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n. 107 GIUGNO-LUGLIO 2016

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n.107 GIUGNO-LUGLIO 2016

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RAVENNA INTERNI CP:Layout 1 15/06/16 00:01 Pagina 2

LIBERI IN CUCINA

contenuti

giugno-luglio 2016

Design Nico Moretto

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casa bella casa

Una mansarda esclusiva nella prima periferia di Forlì, tra ufficio e abitazioneì _____________________________________________________

architettura e storia

arte e storia

Dal grandioso complesso museale di San Domenico a via Regnoli, la rinascita civile del centrocittà ______________________________________________________ di Chiara Bissi

città e architetture

Idee e progetti

La cucina scivola agilmente fuori dalle pareti domestiche, regalando un gusto speciale ad una serata estiva. Un microcosmo dove sentirsi artefici di un’incantevole cena al chiaro di luna. Un unico elemento su ruote, tutto in acciaio inox, che consente di cuocere alla griglia, in tegame e sulla piastra, oltre a sbizzarrirsi in deliziose fritture. Un sistema completo, concepito per assicurare qualità nelle preparazioni e praticità d’uso: la pietra lavica diffonde il calore in modo uniforme, è lavabile e non si consuma; la friggitrice assicura fritture leggere e facili da preparare. L’elemento inox su ruote da 130 cm contiene il grill con griglia in ghisa e la friggitrice elettrica, entrambi con i comandi frontali. Coperchio e due cestini sono in dotazione alla friggitrice. Serie di tegami e piastre dedicate ai diversi tipi di cottura, intercambiabili sullo spazio griglia. Ripiano inferiore scorrevole e totalmente estraibile.

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La brutalità del presente e la mollezza del passato. I segni incompresi di Sacripanti ________________________________________________ di Alberto Giorgio Cassani

Nel cielo violetto della sera. La Ravenna di Giorgio Bassani. Fra bolidi e camicie nere ______________________________________________________________ di Alberto Giorgio Cassani

istituzioni culturali

Liberi di uscire dai vincoli

Il Novecento si fa largo con lo stile Liberty nel reticolo della centurazione di Forum Livi _______________________________________________ di Pietro Barberini

Vicissitudini e recenti restauri del monumento del grande anatomista Giovanni Battista Morgani ___________________________________________________________ di Cetty Muscolino

città e quartieri

grand tour

di Paolo Bolzani

città e società

Archivio Piancastelli: vicissitudini di un prezioso fondo storico-librario in cerca di tutela ___________________________________________________ di Serena Simoni

Architettura di Frontiera: report dalla Biennale veneziana diretta dall’architetto cileno Alejandro Aravena _____________________________________________________________ di Sabina Ghinassi

I Curdi non possiedono che il vento. La tragedia di un popolo testimoniata da due attivisti ravennati ______________________________________________________________ di Marina Mannucci

abitare l’habitat

La rigenerazione urbana e la rigorosa tutela del territorio parte dai regolament municipali ___________________________________________________________ di Marco Turchetti

Happy Home . Scor 14 . Romagna 15 . Gesticasa . Gabetti 16 . Futura 17 . Case d’Autore . Mondo Casa 30 . Studio Effe 31 . Edilmax 32 . Idea Casa 33 . Forlì Casa 40 . Quatarca . Metroquadro 49 . Latorraca 55 . Assocase 56 . Russi Casa . Mazzini 57 .

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fotografie giugno-luglio 2016


TERME CASTROCARO CP PAG 2016:Layout 1 13/06/16 14:43 Pagina 2


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edizione di Ravenna

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Controcopertina

In uno storico fabbricato della prima periferia di ForlÏ l'architetto Paolo Carli Moretti si cimenta a rileggere radicalmente gli spazi interni attraverso processi visivi di semplificazione, per adeguarli alle necessità di lavoro (l’ufficio) e residenziali (l’abitazione), abbattendo barriere architettoniche, inserendo tecnologie e componenti adeguati al contenimento dei consumi energetici e dei requisiti acustici passivi.

Autorizzazione Tribunale di Ravenna n. 1240 del 8 novembre 2004 Direttore responsabile: Fausto Piazza Consulenza redazionale: Paolo Bolzani Collaborano alla redazione: Pietro Barberini, Roberta Bezzi, Chiara Bissi, Alberto Giorgio Cassani, Serena Garzanti (segreteria), Maria Cristina Giovannini (grafica), Sabina Ghinassi, Marina Mannucci, Domenico Mollura, Cetty Muscolino, Guido Sani, Serena Simoni, Marco Turchetti. Progetto grafico: Quadrastudio - www.quadrastudio.info Restyling grafico: Gianluca Achilli Referenze fotografiche: Alberto Giorgio Cassani, Pietro Barberini, Paolo Genovesi, Barbara Gnisci, Maurizio Montanari, Fabrizio Zani (e altre citazioni in pagina). Redazione: tel. 0544.271068 - redazione@trovacasa.ra.it

Editore:

Edizioni e Comunicazione srl

viale della Lirica 43 - 48124 Ravenna - tel. 0544.408312 info@reclam.ra.it - www.reclam.ra.it Direttore generale: Claudia Cuppi Stampa: Grafiche Baroncini - Imola - www.grafichebaroncini.it

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CASA BELLA CASA

Una mansarda esclusiva a All’ultimo piano del fabbricato ristrutturato da Paolo Carli Moretti

Forlì


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Come racconta il progettista, all’incarico di ristrutturazione complessiva successivamente si sommò anche quella della principale unità residenziale posta i piani superiori, e quindi «la nuova proprietà chiese di essere assistita anche dal punto di vista del design d’interni e dell’arredo» giugno-luglio 2016


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CASA BELLA CASA

«All’esterno – spiega Carli Moretti – l’approccio progettuale è consistito nel recupero di tutto l’apparato decorativo esistente e nella ricerca di un inserimento equilibrato delle nuove esigenze alle intrinseche caratteristiche architettoniche preesistenti». Da ciò derivano le scelte relative ad un «nuovo cornicione ed un nuovo parapetto con proporzioni e composizione continui all'apparato decorativo della facciata»


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di Paolo Bolzani

In omaggio ai luoghi in cui si è svolta la conferenza del ciclo “Sedici Architettura” del mese di aprile e quelle dei mesi di giugno e luglio, oggi conduciamo una ricognizione su Forlì, città su cui dovremo ritornare. Oggetto della nostra narrazione è il recupero di un fabbricato costruito intorno alla metà degli anni Trenta lungo uno dei viali di circonvallazione della città, non lontano da piazzale della Vittoria, sul limitare del centro storico. Si tratta di una posizione del tutto speciale, in quanto il sedime edilizio è costituito da una lunga e sottile striscia divisoria, posta tra viale Matteotti e via Nazario Sauro. Per questo motivo en-

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IDROZETA CP PAG 2016:Layout 1 14/06/16 12:26 Pagina 8


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trambi gli affacci sui lati liberi prospettano su spazi urbani, quindi con grande visibilità per le unità direzionali poste al piano terra. Ai tempi in cui sorse l’edificio di cui ci stiamo occupando la città era nota come la “Piccola Roma”, come raccontava una mostra e il suo pregevole catalogo curato da Luciana Prati e Ulisse Tramonti sull’urbanistica e architettura fra le due guerre (La città progettata: Forlì, Predappio, Castrocaro, 1999), recensita da chi scrive sul n. 436 di «Ravenna & Ravenna» nel gennaio del 2000. Tra i collaboratori all’opera editoriale vi erano note firme come Roberto Balzani, che circa una decina d’anni dopo sarebbe divenuto il sindaco della città, e il giovane architetto Paolo Carli Moretti (Forlì, 1969). Questi l’anno successivo si sarebbe trasferito a Roma nello studio dell’architetto Lamberto Rossi (ATP) per lavorare al progetto del nuovo Campus universitario di Forlì, città in cui avrebbe fatto ritorno qualche anno dopo. Ma veniamo al 2008, in cui Carli Moretti riceve l’incarico di ristrutturare il fabbricato di viale Matteotti. Come racconta il progettista, all’incarico di ristrutturazione complessiva successivamente si sommò anche quella della principale unità residenziale posta ai piani superiori, e quindi «la nuova proprietà chiese di essere assistita anche dal punto di vista del design d’interni e dell’arredo. Il progetto si è rivelato un’occasione professionale importante e rara, anche se di non grandi dimensioni, per la possibilità di seguire l’intervento dalla grande alla piccola scala». Uno dei temi che richiedeva attenzione era costituito dal trattamento dei fronti su strada, impaginati secondo uno schema storicista, con apparato decorativo tradizionale, dietro al quale però si cela una struttura portante risolta da un telaio in cemento armato. «Al-

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CASA BELLA CASA

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All’interno del fabbricato l’intervento segue un iter del tutto diverso, vincolato dalla sola necessità di rileggere completamente gli spazi «attraverso processi visivi di semplificazione, per adeguarli alle necessità di lavoro e residenziali, abbattendo barriere architettoniche, inserendo tecnologie e componenti adeguati al contenimento dei consumi energetici e dei requisiti acustici passivi».

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l’esterno – spiega Carli Moretti - l’approccio progettuale è consistito nel recupero di tutto l’apparato decorativo esistente e nella ricerca di un inserimento equilibrato delle nuove esigenze alle intrinseche caratteristiche architettoniche preesistenti. Da questi obiettivi sono emerse le prime scelte relative agli interventi da apportare al fronte: realizzare un nuovo cornicione ed un nuovo parapetto con proporzioni e composizione continui all’apparato decorativo della facciata; uniformare tutte le aperture del piano terra alle dimensioni delle più ampie porte-finestre esistenti; eliminare la recinzione esterna e completare in tal modo il collegamento tra edificio e città». La facciata si mostra ora con una sostanziale bicromia, risolta dai toni chiari delle fasce marcapiano, delle lesene e del cornicione, che inquadrano le campiture, risolte da una tinta tortora. All’interno del fabbricato l’intervento segue un iter del tutto diverso, vincolato dalla sola necessità di rileggere completamente gli spazi «attraverso processi visivi di semplificazione, per adeguarli alle necessità di lavoro e residenziali, abbattendo barriere architettoniche, inserendo tecnologie e componenti adeguati al contenimento dei consumi energetici e dei requisiti acustici passivi e cercando di utilizzare, per quanto possibile, tecniche e materiali locali e naturali». Il progettista decodifica la “base ritmica” del testo edilizio e ne riprende moduli e proporzioni, assoggettando in questo modo le scelte strutturali, distributive, formali e funzionali al tracciato regolatore, come mostrano le piante allegate. Il metodo di conduzione del progetto e del cantiere è quello di concordare le scelte con la committenza e di coinvolgere le maestranze nel corso dei lavori. Al piano terra gli originari laboratori vengono sostituiti da quattro uffici, che sfruttano completamente l’altezza interna, inserendovi piccoli soppalchi in acciaio e


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Siamo uno studio fotografico di Forlì che collabora con vari specialisti di arredamento di interni e di lavorazione resine. Grazie a questa sinergia possiamo offrire un servizio a 360 gradi con consulenza gratuita.

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> Crediti Arch. Paolo Carli Moretti, Forlì • Progettista: • Committente: edile: MC costruzioni, Forlì • Impresa elettrico: • Impianto • Opere da fabbro (copertura e soppalchi): da vetraio (soppalchi e parapetti): • Opere Vetreria Solemare, Castiglione di Cervia, RA pavimenti e rivestimenti: • Fornitore Sassi srl, Forlì sanitari e materiale idrico e impiantistico: • Forniture Idrozeta, Forlì • Fotografie: Eugenio Barzanti Immobiliare Mediterraneo srl, Forlì

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In mansarda l’ospite si trova in un inedito open space, caratterizzato dalla presenza di una grande copertura in acciaio scuro e legno lamellare chiaro, risolta con componenti assemblati in opera, «operazione che ha richiesto grande impegno e cura dei dettagli da parte di tutti gli artigiani e progettisti coinvolti».

legno dall’esiguo spessore di sei centimetri; sono «realizzati in opera con profili estrusi a L di tipo industriale e assemblati a cassettoni su moduli quadrati che consentono di rileggere facilmente le proporzioni degli spazi». Sono inoltre valorizzati da grandi finestre con serramenti ad anta unica pivotante, che «accrescono il rapporto visivo con lo spazio urbano esterno» e da un pavimento continuo in ardesia grigia. Al piano primo vengono realizzati due appartamenti, con quello maggiore che vi destina la sola zona notte, costituita da due camere, altrettanti bagni e un guardaroba, mentre prosegue con la zona giorno nella mansarda ricavata nel sottotetto, raggiungibile dal piano terra per mezzo di un ascensore privato a suo uso esclusivo. Lo sbarco avviene con il totem del vano

ascensore in cemento armato a vista, posizionato in zona baricentrica tra living e zona pranzo. L’ospite si trova in un inedito open space, caratterizzato dalla presenza di una grande copertura in acciaio scuro e legno lamellare chiaro, risolta con componenti assemblati in opera, «operazione che ha richiesto grande impegno e cura dei dettagli da parte di tutti gli artigiani e progettisti coinvolti; in questo modo l’immagine d’insieme è così affidata alla potenza visiva di questi soli tre materiali: il cemento a vista e il bianco e il nero, per acciaio, legno e pavimento in spatolato cementizio». Il nuovo spazio ottenuto si affaccia sul centro storico e verso un’area a verde pubblico con una nuova ampia vetrata continua scorrevole da cui si accede felicemente ad un terrazzo, ricavato in falda.

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ARCHITETTURA E STORIA


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Il Novecento si fa largo La bella periferia di Forlì sorta attono a Viale Fulcieri negli anni Venti Testo e foto di Pietro Barberini La morfogenesi di una città spesso trova identificazione e caratteri distintivi nello sviluppo infrastrutturale e nella stessa “personalità” stilistica d’interi quartieri. È il caso della periferia sud orientale di Forlì che dopo duemila anni di storia, respira e ripropone un assetto urbano derivante dagli insediamenti romani del II secolo a.C. Lo spazio che guarda a libeccio della via Emilia ed ha il suo asse in viale Fulcieri Paulucci de’ Calboli rappresenta l’accampamento romano nella Gallia

Cisalpina in versione novecentesca. L’antica Forum Livii, importantepresidio territoriale, nasce, infatti, non lontano dal fiume Bidente-Ronco e dove il Montone, dopo aver ricevuto le acque del Rabbi, allarga la sua conoide di deiezione. Anche per Forlì vale il detto latino aquæ condunt urbes, perché, all’incrocio fra importanti vallate appenniniche e quella strada che portava alle Gallie, nascono e si sviluppano alcune città di fondamentale importanza per la colonizzazione romana della Valpadana.

Sopra, una foto aerea della pianta del centro urbano di Forlì nel secondo dopoguerra. A destra, si nota la piazza della Vittoria e l’asse in alto del viale della Stazione che prosegue in basso con i giardini pubblici. I viali di circonvallazione confluiscono sulla grande piazza monumentale che prosegue verso levante lungo la via Emila come corso Garibaldi, formando una sorta di Y. Nell’angolo a destra, il rettangolo fra viale Fulcieri e i giardini pubblici, dove si sviluppa la periferia di villette in stile Liberty, ricalcata sugli assi dell’antico appoderamento romano. Tratto da PIERLUGI CERVELLATI, La cultura delle città. Emilia Romagna (1991, Cantini editore).

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In questa pagina e in quella precedente, alcuni scorci e particolari architettonici di villette degli anni ‘20 del Novecento nel reticolo di strade fra i guerdini pubblici e viale Fulcieri, ai margini sud est del centro storico di Forlì.


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La via Emilia, dal 187 a.C., disegna, infatti, un impianto che nel corso della storia, ma soprattutto all’inizio del Novecento, dispiega e delinea nuovi assi infrastrutturali e abitativi, predisponendo aree di sviluppo per quartieri residenziali che completano una città già fiorente nei commerci e nei mercati agricoli e con alcune industrie tessili e chimiche presenti nel suo tessuto urbano. La rivoluzione era iniziata nel 1861 con la ferrovia costruita parallelamente alla strada consolare romana, una via ferrata che corre da Bologna a Forlì mantenendosi a meno di un chilometro di distanza dalla millenaria direttrice. Con l’Italia unita, la ferrovia e i viali di circonvallazione modernizzano la città, mutandone l’aspetto e conquistando spazi dove vengono a localizzarsi le prime industrie. Non essendoci ostacoli, come il corso del fiume Montone che lambisce Forlì nella sua parte sud occidentale, la periferia residenziale si sviluppa in senso ortogonale rispetto alla via Emilia fuori Porta di borgo Cotogni dove,nella seconda metà degli anni Venti, si aprirà il monumentale piazzale della Vittoria con l’imponente viale della nuova stazione, inaugurata il 30 ottobre 1927. In quello scacchiere della città il terreno è pianeggiante e si allunga verso il pedemonte che appare come una prospettica scenografia urbana. Forlì, cinta dai viali di circonvallazione e allungata lungo l’asse dell’antico decumano che la percorre da est ad ovest, ha perso tutte le sue porte, antichivarchi daziari: una di queste, la monumentale Porta di Borgo Cotogni, viene sostituita da due palazzi gemelli, Bazzini e Benini, che tuttora dividono Piazzale della Vittoria da Corso della Repubblica. Dall’altra parte verso Faenza, l’antica Porta Liviense è stata rimpiazzata da Porta Schiavonia, tuttora esistente, che guarda verso il ponte sul fiume Montone, già Liviense. Nella parte sud orientale di Forlì cresce il segno distintivo di una nuova architettura: i viali che corrono paralleli fra loro trattengono il silenzio della storia, nella quiete di villette unifamiliari, che dagli anni Venti agli anni Trenta hanno tratteggiato con eleganza un modo di abitare e vivere la città. Una periferia vera, nel senso etimologico del termine, al limite di un’area cittadina che conteneva l’operosità cara al regime: i treni in orario, le fabbriche, la scuola, le parate... Da questo tessuto semplice e mai banale che tuttora conserva quasi inalterate le sue valenze con una viabilità ariosa eppure appartata, si staccano le aree sportive, lo stadio con il velodromo e, molto più discosto, il campo di volo. Ora quella superficie erbosa è diventata una grande pista d’atterraggio per i moderni jet di linea e il nastro di cemento è parallelo alla strada fatta costruire duemiladuecento anni fa dal console Marco Emilio Lepido. Dove poteva abitare un ceto borghese nuovo, insofferente agli intruppamenti prediletti dal fascismo che a Forlì ne riproponeva in “sedicesimo” i fasti? In una zona appartata, al limite del centro cittadino, lontano dai clamori delle cronache e in belle residenze contraddistinte da uno stile lineare e da eleganti decorazioni: era il segno di riconoscimento di una borghesia che voleva salire, ma la periferia dell’“impero” diventerà, ben presto, stretta. Così ora quel quartiere, dove lo stile “Liberty” non acquisisce mai esuberante presenza, resta sobrio e non conosce le regole del tempo, anzi rivive di nuova luce.

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Il monumento a Giovanni Battista Morgagni a Forlì Un omaggio al padre dell’anatomia patologica di Cetty Muscolino Il grande anatomico forlivese Giovanni Battista Morgagni (Forlì 1682-Padova 1771) universalmente considerato il fondatore dell’anatomia patologica manifestò fin dalla giovinezza una grande predisposizione verso gli studi e si interessò di filosofia, botanica, scienze, medicina, matematica, archeologia e astronomia, favorito in ciò da una memoria prodigiosa. A solo trent’anni è il maggior anatomista del tempo e ottiene onori e fama da Londra a Parigi, da Pietroburgo a Berlino: un successo strepitoso che suscita invidie tali da indurlo a redigere un testamento, per il timore di una morte prematura a causa delle sue rivoluzionare teorie che avevano messo in crisi il mondo accademico.

Prima fila in alto, da sinistra: due immagini d’epoca del monumento a Giovan Battista Morgagni nel cortile del palazzo degli Studi a Forlì, Forlì, Biblioteca Comunale Aurelio Saffi, Fondo Piancastelli - Antonio Puccinelli, Ritratto dello scultore Salvino Salvini, 1849, olio su tela, 48 x 39,7 cm, Roma, Accademia Nazionale di San Luca, inventario n. 741. Seconda fila, da sinistra: frontespizio dell’Adversaria anatomica omnia, 1719 - Frontespizio del De sedibus, et causis morborum per anatomen indagatis libri quinque, Patavii: Sumptibus Remondinianis, 1765 (seconda edizione), particolare Ritratto di Morgagni, incisione di Angelica Kaufmann. Terza fila, da sinistra: Ritratto del Morgagni dalla serie di dipinti dedicata a uomini di scienza medica (Galeno, Paracelso, Morgagni, ecc.) realizzata dal 1957 al 1961 dall’illustratore americano Robert Alan Thom, specializzatosi in ricostruzioni storiche Ritratto marmoreo Giovan Battista Morgagni, Forlì, sala del Palazzo Comunale Giornata Morgagnana del 24 maggio 1931, grandiosa partecipazione di pubblico, Biblioteca Comunale Aurelio Saffi di Forlì, Fondo Piancastelli, ASRa 20/173.

