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n. 106 MAGGIO 2016

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contenuti 04 18 28 38 46 58 62 66 74

casa bella casa

storia e territorio

Ravenna magica: abitare la storia nella dépandance di una casa antica _____________________________________________________ di Paolo Bolzani

Vivere la natura, dalle “strade bianche” di campagna all’esuberanza della primavera ____________________________________________________ di Pietro Barberini e Cetty Muscolino

Russi, vicende di una terra di cuori indomiti e di autentici patrioti ______________________________________________________ di Chiara Bissi

città e quartieri

grand tour

La Ravenna di Antonioni Un bosco “bianco” nel deserto “rosso” ______________________________________________________________ di Alberto Giorgio Cassani

idee e progetti

Il ruolo sociale dell’architettura L’esperienza in Africa e Italia dello studio Tamassociati _______________________________________________________ di Domenico Mollura

design e lifestyle

Le forme e i valori del sharing design I progetti di Matali Crasset _____________________________________________________ di Sabrina Ghinassi

spazi della cultura

città e società

Piccole biblioteche libere e condivise negli angoli della città __________________________________________________ di Marina Mannucci

«Non si piange sulla propria storia, si cambia rotta» [Spinoza] ______________________________________________________________ di Marina Mannucci

abitare l’habitat

Per una tutela del clima a partire da casa, cibo e mobilità ___________________________________________________________ di Marco Turchetti

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fotografie maggio 2016


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edizione di Ravenna

Controcopertina

Per accedere ai piani del nobile palazzo settecentesco nel centro di Ravenna appartenuto a Carlo Ascanio Rasponi, si sale una scala ornata con sobria eleganza da un parapetto a pilieri in ghisa immersa nella luce proveniente da un grande lucernario ellissoidale. L’edificio storico, oltre a ospitare la famiglia propietaria, riserva come B&B di fascino alcune suite in grande stile.

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Direttore responsabile: Fausto Piazza Consulenza redazionale: Paolo Bolzani Collaborano alla redazione: Pietro Barberini, Roberta Bezzi, Chiara Bissi, Alberto Giorgio Cassani, Serena Garzanti (segreteria), Maria Cristina Giovannini (grafica), Sabina Ghinassi, Marina Mannucci, Domenico Mollura, Cetty Muscolino, Guido Sani, Serena Simoni, Marco Turchetti. Progetto grafico: Quadrastudio - www.quadrastudio.info Restyling grafico: Gianluca Achilli

Magazzino per archiviazione e custodia documenti Nuovo magazzino per deposito mobili e arredi Gestione magazzini e piazzali

Referenze fotografiche: Alberto Giorgio Cassani, Pietro Barberini, Paolo Genovesi, Barbara Gnisci, Maurizio Montanari, Fabrizio Zani (e altre citazioni in pagina). Redazione: tel. 0544.271068 - redazione@trovacasa.ra.it

Editore:

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CASA BELLA CASA

La Ravenna magica del centro storico Abitare la storia nella dépendance di una casa antica Nel numero di aprile abbiamo illustrato un caso emblematico di uno storico insediamento residenziale e produttivo, eretto nelle colline del faentino già toscano e riportato a nuova vita, mantenendo una parte residenziale e adibendone un’altra a riposo dei viaggiatori amanti dell’atmosfera intima e vissuta di una casa antica. Oggi vorremmo segnalare un episodio analogo per destino, ma collocato nel magico centro di Ravenna, in una dimora già abitata da una delle più famose famiglie della storia della città. Questo ci fornisce l’occasione per riprendere un filone che avevamo lasciato vari anni fa nel b&b di piazzetta Gandhi (vedi Cronache e racconti di architettura, pp. 225-226).


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Grande stanza al piano terra con suite .

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CASA BELLA CASA


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di Paolo Bolzani

Il viaggiatore diretto verso nord, che ha lasciato da poco alle proprie spalle la torre civica, giunto all’altezza di vicolo Padenna probabilmente non si accorgerà – forse per l’understatement della riservata imago urbana ravennate – della facciata di Palazzo Rasponi Bonanzi, che da via Girolamo Rossi raggiunge via Zanzanigola, passando per una piccola corte interna. Né peraltro potrà sapere che fino al 1881 via Rossi era nota come “strada di San Giovanni Battista”, dal nome della chiesa omonima, ricostruita nel 1683 con la facciata barocca. In un frammento di papiro risalente al tempo degli Esarchi bizantini la chiesa è indicata come S. Johannis ad Naviculam, per la presenza di una barca che collegava le due sponde del Padenna, il corso d’acqua che scorreva da nord a sud tra due argini ora segnalati dalle coppie di vie Rossi/Zanzanigola, IV Novembre/Matteotti, proseguendo fino a Porta Sisi/Porta San Mama. Dalla corruzione dialettale del nome latino deriverebbe Sân Svân a navigula, contratto in Zan zan igola, da cui si sarebbe formato il nome attuale di via Zanzanigola, che un tempo era molto più lunga, in quanto giungeva fino a via Ponte Marino accanto alla chiesetta di San Giacomo. A quei tempi la via era però nota come “vicolo San Crispino”, a sua volta derivato dalla scomparsa chiesa di San Ursicino, che mutò il proprio nome nella consuetudine popolare con l’arrivo di una confraternita di calzolai, il cui patrono è il giovane martire Crispino (G. Morini, Stradario storico, p. 316).

Questo è il palazzo di Carlo Ascanio Rasponi, padre di quell’Andrea i cui figli Carlo e Caterina sarebbero stati adottati da Gaetano Bonanzi nel 1808, dando origine al ramo dei Rasponi Bonanzi. Da uno sguardo agli spazi interni tutto ciò che vediamo ci rimanda al Settecento, con la memoria rivolta alla fine del secolo precedente e a tratti a sopite epoche precedenti, qualche aggiunta ottocentesca, mentre gli interventi più recenti si portano ai primi anni Settanta, con qualche ritocco nel 2015

A sinistra: il salotto di ingresso dei padroni di casa . In alto a sinistra: la corte interna con torretta a colombara. In alto a destra: l’interno della torretta a colombara.

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Il palazzo di via Rossi fu dimora di Carlo Ascanio Rasponi (G. Rossi, La Città dei Rasponi, p. 38), padre di quell’Andrea i cui figli Carlo e Caterina sarebbero stati adottati da Gaetano Bonanzi nel 1808, dando origine al ramo dei Rasponi Bonanzi. Da uno sguardo agli spazi interni tutto ciò che vediamo ci rimanda al Settecento, con la memoria rivolta alla fine del secolo precedente e a tratti a sopite epoche precedenti, qualche aggiunta ottocentesca, mentre gli interventi più recenti si portano ai primi anni Settanta, con qualche ritocco nel 2015. Entriamo da via Rossi, nella parte ora prevalentemente adibita a b&b. Siamo accolti da un androne passante, ritmato da alcune volte a crociera che conduce ad una piccola corte, mentre procede disimpegnando coppie di ambienti a destra e sinistra e una scala centrale, il cui innesto nell’androne è presidiato da una coppia di cavalli rampanti con sella e finimenti, realizzati in legno colorato e dall’aspetto informato ad una storica foggia orientale. Tra gli ambienti al piano terra emerge una suite intitolata a Galla Placidia, ornata da una serie di singolari archi antichi che si immergono nel pavimento e da un più recente solaio in putrelle e voltine in mattoni a vista. Nell’angolo a fianco di una delle due grandi finestre che si affacciano sulla strada è ancora visibile una riparazione, effettuata sulla voltina a seguito del crollo causato da una bomba sganciata nel corso della seconda guerra mondiale. Saliamo la scala fino al primo piano dove ora si trova la sala colazioni, mentre ammiriamo la sobria eleganza del parapetto a pilieri in ghisa ornata e la qualità della luce proveniente da un grande lucernario ellissoidale. Al piano nobile si trova l’ambiente di maggiore rappresentanza di tutto il palazzo: una suite intitolata alla coppia imperiale ritratta nei cortei musivi di San Vitale, al cui centro troneggia un grande

In breve raggiungiamo la casa dove abita Claudio. Accediamo ad un atrio accogliente, coperto da un solaio in legno ad assito, con doppia orditura e trave rompitratta centrale. È arredato con gusto dalla sua compagna Donatella, abbinando una credenza seicentesca in legno chiaro, impreziosita da una bella tarsia raffigurante un palazzo con torrette cuspidate e bandiere, affiancato da una chiesa. Il mobile è accompagnato da una coppia di sedie di stile coevo, mentre un portaceri da altare inaugura l’ampliarsi della sala con i divani disposti lungo le pareti

Il soggiorno con sala da pranzo dei padroni di casa.

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CASA BELLA CASA Risaliti alcuni gradini si perviene ad una sala da pranzo sorprendentemente passante tra zona notte e giorno, ma ben organizzata attorno ad un grande tappeto persiano centrale, ai cui bordi si dispongono un frattino coronato di sedie rivestite da lunghi teli chiari, un grande armadio del Seicento - “totemico” per chi giunge risalendo la scala e in cui si cela la piattaia - e infine una inedita consolle ad “altarino”, composta da due leggiadre colonnine veneziane settecentesche a sostegno di una lastra di cristallo ad angoli stondati, ornata da una abat-jour in stoffa chiara, un mazzo di fiori e un set da tè in argento

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letto a baldacchino. Le pareti sono dipinte con un tono – riposante ma anche energizzante – verde salvia tendente al malva, cui fa da contrappunto cromatico complementare una robusta incorniciatura perimetrale e le passamanerie e tappezzerie dei sofà e della coltre e dei cuscini del letto, intonate al rosso del pavimento in cotto. Alle pareti una ricca cimasa barocca in legno a foglia d’ora, specchiere, applique di gusto settecentesco e l’immancabile opera di Giulio Ruffini, i cui quadri adornano molte delle stanze del palazzo. Da una porta situata a fianco del letto si accede ad un disimpegno, che introduce a una piacevole sorpresa in cui si svela uno dei temi che oggi si vorrebbe in realtà raccontare. Il bagno è risolto da una leggiadra boiserie di radica e accoglie sopra il suo parquet una regale vasca in marmo di fine XVIII secolo, che riprende il tema iconografico del possente sarcofago in porfido da ormai cent’anni ospitato nella cella superiore del Mausoleo di Teodorico. L’abbinamento è notevole, complice un semplice ma sapiente gioco di luci e specchi. Chi è l’autore di questa e di tutte le altre boiserie che ritroveremo nel palazzo? Il suo nome è Battista Masoli, falegname e geometra, che acquista il Palazzo alla fine degli anni Sessanta del Novecento e lo restaura all’alba del nuovo decennio. Allorché si imbatte nella cappella gentilizia sita a fianco dell’ampia stanza che ora è mutata in suite, la trasforma in un sontuoso bagno di legno, realizzando personalmente il rivestimento di tutte le pareti in radica, e plasmandola con diligente abilità in opera compiuta, seguendo le indicazioni di Monica Zecchi Boldi, interior designer un tempo docente a Venezia, la cui madre allora gestisce un negozio di antiquariato in via Corrado Ricci, davanti al Circolo dei Forestieri. Battista è sposato con Oride Guerrini, che al tempo dei fatti che stiamo narrando è titolare del negozio “Rondoni” di abbigliamento con sartoria in piazza dei Caduti, molto rinomato fino agli anni Novanta. I figli di Oride e Battista sono Anna e Claudio, che abitano in quella che un tempo era la dépendance del palazzo, affacciata su via Zanzanigola. Scendiamo e attraversiamo la corte interna, che scopriamo sorvegliata da una pregevole torretta laterale a colombara in mattoni a vista e foggia settecentesca, mentre al centro campeggia un tiglio monumentale che immerge le proprie radici nell’alveo del vecchio Padenna. In breve raggiungiamo la casa dove abita Claudio.

Sopra: le camere da letto, matrimoniale a sinistra, della figlia a destra. Qui a destra: tinello accanto alla cucina, con nicchie angolari settecentesche.


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Accediamo ad un atrio accogliente, coperto da un solaio in legno ad assito, con doppia orditura e trave rompitratta centrale. È arredato con gusto dalla sua compagna Donatella, abbinando una credenza seicentesca in legno chiaro, impreziosita da una bella tarsia raffigurante un palazzo con torrette cuspidate e bandiere, affiancato da una chiesa. Il mobile è accompagnato da una coppia di sedie di stile coevo, mentre un portaceri da altare inaugura l’ampliarsi della sala con i divani disposti lungo le pareti. Saliamo una prima rampa e raggiungiamo un disimpegno da cui si può entrare a sinistra in una saletta da pranzo di servizio, caratterizzata da due nicchie settecentesche, di cui una volta quella orientale era un caminetto (nella quale scopriremo si occulti il monitor TV) e dalla quale si procede verso la cucina. Svoltando a destra invece, saliti altri gradini, si perviene ad una sala da pranzo sorprendentemente passante tra zona notte e giorno, ma ben organizzata attorno ad un grande tappeto persiano centrale, ai cui bordi si dispongono un frattino coronato di sedie rivestite da lunghi teli chiari, un grande armadio del Seicento – “totemico” per chi giunge risalendo la scala e in cui si cela la piattaia – e infine una inedita consolle ad “altarino”, composta da due leggiadre colonnine veneziane settecentesche a sostegno di una lastra di cristallo ad angoli stondati, ornata da una abat-jour in stoffa chiara, un mazzo di fiori e un set da tè in argento.

Sopra: il bagno della camera matrimoniale. Nella pagina a fianco, il bagno della stanza al primo piano con rivestimento in boiserie e riproduzione in scala del sarcofago del Mausoleo di Teodorico.


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> Crediti Palazzo Settecentesco comprato da Battista Masoli Oride Guerrini

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Ristrutturazione fine anni ‘60: Acmar Interni: Battista Masoli su disegno dell’architetto Monica Zecchi Boldi

Nuovi vetri del B&B con camera d’aria: Vetras Opere di idraulica: I.T.S. di Veltro Claudio e Gabriele

Copie di dipinti e affreschi: Noemi Zavoli

Parte del palazzo che si affaccia su via Zanzanigola:

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Sanitari: Errani Jobs Imbianchino: Gaudenzio Zamboni Idraulico: Francesco Siboni Opere di muratura: Stefano Brighi

Da questo spazio centrale si può procedere verso la zona notte, oppure salire fino allo studiolo del padrone di casa, ricavato sotto la torretta della colombara. Nel disimpegno e nei bagni della zona notte ricompare il tema delle boiserie, rinforzato dal parquet in legno scuro degli anni Settanta rilevigato nel 2015. La camera della figlia è caratterizzata da un letto a baldacchino velato, con dimensioni più ridotte rispetto all’opulenza della suite del corpo dominicale, e da una bella specchiera in legno a foglia d’oro dell’Ottocento. La camera da letto dei padroni di casa ci appare molto curata fin nel minimo dettaglio. Tutto ha origine dal caminetto settecentesco, posto tra le finestre che si affacciano sulla corte e collegato al soffitto da una cornice perimetrale che misura lo spazio e ne arricchisce la qualità. Davanti alla bocca del caminetto Donatella ha allestito una composizione per tavolino tondo e due poltrone ottocentesche, con specchio, fiori bianchi e candelieri che può ben ammirare dalla testiera del letto matrimoniale, mentre ha appena appoggiato un libro sul comodino, il cui bisogno in realtà viene risolto con l’inserimento di un inginocchiatoio seicentesco. Ha inoltre collocato un secondo tavolino tondo, omaggiato da una bella lampada di Venini, per creare una nuova centralità rispetto a quella del caminetto e accrescere il gradiente narrativo dello spazio. Infine entriamo nel bagno, dominato da un’ampia specchiera ai cui lati si trovano collocate due abat-jour ricavate da candelieri settecenteschi da altare e centrata da una decorazione a vetri colorati dal gusto liberty, mentre i raggi di sole entrati dalla finestra si stemperano nel tono miele delle tende in taffetà in un’atmosfera luminosa particolarmente avvolgente. Le foto del servizio sono di Paolo Bolzani

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Strade bianche

La campagna in bianco e nero restituisce memorie polverose e le case misurano il tempo Testo e foto di Pietro Barberini

Le strade bianche sono quelle della pianura romagnola, segnata da antichi tracciati fluviali o dai rettifili della centuriazione. Contrassegni del tempo che attraversano la storia, avvicinando i Celti alle nostre abitudini. Carraie e strade campestri dove l’erba cerca di crescere fra i sassi. Le strade bianche del “mio territorio” di scorribande in bicicletta, non potevo che fotografarle con una Reflex analogica e meccanica, la Contax Rts, che dagli anni Ottanta custodisco gelosamente. La pellicola è una sorta di strada, dove il bianco appare in negativo e soltanto la stampa riporta a una gamma di grigi che pare una tavolozza, cui attingere ricordi che non hanno perso né l’incisività né il colore. Il paesaggio appare popolato laddove i confini si muovono incerti,fra pianura alta e ben drenata e le larghe che scontornano i primi ristagni vallivi. Verso un appiattito orizzonte la terra è dura e vi crescono erbe come la bonaga. Questi cespugli dalle cui radici i Romani traevano decotti purificatori, hanno dato il nome di bunagher a una terra lunga e arida, difficile da redimere a colpi di zappa. Contadini senza terra hanno lavorato e dissodato, mulinando braccia e attrezzi, per magri salari. Venivano dalle Ville e dai paesi vicini in bicicletta, percorrendo stradelli che lasciavano una polvere biancastra sulle gomme. Le biciclette restavano in lunga schiera rovesciate con le ruote alzate verso il cielo, ai bordi dei fossi, fino al termine della giornata. Dalla strada che costeggia il canale Naviglio, oltre Villa Prati, il cui toponimo la dice lunga sulla natura dei luoghi, si stacca una strada che porta alla via Aguta (documentata in un’antica carta del Quattrocento),il suo nome è viazza, quasi a dire “stradaccia” ovvero “ricordo di una via”. È stata asfaltata soltanto dopo gli anni Ottanta e bastavano poche centinaia di metri per ricoprire tutto di bianco; ma lo sfrigolio sotto il battistrada, i piccoli schiocchi, il tintinnio del brecciolino sul metallo del telaio producevano un suono inconfondibile per il ciclista che doveva procedere con destrezza per non scivolare. Chissà se quei dolci rumori sono stati registrati. Se poi arrivava una macchina, finivi dentro una nuvola, prendendo una “tabaccata di polvere” che, da tempo, aveva imbiancato le siepi, rendendo uniforme il colore degli arbusti e spargendo un tipico odore di secco,e diventava anche sinonimo di velocità: “ti ho dato la polvere!”. Il piano inclinato di quella campagna vivente è percorso dal canale Naviglio Zanelli, una volta silente via d’acqua che azionava macine di mulini e consentiva trasporti di cereali e materiali da costruzione. Diritto da Faenza a Bagnacavallo, quando “marca” il cardo faentino, il corso d’acqua si perde a nord di Bagnacavallo in ampie anse che tendono a seguire la linea di massima pendenza, prima di finire direttamente nel fiume Reno, antico corso del Po di Primaro. La pellicola in bianco e nero si è trasformata in strada bianca distesa fra i coltivi, srotolata sul piano di quella tavola ricca di vigne e frutteti. Il “rullino” è ormai scomparso ed anche il biancore della ghiaia appare sempre più raramente fra i campi o dietro un vecchio mulino. L’asfalto costa meno, una mano di bitume cancella manutenzione e paghe di vecchi stradini.

