nuovo laboratorio di idee e progetti che utilizza lo strumento dei concorsi per mettersi alla prova con il contesto contemporaneo. Oltre l'attività di studio e ricerca Angelini e Valmori sono docenti del corso di Semiotica dell’Arte allo IED di Firenze. Per quanto riguarda la loro filosofia progettuale scrivono: «Interpretiamo il progetto come opera aperta e collettiva, definita su due livelli: un movimento creativo concepito come salto in avanti “nel vuoto” ed un processo pragmatico di semplificazione e organizzazione. È all’incontro tra queste due dimensioni che i saperi e le esperienze, maturate anche in altri contesti disciplinari (arte-semiotica-scienza-tecnologia), sono in grado di produrre spazi che amplificano l’immaginario e offrono letture del reale molteplici e stratificate: un processo di continua esportazione, contaminazione e intensificazione» – svelando il senso del nome del loro studio – «Patrick de Gayardon era un pioniere nel design e nell’uso della tuta alare. Ha perseguito il sogno di volare per tutta la vita: era uno stuntman, un inventore e un visionario». Il Bureau partecipa nel 2013 a diversi concorsi sugli spazi pubblici italiani: piazze, parchi pubblici, itinerari ciclo pedonali. Tra questi, il progetto di un parco agri-urbano a Bellusco (MB), il progetto di un parco sportivo a Verrone (BI), il percorso ciclo-turistico lungo il Lago di Varese (VA) e il progetto per il waterfront di Gabicce (PU). Nel gennaio 2014 partecipa al team di lavoro per il Progetto Definitivo di rigenerazione degli spazi pubblici alla Martella (Matera) all’interno del Piano Nazionale Città, raccogliendo la sfida di un’ innovazione dei quartieri periferici sorti attorno al centro urbano nel primo dopoguerra. Nel giugno 2014 lo studio è chiamato a partecipare alla Biennale di Venezia con il progetto di ricerca sulla città di Milano Marittima
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come paradigma della città turistica. Il progetto, che contempla sia la fase di ricerca, sia la realizzazione dell’istallazione all’interno delle Corderie dell’Arsenale - sezione Monditalia, è un condensatore di esperienze e tipologie che si materializza in un teatrino diorama di circa 3m di larghezza. Nell’ agosto 2014 il Bureau vince il secondo premio per la riqualificazione della piazza di Kragero in Norvegia: il progetto incrocia le esigenze di uno spazio contemporaneo, mutevole e scenografico con l’eredità della città natale di Edward Munch, realizzando un’ essenziale piattaforma urbana. Contemporaneamente lo studio è invitato per partecipare al concorso di idee su preselezione per la piazza del mercato a Neustadt am Kulm, in Baviera. L’immaginario proposto per il Marktplatz è un “Magic Carpet”, un paesaggio a fasce che coinvolge i fronti strada e disegna un’ estensione dello spazio domestico sulla piazza pubblica. Nell’ ottobre 2014 lo studio partecipa con il video Urban generic, una collezione/catalogo di immagini, alla mostra Describing Architecture 2014, promossa dall’Irish Association di Dublino. Nel maggio 2015 de Gayardon Bureau vince il primo premio al concorso di idee per la Riqualificazione di una discarica in Austria a Wiener Neustadt. Si tratta di un progetto a lungo termine, che copre un tempo di circa trentanni e che coniuga un approccio ambientale e tecnico con una sensibilità evocativa e spettacolare nei riguardi del sito di progetto. Il progetto è stato selezionato e ha ricevuto il 3° premio nel concorso Ri.U.So, promosso dal Cnapp e Saie 2015. Nel giugno 2015 partecipa al concorso di idee Think Space - Rivitalizzazione degli spazi pubblici di Zagabria. Il bureau immagina come device di riattivazione degli spazi pubblici la nascita di un canale televisivo che occupa gli spazi residuali in determinati appuntamenti
orari. La città è vista come un palinsesto che può essere riscritto, stratificando le esperienze e le memorie collettive. Nell’agosto 2015 lo studio è selezionato alla seconda fase del concorso d’idee per la riqualificazione del waterfront e della passeggiata lungo canale di Senden, Germania. Nel dicembre 2015 lo studio è Runner-Up nel concorso internazionale Europan 13 - The adaptable city 2 con un progetto di riqualificazione per la città di Marl, nella Ruhur tedesca. Il progetto, in collaborazione con lo studio La prima stanza, affronta il difficile tema della riconversione e rifunzionalizzazione di una miniera in chiave green. Nel Dicembre 2015 lo studio è invitato tra i 5 finalisti a produrre una proposta per l’installazione estiva nel piazzale del MAxxIi- Museo per le arti del XXI secolo a Roma all’interno del programma internazionale YAP 2016 - Young Architecture Program. Nel Febbraio 2016 il progetto Norwegian Weather è finalista e passa alla seconda fase del concorso internazionale Nordic Build Challeng 2016. La sfida è quella di creare una nuova piazza e un hub in un quartiere dell’interland di Oslo.
Nelle imagini, i rendering di progetti per concorsi nazionali e internazionali firmati dallo studio cesenate De Gayardon Bureau, che saranno illustrati durante la conferenza “SeDici Architettura”.
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AZIENDE INFORMANO
TBT: qualità e affidibilità
per comfort, sicurezza e risparmio energetico
45 anni di esperienza e invenzioni nel campo di infissi e serramenti, dalla controfinestra a “èstella” Da ben 46 anni, l’azienda TBT di Ravenna è leader nel settore infissi e serramenti. Capacità di precorrere le tendenze del mercato, con un’attenta selezione dei prodotti, personale tecnico-commerciale altamente qualificato, servizio di post-vendita completo ed estremamente professionale. Questi sono i principali punti di forza di un gruppo che ha fatto della “qualità a ogni costo” una vera e propria filosofia rimasta inalterata negli anni. Tutto è nato il 1° gennaio 1970, su iniziativa dei tre soci fondatori – Lorenzo Tarroni, Golfrano Taroni e Rover Bedei – che già operavano nel settore come commerciali. Da subito TBT si fa conoscere come specialista delle tapparelle, oltre che per la fornitura di articoli di falegnameria, in anni caratterizzati da un forte sviluppo edilizio, correlato anche agli alberghi della riviera che in quel periodo stavano sorgendo. «L’azienda si è sviluppata nel tempo grazie al successo di diversi prodotti chiave – racconta il direttore commerciale Riccardo Caroli –. Le intuizioni più fortunate sono del socio amministratore Lorenzo Tarroni, molto abile nell’individuare i prodotti e nel proporli al momento giusto. Oggi l’azienda dà lavoro a una cinquantina di persone fra di-
pendenti e professionisti artigiani per le installazioni». Ripercorrendo la storia della TBT, tanti sono i prodotti che hanno fatto epoca, grazie al forte gradimento del pubblico. Il primo in assoluto, quello che ha cambiato le abitudini quotidiane di tante persone, è stata senza dubbio la cosiddetta controfinestra, ossia la parte in vetro che si mette fuori dall’infisso per proteggere la casa da un punto di vista termico. «In quel periodo di austerity, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta – ricorda Caroli –, la gente era costretta a spostarsi a piedi il sabato e la domenica. Facendo di necessità virtù, per la prima volta, si fa strada l’idea del risparmio energetico all’interno della propria abitazione. Il nostro prodotto ha avuto subito un boom incredibile: grazie al semplice passaparola, le richieste si moltiplicavano. Eravamo tra i primi in Italia a proporlo e tra i primi installatori». Forte di quel primo successo, l’azienda inizia ad ampliarsi sia sotto il profilo dell’organico che della sede. Sorta inizialmente in via Faentina a Ravenna, si sposta gradualmente nella nascente nuova zona artigianale delle Bassette, ricca di uffici e capannoni». Nella prima metà degli anni Ottanta a imporsi sono poi le tende da
Grandi vetrate coibentanti per mantenere il caldo in inverno e il fresco in estate, senza rinunciare alla vista del bel giardino in ogni stagione
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Innovazione tecnologica dei serramenti finalizzata ad ottenere un perfetto isolamento e, dunque, anche un consistente risparmio energetico.