Il monumento, in marmo di Carrara alto circa otto metri fu commissionato allo scultore livornese Salvino Salvini il 20 giugno 1869 dal patrizio forlivese Camillo Versari, uno dei fondatori della Società Medico chirurgica dell’Ateneo bolognese e docente all’Università di Bologna, per il desiderio della città di Forlì di onorare la memoria dell’illustre concittadino di cui non era stato possibile ottenere i resti mortali1. La scultura, collocata originariamente nel cortile del palazzo degli Studi, luogo di eccellenza della formazione culturale dei forlivesi, venne inaugurata il 27 maggio 1875 con una solenne celebrazione.

Lo scultore Salvino Salvini, (1824-1899) uno dei maggiori esponenti del verismo accademico che domina la scultura italiana nella seconda metà dell’Ottocento, fu allievo di Lorenzo Bartolini nell’Accademia di Belle Arti di Firenze, dove e strinse amicizia con il pittore Antonio Puccinelli (1822-1897), che lo ritrasse nel settembre del 1847, prima della partenza di entrambi gli artisti per Roma, dove Salvini lavorò nello studio di Pietro Tenerani (1789-1868). Per il Cimitero Monumentale di Pisa il Salvini realizza i monumenti a Nicola e a Giovanni Pisano e nel 1860 ottiene la cattedra nell’Accademia di Belle Arti di Bologna, dove insegnerà per trent’anni, fino al progredire della sua paralisi. In quarant’anni di intensa attività è autore di importanti monumenti2 esposti in molte città italiane e mantiene sempre una propria individualità artistica, non soffocata dalle regole accademiche del tempo; trae ispirazione dalla realtà e dall’arte antica, in una continua ricerca che lo rende difficilmente soddisfatto del suo lavoro, curato sempre in prima persona: «amo qualunque abbozzatura delle mie opere farla fare sotto la mia direzione, perché quell’operazione è interessantissima che si faccia sotto gli occhi dell’artista». Il monumento rappresenta lo scienziato in posizione eretta, rivestito del-

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l’ampia toga dottorale, con la fluente chioma che scende sulle spalle, mentre sostiene nella mano sinistra un teschio umano e con le dita nella destra un bisturi, perduto durante l’ultimo conflitto mondiale. Un ritratto che non scade nella facile retorica dei monumenti celebrativi, ma che con acuta introspezione psicologica rende al meglio l’essenza più intima di Morgagni, studioso sereno. amante della casa e che trascorse un’esistenza improntata ad una semplicità patriarcale. Con grande padronanza lo scalpello del Salvini, curando con maestria l’anatomia del corpo, l’armonia dei piani e dei volumi e l’equilibrio dei rapporti, ci restituisce un Morgagni solenne e maestoso, col profilo fiero e deciso, la fronte solcata da sottili rughe parallele, labbra e mento morbidi. Finemente precisata la lunga chioma, costituita dalla parrucca a folti riccioli cadenti sulle spalle e segnata sul retro da una scriminatura centrale; accuratissime le vesti, rifinite nei minimi dettagli: dalle decorazioni a ramoscelli d’ulivo che caratterizzano l’elegantissimo panciotto, prolungato nelle code posteriori, alle delicate passamanerie a fiori quadripetali intercalati da foglioline e chiuse con fibbie quadrate, che bordano i pantaloni al di sotto del ginocchio, fino ai soffici ciuffi della mantellina di ermellino. Al di là della mera funzione decorativa tutti gli elementi esaltano lo spessore morale dello studioso:oltre all’ulivo, segno di pace e concordia, va sottolineato il valore simbolico dell’ermellino, pelliccia indossata da personalità d’alto lignaggio e col tempo riservata ad aristocratici, magistrati e rettori delle università di Padova e Bologna, proprio perché distintiva di purezza e rigore morale. Sospeso ad una catenella che fuoriesce al di sotto del panciotto si nota un piccolo astuccio in cuoio in parte mutilo, contenente probabilmente una bottiglietta con disinfettante; il pollice e l’indice della mano destra si congiungono per sostenere il bisturi e nell’anulare c’è un anello con un cammeo che rappresenta un profilo. Con la mano sinistra aperta e protesa in avanti sostiene un panno ripiegato su cui poggia un cranio umano con sedici denti. Dalla lunga e fluente toga dalle ampie maniche, precisata nei tondi bottoni e nelle sottili asole e che si prolunga con un lungo e mosso strascico sul retro, fuoriescono le ricche frappe della camicia. Le eleganti scarpe dalla lunga punta sono ornate con fibbie rettangolari e su di un panchetto sul lato sinistro della statua, sono appoggiati due volumi e due fogli pergamenacei, al di sotto delle quali è inciso: «SALVINI Fece/ BOLOGNA 1873».

La traslazione della statua: una vicenda laboriosa e travagliata

Fotogrammi del restauro della statua, con alcuni particolari prima e dopo l’intervento. Nella foto grande (pagina a lato) la statua completamente restaurata.

A cinquant’anni dalla prima inaugurazione, nel generale e diffuso clima di celebrazioni promosse dal regime fascista, si fa largo l’idea di trasferire il monumento in un luogo maggiormente visibile, e dal marzo del 1925 inizia una serrata corrispondenza fra il Prefetto di Forlì, la R. Soprintendenza dell’Arte Medioevale e Moderna dell’Emilia e della Romagna, in Bologna, cui afferisce Forlì, nella persona del Soprintendente Luigi Corsini, il Comune di Forlì, la Commissione Conservatrice dei Monumenti per le Provincie di Forlì e la Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti di Roma. In netto disaccordo con l’ipotesi deltrasferimento dell’opera il Soprinten-


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dente scrive: «Io sono del parere che non sia opportuno rimuoverlo e ciò per le proporzioni stesse del monumento; per rispetto della memoria dell’artista che modellò la statua subordinandola all’ambiente cui era destinata; infine per una pregiudiziale di ordine generale in quanto i monumenti debbono essere intangibili e non soggetti alle passioni». Ma la Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti autorizza il Comune di Forlì ad agire come ritiene più opportuno 3.

E se tagliassimo il manto? Definita la questione del trasferimento dell’opera Corsini deve affrontare la sconcertante proposta, avanzata dall’intraprendenza del Sindaco di Forlì e dallo scultore e architetto Roberto De Cupis, di tagliare la parte posteriore del manto della scultura per darle una maggiore simmetria4, Fortunatamente la sconsiderata operazione viene sventata dalla costante vigilanza del Soprintendente che verrà rassicurato da una lettera del Podestà che il basamento della statua «nelle sue linee architettoniche, rimane quello che era in origine, senza alcuna modificazione». Quindi la tanto sospirata traslazione del monumento dalla corte del Palazzo degli Studi alla Piazza Morgagni avviene nel 1931, con una grandiosa cerimonia a cui il Soprintendente Corsini non partecipa, limitandosi a trasmettere un telegramma5 al Podestà di Forlì

Venendo ai nostri giorni Sul finire degli anni ottanta l’imponente monumento si presenta fortemente alterato per l’esposizione all’aperto in un ambiente urbano inquinato.: molteplici abrasioni del materiale lapideo per il dilavamento della pioggia acida; carbonatazione della pietra che ha provocato un’alveolizzazione della superficie, gravi alterazioni biologiche (alghe e licheni), sedimenti di polveri e abbondante deposito di guano dei piccioni. Un’accurata disinfestazione, il consolidamento e una meticolosa pulitura

restituiscono all’opera un aspetto decoroso… ma a distanza di vent’anni il monumento si ritrova nuovamente in una deplorevole condizione che sollecita un nuovo laborioso intervento di restauro6 completato anche dalla predisposizione di un sistema per allontanare i colombi. Restituiti quindi al Morgagni la dignità e il decoro che gli sono dovuti si auspica la programmazione di interventi di manutenzione costante, per evitare e prevenire che opere così importanti e rappresentative del patrimonio artistico nazionale, giungano a tali livelli di degrado. Si invita la città (e non solo Forlì!) a dimostrare attenzione e cura, come farebbe un buon padre di famiglia, per il patrimonio che la rende preziosa… Non vorremmo che nel volgere di poco tempo il depositarsi del particellato atmosferico e il rifiorire di muschi e licheni vanificassero il meticoloso lavoro di risanamento e di raffinata pulitura che ci consente oggi di ammirare il monumento in tutta la sua maestosità e nelle molteplici eterogeneità materiche che lo scultore ha saputo fingere ed eternare nel marmo, dal pesante panno della lunga toga alla lievissima mantella in candido ermellino.

Note 1 Il Morgagni morì e fu seppellito a Padova, dove per 56 anni aveva insegnato a studenti provenienti da tutti i paesi, nel celebre anfiteatro di anatomia di quella città, costruito nel 1594 secondo le direttive di Fabrizio d’Acquapendente. 2 Fra le opere da lui realizzate nel periodo bolognese si ricordano, oltre al monumento a Giovan Battista Morgagni a Forlì (1873-75), la statua del Cardinale Pietro Valeriani per la facciata di Santa Maria del Fiore a Firenze, la scultura che rappresenta Giotto fanciullo, nella sala dei matrimoni del Municipio di Roma, il monumento a Guido Monaco per la città di Arezzo e numerosi busti, a Giovanni Rossini, a Mascagni, al maestro di musica Angelo Mariani, a Camillo Benso Conte di Cavour e ai monumenti sepolcrali per il Cimitero di Pisa, di Bologna e per la Certosa di Ferrara 3 «Questo Ministero non ha ragione d’intervenire nella questione relativa alla traslazione del monumento a G.B. Morgagni, sito nel cortile interno del Palazzo degli Studi in Forlì, perché non risalendo l’esecuzione del monumento stesso ad

oltre cinquant’anni, il medesimo non è soggetto alle disposizioni della legge per le antichità e belle arti», lettera del 19 settembre 1925 4 2 ottobre 1926 Municipio di Forlì. Lettera del Sindaco al Soprintendente. Oggetto: statua dello scienziato G.B. Morgagni: taglio del manto «Come alla S.V. ill/ma è noto, questa Amministrazione ha già deliberato la traslazione del Monumento all’insigne scienziato forlivese G.B. Morgagni dall’interno del Palazzo degli Studi al piazzale prospiciente l’Ospedale Civile, affidando l’incarico dei relativi lavori allo scultore Prof. Roberto De Cupis. È stata però prospettata da detto artista e confermato dall’Ufficio Tecnico Comunale, l’opportunità di procedere al taglio del manto della statua dalla parte posteriore per togliere la dissimmetria che si verifica guardando la statua stessa di profilo e che esteticamente risulta poco soddisfacente: prima di addivenire a una qualsiasi decisione in proposito, questa Amministrazione si permette di richiedere in merito l’autorevole parere della S.V. Ill/ma, se il taglio proposto di circa 25 o 30

centimetri (in modo da far coincidere l’asse della statua coll’asse della base per migliorare l’estetica del Monumento, visto di fianco, e se tale lieve modificazione, a di Lei giudizio, possa dar motivo di lagnanze per parte degli eredi dell’Autore o di chiunque vi abbia diritto. Unisco, a tale scopo, la fotografia del profilo della statua, nella quale risulta evidente la dissimetria lamentata, e che può servire di base al giudizio della S.V. Ill/ma, qualora non voglia rendersene personalmente conto con apposito sopraluogo. Le sarò grato di un cortese riscontro, possibilmente sollecito, dovendosi proseguire il lavoro, e le porgo fin d’ora vivissimi ringraziamenti. Con distinti ossequi». 5 «Grato suo gentile invito spiacente che motivi famigliari vietino allontanarmi da Bologna per assistere cerimonia onore Morgagni stop ossequi soprintendente Corsini». 6 Finanziato dal Rotary Club di Forlì e dalla Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì

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pelle, metalli come piombo, acciaio, alluminio, ferro, ottone; e poi marmo e plexiglass, sempre in collaborazione con una rete di fidati professionisti esterni. Roberto Tagliaferri, anima e guida di ArtigianaLegno racconta e svela con passione la filosofia e il carattere di una realtà che rimane con la testa e con il cuore un’azienda artigiana, nonostante i tanti risultati imprenditoriali. «Siamo nati come falegnameria nel 1988. Eravamo in due, ora abbiamo 20 dipendenti, con una struttura tecnica interna al servizio del progettista e del cliente privato. Una scelta che ci ha permesso di resistere alla lunga crisi del settore. Ho sempre immaginato un’azienda al servizio del cliente perché mi sento un sarto nel mondo dell’arredo, cerco di costruire un vestito addosso al cliente, con passione e gusto. Voglio che si innamori del materiale scelto, prima ancora di pensare al prezzo. Questo è quello che ci contraddistingue dalle altre aziende. Il mio compito consiste nel percepire la sensibilità del cliente e trasmetterla nella scelta di un materiale. Il lavoro di sartoria mi appassiona e nel tempo sono diventato anche un po’ psicologo». Un approccio non comune che ha proiettato l’azienda sulla scena nazionale e internazionale e ha permesso di tenere il

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passo con le mutate richieste del mercato. «Abbiamo compreso fin dall’inizio la necessità di utilizzare tecnologie all’avanguardia, sono poche in Romagna le aziende che dispongono di macchinari simili ai nostri, in questo modo siamo sempre stati competitivi. In più abbiamo concentrato la massima attenzione sulla manodopera, lavoriamo e ricerchiamo bravi falegnami, abili con le mani. Ogni pezzo di legno ha una sua storia e un verso, se si vuole fare un buon lavoro va rispettato, anche se il mercato non lascia spazio a questa filosofia. Ma noi italiani dobbiamo resistere perché abbiamo testa, creatività e grande mano. Quando lavoriamo all’estero troviamo differenze abissali, il nostro settore non è accompagnato dalle istituzioni come per esempio avviene in Germania». Di fronte agli effetti della lunga crisi economica che ha attraversato il Paese, l’unica risposta possibile per le aziende è la qualità delle produzioni e la versatilità, ne è convinto Tagliaferri che aggiunge: «Non siamo competitivi sul prodotto industriale di bassa qualità, ma sulla fascia alta sì, perché abbiamo scelto di puntare sulla qualità dei materiali usati e sulla capacità di realizzare pezzi, spesso unici. Rimaniamo produttori artigianali, non industriali e questo ci ha salvato. Negli anni abbiamo fatto esperienza con umiltà sapendo che

c’è sempre da imparare, oggi possiamo operare fra gli stili, dal moderno alle linee della tradizione. Possiamo lavorare in contesti storici di grande prestigio come la villa Pliniana di Como della famiglia Ottolenghi per fare un esempio, ma abbiamo le capacità per produrre le librerie disegnate da Arata Isozaki o i mobili per i punti vendita di Erbolario, in tutt’Italia. Non diciamo mai di no. Non rispondo mai a un cliente questo non si può fare. Cerco di soddisfare la richiesta particolare e se per farlo devo cercare un fornitore, telefono in tutto il nord Italia finché non l’ho trovato. Questo fa la differenza». Un modo di intendere il fare impresa che ha riflessi anche sulla qualità della vita e del lavoro all’interno della sede di Russi. I più di 3mila metri quadrati dedicati alle lavorazioni, dal grezzo sino al prodotto finito e alla spedizione, sono infatti a zero impatto ambientale. «Nel 2010 abbiamo deciso di raggiungere l’autosufficienza energetica, così abbiamo installando un impianto fotovoltaico sul tetto per produrre l’energia necessaria alla nostra attività (100kW). In più è in funzione un impianto di smaltimento delle lavorazioni di legno vergine che produce riscaldamento per tutta l’azienda. Ho pensato che era una delle poche cose che potevo fare per i miei figli: ridurre le emissioni».

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CITTÀ E QUARTIERI

Dal complesso di San Domenico la rinascita di Forlì Piccolo itinerario nel cuore della città tra recuperi, restituzioni e gallerie a cielo aperto di Chiara Bissi Dopo tante ricognizioni urbane condotto nella città di Ravenna e nel comprensorio, per la prima volta il raggio di azione si amplia e la rubrica Città e quartieri raggiunge Forlì. Qui viene proposto un possibile percorso fra i tanti nella città storica, una traccia che privilegia alcune emergenze e necessariamente lascia in ombra tanto altro. Non è la più bella, la più elegante e forse nemmeno la più vivace fra le città romagnole, ma Forlì ha deciso di mettersi in gioco, ripensando, recuperando, ridisegnando spazi urbani, viabilità e servizi. Nonostante la crisi economica, e superando i limiti delle città della provincia italiana, forti nel conservare la tradizione, fragili nell’immaginare il futuro, Forlì rinnova la propria immagine, si proietta nel XXI secolo e ricomincia dal patrimonio monumentale. Se il Novecento ha rappresentato l’incontro con la grande Storia, riconoscibile nel programma monumentale dell’architettura razionalista del Ventennio, (capitolo che verrà trattato altrove all’interno della


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A sinistra, il complesso museale di San Domenico; in alto l’oratorio di San Sebastiano, oggi utilizzato come spazio espositivo; in basso la cattedrale dedicata alla Madonna del Fuoco. In basso a sinistra, uan curiosa targa che vieta l’ingresso nella basilica con le biciclette...

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CITTĂ€ E QUARTIERI

Sopra, il palazzo della Prefettura; a destra via Quadrio, nel cuore di ForlĂŹ, con uno dei tanti locali che si affacciano sulla strada. In basso la centralissima via Delle Torri che porta in piazza Saffi con, sullo sfondo, il campanile di San Mercuriale.


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rivista), il cuore della città, ha trovato nella restituzione del complesso di San Domenico di piazza Guido da Montefeltro un centro propulsivo di attività, contenuti, messaggi e opportunità. Il restauro da subito si lega alla possibilità di riorganizzare il sistema museale cittadino e di riqualificare un quartiere degradato. Curatori del progetto sono l’architetto Gabrio Furani per il restauro delle strutture architettoniche, e lo studio Lucchi & Biserni con Wilmotte & Associés, per il recupero degli interni e l’allestimento museale. Un’operazione condotta grazie a un accordo di programma che hanno visto coinvolto il ministero per i Beni e le Attività Culturali, la Regione e il Comune di Forlì. L'allestimento è stato realizzato con

In alto a sinistra, l’interno della chiesa di San Mercuriale e all’ingresso un curioso avviso ai fedeli per un torneo di Marafone; in basso a sinistra uno scorcio di Piazza Saffi, verso il Palazzo delle Poste. Sopra in questa pagina, una casa con murales in via Girogio Regnoli.

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il contributo della fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì. Nel 2005 con una mostra dedicata a Marco Palmezzano inizia l’avventura culturale del complesso, seguiranno esposizioni che indagano l’opera di Silvestro Lega, Guido Cagnacci, Antonio Canova, Melozzo da Forlì, Wildt per citarne alcune e poi il Liberty, il Novecento fino all’ultima in chiusura il 26 giugno “Piero della Francesca. Indagine su un mito". Una scelta che a lungo ha concentrato risorse pubbliche su un unico obiettivo, a differenza di altre città vicine, impegnate su più fronti nell’ambito della promozione culturale. In dieci anni I musei San Domenico hanno trovato posto nella migliore programmazione a livello nazionale con risultati lusinghieri in termini di pubblico. Il complesso di San Domenico risale al XIII secolo nel nucleo originale, la chiesa di San Giacomo, oggi auditorium e sala convegni, e il convento adibito a mostre e sede della Pinacoteca e dei musei civici, subiscono nei secoli significative modifiche, fino al periodo napoleonico quando la chiesa viene espropriata per usi militari, sarà definitivamente acquisita dallo Stato nel 1866-67 per diventare ospedale militare, gendarmeria, e, in seguito, teatro per l’accademia dei Filodrammatici, infine una fabbrica. Il fenomeno di degrado culmina nel 1978 con il crollo di parte della copertura e della facciata meridionale. La chiesa originale fu ampliata tra il XV secolo l'inizio del XVI secolo diventando a navata unica. Di quell’epoca la costruzione del vicino oratorio di San Sebastiano, progettato dall’architetto e disegnatore forlivese Pace Bombace, un tempo sede della confraternita dei Battuti Bianchi, l’edificio, oggetto di un accurato restauro tra il 1978 e il 1982, e utilizzato per mostre temporanee. Lasciato il vicino ristorante Don Abbondio, meta della ristorazione forlivese, dalle vie, fra loro parallele, Cobelli, Bufalini o Anita Garibaldi si raggiunge Corso Garibaldi e di lì via Santa Croce in direzione della cattedrale. La città, sulla via Emilia porta nel nome la propria origine romana, Forum Livii, anche se popolazioni celtiche da secoli abitavano la zona. Si attende da anni


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la sistemazione definitiva del museo archeologico per riscoprire la storia antica dell’abitato, anche se non di primo piano nel contesto romagnolo. Della pieve di Santa Croce si hanno notizie dal X secolo; riedificata nel 1173 è cara ai forlivesi per la presenza della xilografia della Madonna del fuoco conservata in una cappella, sovrastata da una cupola ottagonale affrescata da Carlo Cignani. La tradizione vuole che abbia resistito alle fiamme di un incendio nel 1428, divenendo la protettrice della città. Nella cappella del Santissimo Sacramento costruita su progetto di Pace Bombace per volontà di Caterina Sforza nel 1490 è conservata invece l’immagine della Madonna della Ferita. L’austerità dell’edificio dovuta alla ricostruzione firmata dall'architetto Giulio Zambianchi nel 1841, è spezzata dalla targa che compare nella bussola di ingresso che avverte “Proibito introdurre biciclette”. Il vicino palazzo Piazza Paolucci, sede della Prefettura, costruito a partire dal 1673, che negli anni Trenta subì nuovi e corposi interventi è una delle quinte di piazza Ordelaffi, dalla quale si raggiunge con facilità via delle Torri, sulla quale si aprono i giardini Orselli, area verde attrezzata. Su via Maurizio Quadrio si sussegue una serie di ristorantini e negozi che ravviva le serate cittadine, da Sa-

In alto, street art su un muro di via Regnoli; a sinistra, un negozio in stile Liberty in Corso Garibaldi; qui a fianco, Palazzo Neoclassico in Largo de Calboli.