Non c’è più il saper fare di un mestiere che forse è iniziato con i Romani che costruirono la via Emilia, dai basoli costeggiati da ampie banchine in terra battuta e ghiaia fine; il macadam è relegato a passate delibere comunali sui lavori di manutenzione stradale. C’è anche una canzone di Paolo Conte che ricorda il macadam e queste fotografie “analogiche” o, meglio, lontane dalla logica ammansita dalle mode e dai modi. Il paesaggio centuriato riappariva come calco di un sistema di drenaggio delle terre: l’appoderamento poteva proseguire se le acque scolavano, altrimenti si passava oltre. C’era tutta la via Emilia da seguire, da Rimini a Piacenza, ma la centuriazione lughese e faentina riesce ancora a far vivere le dimensioni vastissime di quell’opera. I duemila anni di storia sono impressi nel paesaggio e basta dare un’occhiata a una carta particolareggiata per vedere riaffiorare le “quadre centuriali” nelle dimensioni di una cinquantina di ettari. L’orientamento dei campi, al ter, le terre, come si dice nel dialetto della bassa, resta quello di allora, quando le viti maritate ai sostegni vivi dell’acero campestre e del gelso dividevano le “piantate” e, fra un filare e l’altro, si coltivava il grano. Ai lati, le “cavedagne”, al cavdagn, percorse dai tipici carri agricoli romagnoli durante i lavori. Le case seguono queste misure e vengono edificate all’angolo del podere con la facciata rivolta a sud e il lato opposto più fresco dove erano

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collocate le dispense. La parte che dava sull’aia era illuminata e permetteva di tenere sott’occhio, dalla stanza da letto al primo piano, tutto il podere. La parte più stretta della casa era rivolta ad est e ad ovest dove spesso si trovava la stalla con la buca del letame. Invece il filare di vite aveva un andamento meridiano, così il sole nel suo cammino lo colpiva da ambo i lati, da oriente ad occidente. La geometria dominava incontrastata ed era il sole a condizionare quell’organizzazione, riscaldando le stanze della casa e facendo maturare l’uva. Con la meccanizzazione e le nuove colture si sono dilatate le dimensioni e le carte IGM degli anni Ottanta non trovano più riscontro nella topo-

grafia satellitare. Restano le strade, mentre sono spariti, in diversi casi, tanti rettangolini neri che simboleggiavano le case coloniche, alcune delle quali segnate, ad esempio,come “ca’ Longanesi, ca’ Liverani, ecc.”. Molti rustici sono stati trasformati in abitazioni e in quelle campagne animate da nuovi rumori si sono trasferite famiglie provenienti dalle città vicine che hanno soltanto un giardino attorno a casa. Ormai il lavoro agricolo non richiede più la presenza “sul campo” dell’agricoltore, che trova i suoi attrezzi in un capannone, ultimo presidio che resiste al tempo.


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Abitare la natura Fra alberi e cespugli in fiore ecco la Primavera, stagione di rinascita e d’amori nella vita, e declamata nella poesia e nell’arte di Cetty Muscolino

Nel mese di marzo al di là della recinzione dell’area di San Vitale un prugno selvatico protendeva la candida chioma fiorita verso gli antichi sarcofagi e a quel festoso richiamo ora risponde l’albero di Giuda, affianco al Mausoleo dell’Augusta Galla Placidia, col suo trionfo di fiori violacei Tutta la natura è in fermento e dopo il rigore invernale celebra il ritorno della primavera: veris laeta facies/ mundo propinatur,/ hiemalis acies/ victa iam fugatur,/ in vestitu vario/ Flora principatur (il lieto volto della primavera viene offerto al mondo, la forza dell’inverno/ sconfitta è messa in fuga, è signora Flora/ con vestito di diversi colori).

Così cantavano i clericis vagantes, i goliardi di un tempo nei Carmina Burana1 (n.1), e proseguivano: Omnia sol temperat/purus et subtilis,/ nova mundo reserat/facies Aprilis (Il sole mitiga ogni cosa/ delicato e sereno/ si schiude al mondo il nuovo/ viso di Aprile)

loro permanenza alla corte avignonese di Benedetto XII (1339). La miniatura, testimonianza dell’amicizia nata tra i due artisti, è pervasa da dettagli naturalistici e ci mostra un uomo che scostando una tenda indica il poeta Virgilio che guarda il cielo in cerca di ispirazione2. Gli altri personaggi, un soldato, un pastore e un contadino, sono evidenti allusioni alle principali opere virgiliane3. La stagione primaverile è propizia ai convegni d’amore e il giardino ne è lo scenario più idoneo, come teorizzano e illustrano i canti dei trovatori e i romanzi cortesi, primo fra tutti il Roman de la Rose. In quest’opera4 che può considerarsi la Bibbia erotica del XIV secolo, il narratore descrive un sogno affascinante in cui incontra, nelle vesti allegoriche di una rosa, la donna amata che riuscirà a conquistare attraverso un cammino, pieno di peripezie, in un giardino recintato da mura e protetto dalle personificazioni dei vizi e dei piaceri. Un gruppo di persone dagli abiti sfarzosi s’incontra, per danzare una “carola”, in un giardino protetto, luogo speciale distintivo della tradizione del locus amoenus, antico topos che figurava il Paradiso come hortus conclusus. Guillaume de Lorris, attraverso la forma allegorica tanto cara alla letteratura tardo medievale, illustra ai giovani – perché l’amore è prerogativa della gioventù – le regole dell’amore cortese.

E questo esplosivo fermento della buona stagione fa fiorire l’amore: Amor volat undique. e trascina infiammando i cuori Oh-oh/totus floreo/iam amore virginali/ totus ardeo/ novus , novus amor/ est, quo pereo.

I raggi del sole e l’aria mite invitano gli uomini ad uscire di casa e a immergersi nella natura, come vediamo in questa raffinata pagina miniata eseguita da Simone Martini, per Francesco Petrarca , durante la

Da sinistra: La bella foresta, Carmina Burana, Bayerische Staatsbibliothek, Monaco di Baviera. Simone Martini, frontespizio del Virgilio di Petrarca, 1340, Milano, Biblioteca Ambrosiana. Maestro di Engelbert di Nassau, Locus amoenus, nel volume Roman de la Rose, opera di Guillaume de Lorris, Londra, British Library.

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Si tratta di un amore assoluto e disinteressato e ciò che più conta nella dinamica del servizio d’amore non è tanto la realizzazione del desiderio ma l’analisi del desiderio stesso e la fioritura interiore che produce. Il raffinato gioco d’amore che si intreccia tra la dama e il cavaliere è una sorta di cammino iniziatico, un nuovo tipo di amore- così come lo intendiamo noi- che prende le distanze da tutte le interpretazioni delle culture precedenti che l’avevano visto ora follia femminile, ora giocosa sensualità, ora consolazione familiare. L’amore cortese si configura come un sentimento altamente specializzato, spirituale e sensuale nello stesso tempo; è esaltazione di un amore che dà gioia anche se non se ne consumano i frutti, è energia nuova che purifica e nobilita, è gentilezza di cuore, e solo chi è cortese può amare, ma è proprio l’amore che lo rende cortese. La donna, oggetto di questa nuova religione d’amore, che spesso mutua il linguaggio dalla devozione religiosa, è la “domina”, la sposa di un potente signore, perché la ricompensa, il sospirato premio, può venire solo dall’alto, da una creatura superiore e non da un pari, come la propria moglie. Certamente i nostri antenati avevano le idee molto chiare riguardo al matrimonio- frutto di una elaborata transazione economica- e all’amore! La superiorità e irraggiungibilità della donna da un lato, l’inferiorità dell’uomo dall’altro: è proprio questo dislivello iniziale che caratterizza l’amore cortese come un cammino iniziatico. L’importante è amare e come in ogni iniziazione la metamorfosi è possibile grazie ad una morte, che permette di rinascere ad un livello superiore- analogo significato ha la trasmutazione alchemica dei metalli ( materia prima est nigra); così l’uomo deve morire nella sua parte inferiore per poter rinascere ad un sentimento più elevato.

Un piccolo manifesto di questa nuova visione del sentimento d’amore l’abbiamo nella valva di scatola per specchio che raffigura l’incoronazione dell’amante. L’avorio, realizzato a Parigi nel primo quarto del XIV secolo e parte della collezione Classense del Museo Nazionale di Ravenna, costituiva una delle due placchette che racchiudevano il disco metallico lucidato, fissato sul retro mediante un bordo ad incastro. Il lato esterno della valva, che era generalmente scolpito con raffigurazioni di soggetto amoroso, ci mostra una dama che incorona con un serto l’amante inginocchiato ai suoi piedi a mani giunte e gli alberi stilizzati sullo sfondo suggeriscono il giardino o il bosco, ambientazioni caratteristiche delle scene galanti. L’ atteggiamento di sottomissione del giovane esprime in maniera inequivocabile la sua condizione di inferiorità e di aspirazione verso la dama che, ritenendolo degno, lo premia con una corona di fiori. A livello simbolico le due figure rappresentano l’intima dualità, il conflitto interiore di ogni essere umano e che può essere superato grazie all’integrazione armonica fra le parti: solo facendo inginocchiare, piegare, la nostra parte volitiva, maschile, attiva -il giovane cavaliere- a quella recettiva, femminile -la gentildonna-, si raggiunge l’equilibrio, così come ci insegna la favola della principessa prigioniera liberata da un prode cavaliere, da San Giorgio alla Bella addormentata di Walt Disney. Il rendere omaggio alla donna, fonte di ogni perfezione morale e spirituale, porta ad un potenziamento del principio femminile e a ristabilire l’ equilibrio con quello maschile: un intero mondo racchiuso in un piccolo coperchio di avorio, quale lezione di vita per noi evoluti predatori da parte di questo medioevo “oscuro e barbaro”!

Sopra, da sinistra: valva di scatola per specchio raffigurante l’incoronazione dell’innamorato, avorio, Parigi, primo quarto del sec. XIV. Museo Nazionale di Ravenna. Donna che porge un fiore all’amato, pannello musivo, San Giovanni Evangelista, Ravenna. Scena di amore cortese ambientata in un castello, pannello musivo, San Giovanni Evangelista, Ravenna. (Foto di di Pietro Barberini). A fianco: Sandro Botticelli, Il banchetto nella pineta di Classe , 1483, tempera su tavola, Madrid, Museo Nacional del Prado.


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L’offerta di un omaggio floreale, in definitiva, è segno distintivo di una relazione amorosa, come possiamo ammirare in ben due pannelli del ciclo musivo pavimentale della chiesa di San Giovanni Evangelista, realizzati nel XIII secolo: entrambe le figurazioni, tratte dai romanzi cortesi allora in voga, presentano una donzella che porge la rosa all’amante e un’analoga scena ambientata in un castello. Ma se malauguratamente l’offerta d’amore non venisse accolta, se la donna si mostrasse restia, come indurla a mutare la disposizione dell’anima? Forse la soluzione più efficace potrebbe essere quella di mostrarle le possibili tremende conseguenze di un suo rifiuto. Per gli abitanti di Ravenna ci può essere un sicuro rimedio, come ci racconta Boccaccio5 nella novella di Nastagio degli Onesti mirabilmente illustrata da Sandro Botticelli6 in quattro tavole che gli furono commissionate nel 1483 per le nozze di Giannozzo di Antonio Pucci con Lucrezia di Piero di Giovanni Bini. La storia è ambientata nella bellissima pineta di Classe7. È proprio in questa pineta infatti che il giovane Nastagio, respinto dalla bella rampolla di Casa Traversari, viene sopraffatto dalla terrifica visione di una fanciulla inseguita da un furioso cavaliere8 e dilaniata da “due grandi e fieri mastini”: prodigiosa e orrenda apparizione che si rinnova ogni sera all’imbrunire. E sarà proprio facendo assistere alla terrificante scena la giovane “altiera e disdegnosa” e tutti i familiari invitati al grande banchetto da lui appositamente allestito che Nastagio potrà risolvere il suo problema, provocando il repentino mutamento dei sentimenti della donna amata.9 La paura provata si dimostrò dunque uno stimolo più che persuasivo, non solo per i due giovani che celebrarono lietamente il matrimonio, ma portò anche un grande vantaggio a tutti gli abitanti della città, dal momento che “tutte le ravignane donne paurose ne divennero che sempre poi troppo più arrendevoli a’ piaceri degli uomini furono che prima state non erano”. Quindi, se avete problemi di cuore, se il vostro amore non è corrisposto …una passeggiata in pineta, verso il tramonto, con la fanciulla dei vostri sogni… potrebbe essere un’ottima soluzione!

In alto, da sinistra: Prugno selvatico in fiore, area di San Vitale (Foto di di Pietro Barberini). Murales in via Trieste. Qui sopra : albero di Giuda fiorito a fianco del Mausoleo di Galla Placidia (Foto di di Pietro Barberini).

Note 1 I Carmina Burana sono un corpus di testi poetici composti nell’XI-XII secolo. 2 Si tratta del commentatore latino Servio e il suo atto di scostare la tenda semitrasparente è una chiara metafora della divulgazione del testo del poeta. 3 Si tratta dei temi epici, pastorali e bucolici cantati nell’Eneide, nelle Bucoliche e nelle Georgiche. 4 Scritta tra il 1230 e il 1240 da Guillaume de Lorris e completata successivamente da Jean de Meung. 5 Novella VIII del Decamerone. 6 «Nella via de’ Servi in casa Giovanni Vespucci, oggi

di Piero Salviati, fece intorno a una camera molti quadri chiusi da ornamenti di noce per ricignimento e spalliera, con molte figure e vivissime e belle. Similmente in casa Pucci fece di figure piccole la novella del Boccaccio di Nastagio degl’ Onesti, in quattro quadri, di pittura molto vaga e bella, et in un tondo l’Epifania». Giorgio Vasari, Le Vite de’ più eccellenti pittori scultori e architetti, “Vita di Sandro Botticello pittor fiorentino”. Sansoni Editore, Firenze 7 Immortalata dalla poesia di Dante, Purgatorio XXVIII 8 Si tratta di Guido degli Anastagi, suo antenato, sui-

cidatosi perché respinto dalla fanciulla che amava, e condannato con lei a questo contrappasso doloroso. 9 «…E tanta fu la paura che di questo le nacque … ...che ella avendo l’odio in amor tramutato, una sua fida cameriera segretamente a Nastagio mandò, la quale da parte di lei il pregò che gli dovesse piacere d’andar a lei, per ciò che ella era presta di far tutto ciò che fosse piacer di lui. Alla qual Nastagio fece rispondere che questo gli era a grado molto, ma che, dove le piacesse, con onor volea il suo piacere, e questo era sposandola per moglie».

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CITTÀ E QUARTIERI

Russi: terra di cuori indomiti e di storie patrie di Chiara Bissi

Ville e palazzi raccontano un passato luminoso mentre il presente restituisce nuovi usi agli edifici storici

Dista poco meno di 20 chilometri da Ravenna, e poco di più da Forlì, e dal 1878 per regio decreto conserva il titolo di città, per aver dato i natali a Luigi Carlo Farini. Russi con i suoi 12.261 abitanti al 31 dicembre 2015 è la meta di questa ricognizione urbana nel comprensorio ravennate. Terra fertile, ricca di storia e di glorie patrie, Russi conserva le qualità del borgo e nel tempo ha accresciuto la propria estensione con equilibrio. Il corso, la piazza, la Rocca, il teatro, ora la biblioteca nell’ex macello sono i centri di attrazione, raccolti nel raggio di poche centinaia di metri. Il tessuto imprenditoriale, legato all’artigianato, alla meccanica e alla trasformazione di prodotti agricoli ne ha garantito lo sviluppo e un benessere diffuso, anche se la crisi economica ha colpito duramente anche qui con chiusure e delocalizzazioni. Lunga e complessa la vicenda dell’ex zuccherificio, a pochi passi da palazzo San Giacomo, di proprietà di Powercrop (gruppo Maccaferri), alle prese con il progetto di un polo agroenergetico da 30 Mw (oltre a un digestore anaerobico da 1 Mw), fra ricorsi, autorizzazioni e battute d’arresto. La mancanza di risorse ha ridotto sensibilmente la possibilità di in-


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vestimento degli enti pubblici a fronte di emergenze storico monumentali fuori dall’ordinario come palazzo San Giacomo o eventi culturali di nicchia ma di qualità come la rassegna “Libri mai mai visti“, giunta al termine dopo anni di programmazione. Fra le novità in ambito culturale degli ultimi anni c’è l’apertura nel 2013 della biblioteca nel complesso dell’ex macello in via Godo Vecchia, in trasferita dalla sede storica di via Cavour. Ventimila volumi, sale di lettura, l’emeroteca, postazioni internet e dal 2015 una sala prove, per i gruppi musicali che muovono i primi passi nel territorio. Dal passato arrivano gli echi di una storia luminosa, inattesa e affascinante. Le origini dell’abitato vanno ricercate attorno alla Rocca costruita dai signori di Ravenna, i Da Polenta, nel 1300, anche se le fonti lo ricordano già dal X secolo come vico o villa. Conquistata dai Manfredi di Faenza, Russi mantenne un ruolo fondamentale per il controllo della pianura ravennate. Nel 1503 passò sotto il dominio della Repubblica di Venezia, ma la riconquista del territorio da parte dello Stato della Chiesa nel 1509 portò Russi nuovamente nella giurisdizione faentina. Pochi anni più tardi subì, come la città capoluogo, lo sfregio della battaglia di Ravenna, con l’assedio delle truppe di Gastone de Foix. I lutti proseguirono nel 1527, con i saccheggi da parte dei Lanzichenecchi in marcia verso Roma. Fra Sei-

Nelle foto, alcuni scorci dei due spazi centrali di Russi, piazza Farini e piazzetta Dante; qui a destra la chiesa arcipretale dedicata al patrono della città Sant’Apollinare.