sole e le zanzariere, che rispondono al bisogno di proteggersi dai caldi raggi solari e dai fastidiosi insetti estivi. TBT capisce che sta cambiando il modo di vivere la casa e che le persone sentono sempre più l’esigenza di godere dell’ombra di un balcone o di un terrazzo, magari prima di allora inutilizzati. Con l’aumento di episodi di microcriminalità, arrivano anche i primi presidi di sicurezza, cancelli e cancelletti e porte blindate. Un’altra tappa fondamentale è la commercializzazione della prima finestra ad alta tecnologia in legno lamellare, a marchio Panto, nella seconda metà degli anni Ottanta. Tra il 1990 e il 1992, TBT avvia la collaborazione con un importante produttore europeo con sede in Austria, Internorm, attualmente leader di serramenti che ha conosciuto un forte sviluppo a partire dal 2000. Tra i prodotti offerti vi erano le prime finestre in pvc, oggi sostituite da finestre in pvc, legno e alluminio sempre più avanzate e da altre ipertecnologiche. Negli anni “fortunati” dell’ediliza, dal 1998 al 2006, TBT si è imposta con la sua ampia varietà di prodotti di qualità. E come spesso accade, la trovata geniale – destinata a tracciare le linee del futuro – è arrivata nel 2008, quando si cominciavano a
sentire i primi segnali della crisi: il progetto èstella. Una vera e propria sfida. Una tapparella, davvero unica nelle sue caratteristiche. In alluminio estruso di grande spessore, la sua esclusiva struttura a stecca intermedia microforata ha una duplice prerogativa: grande sicurezza contro possibili intrusioni e un comfort non raggiungibile con nessuna delle tapparelle classiche. Il microforato, infatti permette di aerare gli ambienti, regolare a piacere la luce o l'ombra, avere maggior visuale verso l'esterno mantenendo tutta la privacy di casa propria, oltre a funzionare efficacemente come zanzariera. Per installarla non è necessario nessun lavoro in muratura: èstella è dotata, infatti, di guide apposte che possono venire montate sia exnovo, sia in quelle già esistenti. Una volta che la tapparella si appoggia al davanzale, si mette in moto un meccanismo ostruttivo che ne impedisce il sollevamento dall’esterno. «Con questa grande novità, TBT dice definitivamente addio alla tapparella tradizionale – afferma Caroli -. Dal suo lancio in poi, è iniziato un nuovo periodo: pur mantenendo la nostra gamma di prodotti dagli infissi alle porte blindate, èstella è diventata il nostro fiore all’occhiello per il mercato dei rivenditori, in
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grado di catturare l’attenzione anche delle migliori riviste di settore. L’introduzione di questo nuovo prodotto sul mercato va di pari passo con l’evoluzione della strategia commerciale: mentre sul resto della nostra gamma siamo principalmente orientati al cliente finale del territorio, con il progetto Estella ci siamo affacciati sul mercato nazionale, andando alla ricerca di rivenditori in grado di coprire un po’ tutte le regioni italiane. L’apprezzamento del pubblico ci ha molto stimolato, al pari di quello degli operatori del settore». Basti pensare che gli stand TBT sono sempre molto affollati alle fiere – fra cui quella internazionale di Stoccarda – grazie alla curiosità suscitata dai vari prodotti giudicati innovativi. Con èstella, TBT ha in questi ultimi anni realizzato una piccola rivoluzione nel campo dei sistemi di tapparelle avvolgibili, creando un vero e proprio impatto spartiacque nel mercato che aveva estrema necessità di ritrovare uno spazio nell’architettura moderna e nel mondo della ristrutturazione creando una gamma esclusiva e particolarmente versatile che abbraccia il campo della sicurezza, del design e del comfort. La gamma
Il sistema innovativo Mikra per proteggere dal sole ma anche per mantenere il riserbo domestico.
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èstella è particolarmente articolata e offre oggi 11 differenti modelli adatti a tutte le esigenze sia di protezione solare e privacy ma soprattutto in termini di sicurezza contro i tentativi di effrazione, grazie a una serie di brevetti e modelli industriali regolarmente registrati, che offrono un sistema a bloccaggio automatico anti sollevamento sempre in funzione. Èstella Classic è la prima della rivoluzionaria generazione di avvolgibili, che comprende un sistema di aerazione, una particolare gestione di luce e aria a un sistema di lama microforata anti-insetti che rientra a scomparsa per assicurare il buio quando serve. In tutto e per tutto simile alla Classic, ma ‘maggiorata’, è èstella Plus pensata per le problematiche di superficie estese. Quest’ultima si caratterizza infatti per i profili maggiorati (circa doppi, come doppia è l’area del microforato) e rinforzato che le permettono di essere perfettamente performante su dimensioni impensabili con normali tapparelle: fino a 4,50 metri. L’ideale, dunque, per grandi vetrate, garage e vetrine di negozi. Un’evoluzione di prestigio della filosofia èstella, è il modello Delux, destinata a chi vuole – in casa propria – una privacy davvero totale. Il microforato, invece che a ‘scomparsa’, è protetto da alette sollevabili (come in persiane e veneziane) che regolano il flusso luce/aria. Le alette, anche nell’angolo di apertura massima (circa 45 gradi), impediscono in maniera totale la visuale dall’esterno. Oltre a queste proposte, TBT offre all’interno della sua linea èstella una serie di ulteriori modelli altamente innovativi, tra cui il sistema Mikra che mette il design delle linee pulite e rigorose e l’eccezionale versatilità della regolazione della luce e dell’oscuramento al primo posto, offrendo un comfort di protezione solare unico nel suo genere. Che progetti ha TBT per il futuro? «Continuare a stupire – racconta Caroli – i nostri clienti, i nostri collaboratori, i nostri amici rivenditori, con prodotti sempre all’avanguardia e ad alto contenuto tecnologico. Molti di loro si sono accorti che non ci fermiamo mai, continuiamo a migliorare i nostri prodotti e servizi. Su quest’ultimo punto, la nostra attenzione, negli ultimi anni,
si è spostata anche sull’aspetto della qualità dell’installazione dei prodotti. I tempi sono cambiati rispetto agli anni Settanta e oggi la concorrenza è agguerrita anche grazie al web. Sono in tanti a offrire prodotti ad alto contenuto tecnologico, ma ciò che ci contraddistingue è l’attenzione che prestiamo all’installazione e all’assistenza post vendita. Molto spesso infatti, se non si curano tutti i particolari, il rischio è di abbassare il livello di performance dei prodotti stessi. TBT è in grado di garantire una posa in opera certificata e di chiudere il percorso di fornitura di prodotti di alto livello con la massima professionalità. Senza contare che, seguendo le indicazioni di molti architetti, progettisti e operatori di settore, prestiamo molta attenzione alla scelta dei materiali di montaggio, cambiandoli in base al tipo di fabbricato in cui vanno installati, per non creare incongruenze tra le qualità tecnologiche del prodotto e il risultato finale. Tutto ciò ci differenzia dalla massa dei competitor che, forse costa di meno, ma non garantisce al cliente finale tutti i giusti accorgimenti necessari per raggiungere il migliore e più efficace risultato».
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Quando l’Architettura resiste agli sfregi e alle iniquità della Storia Una graphic novel firmata Gerardi, Pantaleo e Molinari traccia un percorso attraverso i luoghi e gli edifici italiani simbolo di una «bellezza civile e democratica». Ponendo l’accento su una progettazione indirizzata a funzioni sociali a di tutela del territorio di Domenico Mollura Le immagini della deliberata distruzione di monumenti antichi che sempre più spesso affollano le cronache provenienti da teatri di guerra (ultima in ordine di tempo le demolizioni del sito archeologico di Palmira, in Siria), testimonia il livello semantico che una creazione dell’uomo può raggiungere, non necessariamente all’interno della civiltà che l’ha generata. Distruggere un antico edificio,
magari a favore dei mezzi di comunicazione globali, significa non solo disprezzare l’oggetto distrutto ma anche mettere a tacere un potenziale nemico. Le opere d’arte, infatti, possono andare oltre il semplice significato tecnico ed estetico e diventare un vero e proprio manifesto dei valori della libertà. Tale carattere, da sempre riconosciuto alle opere scultoree, ai dipinti, ai libri, alla musica è tutt’altro che estraneo anche alle opere di architettura; tuttavia la corsa all’immagine di copertina, al design originale ad ogni costo,
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alla prevalenza dell’architetto sulla sua opera, ha fatto smarrire i sentieri resistenti intrapresi dell’architettura anche nella sua storia più recente. Nel corso dell’edizione 2015 di Komikazen, Festival Internazionale del Fumetto di realtà di Ravenna è stata presentata la graphic novel Architetture resistenti per una bellezza civile e democratica che si è fatta carico di restituire all’architettura uno dei suoi più profondi e misconosciuti significati. Il volume, edito nel 2013 da Becco Giallo, ha per sottotitolo Viaggio nei luoghi e negli edifici italiani simbolo di un’architettura diversa e nasce dalla collaborazione tra Marta Gerardi e Raul Pantaleo (Tamassociati, studio veneziano attento fin dalla sua fondazione alle implicazioni civili del fare architettura) e Luca Molinari storico e critico dell’architettura che fondono le loro tre diverse sensibilità (grafica, architettonica e storico-critica) in una scoperta itinerante nella quale alla storia dell’architettura si intreccia la storia civile del Paese. Dalla deriva razziale del fascismo alla speculazione edilizia, dalla strage di Ustica al terremoto dell’Aquila: lungo le 128 pagine del volume si rilegge cosa siamo stati, si tratteggiano le occasioni perse e quelle che è possibile ancora cogliere per conservare identità e giustizia, senza tralasciare l’uso consapevole del territorio. Il racconto ruota attorno alle vicende della giovane cronista Beni Ponti, messa alle strette dalla direzione del proprio giornale sul quale denuncia scomode verità creando non pochi imbarazzi. Per costringerla a rinunciare alle proprie inchieste le viene affidato un incarico “impossibile”: intervistare l’Architettura, della quale Beni non ha alcuna conoscenza. Lo spaesamento iniziale lascia il campo alla professionalità della brava cronista che aiutata da Zò, il fidanzato architetto, rimane nel solco del giornalismo civile, incorniciando la sua inedita attività nella ricerca delle “Architetture Resistenti”, ovvero quelle opere che per il loro spirito hanno posto delle solide barriere alla “barbarie”. Il riferimento alla resistenza non ha accezioni “nostalgiche”, piuttosto rimanda al suo significato letterale richiamando la capacità di «opporsi a un’azione, contrastandone l’attuazione e impedendone o limitandone gli effetti» (Treccani). I primi due esempi concreti sembrano enunciare i contorni dell’intera ricerca. Si tratta di sue opere – quasi contemporanee – presenti ai due estremi della Penisola: il Parco Archeologico di Selinunte (Trapani) e il Civico Museo della Risiera di San Saba (Trieste) “argini” alla barbarie perpetrata contro la Bellezza e contro l’Umanità. A Selinunte il paesaggista fiorentino Pietro Porcinai progetta (1973) per l’ingresso al sito archeologico una barriera naturale che isola i reperti salvaguardandoli dall’espansione “irriverente” del disordine, rappresentato dall’edilizia speculativa. Beni, complice una foto esposta nel suo studio, richiama la propria memoria e la visita al parco di Selinunte fatta da bambina, mescolando la fantasia e i chiari ricordi di un «luogo difficile da dimenticare». La ricerca delle opere Resistenti, tuttavia, necessita di una “guida” che tramite Zò viene individuata in uno storico dell’Architettura (Luca Donato) il quale affiancherà la protagonista con i suoi preziosi suggerimenti. L’incontro tra i due a Trieste offre lo spunto per la visita alla Risiera di San Saba, l’unico campo di concentramento italiano con forno crematorio, «luogo parlante in un assordante silenzio», il cui progetto di allestimento è stato elaborato da Romano Boico nel 1975. Un topolino che attraversa la strada diviene, nell’immaginazione di Beni (e nella matita dell’illustratrice), visione/citazione del Maus di Art Spiegelman (prima edizione italiana nel 1989). Beni rincorre questa visione mentre il punto di vista dell’illustrazione s’innalza vertiginosamente – fino a divenire verticale – e i colori tendono a una tetra monocromia. È il buio, il silenzio squarciato da Maus che si annulla in un’alta ed esile fiamma; «angoscia e inquietudine» cedono a un messaggio di speranza, oltre il