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CITTÀ E QUARTIERI lumè, all’osteria Nascosta, all’osteria del Mercato fino alla Sosta, solo per citarne alcuni in ordine sparso. Più avanti il mercato coperto di piazza Cavour attende di riprendere l’antico nome di Foro annonario. Una vivacità che si ritrova anche in via delle Torri che conduce in piazza Aurelio Saffi, seguendo il profilo del campanile di San Mercuriale. Un piccolo bus elettrico serve la zona e tra buon cibo e shopping presto si raggiunge la grande piazza, il cuore della città. Uno spazio urbano vasto, fra i più imponenti d’Italia, è strettamente legato all’antica abbazia di San Mercuriale, le fonti infatti la indicano come campo dell’Abate. La presenza di un corso d’acqua in prossimità del palazzo Comunale, edificio già della famiglia Ordelaffi, segnava un tempo il limite urbano. Da secoli piazza del mercato, al centro ospita alla sommità di una colonna la statua di Aurelio Saffi che nell’Ottocento ha sostituito quella della Madonna del Fuoco. Ricostruita nel 1173 su un precedente edificio religioso, la chiesa subì nel corso dei secoli diversi rifacimenti, fino ai danneggiamenti della Seconda guerra mondiale e oggi conserva la cappella di Barbara Manfredi e la Madonna con Bambino fra i Santi Giovanni Evangelista e Caterina d'Alessandria opera di Palmezzano. L’imponente campanile, edificato nel 1180 è posto sul lato destro della chiesa. Il portale in marmo conserva una lunetta, contenente il pregevole complesso scultoreo raffigurante il Sogno e adorazione dei Magi. Come nella cattedrale il carattere composto dell’edificio viene mitigato dalla vivezza degli annunci della bacheca posta sulla bussola di entrata, nella quale si può leggere un memo circa un imminente torneo di maraffone e beccaccino. Fanno da quinte alla piazza i palazzi delle Poste, del Podestà e Albertini. Dal 2015, il palazzo Talenti Tramonti ospita su quattro piani Eataly, con all’interno la Trattoria da Giuliana, già anima del Gambero Rosso di San Piero in Bagno. Lasciata la vastità di piazza Saffi, vale la pena di raggiungere la vicina via Giorgio Regnoli, in passato segnata dall’abbandono e dal degrado e ora rinata nel segno “dell’arte, dell’artigianato e del buon vivere”. Un’associazione di volontari, l’appoggio del Comune e tante buon idee hanno rilanciato la strada come spazio di socialità e come “Galleria d’arte a cielo aperto”. Sulle facciate degli edifici compaiono opere di artisti selezionati ogni anno da una giuria. Da qualche tempo l'apertura di nuovi negozi, attività artigianali, e recuperi sono il frutto tangibile della rinascita. Riguadagnata piazza Saffi, non resta che percorrere Corso Garibaldi che con via delle Torri raccoglie una fitto tessuto commerciale fra negozi storici e grandi marchi. Numerosi gli edifici di rilievo che costeggiano la via dal cinquecentesco palazzo del Monte di Pietà, a palazzo Albicini dove una lapide sulla facciata ricorda il soggiorno di Dante Alighieri esule alla corte degli Ordelaffi; palazzo Guarini; palazzo Gaddi che ospita il museo del Risorgimento e il museo romagnolo del Teatro, fino a palazzo Manzoni che conserva decorazioni del pittore neoclassico Felice Giani; palazzo Reggiani; palazzo Tartagni Malvelli solo per citarne alcuni. Da non dimenticare infine palazzo Romagnoli, vicino al complesso di San Domenico, sede a lungo del distretto militare ospita dal 2013 le collezione civiche del Novecento, in particolare la Collezione Verzocchi, dedicata al tema del lavoro.

Tutte le foto sono di Paolo Bolzani.

In alto, Palazzo Sangiorgi in Corso Garibaldi; lungo la stessa strada centrale si può incontrare questo porticato antico con due archi pensili.


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La

brutalità del presente e la mollezza del passato Riflessioni sul parcheggio di Maurizio Sacripanti a Forlì

«In quell’appartamento mancava l’aria, e io avevo bisogno di fare quattro passi in un parcheggio per schiarirmi le idee» JAMES G. BALLARD, Regno a venire, 2006

di Alberto Giorgio Cassani «Questa sommaria descrizione delle otto “idee” prevalse a Forlì attesta il potenziale immaginativo sfruttabile per la ristrutturazione degli insediamenti antichi. Nessun concorrente ha assunto un atteggiamento rinunciatario. I migliori convalidano la tesi che solo un impegno creativo coraggioso, anticonformista, garantisce, nel gioco delle dissonanze, il pieno rispetto del passato. Il dibattito dei prossimi mesi trae concretezza e vigore da tale premessa. Cʼè da scommettere che approderà in un risultato esemplare di cui il Comune di Forlì potrà essere fiero».1

Così un ottimista Bruno Zevi – storico dell’architettura e celebre, puntuto critico della rubrica “Cronache di architettura” del settimanale “L’Espresso” – scriveva nel lontano 4 aprile 1976, a proposito del concorso per il nuovo teatro di Forlì, previsto nella piazza Guido da Montefeltro in un «vuoto informe e slabbrato dove sorgeva uno stabilimento industriale di cui spicca ancora la ciminiera».2 Lì accanto, «il maestoso convento di San Domenico»,3 allora deposito militare, il convento di Sant’Agostino, caserma della finanza e la «preziosa chiesetta di San Sebastiano».4 Tra questi progetti finalisti, quello – poi vincitore – dell’architetto romano Maurizio Sacripanti (Roma, 1916-1996) (con Romano Carrieri, Luigi Vignali, Roberto Fregna, Maurizio Decina e Giulio Perucchini), era certamente quello più innovativo, sulla scia del capolavoro irrealizzato, di dodici anni prima, per il concorso del nuovo teatro lirico di Cagliari,5 vero e unico erede del Total Theater di Walter Gropius (1927), la “macchina” teatrale concepita e mai realizzata per Erwin Piscator. Definito dallo storico dell’architettura Manfredo Tafuri, un «oggetto mutante che funge da ermetico foro per la città»,6 il progetto forlivese viene descritto da Zevi come «una macchina dotata di pavimento e soffitto a componenti mobili, che consente di modellare, volta per volta, la cavità idonea per le specifiche rappresentazioni e cerimonie, o di annullarsi espandendo la piazza. Aggressività d’avanguardia, squillante e ottimistica, fiduciosa nell’aleatorio; schietta volontà di rottura, conscia però del contesto tanto da incuneare l’accesso principale nell’ex Pagina a fianco, in alto: Maurizio Sacripanti, Parcheggio di piazza Guido da Montefeltro a Forlì, foto di Pietro Barberini. Nella piazza si è tenuta dal 10 al 12 giugno la festa di Radio3 Arte, cultura, lavoro. Nelle altre immagini, sempre di Maurizio Sacripanti, schizzi e planimetrie del Teatro di Forlì.

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CITTÀ E ARCHITETTURE convento di Sant’Agostino».7 Compito difficile quello di ricucire «uno strappo urbano di settemila metri quadrati con un intervento polifunzionale in grado di recuperare gli antichi conventi di Sant’Agostino e San Domenico, connettendoli ai nuovi parcheggi coperti e ai giardini fluviali».8 Del resto, come ha affermato lo stesso Sacripanti, «Tutto il lavoro di un architetto moderno è un progetto del mondo concreto che nasce come necessario sviluppo del passato sottoposto a tensione».9 La soluzione più geniale e più azzardata era questa: collocare il «palcoscenico nell’ex chiesa e la sala nel primo chiostro», creando «un pezzo di città nella città».10 Troppo, per Forlì? (ma anche per Ravenna, per la Romagna, per l’Italia…). Evidentemente sì, tant’è che gl’«infiniti progetti e varianti, che hanno seguito la vittoria del concorso, non saranno sufficienti per la realizzazione del complesso, anche se un comitato pro teatro ha vinto l’ennesimo ricorso, anche dopo la scomparsa del progettista. Perché Sacripanti, nelle menti di molti, è ancora vivo».11 Se il teatro non è mai stato realizzato, il “risarcimento” dato a Sacripanti nel 1980, con la realizzazione del suo eccezionale parcheggio antistante al complesso del San Domenico (al posto del teatro, come si sa, oggi c’è il Museo), ha corso il rischio – con l’approvazione, nel 2009, del piano urbanistico attuativo relativo alla piazza Guido da Montefeltro – di essere cancellato. Così Forlì avrebbe completato la damnatio memoriæ del sogno utopico-megastrutturale12 di Sacripanti. Sulla straordinarietà del progetto, a sventare, se possibile, ulteriori pulsioni distruttive, c’illumina ancora Zevi. L’irrealizzata “macchina teatrale” sfocia nella piazza «con un processo di dilatazione»: «La piastra a varie quote – del parcheggio – contenente garages, servizi ed attraversamenti pedonali, possiede un valore estetico autonomo».13 Già subito dopo la sua costruzione, questo progetto «non mimetico, originale, figurativamente coraggioso, è stato attaccato da un’insulsa stampa»,14 ma, incredibile visu, «sessantacinque professionisti di Forlì, Cesena, Rimini, Modena e Ferrara sono scattati a difenderlo, evento senza precedenti»,15 con la motivazione: «Questo è il primo comune italiano che si preoccupa di costruire un vero parcheggio, in un disegno concepito esplicitamente per l’auto e per l’uomo che la usa».16 Sacripanti ha immaginato più livelli per il suo parcheggio: una “piastra”-piazza sopraelevata, pedonale – che sembra “abbracciare” l’ex complesso monastico per via della forma leggermente arcuata ai lati – che contiene, al di sotto, il parcheggio coperto; e tre zone di parcheggio più basse. In questo modo, dalla piazza superiore non si vede il parcheggio sottostante, ma soltanto la linea delle case del centro storico. Così, inversamente, dal basso, il San Domenico è “incorniciato” dai dentelli in cemento che fungono da parapetto della piazza superiore. Un gioco prospettico complesso e attentamente studiato. A difesa del progetto, negli ultimi anni,17 è sceso in campo Alfonso Giancotti, presidente della Casa dell’Architettura di Roma e frequentatore dello studio di Sacripanti negli ultimi anni di attività. Alla domanda dell’intervistatore se non sia lecito modificare un progetto quando questo non piace più agli abitanti (i muretti graffiano le carrozzerie delle auto, il parcheggio coperto è troppo buio e dunque “insicuro” ecc.), Giancotti ha risposto: «Credo che Sacripanti sarebbe stato il primo ad accettare la trasformazione del parcheggio qualora non fosse risultato adeguato alle dinamiche della città. Ne sono convinto. […] Sacripanti ha parlato della necessità che lo spazio della città contemporanea venga

Dall’alto: Maurizio Sacripanti, Plastico del concorso per il nuovo teatro lirico di Cagliari, vista dell’interno, 1965 (con Andrea Nonis, Giovanni Pellegrineschi, Giulio Perucchini, Franco Purini, Achille Perilli) (secondo premio). Vista notturna del parcheggio di piazza Guido da Montefeltro (da Alfonso Giancotti, Renato Pedio, Maurizio Sacripanti: Altrove, Torino, Testo & Immagine, 2000, p. 77). Il parcheggio sotterraneo (da Alfonso Giancotti, Renato Pedio, Maurizio Sacripanti: Altrove, cit., p.n.n., ma p. 77). A destra: vista delle case in direzione dell’ingresso al parcheggio, foto di Pietro Barberini.


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Da sinistra: Scala di discesa al parcheggio sotterraneo, foto di Pietro Barberini. Vista dall’alto del parcheggio (da Alfonso Giancotti, Renato Pedio, Maurizio Sacripanti: Altrove, cit., p.n.n., ma p. 76). Maurizio Sacripanti, Progetto per il concorso del padiglione italiano all’Esposizione Internazionale di Osaka del 1970 (con Andrea Nonis, Maurizio Decina, Giulio Perucchini, A. Latini, Achille Perilli, Renato Pedio, Giancarlo Leoncilli).

“ convissuto”, ha teorizzato la progettazione del “mutevole”, figuriamoci se mai si sarebbe opposto a un’azione di trasformazione. Anzi l’avrebbe incoraggiata e ne sarebbe rimasto entusiasta. Se quello spazio fosse a Parigi, ci sarebbe una competizione sfrenata per trasformarlo in uno spazio per l’arte contemporanea. La città di Forlì, promuovendone un recupero intelligente, potrebbe rappresentare un esempio virtuoso che la metterebbe allo stesso livello delle maggiori capitali europee. […] Sacripanti ha scritto che “progettare significa passare da un aspetto storico a un altro, attraverso la scoperta di nuove relazioni, nuovi segni, e l’impegno di un architetto sta nel muoversi, cosciente, entro una diagnosi del nostro essere nella storia, verso la storia che produciamo”».18 «Progettare il mutevole»,19 è sempre stato il fine di Sacripanti.

È vero, anche il grande Le Corbusier, a fronte dei cambiamenti operati dagli abitanti nelle case di Frugès a Pessac, da lui progettate (19241929), aveva riconosciuto: «Vous savez, c’est toujours la vie qui a raison, l’architecte qui a tort».20 Ma un conto è trasformare, un altro picconare. In una società come la nostra, in cui si preferisce alla «durezza» e alla «brutalità»21 del Moderno, «la mollezza del passato da cui è scomparsa ogni contraddizione»,22 è sempre il tempo più recente che rischia di farne le spese. Senza sapere che proprio i parcheggi sono il vero “nonluogo” del XX (e probabilmente anche XXI) secolo, come un altro grande lucido osservatore del nostro tempo, James G. Ballard, aveva perfettamente compreso: «mentre procedeva veloce, Wilder guardava di sfuggita dalle finestre il parcheggio, che spariva pian piano dalla sua vista».23

Note 1. BRUNO ZEVI, Un teatro con 8 suggeritori, in “L’Espresso”, XXII, n. 15, 11 aprile 1976, pp. 77, 79: 79, ora in ID., Cronache di architettura, vol. 19 (nn. 1081-1130), Bari, Editori Laterza, 1978, pp. 165-169: 169 (col titolo: Otto dissonanze per rispettare un contesto e con l’aggiunta dell’aggettivo «gioioso» dopo «coraggioso»). 2. Ibid., p. 165. Evidentemente “sacrificata” in corso d’opera. La fabbrica si chiamava Bonavita e produceva feltro. Ringrazio l’amico Pietro Barberini per l’informazione. 3. Ibid. 4. Ibid. 5. I cui disegni sono conservati al MoMA di New York. 6. MANFREDO TAFURI, Storia dell’architettura italiana: 1944-1985, Torino, Giulio Einaudi editore 1982 e 1986, p. 121, nota 79. Ma, dello stesso autore, si veda Un teatro per Forlì, in “Paese Sera / Arte”, 5 febbraio 1978, p. 20. 7. B. ZEVI, Un teatro con 8 suggeritori, cit., p. 79. 8. BRUNO ZEVI, Quando parcheggiare diventa uno spettacolo, in “L’Espresso”, XXXV, n. 36, 10 settembre 1989, p. 123.

9. Citato ibid.

16. Ibid.

10. ALFONSO GIANCOTTI, RENATO PEDIO, Maurizio Sacripanti: Altrove, Torino, Testo & Immagine, 2000, p. 68.

17. Nel 2009, con un “Appello per la salvaguardia della piazza parcheggio di Maurizio Sacripanti a Forlì” (cfr. http://ordine.architettiroma.it/notizie/11929.aspx).

11. Ibid., pp. 68 e 72. 12. Come ha scritto Claudia Conforti (Roma, Napoli, la Sicilia, in Storia dell’architettura italiana: Il secondo Novecento, a cura di Francesco Dal Co, Milano, Electa, 1997, pp. 176-241: 217), «[…] Sacripanti ha anticipato, in una versione piranesiana pervasa di angoscia, le fantasie tecnologiche degli Archigram e le immagini High-tech degli anni ottanta». Con qualche dubbio sul termine «angoscia» come cifra dei progetti dell’architetto. A quest’utopismo appartiene, a tutti gli effetti, un altro capolavoro irrealizzato di Sacripanti: il progetto di concorso (1968-1969) per il padiglione italiano all’Expo di Osaka del 1970, risultato non vincitore. 13. B. ZEVI, Quando parcheggiare diventa uno spettacolo, p. 123. 14. Ibid. 15. Ibid. Come mai Zevi non cita Ravenna? Una semplice dimenticanza o il segno che il “campanilismo”, una volta di più, ha prevalso sulla solidarietà?

18. Difendere Sacripanti: Intervista a Alfonso Giancotti, in “Seigradi: Connessioni Culturali”, http://www.seigradirivi sta.it/interviste.php?id=57 [data di ultima consultazione: 25 maggio 2016]. Ma si veda anche ALESSANDRO LONTANI, MARTA RICCI, Piazza parcheggio Guido da Montefeltro: Quando parcheggiare è uno spettacolo, in “Seigradi: Connessioni Culturali”, n. 4, 2013, ivi. Il testo più importante di Sacripanti è Città di frontiera / frontier city, Roma, Bulzoni editore, 1973. 19. Ibid., pp. 4-11: 8. 20. Citato in PHILIPPE BOUDON, Pessac de Le Corbusier: 1927-1967: Étude socioarchitecturale, Paris, Dunod, 1969, p. 2. 21. Di «poetica del brutto», a proposito dell’architettura di Sacripanti, ha parlato Manfredo Tafuri in MANFREDO TAFURI, FRANCESCO DAL CO, Architettura contemporanea, Milano, Electa Editrice, 1976, p. 419, nota 3.

22. Le parole e la frase sono estratte dalla formidabile pagina di THOMAS BERNHARD, Holzfällen: Eine Erregung, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1984, trad. it. di Agnese Grieco e Renata Colorni, A colpi d’ascia: Una irritazione, Milano, Adelphi edizioni, 1990, p. 169. 23. JAMES G. BALLARD, High-rise, London, Jonathan Cape, 1975, trad. it. di Paolo Lagorio, Il condominio, Milano, Anabasi, 1994, p. 79, corsivo mio. Non senza ironia, Ballard scriverà nel suo ultimo romanzo (Kingdom come, 2006, trad. it. di Federica Aceto, Regno a venire, Milano, Feltrinelli, 2006, p. 11): «Avevo lasciato la Jensen nell’autosilo, una gigantesca costruzione di cemento a dieci livelli inclinati che dominava la città e, a suo modo, più misteriosa del labirinto del Minotauro di Cnosso, dove mia moglie, con un’uscita alquanto bislacca, aveva proposto che andassimo per la nostra luna di miele. Ma la presenza di quell’enorme struttura non fece altro che avvalorare che il parcheggio stava ormai diventando la più grande esigenza spirituale del popolo britannico».


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Giorgio Bassani. A destra l’automobile Fiat “Tipo 2”, 1909.


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Nel cielo violetto della sera La Ravenna di Giorgio Bassani (1972) di Alberto Giorgio Cassani

Falce contro revolver… vince revolver Giorgio Bassani, il grande scrittore d’origine bolognese, ma ferrarese d’elezione, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita, ci ha onorato con più di una visita. Lo racconta in Ravenna (1972).1 La prima volta avrà avuto cinque, sei anni, quindi subito dopo la Grande Guerra. Il padre, smessi da poco gli abiti da ufficiale, sempre «pronto ad apprezzare il lato sportivo» – anche in politica – delle cose, «aveva […] avuto l’idea di una “automobilata”» a Ravenna, in occasione di una manifestazione aerea in onore di Francesco Baracca, che colà si teneva. Molti «particolari» di quella gita affollano la mente del rimembrante Bassani: i tanti “cloni” di Baracca, «aviatori dagli occhi violenti, quasi tutti bruni e con baffetti» (à la Baracca, appunto), incontrati all’aeroporto militare di Ravenna. Ma un episodio, in particolare, lo scrittore ricorda «con speciale vivezza». Bassani ha lasciato la città alle sue spalle. Il sole sta tramontando, e, «superati gli argini del Reno»,2 si è prossimi ad Argenta. Quand’ecco, da un gruppo di «giovani braccianti agricoli» «si leva un grido: “Pescicani!”».3 E un «braccio nerboruto, cotto dal sole, agita minacciosamente una falce. Ricurva, scintillante, la lama si erge alta sopra le teste: come una bandiera». Il giovane Giorgio vede in un attimo la «delicata mano del papà» estrarre dal cruscotto «nientemeno!» che un revolver, ma subito riporlo. È l’illuminazione. Da quel «preciso istante» Bassani comprende il motivo dell’odio dei «bolscevìchi» braccianti romagnoli nei loro confronti: la Fiat tipo Due su cui viaggiava col padre. «A lasciarli fare, i bolscevìchi sarebbero anche capaci di portarcela via la nostra bella macchina». Ma non ce la faranno! A difendere il sacro diritto alla proprietà privata accorrerebbero «gli assi di guerra» dell’aeroporto di Ravenna. E, in ogni caso, «che cosa potrebbe mai combinare una falce, al peggio, contro un revolver vero, un revolver che spara?». Ricordate Indiana Jones, gli yankee? È la solita, vecchia, sporca storia.