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CITTÀ E QUARTIERI

Altre immagini delle piazze centrali, con la Torre dell’Orologia, nell’edificio in angolo fra piazzetta Dante e il corso Farini.

cento e Settecento il castrum Russi subirà trasformazioni significative, demolizioni e gli esiti del terremoto del 1688 consentiranno l’ampliamento dell’abitato, che perderà l’aspetto di luogo fortificato. Ma facendo un passo indietro è la storia antica a regalare alla cittadina memorie di alto valore storico e archeologico. Negli anni Cinquanta del Novecento, durante un scavo fortuito, venne alla luce quello che nacque come un podere di un colono congedato dall’esercito in età repubblicana, per poi diventare nella prima età imperiale, I e II secolo dopo Cristo, una villa rustica fuori dall’attuale centro urbano di Russi, al centro di un latifondo, gestito da un fattore. La villa è considerata una delle meglio conservate dell’Italia Settentrionale con un’estensione di almeno 8mila metri quadrati, un impianto termale, la parte padronale decorata con mosaici pavimentali, e il quartiere produttivo. Quest’ultimo garantiva gli approvvigionamenti per la flotta romana stanziata prima a Ravenna poi a Classe. E proprio la decadenza dello scalo portuale dal VII decreta la fine della villa, nei secoli successivi cancellata da alluvioni e da una ricca vegetazione. Oggi il sito archeologico rappresenta una delle attrattive della cittadina, inserito in un circuito di visita dei beni tutelati dalla Soprintendenza Archeologica regionale. I materiali emersi durante le ripetute campagne di scavo sono conservati nell’antiquarium ospitato dentro la Rocca. Del manufatto militare rimangono solo la parte inferiore del mastio, inglobata nella struttura dell’ex ospedale Maccabelli e i resti del torrione circolare e di tratti della cinta muraria. All’interno è presente anche il Museo Civico che comprende la Pinacoteca che raccoglie la quadreria con opere provenienti dagli ospedali della provincia di Ravenna, le sale della Città di Russi nella quale viene ripercorsa attraverso una serie di testimonianze storico artistiche la storia cittadina fra Settecento e Novecento, e il fondo archivistico Alfredo Baccarini, costituito da documenti, lettere, volumi e medaglie, ap-


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CITTÀ E QUARTIERI

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partenuti al celebre statista russiano. Non si può infatti ignorare il valore degli illustri cittadini di Russi, a cominciare da Domenico Antonio Farini, naturalista, scrittore e patriota (1777 - 1834). Suo un Erbario in tre volumi, conservato presso la Biblioteca di Russi. Abbraccia la Repubblica Cisalpina prima assumendo diversi ruoli politico amministrativi, poi aderisce ai moti insurrezionali del 1821 e del 1831, viene pugnalato nel 1834 sulla soglia di casa, per mano di un sanfedista, in un clima arroventato dal scontro politico religioso. Nel 1812 nasce invece Luigi Carlo Farini, nipote di Domenico al quale deve l’ispirazione liberale, fu medico, scrittore e politico. Costretto a lasciare i territori dello Stato pontificio non rinuncia all’attivista di saggista e pubblicista, si avvicina agli ambienti della monarchia piemontese e stretto una profonda amicizia con Cavour diventa uno dei protagonisti dell’unificazione del Paese. Diviene dittatore delle province modenesi e parmensi poi accetta anche il Governo delle Romagne. Il 30 novembre 1859 fa pubblicare il decreto di unificazione al Piemonte, scelte confermate dal Plebiscito del marzo 1860. Nominato capo del Governo nel 1862, malato, viene sostituito, nel 1863, da Marco Minghetti, per morire a Nervi di Genova nel 1866. Infine ma non ultimo nella storia risorgimentale

Sopra due edifici religiosi del centro storico di Russi (sopra) la ex chiesa in Albis, utilizzata come sala espositivia. Qui a fianco, l’antico torrione della Rocca; dall’alto a sinistra: la nuova biblioteca ricavata dall’ex macello municipale; la monumentale Porta Nuova; un vicolo nel cuore della città.


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CITTÀ E QUARTIERI

RESTAURI, DECORAZIONI, VERNICIATURE, IMBIANCATURE

GAUDENZIO ZAMBONI DECORAZIONI Via Argine Sinistro Montone, 9 48026 Russi (RA) Cell. 333 8145829 Tel. e Fax 0544 582486 www.gaudenziozamboni.com

e post unitaria italiana Alfredo Baccarini, ingegnere, ministro dei Lavori Pubblici (1826 - 1890), leader della sinistra storica, presta la propria competenza tecnico-scientifica alla costruzione della nuova Italia. Chiamato a Torino da Farini, in seguito si occuperà della costruzione della ferrovia di Castelbolognese e, dal 1860 al 1870, dirige i lavori per l’assestamento del porto canale Corsini. Sarà consigliere comunale prima a Russi poi a Ravenna, assessore ai Lavori pubblici e consigliere provinciale. Nominato Direttore generale delle opere idrauliche lavora con Garibaldi alla bonifica dell’agro romano. Per vent’anni è un protagonista anche della scena politica osteggiando il trasformismo di Depretis. Russi conserva a tratti il gusto delle cittadine della provincia emiliano romagnola, la piazza elegante, la torre, il corso con i negozi di tradizione come la pasticceria Babini, il teatro comunale inaugurato nel 1887 con l’esecuzione del Rigoletto di Verdi, in sostituzione di una sala precedente in funzione dal 1813. Nel 1995 l’edificio subì un intervento di restauro ad opera dello studio ArcLab di Ravenna. Un ruolo non secondario nella rinascita del teatro va assegnato alla compagnia teatrale Le Belle Bandiere, nata nel 1993, su progetto e direzione artistica di Elena Bucci e Marco Sgrosso, diplomati alla Scuola di Teatro di Bologna, nonché attori del nucleo storico del Teatro di Leo di Leo de Berardinis dal 1985 al 2001. L’attrice russiana Elena Bucci anima da tempo con Marco Sgrosso laboratori, rassegne, eventi per rivitalizzare il territorio a partire dal teatro e per salvare palazzo San Giacomo. A questo la compagnia affianca una apprezzata attività di produzione teatrale che la vede protagonista delle scene italiane e di fortunate tournée all’estero. Un prezioso patrimonio per Russi che purtroppo ha visto sfumare la possibilità di avere nel proprio territorio uno straordinario luogo espositivo come il museo dell’arredo contemporaneo della famiglia Biagetti. Firmato da Ettore Sottsass, il museo accoglieva la migliore


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produzione del design internazionale dal 1880 al 1980. Oggi la collezione per volontà della famiglia è esposta a Milano. Lasciata una scommessa forse troppo difficile per Russi ma anche per Ravenna, rimane ancora aperta la sfida per la riqualificazione di palazzo San Giacomo, chiamato la Versailles dei Rasponi. L’imponente edificio, immerso nella campagna di Russi, in prossimità del fiume Lamone, messo in sicurezza negli anni Novanta, attende un progetto che possa vederlo rinascere. Se in agosto Russi ospita il festival del folklore e in settembre anima l’antica Fira di Sett dulur, è Ravenna Festival da diversi anni a questa parte a scegliere lo spazio retrostante il palazzo per alcuni eventi musicali e teatrali di rilievo nazionale. Una presenza che va a segnalare le infinite potenzialità del sito. Conosciuto come Palazzo delle 365 finestre fu costruito per volere dei conti Rasponi di Ravenna, alla fine del XVII secolo, sulle rovine dell’antico castello medioevale di Raffanara. La facciata dell’edificio, comprese le due torri laterali, misura 84,50 metri di lunghezza, nel piano centrale i piani sono tre, cinque nelle torri laterali. L’aspetto monumentale si coniuga con un apparato decorativo all’interno di grande pregio. La serie di affreschi a tema mitologico e allegorico rappresenta una documentazione preziosa sulla pittura del Sei e Settecento in Romagna. Purtroppo i danneggiamenti causati dai bombardamenti della Seconda guerra mon-

Alcuni inquandrature in prospettiva e particolari di Palazzo San Giacomo, nella campagna di Russi. Il grandiso edificio, fu residenza estiva dal XVII secolo della nobile famiglia ravennate dei Rasponi.

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CITTÀ E QUARTIERI

Sopra: particolare dei mosaici della Villa Romana di Russi. Sotto, a destra il sito gli scavi della Villa Romana (I-II sec. d.C.); qui in basso, il viale che porta alla zona archeologica.

diale, l’incuria e l’abbandono hanno compromesso l’integrità del ciclo pittorico. Nel 1757 venne aggiunta la cappella esterna, dedicata a San Giacomo, che conserva al suo interno le tombe del cavalier Federico Rasponi e della moglie marchesa Guerrieri Gonzaga. In tempi moderni il palazzo fu rifugio per il genio di Mattia Moreni, il pittore lavorò a lungo nelle ampie stanze affrescate. Il territorio di Russi infine riserva anche felici oasi gastronomiche con una pluralità di offerte che ne dimostrano la forza. Solo per citarne alcune si va dalla tradizione e autenticità dell’offerta difesa con risolutezza dalla Trattoria da Luciano a Ponte Vico di Russi, da La Cucoma, con le sue specialità di pesce, a San Pancrazio e recentemente da M11, discreto all’esterno su via Madrara, insolito, vivace, di tendenza all’interno.

Servizio fotografico di Barbara Gnisci. Alcune scatti sono di Pietro Barberini.


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Un bosco bianco nel Deserto rosso Natura e artificio nella Ravenna di Michelangelo Antonioni (1963-1964) di Alberto Giorgio Cassani

Michelangelo Antonioni come i giardinieri della Regina di cuori in Alice’s Adventures in Wonderland di Lewis Carroll. Il grande regista ferrarese decide – durante le riprese di Deserto rosso, nell’inverno del 1963-1964 – che il bosco di pini dev’essere bianco, per fare da sfondo ideale a ciò che lui vuole mostrare attraverso l’occhio della telecamera: «[…] quel verde andava eliminato se volevo che il paesaggio acquistasse una sua originale bellezza, fatta di grigi aridi, di neri imponenti, e semmai di pallide macchie rosa e gialle, tubi o cartelli lontani».1 Il paesaggio di Ravenna, in quegli anni, si sta trasformando: cosa di più “innaturale” di un sopravvissuto gruppo di conifere in mezzo a uno scenario industriale che tutto sembra travolgere? “Naturale” è che sparisca, «per lasciar posto a uno spazio nuovo da riempire con altre sagome, altri volumi, altri colori».2 I “veri” alberi sono le ciminiere, come quella «esilissima» che «tagliava orizzontalmente la fabbrica per poi salire a un’altezza prodigiosa, elegante e potente nella sua asciuttezza, più di qualsiasi albero».3 Nessun rimpianto per il “buon tempo andato”. Assoluto disincanto, quello di Antonioni. Ed ecco che nel buio della notte, alla luce dei proiettori, una scena surreale si svolge sotto l’inflessibile regia di Antonioni: uno stuolo di esseri umani al lavoro, al freddo, coperti di vernice bianca dalla testa ai piedi. Il bianco “si addice” alla Ravenna di Antonioni, come il lutto a Elettra. Perché, quel bianco, «in technicolor sarebbe risultato grigio, come il cielo di quei giorni o come la nebbia o come il cemento».4 Antonioni è però preoccupato: per la possibile brina che laverebbe la tinta e per il sole che, spuntando dietro il bosco, lo farebbe apparire, in controluce, scuro. La fabbrica, del resto, ne è certo, «prima o poi finirà per rendere gli alberi oggetti antiquati, come i cavalli».5 Ma nemmeno il potere dispiegato della Tecnica può far nulla contro il «bel sole»6 che spunta il giorno dopo. Sono sempre incerte le previsioni del tempo.

Pagina a sinistra: sopra: Michelangelo Antonioni e Monica Vitti alla 31. Biennale Internazionale d’Arte di Venezia del 1962, nelle sale del Padiglione Italia dedicate ad Alberto Giacometti. In basso a sinistra: Il ritocco delle conifere, immagine tratta da MICHELANGELO ANTONIONI, Il deserto rosso, a cura di Carlo Di Carlo, Bologna, Cappelli, 1964, 19782, pagina non numerata [ma p. 48]; la didascalia è quella originale di p. 40. In basso a destra: Vittorio Guaccimanni, Pini, s.d., acquaforte, mm 240×160 inciso, Ravenna, MAR (Museo d’Arte di Ravenna). I pini “romantici” di Guaccimanni. In questa pagina a sinistra: Vittorio Guaccimanni, Il campanile di Sant’Apollinare (seconda versione), s.d. (post 1900), acquaforte e acquatinta, mm 296×122 (inciso), mm 300×126 (lastra), mm 480×300 (foglio), Ravenna, MAR (Museo d’Arte di Ravenna). I campanili sono gli unici elementi verticali della Ravenna storica, prima delle ciminiere. Sotto: I nuovi alberi artificiali del paesaggio industriale, sequenza del film Deserto rosso, 1964.

Note 1. MICHELANGELO ANTONIONI, Il bosco bianco, in ID., Il deserto rosso, a cura di Carlo Di Carlo, Bologna, Cappelli, 1964, 19782, pp. 7-13: 11. Ringrazio l’amico Fabrizio Varesco per avermi prestato il volume. Interviste e recensioni su Deserto rosso si leggono in MICHELANGELO ANTONIONI, Fare un film è per me vivere: Scritti sul cinema, a cura di Carlo di Carlo e Giorgio Tinazzi, Venezia, Marsilio, 1994, passim; sull’inter-

pretazione del film e sul rapporto con Ravenna mi permetto di rimandare a due miei studî: Il mio deserto: Note su Michelangelo Antonioni, in Ravenna Festival: Il deserto cresce... Viaggio tra simbolismo e utopia [Catalogo della manifestazione: Ravenna, 18 giugno-24 luglio 2005], Fusignano, Grafiche Morandi, 2005, pp. 49-57 e L’altra Ravenna di Michelangelo Antonioni, in “Trova Casa Premium”, n. 56,

febbraio 2010, pp. 34-39. 2. M. ANTONIONI, Il bosco bianco, cit., p. 11. 3. Ibid. 4. Ibid. 5. Ibid., p. 12. 6. Ibid., p. 13.

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ORDINE ARCHITETTI RAVENNA

Con la collaborazione di Con il patrocinio di

Comune di Ravenna

Comune di Faenza

Comune di Cervia

Comune di Forlì

Comune di Cesena

ciclo di conferenze 2016 Otto incontri/confronti fra protagonisti esperti ed emergenti della progettazione contemporanea con tavola rotonda Andrea Dal Fiume

Giovedì 17 MARZO Salone Nobile

De Gayardon Bureau

Imola

Palazzo Rasponi

Mauro Crepaldi

Giovedì 21 APRILE Show Room

Mide Architetti

Copparo (FE)

Oggetti d’Autore

Venezia

RAVENNA

Cesena

FORLÌ

Rossi&Tarabella

Giovedì 19 MAGGIO Show Room

Milano

Studio T

Ciclostile Architettura Bologna

RAVENNA Giovedì 16 GIUGNO Padiglione delle Feste

Cavejastudio

Reggio Emilia

Terme di Castrocaro

Forlì

Nicola Marzot

Giovedì 14 LUGLIO Cantina

Alvise Raimondi

Bologna

La Pandolfa

Cesena

Zamboni Associati Architettura

CASTROCARO (FO)

PREDAPPIO (FO)

Diverserighestudio

Giovedì 15 SETTEMBRE Sala Conferenze

Bologna

Magazzini del Sale CERVIA (RA)

Alberto Giorgio Cassani Ravenna

Massimo Iosa Ghini Bologna

Giovedì 13 OTTOBRE Ridotto

Teatro Bonci CESENA Giovedì 17 NOVEMBRE Sala Conferenze

Pinacoteca Comunale FAENZA

ore 20 Apertura, registrazione crediti formativi ore 20.30 Spazio imprese ore 20.40 Architetti emergenti ore 21.20 Architetti esperti ore 22.15 Tavola rotonda ore 23 Brindisi e saluto conviviale

InOut Architettura Ferrara

Francesco Di Gregorio Parma

ETB Tessari/Bandiera Treviso Info Reclam tel. 0544 408312 redazione@trovacasa.ra.it - www.reclam.ra.it

Comitato scientifico Gianluca Bonini, Giovanni Mecozzi, Filippo Pambianco Organizzazione, promozione, documentazione Reclam edizioni e comunicazione srl – Casa Premium rivista dell’abitare Aziende sostenitrici

Aziende partner


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SEDICI ARCHITETTURA 2016

Dalla “citta palinsesto” ai Laboratori Urbani, le riconnesioni tra passato e futuro nella lezione di Lamberto Rossi Associati E da Bologna la filosofia “smallness” dello studio Ciclostile Architettura di Chiara Bissi