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valore testimoniale di quelle alte e «surreali» mura la natura riprende il suo corso. Il racconto si fa poi serrato, Beni viene affascinata da ogni nuova scoperta di cui puntualmente da riscontro nei suoi articoli. Le pagine e la grafica veicolano il racconto su più dimensioni e si fanno dense di prospettive architettoniche (tra le quali la filiale di Banca Etica a Padova, Tamassociati) e oggetti di design contribuendo alla delicata ricchezza della sceneggiatura. La resistenza prosegue con le visioni utopiche di Adriano Olivetti e la Fabbrica dal volto umano progettata a Pozzuoli da Luigi Cosenza (1951-54); con i volumi arcobaleno dell’Auditorium de L’Aquila (Renzo Piano, 2012), che con la musica spezza l’immobilismo della ricostruzione; con il Museo della Strage di Ustica (Bologna, Christian Boltanski, inaugurato nel 2007), con il giardino degli incontri del carcere di Sollicciano (Firenze, 1985-87, ultimo progetto di Giovanni Michelucci) per finire con il progetto organico di Giancarlo De Carlo per i Collegi Universitari di Urbino (1962-1983). Nel racconto trovano spazio anche le riflessioni del prof. Donato che intravede nell’Architettura contemporanea uno smarrimento di valori, uno svuotamento di contenuti che vadano al di là dei tecnicismi sfrenati, dell’immagine a effetto. Le sue considerazioni su un’Architettura densificata e asfissiante tracciano un orizzonte oscuro che tuttavia può essere nuovamente illuminato accettando le reali sfide del prossimo futuro e esplicitate con i temi della sostenibilità e della condivisione: progettare è un atto “definitivo”, che comporta per l’architetto privilegio e responsabilità, concetto quest’ultimo posto alla base della filosofia di Tamassociati. Alla fine del racconto Beni riesce ad affrancarsi dalle ipocrisie del suo giornale, grazie al suo talento che le permette di intervistare le architetture resistenti che rappresentano una svolta e un punto di partenza per una nuova avventura. I “titoli di coda” scorrono – in una sorta di percorso circolare – nuovamente nel paesaggio siciliano, attraverso il Parco Lineare di Marco Navarra, e riecheggiano le parole di Peppino Impastato, martire dalla libertà, la cui lucidità, attualità e urgenza non sono state minimamente scalfite dalla barbarie e dal tempo: «Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di or-
rendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità: si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore». La graphic novel lancia un messaggio preciso e, con il medium del fumetto, racconta la storia civile dell’architettura italiana del secondo novecento, con alcuni salti nel nuovo secolo. Fuori dai cliché della manualistica ufficiale riscopre il valore più profondo di alcuni progetti noti e meno noti. È per questo che Architetture Resistenti rappresenta, grazie anche ai riferimenti bibliografici riportati al termine del racconto, un’utile lettura non solo per gli “addetti ai lavori” e gli studenti di architettura.
Nelle immagini le tavole a fumetti dedicate a progetti di architetti “resistenti” come Renzo Piano (nella pagina precedente), Giovanni Michelucci (in alto) e Giancarlo De Carlo.
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L’imprenditore illuminato Un ricordo di Valerio Maioli Con i suoi progetti innovativi e le sue invenzioni ha dato luce ai siti archeologici di Pompei, Agrigento, Siracusa, Paestum di Paolo Bolzani Abbiamo aperto il 2016 con la commemorazione di Filippo Monti. Oggi ricordiamo un valente imprenditore ravennate che ha legato il proprio nome al tema, splendido se era uno come lui a trattarlo, dell’illuminazione, in particolare degli spazi pubblici. Due mesi fa ci ha lasciato Valerio Maioli, cedendo a qualcosa di più tenace di lui, e chi lo conosce sa che il personaggio era, come si direbbe, uno “tosto”. Un curriculum d’eccezione è sui nostri tavoli ha dimostrarlo. Uomo di cultura non soltanto tecnica, Maioli era uno che guardava sempre avanti a sé, a quelli che si potevano forse intravedere oggi come i problemi veri di domani. Aveva fondato la sua prima azienda a Ravenna nel 1977, rivolta all’installazione di impianti elettrici, elettronici e di telecomunicazioni, che si evolse nel 2003 nella società per azioni Valerio Maioli spa, con sede principale a Ravenna e in una società a responsabilità limitata con sede a Napoli. Le vicissitudini del lavoro lo avevano costretto a chiudere l’azienda nel 2012, ma aveva continuato a lavorare nel campo dell’illuminazione come consulente, come era avvenuto per il Darsena Open Show di luglio 2015. Eccelleva infatti nell'illuminazione d'avanguardia, per esempio legata alle aree archeologiche: Pompei, Agrigento, Siracusa e Paestum. «È stato il primo presidente dell’Associazione “Amici di RavennAntica” – racconta la presidente Elsa Signorino – anzi, era un’operazione che avevamo costruito insieme a lui e aveva svolto il suo ruolo in maniera eccellente. Ci aveva coinvolto in memorabili esperienze a Paestum e in Sicilia, dove aveva alcuni dei suoi splendidi lavori. A Ravenna aveva firmato le belle illuminazioni delle nostre prime mostre a San Nicolò». Era diventato famoso anche per l’impegno nella Formula 1, in particolare con l'illuminazione in notturna del Gran Premio di Singapore nel settembre 2008, la prima corsa disputata con luci artificiale. Per questo era stato premiato a Colonia, Londra e Montecarlo, come riconoscimento di un’indubbia maestria nell'innovazione tecnologica in questo settore.
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Nelle immagini, alcuni scorci delle illuminazioni scenografiche ideate dalla Valerio Maioli spa di per alcuni importanti siti archeologi e monumentali italiani. In alto a destra, il tempio di Era (o di Nettuno) nell’area delle rovine di Paestum; qui sopra, un colonnato a Pompei ; a destra, la basilica di San Vitale a Ravenna; in basso, piazza Plebiscito a Napoli. In alto a destra, due dispositivi illuminanti realizzati dalla società di Valerio Maioli per proiettare la luce in esterno. Nella pagina a sinistra, in basso, un ritratto dell’imprenditore ravennate recentemente scomparso.
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IL PERSONAGGIO
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A Ravenna ricordiamo le “sue” illuminazioni del complesso di San Vitale e della Zona Dantesca, ma oggi preferiamo soffermarci a parlare del suo ultimo progetto, che riguardava l’innovazione tecnologica del Teatro Alighieri di Ravenna. Il 2 settembre 2015 Maioli consegna al sovrintendente Antonio De Rosa una corposa relazione, in cui indica quali prospettive il teatro potrebbe realizzare per rimanere in linea con le altre grandi istituzioni teatrali in campo nazionale e internazionale. Le proposte sono anticipate da un breve excursus “storico” sul suo rapporto con il mondo dello spettacolo teatrale. Risale infatti al 1984, come lui stesso racconta, la sua proposta di trasmettere in diretta all’Ospedale di Ravenna lo spettacolo Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller con Gastone Moschin in scena. L’idea venne ripetuta con successo due anni dopo con Luciano Pavarotti al Comunale di Modena e quattro anni dopo alla Rocca Brancaleone di Ravenna: «collegammo con ponti a microonde la Rocca alla Loggetta – racconta Maioli – dove allestimmo un cubo di circa 5x5 metri di lato e, di fronte a tre dei suoi 4 lati, montammo altre tribune provvisorie capaci di oltre 2500 posti a sedere oltre a tre sistemi video proiezione e di diffusione sonora, uno per ogni faccia del cubo». Nel 1998 Maioli viene chiamato dal Soprintendente per i Beni architettonici di Napoli architetto Giuseppe Zampino, per studiare la grande illuminazione di Piazza del Plebiscito e del centro storico della città. Anche in quel caso realizza un ponte radio tra il teatro San Carlo e la piazza, estesa a case di riposo e carceri. «All’interno del teatro – riprende il suo racconto - tra il primo e il secondo ordine di palchi vennero installate delle telecamere remotate, i cui movimenti erano silenziosissimi», cosicché gli operatori potevano comandarle direttamente da una regia posta sotto il palcoscenico. Maioli ricorda inoltre il concerto del 27 giugno 2004 all’Alighieri con la filarmonica della Scala diretta dal Riccardo Muti, trasmesso in diretta da Maioli via satellite in piazza del Popolo di Ravenna e con il Conservatorio S. Pietro a Majella di Napoli, dove il Maestro aveva studiato da ragazzo con Vincenzo Vitale. La diffusione in streaming consente, questo Maioli lo crede fermamente, un aumento del pubblico oltre a quello in sala, prefigurando anche importanti risvolti sociali, in quanto trasporta suono e immagini anche in luoghi particolari, come ospedali, case di cura, case di riposo e carceri. Ma si pensi anche all’idea di poter assistere ad un concerto importante come quello dei Berliner semplicemente accedendo tramite una password. Una caratteristica della Relazione Maioli 2015 per il rinnovo impiantistico dell’Alighieri riguardava l’attenzione rivolta «alle persone disabili non presenti in Teatro». Perciò proponeva di dotare lo spettatore di uno smartphone su cui ricevere informazioni sul programma trasmesso in diretta dal Teatro con i sottotitoli nella lingua desiderata e con l’audio appropriato alla sua eventuale disabilità; in gergo si definisce il captioning
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dello spettacolo, vale a dire la diffusione di sottotitoli di un testo teatrale o di un brano musicale. Proponeva inoltre l’uso di display grafici posti sul palcoscenico in posizioni differenziate, addirittura piccoli monitor da inserirsi nelle poltrone della platea – evidentemente prefigurando un aumento della distanza tra gli schienali - fino alla consegna di occhiali personali per non udenti o non vedenti, dotati di microauricolare personale con cui ascoltare la descrizione di quanto avviene sul palcoscenico e delle scenografie allestite. All’Alighieri aveva proposto anche la sostituzione delle lampadine ad incandescenza poste nel 1991-1992 con altrettante lampade a led. Seguendo il suo consiglio si è recentemente proceduti al totale rifacimento del parco lampade, forte di più di 800 luci, che ha portato ad un risparmio sui consumi pari all’86%. In queste brevi note non riusciremo certo a descrivere compiutamente Valerio Maioli, come anche il suo progetto di realizzazione di un nuovo impianto audio e video in linea con i tempi. Ci vorrebbero altri spazi. Però almeno regaliamoci il piacere di un bel ricordo di un uomo che ha sempre guardato in faccia al futuro, cui purtroppo due mesi fa una malattia maligna ha chiuso la porta di questo mondo, forse per farlo affacciare su uno migliore.