La piazza senz’ombra. Bassani 2: il ritorno

sono le automobili, una mania di casa Bassani, ma anche di quell’Italietta fascista che se le poteva permettere. Cambiare auto è segno del benessere raggiunto: «dopo la Fiat tipo Due», Giorgio rammenta «una O.M., una Ansaldo, una S.P.A. bianca». Unico problema – al solito! – le strade, non ancora asfaltate «prima del ’30». Per cui «il centinaio di chilometri che divide Ferrara dalle spiagge romagnole, ci si metteva, a coprirlo, una intera mattinata».4 E Ravenna? Calmi. Ci arriviamo subito, ma ci vuole, lo ha appena ricordato Bassani, un po’ di tempo. Finalmente si «sbucava nella piazza principale di Ravenna [erano mosche bianche, allora, le auto, poi venne l’era dello smog per tutti e dei giusti divieti di transito] (una città di case piccole, anche più basse di quelle di Ferrara, con vie strette, tutte curve e giravolte), verso mezzogiorno, nel sole a picco del mezzogiorno di luglio». Ancora Ravenna “città senz’ombra”: Bassani conferma Henry James. In ogni “deserto” occorre rifugiarsi in un’oasi di frescura: ed è quello che fa la famiglia Bassani, «dopo aver parcheggiato la macchina all’ombra» (un po’ ce ne sarà stata, dopotutto), entrando in «un caffè affollato d’uomini grossi, dai visi abbronzati e dai vellutati occhi neri» (l’albergo caffè ristorante Roma o il caffè Commercio, poi Grand’Italia?), alla ricerca di una «mezz’ora di riposo».

Olimpiadi ravennati. Bassani e la “sportività” fascista Giorgio ci presenta i desiderata dell’“allargata” famiglia Bassani: «il papà e la mamma un espresso, il meccanico Dino un sandwich [raffinato ed esterofilo il ragazzo!] di mortadella [ah, mi sembrava] e un bicchiere di Albana [ora ci siamo], e noi ragazzi un gelato che, per paura del tifo [oggi, invece, di raffinate sofisticazioni industriali: che meraviglia, il progresso], non poteva mai essere che di limone». Caffè – ora popolato dai piazzaioli (in altri tempi si diceva «fighetti/e di piazza») – allora da assai più inquietanti «squadristi». Ecco spiegate le «voci stentoree», le «esclamazioni perentorie» che Giorgio sentiva risuonare. Suo padre, che stava per allontanarsi definitivamente dalle sirene del Fascismo, «li guardava con un’espressione curiosa, mista d’orgoglio ammirato e di ripugnanza». Veniamo a conoscenza delle performances straordinarie degli squadristi ravennati (niente a che vedere «i nostri di Ferrara» «in confronto a questi qui», dice sottovoce il padre, prudente, a sua moglie): nel

Giorgio Bassani torna dopo qualche anno a onorarci di una sua visita. Adesso ha dieci, undici anni. Deve però superare «una sorta di muro». Non è quello di Berlino, certo, ma è sempre un buon ostacolo: è il Reno. Da lì «comincia la Romagna», il paese “senz’ombra”: «una pianura non meno piatta di quella ferrarese, ma tagliata da stradoni lisci, dritti, interminabili, che conducono a Ravenna, e poi al mare». È storia nota: da noi si viene sì per visitare per qualche ora i monumenti e i mosaici, ma in realtà è solo un pretesto culturale, perché la vera meta è il mare: come ricorda Bassani, l’Eldorado sono Viserba, Rimini, Riccione, Cattolica, Cesenatico, dove la famiglia dello scrittore aveva già cominciato a trascorrere le estati. E, di nuovo, protagoniste

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“tiro a segno” al «giovane socialista» eccelleva «il console Braga», che ne centrò in pieno uno che, nel ’20 o nel ’19, aveva lanciato proprio in quel caffè una bomba a mano, uccidendo alcune persone. Ebbene Braga, pur ferito, «da terra, sicuro, coricato pancia a terra, aveva preso la mira con tutta calma, e, pam!, aveva sparato», trapassandogli il cranio. Ancora nel tiro, questa volta al lampione, i fascisti ravennati non avevano rivali (ne sapevano qualcosa i lumi della stazione di Ravenna o del Lungomare di Cesenatico). Non solo. Nell’automobilismo erano abilissimi… «a marcia indietro».5 In tempi di Olimpiadi prossime venture, c’è di che andarne fieri.

Scrittori in bicicletta. Il “Davide” Bassani e la sfida all’OM “Golia” Ravenna, evidentemente, non stanca. Bassani ci fa ancora tappa, nel corso degli anni, durante l’esodo vacanziero, anche se, «dopo il ’30, invece che in piazza» comincia a fare sosta extra mœnia (o “fuori porta”, che però è più da Tg2) a Sant’Apollinare in Classe. La penna del grande scrittore riesce a trasfigurare quello che a noi sembra il solito paesaggio piatto: «Si usciva dalla Porta Cesarea in un paesaggio bruscamente diverso da quello, d’un verde torrido, attraverso il quale avevamo viaggiato fino a poco prima: un paesaggio immenso,


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percorso da brezze che sapevano già di sale, e delimitato, da una parte, dalla riga nera ininterrotta delle foreste di Classe e di Cervia, e, dall’altra, dai velari azzurri delle colline di Bertinoro, di Verucchio, e di San Marino». Ecco perché noi Salieri non saremo mai dei Mozart. Giorgio è ormai grandicello: non si accomoda nell’automobile tra i bagagli, ma rivendica una sua autonomia: va al mare in bicicletta. Ora ci sembra folle – a noi pantofolai dell’automobile, capaci di schiantarci contro i pali a velocità pazzesche spaparazzati sulla poltrona della nostra scatoletta metallica – ma fino a pochi decenni fa, il nostro, assieme all’Olanda e alla Cina, era il paese delle due ruote (lo è ancora

per i miei amici Mario e Pietro). Giorgio e il fratello, novelli Coppi e Bartali, o meglio Binda e Girardengo, partivano «alle prime luci dell’alba» (un po’ fantozzianamente, se mi posso permettere) «con almeno tre ore di anticipo sulla grossa soffocante berlina O.M., sopra la quale […] era imbarcato il resto della famiglia». L’eterna sfida tra Davide e Golia: chi sarebbe arrivato prima a Sant’Apollinare? Le «gambe e il fiato» o l’«O.M. ancora nuova nuova»? Quelle (poche?) volte che i Davide vincevano, la ricompensa era «il refrigerio dell’interno, la luce tra verde e celeste, quasi subacquea, che lo pervadeva», un dolce anticipo di ciò che avrebbero trovato «in riva al mare».

Pagina sinistra: sopra a sinistra: automobile OM. A destra automobile Ansaldo, © Getty Images, Alinari Archives. Sotto: Gianni Cagnoni (col papillon), tra alcuni fascisti ravennati della prim’ora. Al centro, Dino Grandi, che nel luglio del 1922, con Italo Balbo, alla guida di alcune migliaia di fascisti, occupò la città, quasi una prova della marcia su Roma. Seduto, all’estrema sinistra, un giovanissimo Enrico Galassi. In questa pagina, sopra: l’Albergo Caffè Ristorante “Roma” nell’allora piazza Vittorio Emanuele, cartolina degli inizi del Novecento (da ALDO FABIANI, ENZO TURSO, Cartoline da Ravenna, storia arte e pubblicità, Ravenna, Danilo Montanari Editore, 2014, p. 94). Ringrazio l’amico Danilo Montanari per averne permesso la riproduzione. A sinistra: il Caffè Commercio nell’allora piazza Vittorio Emanuele sotto il portico del Comune, in una fotografia del 1910; in seguito assunse il nome di “Grand’Italia”.

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Fratelli di sangue. Bassani e l’inspiegabile solidarietà ravennate

Uno sguardo dal mare. Bassani e la malinconia, non solo ravennate

Che Ravenna fosse doppia lo sapevamo. Su ciò ci aveva già illuminati Marguerite Yourcenar. Ma Bassani, col passare del tempo e delle visite in città, scopre che è anche tripla, quadrupla. E anche di più: «Sempre mi ha colpito, in Ravenna, l’intensità drammatica dei contrasti, la possibilità di coesistenza, nell’ambito d’un solo agglomerato urbano, di cose, di persone, di sentimenti, così radicalmente diversi». Coincidentia oppositorum. Nel corso degli anni Bassani si lega d’amicizia, durante le vacanze trascorse a Cesenatico, con «molte famiglie di Ravenna»;6 in particolare i «Cagnoni-Bitti» e i «Baldelli». I primi «cattolici praticanti (e militanti)», i secondi «anarchici mangiapreti» (i ravennati comunisti, invece, è noto, mangiavano i bambini). «Moderatamente antifascisti», i Cagnoni-Bitti, «violentemente», i Bandelli. Che cosa li poteva portare, si chiede Bassani, a frequentare la stessa spiaggia e a far parte dello «stesso giro di ragazzi e ragazze» «se non la comune città di provenienza?». Le radici, insomma. Un legame indissolubile (e inspiegabile) teneva uniti i Montecchi e i Capuleti ravennati. Quando a Nullo e Libero (siamo sempre stati imbattibili, noi romagnoli, nell’adamitica operazione di dare i nomi a cose e persone) scappavano «atroci, elaborate bestemmie», gli amici-nemici “sette fratelli” Cagnoni-Bitti – «maschi e femmine» non cambiava nulla – non si scandalizzavano affatto. Giorgio sì, fratello Ernesto compreso. Un sostrato comune, a prova di fedi politiche e religiose differenti, univa le due famiglie: «Il lampo iracondo che accendeva ad ogni occasione gli occhi bruni, vellutati, febbrili, di Nullo e di Libero, era evidentemente della stessa qualità di quello che traluceva in fondo agli occhi dei cinque maschi di casa»7 Cagnoni-Bitti. Fratelli di “sangue romagnolo”.

Bassani sceglie come luna di miele, in piena guerra, nell’agosto del 1943, le spiagge ravennati. Nonostante bombardamenti alleati e orde di carri armati tedeschi che «calavano da nord», lo scrittore vuol far conoscere alla moglie Vittoria (pseudonimo augurale di Valeria Sinigallia) quei luoghi. È stato lui a sceglierli, volutamente, fra le tante mete possibili. Nell’assoluta precarietà dei tempi. Anzi, proprio per quello: «Desideravo mostrarli a Vittoria, che li conosceva poco e male. Il futuro era così incerto! Bisognava che glieli facessi vedere adesso, subito». Prima che fosse troppo tardi. La sera, ospiti di un «macellaio socialista», Bassani è impegnato in «lunghe, noiose discussioni politiche». Ma il giorno sono «sempre per mare. Su, giù, avanti, indietro: con una batàna, presa a nolo per poche lire»,8 fino a Cesenatico o a Comacchio. Dal mare «gli occhi [sono] sempre rivolti» alla terra bassa che si scorge in lontananza, «alle foreste di pini che si levavano come bruni spalti dietro il bianco profilo ondulato delle dune». «Attraverso il varco del porto-canale», poi, «ci era dato risalire con lo sguardo su su, fino a Ravenna-città: fino a scorgere i tetti bassi delle sue case, le tozze torri campanarie [l’“orizzontalità” di Ravenna, fin nei suoi campanili] e le larghe cupole delle sue chiese». E un altro quadro indimenticabile ci offre la penna dello scrittore: «Nel cielo violetto della sera (tramontato alle spalle delle selve litoranee, il sole infilava fra gli scabri tronchi secolari spade d’una luce verde, dolcissima), piccoli, argentei aeroplani da caccia facevano evoluzioni di prova […] il loro rombo lacerante, quando sfrecciavano sulle nostre teste accostate, ci riempiva di un’allegria infantile […]». Allegria seguìta però subito, nell’animo dello scrittore, da una «segreta tristezza, tutta intrisa d’addio».9 Malinconia di un’ora, tædium vitæ che ci coglie tutti. A Ravenna, come in ogni angolo del mondo.

A sinistra: via D’Alaggio, tra Ravenna e Marina di Ravenna, foto d’epoca. A destra: “Denti di drago” della seconda guerra mondiale lungo il litorale di Marina di Ravenna, foto d’epoca.

Note 1. GIORGIO BASSANI, Ravenna, in ID., Romanzo di Ferrara, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1974, pp. 765-771. 2. Questa e tutte le citazioni precedenti sono tratte ibid., p. 765. 3. Ibid., pp. 765-766. 4. Questa e tutte le citazioni precedenti sono tratte ibid., p. 766.

5. Questa e tutte le citazioni precedenti sono tratte ibid., p. 767. 6. Questa e tutte le citazioni precedenti sono tratte ibid., p. 768. 7. Questa e tutte le citazioni precedenti sono tratte ibid., p. 769. 8. Questa e tutte le citazioni precedenti sono tratte ibid., p. 770. 9. Questa e tutte le citazioni precedenti sono tratte ibid., p. 771.


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Il paesaggio parlante di un

carabiniere

Geografia politica della penisola nel racconto vivido e pittorico del Generale Alberto Mannucci di Pietro Barberini In copertina Alberto Mannucci appare in sella ad una bicicletta: la foto evoca il neorealismo di un’Italia in bianco e nero. Ossimoro cromatico capace di rimettere in movimento il Paese, ferito e lacero, ma ansioso di “rinascere”. La bicicletta non è stata soltanto un utilissimo mezzo di trasporto, bensì simbolo di operosità: da Roma in su, tutti, nelle campagne e nei paesi della pianura padana, ne avevano una da custodire gelosamente. La sua popolarità era cresciuta dopo l’impresa di Bartali al Tour de France del ’48, quando, dopo l’attentato a Togliatti, l’Italia ritrovò un clima di rinnovata pacificazione sociale. Alberto Mannucci, giovane Ufficiale dei Carabinieri, pedala il “suo Giro d’Italia”, una carriera che lo vede protagonista lontano dai clamori, ma vicino alla realtà affacciata sulle bellezze del paesaggio e sulla dura quotidianità.

Alberto Mannucci spinge sui pedali verso il futuro, quasi guardando ad un orizzonte nuovo, ma la sua bicicletta è dotata di uno specchietto retrovisore per dare una metaforica occhiata al passato.

Nella foto grande a sinistra: Alberto Mannucci, Lido di Ostia, 1942. Nella foto piccola, copertina del libro di Alberto Mannucci, Uno qualsiasi, Introduzione di Marina Mannucci, Ravenna, SBC edizioni, 2016. Sotto: Alberto Mannucci alla Scuola Ufficiali dei Carabinieri di Lecce, 18 luglio 1948.

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Il capitano Alberto Mannucci con la famiglia e alcune amiche, Bolzano, 1962.

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Il libro però non è il diario di Umberto Berni, pseudonimo che viene adottato dall’autore, bensì una narrazione che presenta molte analogie con una corsa a tappe:di un grande giro ciclistico ci sono, infatti,le difficoltà altimetriche, estenuanti salite e pericolose discese, attraversamenti di centri cittadini festanti, problemi d’ordine pubblico, incidenti. Ma la scenografia di Uno qualsiasi è la geografia del nostro Paese, con i silenzi che spalancano gli occhi allo stupore o colpiscono con un pugno allo stomaco le nostre sensibilità culturali e sociali. Un Ufficiale dei Carabinieri è una persona che, nel suo ruolo, applica la legge e solo in questo modo la può far osservare. Umberto Berni sa perfettamente che per vedere bisogna conoscere: così descrive pregi e limiti dell’azione dei “militi tuttofare”, quei carabinieri utilizzati per l’interesse (e il bene) comune. Alberto Mannucci è nato a Roma, unico maschio fra tre sorelle, Anna Maria, Gabriella e Maria Pia, dove, dopo studî classici, si laurea in legge. Sono gli anni della riscossa e della liberazione e il giovane partecipa attivamente alla Resistenza, guadagnandosi medaglie ed encomi. Entra poi nella Scuola Ufficiali e qui inizia il racconto di Umberto Berni, Uno qualsiasi, capace d’intrecciare piccole storie con una cronologia ben più ampia e complessa. Il tessuto narrativo nobilita verbali di sperdute stazioni dei Carabinieri e scomodi trasferimenti in “Campagnola” fra le buche di un’Italia minore. Annotazioni, ricordi, incontri con personaggi che hanno fatto la storia del dopoguerra come quello, a Lugo di Romagna, con Ugo La Malfa, leader del piccolo ma battagliero partito repubblicano. Dalle pagine del libro riemerge un’Italia stradale e ferroviaria ancora riconoscibile e sulla quale il “calco” della modernità ha accumulato tante occasioni perdute. Le descrizioni letterarie sono precise, quasi fotografiche, talvolta tecniche, soprattutto quelle dei treni che appassionarono Mannucci, tanto da portarlo al modellismo ferroviario. Nel poco tempo libero, la sera, si dedicava al suo plastico, dove correvano trenini in miniatura assieme alla sua fantasia. Un viaggio ferroviario vero, il brillante Ufficiale dei Carabinieri che aveva anche l’occhio del pittore, lo descrive così: «Berni prese il treno per la Sicilia di pessimo umore. Lasciava Bologna ove aveva trascorso un periodo abbastanza sereno e felice della sua vita per affrontare l’incognita non allettante di un mondo lontano e sconosciuto. Oltrepassata Napoli il direttissimo cominciò ad inoltrarsi verso l’“ignoto” sull’unico binario della vecchia linea a trazione a vapore che conduceva a Reggio Calabria: Salerno, splendido golfo apparso dall’alto all’uscita da una lunga galleria, Battipaglia, Sapri, Paestum ed i suoi templi e via via l’interminabile costa tirrenica con scorci di mare bellissimo, azzurrissimo che appariva e scompariva alla vista a destra tra una galleria ed un’altra, dall’alto dei viadotti. A sinistra incombeva l’Appennino con degradanti coltivazioni a terrazzo trattenute da muretti a secco che si allargavano e si restringevano, con grandi olivi secolari emergenti da un terreno rossastro e susseguentesi grappoli di grossi fichidindia. Il profondo Sud si manifestava con una rigogliosa natura accogliente e con gli smaglianti colori del mare, del cielo, della vegetazione. Nomi poetici: Scalea, Diamante, Belvedere, Amantea, e poi Sant’Eufemia, Pizzo, Vibo, Gioia Tauro, Palmi, Bagnara: deliziose incontaminate marine

con poche isolate barche di pescatori, verdi e blu, tirate a secco sulla spiaggia o dondolanti pigramente su un mare luccicante di pagliuzze d’oro sotto un sole più bello e più caldo di quello fino allora conosciuto. Bianchi paesetti e borgate del sud, candidi terrazzi e arabeggianti cupole appiattite, con archi mediterranei e imposte verniciate di intenso verde e azzurro. Infine, la grossa rupe di Scilla incombente sul mare, fronteggiata a vista dalla vicinissima terra di Sicilia, dominata dagli alti e severi monti Peloritani che nascondevano il sole calante alle loro spalle. Per ultimo Villa San Giovanni». Il racconto di Berni resta sempre descrittivo anche quando viene rappresentata una tragedia nazionale, come l’immane sciagura del Vajont. Umberto Berni non spreca aggettivi e non si perde in premesse che l’ondata gigantesca ha spazzato via. Le frasi sono secche e spoglie di retorica: si legge però, nello stile sempre elegante, un’interpunzione dolorosa e partecipe, come si poteva osservare nella natura, violata a morte dallo scempio di fango e rovine. Sulla bandella in terza di copertina si legge:«Dopo una breve permanenza nel 1951 al Battaglione Mobile di Bologna, comanda la Tenenza di Messina, la Tenenza di Lugo di Romagna, la Compagnia di Sciacca e, dopo un periodo in Alto Adige in cui presta servizio a Bolzano, comanda la Compagnia di Pordenone. Per breve tempo torna a prestare servizio in Sicilia presso il gruppo di Catania, poi in Romagna, questa volta a Ravenna, per trasferirsi in seguito presso la Brigata di Bologna. Si congeda dall’Arma dei Carabinieri nel 1982 con il grado di Generale di Brigata. Ha ricevuto la cittadinanza onoraria dal Comune di Erto e Casso per aver aiutato e sostenuto i superstiti del disastro della diga del Vajont». Alberto Mannucci, quando arriva nella nostra Regione, incontra a Rimini Marisa Ugolini che diventerà sua moglie. Avranno due figli, Valerio e Marina (attuale collaboratrice di questa rivista N.d.R.).È stata Marina a firmare la bella e toccante introduzione al libro:«Rileggendo mio padre, dai suoi pensieri e dalle sue riflessioni mi si è svelato un uomo-cittadino-marito-padre che in vita non avevo colto appieno». Il libro è testimonianza postuma di una grande umanità al servizio della legge nel significato più ampio del termine, ma non solo. Grazie ad Uno qualsiasi riusciamo a vedere il passato recente con occhi ancora ansiosi di rispetto e senso civico e lo dobbiamo anche alla moglie Marisa che ha voluto donarci un racconto di vita denso di emozioni e affetti.