Lamberto Rossi Associati/LR-A di Milano e Ciclostile Architettura di Bologna animeranno il terzo incontro del ciclo “I 16 – SeDici Architettura”, in calendario giovedì 19 maggio nello showroom Studio T, (via dei Mestieri, 9/11, località Godo, Ravenna). La rassegna che propone incontri-confronti fra professionisti affermati della progettazione contemporanea e studi emergenti, è promossa dalla rivista Casa Premium della società editoriale Reclam e ideata dal comitato scientifico composto da Gianluca Bonini e Giovanni Mecozzi di Nuovostudio e da Filippo Pambianco Caveja-studio, con il patrocinio degli Ordini professionali degli architetti e ingegneri di Ravenna e Forlì anche ai fini formativi. Lo showroom di Studio T è la terza tappa dell’ideale percorso in otto date che attraversa la Romagna e indaga le migliori esperienze di progettisti e studi associati con sede in regione, ma operanti in Italia e nel mondo. Della responsabilità sociale dell’architettura dopo la fine della bolla speculativa e del rinnovato impegno nella progettazione urbana, al termine della prima parte della conferenza, dialogheranno i relatori della conferenza e l’architetto Luca Frontali (vicepresidente dell’Ordine delgi Architetti di ravenna) in una tavola rotonda condotta dal direttore di Casa Premium, Fausto Piazza. Le conferenze proseguiranno fino a novembre 2016, in spazi prestigiosi delle città del territorio romagnolo e dopo Ravenna e Forlì, toccheranno Castrocaro, Predappio, Cervia, Cesena e Faenza. I temi quelli della progettazione urbana e dei processi partecipativi

sono ben presenti nelle esperienze progettuali di Lamberto Rossi, nato a Lucca nel 1954, laureato in Architettura a Roma nel 1977 con Ludovico Quaroni. Leggendo il curriculum professionale si apprende che nel 1978-79 partecipa ai corsi dell’Ilaud di Urbino dove incontra Giancarlo De Carlo con cui collabora sino al 1983. Dopo aver seguito con Renzo Piano il Laboratorio di Quartiere di Otranto, fonda i Laboratori di Cervia, Fusignano, Cremona, Milano-Unesco, Savignano, Campobasso. Nel 2011 vince il 2° Premio/Città Storica alla 1. Biennale dello Spazio Pubblico di Roma per i Laboratori di Fusignano. Nel 1994 vince il premio Repubblica di San Marino per il progetto dei sistemi di risalita alla città. Nel 2000, coordina la Commissione ministeriale “Veronesi/Piano” per un nuovo modello di ospedale di cui redige il progetto-guida presentato al Presidente della Repubblica Ciampi nel marzo 2001. Tra i progetti: i campus universitari di Forlì, Novara e Cremona/Parco dei Monasteri; gli ospedali di Gubbio, Pordenone, Genova/Galliera, le Case dello Studente di Novara e L’Aquila, l’Auditorium Corelli di Fusignano, il recupero della Colonia dei Monopoli e delle Case dei Salinari a Cervia. I suoi progetti sono stati esposti in mostre monografiche a Roma (Lamberto Rossi, L’utopia del luogo, Clean, 2000), a Ravenna (Lamberto Rossi, 1983-2004 Laboratori di Architettura, Clean, 2004) e alla XIII Biennale di Venezia (2012). Redattore di “Spazio e Società”, è autore di: Istruzioni di Recupero Ambientale (Maggioli Editore, 1986) e Giancarlo De Carlo, Architetture (Arnoldo Mondadori Editore, 1988). Dal 2014 partecipa al G124 il gruppo creato da Renzo Piano come senatore a vita, sul tema delle periferie. Lavora al fianco di Rossi, Marco Tarabella, (Latina, 1968), laureato in Architettura a Roma nel 1996 con Walter Bor-


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dini. Nel 1994 è tra i fondatori del gruppo Osa con il quale si occupa di ricerche e progetti partecipando con successo a concorsi su temi legati prevalentemente all’ambiente urbano (Sabaudia, Priverno, Roma). Nell’ambito di tali ricerche è segnalato al concorso on line “La città del terzo millennio” della Biennale di Venezia 2000 e su altre riviste specializzate. Espone al salone internazionale del mobile di Roma. Nel 1997 inizia la sua collaborazione con Lamberto Rossi prima a Roma e poi a Milano. A Lamberto Rossi il compito di raccontare alcuni aspetti della propria esperienza progettuale.

Il Green Campus di Forlì, dove il progetto è un "pronte" fra passato e futuro della città, in un percorso attento alle stratificazioni Tra le cancellazioni traumatiche dei segni del passato, avvenute in molte città italiane nei decenni scorsi e la conservazione più severa che a volte non permette di individuare vie di “salvezza” per edifici e luoghi attraverso nuove funzioni e utilizzi, come si colloca il progetto di riconversione dell’ex ospedale di Forlì in un campus universitario? «Il progetto si colloca – anche fisicamente – a cavallo tra centro storico ed espansioni contemporanee. È un “ponte” tra passato e futuro, tra tradizione e innovazione e come tale utilizza l’intera gamma di possibilità d’intervento: dal restauro dell’impianto originale a padiglioni del primo Novecento all’inserimento di edifici di linguaggio contemporaneo fortemente connotati. In questo senso propone un percorso più com-

plesso – attento alle stratificazioni – che ha sempre caratterizzato lo sviluppo urbano delle città italiane specie quelle universitarie». Cosa si deve intendere per Green campus? «Il progetto restituisce a Forlì un’area strategica – il nuovo baricentro della città – oltreché un parco, riaprendo ai forlivesi questo che era un “recinto” chiuso e di dolore. Lo fa perseguendo un’accezione di Rigenerazione Urbana conforme alla Dichiarazione di Toledo (2010) – dove, si declinano i temi centrali della vivibilità, attrattività, competitività e sostenibilità invitando espressamente i paesi dell’UE a un approccio olistico che rimetta in gioco l’intera politica di intervento sulla città sulla base di 6 caposaldi: promozione della mobilità sostenibile; miglioramento dell’efficienza energetica degli edifici; miglioramento della gestione del ciclo delle acque e dei rifiuti; uso di energie rinnovabili; riduzione del consumo di suolo mediante riconversione di aree dismesse; protezione della natura e valenza sociale urbana (cinture verdi, rete di parchi, “regreeninig”)». Oggi più che mai si moltiplicano i percorsi di urbanistica e progetta-

Immagini di esterni e interni del Campus universitario di Forlì (sede decentrata di Alma Mater di Bologna) completato su progetto di Lamberto Rossi Associati nel 2014.

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zione partecipata condotti da enti pubblici. Può raccontare la sua esperienza, per molti aspetti pionieristica, a partire dai laboratori di Fusignano? «La città non è un monumento, è un organismo che si muove, cambia, evolve e non deve essere “fatta per” ma “dai cittadini” diceva Argan, spiegando che il “dai cittadini” non vuol dire far decidere direttamente la gente; bensì attivare un processo di riflessione collettiva per cui l’intera comunità acquista consapevolezza della propria storia fisica. La città intesa, dunque, come il più completo registratore delle vicende umane: un grande palinsesto su cui viene continuamente scritta e riscritta la storia di una comunità. Imparare a leggerla vuol dire anche imparare a ricostruire la vicenda storica, umana, sociale delle generazioni che ci hanno preceduto. In questo contesto nasce il modello di Laboratorio Urbano che perseguo ormai da più di vent’anni e che ha avuto a Fusignano una delle attuazioni più interessanti e premiate. Deriva dai Laboratori di Renzo Piano (Otranto e Burano) e Giancarlo De Carlo (Urbino e Lastra a Signa) realizzati tra la fine degli anni ‘70 e la metà degli anni ‘80 a cui ho avuto la fortuna di partecipare».

A Ravenna in previsione della redazione del piano operativo comunale (Poc) sulla darsena di città, un’area prevalentemente privata con oltre quaranta proprietari, è stato condotto il percorso di partecipazione “La darsena che vorrei” che ha coinvolto i cittadini, i portatori di interessi e in minima parte tecnici professionisti. Cosa pensa della possibilità di applicare il percorso partecipativo su aree private? «Per la trasformazione di aree strategiche come quello della Darsena credo che un percorso partecipativo sia assolutamente dovuto indipendentemente dalla proprietà delle aree. Credo che ora sia necessaria una seconda fase istituendo un Laboratorio urbano composto da giovani tecnici locali che rifletta su questo tema coniugandolo con un altro tema centrale per la città: quello della presenza universitaria che considero una grande occasione di rinnovamento culturale e generazionale che Ravenna ha un po’ sottovalutato». Fra le realizzazioni del suo studio appaiono ospedali, campus, edilizia sociale, scuole, auditorium, si può parlare di una responsabilità sociale dell’architettura? «Il nostro lavoro ha sempre privilegiato architetture di carattere collettivo ma credo che la responsabilità sociale dell’architettura sia un


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qualcosa che va oltre la specificità del tema e di cui non solo si può ma si “deve” parlare».

Ottimizzare i costi sociali ed economici della progettazione con l'uso creativo e innovativo delle risorse Ciclostile Architettura nasce a Bologna nel 2009 come gruppo di lavoro dalla collaborazione tra Giacomo Beccari (1982), Gaia Calamosca (1981) e Alessandro Miti (1981) e si struttura stabilmente nel 2012. Ciclostile Architettura opera nei campi di architettura, urbanistica, ricerca e sviluppo attraverso progetti a scale differenti riservando particolare attenzione a progettazione partecipata, spazio pubblico e recupero edilizio. Nel 2015 Ciclostile Architettura è selezionato per rappresentare la Città di Bologna al “Shenzhen Design Award” mentre nel 2014 è selezionato per “Yap Maxxi”, il programma annuale di promozione e sostegno della giovane architettura. Nel 2013 è selezionato per “Bella Fuori 3” il progetto strategico per

interventi di urbanistica partecipata in zone periferiche della città di Bologna, vince il premio “Nib Top10 Italian Architects Under 36” nella sezione paesaggio. Nel 2012 si aggiudica il primo premio per il concorso di rigenerazione urbana dell'area industriale del Bargellino a Bologna, nell'ambito del progetto europeo Smart City, riceve la menzione “Young Architect Talent”, in occasione della prima edizione del Festival dell'Architettura “PugliArch” e riceve il premio “Incredibol l'Innovazione Creativa di Bologna” per il settore creativo a Bologna e in Emilia Romagna. I lavori di Ciclostile Architettura sono stati esposti tra gli altri al museo d'arte contemporanea Maxxi di Roma, al MoMA di New York, alla XIV Biennale di Architettura di Venezia), al Centre for Mediterranean Architecture di Chania in Grecia, al IX Urbanpromo di Bologna), al Fuorisalone Designweek di Milano, al Storefront for Art and Architecture a New York, al New Italian Blood di Salerno, all'Esprit Nouveau Pavilion di Bologna, al PugliArch Festival di Bari, alla I Bienniale dello Spazio Pubblico di Rome e all'Urban Center di Bologna.

Nel immagina diversi progetti ideati e realizzati in campo urbanistico, architettonico, di arredo urbano e installazioni temporanee dal giovane studio di progettisti di Bologna, Ciclostile Architettura.

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di Domenico Mollura Una funzione della progettazione – per certi versi deontologica ma apparentemente sopita in tempi recenti – è riscoperta e valorizzata nelle iniziative professionali dello studio di architettura veneziano Tamassociati. Se ne è parlato recentemente a Ravenna grazie ad una conferenza promossa dall’Ordine degli Architetti della Provincia di Ravenna ha ospitato la dal titolo: “Il ruolo sociale dell’Architettura. Un’esperienza”, relatore l’architetto Simone Sfriso per l’appunto di Tamassociati. Il tema dell’incontro si preannuncia con una sequenza di scorci del tutto inediti per una conferenza sull’architettura contemporanea; al posto delle scintillanti inquadrature metropolitane (Londra, New York, Dubai), frequenti sui media specializzati (e non), il racconto per immagini ha i colori caldi dell’Africa. Il collettivo di creativi – incaricato dell’allestimento del Padiglione Italia alla prossima Biennale di Architettura di Venezia (28 maggio-27 novembre 2016) – nasce da un gruppo di studenti dello IUAV di Venezia che immaginarono, nei pri-

missimi anni ’90, una rivista di architettura internazionale fondata su aspirazioni di carattere etico, le cui visioni sono poi state trasposte nel lavoro progettuale di Tamassociati. L’assunto di partenza – spiega Sfriso – è molto semplice: l’architetto non può scegliere il proprio cliente ma ha la facoltà di decidere in quale ambito operare. Tamassociati, per tale motivo, si costituisce come “agenzia di riferimento del mondo del sociale”, consapevole che le iniziative volte alla difesa dei valori etici costituisca un patrimonio di idee a cui dover dare forma, anche con mezzi limitati. L’idea è cresciuta nel tempo a stretto contatto con i territori e misurandosi con progetti di architettura e grafica modesti (per le risorse economiche a disposizione) ma articolati (nei contenuti tecnici e simbolici). Nel 2005 il “salto di scala”, grazie all’incontro con la onlus Emergency. Un sito web di informazione sui bandi di gara e concorsi di progettazione pubblica un annuncio contenente la richiesta di tecnici di cantiere per le missioni nei Paesi dove l’ONG, fondata da Gino Strada, stava avviando programmi medico-sanitari nel campo della cardio-chirurgia.


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Il ruolo sociale dell’architettura L’esperienza di

Tamassociati In alto: Cofiloc, provincia di Treviso (a destra, prima dell’intervento - foto Andrea Avezzó) In basso due scorci del cohousing di San Lazzaro di Savena, in provincia di Bologna

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Il gruppo di architetti veneziani risponde all’annuncio e viene selezionato. La prima esperienza riguarda il Centro Salam (2004-2007) ubicato a circa 20 km da Khartoum (Sudan), al centro di una vastissima area in cui l’assistenza sanitaria gratuita non è garantita. La clinica immaginata da Emergency ha un potenziale bacino di utenza di 300 milioni di persone. Basterebbero da soli questi numeri per fotografare l’assenza di diritti realmente universali in tante sub regioni del Mondo, dove l’idea di impiantare un centro medico di eccellenza, prima ancora che «risposta ad un’emergenza» è un «potente messaggio» dal valore politico, che rivendica la libertà di accesso alle cure di qualità per tutti. Il progetto della clinica era già al livello preliminare, quando a Tamassociati, sul posto solo per approntare e coordinare il cantiere, viene chiesto di revisionarlo e completarlo. Quella sanitaria è un’architettura complessa e altamente specializzata, pertanto diventa emblematica la visione della Committenza di fronte alle perplessità iniziali dei progettisti nel racconto di Sfriso: “(… ) quando abbiamo detto che non avevamo esperienza specifica, Gino


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Strada ha risposto «appunto!»”. L’idea di Emergency, infatti, non è quella di una clinica «da manuale», piuttosto quella di mettere intorno ad un unico tavolo tutte le competenze multidisciplinari che “governano” una struttura sanitaria, sia in fase di progettazione/realizzazione sia in fase di servizio. In questo modo le diverse istanze delle diverse professionalità sono state condivise (tra medici, tecnici e amministrativi) e trasformate in spazi di cura. Tamassociati lavora subito a proprio agio allargando la «piattaforma di dialogo», nella quale «partecipazione» e «ascolto» entrano di diritto nella cassetta degli attrezzi dell’architetto, nel rispetto dell’aforisma di Giovanni Muzio – citato da Sfriso – per il quale l’Architettura è «arte eminentemente sociale». L’area, individuata per la realizzazione della clinica, è un luogo «estremo» posto in vicinanza della riva del «Nilo Blu» che riecheggia la dimensione cosmica di Khartoum (il suo genius loci), come tratteggiata da Christian Norberg-Schulz. I progettisti “rileggono” con una nuova consapevolezza le parole del teorico norvegese e immaginano

un edificio a corte, nel quale «micro-cosmo e macro-cosmo» vengono in contatto. La libera articolazione degli spazi, il budget limitato, l’approvvigionamento dei materiali, suggeriscono di lavorare con le risorse locali. Ciò comporta una naturale semplificazione; sembra un passo indietro rispetto all’idea di modernità, ma la domanda che pone Sfriso è: «la corsa alla tecnologia ha dato delle soluzioni?». La risposta l’ha data Charles Correa per il quale – ricorda Sfriso – occorre «smontare le consuetudini per una tecnologia senza tempo». Tale principio trova spazio nei contenuti del progetto nel quale, ad esempio, partendo dalle tradizionali “torri del vento” si sperimenta uno specifico sistema di filtraggio e condizionamento dell’aria. Quest’ultima, tramite depressurizzazione, si insinua all’interno di tunnel frammentati da setti trasversali per giungere ai locali della clinica dopo il lavaggio che ne abbatte temperatura e polveri. Sulla copertura vengono installati mille metri quadrati di pannelli fotovoltaici. “Design etico, consapevolezza sociale, impatto sull’ambiente, controllo dei

In alto: due immagini del cohousing progettato da Tamassociati, realizzato a Villorba in provincia di Treviso (foto Andrea Avezzó). In basso: il centro sanitario Salam, vicino a Khartoum, in Sudan (foto Massimo Grimaldi).