In alto, i faretti utilizzati da Maioli per l’illuminazione notturna dela teatro di Siracusa. A destra, lampade del teatro Alighieri di Ravenna, per cui Maioli aveva studiato recentemente un impianto più efficiente ed ecosostenibile. In basso, tre sequenze del cambio colore di luci subacque realizzate da Maioli a Singapore.
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Sia fatta la luce Ricognizione fra gli artisti che dagli anni ‘50 a oggi hanno utilizzato per le loro opere, tecniche ed estetica della luce artificiale, da Fontana a Naumann di Serena Simoni
L'addio alle lampadine ad incandescenza sostituite da luci a led e da lampadine CFL (leggesi a basso consumo) segnano un profondo cambiamento nelle abitudini di vita del vecchio Occidente. E questo nonostante le perplessità di alcuni sul fatto che queste vecchie ampolline a filamenti siano effettivamente nocive in senso ambientale: fra i dubbiosi c'è Mario Nanni – fondatore di Viabizzuno e superesperto light designer – che dal suo sito web lancia un appello in loro favore, proponendosi di sostenere tesi e ricerche sulle lampadine old style, indicate come capro espiatorio più di un certo disegno commerciale che di vere esigenze ecologiste. Passo quindi a qualche giovane ricercatore la palla e mi oriento ad esplorare il fattore luce nell'arte, non quella pittorica o scultorea (che di luce gli artisti han sempre vissuto) ma quella fisica e tangibile.
Fra i primi ad utilizzarla è stato uno dei più grandi artisti del vecchio secolo – Lucio Fontana (quello dei tagli per intenderci) – che subito dopo al secondo dopoguerra iniziò ad esplorare le possibilità di creazione spaziale suggerite dalla luce. In particolare, è la lampada di Wood o “a luce nera”, inventata da William H. Byler nel 1935, ad interessarlo per la sua possibilità di non essere visibile all'occhio umano ma di resa di fluorescenze e fosforescenze di oggetti tramite i raggi ultravioletti. Non è tanto l'effetto discoteca che l'artista ricerca ma l'interazione fra spettatore e spazio, fra spettatore e opera stessa: chi guarda deve poter entrare nell'opera con la propria dimensione sensoriale, ricreando e partecipando al lavoro creativo. Nel 1949 Fontana realizza a Milano la sua prima opera della serie Ambienti spaziali a luce nera: sono sculture di cartapesta colorata con vernice fluorescente fluttuanti nello spazio della Galleria del Naviglio che vengono illuminati anticipando l'idea che questa sia la vera nuova frontiera dell'arte.
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La collaborazione con gli architetti Luciano Baldessari e Marcello Grisotti fornità all'artista lo spunto per la realizzazione della Struttura al neon del 1951, una scultura aerea allestita alla IX Triennale di Milano e composta da 100 metri di neon che si attorcigliavano sul soffitto dello scalone centrale del Palazzo dell'Arte. Il lavoro crea un effetto sorprendente che supera la divisione fra architettura, scultura e allestimento, restituendo una sintesi fra dinamismo e spazio che sarebbe sicuramente piaciuta ai Futuristi. Di nuovo con Baldessari, che guarda caso deve la sua prima formazione al circolo futurista di Depero, il nostro spazialista allestisce Buchi e segmenti di neon per il cinema nel Padiglione Sidercomit della XXIII Fiera internazionale di Milano (1954), una struttura complessa, formata da due travi parallele che si protendono a sbalzo per 14 metri reggendo un solaio di 113 metri quadri accessibile al pubblico. All’interno della struttura è ospitata la sala proiezioni la cui copertura è realizzata in lamiere dispiegate come due ali: qui Fontana pone un
Nella pagina a sinistra: Lucio Fontana, struttura per la IX Triennialale di Milano, neon, 1951 (ricostruita nel 2010). In questa pagina (dall’alto): due opere di Doug Wheeler. Robert Irwin, Untitled, 1968-69. James Turrell, due prospettive di Skyspace, 1996. In basso a sinistra, installazione di Dan Flavin.
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ARTE CONTEMPORANEA
complesso luminoso a soffitto, caratterizzato da una lamina metallica perforata da buchi, mentre all’esterno realizza un nastro metallico con scritte pubblicitarie. Dopo una pausa di alcuni anni, fra il 1959 e l'anno successivo, è la volta del progetto di un lampadario bicolore – un cubo di luce al neon – realizzato dall'architetto Nicola Amoroso per il Cinema Duse di Pisaro. Di nuovo, e questa sarà l'ultima occasione per misurarsi con la luce, per l'Expo torinese del 1961 Fontana realizza un soffitto tappezzato da una miriade di tubi al neon nella sala delle Fonti di energia, in collaborazione con gli architetti del gruppo GPA composto da Gianemilio e Pietro Monti, e da Anna Bertarini. Questo lavoro sulla luce di Fontana apre la strada agli anni '60, inaugurati dall'invenzione del primo laser in California, messo a punto da Theodore H. Maiman. Data l'usuale collaborazione fra scoperte tecnologiche e arte non è un caso che proprio negli States si sviluppino le ricerche sulla Light Art, un fenomeno che ha diverse sfaccettature a seconda che l'approccio provenga dalla pittura o dal Minimalismo. Nel 1971 all'Università californiana si apre la mostra Transparency, Reflection, Light, Space, in cui si presentano opere di Doug Wheeler, Robert Irwin e James Turrell, artisti che operano con neon e luci fluorescenti insieme ad altri materiali. Le realizzazioni interagiscono con la sensorialità degli spettatori creando opere pittoriche che appaiono senza limite o altre che appaiono quasi dematerializzate, come nel caso di Irwin; ancora più stupefacenti sono gli Skyspaces di Turrell, che apre lucernai sul soffitto degli edifici dando l'impressione che il cielo sia a filo del muro, così come sorprendenti risultano gli ambienti infiniti di Wheeler, che organizza pannelli enormi retroilluminati in modo da immergere gli spettatori in un'aura luminosa e indefinita. Sempre negli Stati Uniti una via che conduce all'uso delle luci è tangente alla ricerca Minimal, in grado di impostare la ricerca sul rigore, la geometria e l'esclusione di qualsiasi concessione a colore o aspetti formali emotivi. Dan Flavin è l'artista che più rientra in questa tendenza grazie alla realizzazione di sculture geometriche
conchiuse da luci elettriche. I suoi lavori prendono più tardi un respiro ambientale mediante l'utilizzo di neon a luce bianca o colori e forme limitati numericamente. I neon vengono utilizzati come moduli tanto da mantenere il lavoro nell'ambito della scultura o al massimo spostandolo sul problema della relazione fra questa e lo spazio. Più avanti, Flavin sarà sempre più coinvolto in progettazioni ambientali e site-specific che utilizzano il medium del neon e della luce colorata per dilatare, restringere, modificare la percezione degli spazi mediante operazioni di grande precisione e astrattezza. Il valore della luce applicato al verbale e alla comunicazione rappresenta invece un'altra variante approfondita piuttosto da Keith Sonnier e Bruce Naumann, artisti statunitensi che condividono l'esperienza post-minimalista, la performance e la light art. Naumann è stato un artista poliedrico che nel corso di tutta la sua attività ha impiegato non solo il neon ma materiali e tecniche del tutto diversi. Colpiscono le sue scritte luminose che si stagliano sui muri delle gallerie e musei in una forte iconicità. Decontestualizzate a livello comunicativo, le scritte aprono un varco semantico inquietante e – come le sue sagome al neon colorate – destabilizzano del tutto i significati. Quando l'artista si orienta maggiormente verso opere ambientali l'interpretazione non si sposta di molto: piuttosto che esplorare lo spazio, anche questi lavori – come Green Light Corridor (1970) – sembrano interrogare la percezione dello spettatore, il suo limite claustrofobico. Queste esperienze di Light Art non hanno avuto un limite territoriale e negli stessi decenni – fra i '60 e i '70 – sono rintracciabili nel lavoro di numerosi artisti europei. Fra gli italiani occorre ricordare Mario Merz, uno dei primi ad utilizzare il neon per rappresentare i numeri della serie Fibonacci, capace di rendere visibile la variabile matematica di crescita insita nel mondo animale e vegetale. Per quanto l'artista dichiari che «il neon rappresenta il segno infinito della luce e l'impronta della sua forma letteraria», nei suoi lavori il neon ha la stessa valenza materica di altri materiali impiegati come vetro e pietre: l'importante è sceglierli nel contesto giusto o nella migliore valorizzazione dell'interpretazione simbolica che l'artista vuole esprimere. Appartenente alla stessa generazione di Merz, Joseph Kosuth usa il neon per rileggere i passaggi salienti dalla filosofia e dalla letteratura moderna e contemporanea: The Language of the Equilibrium, realizzata nel 2007 sull'Isola degli Armeni a Venezia, è un'installazione che si basa su testi realizzati in neon bianco che circondano la chiesa, la torre campanaria e il muro sul confine fra terra e laguna. L'isola si trasforma in questo modo in un'architettura illuminata da parole. Da questa generazione a quelle più recenti, la luce nelle sue variabili tecniche è definitivamente entrata a pieno diritto fra i media utilizzati nell'arte contemporanea. La britannica Tracey Emin ha usato diffusamente il neon nel suo lavoro fin dagli inizi degli anni '90, piegando il mezzo – generalmente impiegato nelle insegne