Alberto Mannucci, Uno qualsiasi, Introduzione di Marina Mannucci, Ravenna, SBC edizioni, 2016, pp. 210.

Sopra: Il capitano Alberto Mannucci durante la visita agli stabilimenti della Zanussi del Presidente del Consiglio Aldo Moro, Pordenone, ottobre 1967. Sotto: Il tenente colonnello Alberto Mannucci nel cortile della Caserma dei Carabinieri “Pietro Ragni” di Ravenna, ottobre 1974.

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Zamboni Associati Architettura

e la rinascita di grandi spazi urbani in sinergia fra pubblico e privato Il discreto rispetto del genius loci nella progettazione di cavejastudio di Chiara Bissi

Gli studi Zamboni Associati Architettura (Reggio Emilia) e Cavejastudio (Forlì) sono gli ospiti del quarto incontro del ciclo 2016 delle confereze “SeDici Architettura”, in calendario giovedì 16 giugno al padiglione delle Feste delle Terme di Castrocaro. La rassegna propone incontri-confronti fra protagonisti esperti ed emergenti della progettazione contemporanea ed è promossa dalla rivista Casa Premium della società editoriale Reclam e ideata dal comitato scientifico composto da Gianluca Bonini e Giovanni Mecozzi di Nuovostudio e da Filippo Pambianco Cavejastudio, con il patrocinio degli Ordini professionali degli architetti e ingegneri di Ravenna e Forlì anche ai fini formativi. Di opere pubbliche, di parametri per i progettisti in concorso e di trasparenza, dialogano in una tavola rotonda condotta dal direttore di Casa Premium Fausto Piazza, i relatori della conferenza e altri esperti sul tema. Andrea Zamboni, studia alla facoltà di Architettura di Ferrara e all'Accademia di Architettura di Mendrisio (Svizzera). Si laurea a Ferrara, relatori Peter Zumthor e Vittorio Savi e in seguito collabora con Nicola Di Battista a Roma e Guido Canali a Parma. Con Canali Associati segue come responsabile di progetto la realizzazione del museo di arte contemporanea di Kyong Ki (Corea del Sud) dal concorso fino alla realizzazione, oltre al progetto di riconversione della Manifattura Tabacchi di Milano. Nel 2002 è selezionato per il Premio Architettura dell’Accademia di San Luca a Roma. Dal 2005 svolge attività didattica e di ricerca nella facoltà di Architettura “Aldo Rossi” a Cesena. Dal

2010 è dottore di ricerca in Composizione Architettonica all’università di Bologna. È autore di numerosi saggi e pubblicazioni. Dal 2013 è professore a contratto in Composizione architettonica alla Scuola di Ingegneria e Architettura dell'Università di Bologna e fa parte del Centro Studi della rivista internazionale di architettura "Domus", diretta da Nicola Di Battista.

Da Porta S. Pietro alla Fonderia Lombardini, opere di riqualificazione a Reggio Emilia Lo studio Zamboni Associati si occupa, fra i tanti ambiti di intervento, anche di riqualificazione degli spazi pubblici come nel caso di Porta San Pietro e via Emilia Ospizio a Reggio Emilia, vincitore nel 2010 del I premio nazionale IQU (Innovazione e Qualità Urbana). Può spiegare la natura di questo progetto e in generale che tipo di approccio deve avere il progettista quando interviene su un luogo urbano per migliorarne la vivibilità, mitigare effetti stranianti e magari alimentare il senso di appartenenza dei cittadini? «Il progetto per la riqualificazione di Porta San Pietro e via Emilia Ospizio a Reggio Emilia è quello che ad oggi ci ha dato la massima soddisfazione. Si trattava di riqualificare un tratto di via Emilia in ingresso a Reggio, invertendo la percezione che dominava in precedenza, di un’arteria di traffico a grande velocità e percorrenza dove l’auto la faceva da padrona, verso l’obiettivo di un viale urbano estensione delle strade del centro storico, a cui si riconnette in corrispondenza di Porta S. Pietro. Un progetto pilota che il Comune di


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Le immagini di alcuni progetti di rilievo nazionale e internazionale firmati dallo studio Zamboni Associati Architettura di Reggio Emilia.

Reggio Emilia ci ha chiesto di sviluppare per poi applicarlo alle altre strade di grande percorrenza in ingresso alla città, ricucendo prima periferia e centro. Abbiamo lavorato per due anni, l’obiettivo era ribaltare la gerarchia tra automobilisti, ciclisti e pedoni a favore di questi ultimi. Tutto il progetto è giocato su pochi dettagli che nel tratto di 1 km si applicano con moltissime varianti. Abbiamo lavorato sulla sezione stradale, sulla fascia centrale, sulle protezioni per gli attraversamenti, sulle immissioni laterali, sull’arredo urbano, sulla pavimentazione, sul sistema di illuminazione, sulla ricostruzione del filare di tigli, abbiamo anche raddrizzato un pezzo di strada che nel tempo aveva perso la sua linearità. Un lavoro molto complesso, immaginate il cantiere, alla fine la percezione è quella di un nuovo ordine nel quale sembra che non abbiamo fatto nulla. Il terrore di ogni architetto, ovvero non lasciare traccia del suo segno, del suo lavoro. E invece è il nostro orgoglio più grande. Per la città è diventato un nuovo spazio pubblico molto vissuto e viene portato come esempio da tutte le persone che quotidianamente lo vivono. Oggi siamo alle prese con una sfida analoga, in questo caso un complesso storico, i Chiostri di San Pietro, il più bel complesso monumentale della città di Reggio Emilia il cui chiostro grande fu disegnato da Giulio Romano. Un complesso che per ora viene aperto al pubblico in occasione della Settimana della Fotografia Europea, di cui è la sede centrale e il cuore. L’obiettivo è trasformarlo nel cuore pulsante delle attività culturali e innovative della città. Il progetto verrà finanziato tramite i bandi del POR-FESR, una bella opportunità per tante città. Presto partirà il cantiere». A Ravenna è aperto da tempo il tema della riqualificazione della darsena di città e del recupero di molti edifici industriali dismessi. Per questi ultimi il percorso appare al di là delle buone intenzioni in salita. Che cosa può fare il pubblico per accompagnare e favorire buoni progetti di riconversione su beni in buona parte di proprietà privata? «Nel 2004 abbiamo completato il recupero e riconversione della ex Fonderia Lombardini, un edificio industriale di inizio del secolo scorso dove si producevano i motori per i locomotori. Oggi è la sede stabile di Aterballetto e della Fondazione Danza, un centro dove si producono gli spettacoli della compagnia di danza, ma aperto al pubblico in occasione delle prove. Ha la forma di una cattedrale romanica, con le tre navate e coincidenza volle che la navata centrale avesse la larghezza di un palcoscenico da teatro, quindi perfetto per le prove “al vero” degli spettacoli che poi vengono portati in giro per il mondo da questa compagnia molto nota a livello internazionale.

È stata per noi la prima occasione di questo tipo, in tempi in cui ancora non si parlava così di frequente di riconversioni di complessi industriali e di rigenerazione urbana. Da allora ci capita spesso di venire chiamati per sfide di questo tipo. Di recente per esempio siamo stati coinvolti, con il Dipartimento di Architettura dell’Università di Bologna, nel grande progetto di recupero dell’area Staveco di Bologna, fortemente voluto dall’ex Rettore Ivano Dionigi, che dovrà diventare un nuovo campus universitario dell’Alma Mater a ridosso del centro storico. E negli ultimi mesi siamo coinvolti in una innovativa operazione di ri-uso temporaneo di un grande complesso industriale per la creazione di un Museo della Meccanica Reggiana. Sono tutte operazioni che hanno visto una forte sinergia tra pubblico e privato o comunque la parte pubblica è il motore o il facilitatore dell’operazione». Il suo studio partecipa frequentemente a concorsi di progettazione in ambito pubblico in Italia e all’estero. Nel nostro Paese quali sono i cambiamenti più urgenti e quali azioni immediatamente applicabili si possono mettere in campo per migliorare le procedure concorsuali in termini di trasparenza e reale selezione? «Abbiamo un lunga esperienza di concorsi, sia in Italia che all’estero, come del resto tutti gli studi di architettura. Non credo che per i concorsi il problema sia di trasparenza quanto di selezione. Se ci fossero concorsi per ogni commessa di rilievo, sia pubblica che privata, e se fosse applicata una selezione con una successiva chiamata ad invito che consenta, sulla base del portfolio e di un’idea basica di progetto, di poter dedicarsi a quel concorso con maggiori chance e minore perdita di tempo, come per esempio si fa in Francia, credo che tutti potremmo lavorare e tutti avremmo maggiori aspettative dai concorsi, per primi i committenti stessi. Facendone tanti, garantendo giurie di reale spessore e con una varietà di profili, credo che si garantirebbe una reale e continua rotazione tra i vincitori e chances per i più giovani. Oggi i concorsi in Italia danno la falsa illusione sia ai progettisti che ai committenti stessi di un sistema che funziona, quando invece è una grande perdita di tempo e di occasioni per tutti, di solito diventano immagini buone per i giornali, per i siti internet e poco più». Di recente ha curato con Annalisa Trentin un volume dal titolo La casa e l’ideale, un volume nato dall’esperienza didattica all’interno del Corso di Composizione Architettonica I del dipartimento di architettura dell’università di Bologna. Può raccontare ai lettori di Casa Premium gli esiti di questa ricognizione a più voci? «Con Annalisa Trentin stiamo portando avanti da qualche anno un

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metodo didattico che ci sta dando grandi soddisfazioni, aggiungo alla scuola di Architettura e Ingegneria trovo studenti con una straordinaria capacità di ascolto e di interpretazione della sfide che proponiamo. Ogni anno scegliamo un tema molto concreto e pratico, ma la prima metà del laboratorio la passano a ridisegnare, e quindi interpretare, progetti analoghi a quelli che dovranno sviluppare, ma pensati e realizzati dai grandi maestri del Novecento. In questo modo apprendono cosa significare fare un progetto in tutta la sua complessità, un fatto tecnico, culturale, di rappresentazione e restituzione, una sfida innovativa. Poi, sulla base del progettoanalizzato e restituito, chiediamo di fare il loro progetto sulla base dei principi che hanno guidato il progetto del maestro. È come a scuola-guida, prima si guida con l’istruttore e con i comandi doppi, poi l’istruttore sparisce gradualmente e ti trovi nel traffico a dover guidare e condurre l’auto da solo. E ogni anno cerchiamo di concludere con una pubblicazione dei lavori degli studenti, in modo che rimangano non solo i voti sul libretto ma anche traccia del lavoro di ricerca». In vista della redazione di una nuova legge urbanistica regionale, quali novità si aspetta in termini di pianificazione urbana?

«Mi aspetterei, nei criteri generali, una maggiore attenzione ai temi che a tutti premono, l’effettiva attenzione al consumo del suolo, al fatto che davvero le città si possano trasformare non per espansione ma per rigenerazione di aree e fabbricati, al lavoro sugli interstizi urbani. Quando predo un volo e guardo la pianura padana dall’alto penso che è stato compiuto uno scempio spaventoso, mi chiedo come abbiamo fatto a saturare tutto in maniera così dissennata, non ci sono altri posti al mondo con un’edilizia così dispersa nel paesaggio in modo caotico e senza criteri. Direi che oggi si vede come il boom edilizio sia stato peggio della guerra, e conto che le nuove generazioni di politici e architetti possano essere guidati da una maggiore sensibilità verso questi temi. Mi aspetto una maggiore flessibilità nell’interpretazione delle norme urbanistiche, ma non per aiutare i furbetti quanto per favorire una vera innovazione. Il progetto di ri-uso temporaneo che stiamo portando avanti con l’assessorato alla Rigenerazione urbana di Reggio Emilia è davvero innovativo ma innanzitutto nelle premesse e nei metodi, guarda a città come Amburgo, Berlino, Londra o San Francisco, e cerca di far sì che all’immobilismo segua una nuova modalità di progettazione in cui li Comune è facilitatore e il pubblico e il privato si incontrano con il tramite


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del progettista, che quindi non è solo un creatore di forme quanto un costruttore di opportunità».

«Solo dall’attenta conoscenza della situazione locale scaturiscono risposte di valore generale» Nel 2014 Filippo Pambianco ed Alessandro Pretolani fondano cavejastudio. Entrambi laureati a Bologna e con alle spalle esperienze di formazione e ricerca a livello internazionale. La caveja è il simbolo più eloquente della Romagna e dell’attaccamento che quest’ultima riserva alla terra e alle tradizioni. Cavejastudio intende valorizzare la tradizione, mantenendo una prospettiva aperta verso l’Europa ed il Mondo. Punto di partenza del lavoro è la consapevolezza che solo dall’attenta conoscenza della situazione locale si possa arrivare a risposte di carattere generale. Lo studio di architettuttura viene inteso come “bottega” dove l’architettura si fà attraverso un processo lento, basandosi sullo studio attento del genius loci e dei caratteri specifici che contraddistinguno ogni luogo.

Dal 2014 hanno collaborato con cavejastudio: Francesco Mariani, Laura Vestita, Michele Rinaldi, Giacomo Gresleri, Federico Tassinari, Ylenia Donati, Gaia Barbieri, Eleonora Fantini, Nicolas Piazza, Nicola Romagnoli. cavejastudio ha ottenuto diversi riconoscimenti in concorsi nazionali e internazionali da Trento a Cesena e Forlì, da Terni a Napoli fino al Canton Ticino. Tema principale della conferenza di cavejstudio saranno i concorsi. Attraverso la’eposizione di sei progetti si cercherà di costruire un'immagine univoca del percorso ideativo che sottende il progetto architettonico. Sono forme chiare, volumi riconducibili a geometrie elementari che trovano la loro complessità nelle relazioni fra le differenti parti. Si tratta di edifici a valenza pubblica, in alcuni casi urbana, che implicano un impegno non solo architettonico ma anche sociale. Filo conduttore di questo percorso sono la ricerca e la coerenza. Stiamo assistendo ad un decadimento generale della qualità architettonica e la conseguente perdita di valori fondanti della compagine sociale, pensiamo che la “buona architettura” sia quella che rispetta il luogo in cui sorge e che preferisce farsi notare discretamente, sottovoce.

In alto, nelle prime due immagini a sinistra, progetti dello studio Zamboni Associati Architettura. Nelle restanti immagini in pagina, rendering di progetti ideati da cavejastudio di Forlì che saranno presentati in occasione della conferenza di “Sedici Architettura 2016”.

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[IP] ARREDI DI DESIGN

Fitos: il piacere di vivere fra verde e acque cristalline Simone Cicognani ci racconta una decennale esperienza nella progettazione di giardini e zone relax con piscine Castiglione Dalla passione per la natura, dalle competenze e dall'entusiasmo di Simone Cicognani, nasce nel 2002 l'azienda Fitos, con le divisioni giardinaggio e relax. Una realtà capace di progettare, realizzare e mantenere aree verdi in ambito residenziale privato, in spazi pubblici, in ambienti aziendali, in dimensioni turistiche come camping, strutture alberghiere e stabilimenti balneari in Romagna e nella zona di Ferrara. Fitos esegue inoltre interventi di manutenzioni ordinarie e straordinarie con sfalci, potature, concimazioni, trattamenti antiparassitari e diserbi. La Divisione Relax da nove anni è concessionaria del prestigioso marchio Piscine Castiglione ed è in grado di realizzare piscine di qualsiasi forma e dimensione, vasche Spa, idromassaggi, saune e tutto ciò che soddisfa le particolari esigenze del cliente in termini estetici, di comfort, budget e innovazione tecnologica. «Chiediamo innanzitutto al cliente che ci racconti il suo

sogno – ci spiega Simone Cicognani – perché il nostro compito è accompagnarlo verso la sua realizzazione dando suggerimenti pratici e soluzioni che rispettino il budget disponibile. In fase di progettazione è altresì importante lavorare insieme agli studi di architettura confrontandosi prima della presentazione degli elaborati al cliente. In questo modo la nostra competenza aiuterà a concretizzare un’idea e a rispettare appieno il dialogo con il contesto ambientale, nella scelta delle essenze, nell’attenzione all’esposizione solare, nella proposta di soluzioni tecniche efficaci e creative. Con alle spalle un’azienda leader come Castiglione siamo in grado di soddisfare anche esigenze particolari, su misura, di pregio e design. Per noi è essenziale offrire un prodotto di qualità e che sia duraturo nel tempo quanto l’immobile stesso. Quando arriviamo in giardini compiuti e lavoriamo con scavi, movimento terra, ghiaia e cemento, abbiamo un occhio


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di riguardo per ciò che ci circonda e siamo in grado di ripristinare il verde. Un gesto per molti non sempre scontato. Le competenze nel campo del giardinaggio unite a quelle del campo idraulico e costruttivo costituiscono il nostro plus, quello che ci differenzia dalla maggior parte degli operatori di settore che hanno competenze singole». Un lavoro quindi quasi sartoriale quello offerto da Fitos che, grazie all’azienda ben strutturata e una vasta gamma di macchinari e attrezzature, svolge un servizio completo. «Le nostre competenze nascono dalla scuola di Piscine Castiglione e la nostra professionalità e i nostri servizi si rivolgono alla cura e alla gestione di qualsiasi tipo di piscina. In particolare possiamo distinguere tre categorie: pubbliche, semipubbliche e private. Ognuna necessita di impianti diversi in base alle normative vigenti che non sono patrimonio comune, ovvero non tutti conoscono. Fitos invece ha una conoscenza

Alcune delle realizzazioni di Fitos in diversi contesti abitativi e paesaggi, in Romagna dove le piscine (l’azienda è concessionaria del prestigioso marchio Castiglione) si integrano in armonia con l’abiente circostante.

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Varie soluzioni ideate da Fitos nella ricerca del piĂš funzionale ed elegante rapporto fra acqua e verde domestico.


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specifica e affianca il cliente anche in queste pratiche spesso noiose e poco chiare. Questa conoscenza ci permette di trovare soluzioni compatibili con le normative che regolano il territorio e in particolare quello assai problematico delle spiagge. Una delle cose più belle del nostro lavoro è osservare la trasformazione che subiscono nel tempo le nostre realizzazioni, grazie alla magia della natura che partecipa al mutamento. L’effetto più bello infatti non lo viviamo alla consegna dell’opera ma durante la sua vita in simbiosi con il luogo che la ospita». Importante è sapere che fino alla fine del 2016 sono applicabili le detrazioni fiscali del 55% sulle ristrutturazioni delle piscine con l’Iva agevolata sulle forniture e la posa del materiale. Anche i costi di gestione della piscina non sono affatto proibitivi, soprattutto se rapportati al valore aggiunto in termini di qualità della vita e anche in termini di incremento del valore dell’immobile (+12/15%, stima degli operatori in campo immobiliare), senza per altro incidere automaticamente sui costi Imu. Fitos è quindi un punto di riferimento a 360 gradi per chi ama vivere una propria dimensione a contatto con la natura, dalla progettazione, alla realizzazione fino a tutti i servizi che riguardano la manutenzione e l’utilizzo quotidiano, con la vendita dei prodotti chimici per l’igiene dell’acqua, gli accessori e i pezzi di ricambio per ogni struttura.

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Archivio Piancastelli: un prezioso fondo storico librario in cerca di tutela Dopo il “disastro” del 2012 che ha messo a rischio le raccolte, il nuovo progetto di riqualificazione resta in attesa di Serena SImoni Un paio di mesi fa, nel corso di una ricerca sul collezionismo d’arte romagnolo fra ‘600 e ‘800, ho come al solito preventivato un passaggio all’Archivio Piancastelli di Forlì: una tappa praticamente obbligata per chi fa ricerca in Romagna, data la mole preziosa del materiale qui raccolto. Prenoto la visita - perchè, come si dirà, lo spazio per i ricercatori è talmente ridotto che senza avviso si rischia di fare un giro a vuoto - e, come spesso mi è accaduto, fra le carte forlivesi faccio un bingo perfetto. Con gioia mi ritrovo fra le mani un memoriale manoscritto di 50 pagine della metà dell’Ottocento che racconta con dovizia di particolari quanto accaduto durante il passaggio delle armate napoleoniche a Ravenna, le lotte per il potere locale, i retroscena dei personaggi politici ravennati più influenti visti dagli occhi di un semplice cittadino e non dalle “veline” autorizzate dell’epoca, e soprattutto scopro dove è finita una bella collezione di dipinti creata da un sensale di Ravenna, un piccolo borghese di assoluta fede giacobina, salito alla ribalta cittadina come mangiapreti e poi caduto in disgrazia. L’episodio di ricerca, i cui frutti sono stati utilizzati per un bel convegno presso il Dipartimento dei Beni Culturali di Ravenna, è stato l’ultimo di una serie di felici ritrovamenti nel corso di varie ricerche che mi hanno confermato – e non solo a me – la ricchezza e l’assoluta importanza di questa raccolta, creata nel corso di una vita da Carlo Piancastelli.

Pagina a fianco, in alto: Anonimo, Paolo e Francesca da Rimini sorpresi da Gianciotto, 1803-04, penna a inchiostro e acquerello su carta, dalle raccolte Piancastelli. In basso: Felice Giani, Il porto di Rimini, disegno, Forlì, dalle raccolte Piancastelli In questa pagina, sopra: ritratto di Carlo Piancastelli. A sinistra: Forlì, Palazzo del Merenda, sede della Biblioteca Saffi e delle raccolte Piancastelli.