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IDEE E PROGETTI

> Taking care in Architecture Protagonista del Social Design a livello internazionale, Tamassociati dagli anni Novanta coniuga impegno civile e professione, operando nell’architettura sostenibile, nell’urbanistica, nella progettazione del paesaggio, nella conduzione di processi partecipativi e didattici, nella grafica e nella comunicazione sociale. Numerosi i premi e i riconoscimenti: nel 2013 ha ottenuto il premio Aga Khan per l’architettura per l’eccellenza rappresentata dal Centro Salam di cardiochirurgia in Sudan, il premio internazionale Ius-Capocchin per la realizzazione dell’ospedale pediatrico più sostenibile al mondo (Port Sudan) e il Curry Stone Design Prize per l’insieme della sostenibilità (sociale e ambientale) dei recenti progetti realizzati nel mondo. Nel 2014 ha vinto lo Zumtobel Group Award per l’innovazione e la sostenibilità rappresentate dall’ospedale pediatrico realizzato in Sudan (Port Sudan). È Architetto Italiano dell’anno 2014 “per la capacità di valorizzare la dimensione etica della professione”. Tamassociati ha esposto i propri lavori in numerose mostre ed eventi internazionali, tra cui Architecture is Life presso Aga Khan University di Karachi, Pakistan, 2014; Five Projects for a Sustainable World, Cité de l’Architecture et du Patrimoine, Parigi, 2014; Afritecture – Building Social Change presso la Pinakothek der Moderne di Monaco di Baviera, 2013; Triennale di Architettura di Milano, 2012; Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, 2012 e 2010. Attualmente Tamassociati è impegnato in Uganda, Senegal, Italia e Afghanistan, e ha base a Venezia, Bologna, Trieste e Parigi. È curatore del Padiglione Italia alla 15. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia 2016, incarico ricevuto dal Mibact (Ministero dei Beni Culturali). Tamassociati è Massimo Lepore, Raul Pantaleo, Simone Sfriso, con Laura Candelpergher, Enrico Vianello, Annamaria Draghetti, Emanuela Not.

costi” sono il manifesto di Tamassociati (Taking Care – progettare il bene comune è il tema del Padiglione Italia alla Biennale) che ha permesso alla clinica di Khartoum di avere un ampio impatto sulla comunità locale, in un’area soggetta a grandi contraddizioni. Il Centro Salam è il punto di partenza di una “rete” di cliniche che Emergency sta completando in aree i cui Governi, nonostante l’aspra contrapposizione politica e spesso anche militare, aprono dei canali di dialogo tramite i rispettivi Ministeri della Sanità. Sono “nodi” di questa rete i centri pediatrici di Bangui (2007, Repubblica Centroafricana), Nyala e Port Sudan (2009-2012, Sudan) in cui la clinica diviene per la comunità locale centro civico, piazza del mercato e spazio gioco, in un «non luogo» soggetto a dinamiche urbane e demografiche estreme. I presupposti di efficienza e semplicità vengono messi in pratica nel progetto per gli alloggi del personale impiegato nella Centro Salam (2007). Dopo aver completato l’iter progettuale ci si accorge che il precedente cantiere della clinica ha lasciato sul campo numerosi materiali, soprattutto container metallici. La possibilità di riutilizzare materiali già presenti sul posto spinge a rivedere il progetto riducendo del 30% la spesa preventivata. La semplicità è la meta finale di un percorso che potrebbe definirsi “a ritroso”, in cui il team di progettazione ha re-imparato a partire dal significato profondo dell’Architettura. Risponde a un altro di bisogno collettivo – quello dell’alloggio – lo studio di fattibilità per la costruzione di abitazioni a basso costo per la regione iraniana dello Yazd (2010). L’idea del governo è quella di concedere il suolo in comodato d’uso dando la possibilità di edificare (con il principio dell’autocostruzione) delle abitazioni rigorosamente con tecnologia prefabbricata. In questo modo si risolleva l’industria delle costruzioni e si pongono le basi per una solida alternativa all’economia basata sullo sfruttamento delle risorse petrolifere. Tamassociati progetta case con un costo massimo di 25 mila dollari, di 70 mq, lavorando su tipologie ripetibili e ampliabili e sui diversi rivestimenti superficiali dei pannelli in calcestruzzo che costituiscono l’ossatura dei piccoli edifici. Alveo naturale dell’idea di architettura collettiva è l’housing sociale, di cui il gruppo veneziano si occupa con interesse. A Villorba (Treviso) la “Cooperativa Pace e Sviluppo” dedica nel 2011 la sua annuale fiera «Quattro Passi» al tema “riprendiamoci la terra”. Tamassociati partecipa all’evento illustrando le caratteristiche del cohousing (costi, tecnologie). L’iniziativa raccoglie numerose adesioni che si trasferiscono poi in una serie di incontri finalizzati alla progettazione partecipata, impostata sulla strutturazione di spazi di comunità e la costruzione di socialità. Le linee guida che ne scaturiscono sono orientate alla realizzazione di 8 alloggi più gli spazi comuni. L’assenza sul mercato di edifici da riconvertire adatti allo scopo spinge alla ricerca di un lotto con le potenzialità edilizie coerenti alle richieste; complice un regolamento edilizio troppo rigido che impone la tipologia costruttiva – la stessa che ha «colonizzato il Veneto e la Pianura Pa-


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dana» – spetta al progettista «tirare fuori l’Architettura» dai vincoli eccessivamente restrittivi. Nasce in questo modo l’eco-quartiere “Quattro Passi” (2013), un archetipo nel suo genere. L’esperienza è proseguita con il progetto di co-housing Mura San Carlo (San Lazzaro di Savena, 2014) in cui alla ricerca tipologica si è unita quella strutturale. L’edifico è realizzato in pannelli lignei X-lam e ospita 12 alloggi su quattro livelli, oltre ai servizi comuni e al verde che si aprono verso il contesto. Il progetto di riconversione in scuola tecnica di un capannone in provincia di Treviso (2014) rende l’idea del connubio tra semplicità, contesto ed efficienza: l’edifico sorto senza autorizzazioni in un area verde viene trasformato con pochissimi elementi in un nuovo volume. Un telaio metallico fa da ossatura alla vegetazione rampicante che fascerà nel tempo – in una facciata continua – il capannone restituendo dignità al contesto, mentre al suo interno, per volontà di un imprenditore nel campo del nolo di mezzi operativi, si svolgeranno corsi di formazione per lavoratori. Cultura e formazione: un’idea “rivoluzionaria” ai tempi della crisi. Il progetto per il Maisha Film Lab a Kampala (2014, Uganda) da forma all’idea di Mira Nair; la regista indiana (Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia del 2001) fonda una scuola di Cinema per permettere di «narrare una nuova Africa». Il giardino (in cui ogni docente invitato dona un nuovo albero) è aperto a tutti ed è pensato come uno story-board con 9 stazioni corrispondenti ad altrettante tappe della vita, che mescolano significati simbolici a contenuti pratici. La superficie della copertura, in cima ad una gradinata che sembra omaggiare villa Malaparte, diventa tappeto sensoriale che accompagna la vista verso il Lago Vittoria. L’impegno sociale in Architettura – conclude Sfriso – non equivale all’investitura di un primato morale; l’architetto è tramite di una trasformazione quasi definitiva e ha la responsabilità di farlo semplicemente nel miglior modo possibile, reinventando la professione per tentativi ed errori, grandi e piccoli.

In alto a sinistra: due immagini del centro sanitario, sociale e ricreativo di Port Sudan in Sudan (foto Massimo Grimaldi). In basso a sinistra: foto di gruppo dei progettisti dello studio Tamassociati di Venezia (foto Andrea Avezzo).

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In alto a sinistra: Barbara Kruger, Untitled (I shop, therefore I am), 1987. In alto a destra: Barbara Kruger, Untitled (Your body is a battleground), 1989. Al centro a sinistra: Jenny Holzer, Your oldest fears are the worst ones (scritta luminosa, Time Square, New York), 1982. Al centro a destra: Jenny Holzer, da Survival Series, 1983-1985. In basso a sinistra: Jenny Holzer, Lustmord, 1993. In basso a destra: Jenny Holzer, proiezioni a Liverpool, 2003. Nella pagina a destra: Jenny Holzer, proiezioni a Venezia, 2003.


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Public Art, creazione condivisa in spazi comuni Le opere provocatorie, fra etica, politica, antagonismo sociale e anticapitalista, di Kruger, Holzer, Cosuth, Beyus, Kaprow, Stalker

di Serena Simoni

Pensando al momento di maggiore impegno sociale e pubblico dell’arte vengono per lo più in mente alcuni lavori realizzati negli anni Sessanta e Settanta, quando gli artisti spesso condividevano con i giovani di tutto il mondo le lotte per la pace e i diritti civili: già progressivamente smaterializzata e sottratta al mercato come alle gallerie grazie alle tendenze della Body Art, Land Art, Arte concettuale e performativa, retrospettivamente si è stabilito di utilizzare il termine di Public Art (Arte pubblica) per indicare una serie di manifestazioni, azioni e opere d’arte che tendenzialmente nascevano per e negli spazi pubblici, col fine più o meno esplicito di ristabilire e stimolare i valori della socialità e della condivisione mediante la partecipazione degli spettatori, talvolta coinvolti anche involontariamente. Se il termine “pubblico” ha una lunga e problematica storia alle spalle, conviene far chiarezza che qui si intende parlare di uno spazio fisico e non delle piattaforme virtuali dei social o dei media. Criticato aspramente dal movimento femminista negli anni ‘70 che vedeva nella netta separazione fra spazio pubblico e privato la possibilità per il Potere di far collassare qualsiasi istanza politica nel silenzio delle camerette di casa, la definizione dello spazio pubblico ha continuato a ricevere critiche anche più recenti. Habermas ad esempio lo considera ormai inesistente in quanto avrebbe perduto la sua funzione di comunicazione e di crescita trasformandosi oggi in un palco, al quale il pubblico mostra un sostanziale disinteresse. Ma se si considera come criterio la percezione pubblica e gli effetti di numerose opere degli artisti nel corso di questi ultimi 50 anni, potremmo dire che gli spazi in comune ancora esistono, mantengono caratteristiche di accessibilità e sono ancora in grado di favorire le dinamiche relazionali fra gli umani. Un artista concettuale come Joseph Kosuth ad esempio pensava che l’arte fosse una sorta di pratica filosofica e che possedesse il compito di offrire significati alla società: la sua Second Investigation (dal 1968) utilizzava mezzi di comunicazione pubblici e anonimi per concentrarsi sulla produzione di senso da parte dell’oggetto d’arte fuori da un contesto legittimante come quello di una galleria o delle riviste di arte. Produrre frasi da inserire nei cartelloni pubblicitari rispondeva alla necessità di separare l’evento dalla forma fisica dell’opera, rinunciando al valore che generalmente viene determinato alla nascita ad esempio di un quadro. Kosuth, come tutta la sua generazione, cercava di porre sotto critica ogni forma di istituzionalizzazione o di autoreferenzialità dell’arte, il suo essere tendenzialmente un linguaggio di élite. L’uso degli organi della cultura di massa (riviste, giornali, cartelloni pubblicitari, volantini, spot televisivi), privo però dello scopo pubblicitario, veicolava quindi annunci anonimi basati su una voce isolata, capace di immettere nel mondo dei frammenti. L’effetto non era la produ-

zione di arte ma l’analisi dell’essenza e dei limiti del contesto, del linguaggio, della cornice istituzionale, della ricezione del lavoro artistico da parte del pubblico. Dai primi esperimenti di Kosuth, negli anni successivi l’utilizzo degli spazi di comunicazione generalmente associati alla pubblicità è diventato una pratica abbastanza comune da parte di numerosi artisti in tutto il mondo. Barbara Kruger e Jenny Holzer, entrambe artiste concettuali statunitensi, hanno usato i caratteri a stampa come parte preponderante del loro lavoro che viene proiettato su spazi tridimensionali o comunicato attraverso messaggi pubblici. Alcune volte questi sono semplici e brevi, altre volte sono citazioni o estrapolazioni da testi di autori famosi: in entrambi i casi, le due artiste tendono ad esplorare le nozioni di consumismo e di comunicazione mediatica. “Compro dunque sono” è una delle massime più famose di Barbara Kruger (1945), che accompagna le proprie scritte da inserirsi in spazi commerciali a grandi dimensioni con immagini fotografiche spaventose, quasi pulp. Il lavoro, iniziato verso la fine degli anni ‘70, predilige per le scritte il bianco e nero con alcuni inserimenti di rosso, e immagini di nuovo rigorosamente in bianco e nero estrapolate dalle riviste degli anni ‘40-’50. Il lavoro consiste in brevi comunicazioni (“non abbiamo bisogno di altri eroi”, “credere+dubitare=essere sani”, “non essere un idiota”, “odia come noi”) che utilizzano le modalità impositive e aggressive della pubblicità ribaltandone il senso. Queste ricerche sui modi apparentemente innocui ma potenzialmente insidiosi in cui messaggi ideologici si infiltrano nella vita di ogni giorno grazie ai mass media continuano ancora oggi, sebbene l’artista abbia più recentemente espanso il proprio repertorio fino ad includere installazioni con video e componenti audio e sculture a grandi dimensioni. L’interesse attivo

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verso il femminismo e la teoria critica di cui il lavoro è permeato non ha tolto smalto a numerose delle sue opere che rimangono ancora fortemente attuali. L’altra statunitense, Jenny Holzer (1950), proietta le proprie frasi almeno dal 1978, quando esegue le prime uscite della serie Truism, pensate sul tema dei pregiudizi e delle credenze collettive. Indirizzati non tanto al pubblico dell’arte ma a spettatori casuali, si tratta di frasi decontestualizzate, scelte in modo da sorprendere chi le legge, illuminare o attivare domande in chi le guarda. Nel migliore dei casi lo spettatore è stimolato a decostruire il senso della frase o a rapportarlo alla propria esperienza di pensiero e di vita. In questo senso il suo lavoro - presentato sulle pareti della città e negli spazi pubblici di grandi dimensioni o nelle cabine dei telefoni pubblici - può essere definito anche come Street Art, indirizzata ad un fine politico in quanto esprime la volontà dell’artista di rompere le strutture sociali e politiche consuete. Il mezzo del computer diventa un componente importante del suo lavoro nel 1982, quando nove dei suoi “Truisms” vengono proiettati a intervalli di 40 secondi nello spazio pubblicitario gigante in Times Square a New York: l’uso dei LED permette all’artista di combinare una conoscenza della semantica alle moderne tecnologie pubblicitarie. Nel 1994 produce invece la serie Lustmord, che indica insieme l’omicidio e l’abuso sessuale: l’urgenza di assumere una posizione responsabile sulle violenze sulle donne durante la guerra in Bosnia allora in corso (le fonti ufficiali contano almeno 60.000 stupri alla fine del conflitto) porta Holzer ad analizzare le testimonianze delle violenze raccolte dall’Onu e da Amnesty International e a dare consistenza alla propria affermazione “Where women die, I am awide awake“. Singole frasi – “Il suo colore là dove lei è sottosopra. È abbastanza perchè io la uccida”, “Prendo la sua faccia con i bei capelli. Posiziono la sua bocca”, “Lei mi sorride perchè pensa che possa aiutarla” – vengono scritte ad inchiostro su corpi femminili, interpretati come luogo della violenza, dell’abuso e della denuncia in modo da riportare le espressioni pronunciate dalla prospettiva del colpevole, della vittima e del testimone. Lustmord è stato successivamente esposto in versioni diverse: come installazione luminosa tridimensionale a Bergen (1994) e come scritte al neon presso il monumento della battaglia di Lipsia (1996). Più recentemente, nel 2005 l’artista ha presentato For the City, una serie di proiezioni luminose sul Rockfeller Center, la Bobst Library, l’università e la Biblioteca pubblica di New York, utilizzando testi presi da contesti differenti come dei passaggi estrapolati da documenti desecretati dell’esercito USA durante la guerra in Iraq. Oltre all’utilizzo degli spazi pubblici e del linguaggio comunicativo pubblicitario, la Public Art fin dalle sue origini prende a prestito anche dalla performance, da cui si differenzia per l’intento dichiaratamente politico e coinvolgente nei confronti del pubblico. Nel 1967 fu Claes Oldenburg a commissiore a tre becchini lo scavo di una buca grande come una tomba in Central Park, ricoperta poche ore dopo. L’azione - documentata mediante un film girato dallo stesso artista - mirava a far prendere coscienza sulla realtà fisica della morte in un contesto come quello contemporaneo della guerra in Vietnam. Solo dall’inizio degli anni ‘90, l’esposizione in un’area pubblica è diventato un criterio meno importante per la Public Art, che si è orientata a privilegiare la relazione e l’intervento del pubblico. Non si tratta della prima volta che l’arte ha dato questa priorità, in quanto si hanno già alcuni esempi precedenti nelle azioni performative del gruppo internazionale di Fluxus – a cui aderivano Joseph Beuys e Yoko Ono – che fin dagli anni ‘60 in alcune azioni cercava un confronto e la partecipazione diretta dello spettatore. Nasce così la New Genre Public Art, che si basa sull’idea della condivisione di una pratica col pubblico, percepito non come spettatore passivo. L’opera diventa quindi il frutto della partecipazione collettiva e non più espressione del singolo artista, così come il processo creativo una pratica del tutto condivisa fra artista e pub-


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In alto a sinistra: Joseph Kosuth davanti alla Dog House a Tokyo (vetro veneziano, legni pregiati, altri materiali), 2012. In alto a destra: Joseph Beuys, 7000 querce, "Documenta", Kassel, 1982 - Sotto: Allan Kaprow, Yards, 1961.

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blico. Il termine inglese è stato coniato per la prima volta nel 1991 dall’artista e scrittrice statunitense Suzanne Lacy per definire questo tipo di lavoro negli USA. L’esperienza anticipatoria fu un’azione di Lacy del 1987, intitolata The Crystal Quilt, in cui 430 donne del Minnesota - di un’età superiore ai 60 anni - furono chiamate a condividere il loro punto di vista sul processo di invecchiamento, soprattutto su come le anziane vengono rappresentate nell’opinione pubblica e nei media. Le donne invitate dovevano sedersi a tavoli con coperte colorate mentre alcuni altoparlanti mescolavano osservazioni personali e ricordi di altre donne sul potenziale inutilizzato della vecchiaia. Ad intervalli di 10 minuti, un suono avvisava le convenute di cambiare la posizione delle loro mani sul tavolo, in modo da modificare l’assetto totale dei tavoli. In Italia il termine che si è diffuso per indicare questo tipo di lavoro è Arte relazionale, una pratica che si basa sul medesimo rapporto fra opera e pubblico. Fra gli artisti che operano in tal senso va ricordato il collettivo interdisciplinare Stalker che si autodefinisce come un soggetto impegnato sugli spazi urbani vuoti, periferici, in trasformazione, i cosiddetti “Territori attuali”. Nel 1995 il gruppo utilizza la pratica del cammino per mappare fisicamente la città di Roma, nei suoi pieni e vuoti, prevedendo un giro che passa per le periferie e gli spazi privi di funzione. Il risultato finale dei quattro giorni di cammino restituisce una rappresentazione grafica distorta di Roma che evidenzia l’eccessiva urbanizzazione e la relazione fra vita e spazi. Anche il collettivo catanese Canecapovolto propone l’analisi di una passeggiata come studio di nuove sensazioni stranianti mentre il progetto Progetto per un viaggio psichico nel ventre della città prevede l’ascolto individuale dello stesso racconto da parte di 15 persone tramite auricolari. Le persone devono muoversi in uno stesso spazio secondo alcune istruzioni determinate, ma il cui senso può essere liberamente interpretato. Le indicazioni portano quindi ad azioni modificate da ogni singola persona in relazione al proprio vissuto del momento, a dover relazionarsi con persone sconosciute, ad effettuare telefonate, interagire o seguirne altre, con l’unico vincolo di ascoltare i 40 minuti dell’audio. L’azione indicativamente ricorda le performances libere e impreviste dei Surrealisti, che giustamente pensavano che l’azione più eversiva di ogni essere umano fosse la libertà della propria immaginazione e la partecipazione diretta all’azione creativa.