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pubblicitarie di bar o nella segnaletica pubblica – ad un utilizzo del tutto intimo. Le sue frasi luminose a colori pastello, tracciate da scritture che imitano la calligrafia, descrivono un universo interiore di emozioni – paure, passioni, insulti o dichiarazioni d'amore – tenendo sempre l'individualità dell'artista al centro, quella che costituisce il fulcro degli interessi di tutta la sua produzione artistica. Ancora il verbale è il centro dell'opera luminosa di un altro inglese, Martin Creed, che possiede un approccio minimalista in grado di eliminare il superfluo pur mantenendo fattori di humour. Le sue scritte al neon sono lapidarie interrogazioni sulla esistenza e sulle strutture invisibili che determinano la vita degli individui. Alcune volte giganti, come in Mothers (2011), oppure di medie dimensioni, le parole che si spengono e accendono continuamente sono utilizzate alla stregua di materiali e oggetti da esplorare che concentrano emozioni contrastanti in un attimo. Ancora caratterizzato dall'utilizzo della luce è il lavoro del milanese Patrick Tuttofuoco, indirizzato verso tematiche come il gioco, l'imprevisto, l'autobiografia o l'analisi del paesaggio urbano, il tutto mescolato tranite suggestioni fantastiche. Come un futurista o un dadaista di nuova generazione, Tuttofuoco attinge alla Pop attualizzata dalle esperienze dei videogiochi: plastiche colorate, carte rifrangenti o smalti industriali vengono impiegati nei lavori così come Il neon. Le parole illuminate a parete, questa volta si impegnano a giocare sugli opposti, magari capovolgendo una frase italiana – io sono noi – in una frase in portoghese (eu soi nos). Qualche altra volta si tratta invece di prelevare una scritta al neon dal suo luogo originario, operando sulla memoria e l'autobiografia: è questo il caso della scritta luminosa del Luna Park Varesine, collocata un tempo vicino al paese dell'artista e poi demolito con tutto il parco giochi, che nel 2005 è stata restaurata da Tuttofuoco e portato a nuova vita.
Nella pagina a sinistra (dall’alto): Bruce Naumann, installazione, Biennale Venezia, 2015. Bruce Nauman, Five Marching Man, 1985. Dan Flavin, The Nominal Three (To William of Ockham) 1963. In questa pagina (dall’alto): Mario Merz, untitled (A Real Sum is a Sum of People), 1972. Mario Merz, Linea, 1991. Due pannelli con testi luminosi di Tracey Emin. Martin Creed, scritta al neon Installazione di Patrick Tuttofuoco.
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Filosofie luminose fra bello e benessere di Sabina Ghinassi All’interno dello spazio domestico spesso il lighting design viene interpretato come un accessorio da definire una volta ultimata la parte progettuale e, spesso, anche l’arredo degli interni. In realtà negli ultimi tempi si sta diffondendo a ragione una nuova interpretazione del lighting design, diventato un elemento fondamentale della progettazione architettonica, sia dal punto di vista compositivo che da quello strutturale, utilizzato dai migliori studi di architettura e interior design per vestire di luce spazi outdoor – piazze, strade, giardini, edifici storici o avveniristiche visioni” contemporanee – sia ambienti indoor, dal terziario agli ambienti della casa. L’Italia da questo punto di vista ha alcuni interpreti d’eccezione di questa differente filosofia. Forse è la radice, geneticamente umanista e rinascimentale nel cuore, di molti designer e progettisti italiani che ha contribuito a costruire un’etica profonda creando una disciplina che unisce architettura e design, storia dell’arte, psicologia, fisiologia e teoria della percezione, fisica ed elettrotecnica, senza dimenticare una conoscenza “ artigianale “ dei materiali. Se da una parte si è sempre più diffusa la necessità di una progettazione integrata per arrivare agli alti livelli qualitativi richiesti dagli edifici, in termini di comfort visivo e risparmio energetico, rendendo fondamentale una progettazione “daylighting” per rendere fluida la relazione esterno-interno, rinforzare i ritmi circadiani, esaltando la luce naturale in modo da aumentare il benessere psicofisico, all’altra parte si investe nel settore illuminotecnico attraverso software specifici in grado di ricreare, anche artificialmente, quella stessa sensazione di benessere, definendo obiettivi che variano a seconda della finalità e della funzione dell’edificio e degli spazi.La luce ha quindi riacquistato uno spessore materico; ha ritrovato le riflessioni di Vitruvio e quelle di Leon Battista Alberti, la densità del “ buio mistico” delle chiese romaniche, il tonalismo di un quadro impressionista di Monet ( a chi non piacerebbe dormire in una stanza attorniata dalle ninfee del giardino di Giverny?) e, gradualmente, si sta allargando alla nostra quotidianità, lungo le strade delle nostre città, dove gli edifici storici o gli angoli più suggestivi, spesso, godono di una progettazione illuminotecnica che mette in risalto nelle ore notturne il loro fascino magico e nelle nostre case, con la complicità di modernissimi software o un’accurata progettazione. Ora la luce può variare durante le ore diurne e durante le notturne, focalizzando le aree secondo i loro usi (il living che deve essere sì illuminato ma prevedere qualche focus su zone specifiche per aumentare l’intimità e il senso di accoglienza o la zona notte deve essere principalmente orientata al relax, alla privacy e al riposo). La luce è in qualche modo diventata il fattore essenziale per la creazione di uno spazio armonico, esterno e interno, non più soltanto un accessorio. Tra i molti protagonisti della progettazione della luce contemporanea, molti, si diceva, sono italiani. Si può partire da Catellani & Smith che, sin dagli esordi alla fine degli anni ’80, recupera un piacere della materia e della luce. Enzo Catellani, progettista affascinato dalla dimensione artigianale e dal lavoro manuale, crea collezioni che, a partire dal primo catalogo Oggetti senza Tempo e poi con Luci d’oro e Tchu Moon degli anni ’90, si muovono sul sottile crinale che divide il design dall’opera d’arte vera e propria, non rinunciando ad una dimensione narrativa e fiabesca e ad una profonda qualità tecnica ed esecutiva. Di Catellani & Smith sono alcune lampade di culto come la famosissima (e copiatissima) Fil de Fer. Contemporaneamente al percorso di progettista, Enzo Catellani inizia anche a curare il light design di edifici importanti come i Magazzini del Sale di Cervia, la Chiesa di Santa Maria dell’Assunta nel bresciano, la Marina di Amsterdam in occasione del suo anniversario e, nel luglio del-
Il lighting design come elemento fondamentale della progettazione architettonica L’esperienza – fra arte, artigianato e tecnologia – di Catellani& Smith e di Mario Nanni/Viabizzuno l’anno scorso, la grande installazione luminosa ospitata, insieme alla riedizione site specific del Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto, all’interno dell’ambiente multimediale Alma Mater creato dall’artista Yuval Avital nella Cattedrale della Fabbrica del Vapore di Milano. Un luogo magico creato dall’incontro dialettico di tre creatori sensibili e profondi, con una comune visione estetica, etica e poetica del mondo. In territori vicini si muove Mario Nanni, “artigiano della luce” e e artista. Il suo brand Viabizzuno è un viaggio altamente solido intorno alla più impalpabile delle materie, che unisce un corpo pragmatico ad un cuore sottilmente mistico nel costruire una filosofia della luce. Sette laboratori di luce e trentadue spazi lampadina nel mondo, una sede a Bentivoglio nel bolognese e un equilibro armonico tra produzione di oggetti e sistemi illuminotecnici, light design, videomapping per grandi eventi e arte contemporanea. Perché a Mario Nanni artista della luce è stata dedicata la grande personale, Luce all’opera, a Villa Panza di Varese, tempio della più importante collezione contemporanea di opere create con la materia luce, da quelle di Bill Viola a quelle di James Turrel e Dan Flavin. Viabizzuno collabora inoltre con alcuni tra i più affermati designer internazionali da David Chipperfield a Claudio Silvestrin, passando da Shigeru Ban e Kengo Kuma, annoverando commissioni internazionali come quelle per il Padiglione 2013 di Sou Fujimoto della Serpentine Gallery di Londra e del Palazzo della Civiltà Italiana di Roma, nuova sede della Maison Fendi. Ma non sono soltanto i light designer a sperimentare l’arte perché capita anche il contrario, con risultati veramente sorprendenti. È il caso di Olafur Eliasson, danese, enfant prodige dell’arte contemporanea (sua l’installazione Weather Project, visitata nel 2003 alla Tate Modern da più di due milioni di persone), che insieme all’ingegnere Frederick Ottesen ha progettato nel 2012 Little Sun, un piccolo sole dal diametro di 12 cm e dal peso di appena 120 grammi, dotato di celle solari e di batteria ricaricabile: Nella pagina a sinistra, alcune installazioni e corpi illuminanti firmati Catellani&Smith e ideati da Enzo Catellani Foto 1: corpo illuminante Fil de Fer. Foto 2: Landscape Rooms (installazione, Bergamo). Foto 3: Nuvole di Luce a Natale (installazione, Bergamo). Foto 4: lampade sospese della serie PK Foto 5: lampada Gold Moon Foto 6: lampada da tavolo della serie PK Foto 7: visione d’insieme dell’installazione Alma Mater (Cattedrale della Fabbrica del Vapore, Milano).