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Ospitato al primo piano della Biblioteca Saffi di Forlì in Corso della Repubblica, negli ultimi anni l’Archivio è balzato alle cronache italiane a causa del crollo del soffitto di un una stanza nell’inverno del 2012, ma prima di seguire le solite sventure che (s)finiscono il patrimonio italiano e capire gli sviluppi attuali di questa vicenda, vale la pena spendere due parole per comprendere di cosa stiamo parlando. Carlo Piancastelli (1867-1938) nasce a Imola da un’agiata famiglia di proprietari terrieri di Fusignano: già prima di laurearsi a Roma in Giurisprudenza nel 1888, si palesa in lui il genio insano che colpisce tutti i veri collezionisti. La malattia della raccolta lo porta prima ad interessarsi di monete – e di fatto getta in quegli anni le basi per una raccolta numismatica oggi riconosciuta a livello internazionale – poi a dilagare verso libri, documenti, disegni, cartoline, manoscritti e carte a stampa, lettere e incisioni. L’unico limite concesso è l’argomento “Romagna” che può essere incrociato nelle sue raccolte in ogni senso spazio-temporale. Non importa chi, quando, dove e perché, al collezionista importa piuttosto che si tratti di materiale prodotto, scritto o semplicemente riferito alla Romagna, sia nel caso di una produzione di alto livello culturale che relativa alla vita quotidiana e popolare. L’eccezionalità della raccolta è tale che Dino Campana la definisce «un patrimonio che da solo rappresenta buona parte di ciò che in Italia e fuori fa testimonianza della storia e della cultura della nostra regione». Non importa quindi la tipologia dei materiali – oltre ai libri e alla documentazione ci sono anche spartiti musicali, ritagli di giornale, ceramiche e dipinti –, non importano forse neanche i modi di acquisizione del patrimonio: oltre al materiale acquistato inizialmente a Roma durante le grandi aste pubbliche di alcuni archivi nobiliari e poi nel tempo presso librai e antiquari in Italia e all’estero, a Ravenna c’è chi giura che Piancastelli abbia sottratto alcuni documenti anche alla Biblioteca Classense. Sospendiamo il giudizio e l’accusa per seguire invece le sorti della raccolta. Arriviamo quindi agli anni ‘30, quando Piancastelli decide che tutto il frutto della sua passione, stipato ordinatamente fra il primo e il secondo piano del proprio palazzo privato di Fusignano,


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deve confluire in un luogo pubblico. Viene contattata prima la stessa Biblioteca Classense ma i rapporti che intercorrono fra Piancastelli e i gerarchi fascisti di Ravenna, che malignano sulla sua vita privata, mandano a monte il progetto. Quindi, par spét – per dirla alla romagnola – il bibliofilo si rivolge alla concorrenza e tutto quel ben di Dio passa alla biblioteca comunale di Forlì: prima un paio di sezioni nel 1933, poi il grosso della raccolta dopo la sua morte, avvenuta il 19 febbraio 1938. Passiamo ai numeri da bibliofili intersecandoli con la tipologia delle sezioni: parliamo di un fondo librario di circa 55.000 volumi di varie epoche (nota come Biblioteca Romagnola) arricchito da manoscritti, ceramiche, cartoline, monete, incisioni, dipinti, spartiti musicali che vanno dal XII al XX secolo, oggi allestiti e sorvegliati con cura dalla conservatrice Antonella Imolesi in alcune sale del piano superiore della Biblioteca Saffi, ospitata nel settecentesco Palazzo del Merenda. Più di 173.000 documenti fra pergamene, ritratti incisi, autografi e disegni, ritagli di giornale e opuscoli fanno parte delle Carte Romagna, sistemate in 708 cassette dove potreste imbattervi in al-

cune opere manoscritte del poeta Vincenzo Monti, negli archivi dei papi cesenati Pio VI e Pio VII, in quelli degli incisori settencenteschi Francesco Rosaspina e Luigi Rossini o del pittore faentino Tommaso Minardi; sempre dentro alle cassettiere giacciono documenti di musicisti come Arcangelo Corelli e Gioacchino Rossini, perfino una lettera di Leibniz. Nella Sezione Autografi suddivisa in due macroaree temporali, sono conservate complessivamente più di 50.000 carte manoscritte da personaggi non romagnoli fra cui Machiavelli, Lucrezia Borgia, Tasso, Voltaire e Rousseau, fino a personalità quali Alfieri, Leopardi, Manzoni, a musicisti come Verdi e Puccini, e politici del calibro di Napoleone e Cavour. A queste sezioni vanno ad aggiungersene altre dedicate alla Musica – con spartiti di Rossini e Corelli –, ai Manoscritti composti da cronache delle città romagnole dal Medioevo all’Ottocento, agli Stampatori, comprendenti rari incunaboli italiani e quasi 700 volumi prodotti in Romagna. 20.000 sono invece le stampe e i disegni che costiuiscono una sezione a sé stante, che comprendono stampe devozionali e satiriche, mappe, carte geografiche, materiali iconografici legati a luoghi e città romagnole e infine ritratti di personaggi del territorio,

In alto a sinistra: Elisa Giovannetti, ex assessora alla Cultura del Comune di Forlì. In alto a destra: la dott.ssa Antonella Imolesi Pozzi, responsabile dei Fondi Antichi, Manoscritti e delle Raccolte Piancastelli della biblioteca comunale di Forlì. In basso a destra: una visita guidata nelle sale del fondo Piancastelli al Palazzo Merenda di Forlì.

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mentre più di 35.000 sono le Cartoline, legate sempre come il resto del materiale al territorio. Chiudono la raccolta il monetiere composto da oltre 5.000 monete in prevalenza della Roma imperiale, una discreta quadreria con ritratti di personaggi romagnoli e opere eseguite da autori antichi come i Ramenghi padre e figlio, il ravennate Luca Longhi o l’imolese Innocenzo Francucci, oltre a ceramiche, sete dipinte e sigilli, pergamene e miniature, ex libris, biglietti da visita, terracotte e gessi. Per chi conosce l’importanza degli archivi basti dire che Piancastelli riuscì ad acquistare gli archivi della famiglia Spreti di Ravenna o di personaggi come Francesco Miserocchi, collezionista ravennate di documenti risorgimentali, e raccolse documenti appartenenti alle grandi signorie rinascimentali della Romagna – i Manfredi, i Malatesta e gli Sforza – con prolungamenti fino ai Bentivoglio di Bologna. Terminata la lunga sfilza numerica che ben rende la vastità e la ricchezza del patrimonio, occorre passare alla cronaca più recenti: il 29 novembre 2012, il soffitto della Sala dei rari della Piancastelli implode a causa di infiltrazioni e cedimenti della struttura causati dalla forte nevicata dell’inverno precedente. Nonostante l’inoltro di varie segnalazioni di crepe e cadute di calcinacci, sorpassedendo a un soffitto puntellato e un progetto di ristrutturazione già deciso ma rimasto à la carte, il mancato intervento causa il crollo del controsoffito: perfortuna, questa “cronaca di un crollo annunciato” non fa vittime fra i presenti e non causa danni al patrimonio. Nella distrazione della stampa nazionale – occupata dai grandi saccheggi e disastri delle biblioteche dei Girolamini di Napoli, dell’Universitaria di Pisa e dell’Istituto degli Studi filosofici di Napoli – sulla Soprintendente ai Beni Librari della Regione, sull’ex sindaco di Forlì Roberto Balzani e sul suo assessore alla Cultura Patrick Leech ini-

Una serie di volumi dedicati ad alcune delle collezioni artistiche e documentarie presenti nelle raccolte Piancastelli a Forlì.

ziano a piovere le lettere degli archivisti, dei bibliotecari e degli studiosi di tutto il mondo per sollecitare la cura della collezione e il ripristino degli spazi: la risposta lapidaria di Leech è che il crollo non era prevedibile (sic) e che “non ci sono soldi”. L’affermazione fortunatamente viene controbilanciata dall’impegno per restaurare i danni circoscritti all’area e la chiusura dell’archivio si prolunga fino all’aprile 2014, quando Balzani – ormai a fine mandato – dichiara ufficialmente che «le tre sale più preziose del nostro diamante patrimoniale sono restituite alla città, ai funzionari preposti e agli studiosi», aggiungendo che però «molto resta ancora da fare». A maggio dello stesso anno il nuovo sindaco di Forlì, Davide Drei, candidato del Pd sostenuto da varie liste civiche, sceglie una Giunta dichiaratamente rosa fra cui si distingue la nuova assessora alla Cultura – Elisa Giovannetti – una quarantenne estranea alla politica ma con le carte in regola per gli incarichi che va a coprire: Laurea in Scienze della Comunicazione, diploma di archivista e Master in Conservazione e gestione delle raccolte e collezioni in archivio e biblioteca, con varie esperienze di lavoro in archivi di varie città della regione. Quello che convince è l’attivazione di un progetto per la riqualificazione delle biblioteche di Forlì, senza dimenticare il Fondo Piancastelli e la parte storica della Saffi, e la ristrutturazione complessiva del Palazzo del Merenda sulla base di un piano economico quinquennale fra i 3 e i 5 milioni di euro, sostenuto sia da finanziamenti diretti del Comune per 500mila euro all’anno che da fondi strutturali europei. L’idea è buona, il progetto appare credibile e ben pianificato, con scadenze che sembrano realistiche, ma ...C’è sempre un “ma” quando in Italia si parla di cultura. Anche se a questa parola non si mette mano alla pistola come sosteneva qualche nazi, in realtà basta molto meno. Notizia shock di inizio giugno giugno 2016: in conferenza stampa il sindaco Drei revoca tutte le deleghe ai suoi otto assessori, fra cui quella della Giovannetti. Senza entrare in merito ai motivi della grave crisi del governo cittadino, va da sé che non possiamo non veder allontanarsi il progetto della Biblioteca, il recupero di Palazzo del Merenda, il ruolo nuovo dell’Archivio Piancastelli, che dopo tre anni e mezzo ha ancora un accesso su prenotazione, due-tre posti al massimo per i ricercatori, un accesso che pare una gara al giro dell’oca e – senza nulla togliere alla professionalità e gentilezza del personale che vi lavora – un servizio nettamente sottodimensionato rispetto alle necessità dell’utenza e all’importanza della raccolta. (... ma Piancastelli, avrebbe fatto meglio a scegliere la Classense?).


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Architettura di Frontiera Report dalla Biennale militante diretta dall’architetto cileno Alejandro Aravena di Sabina Ghinassi «In un viaggio attraverso l’America del Sud – ha raccontato Alejandro Aravena alla presentazione della 15 Biennale di Architettura di Venezia– Bruce Chatwin incontrò una signora anziana che attraversava il deserto portando una scala di alluminio in spalla. Era l’archeologa tedesca Maria Reiche che studiava le linee Nazca. Viste in piedi sul terreno, le pietre non avevano alcun senso; sembravano nient’altro che pietrisco. Ma dall’alto della scala, le stesse pietre formavano un uccello, un giaguaro, un albero o un fiore». L’immagine della fragile signora in abito a fiori che scruta l’orizzonte del deserto in cima a una scala è il fil rouge dell’intera Biennale di Architettura di quest’anno, Reporting From The Front, che, nelle intenzioni del direttore, l’architetto cileno Alejandro Aravena Premio Pritzker 2016, deve offrire un punto di vista diverso sul mondo, come quello che Maria Reiche riusciva a vedere dalla sua scala leggera, perché, dice Aravena, «l’architettura si occupa di dare forma ai luoghi in cui viviamo. La forma di questi luoghi, però, non è definita soltanto dalla tendenza estetica del momento o dal talento di un particolare architetto. Essi sono la conseguenza di regole, interessi, economie e politiche, o forse anche della mancanza di coordinamento, dell’indifferenza e della sem-

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8 1 Reporting From The Front, manifesto della Biennale Architettura 2016 (fotografia di Maria Reiche, The Nazca Lines Archeologist, scattata da Bruce Chatwin, Bruce Chatwin / Trevillion Images). 2 Un ritratto del curatore della Biennale Alejandro Aravena. 3 Arsenale, Lightescapes - Local identity, Transsolar su concept di Anja Thierfelder e Mattias Schuler (foto Andrea Avezzù, La Biennale di Venezia). 4 Padiglione Italia, Taking Care – progettare per il bene comune, a cura di TAMassociati: Massimo Lepore, Raul Pantaleo, Simone Sfriso (foto Andrea Avezzù, La Biennale di Venezia). 5 Sala d'ingresso delle Corderie dell’Arsenale (foto Andrea Avezzù, La Biennale di Venezia). 6 Padiglione Cile, Against the tide, a cura di JuanRomán e José Luis Uribe (foto Andrea Avezzù, La Biennale di Venezia). 7 Padiglione Spagna, Unfinished, a cura di Carlos Quintans e Iñaki Carnicero (foto Francesco Galli, La Biennale di Venezia). 8 Padiglione Turchia, Darzanà: Two Arsenals, One Vessel, a cura di: Feride Çiçekoğlu, MehmetKütükçüoğlu, Ertuğ Uçar, (foto Andrea Avezzù, La Biennale di Venezia). 9 Padiglione Cina, Daily Design, Daily Tao Back to the ignored front, a cura di Jingyu Liang (foto Andrea Avezzù, La Biennale di Venezia).

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plice casualità. Le forme che assumono possono migliorare o rovinare la vita delle persone. La difficoltà delle condizioni (insufficienza di mezzi, vincoli molto restrittivi, necessità di ogni tipo) è una costante minaccia a un risultato di qualità. Le forze in gioco non intervengono necessariamente a favore: l’avidità e la frenesia del capitale, o l’ottusità e il conservatorismo del sistema burocratico, tendono a produrre luoghi banali, mediocri, noiosi. Ancora molte battaglie devono essere dunque vinte per migliorare la qualità dell’ambiente costruito e, di conseguenza, quella della vita delle persone…Inoltre, il concetto di qualità della vita si estende dai bisogni fisici primari alle dimensioni più astratte della condizione umana. Ne consegue che migliorare la qualità dell’ambiente edificato è una sfida che va combattuta su molti fronti, dal garantire standard di vita pratici e concreti all’interpretare e realizzare desideri umani, dal rispettare il singolo individuo al prendersi cura del bene co-


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10 Giardini, sezione "Reporting from the Front", Breaking the siege, Gabinete de Arquitectura: Solano Benítez, Gloria Cabral, Solanito Benítez (foto Francesco Galli, La Biennale di Venezia). 11 Padiglione Paesi Nordici (Finlandia, Norvegia, Svezia), In Theraphy Nordic Countries Face to Face, a cura di: David Basulto e James Taylor‐Foster (foto Francesco Galli, La Biennale di Venezia). 12 Padiglione Australia , The Pool – Architecture, Culture and Identity in Australia, a cura di: Amelia Holliday, Isabelle Toland (Aileen Sage Architects) con Michelle Tabet (foto Andrea Avezzù, La Biennale di Venezia). 13 Padiglione Macedonia, No Man’s land, a cura di Stojan Pavleski (foto Andrea Avezzù, La Biennale di Venezia). 14 Progetto Speciale, Reporting from Marghera and other waterfronts, a cura di Stefano Recalcati (foto Andrea Avezzù, La Biennale di Venezia).

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mune, dall’accogliere lo svolgimento delle attività quotidiane al favorire l’espansione delle frontiere della civilizzazione». Si sceglie consapevolmente un punto di vista diverso, a volo d’uccello, l’unico che può consentire di rispondere alle domande nuove che ci pone la vita, globale e locale al tempo stesso. Si tratta di una Biennale quindi che, pur contenendo installazioni e progetti molto emozionanti e suggestivi, non punta allo spettacolo, al lusso, al compiacimento estetizzante ma espone un’architettura vista come medium fondamentale per rispondere alle urgenze della nostra contemporaneità, sociali e ambientali soprattutto. È il diario di viaggio di chi si trova in prima linea, sul fronte appunto, architetti ma non solo, alla ricerca di soluzioni a temi sociali complessi quali la segregazione, le disuguaglianze, le periferie, l’accesso a strutture igienico-sanitarie, i disastri naturali, la carenza di abitazioni, la migrazione, la criminalità, il traffico, lo spreco, l’inquinamento e la partecipazione delle comunità. Un problem solving che prende le fila da un pensiero meticcio, deliberatamente vicino allo sguardo dell’America del Sud, al suo essere ancora terra di frontiera, di sperimentazioni ideologiche e comunitarie. Non è casuale d’altra parte che la lingua parlata dai trionfatori dell’edizione di quest’anno sia iberoamericana: cileno è il direttore, spagnolo è il padiglione Leone d’oro della XV Biennale curato da Inaqui Carnicero e Carlos Quintans; brasiliano è Paulo Mendes da Rocha, Leone d’oro alla carriera «per la sua attenzione alla collettività»; paraguaiano è il Leone d’oro per il miglior partecipante, vinto dal Gabinete de Arquitectura, studio associato di Solano Benítez, Gloria Cabral e Solanito Benítez. Il cambiamento di prospettiva di questa Biennale militante si avverte già dal concept che accoglie i visitatori all’ingresso dell’Arsenale: un’installazione composta da un numero incalcolabile di montanti d’acciaio che scendono dal soffitto abbracciati da pareti di cartongesso, materiali di scarto recuperati dalla precedente Biennale d’arte. Si prosegue con l’installazione Lightscapes- Local Identity- Exploring a Forgotten Resource, concept e design di Anja Thierfelder e Mattias Schuler, realizzazione di Transsolar e parole del poeta Wilfried Korfmacher: un’azione sperimentale sull’importanza della luce ambientale e atmosferica, premessa del light design, progettato da Atelier Jean Nouvel per il Louvre Abu Dhabi. Ci sono poi i padiglioni con installazioni affascinanti, alle volte deliberatamente pauperisti nella scelta dei materiali, ma preziosi nella narrazione e nello svelamento di nuove ipotesi di percorsi progettuali: la grande barca migrante del Padiglione turco, costruita con i materiali portati dalle onde nel porto di Istanbul; il lavoro sulla percezione spaziale dei malati di Alzeheimer, Losing myself, del Padiglione irlandese; la No Man’s Land dedicata al tema dell’identità migrante della Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia; la raffinata installazione di ladrillos ( mattoni) di Gabinete de Arquitectura del Paraguay, che racconta come questo gruppo di architetti realizzi progetti bellissimi utilizzando materiali poveri e mandopera locale, spesso non qualificata: aspetti considerati come stimolo per cambiare punto di vista e rinnovarsi, non come limite. Sempre accompagnati dall’altro sguardo di Aravena seguono, tra gli altri, Against the tide, del padiglione cileno, che espone i progetti dedicati all’ambiente rurale di un gruppo di giovani laureandi dell’Università di Talca; Unfinisched della Spagna, su concept di Carlos Quintans e Iñaki Carnicero, che racconta lo stato della Spagna dopo la bolla im-

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mobiliare e mostra i due volti del “non finito”: quello drammatico e indignante della speculazione, dell’abbandono e dell’incuria, e quello produttivo e seducente che da sempre caratterizza l’avanguardia e la sperimentazione. E poi c’è il ritorno alle radici olistiche taoiste del Padiglione cinese, la terapia collettiva con lettini freudiani di In Therapy: Nordic Countries Face to Face dei Paesi Nordici, il bagno comunitario nella grande piscina Pool, nel Padiglione australiano. Infine il Padiglione italiano, affidato alla curatela di TAMassociati ( Massimo Lepore, Raul Pantaleo e Simone Sfriso) che in Taking Care, Progettare per il bene comune / Designing for the common good mettono in scena un’azione collettiva – quella del “avere cura” – che vuole essere una prova tangibile di come l’architettura possa contribuire a diffondere e rendere efficaci i principi di cultura, socialità, partecipazione, salute, integrazione, legalità in qualsiasi luogo e a qualsiasi scala. La loro riflessione si articola in una parte teorica iniziale (“Pensare il bene comune”), una doppia sezione – nel mezzo – di buone pratiche architettoniche e sociali (venti progetti già realizzati) che danno forma visibile all’idea di Bene Comune (“Incontrare il bene comune”) e, per concludere, si apre in un esplicito invito all’azione a favore delle comunità nelle zone di degrado e marginalità (“Agire il bene comune’”). Una voce a parte è quella dedicata ai Progetti speciali: Reporting from Marghera and other waterfronts, curato da Stefano Recalcati; A World of Fragile Parts, in collaborazione con il Victoria and Albert Museum, curato da Brendan Cormier, Report from Cities: Conflicts of an Urban Age, in accordo con la London School of Economics Cities, in previsione della conferenza mondiale delle Nazioni Unite Habitat III, curatela di Ricky Burdett. Reporting from Marghera and other Waterfront presenta, attraverso le case history delle trasformazioni delle aree portuali di Baltimora, Barcellona, Boston, Dublino, Genova, Amburgo, Londra, Marsiglia, Oslo, Rotterdam, Santander e Sidney, i possibili processi di rigenerazione e valorizzazione già sperimentati con successo per aree critiche. Si tratta di un excursus che dimostra come sia possibile ottenere risultati virtuosi attraverso una strategia in grado di unire Visione, Processi amministrativi, Coinvolgimento, Procedure ambientali, Qualità architettonica ed elementi di Innovazione. Presentato dalla Biennale di Venezia e dal Victoria and Albert Museum (V&A), A World of Fragile Parts affronta invece il tema delle minacce che incombono sulla salvaguardia dei siti del patrimonio globale dell’umanità, indagando in che modo la produzione di copie può aiutare nella preservazione dei manufatti culturali, mentre Conflicts of an Urban Age affonda l’analisi sulle modalità dell’urbanistica contemporanea nelle megalopoli contemporanee, attraverso esempi di pianificazione dall’Alto, spesso negativa, e dal Basso (quest’ultime esperienza della Fondazione Alfred Herrhausen Gesellschaft – urbanXchanger), proponendo soluzioni e ipotesi di pianificazione urbana sostenibile e adatta alle esigenze della società attuale. 15 Progetto Speciale, A World of Fragile Parts, a cura di Brendan Cormier / Victoria and Albert Museum (foto Andrea Avezzù, La Biennale di Venezia). 16 Progetto Speciale, Report from Cities: Conflicts of an Urban Age, a cura di Ricky Burdett, Professor of Urban Studies, LSE e Direttore di LSE Cities e Urban Age (foto Andrea Avezzù, La Biennale di Venezia).