In alto a sinistra: Stalker. Attraverso le rovine del contemporaneo. Tre giorni di cammino a Roma, 18-20 marzo 2016. In alto a destra: Suzanne Lacy, The Crystal Quilt, 1985-87. Di seguito: Stalker. Attraverso i Territori Attuali, Roma, 5-8 ottobre 1995. Anonimo, eEcursione Dada a Saint-Julien-le-Pauvre, Parigi, 14 aprile 1921. Canecapovolto, Nemico interno (Progetto per un viaggio psichico nel ventre della città, happening con supporto audio), 2001.


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Forme e valori del

sharing design

Dal Salone del Mobile di Milano le indicazioni per il futuro condiviso e sostenibile della designer Matali Crasset di Sabina Ghinassi Lei è Matali Crasset, icona francese del design contemporaneo più innovativo e sociale. Studi all’Ecole National Supérieure de Création Industrielle, lunga collaborazione prima con Denis Santachiara, poi con Philip Starck, grazie al quale ha coordinato per otto anni il Design center di Thomson Multimedia, diventando a soli 28 anni responsabile di 25 designer e della progettazione dei Dream products, i prodotti che disegnano gli scenari del futuro. All’inizio del decennio scorso ha creato una sua società, la Matali Crasset Productions con sede a Belleville, nel cuore del quartiere multietnico e popolare parigino, dove è nata Edith Piaf e dove Daniel Pennac fa vivere la sua famiglia Malaussène. Lì Matali Crasset ha realizzato il suo studio e la sua abitazione in un’ex tipografia ristrutturata che condivide con altre dieci famiglie in una sorta di comune allegra e piena di voci e giochi. Asserisce che l’unico spazio della casa cui non rinuncerebbe mai è la stanza dei suoi figli e non concepisce una vita senza matite colorate. Ora collabora, tra gli altri, con Artemide, Campeggi, Danese, Nodus, Fabbian illuminazione, Edra. E ha anche sviluppato diversi progetti per Ikea. Crasset ha lunghe antenne che captano il futuro ed è aperta, intuitiva e sovversiva, positivamente sovversiva. Del suo lavoro dice: «Mi vengono chieste sempre più spesso quali sono le mie considerazioni strategiche e le prospettive. Di solito considero i miei progetti da un punto di vista maieutico, non si tratta solo di dare una forma alla materia – l’estetica – ma piuttosto di fare emergere e di organizzare intorno a valori e intenzioni condivise, legami e reti di competenza, connivenza e socialità. La maggior parte dei progetti ai quali sto attualmente lavorando mettono in evidenza questa dimensione collaborativa e di lavoro di squadra». Al Fuorisalone 2016 ha allestito all’Unicredit Pavillon il grande spazio “Reinventare un mondo comune”, nel quale ha messo in scena le possibili risposte agli interrogativi contemporanei sul legame tra il design e il sociale. Si è trattato di un percorso che ha invitato a riflettere sul senso del “comune” contemporaneo. Quattro erano sezioni: la prima “Reinventare un mondo comune”, poi “Il mondo comune e il

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mondo interiore” dove l’installazione La Trama Ancestrale ha proposto tre dispositivi sperimentali in grado di creare una distorsione spaziale e temporale, punto di partenza per una riflessione sul mondo interiore, e poi “Il mondo comune immaginario” dove ad essere illustrati sono stati tre progetti creati dalla designer per i bambini (i personaggi di Fl’om nella Blobterra , quelli di Globo e i castelli d’acqua e il gioco di costruzione interattivo Tubuland) e infine “Il mondo in di-

1. 2. Matali Crasset, Stick, modulo in legno Ayous, collezione di cinque lampade a sospensione, una lampada da tavolo, quattro piantane, e un’applique per interno (2013, produzione Fabbian). Nella prima foto la designer francese è ritratta con la sua creazione. 3 Matali Crasset, Concentrè de Vie, seduta componibile (2013, produzione Campeggi - foto Ezio Prandini). 4 Matali Crasset, Deep Attention and Sleep, alcova (2014, produzione Campeggi - foto Ezio Prandini). 5 Matali Crasset, Self-made Seat, seduta componibile (2015, produzione Campeggi - foto Ezio Prandini). 6 Matali Crasset, Dynamic Life, divano multifunzione (2011, produzione Campeggi - foto Ezio Prandini). 7 Matali Crasset, Mobile Life, carrello multifunzione con vassoi removibili (2016, produzione Danese) 8 Matali Crasset, Double Side, seduta multifunzione (2011, produzione Danese) 9 Matali Crasset, Double Size, tavolo a ribalta (2012, produzione Danese) 10 Matali Crasset, Pompon, tappeto (2012, produzione Nodus) 11 Matali Crasset, Microcosme, tappeto (2013, produzione Nodus) 12 Matali Crasset, Nationalities, tappeto (2012, produzione Nodus) 13 Matali Crasset, Topographie Imaginaire, tappeto (2015, produzione Nodus) 14 Matali Crasset, Concentric Space, cucina- installazione temporanea (2015, produzione Ikea). 15 Matali Crasset, PS Wardrobe, armadio (2014, produzione Ikea)

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venire”, il luogo in cui giovani designer, italiani e internazionali, sono stati invitati a presentare il loro lavoro e a realizzare insieme una sperimentazione e un progetto insieme. Nella prima sezione, che ha dato il nome all’intero allestimento, la designer ha raccontato come l’azione umana e socializzante può inventare e realizzare progressivamente, attraverso l’esempio, un progetto di sviluppo collettivo del territorio, sostenibile e bellissimo, forse anche un po’ magico. In quest’area sono stati esposti i progetti delle Les Maisons Sylvestres, realizzate dall’artista nella Meuse (Francia), come suo segno all’interno del progetto di valorizzazione del territorio “Vent de Forêst”, itinerario creativo che ha già coinvolto decine di artisti contemporanei con la creazione di più di novanta opere d’arte site specific all’interno di un bellissimo bosco. Qui Crasset ha progettato Les Maisons Sylvestres, quattro moduli da lei definiti metaforme: venti mq leggerissimi, realizzati con una combinazione di legno d’acacia, douglasia e acciaio galvanizzato, che non presentano

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16: Matali Crasset, Les Maisons Sylvestres, rendering modulo Le Nichoir, progetto "Vent de Forêts", Meuse, Francia, 2015 (matali crasset productions). 17-18: Matali Crasset, Les Maisons Sylvestres, modulo Le Nichoir, progetto "Vent de Forêts", Meuse, Francia, 2015 (foto Camille Hofgaertner). 19: Matali Crasset, Les Maisons Sylvestres, modulo La Noisette, progetto "Vent de Forêts", Meuse, Francia, 2015 (foto Loup Godé) 20: Matali Crasset, Le Blé en Herbe, scuola per l'infanzia Trébédan, veduta esterna, Francia, 2015 (Matali Crasset Productions) 21: Matali Crasset, Le Blé en Herbe, scuola per l'infanzia Trébédan, spazio biblioteca, Francia, 2015 (Matali Crasset Productions)

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fondazioni e possono essere liberamente trasferiti nella foresta senza danneggiare la natura. Hanno una stanza centrale, posti letto per quattro persone, un terrazzo e una grande rete/dondolo all’esterno. I servizi sono essenziali come si conviene allo spirito del progetto, luce a gas, stufa a legna, toilette ecologica. L’acqua si trova all’esterno in un corso d’acqua che deve essere necessariamente condiviso con le creature del bosco. Le case elfiche di Crasset s’inseriscono perfettamente nell’ambiente e sono un invito ad avvicinarsi alla natura in maniera sostenibile, lasciando un’impronta ecologica trasparente, invitano alla fusione panica con la natura e, nello stesso tempo, sono un inno al pensiero laterale, al ritrovamento di altre strade per percorrere il mondo. Basta guardare la grande rete/nido per sdraiarsi a guardare le chiome degli alberi, ascoltando i rumori della foresta. I piccoli rifugi sono stati collocati lungo il sentiero che collega i sei villaggi agricoli sparsi lungo il bosco di 5.000 ettari e sono stati costruiti in collaborazione con gli artigiani, gli studenti delle scuole e gli abitanti del luogo. Il mondo reinventato, o ritrovato, dalla designer francese è un mondo che guarda alla comunità, all’idea di relazione, in una visione deliberatamente micro, diffusa, locale che mette al centro l’individuo e gli fa afferrare altre cento, mille mani per potere stare bene e costruire insieme. Lei asserisce di aver dato semplicemente un corpo all’idea di quella comunità. Nel dar corpo a quest’idea, riesce a far convivere in equilibrio la dimensione industriale con quella artigianale, senza contraddizioni. La seconda delle utopie realizzate da Crasset al Salone del Mobile è la Trama Ancestrale, un’installazione interattiva e multimediale che, grazie ad una serie di specchi e dispositivi relazionali, richiedeva l’intervento del visitatore per passare da un’esperienza unicamente esteriore ad una prettamente interiore e profonda. Nel “Mondo come immaginario” l’artista ha presentato invece il progetto di ristrutturazione della scuola rurale di Trébédan, dove nel 2015 ha creato un ambiente condiviso, inclusivo, pedagogico, concepito come nucleo centrale di tutta la vita del piccolo villaggio di 350 persone. Tubuland è invece un gioco per bambini interattivo, mentre Fl’om nella Blobterra è uno dei personaggi che animano un altro dei progetti della designer, esposto alcuni anni fa alla Galerie des Enfants del Centre Pompidou a Parigi, Le Blobterre, un mondo multisensoriale, che funziona secondo con una logica propria e propri sistemi vegetali, abitanti e odori, con il quale i bambini, se vogliono, possono entrare in relazione, giocare e aprire scenari e storie infinite. Nell’ultima sezione invece gli scenari immaginati sono scaturiti dal lavoro condiviso di un gruppo di giovani artisti, tre collettivi, Rond Point, Studio Fludd e Wood-Skin, e una designer Isabelle Daëron che, oltre a presentare i loro progetti, hanno iniziato un progetto comune. Queste le indicazioni per un futuro condiviso di una designer che, quando progetta, per prima cosa si chiede «Che cosa voglio dare alle persone? Poi viene la forma. E il materiale di conseguenza». E alla fine sa indicare più degli altri gli scenari della nostra vita futura.

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SPAZI DELLA CULTURA

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La “piccola biblioteca” in via Don Minzoni (foto di Alberto Giorgio Cassani).

A destra: L’interno di una delle “piccole biblioteche” (foto di Mauro Bertolotto) e la “piccola biblioteca” in Largo Firenze (foto di Alberto Giorgio Cassani).


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Piccole

biblioteche libere di Marina Mannucci

La storia delle Little free library comincia nel 2009 negli Stati Uniti, da un’idea del signor Todd Bol, lungo una pista ciclabile a Hudson, nel Wisconsin. Attualmente, le Little free library ufficialmente registrate nel mondo sono circa 10.000 e il loro scopo è promuovere la lettura e la costruzione del senso di comunità. Solitamente questi minuscoli contenitori “aperti” di libri vengono installati in parchi, giardini, cortili e spazi comuni di condomini. A Ravenna il progetto Piccole biblioteche libere è stato realizzato grazie all’idea di Daniela Mingozzi condivisa con Roberto Papetti e a loro ho rivolto alcune domande per saperne un po’ di più. Com’è nata l’idea delle Piccole biblioteche? Daniela Mingozzi: «L’idea delle Piccole biblioteche l’ho raccolta un paio di anni fa, a seguito di una passeggiata tra i vicoli del centro

A Ravenna le cassette-casette che ospitano libri accessibili a tutti, gratuitamente

di Genova. Non lontano dalla libreria Falso Demetrio, un volantino invitava alla presentazione di un progetto dal titolo Little Free Library. Mi sono subito incuriosita, anche perché la partecipazione al Circolo delle lettrici e dei lettori con te e Monica Randi, in questi anni, mi ha reso attenta a tutto ciò che ha a che fare con la lettura e la sua condivisione. Non ho avuto modo di assistere all’incontro, ma ho scoperto comunque in rete che si trattava di piccole, bellissime e colorate casette, poco più grandi di una cassetta della posta, per scambiarsi gratuitamente libri. Il motto è “Take a book, return a book” e cioè prendi un libro, lascia un libro. Ce ne sono già migliaia in tutto il mondo e sono tutte in rete fra loro, tramite il sito www.littlefreelibray.org. Quel che mi è piaciuto moltissimo, oltre alla promozione della lettura e alla bellezza in sé delle casette, è il fatto che attorno a ognuna possa ritrovarsi o crearsi una piccola comunità di persone, di vicini magari, che se ne prendono cura e condividono un piacevole interesse. Ho pensato di realizzare l’iniziativa anche a Ravenna. Il primo posto al quale ho pensato è Largo Firenze perché d’estate abito lì e perché c’è vicino la Scuola San

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SPAZI DELLA CULTURA

Vincenzo. Mi piacerebbe che la piazza divenisse uno spazio per le persone e i libri e non solo per le automobili. Ne ho parlato con te e con Roberto Papetti perché apprezzo molto il suo lavoro e il suo stile e dunque mi sono immediatamente immaginata una casetta realizzata da lui. Roberto ha raccolto a sua volta l’idea, trasformandola e ampliandola in un vero e proprio progetto, in modo da coinvolgere alcune scuole del territorio, il Comune e anche inventando il nome Piccola libreria di strada. Abbiamo pensato di partire con sette piccole biblioteche: in Largo Firenze presso la Scuola “San Vincenzo de’ Paoli”, ai Giardini Pubblici presso “La Caffetteria”, alla Rocca Brancaleone, alla Scuola secondaria di 1° grado “Mario Montanari”, all’Asilo nido “Le Margherite” di Mezzano. Grazie alla collaborazione della professoressa Julie Wade, una casetta è stata

installata in via Don Minzoni, dove esiste una comunità che ogni anno organizza “la festa dei vicini”. Una casetta è stata donata alla professoressa Livia Santini come promotrice del progetto “Invasioni poetiche” e resterà nei locali dell’ospedale fino all’inaugurazione della biblioteca dedicata a Enrico Liverani, per poi essere trasferita al Parco Teodorico, dove verranno avviate iniziative culturali rivolte alla cittadinanza. Non è detto che in futuro esse non aumenteranno, soprattutto per fornire servizio alle zone periferiche e più lontane dalle librerie e biblioteche. Dal mese di maggio le prime piccole biblioteche saranno attive e anche registrate sul portale internazionale. Ho già deciso quale sarà il primo libro che donerò e non vedo l’ora di condividerlo. Cosa ti ha spinto a realizzare una Little free library? Roberto Papetti: «Nei nostri giardini pubblici è abbastanza normale vedere adulti e bambini leggere libri seduti su una panchina o su un prato. Ho pensato che si poteva costruire per loro e per i bambini curiosi un piccolo luogo di raccolta di libri da leggere e scambiare, in forma di casettina per uccelli. Questa idea viene dall’America e si sta diffondendo in tutto il mondo. Sono un costruttore di congegni ludici e quest’idea è talmente bella che non potevo non farla mia. Collocare un oggetto anche di piccole dimensioni, che ha dignità di forma, sostanza di contenuto (una biblioteca è archivio del sapere), in un luogo pubblico, è come creare un miraggio che ingentilisce. Quest’oggetto potrebbe far accadere cose belle, gente che prende e porta libri, si siede e legge, organizza feste e pic-nic con i bambini

In alto: due “piccole biblioteche” mobili della scuola “Don Minzoni” (foto di Roberto Papetti). In basso: Foto d’insieme delle “piccole biblioteche” (foto di Mauro Bertolotto).


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accanto. Cittadini che realizzano piccole oasi di convivialità. Un luogo modificato da un’iniziativa culturale, anche se minuscola, cambia le persone, le trasforma. Per Ravenna è una possibilità, ho pensato che varrebbe anche per me». Come si costruisce una Piccola biblioteca di strada? R. P.: «È molto semplice. Si può partire consultando siti web e studiare quelle costruite nelle città americane ed europee, si trovano schemi di costruzione e misure, attrezzi necessari, come e dove collocarle. Se uno in casa ha una cassetta degli attrezzi se ne può costruire facilmente una, oppure si può andare da un falegname con disegno e misure, farsi tagliare le assi e in proprio assemblare. Per fare la prima biblioteca di strada, ho utilizzato avanzi di scarti di legno del mio laboratorio-magazzino, ho costruito una struttura a forma di casetta con i tetti spioventi. Importante è la colorazione impermeabilizzante delle pareti e, cosa assai graziosa, decorare con fantasia». Al momento hai quindi costruito sette casette? R. P.: «Sì, una è stata realizzata con l’aiuto di un gruppo di ragazzi della scuola secondaria di 1° grado “Mario Montanari” di via Aquileia; è stata sistemata su un carretto, e diventerà una biblioteca dei fumetti autogestita; un’altra si trova nell’Asilo nido “Le Margherite” di Mezzano e sarà gestita dalla maestra in pensione Vera Giunchedi. Le altre, come ti ha già anticipato Daniela, le vedrete in giro per Ravenna. Grazie dunque a Daniela e a Roberto per la realizzazione di questi oggetti-installazioni di creatività urbana. Di queste piccole biblioteche libere mi piace fantasticare che gli Astrigeni, del racconto omonimo di Herbert George Wells, atterrando una notte a Ravenna e utilizzando i loro potenti raggi cosmici, le abbiano lasciate per realizzare una mutazione migliorativa dell’umanità.

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CITTÀ E SOCIETÀ

«Non si piange sulla propria storia, si cambia rotta» «[Mattei] era reduce dall’America, dove aveva visitato una fabbrica che trasformava il metano in gomma sintetica, e voleva impiantarne una anche lui. Ravenna gli sembrava la dislocazione ideale per la sua vicinanza alle fonti di materia prima, per la disponibilità delle sue aree pianeggianti, e per il porto. Espose al sindaco il suo piano, e gli chiese se il comune era in grado di fornirgli due metri cubi di acqua al secondo. Dovette restare alquanto sorpreso, e forse parecchio irritato quando il sindaco, rimasto assolutamente freddo di fronte a quel vasto programma d’industrializzazione, gli rispose pari pari di no. Stava per risalire in macchina e ripartire alla volta di una città meno inospitale, quando trafelati lo raggiunsero l’onorevole Zaccagnini e il presidente della Camera di commercio, Cavalcoli, che avevano saputo della sua richiesta. Essi gli garantirono che all’acqua avrebbero pensato loro» INDRO MONTANELLI, I marziani a Ravenna, in “Il Corriere della Sera”, 25 marzo 1964

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Vista dell’ex stabilimento Anic, ora Versalis, dal terrazzo a nord dell’appartamento di Mario e Wilma Donà.