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In alto, due interventi progettati da Mario Nanni (a sinistra) per il Palazzo della Civiltà Italiana di Roma, nuova sede della Maison Fendi e (a destra) per il Padiglione 2013 di Sou Fujimoto alla Serpentine Gallery di Londra. In basso: Little Sun, la lampada portatile a energia solare e batteria ricaricabile, ideata dall’artista Olafur Eliasson e dall’ingegnere Frederick Ottesen; sullo sfondo il Notturno di Varun Almaula.
con 5 ore di carica al sole si ottengono 10 ore di illuminazione “soft” o 4 ore di illuminazione “hard”. Il costo cambia in base all’area in cui il compratore si trova. Circa 22 euro per chi vive in zone ben servite dalla rete elettrica; prezzi dimezzati o quasi nulli per chi vive nei cosiddetti paesi off-grid. Little Sun è un progetto imprenditoriale e insieme etico che vuole formare giovani imprenditori locali e realizzare negozi e piccole aziende, legati alla casa madre, direttamente nei luoghi in cui c’è più bisogno di energia e quindi di lampade. Per Olafur Eliasson la finalità è portare lavoro e tecnologie, trasmettere uno spirito affaristico, sviluppare delle succursali gestite da chi conosce i bisogni delle popolazioni locali, rafforzare le comunità combattendo povertà e immobilismo. Insomma l’arte incontra il design (Little Sun sembra un piccolo girasole) e si muove su territori dominati dall’etica, con la complicità della materia più impalpabile, la luce, che, citando Eliasson stesso, è legata indissolubilmente all’interazione sociale e all’indice di felicità delle nostre vite.
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Principi democratici
tra parentesi?
A proposito del recente disegno di legge di riforma costituzionale di Marina Mannucci
L’11 gennaio scorso, l’aula della Camera ha approvato il disegno di legge costituzionale n. 1429, presentato dal Presidente del Consiglio dei ministri Renzi e dalla Ministra per le riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento Boschi. Il testo sarà sottoposto al Senato e, ad aprile, tornerà a Montecitorio, dove sarà votato, senza possibilità di modifiche, nel suo complesso. A ottobre la riforma costituzionale verrà sottoposta a referendum confermativo. La riforma costituzionale s’incentra su due temi principali: la riforma del bicameralismo cosiddetto perfetto e la revisione dei rapporti tra Stato e autonomie regionali, cui se ne sono aggiunti altri: l’abolizione del Cnel (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro), l’eliminazione delle Province, il rafforzamento dei poteri del Governo in Parlamento ed altri ancora. Per quanto riguarda la parte relativa alla riforma del Titolo V, l’obiettivo dichiarato era di diminuire il contenzioso tra Stato e Regioni: per realizzarlo, si è scelta la strada di tagliare drasticamente i poteri delle Regioni. Infatti, non soltanto molte materie che oggi sono di competenza legislativa regionale saranno centralizzate, ma – in più – il Governo potrà intervenire anche sulle materie regionali «quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale» (modifica al IV comma dell’articolo 117 della Costituzione): in sostanza, ogni volta che lo vorrà. Contro questa riforma costituzionale, il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale ha costituito a livello nazionale il Comitato
per il NO che, a partire dal prossimo aprile, porterà al Referendum di ottobre. Il Comitato in Difesa della Costituzione di Bagnacavallo, il Comitato di Faenza per la Valorizzazione e la Difesa della Costituzione, il Comitato in Difesa della Costituzione di Ravenna, il circolo di Ravenna di Libertà e Giustizia, il Gruppo dello Zuccherificio e Fiom provinciale, oltre a molte cittadine e cittadini che, fin dall’inizio, hanno scelto di farne parte, si sono fatti insieme promotori a Ravenna del Comitato per il No, presentato ufficialmente alla cittadinanza il 1° febbraio scorso. Il Comitato in Difesa della Costituzione di Ravenna ha mosso i primi passi nell’autunno del 2004, per iniziativa di donne e uomini di numerose associazioni ravennati, fra cui Paola Patuelli. Per un approfondimento su questo tema, che implica la concezione pluralistica e partecipativa della democrazia e che quindi ci coinvolge tutt*, incontro e pongo alcune domande proprio a Paola, docente di filoNella pagina a fianco: Federico Patellani, copertina della rivista “Tempo”, n. 22, 5-22 giugno 1946. Sotto a sinistra: seduta dell’Assemblea Costituente. Il discorso d’insediamento del presidente Saragat, 26 giugno 1946, Archivio Fotografico Luce, Reparto Attualità. Il 25 giugno 1946, l’Assemblea costituente elegge presidente Giuseppe Saragat e iniziano i lavori. Il 28 giugno l’Assemblea elegge come capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, liberale indipendente, già Presidente della Camera tra il 1920 e il 1924. Il 19 luglio viene nominata la Commissione dei 75, che ha il compito di elaborare il testo della carta costituzionale da sottoporre all’approvazione della Costituente. Sotto, a destra: l’Assemblea Costituente applaude calorosamente l’annuncio del voto di approvazione della Costituzione, 22 dicembre 1947, Archivio Fotografico Luce, Reparto Attualità.
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tori. E noi, loro figli, continuiamo a chiederlo. Ma per esigere la sua applicazione, la Costituzione va conosciuta. In Italia – invece – è stata per decenni poco conosciuta, anzi, misconosciuta ai più. Anni fa il Presidente Emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro a studenti ravennati che, nell’ambito di un progetto del Comitato in Difesa della Costituzione di Ravenna, lo raggiunsero – a Roma – comunicò un dato che considero di gravità inaudita, che non sarebbe – credo – udibile in Francia, in Inghilterra, in Germania, né, tantomeno, negli Usa, dove al centro della coscienza civile statunitense c’è l’orgoglio per la loro Costituzione, che è la stessa dal 1787: nel corso di più di due secoli non è stata cambiata di una virgola, è stata arricchita, invece, di nuovi diritti. Scalfaro disse ai giovani del dovere di conoscerla, la Costituzione, per poterla applicare e, se del caso, aggior-
Pagina a fianco: le 21 donne alla Costituente, “La Domenica del Corriere”, XLVIII, n. 19, 4 agosto 1946, p. 3: Adele Bei, Bianca Bianchi, Laura Bianchini, Elisabetta Conci, Maria De Unterrichter Jervolino, Filomena Delli Castelli, Maria Federici, Nadia Gallico Spano, Angela Gotelli, Angela M. Guidi Cingolani, Leonilde Iotti, Teresa Mattei, Angelina Livia Merlin, Angiola Minella, Rita Montagnana Togliatti, Maria Nicotra Fiorini, Teresa Noce Longo, Ottavia Penna Buscemi, Elettra Pollastrini, M. Maddalena Rossi, Vittoria Titomanlio. In alto: le ultime due pagine di uno dei tre originali della Costituzione italiana ora custodito nell’Archivio Storico della Presidenza della Repubblica, con le firme del Presidente De Nicola, del Presidente dell’Assemblea Costituente, Umberto Terracini e del Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi. Sotto: prima pagina della Costituzione degli Stati Uniti d’America, 1787, Washington, National Archives.
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PULIZIA PANNELLI FOTOVOLTAICI
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nare, mentre nel Parlamento italiano sedevano – e siedono – parlamentari, non pochi, che non la conoscono. O la disprezzano. Un presidente del consiglio in anni recenti disse: «Governare con questa Costituzione è un inferno». Perché? Perché il governo ha funzioni esecutive ed ha limiti dovuti alla centralità del Parlamento, dove siedono i rappresentanti del popolo sovrano. Da quando, in particolare dall’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, è emerso in modo sempre più evidente il fastidio di molti governanti per questa Costituzione, e la trascuratezza, o il disprezzo, con cui non pochi parlamentari, di forze politiche anche fra loro diverse, si rapportano alla Costituzione, non sopportandola, molti cittadini hanno ripreso in mano la Costituzione, per farla conoscere, nelle scuole e presso l’opinione pubblica, e per potere meglio difenderla». Il presidente emerito della Corte costituzionale e presidente onorario di Libertà e Giustizia Gustavo Zagrebelsky ha lanciato diversi appelli riguardo agli slittamenti costituzionali progressivi avviati nel nostro paese di cui non si è avvertito il significato d’insieme, giudicando l’ultima riforma in campo orientata all’umiliazione del Parlamento nella sua prima funzione, la funzione rappresentativa. Come cambierà la composizione del Senato con la riforma? Come cambieranno le funzioni del Senato? «Zagrebelsky coglie molto bene il segno della “filosofia” della riforma in corso di approvazione. Di nuovo, c’è insofferenza per la centralità della funzione del Parlamento. La nostra è una Repubblica parlamentare. La rappresentanza del popolo è centrale, proprio per l’origine antifascista della nostra Costituzione. Di governi “onnipotenti” che considerano il Parlamento semplice cassa di risonanza di proprie decisioni, l’Italia non ha bisogno, nel senso che la nostra storia è già intessuta, per ragioni che hanno origini lontane nel tempo, di debole unità nazionale, di sfiducia nelle pubbliche istituzioni, di lontananza dalla politica, vista con indifferenziato sospetto. Sfiducia e disinganno sono in crescita, nel nostro paese, che – invece – dopo la Liberazione aveva ripreso fiducia nelle Istituzioni. La Resistenza era stata salutare e il popolo sovrano andava a votare in massa, nei primi decenni della storia repubblicana. Ora la partecipazione al voto è ai minimi termini. Non se ne vede il senso e l’efficacia. Il nuovo Senato sarebbe composto da 100 senatori “nominati” dalle Regioni, con funzioni fra loro contraddittorie. Pochi poteri in alcuni ambiti, troppi – se si pensa che sono senatori “nominati” – per altri, come l’elezione del presidente della Repubblica e dei giudici della Corte Costituzionale, e il voto per le riforme costituzionali. Un Senato ibrido nelle mani dei governi di turno. Strumento docile e non rappresentativo. Se si voleva veramente rendere agile il lavoro del Parlamento aumentandone efficacia e forza rappresentativa, c’era un modo – presentato da tempo con più di una proposta di legge costituzionale – che condivido. Abbandonare del tutto il bicameralismo, mantenere una sola Camera che sia pienamente rappresentativa e autorevole. E questo sarebbe possibile in modo chiaro, lineare e con una legge elettorale rispettosa della Costituzione, come ha richiesto la Corte Costituzionale con la sentenza n. 1 del 2014. Perché non si è scelta questa strada? Perché avrebbe dato più forza al Parlamento e ai rappresentanti del popolo sovrano»? Gli altri cambiamenti previsti dalla riforma costituzionale? «Vengono aumentati i poteri del Governo, che impone al Parlamento agenda dei lavori e tempi entro i quali debbono essere conclusi. I compiti a casa vanno fatti come dice il capo di turno e nei tempi che il capo impone. Inoltre, tutto questo va “combinato” con la nuova legge elettorale detta Italicum, che non rispetta la sentenza della Corte che citavo prima. È previsto un premio di maggioranza abnorme che potrebbe dare – con un secondo turno che non prevede coalizioni – un’ampia maggioranza a chi, nel paese, è minoranza. Se “madri e padri costituenti” ci sentono, inorridiscono».