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Una bambina curda a scuola.


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I Curdi non possiedono che il vento Approfondimenti sul dramma di un popolo con la testimonianza degli attivisti ravennati Raffaelle Veridiani e Luca Dubbini

«Sono l’aquila che vive sulle vette dall’alto osservo i pascoli. Senza famiglia, senza casa e terra come sudario avrò le mie ali soltanto. Tutto quel che io desidero è di avere accanto un volto splendente come il tulipano. Se alle montagne narrassi il mio soffrire sui pendii non crescerebbero più i fiori. È addolorato il mio cuore, Signore, soffre e trema d’angoscia anela alla patria, piange l’esilio. E questo fuoco mi brucia» Baba Tahir, sec. X

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di Marina Mannucci Per Kurdistan s’intende una regione vasta circa 450.000 kmq, abitata dalla popolazione di etnia curda, ma divisa tra Turchia, Iraq, Siria e Iran. La maggior parte del Kurdistan è situata all’interno dei confini turchi per un’area di circa 230.000 kmq (30% del suolo turco). È un territorio strategicamente rilevante per la ricchezza di petrolio e le risorse idriche. Il 75% del petrolio iracheno proviene dal Kurdistan, gli unici giacimenti della Turchia e i più importanti della Siria si trovano in Kurdistan e anche nella zona di Kermanshah, territorio iraniano ma abitato da curdi, si produce petrolio. La posizione geopolitica dell’area ha condizionato e condiziona le vicissitudini delle comunità che ci vivono; è il passaggio obbligato di alcune importanti vie di comunicazione e si trova nel cuore di uno dei punti più caldi della politica mondiale. Il popolo curdo discende dagli antichi medi, una popolazione di origine indo-iraniana, che dall’Asia Centrale si diresse, probabilmente intorno al 614 a.C., verso i monti dell’Iran (le tradizioni locali si spingono anche più indietro nel tempo). Le limitazioni, imposte dall’impero ottomano all’inizio del XIX ai privilegi e all’autonomia degli stati curdi, provocarono numerose rivolte che avevano come obiettivo l’unificazione del popolo curdo e la sua autonomia. Con la Prima guerra mondiale, che decretò la fine dei grandi imperi, sembrava possibile la nascita di uno stato curdo. Il trattato di Sèvres, firmato il 10 agosto 1920, prevedeva che nell’Anatolia orientale sarebbero stati creati un Kurdistan autonomo, oltre che uno stato indipendente di Armenia. L’ostracismo della nascente Repubblica turca ne impedì la formazione. Il trattato di Losanna, firmato nel 1923 da Gran Bretagna, Francia, Italia, Giappone, Grecia, Romania cancellò il trattato di Sèvres e i territori abitati dalla popolazione di etnia curda vennero spartiti tra Turchia, Siria, Iran e Iraq. Così, dal 1921 al 1925, venticinque milioni di curdi furono dispersi tra queste nazioni trasformandosi in minoranze. Gli anni successivi saranno segnati da questa divisione e i curdi dovranno affrontare trasferimenti forzati, politiche di arabizzazione, genocidi e perdita dei diritti umani più elementari. Un totale fallimento, quindi, anche da parte del sistema internazionale nel risolvere questo problema, e nel riconoscere ciò che si stava e si sta compiendo contro questo popolo. Assistiamo in questi giorni alla resistenza dei curdi siriani nella regione settentrionale del Rojava, al confine con la Turchia, che, dopo una prima fase di neutralità nel conflitto,

in seguito alla minaccia del Fronte Al-Nusra affiliato ad al-Qāʿida e allo Stato Islamico, si è costituita in Unità di Protezione del Popolo (YPGYekîneyên Parastina Gel-milizia della regione a maggioranza curda nel nord della Siria) nella città di Kobânê. Delle YPG fanno parte circa diecimila donne, che contribuiscono per più di un terzo all’organico. A seguito dell’esplosione dell’autobus-bomba, avvenuta il 17 febbraio ad Ankara, in una zona vicina al parlamento e al quartier generale dell’esercito, il governo turco ha intensificato i bombardamenti nel Rojava, e ha ritenuto responsabili dell’attentato il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk-Partîya Karkerén Kurdîstan), che da decenni combatte per ottenere l’autonomia dei curdi in Turchia ed è considerato illegale dal governo turco, e i combattenti curdi siriani dell’Unità di protezione del popolo-Ypg (http://m.asianews.it/notizie-it/Dopo-l’attentato,-Ankaraintensifica-i-bombardamenti-contro-i-curdi-in-Siria-36730.html). L’Ypg, appoggiato dagli Stati Uniti nella lotta contro lo Stato Islamico in Siria, è il braccio armato del Partito dell’unione democratica (Pyd-Partiya Yekîtiya Demokrat), una formazione per l’autonomia curda fondata nel 2003 nel nord della Siria e a sua volta affiliata al Pkk. In un’intervista a cura di Gianni Sartori del 16 febbraio 2016 con l’Ufficio d’informazione del Kurdistan in Italia alla Rete Kurdistan Italia si legge che Europa e Stati Uniti hanno avuto e continuano ad avere un atteggiamento non lineare nei loro confronti; i curdi sono eroi, nel nome della civiltà, quando difendono Kobânê e sconfiggono l’Isis, sono invece sospettati di terrorismo quando chiedono al governo turco il rispetto dei loro diritti. La lotta per creare una comunità libera, equa, egualitaria ed ecologica nel Rojava, di fatto è però la stessa lotta delle popolazioni nelle città del Bakur (Kurdistan sottoposto ad amministrazione turca). La differenza sta solo nel fatto che questa lotta nel Bakur si scontra con i piani del governo turco. I governi di Stati Uniti ed Europa sembrano però avere la loro convenienza nel mascherare il carattere autoritario e antidemocratico del governo di Erdogan che opprime allo stesso modo i curdi come i turchi che desiderano una nazione libera e rispettosa di diritti fondamentali. Il governo di Ankara si sente in pericolo per il fatto che le popolazioni delle città curde, quasi ovunque insieme ai rappresentanti delle istituzioni comunali eletti nell’HDP-Partiya Demokratik a Gelan-Il Partito Democratico del Popolo, stanno sperimentando politiche di autogoverno, e cercano di sviluppare forme democratiche, assembleari e libere di partecipazione per decidere sull’amministrazione del loro territorio. Il Confederalismo Democratico è diventato la


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pratica quotidiana di milioni di donne e di uomini che intendono mostrare, alla Turchia e all’intera comunità internazionale come sia possibile un diverso modo di vivere e governare rispetto a un governo accentratore, autoritario, violento e corrotto quale quello turco. Contro quest’alternativa il governo ha però scatenato una guerra vera e propria, schierando l’esercito contro i civili, decretando il coprifuoco e bombardando le case. Nel Rojava, il Confederalismo Democratico avviato dai curdi investe tutti gli aspetti della società: dall’economia, attraverso una riorganizzazione e ridistribuzione della produzione e dei beni secondo i bisogni delle comunità e delle persone, alla politica, con il trasferimento di sempre più ampi poteri alle assemblee popolari di villaggio e di quartiere e con sistemi di deleghe controllate dalla base per le decisioni che interessano ambiti più ampi; dal rapporto tra generi, con la promozione di una straordinaria e fondamentale partecipazione delle donne e una lotta senza quartiere al maschilismo e al patriarcato, all’ecologia, con la costruzione di un diverso rapporto tra uomo e natura, più autentico e rispettoso, nessun aspetto della vita è escluso. Realizzare tutto questo in un’area dove al contrario tutt’attorno prevalgono le ingiustizie sociali, l’intolleranza religiosa, l’autoritarismo politico, il maschilismo, il sessismo e il disprezzo per la natura non è però facile. Gli stati dell’area mediorientale, Turchia, monarchia Saudita e Iran aspirano ad assumere ruoli di potenze-guida. L’Arabia Saudita ha avuto nell’identità religiosa sunnita un suo collante e punto di forza; più recentemente anche la Turchia, portata da Erdogan lontano dal laicismo kemalista, sfrutta l’identità religiosa sunnita come un mezzo di rafforzamento dell’idea di nazione. Inevitabile la contrapposizione con la potenza sciita, l’Iran. Lo scontro oggi si è concentrato in Siria, dove la presenza sciita, spesso alleata con la corrente alewita della quale fa parte il clan di Assad, è da sempre forte. L’Isis rappresenta sul campo l’alternativa sunnita, nella forma più estrema. Le due fazioni raccolgono simpatie e appoggi dalle grandi potenze, interessate, ovviamente, a mettere le mani, anche se per mezzo dei loro alleati, sulle risorse petrolifere e idriche siriane. Lo scontro delle bande armate dell’Isis si è scatenato contro tutti coloro che chiedono libertà e democrazia, siano essi cristiani, mussulmani, ezidi, assiri o di qualunque altra religione, fede o credo politico (http://www.retekurdistan.it/2016/02/intervistacon-lufficio-di-informazione-del-kurdistan-in-italia/). In Italia la solidarietà verso il Popolo curdo è stata sempre particolarmente attiva. Lo dimostrano le iniziative delle tante realtà associative, culturali e anche istituzionali che si sono sviluppate in tutto il territorio nazionale. In ogni città si sono costituiti comitati di solidarietà e nodi territoriali della Rete Italiana di Solidarietà con il Popolo Curdo. Le città di Palermo e Napoli hanno conferito la cittadinanza onoraria ad Abdullah Oçalan (a breve la conferirà anche Reggio Emilia), e molte amministrazioni locali hanno stretto patti di solidarietà con l’amministrazione autonoma del Rojava. Anche a livello accademico si sono svolte e sono in preparazione importanti iniziative di approfondimento e divulgazione del sistema del Confederalismo democratico come nuovo modello per una vita libera e democratica, così come molte organizzazioni di donne e femministe si sono avvicinate al tema della jineologia, una nuova scienza delle donne (in curdo Jin significa donna) che smonta il concetto dell’homo œconomicus come attore dominante delle relazioni sociali (https://carovanaperilrojava.noblogs.org/post/category/report-rojava/). Circa un anno fa, Yilmaz Orkan, rifugiato politico a Roma, responsabile dell’Uiki – l’ufficio informazioni del Kurdistan in Italia – e membro del Congresso nazionale curdo che ha sede a Bruxelles, in un suo intervento al Festival delle culture di Ravenna, aveva parlato dell’autogoverno del Rojava, costituitosi il 19 luglio del 2012 e nato sulla scia di quella che Oçalan ha definito la “terza via”, soffermandosi sull’importanza di organizzare l’economia tenendo alla larga le multinazionali e Pagina a fianco: carta con l’indicazione del perimetro del territorio curdo suddiviso tra Turchia, Iraq, Iran e Siria. In questa pagina, alcune immagini della città curda di Cizîr-Cizre (Turchia), foto di Luca Dubbini; in basso un giovane combattente curdo, catena montuosa di Qandil, Iraq, agosto 2007, foto di Julien Goldstein/Reportage by Getty Images.

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CITTÀ E SOCIETÀ

In alto: conferenza stampa realizzata al confine con Kobânê, dopo che la carovana umanitaria che portava aiuti alla popolazione della città era stata bloccata dalle autorità turche. Al centro: centro culturale Amara di Pirsûs-Suruç (confine Turchia-Siria), dove nel luglio 2015 un attentato dei fondamentalisti ha ucciso trentatré giovani del partito socialista turco impegnati in una campagna di solidarietà fra turchi e curdi, foto di Luca Dubbini. A destra:“Cimitero dei martiri” curdi caduti nella rivoluzione di Kobânê a Pirsûs-Suruç, foto di Luca Dubbini.

puntando sulle energie rinnovabili. L’interlocutore curdo parlò della netta opposizione delle comunità locali al nucleare e alle dighe di Ankara per una difesa dell’ambiente. «Quello che cerchiamo è un riconoscimento internazionale», ha affermato, ma ogni tentativo di rappresentanza politica dei curdi si scontra con la repressione di Ankara che non risparmia nemmeno i parlamentari. È notizia di questi giorni l’abolizione dell’immunità parlamentare per i deputati sotto inchiesta. Il provvedimento va letto in chiave perlopiù anti-curda, in quanto 50 su 59 parlamentari curdi sono indagati poiché colpevoli di aver difeso il loro popolo dagli attacchi dell’esercito regolare turco. Kobânê è ormai un simbolo, il Rojava la prova che esiste un antidoto ai nazionalismi e alla settarizzazione dell’area, le richieste di Yilmaz sono un banco di prova per un internazionalismo che provi a essere efficace. Raffaella Veridiani e Luca Dubbini, attivisti ravennati per i diritti umani e civili in Medioriente, iscritti alla Rete italiana di solidarietà con il popolo curdo sono recentemente tornati da un viaggio a Amed-Diyarbakir, città del sudest della Turchia, situata lungo le sponde del fiume Tigri; li incontro, e riporto di seguito un riassunto dei loro racconti. Nel settembre del 2015, Raffaella e Luca partono con la delegazione italiana di attivisti, all’interno di una Carovana Internazionale, per la loro prima spedizione. Sono diretti a Kobânê, a nord della Siria, città situata nei pressi della frontiera con la Turchia. Visitano il centro culturale Amara di Pirsûs-Suruç. La città è a maggioranza curda e si trova su territorio turco a ridosso del confine con la Siria; funge da base per tutte le azioni di solidarietà rivolte verso Kobânê da cui dista pochi chilometri. A Pirsûs-Suruç, nel luglio del 2015, era avvenuto il massacro di trentatré giovani turchi e curdi che si erano recati al confine per impegnarsi come volontari nella ricostruzione di Kobânê. In Italia le diverse realtà hanno avviato la costruzione della scuola “Antonio Gramsci”, la costruzione di una Casa delle donne intitolata alle donne martiri che hanno liberato Kobânê (un centro di sviluppo di tutte le arti), la creazione di sei aree ludico-sportive all’aperto per i giovani curdi di Pirsûs-Suruç tramite il progetto Rojava Playground. Raffaella e Luca visitano tre campi con profughi di Kobânê che gli raccontano di razzie di bambini da parte di militari turchi lì avvenuti; i minori potrebbero essere finiti nelle mani di organizzazioni criminali che si occupano di traffico di essere umani per il prelievo di organi, per le adozioni illegali, per la manovalanza Isis. I campi sono autogestiti dai profughi e sostenuti dalla municipalità di Pirsûs-Suruç. Sono 220.000 le persone fuggite da Kobânê; di questi, 68.000 sono stati ospitati solo a Pirsûs-Suruç. Il 15 settembre 2015 la Carovana internazionale sarà costretta a convocare una conferenza stampa, per denunciare il rifiuto da parte delle autorità turche a concedere l’ingresso a Kobânê per la consegna di un carico di farmaci. Nel mese di marzo di quest’anno Raffaella e Luca partono una seconda volta diretti ad Amed-Diyarbakir, città del sudest della Turchia capoluogo della provincia omonima, una delle città turche con la maggior presenza di curdi, e per questo ritenuta dai curdi stessi e da alcuni osservatori esterni la capitale del Kurdistan turco. Alla Carovana Internazionale partecipano 170 persone provenienti da dieci nazioni diverse che si recano ad Amed-Diyarbakir per festeggiare il Nawruz, il capodanno curdo che coincide con l’equinozio di primavera e che viene celebrato come l’annuncio del risveglio comune della natura e della società. Per il popolo curdo il Newroz è anche il simbolo della lotta contro la tirannia per la libertà. Il governo turco ha vietato le celebrazioni del Newroz in tutto il paese ad eccezione di quelle ad Amed-Diyarbakir; le celebrazioni si svolgono il 21 marzo tra imponenti misure di sicurezza ed è solo grazie alla presenza della Carovana, che svolge anche una funzione di Osservatorio internazionale, che non vengono perpetuate ulteriori violenze ai danni della popolazione. Mi racconta Raffaella che durante i controlli per entrare al Newroz i militari del secondo checkpoint hanno cominciato a togliere loro, di forza, le kefiah (copricapi tradizionali della cultura araba e mediorientale) e lei ha iniziato a filmare quello che succedeva; è stata immediatamente presa e caricata e trattenuta dalle forze speciali su un blindato con urla da parte dei militari. Due ore che le fanno capire cosa significa per la popolazione vivere


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quotidianamente questo tipo di violenza inaudita. Finiti i festeggiamenti, decidono di fare un giro per la città ma si accorgono di essere seguiti da un SUV (Sport Utility Vehicle) con i vetri oscurati, e decidono quindi di rientrare in albergo. Gli accompagnatori gli diranno poi che i SUV neri che fanno le ronde nelle città appartengono ai cosiddetti Battaglioni della morte, gruppi che hanno ricevuto pieni poteri dal governo turco e che attraversano senza nessun controllo i checkpoint. A causa loro, sono probabilmente già sparite circa quindicimila persone ad Amed-Diyarbakir. Si tratta di arabi provenienti dall’Arabia Saudita in appoggio al governo turco per questioni antiterroristiche e per svolgere il lavoro sporco. Il 22 marzo a Cizîr-Cizre, città della Turchia della provincia di Şırnak, nota in antichità come Bāzabdāo Jazirat Ibn ‘Umar, semidistrutta dalle operazioni militari, dove hanno perso la vita centinaia di persone, si sarebbero dovute svolgere le celebrazioni conclusive, ma vengono impedite. Deputati, giornalisti nazionali e internazionali diretti a Cizîr-Cizre vengono fermati dall’esercito a circa 40 km dalla città da reparti speciali che si muovono con blindati e mitra spianati. Le strade dirette a Cizîr-Cizre sono quindi disseminate di checkpoint per impedire di raggiungere la città. Giornalisti e delegazioni internazionali vengono bloccati. Un’incessante guerra non dichiarata, questa, che ha già provocato centinaia di morti fra i civili e circa 350.000 sfollati. Lo stato turco ha assunto posizioni sempre più autoritarie arrestando e inquisendo decine di giornalisti e accademici, e chiudendo o commissariando le redazioni dei giornali non allineati. Questi due aspetti stanno erodendo le speranze di una soluzione pacifica del conflitto nel sud est del paese. Una guerra fatta di bambini e anziani uccisi, di morti trainati con le camionette per la città legati per i piedi, schiacciati dai carri armati, di donne uccise lasciate nude in strada, di feriti lasciati morire in terra senza poter ricevere soccorso. Tornati ad Amed, Raffaella e Luca decidono di fare un giro nel Sur, quartiere storico della città racchiuso dalle antiche mura. I quartieri interni di Sur hanno una storia di 5.000 anni. Raffaella e Luca sono testimoni delle veglie di madri che da giorni chie-

dono la restituzione dei cadaveri dei loro figli e delle loro figlie rimasti sepolti sotto le macerie per poterli seppellire; ma sono passati mesi, e i corpi non sono stati ancora loro resi. Lo Stato parla ora di statalizzare i quartieri di Sur e al posto delle scuole sembra voler costruire caserme. A conclusione dell’incontro, Raffaella con sguardo carico di emozione e di commozione mi riferisce che i curdi ripetono spesso tre slogan che li sostengono nel portare avanti la loro resistenza: Non esiste un popolo libero se le donne non sono libere Non esiste un popolo libero se non si fa cultura Esisteranno profughi finché esisteranno delle barriere Goffredo Fofi, nel libro Elogio della disobbedienza civile, edito da Nottetempo nel 2015, scrive: «La disobbedienza civile può fare a meno della nonviolenza […] mentre la nonviolenza non può fare a meno della disobbedienza civile», e definisce la disobbedienza civile «una violazione intenzionale, disinteressata, pubblica e pubblicizzata di una legge valida, emanata da un’autorità legittima». Pur nella consapevolezza che «il mondo continua a essere dominato dalla violenza, quella esplicita e barbarica, e quella di chi ha in mano le chiavi dell’economia mondiale e della ricerca, di chi ha già in mano da tempo le armi più distruttive, decisive», si può, secondo Fofi, pensare a nuove forme di resistenza; avviando nuove modalità di disobbedienza attiva e civile che superino la dicotomia tra violenza e non violenza e che individuino quando e dove la violenza nasce e si genera, combattendola e infine isolandola. E ancora, Albert Camus scriveva ne L’uomo in rivolta: «L’urgenza non chiede pazienza, è con l’impazienza che comincia un movimento che può estendersi a tutto ciò che veniva precedentemente accettato». A volte la storia impone di “attraversare un ponte”; l’importante è farlo sempre mantenendo in allerta i canoni della bellezza, della considerazione, della riflessione e dell’attenzione verso l’umano.