(Baruch Spinoza)


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di Marina Mannucci

Prima della seconda guerra mondiale in Italia era attiva una sola grossa industria chimica nazionale, la Montecatini, azienda che era stata costituita nel 1888 a Montecatini Val di Cecina, in provincia di Pistoia, per lo sfruttamento delle locali miniere di rame; nel 1910 entrò nel settore chimico e nei decenni successivi diventò la maggior azienda chimica italiana, pressoché monopolista in alcune produzioni come l’acido solforico, i concimi, i coloranti; nel 1936, in collaborazione con l’Agip, costituì l’Anic (Azienda Nazionale Idrogenazione Carburanti), con lo scopo di produrre benzina sintetica. Tra il 1949 e il 1951 l’Agip si era accordata con Federconsorzi per la costruzione di un nuovo stabilimento Anic a Ravenna, specializzato nella produzione di fertilizzanti. Nel 1953, quando venne creato l’Eni, gli vennero conferite le azioni Anic di proprietà Agip; successivamente l’Eni riuscì ad ottenere anche la parte posseduta dalla Montecatini. Il nuovo polo chimico determinò cambiamenti paesaggistici e ambientali che vennero in qualche modo accettati in cambio delle promesse di lavoro, progresso e benessere. Il film Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni (1964) e i documentari Il Gigante di Ravenna di Fernando Cerchio (1960) e La fabbrica immaginata, regia di Giorgio Stamboulis e Fabrizio Varesco (2014), raccontano, utilizzando differenti dialettiche, delle aspettative di quegli anni che videro la costruzione di uno dei più grandi impianti chimici d’Europa che per l’appunto Enrico Mattei, primo presidente dell’Eni, ideò, affidandolo alla direzione degli ingegneri Angelo Fornara e Gino Pagano. Il complesso petrolchimico utilizzava il gas metano, rinvenuto dall’Agip nella Pianura Padana e al largo di Ravenna, gas che per la prima volta fu impiegato come materia prima per la fabbricazione di prodotti chimici. Grazie a un suggerimento dell’amico Claudio Mattarozzi, presidente di Legambiente Ravenna Circolo Matelda, questa volta sono a casa di Wilma Azzella e Mario Donà: hanno superato gli ottant’anni e mi accingo ad ascoltare la loro storia. Appena mi aprono la porta della loro casa e mi accolgono con affetto ed entusiasmo, mi rendo conto immediatamente che per loro l’età è solo un dato anagrafico e mi lascio avvolgere dal loro ardore. Abitano in un edificio dell’ex villaggio Anic, oggi diventato quartiere San Giuseppe Operaio. Quando Enrico Mattei creò a Ravenna il petrolchimico Anic, il suo insediamento e avviamento negli anni Cinquanta determinarono l’arrivo di centinaia di lavoratori dalle vicine regioni, in particolare dal Veneto e dalle Marche. Tra questi Mario, che da Mestre si trasferì a Ravenna con la moglie Wilma. La casa di Wilma e Mario si trova all’ultimo piano di un edificio ben costruito, con attigue strutture sportive e un ampio parco. Il quartiere, inaugurato nel 1956, se un tempo era isolato nella campagna contigua a Ravenna, oggi è inglobato nell’urbanizzazione periferica della città. Dal bel terrazzo della casa di Wilma e Mario si possono vedere, quasi a trecentosessanta gradi, a nord, le strutture delle nuove espansioni residenziali e le aree naturalistiche protette, a est, le aree produttive con le ciminiere e le torri di raffreddamento e le nuove funzioni legate alla presenza della Romea, a sud, il profilo del centro storico. Negli anni Sessanta il Villaggio Anic si estendeva per una superficie di circa dieci ettari e comprendeva 465 appartamenti, una scuola materna, una scuola elementare, un negozio di generi alimentari e un bar. Il quartiere era abitato da circa duemila persone, per lo più giovanissime. Quest’ultima ragione spinge alla progettazione di attrezzatture per lo sport e il tempo libero (cfr. Paesaggio urbano, Dossier di cultura e progetto della città, Il recupero del villaggio ANIC a Ravenna. La riconfigurazione

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CITTÀ E SOCIETÀ

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del Villaggio ANIC - La riconfigurazione del quartiere ANIC a Ravenna: un’occasione progettuale. Quali metodologie d’intervento per la periferia contemporanea?). Quando Wilma e Mario si sono conosciuti lei aveva ventun anni, lui diciotto. Il padre di Wilma, antifascista e d’idee socialiste, era tecnico dell’Italgas, azienda nata nel settembre 1837 come Compagnia di Illuminazione a Gaz per la Città di Torino, prima impresa italiana, e tra le prime in Europa, per la produzione e la distribuzione del gas illuminante, destinato a soppiantare le vecchie lampade a olio. La sua espansione nel resto del Regno d’Italia inizia venticinque anni dopo con la nuova denominazione di Società Italiana per il Gas. Negli anni successivi, con l’avvento dell’energia elettrica, l’azienda cambia la propria offerta e avvia la distribuzione di gas manifatturato per la cottura dei cibi e per il riscaldamento. Nel 1967 Italgas entra a far parte dell’Eni. Con la progressiva affermazione del gas naturale, e con lo sviluppo della rete dei gasdotti di trasporto realizzata a partire dagli anni Settanta, la Società si concentra sulla costruzione delle reti per la distribuzione cittadina e sulla vendita del gas per usi civili. Nel 2000, in ottemperanza alle nuove disposizioni di legge riguardanti la separazione dell’attività di distribuzione del gas da quella della vendita, quest’ultima viene scorporata, confluendo nella Divisione Gas and Power di Eni. Dal 1° luglio 2009 Italgas, insieme a Stogit e Gnl Italia, fa parte di Snam Rete Gas. (cfr. http://www.italgas.it/it/chi-siamo/storia/storia/). Ma torniamo agli anni Cinquanta, a quando il padre di Wilma veniva inviato dall’Italgas nelle località in cui si dovevano ampliare le reti del gas e nelle quali, di volta in volta, tutta la famiglia si trasferiva. «Questo nomadismo – racconta Wilma – ha influito favorevolmente sulla mia capacità di giovane donna di adattarmi alle situazioni e a qualsiasi ambiente rendendo elastici e fluidi i miei pensieri. Giudico una grande opportunità essere cresciuta in luoghi in cui ho avuto l’opportunità di venire a contatto con persone che avevano modi di vivere e tradizioni diverse tra loro. Le differenze sono una ricchezza ed io sono cresciuta respirando il piacere delle diversità culturali. Quando poi mio padre si ammalò, l’azienda, per favorirlo, lo mandò a svolgere un lavoro più sedentario a Fano. Da qui si trasferì a Venezia, dove incontrai Mario». Mario, a questo punto, interviene per integrare il racconto con le sue parole: «Quando conobbi Wilma, rimasi subito affascinato dal suo modo di parlare. Il suo sguardo sul mondo mi ha cambiato». Lo fa con dolcezza e mi racconta di quanto sia stato importante per lui l’incontro con questa donna che tra l’altro ha cambiato il suo modo di esprimersi nei confronti degli altri, rendendolo più sicuro. È stato grazie a lei, mi confida, che ha sentito sempre più il bisogno di approfondire le sue conoscenze e non fermarsi alla superficie dei fatti. Poi Mario mi parla di suo padre capitano della Marina Militare e di come questo abbia influenzato la sua scelta di frequentare l’Istituto Nautico di Venezia che occupava l’ex convento delle Suore Salesiane, ubicato a San Giuseppe di Castello. Dopo aver conseguito il Diploma di “Aspirante alla Direzione di Macchine di Navi mercantili”, alterna periodi di navigazione a lavori nella cantieristica navale e nei locali macchine delle navi facenti scalo a Venezia, un’esperienza che gli tornerà utile anche quando, dopo aver sposato Wilma, decide di trovare una sistemazione a terra. «In quel periodo abitavamo a Mestre e l’Eni cercava diplomati nautici macchinisti navali. Andai a

Nella foto a destra: Mario e Wilma Donà nel salotto di casa.


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fare un colloquio a Milano e mi proposero un posto come operaio specializzato per la centrale termoelettrica in costruzione a Ravenna». Nel documentario Il Gigante di Ravenna si racconta, con tutta l’enfasi retorica degli ex cinegiornali Luce, la nascita “titanica” del petrolchimico: «La costruzione di tutto il Complesso ANIC fu realizzata nel giro di due soli anni […]. Si iniziò tracciando le strade interne, un raccordo ferroviario ed una strada di collegamento per il trasporto dei materiali necessari per la costruzione dello stabilimento. Cominciavano a sorgere i primi edifici, i magazzini, un agglomerato di abitazioni, dove fu approntato l’“Ufficio Personale” e soprattutto enormi ponteggi per la costruzione delle allora altissime torri di raffreddamento e le grandi strutture metalliche per il Solfato Ammonico, per le Gomme, per la Centrale elettrica, per le “Sfere” del Parco serbatoi, per il Frazionamento aria, per il Trattamento Acque e le Officine… Ogni giorno arrivavano lunghe file di camion stracarichi di tutto: tubazioni, apparecchiature, macchine, motori, una marea di pali di rinforzo del terreno, poiché la fabbrica sorgeva sul terreno acquitrinoso del delta padano, strutture metalliche, di tutto e di più ed individuare dove ognuna cosa dovesse andare era problematico ed a volte impossibile. L’obiettivo era di iniziare le produzioni base entro la fine dell’anno. Per quella data dovevano essere pronti tutti i servizi, aria, metano, vapore e tanti altri, compresi ovviamente gli impianti della gomma e dei concimi, ciascuno con i propri impianti accessori, come l’Acetilene, lo Stirolo, il Butadiene, l’Acetaldeide, il Parco Serbatoi, il Texaco, la Carbonatazione, l’Acido Nitrico, la prima parte dei Magazzini e la Sintesi Ammoniaca con i grandi compressori Pignone e gli enormi motori rifasatori. Il Pipe Rack, l’intralicciatura che correva a lato delle “Isole” per il collegamento delle tubazioni fra un impianto e l’altro fu il banco di prova per il riconoscimento

degli elementi che componevano le linee per i fluidi più svariati e le montagne di flange, curve, valvole, ma anche pompe e motori, ecc., erano ciascuna da riconoscere, da trovare, da stralciare dagli ordini, da verificare ed approntare per la loro definitiva destinazione, nelle 28 Isole» (cfr. http://www.pionierieni.it). Mario accetta il nuovo lavoro e si trasferisce a Ravenna con Wilma. Durante il periodo in cui la centrale termoelettrica è in costruzione, svolge diverse funzioni, specializzandosi in particolare nella manutenzione dei tubi; nel contempo comincia a conoscere in modo approfondito il funzionamento delle strutture all’interno delle quali lavora. «Ben presto fui promosso capo turno e feci esperienza di formazione agli operai, tra questi molti ex minatori che venivano dalle Marche. Per quanto riguarda il servizio di collegamento tra le varie attività produttive divenne sempre più importante il trattamento dell’acqua. Lo stabilimento dell’Anic possedeva quattro pozzi con pompe sommerse che prelevavano acqua a 250 metri di profondità. L’acqua che arrivava in superficie era color ruggine perché era ricca di tannino e ferro ed era necessario deferrizzarla; e, infatti, negli anni Sessanta, vennero avviate le prime esperienze di potabilizzazione dell’acqua. Solo molti anni dopo, quando si acuì il problema della subsidenza, non furono più rilasciati permessi per i pozzi artesiani. Dopo essere stato promosso capo reparto e addetto alla sicurezza, ho ritenuto importante aggiornarmi e approfondire ulteriormente le mie conoscenze; nel tempo libero studiavo e visionavo tutte le monografie degli impianti dei reparti dell’azienda per capirne il funzionamento. Mi venne offerta la possibilità di andare a Castelgandolfo con i quadri di tutte le aziende del gruppo Eni per programmare il risanamento dei reparti delle aziende. Fu un’esperienza importante, perché si faceva ricerca. Grazie alla mia precedente esperienza come manovale, che mi aveva dato la possibilità di toccare con mano e conoscere le macchine dentro e fuori, diventai io stesso formatore. Inoltre, la mia buona conoscenza della

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lingua inglese e francese mi permise di formare anche molti tecnici stranieri. Spesso era necessario fare la bonifica antibatterica degli impianti e si usava il cromo. Anni dopo, venne riconosciuto che era nocivo. Era molto importante anche seguire con attenzione il trattamento delle acque e la distribuzione dei fluidi; del vapore di scarico delle turbine, una parte andava a condensazione e veniva rimessa in circolo, un’altra parte andava in distribuzione». Solo nel maggio del 1976 con la legge 319, la cosiddetta legge Merli, che raccoglie una serie di norme per la tutela dell’inquinamento delle acque, si concretizza l’interesse da parte degli organi legislativi per la tutela della qualità delle acque superficiali. Questa legge si basa principalmente sulla regolamentazione delle concentrazioni di sostanze chimiche presenti negli scarichi industriali e civili. «L’esperienza e la conoscenza mi permettevano di avere sempre un occhio vigile sulla sicurezza degli impianti. Era, ad esempio, importantissimo controllare che le saldature fossero fatte bene e non si sviluppassero incendi. Però, in quegli anni, tutti siamo stati a contatto con l’amianto, sostanza di cui non si conosceva la pericolosità. L’amianto veniva impiegato a bordo delle navi e all’interno dello stabilimento; lo si credeva una sostanza inerte per isolamenti termici. Per proteggere tubazioni e fognature sottostanti alla caduta di scorie incandescenti durante i lavori di saldatura, venivano utilizzate grandi coperte di amianto filato e trasformato in tessuto. Ogni tanto incontro qualche operaio che mi dice “ho avuto l’amianto” che nel nostro gergo vuol dire: potrò – ahimé – usufruire

dello sconto per andare in pensione a cinquant’anni. Io credo che, invece di “dare lo sconto”, i sindacati avrebbero dovuto sostenere tutte le persone che si ammalavano e tutelare la loro salute. Erano anni in cui i sindacati chiedevano che venisse pagata la nocività, ma la nocività non si paga, si deve eliminare». Fino agli anni Ottanta nessuno aveva paura dell’amianto. Era conosciuto chimicamente come un inerte e questo era il requisito che ne ha favorito la diffusione in quegli anni. Fino a quando ci si è resi conto della pericolosità della sua struttura cristallina: le fibre di amianto, sottoposte ad azione meccanica, si suddividono in fibre della stessa lunghezza di quella d’origine, un po’ come quando dividiamo un filo d’erba in fettucce sempre più sottili. Questo meccanismo genera fibre estremamente sottili che, una volta immesse negli alveoli polmonari, restano intrappolate e non vengono espulse, anzi alcune hanno uno spessore talmente ridotto da oltrepassare i polmoni e insinuarsi tra una cellula e l’altra dei tessuti che costituiscono il diaframma, invadendo gli organi sottostanti i polmoni: fegato, milza, intestino. Nella luminosa sala-studio ricca di libri di Wilma e Mario il tempo è trascorso veloce. Prima di salutarci, Wilma si ritira in cucina e torna con un bel carrello, design anni Settanta-Ottanta, su cui ha appoggiato bicchieri con l’aperitivo, olive e altro. Quando mi chiede di bere un calice di spritz rimango affascinata dal suo modo giovane, fresco e ricco di entusiasmo di comunicare. Conoscere Wilma e Mario è stato un’intensa pennellata del pensiero.


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Postilla informativa Nel resoconto del 12 maggio 2015 della Commissione parlamentare d’inchiesta che si occupa d’illeciti ambientali relativi al ciclo dei rifiuti, ma anche dei reati contro la pubblica amministrazione e di quelli associativi connessi al ciclo dei rifiuti in Emilia Romagna, si legge che il procuratore della Repubblica presso il tribunale di Ravenna, Alessandro Mancini, durante la sua audizione, segnala quanto segue: «Il primo procedimento ormai approdato alla fase processuale riguarda il cosiddetto processo dell’amianto. Si tratta di tutta una serie di decessi, per i quali viene contestato il delitto di omicidio colposo, che hanno interessato operai, dipendenti, lavoratori in servizio presso il polo petrolchimico a seguito di esposizione ad amianto. Questo processo è attualmente in fase dibattimentale processuale. […] Il tema è importante perché mi consente di affrontare il secondo procedimento in corso di indagine, che nasce da un’emergenza nel corso del processo dell’amianto, allorquando alcuni testimoni, già anch’essi lavoratori dipendenti presso il polo petrolchimico, hanno dichiarato nel tempo, negli anni, di essere stati impiegati allo smaltimento di rifiuti, soprattutto di inerti da demolizione e, quindi, di macerie. In queste macerie erano compresi anche materiali in amianto che erano stati sotterrati, a detta di questi testimoni, nell’area cosiddetta della Piallassa Piomboni, una zona che scorre tra Ravenna e Porto Corsini, in cui ha sede il petrolchimico. Naturalmente, queste dichiarazioni riguardano fatti temporalmente contestualizzati in un periodo fra gli anni Settanta e

gli anni Ottanta e, quindi, piuttosto risalenti. […] È stato svolto presso la sede indicata da questi testimoni come luogo in cui erano stati smaltiti i rifiuti un sopralluogo a cui hanno partecipato, oltre che il sottoscritto, anche due sostituti procuratori. […] A seguito di questo sopralluogo e delle deleghe di indagine impartite all’ARPA sono state messe a fuoco tutte le problematiche attinenti questo sotterramento e smaltimento di rifiuti. […] L’ultimo punto che io ho ritenuto di doverle segnalare riguarda un’indagine di recentissima apertura. In particolare, riguarda un’ipotesi di reato relativo alla realizzazione di una discarica, ritenuta abusiva, di rifiuti speciali costituiti da fanghi di dragaggio del canale Candiano, il canale che porta alla città di Ravenna. Tali fanghi erano stati stoccati in alcune cosiddette casse di colmata e per essi era stata prevista un’autorizzazione allo smaltimento con un termine che è stato abbondantemente superato da anni, nonostante i fanghi insistano ancora su queste casse di colmata. Le casse di colmata, come sappiamo, sono aree predisposte per ospitare questi rifiuti, questi fanghi. Sono in numero di otto e vi sono attualmente stoccati 3.300.000 metri cubi di fanghi. L’ente conferente, che, A sinistra: vista del Quartiere “San Giuseppe” e della città dal terrazzo a sud dell’appartamento di Mario e Wilma Donà. Sopra: vista del Quartiere “San Giuseppe” dal terrazzo a nord dell’appartamento di Mario e Wilma Donà.