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Pensi che sarà importante mobilitarsi per un referendum popolare? «Sarà doveroso mobilitarsi, per chi ritiene che la Costituzione possa sì essere migliorata, ma nel solco di quella del 1948. Che vuole dire rappresentanza, partecipazione, pluralismo, responsabilità civile diffusa. Dovremo mobilitarci con un primo Referendum, nell’autunno 2016, per dire No a questa riforma Costituzionale. Deve essere un No a una riforma che riteniamo sbagliata, non un plebiscito su un governo – i governi cambiano, nel tempo – o su un Presidente del consiglio. La Costituzione è fondativa di una comunità nazionale, che deve esprimere una Costituzione costruita attraverso condivisione e non attraverso minacciosi diktat di una maggioranza in un Parlamento eletto – fra l’altro – con una legge elettorale incostituzionale. Situazione di gravità – di nuovo – inaudita. E con un secondo Referendum, probabilmente nella primavera del 2017, per cancellare la legge elettorale Italicum, di nuovo una legge che consideriamo anticostituzionale. Abbiamo firmato in tal senso ricorsi in 19 tribunali italiani, e depositato due quesiti referendari. Stiamo affrontando un impegno immane. È necessaria un’ampia mobilitazione. La sorte della Repubblica è di nuovo nelle mani, come nel 2006, di una cittadinanza che non intende arrendersi. Vogliamo trasmettere alle nuove generazioni una Costituzione e una Repubblica all’altezza di quella disegnata dai Costituenti dopo la liberazione».
Sopra: Howard Chandler Christy, Scena della firma della Costituzione degli Stati Uniti, 1940, olio su tela, cm 609,6×914,4, Washington D.C., Campidoglio, Camera dei rappresentanti, Scala orientale. Sotto: vignetta di Altan.
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Costruire sul costruito La rigenerazione rappresenta la capacità della società di innovare senza distruggere le radici su cui si regge di Marco Turchetti * Ormai da anni sul territorio nazionale, vi sono città che sono diventate importanti laboratori, in cui diversi livelli di collaborazione fra le fondazioni scientifiche e culturali e le Amministrazioni Comunali, hanno prodotto sperimentazioni innovative nella pianificazione urbanistica e progettazione architettonica, improntate sulla qualità del vivere e dell’abitare in città sostenibili. Oggi anche da noi l’indirizzo per il governo del territorio, in funzione anche di ciò che sarà previsto dalla riforma della legge urbanistica regionale, si dovrà incentrare sul risparmio di suolo, sulla valorizzazione del modello di città addensata, invertendo la tendenza espansiva periferica e puntando sulla qualità delle aree infraurbane dismesse, superando la dialettica centro/periferia con la generazione di nuove centralità. Le linee guida di un nuovo masterplan cittadino devono partire da una considerazione: «il clima è cambiato e bisogna reagire al consumo di aria, acqua e territorio facendo diventare il concetto di limite una risorsa e opportunità per lo sviluppo sostenibile». Le qualità urbana e architettonica sono inoltre intese come le condizioni che rafforzano la qualità dell’abitare. Ma la vera scommessa per il futuro è rappresentata dall’intervento sulla città consolidata e sulla città storica sintetizzabile con lo slogan: “costruire sul costruito”. Il “riuso”, parola che sottende diversi significati come riqualificazione,
rigenerazione urbana, e rifunzionalizzazione, dovrà rappresenta il cuore del nuovo masterplan, con l’obiettivo di coniugare più necessità: la salvaguardia e la valorizzazione della memoria e della qualità urbana, la piena e razionale utilizzazione del patrimonio edilizio esistente e la potenzialità di implementazione delle cubature esistenti per migliorare l’efficienza energetica della città. Ravenna ha aderito al “Patto dei Sindaci” per la riduzione delle emissioni di anidride carbonica e a tal fine ha approvato il “Paes”, Piano d'Azione per l'Energia Sostenibile, in cui si prevede una riduzione delle emissioni di CO2 di oltre il 20% al 2020, ma per raggiungere e superare questo obbiettivo sarà anche necessario che il patrimonio edilizio esistente sia risanato energeticamente per portarlo almeno allo standard minimo di classe C, mentre i nuovi edifici dovranno ottenere la classe A o B. Per raggiungere questi obiettivi occorre probabilmente inserire norme per i risanamenti energetici degli edifici esistenti che prevedano premi in cubatura definibili “bonus energia” al fine di superare i problemi di ordine economico per le ristrutturazioni. Tuttavia la complessità del tema della riqualificazione, che tocca aspetti tecnici, finanziari, amministrativi, legali e di mediazione condominiale, richiede che vengano messe in campo strategie in collaborazione tra tutti gli attori coinvolti: istituzioni, associazioni di categoria, pubblica amministrazione, politica e proprietari. Il progetto architettonico degli edifici da risanare energeticamente deve essere inteso come strumento di interpretazione urbana in un momento
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storico in cui il ruolo sociale e culturale della disciplina architettonica è sempre più in crisi e l’alleanza tra architettura e città si è deteriorata. La città è il luogo per antonomasia dell’accumulazione, della stratificazione materiale di progetti e storie ed è una continua successione di idee prodotte nel passato, rimosse, riscoperte e riattualizzate. Per questo motivo nell’affrontare il risanamento di edifici con l’ampliamento di cubatura nel centro storico o in quei brani di città caratterizzati da elementi di valore in quanto testimonianza storica o naturalistica del territorio, non si può intervenire con le stesse procedure previste per i nuovi edifici o per quelli degli anni ’60 o ’70 del secolo scorso senza particolare qualità architettonica. Per l’applicazione del “bonus energia” nelle zone A si dovrà perciò pensare di introdurre l’obbligo di redigere piani di recupero e di applicare specifiche indicazioni da prevedere a tutela degli insiemi per gli edifici inseriti in ambito storico. Infatti il concetto di “ensamble” appare più adatto e supera quello di “monumento” per farsi carico della complessità fenomenica del territorio che non può essere risolto con un banale concetto di intangibilità dell’insieme sottoposto a tutela, ma permette l’innescarsi di un processo di conoscenza / conservazione / valorizzazione di un brano di città. Lo sviluppo urbano sostenibile, in questa fase di recessione economica, può inoltre rappresentare una fondamentale opportunità di lavoro per molte imprese artigiane. I soggetti più attivi dovranno essere coinvolti in un patto trasversale pubblico/privato; la politica inoltre dovrà poter decidere nei tempi necessari e fattibili richiesti dall’imprenditoria per avviare iniziative che abbiano ricadute occupazionali rilevanti. Importante è anche l’aspetto sociale e la ricerca dell’accordo all’interno dei condomini. Il “networking” e la comunicazione efficiente tra attori e verso i proprietari è fondamentale per la riuscita del programma. Un altro importante progetto può essere rivolto al risanamento energetico di alloggi sociali di proprietà pubblica. Esistono in città centinaia
In alto, una veduta aerea della Darsena di città di Ravenna, da ormai due decenni al centro di pianificazioni e progetti di riqualificazione, minimamente realizzati. Le decine di ettari di aree ex industriali dismesse che la compongono restano ancora oggi uno straordinario laboratorio per futuri processi di rigenerazione urbana e riuso (anche temporaneo), fondamentali per la crescita della città, evitando il consumo di territorio ancora non intaccato da infrastrutture.