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La rigenerazione urbana parte dai regolamenti Cresce l’edilizia sostenibile, la spinta arriva dai Comuni: ormai sono più di mille i regolamenti edilizi virtuosi. di Marco Turchetti * Per uscire dalla crisi si punti sulla riqualificazione energetica del patrimonio edilizio. Crescono innovazione e sostenibilità nel panorama dell’edilizia italiana con una spinta “dal basso”. Sono, infatti, ben oltre 1000 i Comuni italiani che hanno modificato i propri regolamenti edilizi per inserire nuovi criteri e obiettivi energetico-ambientali in modo da migliorare le prestazioni delle abitazioni e la qualità del costruito, anticipando e andando oltre la normativa in vigore. Complessivamente i cittadini che vivono nei Comuni dove sono in vigore questi strumenti innovativi sono oltre 25 milioni. I regolamenti sostenibili sono diffusi in tutte le Regioni italiane, nonostante vi sia una forte prevalenza in quelle del centro-nord. Sono inoltre aumentati non solo i Comuni virtuosi (i regolamenti sostenibili sono cresciuti del 50% rispetto 2010 e addirittura dell’85% rispetto al 2009) ma anche i temi affrontati. I parametri presi in considerazione nell’analisi dei regolamenti sono l’isola-

mento termico, i tetti verdi, l’utilizzo di fonti rinnovabili, l’efficienza energetica degli impianti, l’orientamento e la schermatura degli edifici, i materiali da costruzioni locali e riciclabili, il risparmio idrico e il recupero delle acque meteoriche e delle acque grigie, l’isolamento acustico, la permeabilità dei suoli e l’effetto isola di calore, le prestazioni dei serramenti, la contabilizzazione del calore, la certificazione energetica, le pompe di calore e le caldaie a condensazione, la ventilazione meccanica controllata. I regolamenti edilizi comunali si stanno dimostrando un’ottima chiave di lettura per raccontare l’evoluzione verso l’edilizia sostenibile e strumenti preziosi per accompagnare l’innovazione in corso, per una corretta progettazione e per la realizzazione di edifici efficienti dal punto di vista energetico. I risultati dimostrano che l’innovazione sta andando avanti e che la spinta alla certificazione energetica e al miglioramento delle prestazioni impressa dall’Unione Europea sta producendo buoni risultati. Ora occorre, però, una regia nazionale che consenta di superare le troppe contraddizioni del quadro normativo italiano e i ritardi nel recepimento della normativa europea di riferimento, per raggiungere gli obiettivi fissati al 2021 quando tutti


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i nuovi edifici dovranno essere progettati e costruiti in modo tale da avere bisogno di una ridotta quantità di energia per il riscaldamento e il raffrescamento che, in ogni caso, dovrà essere prodotta da fonti rinnovabili. E’ indispensabile anche una strategia per la riqualificazione del patrimonio edilizio esistente, dando certezze per le detrazioni del 65% (il ministro dell'economia Padoan ha appena annunciato che l'ecobonus per l'efficienza energetica si tramuterà in una misura stabile) e legando gli incentivi ai risultati raggiunti in termini di riduzione dei consumi energetici, aiutando così concretamente le famiglie. Tra le norme regionali più avanzate rispetto a questi temi sono da segnalare le Province Autonome di Trento e Bolzano. La Lombardia è la Regione dove si conta la quantità più elevata di Comuni virtuosi, seguita da Toscana ed Emilia-Romagna. L’Emilia-Romagna inoltre ha deciso di anticipare gli obblighi di sviluppo delle energie rinnovabili previsti dal Decreto 28/2011 e quindi di soddisfare una percentuale crescente dei fabbisogni di riscaldamento, raffrescamento, elettricità. I nuovi obiettivi previsti dalla Direttiva Europea implicano un’accelerazione ancora più forte nella transizione verso uno scenario nel quale il peso dei consumi energetici legati al settore delle costruzioni si dovrà ridurre significativamente grazie a un rapido miglioramento degli standard e a una fortissima integrazione delle fonti rinnovabili. Le date sono precisamente individuate: dal 1° gennaio 2019 tutti i nuovi edifici pubblici costruiti in Paesi dell’Unione Europea, e dal 1° gennaio 2021 tutti quelli nuovi privati, dovranno essere “neutrali” da un punto di vista energetico, ossia garantire prestazioni di rendimento dell’involucro tali da non aver bisogno di apporti per il riscaldamento e il raffrescamento oppure di soddisfarli attraverso l’apporto di fonti rinnovabili. Importante anche che sia stato stabilito che in tutto il territorio nazionale i nuovi edifici, e quelli in ristrutturazione, facciano ricorso obbligatoriamente all'energia rinnovabile almeno per il 50% dei consumi previsti per l'acqua calda sanitaria. In aggiunta sarà obbligatorio soddisfare sempre da fonti rinnovabili la somma di parte dei consumi previsti per l'acqua calda sanitaria, il riscaldamento e il raffrescamento. Oltre alle rinnovabili termiche il Decreto stabilisce vincoli importanti anche per la parte elettrica dei fabbisogni degli edifici. E’ infatti obbligatorio installare impianti da fonti rinnovabili proporzionalmente alla grandezza dell’edificio. Inoltre per tutti gli edifici pubblici gli obblighi sono incrementati del 10%. Un po’ di numeri e parametri. Isolamento termico: è tra i punti fondamentali da affrontare per il contenimento dei consumi energetici delle abitazioni ed è un parametro trattato da almeno un Comune per Regione. Sono oltre 800 quelli che prevedono obblighi sull’isolamento termico degli edifici. Tetti verdi: anche il ricorso a tetti verdi inizia ad essere inserito nei Regolamenti Edilizi proprio per migliorare l’isolamento termico degli edifici. In oltre 350 Comuni per le nuove edificazioni è incentivata e promossa la realizzazione di parte della copertura con “tetti giardino” per un miglior isolamento termico. Serramenti: per quanto riguarda i serramenti ad alta efficienza l’argomento viene affrontato in 450 Comuni, dei quali oltre 400 obbligano a rispettare specifici parametri di trasmittanza, e una settantina incentivano miglioramenti nelle prestazioni. Isolamento acustico: 320 Comuni hanno deciso di affrontare l’argomento del corretto isolamento acustico negli edifici. Di questi, 240 prevedono un limite preciso alle emissioni acustiche da rispettare, 50 prevedono incentivi qualora si raggiungano livelli di isolamento acustico particolarmente elevati. Orientamento e schermatura degli edifici: sono 500 i Comuni che nei loro regolamenti affrontano il tema dell’orientamento e/o ombreggiatura delle superfici vetrate. In 350 Comuni i due requisiti sono obbligatori. Permeabilità dei suoli ed effetto isola di calore: sono 240 i Comuni che trattano la permeabilità dei suoli nei loro Regolamenti Edilizi, punto fondamentale per impedire l’incremento delle temperature nella aree urbane, noto come effetto “isola di calore”, e di conseguenza per evitare un sempre crescente bisogno di impianti di climatizzazione nei mesi estivi. Materiali da costruzione locali e riciclabili: 450 sono i Comuni i cui regola-

Pagina a sinistra: Rigenerazione urbana. Costruire condizioni normative e procedurali che rendano conveniente, anche economicamente, per le amministrazioni pubbliche e per gli sviluppatori immobiliari, la rigenerazione urbana anziché la nuova edificazione su suolo libero. In questa pagina, dall’alto: Il Regolamento Edilizio è uno dei pochi strumenti dell'Amministrazione con ricaduta diretta sulla vita quotidiana e sugli oneri dei cittadini poiché incide fortemente sulla qualità del loro abitare e sul rapporto con gli spazi urbani. Il Regolamento influenza il disegno della città e delle nostre case come anche i luoghi e gli spazi per il tempo libero e può essere un importante strumento per la valorizzazione e il recupero del tessuto storico esistente. Ministro dell’Economia e delle Finanze, Pier Carlo Padoan ha sottolineato il successo delle misure sulla casa, sia come sostegno alle famiglie che per la ripresa dell’edilizia, anticipando che su queste direttive continuerà l’azione del governo, il che fa pensare che ci sia l’intenzione di confermare le detrazioni almeno nel 2017. Ricordiamo che una recente mozione del Senato ha approvato la stabilizzazione del bonus del 65% per il prossimo triennio. I “tetti verdi” non solo sono belli ma aiutano ad assorbire l’acqua piovana, isolano termicamente l'edificio riducendo la necessità di energia per regolare la temperatura e forniscono un habitat a piante e animali. Inoltre aiutano a tutto l'ambiente circostante a non sviluppare l'effetto "isola di calore".

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ABITARE L’HABITAT

menti edilizi prendono in considerazione l’origine dei materiali e l’energia impiegata per la loro produzione. In 50 vengono proposti incentivi per realizzare edifici con materiali naturali e riciclati. Utilizzo fonti rinnovabili: risultati particolarmente importanti sono quelli raggiunti dalle energie rinnovabili. Infatti, in ben oltre 900 Comuni italiani si parla dell’installazione di pannelli solari termici e fotovoltaici. Di questi sono 650 quelli dove vige l’obbligo di installazione del fotovoltaico e 630 per il solare termico. Risparmio idrico: Sono 590 i Comuni che inseriscono il tema del risparmio idrico nei propri Regolamenti Edilizi, di cui 510 prevedono l’obbligo, 20 incentivi ed i restanti fanno semplice promozione. Recupero acque meteoriche: Il tema del recupero delle acque piovane, per la manutenzione delle aree verdi e per gli autolavaggi, è presente in 556 Comuni, in 449 di questi è un requisito obbligatorio. Recupero acque grigie: questo tema è presente in 210 Regolamenti ed in una quarantina se ne fa un requisito cogente sia nel caso di nuova costruzione sia in quello di ristrutturazioni importanti. Pompe di calore e caldaie a condensazione: Sono 25 i Comuni in cui si ob-

bliga l’installazione di pompe di calore (in alternativa alle fonti rinnovabili) in 170 si fa promozione, mentre in altri ancora sono previsti incentivi. Questi sono solo alcuni dei parametri presi in esame dai vari regolamenti sostenibili ormai diffusi su tutto il territorio ma che rendono ben evidenti quali siano i criteri ai quali è necessario ispirarsi per ottenere quel vero e proprio salto culturale che permetterà al nostro paese di raggiungere il livelli richiesti dall’Europa e dalla recente conferenza di Parigi. Ravenna ha appena rinnovato parte del suo regolamento edilizio, è stato fatto tenendo seriamente in considerazione questa necessità ma è opportuno ricordare che in previsione della radicale revisione degli strumenti di programmazione urbanistica che la prossima amministrazione comunale si troverà ad affrontare, è il caso di spingere ulteriormente sull’acceleratore. Abbiamo la grande occasione di rendere Ravenna una delle punte di diamante della nuova progettazione urbanistica nazionale abbinando la qualità urbana e sociale a quella edilizia ed energetica, speriamo di non sprecarla. * [Progettare Sostenibile - Ravenna] info@progettaresostenibile.com

Foto in alto: Risparmio idrico. Per fare una doccia consumiamo 45 litri d’acqua, quasi il doppio per lavare il bucato in lavatrice. Tutte le volte che tiriamo lo sciacquone se ne vanno 6-8 litri d’acqua, la stessa quantità necessaria nel corso della giornata per prepararci un pasto. In un anno ogni italiano utilizza per uso civile in media 152 metri cubi d’acqua, molto più di Spagna (127), Regno Unito (113) e Germania (62). A sinistra: Nuovi strumenti di programmazione urbanistica. La crisi che stiamo attraversando è profonda, ora più che mai è necessario delineare una nuova visione di città, proponendo forti alternative nel modo di immaginarla, progettarla, costruirla e gestirla.


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ORDINE ARCHITETTI RAVENNA

Con la collaborazione di Con il patrocinio di

Comune di Ravenna

Comune di Faenza

Comune di Cervia

Comune di Forlì

Comune di Cesena

ciclo di conferenze 2016 Otto incontri/confronti fra protagonisti esperti ed emergenti della progettazione contemporanea con tavola rotonda Andrea Dal Fiume Imola

Giovedì 17 MARZO Salone Nobile

Palazzo Rasponi RAVENNA

De Gayardon Bureau Cesena

Mauro Crepaldi

Giovedì 21 APRILE Show Room

Mide Architetti

Copparo (FE)

Oggetti d’Autore

Venezia

FORLÌ

Rossi&Tarabella

Giovedì 19 MAGGIO Show Room

Milano

Studio T

Bologna

RAVENNA

Zamboni Associati Architettura Reggio Emilia

Ciclostile Architettura

Giovedì 16 GIUGNO Padiglione delle Feste

Cavejastudio

Terme di Castrocaro

Forlì

CASTROCARO (FO)

Nicola Marzot

Giovedì 14 LUGLIO Cantina

Alvise Raimondi

Bologna

La Pandolfa

Cesena

PREDAPPIO (FO)

Diverserighestudio

Giovedì 15 SETTEMBRE Sala Conferenze

Bologna

Magazzini del Sale CERVIA (RA)

Alberto Giorgio Cassani Ravenna

Massimo Iosa Ghini Bologna

Giovedì 13 OTTOBRE Ridotto

Teatro Bonci CESENA Giovedì 17 NOVEMBRE Sala Conferenze

Pinacoteca Comunale FAENZA

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MERCATO IMMOBILIARE

Compravendite meno depresse ma i prezzi continuano a scendere A Forlì è difficile chiudere l’affare nonostante i ribassi. A soffrire di più le case vecchie che necessitano di opere di ritrutturazione e risparmio energetico di Roberta Bezzi

Benché i tempi bui del mercato immobiliare forlivese si siano allontanati, non è ancora tempo di gioire, in quanto i prezzi continuano a calare. «Siamo in una fase di lenta ripresa – afferma William Gatti, vice presidente provinciale Fiaip Romagna, per la provincia di ForlìCesena -. Le richieste sono in crescita, così come è aumentato il numero degli appuntamenti con i clienti che intendono acquistare la prima casa, ma resta ancora molto difficoltoso arrivare alla conclusione di affari. Malgrado il numero di transazioni sia un po’ in risalita, i prezzi continuano a diminuire: del 3-5% rispetto al 2015. Un fenomeno per certi versi strano, in quanto in un mercato normale l’aumento di richiesta porta di conseguenza a un aumento del prezzo».

Un’analisi che, per grandi linee, è confermata anche dal sindacato immobiliare Fimaa. «A “soffrire” di più – commenta Tiziano Bertini, associato Fimaa che opera a Forlì con una propria agenzia – sono le case vecchie, ossia gli appartamenti con il riscaldamento centralizzato o che necessitano di ingenti lavori di ripristino. Certo, l’interesse è in crescita e in agenzia è ricominciato un certo via e vai di clienti, ma che fatica concludere! Anche perché circa l’80% di chi si rivolge a noi, è interessato agli affitti. Questo perché in tanti, lo scorso anno, hanno venduto, e talora svenduto, la loro prima casa perché non riuscivano a pagare le alte rate del mutuo, erogato spesso al 100%. Se nel 2015 i prezzi sono calati del 10% rispetto all’anno precedente, in questo primo semestre del 2016 la diminuzione si attesta al 5%, e non ci sono segnali che lascino presagire una migliore chiusura dell’anno». Chi è più propenso ad acquistare a Forlì? Alcune famiglie


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che, approfittando di prezzi ora più vantaggiosi, lasciano una situazione di affitto, e giovani coppie che dispongono di un piccolo capitale iniziale e per la restante parte si avvalgono del mutuo. Secondo i sindacati immobiliari, ad andare per la maggiore sono i trilocali (52,9% delle richieste), seguiti dal quattro locali (33,9%). La disponibilità di spesa è nel 34,5% dei casi – la percentuale più alta – tra 120 e 169 mila euro. Le zone più richieste dalle famiglie zono Ca’ Rossi, Vecchiazzano, San Martino in Strada e Piscina. La clientela ricerca per lo più immobili con basse spese condominiali. C’è anche una domanda – in realtà minoritaria – che si orienta su soluzioni di pregio e con una buona disponibilità di spesa, ma che si scontra però con la mancanza di offerta. «Rispetto a Ravenna – sottolinea Bertini -, Forlì ha sempre avuto una clientela meno attenta al livello di finiture e questo ha portato anche i costruttori ad abbassare il livello dei capitolati per non incidere troppo sui costi finali. Ci sono persino delle aziende costruttrici che, pur di chiudere il cantiere in tempi brevi, hanno svenduto proponendo quasi condizioni di affitto a riscatto, offrendo l’opportunità di pagare dopo 4/6 anni senza interessi. Chi entra in agenzia oggi ricerca ancora l’affarone, vuole far calare il prezzo a tutti i costi, anche quando la richiesta è equa. Così in giro ci sono tante proprietà, anche di un certo pregio, che sono invendute da malgrado i forti ribassi». Tra le zone più apprezzate quelle che si sviluppano tra viale Medaglie d’Oro e via Fratelli Spazzoli, ma anche l’area del Parco Urbano “Franco Agosto” incontra il favore dei potenziali acquirenti. Medaglie d’Oro è una zona prestigiosa, ambita soprattutto per le tipologie abitative offerte e per la posizione più centrale. Qui si possono acquistare soluzioni indipendenti di tipo prestigioso ad almeno 140-150 mila euro e un apparta-

mento in buono stato a 1400-1500 euro al mq. Valori simili nella zona Spazzoli che ospita condomini degli anni ’80. La disponibilità di spesa media a Forlì, per una nuova costruzione, si aggira intorno a 2000 euro¤ al mq. Ca’ Ossi è servita ma allo stesso tempo tranquilla e, in seguito al completamento della tangenziale, anche ben collegata con il centro di Forlì. L’offerta edilizia risale agli anni ’70-’80 e consiste di soluzioni semi-indipendenti e grandi condomini: per la prima tipologia si spendono tra 350 e 400 mila euro, per un trilocale la cifra ammonta a 110-130 mila euro. Più bassa l’offerta abitativa di Vecchiazzano: gli immobili risalgono alla fine degli anni ’90 inizi anni 2000, tuttavia i prezzi e le tipologie sono molto simili a quelli di Ca’Ossi. Domanda più bassa nella parte del centro storico che si sviluppa tra piazzale della Vittoria e corso Repubblica, perché i contesti condominiali sono per lo più vetusti e spesso necessitano di alte spese di gestione. Per queste soluzioni i prezzi sono compresi tra 900 e 1100 euro al mq, ma i valori salgono a non oltre 2000 euro al mq per gli appartamenti inseriti in contesti prestigiosi. La diminuzione della domanda è legata al tipo di offerta presente: tipologie degli anni ’60-’70, con spese condominiali molto elevate e difficoltà di parcheggio. Chi desidera soluzioni indipendenti, cascine e rustici, si orienta prevalentemente verso la zona compresa tra Forlì e la vallata di Predappio, dove si possono trovare case coloniche e rustici che hanno quotazioni comprese tra 100 e 200 mila euro e che spesso sono da personalizzare. Nei quartieri di Coriano, Ravegnana, Foro Boario e Villafranca, a comprar casa sono prevalentemente giovani coppie che si orientano sul trilocale per una spesa media intorno a 100 mila euro (e non oltre 110120 mila euro). In diminuzione la domanda di monolocali e bilocali.

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MERCATO IMMOBILIARE Poche le nuove costruzioni e quelle presenti hanno difficoltà a essere collocate sul mercato a causa dei prezzi troppo elevati: 1700 euro al mq. La zona più richiesta è Coriano, tranquilla, verde e con un’offerta immobiliare che spazia dall’edilizia popolare a quella civile e media. Le soluzioni degli anni ’90 si valutano 1400 euro al mq, le abitazioni ex Aler 1150 euro al mq e le villette a schiera circa 250 mila euro. Piacciono gli immobili situati a Ospedaletto e Foro Boario, soprattutto l’area che si sviluppa intorno a via Gorizia perché caratterizzata da strade piccole, silenziose e prive di traffico, dove si trovano sia case indipendenti e semi-indipendenti degli anni ’50-’60 sia appartamenti di recente ristrutturazione. La zona risponde in questo momento alle esigenze di coloro che sono alla ricerca di una soluzione indipendente. Una tipologia usata e in buono stato a Foro Boario costa intorno a 1300 euro al mq. Via Ravegnana è un’importante arteria della città, molto trafficata, dove è possibile acquistare case in buone condizioni a 1300 euro al mq. A Pieve Acquedotto, e ancor di più a Villafranca, il mercato è poco dinamico e si realizzano poche compravendite. Quest’ultima, in particolare, è una frazione situata a 10-12 km dalla città, pertanto considerata scomoda da chi lavora a Forlì, di conseguenza si acquista solo se i prezzi sono particolarmente vantaggiosi. Buono l’andamento del mercato degli affitti, grazie all’alta richiesta da parte di giovani coppie e famiglie che non possono permettersi un immobile di proprietà. Anche in questo caso la tipologia più richiesta è il trilocale, che viene offerto a 480500 euro, anche se la richiesta dei proprietari si aggira spesso intorno a 550 euro. I contratti più sottoscritti sono quelli a canone concordato e la cedolare secca viene applicata in quasi tutti i casi.

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