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CITTÀ E SOCIETÀ

a nostro avviso, è il produttore di questi rifiuti e i cui vertici, pertanto, sono indagati, è stato individuato nell’Autorità portuale. L’Autorità portuale ha conferito questi fanghi a varie ditte, tra le quali la Sapir, una società pubblica e privata, e la CMC (Cooperativa muratori e cementisti) di Ravenna, attraverso una serie di convenzioni sottoscritte dalle parti per lo smaltimento di questi rifiuti. Tali rifiuti non sono stati smaltiti. Pertanto, essendo stato superato il periodo previsto dall’autorizzazione, su segnalazione dell’ARPA, è stato iscritto questo procedimento penale, a carico attualmente di 9 persone, che sono appunto i vertici di queste società più o meno coinvolte. Una di queste casse di colmata, la più grande, denominata Trattaroli 1, è stata sottoposta a sequestro probatorio perché, nel frattempo, avevamo notizia dall’ARPA e dal Corpo forestale dello Stato che erano in atto attività al suo interno per le quali non risultavano autorizzazioni di alcun tipo. Anche in questo caso io ho con me copia della notizia di reato dell’ARPA e del decreto di sequestro probatorio, che è molto circostan-

ziato al riguardo e che io ritengo possa essere utile per i lavori di questa Commissione». In merito alle bonifiche dei siti inquinati in Italia, riporto di seguito alcuni dati dalla premessa del Dossier di Legambiente pubblicato il 28 gennaio 2014 (Risanare l’ambiente, tutelare la salute, riconvertire l’industria alla green economy): «Centomila ettari di territorio avvelenato da rifiuti industriali di ogni tipo. Cinquantasette siti di interesse nazionale da bonificare individuati negli ultimi 15 anni, poi ridotti a trentanove. Caratterizzazioni e analisi effettuate in modo a volte esagerato e inefficace, progetti di risanamento che tardano ad arrivare e bonifiche completate praticamente assenti, a parte qualche piccolissima eccezione. […] sono sempre più numerose le inchieste della magistratura sulle false bonifiche e sui traffici illegali dei rifiuti derivanti dalle attività di risanamento che troppo spesso vengono spostati da una parte all’altra del Paese. Ed è sempre più concreto il rischio di infiltrazione delle ecomafie nel business del risanamento ambientale».

L’angolo studio di Mario e Wilma Donà.

Tutte le foto sono di Alberto Giorgio Cassani


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ABITARE L’HABITAT

Per una tutela del clima a partire da casa, cibo e mobilità È necessario dar vita a una campagna di riqualificazione del nostro patrimonio edilizio, creando al contempo nuovi posti di lavoro e slancio all’economia del nostro Paese

di Marco Turchetti * Quale potrebbe essere la risposta in grande stile che può dare il nostro Paese al tema del riscaldamento globale? Riqualificare completamente il proprio patrimonio di case e palazzi, rendendoli edifici a consumo zero. L’edilizia può costituire la porta d’accesso a questo nuovo approccio culturale. L’Italia con il suo parco immobiliare obsoleto e altamente energivoro si trova di fronte a un bivio. L’edilizia del futuro dovrà fare i conti con parole come eco-efficienza ed eco-sufficienza (ne abbiamo già parlato su queste pagine al n°95). Ma come minimizzare l’uso delle risorse, massimizzando le prestazioni e rispettando l’ambiente? A livello globale si stima che quasi la metà dell’energia consumata, prodotta da combustibile fossile, serva per riscaldare e raffreddare le case. Mica briciole: quindi, se vogliamo salvaguardare il clima e migliorare la qualità dell’aria delle nostre città, e a Ravenna ne abbiamo tanto bisogno, occorre progettare il nostro abitare in modo radicalmente differente. In Italia vi sono circa 12 milioni di edifici, la maggior parte dei quali costruita nella seconda metà del secolo scorso, tra il 1960 e il 1980. Un boom edilizio che fu accompagnato da un costo pressoché nullo dell’energia fino alla prima crisi del petrolio (1973). Si costruì molto senza però curarsi dell’efficientamento energetico. Si credeva che bastassero un po’ di mattoni e intonaco per erigere condomini, in realtà sono stati realizzati dei

termosifoni giganti che stanno riscaldando l’ambiente esterno. Dei colabrodo di immani dimensioni, incapaci di ridurre il flusso di energia tra interno ed esterno nei mesi freddi. Oggi il 60% del patrimonio realizzato si trova in una situazione energetica a dir poco drammatica. Per evitare di consumare ulteriore territorio occorre riqualificare il patrimonio edilizio esistente. Un’operazione tanto necessaria quanto costosa… Questo rappresenta certo una sfida gigantesca. Dobbiamo ricostruire il nostro Paese e le nostre città, dar vita nuova a tutto quel che abbiamo costruito a partire dal dopoguerra. Il problema è che il tempo a disposizione per farlo è sempre meno. Oggi però abbiamo a disposizione materiali e tecnologie in grado di azzerare i consumi garantendo un comfort elevato in tutte le stagioni. Il diktat che deve guidarci dev’essere: garantire il massimo comfort col minimo dell’energia. Riqualificare l’esistente presuppone un costo ma è un’operazione dalle enormi ricadute ambientali e sociali. Perché dovremmo lavorare giorno dopo giorno per acquistare energia dall’estero? L’Italia dipende energeticamente, per circa l’80%, da altri Paesi: un rapporto di sudditanza gravissimo che diventerà ancor più pericoloso quando, in futuro, il costo dell’energia tornerà nuovamente a salire, e lo farà, statene certi. E’ dunque necessario investire ora per cercare di diventare sempre più indipendenti. Manca la consapevolezza della criticità della situazione in cui versiamo:


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preferiamo spendere miliardi all’estero per comprare energia anziché dar vita a una campagna di riqualificazione del nostro patrimonio edilizio, creando al contempo nuovi posti di lavoro e dando input all’economia del nostro Paese. Tutti noi dovremmo vivere in case più salubri, meno inquinanti e meno energivore. L’involucro della casa è la partita più importante da giocare per far in modo che l’energia d’inverno sia trattenuta all’interno dell’abitazione. Occorre rivedere in modo profondo il sistema di realizzare coperture, pareti e serramenti. Il cappotto è un elemento essenziale. Imprescindibile. Incappottare le case parte da un principio semplice: è come quando vai a sciare; nessuno di noi scia in canottiera, perché altrimenti l’energia corporea andrebbe verso l’esterno e si rischierebbe di morire assiderati. Quindi ci mettiamo maglione e giacca a vento per fare resistenza, per trattenere quanto più possibile l’energia e il calore all’interno. Lo stesso vale per le case. In Italia, in passato, si costruiva mettendo un muro di mattoni di venticinque, trenta centimetri di spessore, un po’ di intonaco e l’involucro era pronto. Il problema è che quel mattone semplice e quell’intonaco non fanno sufficiente resistenza per evitare che il calore si disperda all’esterno. Oggi abbiamo una vasta gamma di materiali a disposizione e dalle diverse prestazioni tra cui scegliere: a prescindere da tale scelta però, la posa idonea del cappotto e l’assenza di ponti termici restano gli elementi fondamentali per garantire risultati concreti di efficientamento. Si possono utilizzare sistemi leggeri come quello del legno, che consiste in una serie di strati isolanti, di fibre naturali o minerali. L’involucro diventa come una specie di giubbotto molto efficiente. Oggi l’Italia è interessata da un boom di costruzioni in legno prefabbricato; impennata che la sta facendo avvicinare a paesi europei che da decenni hanno adottato questo materiale rinnovabile ed ecologico. A guidarci nella scelta di un materiale dovrebbe essere il suo intero ciclo di vita: dal prelievo allo smaltimento. Stiamo finalmente riscoprendo un materiale antico che ha accompagnato l’evoluzione dell’uomo nel corso della storia. Il legno offre enormi e indiscutibili vantaggi: dalla velocità di realizzazione alla leggerezza, dal comfort ambientale alla sicurezza (vedi articolo di questa rubrica sul n°102). L’obiettivo, il buon senso che dovrà guidarci nei prossimi decenni, è quello di realizzare un’edilizia di qualità che si avvicina al famoso triplo zero: consumo zero, emissioni zero e rifiuti zero. Per riscaldare un appartamento di 120 metri quadri basteranno un paio

Pagina a fianco, a sinistra: l’edilizia può costituire la porta d’accesso a un nuovo approccio culturale. Quale potrebbe essere la risposta in grande stile che può dare il nostro Paese al tema del riscaldamento globale? Riqualificare completamente il proprio patrimonio di case e palazzi, rendendoli edifici a consumo zero. Al centro: durante il boom edilizio si sono costruiti veri e propri “colabrodi energetici”. Si credeva che bastassero un po’ di mattoni e intonaco per erigere condomini, in realtà sono stati realizzati dei termosifoni giganti che stanno riscaldando l’ambiente esterno. In basso a destra: economia circolare a 360°. L’obiettivo, il buon senso che dovrà guidarci nei prossimi decenni, è quello di realizzare un’edilizia di qualità che si avvicina al famoso triplo zero: consumo zero, emissioni zero e rifiuti zero. Sopra: il cappotto è un elemento essenziale. L’involucro della casa è la partita più importante da giocare per far in modo che l’energia d’inverno sia trattenuta all’interno dell’abitazione.

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ABITARE L’HABITAT ere una nuova consapevolezza ambientale. Il vero cambiamento nasce nelle nostre teste. Occorre sensibilizzare la cittadinanza, promuovendo una nuova cultura, divulgando una visione diversa. Dobbiamo ribaltare l’ottica: di fronte a noi si deve aprire un’era che faccia nascere una civiltà al servizio della vita, non più schiava del consumismo, né foriera di distruzione. Le persone devono essere motivate. Convinte ed entusiaste. L’energia più intelligente è quella non consumata: è questo il principio che deve guidare la progettazione e la costruzione della casa del futuro. Una casa dove l’assenza di ponti termici e la tenuta all’aria permette di minimizzare il consumo di energia e aumentare il benessere abitativo. Le energie fossili si stanno esaurendo e le conseguenze del loro sfruttamento saranno devastanti per il clima terrestre. Per questo la tutela del clima dev’essere un imperativo per ciascuno di noi. Ognuno può fare la propria parte. Da dove partire? Da casa, cibo e mobilità.

di candele. I risparmi in una casa riqualificata possono sfiorare l’80% e raggiungere il 90% in una di nuova costruzione. La rigenerazione urbana deve passare attraverso la realizzazione di eco villaggi, ovvero quartieri composti da più edifici ad alta efficienza energetica, dove ogni elemento è pensato in modo sostenibile: dalla mobilità all’illuminazione pubblica, dalla gestione delle risorse idriche e dei rifiuti al verde. Il tema dell’abitare dev’essere considerato in una dimensione che potremmo definire olistica: non basta vivere in una casa a consumo zero, occorre scegliere in modo mirato cosa mettere nel piatto (cibo di stagione e a Km0) e imparare a muoversi in modo intelligente. Dobbiamo uscire dalla trappola della mobilità individuale, adottandone una maggiormente sostenibile, all’insegna di bicicletta, mezzi pubblici e car sharing. Abbiamo a disposizione i materiali, le tecnologie e il know-how necessari per cambiare il passo del nostro Paese ma affinché ciò accada deve sorg-

* [Progettare Sostenibile - Ravenna] info@progettaresostenibile.com

Sopra: L’esempio di Friburgo. La rigenerazione urbana deve passare attraverso la realizzazione di eco quartieri, dove ogni elemento è pensato in modo sostenibile: dalla mobilità all’illuminazione pubblica, dalla gestione delle risorse idriche e dei rifiuti al verde. In basso: Rendere desiderabile il cambiamento del proprio stile di vita. Ognuno può fare la propria parte. Da dove partire? Da casa, cibo e mobilità.


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MERCATO IMMOBILIARE

Mutui casa in netta ripresa con tassi al minimo storico Le famiglie ora richiedono alle banche finanziamenti in media di 120mila euro, per 20 anni. Preferendo il tasso fisso di Roberta Bezzi

Grazie al ribasso del costo del denaro e ai tassi di interesse ai minimi storici di sempre, il 2015 ha fatto segnare una netta ripresa delle erogazioni di mutui sulla casa. Un aumento che ha riguardato sia i mutui di surroga, che hanno permesso a decine di migliaia di famiglie di cambiare mutuo con risparmi molto rilevanti rispetto al vecchio finanziamento, sia i mutui di acquisto casa, che hanno confermato e sostenuto il primo anno di crescita delle vendite immobiliari dopo un calo progressivo che durava ormai dal 2008. Le richieste di mutui – nel 2015 – sono aumentate del 110 per cento rispetto all’anno precedente, generando un incremento percentuale della massa di finanziamenti del 68 per cento.

Il primo trimestre del 2016 non ha fatto altro che confermare questa tendenza positiva, con un ulteriore aumento rispetto al 2015. In particolare, i primi tre mesi del nuovo anno hanno portato a un +31 per cento per quanto riguarda la richiesta dei mutui, con il mese di marzo assoluto protagonista con un aumento del 17 per cento rispetto a febbraio. Se i mutui sono più convenienti, gli italiani sono più fiduciosi, con i prezzi degli immobili più bassi che mai e i tassi di interesse che a marzo hanno raggiunto il nuovo minimo storico del 2,36 per cento dal 2,41 per cento di febbraio (fonte MutuiOnline). Va da sé che, con questa media dei tassi di interesse, diventa molto conveniente valutare l’opzione di mutuo a tasso fisso. Considerando il totale delle nuove erogazioni, il 66,1 per cento sono infatti a tasso fisso, in crescita rispetto al 63,6 per cento di febbraio. «Certamente accogliamo con entusiasmo – afferma Pier Paolo Bac-


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carini, presidente Fiaip Romagna – ogni dato legato al settore immobiliare che porti con sé la forza propulsiva del segno “più”. Più compravendite, più stabilità nell’andamento dei prezzi, più prevedibilità nelle dinamiche del mercato e più possibilità di scelta per il cliente apportano due elementi fondamentali: certezza e dinamismo. A ben pensarci, quello immobiliare è uno dei pochi settori all’interno dei quali questi due fattori riescono a convivere in modo virtuoso, creando opportunità e richiamando l’interesse degli investitori. A differenza di forme di investimento che nel recente passato sono state ritenute più “trendy”, basti pensare all’euforia delle start-up e delle quotazioni in borsa, con la casa non si investe solo su un’idea, su un concetto, su una potenzialità, ma anche su un bene la cui immobilità ne rafforza la certezza: un approfondito controllo documentale, da svolgersi ancora prima di mettere in vendita un immobile, la consapevolezza delle nostre esigenze e una buona consulenza di mercato saranno i presupposti semplici e indispensabili per permetterci di investire con tranquillità». La volontà di assumere, o di rivedere nelle sue condizioni, un impegno di vita tanto importante come quello del mutuo testimonia senza dubbio una ritrovata progettualità, una voglia di guardare al futuro che è linfa vitale per un settore che rivela i suoi migliori punti di forza proprio nel lungo periodo. «La forte ripresa dei mutui è un bel segnale – conferma il presidente provinciale Fimaa, Pierluigi Fabbri –. Da parte degli operatori immobiliari, c’è la massima attenzione verso qualsiasi cambiamento che lasci intravvedere una ripresa del mercato. Non bisogna però dimenticare, dinanzi a queste statistiche che parlano di una crescita a due cifre, del peso che le richieste di surroga hanno rivestito. Complice la mutata situa-

zione economica, molte famiglie intestatarie di un mutuo hanno cercato condizioni migliori in un’altra banca, visto che in genere i vecchi contratti non sono più ridiscutibili. Ora la speranza è che questa tendenza positiva possa riflettersi in tutti gli altri comparti, per credere davvero nella tanto decantata ripresa. La crisi, in ogni caso, ha reso le persone più riflessive, anche nella richiesta di mutui che non è più a tutti i costi e per tutti gli importi». Fimaa rileva alcune differenze fra il periodo attuale e quello del boom immobiliare: prima si prediligevano mutui trentennali di importo medio 150 mila – 180 mila euro, oggi invece mutui ventennali al massimo valore di 100 mila-120 mila euro. In gran parte sono mutui per l’acquisto di prima casa, effettuati da giovani coppie dai 40-45 anni in giù. E se un tempo c’era una più alta disponibilità ad accendere un mutuo per l’acquisto della seconda casa, oggi di

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MERCATO IMMOBILIARE

meno, a dimostrazione che a investire di più sono coloro che hanno già i soldi in tasca. Da segnalare la novità del recente decreto “Mutui” che sancisce la possibilità di inserire, per i nuovi mutui, una clausola negoziale che prevede il pignoramento diretto da parte della banca della casa, senza quinti l’iter procedurale in tribunale, in caso di mancato pagamento di diciotto rate (anziché sette, come precedentemente fissato). I sindacati immobiliari ricordano inoltre che in caso di acquisto prima casa, si gode della detrazione del 19 per cento dall’Irpef degli interessi passivi del

mutuo fino a 4 mila euro all’anno per tutta la durata del mutuo, il che riduce ulteriormente il costo reale del finanziamento. «Se saremo capaci – conclude Baccarini – di includere in un “network allargato” clienti, consulenti immobiliari e istituti di credito, e di fare in modo che ciascun attore possa raccogliere i frutti di un comportamento trasparente e corretto, potremmo davvero affermare di aver contribuito alla nascita di un mercato immobiliare migliore, perché più vicino alle reali esigenze delle persone, di quello che ci siamo definitivamente lasciati alle spalle».

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