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ABITARE L’HABITAT
di appartamenti e con il “bonus energia” potrebbero essere realizzati ulteriori decine di alloggi, elevando di un piano gli edifici esistenti. Complessivamente per Ravenna potrebbe voler dire investimenti per diverse decine di milioni di euro. Dato che operiamo sulla città esistente, dobbiamo ricominciare a lavorare con il progetto urbanistico che ci siamo dimenticati. Il piano attuativo si è trasformato in una grossa pratica edilizia. Invece i programmi complessi ci hanno insegnato che dobbiamo saper gestire la molteplicità dei valori in gioco. L’Europa chiede d’investire proprio su questi tipi di progetti urbani, che comprendono la fattibilità economica e l’individuazione degli attori, e d’inserire nei processi di trasformazione l’aspetto gestionale. Occorre dunque ripartire da qui, in parte riprendendo i “vecchi attrezzi” dei piani particolareggiati e dei piani attuativi per ambiti urbani definiti, onde superare in via definitiva l’azzonamento e la predeterminazione di assetto. La città non può essere riqualificata tutta insieme, in un solo disegno e in un solo tempo. Modificare le condizioni di convivenza significa anche investire in qualità e promuovere comportamenti In alto, il Bosco Verticale, grattacielo del quartiere Porta Nuova Isola di Milano, progettato da Stefano Boeri. L’architetto è anche l’autore di un masterplan per la Darsena di Ravenna, che ha ispirato in parte il Poc del comparto urbano tuttora da riqualificare e riscattare dal degrado. In basso, uno scorcio dalla testata della Darsena di città di Ravenna.
urbani; il termine “urbanità” è positivo: richiama la cortesia, il decoro, il sapere vivere insieme. Tutti si scagliano contro il consumo di suolo ma in realtà le pubbliche amministrazioni che ne hanno fatto una bandiera di governo del territorio sono ancora pochissime, è giunto il momento di dire basta. Anche se il conto finanziario – grazie agli introiti degli oneri di urbanizzazione – serve per erogare servizi alla cittadinanza, ciò non vale il danno ambientale che stiamo producendo. Però dobbiamo essere propositivi: non possiamo soltanto fermare il consumo di suolo, né continuare a tagliare gli investimenti, bensì dotare le amministrazioni delle risorse per progettare la riqualificazione della città. Dobbiamo premiare chi lo fa e penalizzare chi non lo fa. Occorre agire sulle scarse capacità di investimento e sull’inadeguatezza, culturale prima che tecnica, dei progetti per le città. Mettere inoltre in moto misure di fiscalità, occorre unire programmazione di spesa e programmazione territoriale e urbanistica, rendere coesa la filiera pubblica e far convergere gli interessi generali e quelli individuali, pensare ai profitti e non alle rendite, alla redistribuzione dei valori urbani prodotti. Il che significa anche dire che le risorse spendibili vanno a chi s’impegna a usarle per certi tipi d’interventi e non per altri.
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Buone dinamiche per gli affitti “Tiene” il comparto turistico Notevole il turn-over nelle abitazioni mentre i canoni delle locazioni sono stabili o in lieve flessione di Roberta Bezzi
Il mercato residenziale degli affitti gode di buona salute, soprattutto nel comparto turistico, dove la crisi economica ha lasciato meno strascichi. «I prezzi sono pressoché stabili – afferma il presidente di Fimaa Ravenna, Pierluigi Fabbri –. La vivacità del momento è legata in particolare a un certo turn-over per esigenze personali o di lavoro: ci sono le famiglia che sono già in affitto e ricercano un immobile più spazioso, chi invece è reduce da una separazione e cerca una nuova casa, le nuove coppie che non possono affrontare un acquisto e chi si è traferito in città da poco. Da segnalare inoltre che si è alzata nel tempo la tipologia ricercata:
oggi, si ricerca una casa recente o ristrutturata, ben accessoriata e che consenta un buon risparmio energetico». Sul fronte prezzi, più cautela da parte di Fiaip che rileva – nell’ultimo anno – un calo dei canoni di locazione che oscilla fra il 5 e il 10% in provincia di Ravenna. «In genere – spiega Pier Paolo Baccarini, presidente Fiaip Romagna – la percentuale del calo è proporzionale al periodo in cui gli immobili rimangono sfitti: maggiore è questo periodo e maggiore è la disponibilità del proprietario ad accettare proposte più basse». Entrambe le associazioni sindacali stimano comunque il prezzo dei mono-bilocali dai 300 ai 600 euro al mese, mentre quello dei trilocali dai 450 ai 700 euro. Buone le notizie sul fronte delle locazioni turistiche: nel complesso, i lidi ravennati hanno ‘tenuto’ grazie anche al bel tempo dell’estate scorsa che ha garantito
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una certa tranquillità. Senza trascurare il fatto che i cali più vistosi – anche oltre il 30% – dei canoni di locazione turistica si erano già registrati negli anni passati. «Il contratto di locazione a canone libero – spiega Fabbri di Fimaa – è il più diffuso e usato. Tutto è lasciato alla libera contrattazione tra le parti, che determinano l’importo del canone. La durata minima è fissata per legge 4 anni + 4 anni. Ma se conduttore e locatore sono entrambi privati, si ricorre spesso al contratto a canone concordato con il corrispettivo stabilito in accordi territoriali tra le organizzazione degli inquilini e quelle dei proprietari. Il canone è quindi inferiore ai prezzi correnti di mercato per favorire gli affitti, e il legislatore prevede agevolazioni fiscali per tutti». Secondo i dati raccolti da Fiaip, circa l’80% dei contratti di locazione a uso abitativo nella provincia di Ravenna sono stipulati con “la cedolare secca”, un’opzione questa spesso associata alla forma contrattuale a canone concordato – utilizzata in più di sei casi su dieci – che permette un regime fiscale agevolato. «Se si associa l’opzione della cedolare secca al canone concordato – commenta Baccarini –, i proprietari degli immobili pagano la metà della tassazione grazie a una aliquota fiscale che si ferma al 10%, contro il 21% propria del caso di contratto a canone libero e, al contempo, consente agli inquilini di ottenere canoni più bassi rispetto a quelli di mercato». Va detto inoltre che il canone concordato obbliga il proprietario a presentare non solo l’attestato di prestazione energetica ma anche copia dei certificati di conformità dell’impianto elettrico e dell’impianto di riscaldamento, garantendo in questo modo la massima tranquillità sullo stato degli impianti degli
> Asppi e la tutela dei piccoli proprietari Sin dalle sue origini, che risalgono agli anni Cinquanta, l’Asppi – Associazione Sindacale Piccoli Proprietari Immobiliari si occupa prevalentemente della gestione dei contratti di affitto e di assistenza e consulenza. In provincia di Ravenna, gli associati sono calati negli ultimi quattro anni, assestandosi a 1.500 a Ravenna e a 1.300 nel territorio tra Faenza e Lugo. «Il motivo è certamente correlato all’introduzione della cedolare secca – spiega il presidente provinciale Silvio Piraccini –, ma anche al fatto che con la crisi economica è aumentata la concorrenza da parte delle agenzie immobiliari. Si rivolgono a noi soprattutto piccoli artigiani e commercianti che hanno investito sul mattone: in genere hanno da una fino a un massimo di tre case. Molti di loro hanno solo un appartamento di cui i figli non hanno bisogno, da mettere a reddito. Prima della crisi, avere un immobile era un affare perché, non solo si guadagnava grazie all’affitto, ma anche attraverso la continua rivalutazione dello stesso. Oggi, invece, spesso si affitta per non vendere una casa il cui valore potrebbe essere stato di molto ridimensionato dal crollo dei prezzi. C’è però da dire che, in località marittime come Marina di Ravenna e Punta Marina, avere un immobile da locare è più appetibile che in città. Guardando a Ravenna, la zona in cui i prezzi degli affitti sono più bassi è quella attorno a via Tommaso Gulli dove sorgono il 70 per cento delle case popolari». Tra le consulenze Asppi, molto richieste sono quelle degli avvocati, soprattutto in caso di morosità, fenomeno in leggero aumento. Il sindacato dispone inoltre di un paio di amministratori condominiali, di un Caf di esperti fiscali sulla casa e di una immobiliarista che si occupa direttamente degli affitti ma anche di compravendite. In tema di rivalutazione degli alloggi, Asppi si sta confrontando con le diverse associazioni di inquilini per stipulare nuovi accordi territoriali – gli ultimi risalgono al 2009 – che consentano di avere incentivi nel stipulare contratti concordati base alla certificazione energetica della casa. L’obiettivo è cioè di farla diventare un parametro per aumentare il prezzo del canone, al pari di garage, ascensore, portoncino blindato, etc.
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immobili concessi in locazione. In materia di contratti locativi residenziali, Fimaa sta chiedendo al governo – a livello nazionale – il canone concordato con cedolare secca anche per le società, e non solo fra privati, e la possibilità di estenderlo anche al comparto residenziale. In un contesto fiscale-burocratico sempre più complesso, l’agente immobiliare deve essere sempre attento e aggiornato per rappresentare agli occhi dei clienti un professionista in grado di gestire la locazione – e le sue innumerevoli eventualità – dall’inizio alla fine, consigliando sulla tipologia di contratto più adatta, sugli articoli dell’accordo da modificare, sulla registrazione telematica così come su proroghe, chiusure e cessioni. Una caratteristica dell’attuale mercato delle locazioni è quella di essere molto altalenante nelle durate. «I lavori precari, le convivenze di breve durata, le difficoltà economiche alle quali gli inquilini non rie-
scono a fare fronte – precisa il presidente Fiaip Romagna – rendono spesso difficile qualsiasi programmazione e determinano una durata del rapporto locativo che nel 50% dei casi non arriva alla scadenza del primo periodo di locazione, di solito fissato in tre anni. L’agente immobiliare svolge un importante ruolo anche dal punto di vista sociale perché può aiutare le parti a rinegoziare i termini del contratto. In molti casi, infatti, un abbassamento del canone di locazione può rappresentare la soluzione migliore per garantire una continuità al rapporto contrattuale, rimodulato sulla base delle nuove esigenze. “Continuità” significa dare stabilità a una famiglia, evitare ai bambini un nuovo trasloco, poter continuare a fare affidamento sui servizi di sempre, mantenere i propri punti di riferimento mentre si affronta un momento difficile».
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Editore Reclam Edizioni & Comunicazione srl . viale della Lirica 43 . 48124 Ravenna . Iscrizione al Tribunale di Ravenna n. 1240 del 8/11/2004 . Redazione 0544.271068 . redazione@trovacasa.ra.it . Pubblicità 0544.408312 . info@trovacasa.ra.it . ISSN 2499-2550
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